Grice e Ghersi – filosofia italiana
– Luigi Speranza (Celle Ligure). philosopher
-- curator of The Swimming-Pool Library at Villa Grice, Liguria, Italia. Ghersi
has an interest in Grice’s philosophybut finds Strawson pretty enjoyable, too!Theere’s
something about the Oxonian nonsensical philosophical humour that Ghersi appreciates
like none other. Ghersi often makes candid fun of some of Grice’s inventions,
such as that of the conversational “common-ground status”!Ghersi enjoys the
full-time paradoxes of the bald king of France. Ghersi’s favourite humorist is
J. K. Jerome, but also enjoys Wodehouse.And finds Dodgson just fascinatingThe
Swimming-Pool Library is mainly organised along Ghersis’s personal tastes, as a
personal library should!Ghersi is not particularly appreciative of poetry, but
will enjoy the ballad set to piano! Ghersi’s favourite genre is drama, since
“it is so clear in implicature.” Grice is a frequent contributor to cultural
circles and societies and a host like none otherVilla SperanzaSperanza
appreciates Ghersi’s talent to infuse enthusiasm in all type of endeavours --. Keywords:
love, soul, life, inghilterra. Refs.: Ghersi e GriceGrice e Watson --. Refs.
BANC MSS 90/135c. Vide Speranza.Vide SperanzaVide SperanzaVide Speranza. – The
Swimming-Pool Library.
Grice e
Ghezzi – i tordi ubriachi – filosofia italiana – dirtto artificiale -- Luigi
Speranza – (Milano). Filosofo. Grice: “I love Ghezzi: he has explored
‘turdus,’ as in ‘sturdy,’ ‘drunk as a thrush’ – but also a count who was
condemned by the church; he has explored the history of masonry – in Italy it
started in Calabria – from a semiotic point of view, ‘il segno del compassso,’
– and he has explored on Ayax’s ‘nichilismo razioale’ – among many other topics
– also an ‘epistemology of willing’ – epissttemologia della volonta --.” Grice:
“Typically of Italian philosophers, he has explored Italian history, ‘ceneri del diritto,’ and a
confrontation between people and ‘stato’. Si laurea a Milano sotto Bobbio con “La
Filosofia del Diritto.” Gran Maestro Onorario del Grande Oriente
d'Italia. Marginalità e Società, ell'Università
degli Studi dell'Insubria (sede di Como). Sociologia della Devianza. Studia il
positivism giuridico dal punto di vista del concetto di diritto. Affrontato il
tema del pluralismo dei valori e degli ordinamenti giuridici, del federalismo, criminalità,
devianza, marginalità e pluralismo nell'ambito della Sociologia del Diritto
Penale, sulla giustizia e sulla legittimità degli ordinamenti giuridici, con
particolare riferimento alla figura del "deviante giuridico",
introducendo i concetti che porteranno alle teorie della "divergenza”
sociale, marginalità, Si rileva essersi principalmente dedicato al tema del
nichilismo giuridico, proponendo una visione nichilista, definite come
“l’assenza del valore” -- del tutto neutra circa la potenzialità “regolatrice”
e la potenzialita ordinatrice di una norma. L’approfondimento del nihilismo assiologico
o valuativo risulta essersi svolto attraverso il confronto con filosofi
contemporanei di questo ambito, tra cui Ferrari, Severino, e Giorello. Scetticismo.
La Rivoluzione del Diritto come Estetica, in estensione del suo libro Il Diritto
come Estetica. Nel volume è stata inclusa, come Appendice, una Raccolta di diversi
saggi di filosofi contenenti riflessioni ed approfondimenti interamente
riferiti a Ghezzi. Altre opera: “Socialismo e sociologia giuridica:
"Centro lombardo studi socialisti, Milano, “Devianza tra fatto e valore
nella sociologia del diritto” (Giuffrè, Milano); “Federalismo, I e II, Patera Palermo Editore, Diversità e pluralismo. La sociologia del
diritto penale nello studio di devianza e criminalità, Raffaello Cortina,
Milano, “Il segno del compasso. La massoneria e i suoi persecutori attraverso
simboli, idee, fatti e processi, Mimesis, Milano. “Le Ceneri del Diritto. La
dissoluzione dello Stato democratico in Italia, Mimesis, Milano. Le lacrime di
Hiram. Autobiografia incompleta di un Libero Muratore, Edizioni della
Confraternita Sufi Jerrahi Halveti in Italia, Milano “La Scienza del dubbio.
Volti e temi di sociologia del diritto, Mimesis, Milano Federalismo laico e democratico, Mimesis,
Milano; “I tordi ubriachi” Un viaggio iniziatico, Mimesis, Milano, Sociologia giuridica del lavoro, Mimesis,
Milano, Il Diritto come Estetica. Epistemologia della conoscenza e della
volontà: il nichilismo/nihilismo del dubbio, Mimesis, Milano Della vita e della
morte. Vulnerant omnes ultima necat, Mimesis, Milano; “Nichilismo razionale e
mistico. Indicazioni per il nuovo mondo, Mimesis, Milano); “Stranieri, ospiti,
alieni, alienati e pluralismo culturale” (Mimesis, Milano); “Nichilismo come
valore senza valori, Mimesis, Milano); “Abusi di stato: Risarcimento del danno
al cittadino, Mimesis, Milano); In ricordo di Riccardo Bauer, di Ghezzi e Arduino,
C.R.E.A., Milano; “Educare alla democrazia e alla pace. Bauer. Scritti scelti, L.I.D.U.,
edizioni Raccolto, Alle origini
dell'Umanitaria, Ghezzi e Canavero Raccolta Edizioni-Umanitaria, L'immagine
pubblica della Magistratura italiana, di Ghezzi Giuffrè, Milano Curatele. “Etica
contro politica”; Morris L. Ghezzi, edizione Iesi, Ferrari, Ghezzi,‘’Diritto,
cultura e libertà. Atti del convegno in memoria di Renato Treves’’ (Milan),
Giuffrè, Milano, Studi preliminari di sociologia del dirittoTheodor Geiger,
Morris L. Ghezzi, Nicoletta Bersier Ladavac e Michele Marzulli, traduzioni di
Leonie Schröder, Mimesis, Milano); “Criminologia” (Mimesis, Milan). Pubblica
amministrazione. Diritto penale. Criminalità organizzata, Osservatorio
permanente sulla criminalità organizzata, Carola Parano, Giuffrè Editore, Stefano
Carluccio, In ricordo di Morris Ghezzi, anima della Società Umanitaria, su
CriticaSociale.net. 1 Dei delitti e delle pene. Rivista dell'Agenzia del
territorio, L'Agenzia, rif. Archivio Università degli Studi dell’Insubria. Cura
“Studi preliminari di sociologia del diritto” (Mimesis, Milano); “Socialismo e sociologia
giuridica: introduzione Arduino, Centro lombardo studi socialisti); La scienza del
dubbio. Volti e temi di sociologia del diritto, Legge di Hume e tesi
giusnaturalistica: un’antitesi teorica nel pensiero di Norberto Bobbio, su
dialettica e filosofia. Etica contro
politica, di Elias Diaz, Ghezzi, edizione Iesi,
L' immigrato extracomunitario non marginale. Una ricerca empirica sul
territorio Milanese, in ‘’Marginalità e Società’ Berzano, Renzo Gallini,
Giovani E “Violenza: Comportamenti Collettivi in Area Metropolitana, Ananke, con
richiamo ad art. Di Ghezzi in “Marginalità e Società, II”. Le ceneri del diritto. La dissoluzione dello
Stato democratico in Italia, Mimesis, Milano, al Ghezzi fa riferimento Rosario
Minna in Crimini associati, norme penali e politica del diritto: aspetti
storici, Giuffrè Editore, Morris L. Ghezzi, Federalismo Laico e Democratico,
Mimesis, Milano Arturo Colombo, Franco Della Peruta “et al.”, in Carlo
Cattaneo: i temi e le sfide, Ed. Casagrande, Milano, Con riferimento al
Federalismo del Ghezzi: “mentre ci sarà chicome Ghezzi pur con tagli molto
diversi, collegherà la prospettiva degli Stati Uniti d'Europa con l’altra
formula cattaneana degli Stati Uniti d’Italia.»
Edmondo Bruti Liberati in "PostfazionePotere e Giustizia",
richiama Morris L. Ghezzi 3 in: Governo dei giudici. La Magistratura tra
diritto e politica, E. Bruti Liberati et al., Ed. Feltrinelli, Berzano,
Gallini, cita di Ghezzi “Alle origini della labelling theory e del concetto di
devianza”, da Marginalità e società, Ghezzi e Simonetta Balboni, Mimesis,
Milano, Cirus Rinaldi fa suo il concetto di Devianza di Ghezzi. “come sostiene
Ghezzi essa svolge un ruolo euristico [empirico] non solo nella spiegazione di
fenomeni di stigmatizzazione di intere categorie, ma anche penetrando
nella marginalizzazione, che agisce all’interno delle categorie” in Devianze e
crimine. Antologia ragionata di teorie classiche e contemporanee, Cirus Rinaldi
e Pietro Saitta, PM edizioni, Scrive M. Marzulli, BRÜCKE als sein Ordinamento
sociale come ponte tra tradizione e futuro nella descrizione del diritto come
estetica, in Ermeneutica del "Ponte". Materiali per una ricerca,
Silvio Bolognini, Mimesis, Ferrari, in Ciò che resta. Le ultime parole diGhezzi,
in Sociologia del Diritto, Fascicolo gennaio, ed. F. Angeli, Emanuele Severino, nel capitolo 4 di Dispute
sulla verità e la morte (Rizzoli) prende a riferimento un libro di Ghezzi (Il
Diritto come Estetica) e s’intrattiene lungamente sul pensiero
dell’autore. Giulio Giorello si
intrattiene sul testo del Ghezzi (“Il Diritto come Estetica”), lo commenta, ne
riporta il pensiero, secondo cui « "la morale non è altro che una forma
dell’estetica"» e ricorda la figura "nihilista" dell'autore. Da
"Introduzione" di Giorello, Piacere, Diritto e Burocrazia. In ricordo
di Morris Ghezzi, inGhezzi. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come
estetica, Furio S. Ghezzi e Simonetta Balboni, Mimesis, Milano, Il Diritto come
Estetica. Epistemologia della conoscenza e della volontà: il nichilismo/nihilismo
del dubbio, Ghezzi. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come estetica
(Domenico Mazzullo, ‘’Prefazione’’, “Appendice“: saggi di: Isabella Merzagora,
Riflessioni di una criminologa prestata alla filosofia del diritto, Claudia
Roxana Dorado, El devenir del derecho: reflexiones acerca de las concepciones
jurídicas de Ghezzi, Il futuro del
diritto: riflessioni sulle concezioni giuridiche di Ghezzi, Metodo di ricerca sul rischio sociale, Marco A. Quiroz Vitale, Esistenzialismo e Nihilismo come confini
aperti del Giurispositivismo; Enrico Damiani di Vergata Franzetti, Il Diritto
come Estetica, Emanuele Severino,
Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, Ghezzi. Ciò che resta. La rivoluzione
del diritto come estetica, Simonetta Balboni e Furio S. Ghezzi, Mimesis, Milano,
“Prefazione” di Domenico Mazzullo, “Introduzione” di Giulio Giorello, In
“Appendice” saggi di: Isabella Merzagora, Claudia Roxana Dorado, Marco A.
Quiroz Vitale, Damiani di Vergata Franzetti. Michele Marzulli, "BRÜCKE als
sein” Ordinamento sociale come ponte tra tradizione e futuro nella descrizione
del diritto come estetica." in Ermeneutica del "Ponte".
Materiali per una ricerca, Silvio Bolognini, Mimesis, Vincenzo Ferrari, Ciò che resta. Le ultime
parole diGhezzi, in Sociologia del Diritto, Fascicolo, ed. F. Angeli, Cirus
Rinaldi e Pietro Saitta (a cura) in Devianze e crimine, Antologia ragionata di
teorie classiche e contemporanee, a cura di, PM edizioni,,Rosario Minna,
Crimini associati, norme penali e politica del diritto: aspetti storici,
Giuffrè Editore, Sociologia del diritto
Filosofia del diritto Criminologia. Le doverositàstatutarie
ritualirischianoc, on il passaredel tempo,di perderela lorodimensione
rilevanzaoriginariap, er trasformarsi in meri adempimentrioutinari,prividi
quelladimensionecreativa, c o s t r u t t i v a p, r o p o s i t i v a c, h e n
e a v e v a m o t i v a t o l a n a s c i t a . D u n q u e , a n c h e p e r q
u a n t o r i g u a r d a l a n o s t r a r e l a z i o n em o r a l es i r i s
c h i ad i f a r s c i v o l a r el e n t a m e n t en e l l ' o b l i ol e i s
t a n z es t o r i c h e c, h e n e i a c c o m a n d a r o n o
I'introduzionep,eraffrontarlacomeunaincombenzan,eppuremoltopiacevolee,
comunqueretoricamente orientata riempiresemplicsi paziscenograficei nonad
esserestrumentodi autoriflessioninedividuale di riflessionecollettivaper la
fratellanzatutta sul passato,nonchépotentestrumentodi stimolocreativoper
affrontarecon consapevolezzale realtàfuture.Purtroppopiù che un rischiotale
situazionesi e negliuliimi t e m p i m a n i f e s t a t ac o m e a v v e n i m
e n t oC. o n s e g u e n t e m e n tpea r e n e c e s s a r i op, r i m a d i
e n t r a r ed i r e t t a m e n t e
nellasostanzadellequestionsiullequalirifletterer,icordarebrevementeilsignificattoradizionaleprofondo
dellarelazionemoralepropriadellaliberamuratoriadelGrandeOriented'ltalia. P e r
c o m p r e n d e r et a l e s i g n i f i c a t oè n e c e s s a r i oc o n o
s c e r ef u n z i o n ie c o m p e t e n z ed i c h i e p r e p o s t oa l l a
sua stesura;ossia del GrandeOratore.Rituali,Costituzione Regolamentdi el
GrandeOriented'ltalia comeognunodi noi,al calicedivinoe assoggettarmail
voleredeldestino. JohannWolfgangGoethe a s s e g n a n oa l G r a n
d e O r a t o r e c o m p e t e n z ei n c a m p o i n i z i a t i c o c , u l
t u r a l e e q i u r i d i c o( e x a r t . 1 1 9 R e g . ) . I n o l t r e
ilGrandeOratorei,nquantoOratoree,
competenteasvolgerequestestessefunzionaincheexart.36Reg., funzionei
competenzeche,peraltro,salvole elencazioneisemplificativreiportateda
quest'ultimaorticolo, nellasostanzadellamateriadisciplinattaendonoa
coincidereP. ertantola relazionemoraleda discuterein Gran Loggiaex art. 28,
letterad, Cost.,in quantoassegnatanellasua stesuraal GrandeOratoree
previamentesaminata(exart.38,letteraf, Cost.)in riunionedi
GiuntadelGrandeOriented'ltalian, onpuò
checonsistereinunsistematicoespletamentaonaliticoepropositivdoellefunzionei
dellecompetenzedel GrandeOratore.Risalendop, oi,
allatradizionestoricaall'internodellaqualenacquenell'ottocentIo'istituto
dellerelazionmi orali,e facilecomprenderceomeessofosse,al contempou, nasortadi
biianciocriticodelle attivitasvoltee, soprattuttod,ellaloroincisivitasia
all'internos,ia all'esternodell'lstituzionen,onchéun programmaed un impegnodi
attivitàper il futuro. Dunque,da un lato,il GrandeOratoree tenutonella
propriarelazionemoralea
richiamarel'attenzionedellaComunionesuitemi,chereputamaggiormente rilevantpi er
la stessa,privilegiandonaelmenouno,e, dall'altraparte,ad analizzarela
moralitàinternad, ei suoicomponentid,eifratelltiuttinelloroinsiemep,
erevidenziarnleacorrettezzcaomportamentalceh,enon
puòessereintesacomemeracorrettezzagiuridica. C o n s e g u e n t e m e n l t ae
p r e s e n t er e l a z i o n em o r a l e v e r r à i d e a l m e n t ed i v
i s a i n d u e p a r t i : I ' u n a r i g u a r d a n t e l a s i t u a z i o
n em o r a l e e g i u r i d i c ad e l l a n o s t r a c o m u n i o n e e, d
e . c r e d o , a t u t t i e v i d e n t eq u a n t o s i a n e c e s s a r i
o ungeneralerichiamoinquestadirezionem, entrel'altrarivoltaaitemitrattatei
datrattareinambitoiniziatico, filosoficoc,ulturale
sociale.Permegliosvolgeresoprattuttoquestasecondapartedellarelazionemorale h o
r e p u t a t o o p p o r t u n on o n f a r s c a t u r i r ei c o n t e n u t
t i e m a t i c di a u n m e r o l a v o r o s o l i t a r i od e l l ' u f f i
c i do e l G r a n d e O r a t o r e , c o n f o r t a t oa l p i ù d a l l e r
i f l e s s i o n d i e l l a G i u n t a , m a m i e p a r s o o p p o r t u n
o o, l t r e c h e m a g g i o r m e n t e proficuoai fini
dell'individuaziondei un correttoquadrodi attivitae di aspettativein
materia,rivolgermi direttamentaeifratelldi
ellaComunioneimpegnatsiulterritorionazionalenelcampodell'elaboraziondee,lla
proposizionedell'organizzaziodnelleiniziativeiniziatico/culturachli,esonopropriedellanostratradizione.
A talefine,ho organizzatonellasecondametàdi novembredell'annopassatoun
incontroa, pertoa tuttii F r a t e l l ci h e a v e s s e r od e s i d e r i od
i p a r t e c i p a r v ai , M a s s a M a r i t t i m ap r e s s o l a R : . L
: . V e t u l o n i ae c o l g o q u e s t a o c c a s i o n e p e r r i n g r
a z i a r ei F r a t e l l i d e l l a R : . L : . V e t u l o n i a p e r l a
l o r o c a l o r o s a a c c o g l i e n z a n , o n c h é t u t t i i p a r t
e c i p a n at i l l ' i n c o n t r po e r i p r e z i o s ci o n t r i b u t
f i o r n i t i a l l a d i s c u s s i o n e L . ' i n c o n t r oh a v i s t
o l a p a r t e c i p a z i o n e numerosadi moltiFratellci omesingolic,
omerappresentandti associazionciollegateallanostralstituzione e
comeoperatoriculturali.I lavorisonostatipienamentesoddisfacentpiertuttii
partecipanteid,in particolarep,er me, in quantomi hannofornitonumeroseed
utiliindicazionpi er la presenterelazione
morale.Nelringraziaraencora,dunque,tuttii
Fratellic,hehannocontribuitaollabuonariuscitadell'iniziativa, possosin da ora
comunicareche intendocontinuaresu questastradaanchein futuroed auspicouna
partecipazionsemprepiuestesaa questomodellodi incontro. 2.
L'immaginesternadellaLiberaMuratoria L'immagineprofanadellaLiberaMuratoriaper
lunghianni,soprattuttoin ltalia,e stataoffuscatadai pregiudizid, allecalunniee,
talvolta,anchedallacongiuradel silenzioperpetratacontrodi noi dai nostri
nemicistorici,ossiadaiseguacidiintegralismeiditotalitarismpioliticir,eligiosei
filosoficdiiognicolore. T u t t a v i ap, u r t r o p p op, e r ò ,t r o p p os
p e s s op e r i n s i p i e n z ai g, n o r a n z ao d i n v i d i al a c a l
u n n i ae d i l d i s p r e z z os o n o natianchedal nostrostessosenoe si
sonodiffusinel mondoprofanograziead un masochisticocupio dissolvoi
adundiffusoatteggiamentpoassivoedautocommiserativo,peggioancora,adunaprofanità
p e n e t r a t at r a l e n o s t r e c o l o n n e a d o p e r a d i f r a t
e l l i ,c h e e r a n o e s o n o r i m a s t i p i e t r a g r e z z a . F o
r t u n a t a m e n t e q u e s t i f e n o m e n i ,s e b b e n e a n c o r a
p r e s e n t i ,s o p r a t t u t t oa d o p e r a d i f r a t e l l i i n v e
t e r a t di a l u n g h i a n n o n e g l i antichivizl,comegiustamenteha
piuvoltericordatoil nostroVenerabilissimGoranMaestrot,endonoa non avere più
presasull'opinionepubblicaprofanagraziesoprattuttoalla decennalepoliticadi
chiarezzad, i trasparenzea di impegnocivileintrapresdaall'attualGe
ranMaestranza. Se cosi si puo dire,la battagliaper I'affermazionedella nostra
legittimapresenzanella società democraticaitalianae per la costruzionedi una
nostraimmaginepubblicapositivaè statavinta. Oggii massmediadistinguonqouasisempreconrigoretraGrandeOriented'ltaliae
massonerieirregolaroi deviate,riportanofedelmentea, nchese ancoracon non
sufficientefrequenza,le nostreopinionie le nostre iniziative ci riconosconouno
spazionell'informazionceh, e, sebbeneda estendere,ha tuttaviagia il
caratteredellacorrettezzaA.nchele
istituzionpiubblichehannomutatoatteggiamentnoei nostriconfronti,
riconoscendocin taluni ambiti, che storicamenteci appartengono,come
interlocutoriqualificati (partecipazionaecommissionic,omitatipubblicie, tc.);i messaggdi
ellemassimeAutoritàdelloStatoalle nostremanifestazionsiono ormaidiventateuna
feliceconsuetudines,emprepiu frequentementepoliticied
amministratorpiubblicipartecipanoalle nostreiniziativeculturalie le
Comunionimassonicheestere guardanoallanostrarealtàconrispettoedammirazioneI.nsintesil,asocietàcivileciharestituitoilruoloche
storicamentien ltaliae
semprestatonostro.Poiché,però,nessunaconquistanellastoriaumanae definitiva e
quandoci si fermaa contemplarecompiaciuti risultatiraggiuntisi rischiadi perderequantosi
è faticosamenteconquistaton, on solo è necessarioperseverarenell'impegnosino ad
ora profusonella costruzionedellanostraimmaginepubblicam, a e
altresìindispensabilientensificaruelteriormente in modo operareattraversoun
radicamentosemprepiu profondo semprepiù rigorosotale impegnoe, soprattutto,
dellanostraimmaginenell'azionesocialeeffettiva,nellanostrarealepresenzastorica,nelleazioniche
quotidianamencteiascunodinoidevecompiereperesseredegnodellamaestranzacuiappartiene.
Nelle attualisocietapostmodernel'immagineè molto,talvoltaquasi tutto, ma non è
tutto. Oltre all'immaginseerveanchela sostanzada cui tale
immaginedovrebbederivareI.n particolarep,roprionella v i a i n i z i a t i c al
i b e r o r n u r a t o r i al ' i m m a g i n en o n d o v r e b b e e s s e r
e i l v u o t o s i m u l a c r od i i r r e a l i s t i c h e aspirazionoi
diabiliingannim, alafedeleiconadellarealtà,diciochevogliamoesseree
siamocomeLiberiMuratorei comeappartenenatil GrandeOriented'ltalia.Pertantole
azionidi markefrngsonosenzadubbionecessarie
inunasocietacomelanostra,percorsadaapparenzesemprepiùinvasivem,
aepropriolanostranatura iniziaticae tradizionalae imporcdi i
essereciochedesideriamaopparireP. erraggiungerqeuestoobiettivoe
indispensabilperogettared,a braviarchitetti, unafattivapresenzanellasocietàin
cuiviviamo;unapresenza che sia significativa,ttraversole nostreopere.dei
valoriche da semprerappresentiamoT.arepresenza avrà la
prevalentecomponenteindividuale, ciascunLiberoMuratoree chiamatoa
farecomesingolola propria parte di lavoro, a dare con il proprio
comportamentoil buon esempio, ma dovrà essere a c c o m p a g n a t ea s o r r
e t t a a n c h e d a l l a p r e s e n z a d e l l ' l s t i t u z i o n l i e
b e r o m u r a t o r i a n e l s u o i n s i e m e p e r r i s u l t a r e
maggiormenteincisivae persistentenel tempo:il mondomodernoe semprepiù
istituzionalizzato ed anche noi dobbiamoadeguarcia questatendenzasociologicad,
el resto,la tradizionealtro non è che una
istituzionliazzaziondeeisingoilcomportamenti. 3. Lo statodellaComunione La
situazioneinternadellanostraComunionesi presentaa, d unaanalisai
pprofonditas,ostanzialmente positivae riccadi prospettiveper il futuro,anchese
le fastidioseturbolenzeprofanedi talunifratelli,più a n i m a t di a s p i r i
t od i r i v a l s ac h e d i c o l l a b o r a z i o n pe o, t r e b b ef a r
p e n s a r ei l c o n t r a r i oF. o r t u n a t a m e n ti er i s u l t a t
i c o n c r e t ci o n s e g u i tpi a r l a n op i ù e m e g l i od i q u a l
s i a s pi e t t e g o l e z z o o d i q u a l s i a s si c o m p o s t od i s
s e n s o . L a C o m u n i o n es i p r e s e n t ai n c o s t a n t e q u a n
t i t a t i v a , crescitasia siaqualitativea segnaI'affermarsdii un
decisoringiovanimendtoeisuoiaderentiQ. uest'ultimdoatonondeveesseretrascuratononsoloe
nontanto percheil futuroe dei giovani.ma soprattuttoperchesonole
vecchiegenerazioni che manifestanmo aggiori difficoltàad abbandonaruen
modellodi LiberaMuratorianonconsononé allanostratradizioneiniziaticane
allarealtàstoricaattualmentesistente. Nel generalepanoraman, on solo
nazionaled, i diffusadisaffezionveersoI'impegnoassociazionistico
(RotaryClub,Lions,partitipoliticic, hiese,etc.) ed, in
particolarev,ersoquelloliberomuratorioconforta constatarecome il
GrandeOriented'ltaliasi ponga in controtendenzae riescaa catalizzareI'interesse
l'adesionedi notevolei qualificateforzgeiovaniliO. vviamentetaliadesionsi
ollecitanuon rinnovatoimpegno per garantireal nostrointernoun ambientesemprepiù
favorevolead una crescitainiziaticacomune.Le a d e s i o n i s c a t u r i s c
o n od a a s p e t t a t i v e e l e a s p e t t a t i v e p i u d i f f u s e
s o n o p r o p r i o q u e l l e c h e h a n n o c a r a t t e r i z z a t o
la nostrastoria:unaelevataqualitàiniziatico-esoterica qrande unitaad una
capacitadi presenzasociale. Simbolicamentpearlandop, urtroppole
noteiniziatichdeel FlautoMagicodi WolfgangAmadeusMozart
sonotroppofrequentementperofanatedall'irromperneellaComunionedi
comportamenatinimatidallatipica profanitàdeitreCompagndi 'ArtecheucciseroHiram.
La LiberaMuratorianon puo esserené la cameradi compensazionedellefrustrazionpi
rofanee neppure un campo di futili contese di natura condominialel;a Libera
Muratoriaè una scuola di p e r f e z i o n a m e n t ion d i v i d u a l ef i n
a l i z z a t oa l b e n e d e l l ' U m a n i t a d; i q u e s t a n o s t r a
c a r a t t e r i s t i c an o n p o s s i a m o m a i s m a r r i r n el a m e
m o r i a a p e n a d i n e g a r e l a n o s t r a s t e s s a n a t u r a .
Per questomotivoe necessariostigmatizzarenegativamentequei comportamentcihe,
nascendoda uno smisuratonarcisismopersonalep, ongonoil proprioio in
posizioneassolutae tentanodi imporreil proprio modo di vedere come
I'unicocorretto.Tali comportamentni on solo contrastanocon il nostro basilare
principioditolleranza,mancheconquellavisionerelativam, olteplice, checi e
propriada sempre. Non meno deprecabilsi ono quei profani comportamenti che
mercanteggiancoarriere,grembiulie r i c o n o s c i m e n t p i , r e s c i n d
e n d do a c a p a c i t à c, o n v i n z i o n i i d, e e e p r o g e t t oi p
e r a t i v i D. e v e r i s u l t a r eb e n c h i a r o a tuttiche le
funzioniniziatiched organizzative, chesi ricopronoin Loggiae
nell'lstituzionien,genere,sono serviziprestatialla comunitàe non
orpelli,gerarchieo privilegdi a esibire,se non ancheda ostentare. esibizionei d
ostentazionsi i configuranocome veri e propriabusi delie funzioniricoperte.Se
vissute correttamentetalifunzionidebbonoessereintesecomeonerie,
pertanto,nondovrebberodareaditoad alcunlitigioin sedeelettoraleo di
nominaallemedesimen; onvi dovrebbei,nfattie, sserenessuninteresse personalea
ricoprire qualsiasi una funzionel;'unicointeresselecitoe quellodi servirela
comunità. stratificatea cumulativadellaverità, Ulteriorniegativitcàigiungonop,oi,dallaormainvalsabitudindeiesternariensedeprofanaiconflitti
i n t e r n i a l l a n o s t r a C o m u n i o n e Q. u e s t o c o m p o r t
a m e n t o c , e r t a m e n t e f a v o r i t o d a i m o d e r n l m e z z i
d i comunicaziondei massa(lnternet, e m a i l s, m s , e t c . ) , i n d u c e
p r e n d e r ep o s i z i o n e , i l p r o p r i op e n s i e r so e n z a i
n t e r p o r r pe r i m a u n a g i u s t a p a u s a d i r i f l e s s i o n
es o: n o v e r a m e n t e convintodi quello
ch-escrivo?Rispondaelveroquantoaffermo?E'opportunaoffermarloF?accioilbenedellanostraComunità
affermandoloE?tc..L'azionedelloscriverecostaormaicosìpocafaticaed è
cosìimmediatcaheprecedeil pensierostessos: i
agiscesenzaunasufficientreiflessioneI .dannid'immaginpeernoitutti,pot,a causa
dell'impulsivirtàrazionaldeeipochis, i diffondono profani, trai
cheleggonoiunquele nostresternazioni, spessoanchesenzariuscirea capirle,ma
semprecomprendendcohe siamocoinvoltin scontri completamenpterofania,nchepeggiori
dlquellpi roprdi ellanormaleprofanità.
Particolarmenrtieprovevolaeppare,poi,I'usoormaidiffusodi
giuridicizzariecontenziosi . -giuridica, interni,
abbandonandlaonoslratradizionme oralei,niziaticea ritualep, iùche e di
inasprirei tonidegli scontrbi enoltrequantodovrebbesserelecitotraFratelli
nell'lniziazionSé.emprepiùspessoI,nottret,ali conflittinon si
fermanoall'internodella nostragiustiziamassonicam, a fuoriesconop,er'approoare
direttamenatei TribunadliellaRepubbliclatalianaD. ellaillegittimiatànchegiuridicadi
talicomportamenstii
diràinseguitop,erorabastisottolineariledegradomoralede-lltaradizionme-uratoria,
lcomportamendtei scritti sonodecisamentreiprovevoli
comeesempioluminosoI.nfattic, onestrema
algradodiApprendistLaiberoMuratorreicordalrecipiendario: ll.secondo[dovere]è di
praticarela virtù,di soccorrereivostri Fratellid, i prevenirele loro necessità,
d i a l l e v i a r e l e l o r o d i s g r a z i e e d i a s s i s t e r l ci
o n i v o s t r i c o n s i g l i e c o l v o s t r o a f f e t t o . e u e s t
e v i r t ù , c h e nelmondoprofanosonoconsideratequalitàrare,sonotra ioi
soltantoil compimentodi un dovere gradito. ll terzodovereè quellodi
conformarvai lteleggidell'Ordinedei LiberiMuratorie ai Regolamentdii
questaLoggia[...]. LanostraComunionenon.dovrebberappresentaruenospaccatodellanostrasocietà,maraccogere
soloilmeglioc,heinessagiàvive,periniziareunpercorsodisemprecrescentpeerfezionamento.
ll Libero Muratorenon può rappresentareil cittadinomedio,ma deve aspiraread
essere l'éllfe della società. Fortunatamenltae maggioranzdaella
nostracomunioneè compostada Fratellimeravigliosi, che si
distinguonoperprofonditàiniziaticae generositàcivile.Pochepiete
gîezzenonpossonorovinarequantoi piùhannolevigato. 4.Alcuntiemidiriflessione La
giornatadi MassaMarittimhaa evidenziatIo'esigenzdai rifletterientornoad
unanumerosaseriedi
temi,chepaionocrucialpierlanostraComunionienquéstoparticolare momentostoricoC.
ertamentietemi individuaeticheoraverrannoespostni
onsononuoviallanostraTradizione,ppuresembranononancora completamenpteadroneggiati
datutti.
InconvergenzcaonleistanzechedapiirpartidellaComunionleiberomuratorisailevanol,apresente
Gran Loggiaè dedicataall'Eticadella libertà ed all'eticadella responsabilitàN.
on può sfuggire soprattuttionunambitocomeilnostroc,henon dovrebberiprodurrievizi
dellasocietàprofanam, a proporsi chiaîezzial ritualedi iniziazione
I'ispirazionweeberiana, cheanimaquestotema.MaxWeberfu,forse,il
piùillustresociologioedescodella primametàdelsecolopassatoefucertamente
-postindustriale un acutoosservatore criticodellasocietà e burocraticac'hein
quegliannisi stavaformandoall'ombradellaminacciadellegrandidittatureuropee,
alloranascentlil. messaggidoell'illustrseociologeovidenziava, primo
poterec'hetendevanaospersonalizzare le decisionpiolitichiendividuali e
lerelatrvseceltem, asubitodopo
richiamavIa'attenzionaenchesullasolitudindeell'esseruemanodifrontealcrescentpeoliieismdoeivalori
delmondomodernop;oliteismo, chetuttorainesorabilmente
organizzazionsiociali.Tuttaviaa frontedi un politeismodilagantenell'estremosoggettivismo,
Weber c o n c e n t r l a a p r o p r i a a n a l i s si u l c o m p o r t a m
e n r t ao z i o n a l e e s u l m o m e n t oe t i c o , p e r m a t é i i a l
i z z a r e dei valoriun comportamento o r i e n t a t oa d u n r e l a t i v i
s m o o p e r a t i v oi ,s p i r a t oa à u n a o r g a n i z z a z i o n e
tutta umanaedemocraticdaellèsocietàW.
eberaffrontailtemafondantedellesocietàmoderÀec:omepossano funzionarele
societàindustriali di massanelrispettodelleindividualitpàersonaluimane?E',dunque,in
questoquadroche I'eticadellalibertàr,ivoltaallatuteladel
singoloessereumano,devecoordinarsei conciliarscion I'eticadellaresponsabilità,
fìnalizzatagliinteressciollettiveid istituzionalNi.ulladi più attuales,
oprattuttoa, llalucedei presentpi roblemdi i sviluppoeconomicosostenibile di
benessereo,t tuteladellelibertàindividuaeli di sicurezzad,i partecipazione d e
m o c r a t i c ea d i e s i g e n z ed i g o v e r n o p, e r
citaresolopochiesempi. Aldilà,.comunqued,egLsipecificciontenutciulturalieberianiiilsempiice
richiamao questoAutoresprimeunelementfoondaniedellaTradizionleiberomuratoria: a
a parlareda trasmettere cheessirivetano. in luogo,i mèccanismi burocraticdiel
incalzae rischiadi sprofondàrneelnichilismloe dalnulla I'impegno
civile e sociale sostenuto da un'etica radicata nella nostra cultura
iniziatica,ossia individuale,personale,propriadi ciascunLiberoMuratore. La
nostraTradizioneiniziaticaci assisteed accompagnanelleimpegnativeprove,che
I'attualerealta storicacipresentae, noi,peressereall'altezzaditaleTradizioned,obbiamoesserecapacidireinterpretarla
a l p r e s e n t e n, o n d i r i p e t e r l a a l p a s s a t o L. a T r a d
i z i o n e e t a l e p e r c h e s i p o n e f u o r i d a l l a s t o r i a i
n u n a p e r e n n e attualitan, onin un richiamocristallizzato ad un
singoloattimodeltempopassato. La centralitaeticadelnostrolevigarela
pietragrezzadi noistessisi impiantasulleduecolonnedi una
profondaconoscenzafilosoficae di unaaltrettantoprofondaconsapevolezza
morale.lgrandi insegnamenti che ci giungonodai simboli,dai riti,dallasapienzae
dai lavoridei nostriFratellipassatie dallanostra
lstituzionehannonaturaeminentemente filosoficae morale.Dunque,ciascunodi
noidevecostruirsciome un attentoconoscitoredei nostri insegnamentim, a anche
come un ferreo e rigorosoportatoredi comportamentisi piratialla nostrapiu
rigidamoralità.Troppospessosi sentonotalunifratellivantarsidi
conoscenzesoteriche, poi,il lorocomportamenteo paragonabilae quellodei
peggiorpi rofani.Troppo spesosi assistealleiamenteledi talunifratellpi
erl'assenzadinsegnamenti poi, massonicei ,
loropersistentaessenzanonsoloadibattitei convegnim,
aancheesoprattuttoaglistessilavoridiLoggia.
TroppospessosiascoltanotalunifratellliamentarsdiiquellochenonottengonodallaLiberaMuratoriae
non domandarsciosaessidannoallaLiberaMuratoriaT. uttiquesticomportamenti
rivelanounaassenzadi vera e p r o f o n d am o r a l e l i b e r o m u r a t o
r i a D. e l l ' a s s e n z da i c o n o s c e n z an o n e n e p p u r ei l c
a s o d i p a r l a r e . F o r t u n a t a m e n taef r o n t ed i q u e s t
ed e g e n e r a z i o nl ai g r a n p a r t ed e i F r a t e l lsi i d i s t i
n g u ep e r i m p e g n oe s e r i e t à
nelpercorrerelaviainiziatictaradizionaldeellaLiberaMuratoria. Perfavorirelacrescitadellanostralstituzionenecessarioin,
unasocietadimassa,giuocaresuigrandi numerie, quindi,selezionaredai
grandinumerii miglioriuomini,per inserirlai l nostrointerno.Se si
raffrontanoquantitativameniteMassoni dell'ottocentiotalianoa quelliattualied entrambialla
rispettiva dimensionenumericadellasocietà,nellaqualeviviamoe vivevanoc, i si
accorgecheogginoisiamomolto s o t t o d i m e n s i o n a Nt i o. n c r e d o c
h e s i p o s s a p e n s a r ec h e g l i i t a l i a n di i o g g i s i a n o
p e g g i o r di i q u e l l i d i i e r i , f o r s e ,
comesembranotestimoniartealunenostrerealtainternealGrandeOrienteè,
veroilcontrarioE.dallorae nostracarenzanon dare la possibilitai miglioridi
entrarenellanostralstituzione. questa Su c o m u n i c a z i o n è e c e n t r
a l e e m o l t o s i e f a t t o i n t a l e d i r e z i o n e s , i a a t t r
a v e r s oi n c o n t r pi u b b l i c i s , i a g r a z i e a d u n a r i c c
a p u b b l i c i s t i c as , i a , i n f i n e , a t t r a v e r s ol a p r e
s e n z a s u i m a s s m e d i a . N o n s i d e v e r a l l e n t a r s l ' i
m p e g n i on questedirezioni,ma tale impegnopotrebbetrovarefattoridi
moltiplicazionaettraversoun sistematico
coordinamentnoazionaledegliinterventiI.noltreil moltiplicarscioordinatodi una
reteassociazionistica sul territorionazionalepotrebbedivenireun
utilestrumentoa, l contempod, i diffusionedei nostriprincipei di
informazionientornoallenostreiniziative, ma anchedi selezionedi
colorocheintendonoavvicinarsai noi. A questaselezionesternadeibussantdi
eveanchecorrisponderuenaselezioneinternadeiFratelli. Non casualmentegli
insegnamentliberomuratorvi engonoimpartitsi u tre gradi(Apprendista, Compagno
d'Arte,Maestro)p, ertantonon puo essereil merotrascorreredel tempoa
determinarei passaggdi i grado. Solola conoscenzadelgradonelqualesi
lavorapuodaredirittoad aumentdi i salarioc, omebeneesprime l a n o s t r a T r
a d i z i o n e e, l a c o n o s c e n z as c a t u r i s c ed a l l a s o m m
a d e l l a v o r o i n d i v i d u a l ec o n q u e l l o d i L o g g i a .
Pertantola selezionenonpuocheavvenirea seguitodi unacostantepresenzain Loggiae
di un sistematico lavoropersonaledi ricerca. Le Loggedovrebberolavorarein
tuttii gradi,nonsoloin quellodi Apprendistae,d, in particolare, i lavori in
terzogradodovrebberoesserevalorizzati, affinchesi possaconstatareche il
GrandeOrientee composto da Maestric, he lavoranonel lorogradoe non in gradodi
Apprendistal.l gradodi Maestroe il verticedella nostralstituzione, pertantod,
eve informarela maggioranzadei lavoriritualidi Loggiaper evitareche le
ritualitadi altrigradiprendanoil sopravvento,
snaturandonleaforzainiziaticail:avoridaApprendistraestano perApprendisatinchese
fattida Maestri. ln questiultimianni il GrandeOriented'ltaliaha promossouna
crescenteorganizzaziondeella Comunioneal fine di potenziarnela presenzasocialee
la capacitainternadi creicita qualitativae
quantitativaIn.fattis,emprepiùnumerosei culturalmente rilevantsionostatii
convegnil,etavolerotondee g l i i n c o n t r si i a p u b b l i c si i a p r i
v a t i ; l a n o s t r a p r e s e n z a s u l t e r r i t o r i o e s t a t a
r a î f o r z a t ad a c o n s i s t e n t i i m p e g n i p e r f o r n i r e
a i f r a t e l l s i e d i d i g n i t o s e m; a n e c e s s i t a a n c o r
a s i a u n a m a g g i o r e p a r t e c i p a z i o n i e n t e r n a a i l a
v o r i d e l l a Comuniones,iaunapiuadeguataorganizzazione storiche.
Rispettoal tema dellapartecipazione ai lavoridi Loggianon mi sembrasi
debbainsisteremoltoper costituzionalech, e megliorappresentlei attualiesigenze
evidenziarnela doverositaoltrealla necessitàT. uttaviapare
opportunoribadirecome la radiceprofonda d e l l a L i b e r a M u r a t o r i
ar i s i e d a n e i t r e g r a d i d e l l ' O r d i n e e n o n n e g l i u
l t e r i o r gi r a d i d e i R i t i , i q u a l i , a l m a s s i m o ,
possonoessereconsiderati dellearticolazionsipecificheD.
unque,nessunacameraritualepuo sostituire sopperireallacarenzadi lavorinei
primitre gradi.Questariflessionedovrebbeconvinceretuttii Maestri Venerabilai
promuovereun consistenteincrementodi lavoriin cameradi Maestro,al fine di
espandere pienamentele potenzialita iniziatichdei dettacamera. R i g u a r d o
, p o i , a l l a n o s t r a o r g a n i z z a z i o n ec o s t i t u z i o n
a l ei n t e r n a , p a r e n e c e s s a r i o c o n s t a t a r e c o m e g
l i e p i s o d i cei d o c c a s i o n a li in t e r v e n tdi i r i f o r m
an o r m a t i v as, o v r a p p o s tai d u n t e s s u t o g i à di
disposizioni spesÀo si constatala stradala contraddittorio
carente,abbianoormairesaevidentela necessitàdi unaorganicae completariscrittura
dellanostraCostituzionee deinostrRi egolamenti. Infattir,isultasubitochiaroa
chiunquestudila nostralstituzionceomeallastrutturainiziatic(aLogge, GranLoggiae,
tc.)dellanostraComunionsei sovrappongaper dallanostraappartenenza precisa ad
una realtàstoricau, nasovrastruttuarassociazionistica di inevitabile
saporeprofanoP. oichenone possibilpeorsfiuoridalleesigenzseloriche
dallasocietàc,uisiappartienae pienotitolo,la strutturainiziaticadeveper
necessitàcoordinarsci on l'oîganizzazionperofanalassociazioni,
societàcommerciaolib, blighfiscalei
.dipubblicasicurezzaq,uoteassociativelo,cazionimi moòiliari,
etc.)dalmodelloconfederale originarivoersoun modellofederalepiùo
menocentralizzaìo. neirecentpi rowedimendti adeguamenatollenormative
fiscalimposteallealsociazioni c i v i l e s, i a d e l l a L i b e r a M u r a
t o r i a , siadelrapportocheintercorre pertanto traquesteduerealtàstoriche.
dobbiamostupircci heancheil nostroapparatonormativo, quello
conseguentemennteo,nscambinoi gradipercarriere,grembiuli i
peronorifìcenzeelenormeperstrumenti
diprevaricazionLea.LiberaMuratorisaialimentadiidealiedispiritodiserviziofraterno.
5.Inultimom, anonultimo. A chiusuradi questarelazionme oralemi sembraopportuno
ricordardeuespecifichtematiche, sonodovuteaffrontarein
questoprimoannodellanuovaGranMaestranza. prima
intornoallatroppoeslesacontenziosigtàrudiziaria ed al degradocomportamentale, d
e r i v a t o e, m e r s i i n o c c a s i o n ed e l r i n n o v od e l l e c
a r i c h ed i é i u n t a e c o n t i n u a tpi e r v i c a c e m e n t e
anchenel corsodelcorrenteanno.LasecondainvesteirapporttiraOrdine CorpiRitualei
dhaportatoallastesuradi nuoviProtocoldli'lntesa. Procediamcoon ordine.ll
primotemaaffrontaI'ormadi iffusomalcostumdei ricorrereallagiustizia
ordinariaperpresuntedisarmonie in materialiberomuratoria, prima anche di
esperireil forodomesticeo di cercareconcordiafraterna,come
dovrebbeesserenostrodoverefare. Inolt;e,tali scontrigiudiziarisi
connotanaoncheperlaviolenza, la ripetitiviteàla caparbiareiteraziondei
atti,citazionei,sposti, r i c h i e s t de i accertamentin via preventivaed in
via risarcitoria,querele,richiestedi prowedimentiourgenzae quant'altro consentaI'articolatoordinamentgoiudiziario
si sommaancheun corrispondente di massa(giornalil,eúere,siti internet, ,
esigenzesocialei giuridichdeipendenti etc.)ai e giuridicarmonicae,ntrola
qualesvolgereinostriarchitettonici finedi costituireunaunitàistituzionale lavoriD'
elrestotaleproblemahanaturaTradizionalpeo, ichenonnasceoggrm, aciaccompagna
storicdi elcompagnonaggeio dellaMassoneriOaDerativa. La
Tradizionecostituzionale dellaMuratoriaUniversale,
Infattil,eLoggesovranesiunisconoc,onservandlaopropriasovranitàp,erformareunaGranLoggiam,
ail sistemaè lentamentsecivolato, lnoltre,ha naturaevidentemente federale.
comeperaltroè awenuioanchenellecostituziosntiatal(iSvizzera, U.S.A., In
sintesis, i è materialeallaCostituzionfeormaleorigtnariaC.iòha
sovrappostuana,cosìdettadaigiuristiC, osîituzione
prodottoincertezzeinterpretativea,d
esempiointornoall'autonomidaelleLogge,comebenesi e evidenziato
dalloStatoltaliano. Maanchea presclnderdealleantinomied,allelacunee
dalleoscuritàdeinostritestinormativil,tempo, comeè notoai giuristiè,
nemicodelleleggie: ssocorrementrele leggirestanofermec, ristallizzate nellaloro
immobilitàIn. questiultimai
nniabbiamoassistitaollerapidetrasfor-Àazioanni,coraínfieri,siade a società n o
n adeguarsai lle nuoveesigenze.OwlamenteI'adeguamento deve esserefatto in modo
organtcoe
sistematictoe,nendoanchecontodelledimensioncirescendtiellanostralstituzioned,elleregolamentazioni,
che si sonodate le altreMassoneriestranieree,
dellenormativedegliordinamengtiiiridicistatalie sovranazionali. ..
UnaultimariflessjonmeiportaaricordaraetuttiiFratelliche,comunquela,LiberaMuratorinaonpuò
divenireuna organizzazionperofana.Essa è e deve restareuna
lstituzioneTradizionaleIniziaticaper il perfezionamento dell'esseruemanoC. iÒp,
erò,presuppone non i n i z i a t i c os , i m b o l i c oe r i t u a l e d, e b
b a anchechei Fratelliavivanoinquestospiritoe, italianoP.
eraltroall'iperattivismgioudiziariJprofano fenomenodi comunicazione emails,
ms,etc.),perlo piùanonimot,endentea screditare
lanostralstituzionaédín,particolaie, alcunsi uoi esponendtiiverticeN.
onparenecessarisooffermarsui llaprofaniteà,spessoa,ncheilliceitàgiuridicdaitali
comportamenstie,mbra,inveceo, pportunosotlolineare comeessirendanodi
dominiopubúicole nostre c o n t e s ei n t e r n ev, i o l a n d on o n c e r t
oi l s e g r e t om a s s o n i c op,o i c h én o n v i è n u l l ad i s e g r
e i oi n s i m i l im i s e r i e umane,ma umiliandoil buongusto,il dirittodei
fratellai d una immaginepubblica internodistesoed alla riservatezzadelle
proprieproblematiche f,ositiva, di fàmiglia.La litigiositàed ancor più
I'accanimenntoellalitigiosità -una sonopessimbi igliettdi a visitae forniscono
immag"ine Oriented'ltalia. finedi
evidenziarqeualidebbanoessereicomportamenti
correùiinialematerianellanostraComunioneln. nostralstituzioneT.uttipossonopercepire
idannichequestsi considerati
PoichéilGrandeOratoretraipropricompitiistituzionali quello haanche di
interpretare e di custodirle leggiho reputatomio precisidoverecompiereun
lavorodi esegesigiuridicasullenostrefontinormativea, l chesi La riguardala
riflessione chène è connessoe deteiioratdaella comportamenairirecanaol Grande
daitempi ad un clima breve,risultaevidenteche la
nostraTradizionenon consenteun facilericorsoalle giustizieor6inariein
materialiberomuratorie, comunquen,
ontolleraunaeccessivanimositaneldifenderàl" propriepresunte ragioni.Se non
e possibileparlaredell'esistenznael nostroordinamentogiuridicodi una vera e
propria
clausolacorxpromissoraiassimilabilaequelletipichedell'associazionismproófanoe,
tuttaviaevidentecome il ricorsoallagrustiziaordinariavengacostantementveistoe
vissutocomeun comportamentpoatologicoe talvoltaanchecomeunaverae
propriacolpamassonicaL.asituazionesiaggravaperI'attoiequalorail g i u d i z t o
m a s s o n i c oo a n c h e s o l o q u e l l o p r o f a n o d i a a l u i t
o r t o ; p o i c h e i n t à l e c a s o s i e v i d e nz i a s e n z a
equivocei d incertezzeuncomportamentnoonfraternoneiconfrcntdi elconvenuto. A l
f i n e d i c h i a r i r ei l p i ù p o s s i b i l et a l i t e m a t i c h
eh o p r o v v e d u t oa d u n a a n a l i s id e l l e n o s t r ef o n t i d
i d i r i t t o , analisiche gia evidenziaquantosopraesposto,ma che
raccomandapiù puntualmi odifichenormativenei nostriregolamentail finedi
rendereesplicitaa, nchesul pianoassociazionistico, nostroordinamentgoiuridicodi
unaclausolacompromissoria. ll pareresullefontidel dirittoliberomuratoriodel
GrandeOriented'ltaliae sul vincolodei Fratellai limitarsni
eicontenziosaillagiustiziadomesticavieneriportatonell'allegato n.1. ll secondorilevantetemaaffrontatoin
questoannomassonicoriguardai Protocoldli'lntesatra il Grande O r i e n t ed ' l
t a l i ae d i C o r p i R i t u a l ai d e s s o a d e r e n t i P. u r t r o
p p oa n c h e i t o m p o r t a m e n t i c, h e h a n n o c o s t r e t t oa
d affrontaretaletematicanonsonocertocommendevolei
rivelanoilmaisopitotentativodellearganizzazioni ritualdi
icostituirsciomeunaMassonerianellaMassoneriac,omeunlivellosuperioredicontrollòdell'Ordine
Libero Muratoriodei primi ed unici tre gradi, contravvenendoin tale modo alle
regole massoniche internazionalmentreiconosciute.Pertantoi nuovi
Protocollid'lntesasi sono rigorotamenteispirati
all'applicaziondellenormativeinternazionali in materiaed hannointeso
pericolosa, correggerela anchese traOrdinee CorpiRituali
nuoviProtocolldi'lntesasifondanosuquattro
forseinconsapevoltee,ndenzaegemonicadeiCorpiRitualsi ull'Ordine. Al finedi
ristabilirIe'equilibrio principbi enprecisi: 1) 2) 3) L'Ordineo, ssiail
GrandeOriented'ltalia,svolgeuna indiscutibiled originaria'funzionieniziaticamente
fondantee giuridicamentlegittimante regolarizzantreispettoai CorpiRituali. |
CorpiRitualihannotuttiparidignitadi fronteal GrandeOriented'ltaliae, pertantoi,
Protocolli, specifichepeculiaritdaovuteadoggettivedifferenzestoriches,onougualipertuttii
CorpiRituali. Ordinee CorpiRitualgi odonodellapiùassolutae reciprocautonomiaE.
',quindi,fattoobbligoai Corpi Ritualdi i astenersdi a qualsiastiipodi
interferenzaedingerenzadirettaod indirettanellavitadell'Ordine ed in modo
particolarenei momentiistituzionadlii sceltae di rinnovodegliorganiinternidi
governo dell'Ordinestesso.A tale fine è parso necessarioritenereincompatibili
dell'OrdinedeiCorpiRituali. 4) l-e normative interne dei Corpi Rituali devono
essere conformi alle normative massoniche internazionalmenrtieconosciute
particolare, ed, in a quellepropriedel GrandeOriented'ltalia,nonche,
ovviamentea,nchealledisposizioni di leggedellaRepubblicaltaliana. La bozzadei
Protocolldi 'lntesatra GrandeOriented'ltaliae CorpiRitualivieneriportataper
esteso nell'alleganto.2. A conclusiondei questarelazionemoralesia
lecitoricordarecon profondodoloree fraternorimpiantoil F r a t e l l oB e n t P
a r o d id i B e l s i t o g, i a G r a n d eO r a t o r eA g g i u n t o c, h
e n e l l e i m m i n e n z ed e l S o l s t i z i od ' i n v e r n oe
passatoall'OrienteEterno.La sua immensaculturasi univaad una
profondadedizioneagli idealilibero muratori,ma soprattuttocoloroche
hannoavutoil privilegiodi conoscerloda vicinohannopotutoapprezzare q u a n t a
n o b i l t a g, e n e r o s i t ae d a m o r e f r a t e r n oa l b e r g a s
s e r no e l s u o a n i m o . Nel rimpiantodi un fratelloed
amicoscomparsovogliodedicareal suo ricordoquestemie brevi
riflessiondiiuntempogiovanileormaiperduto: RINTOCHI Se le campanesuonanos,
egnandoil miofato; seilgiornoe lanottecircolarmente si avvicendano;
Coniltriplicefraternosaluto. se il marearrotolacadenzatriicciolbi ianchi; se i
montiforzanolavoltadelcielo, lo ridoe piangoe bevoe negoildomani.
L'orizzonteguidaallamadre, matuseiunrigidosegmento. IL GRANDEORATORE MorrisL.
GhezziPrima di formulare alcune precisazioni intorno alle principali critiche
rivolte, soprattutto in sede di postfazione, al mio scritto, voglio ribadire
che sono infinitamente grato ad Emanuele Severino, ad Agostino Carrino ed a don
Paolo Renner per l’attenzione, che generosamente hanno voluto de- dicare al mio
lavoro. Le obiezioni, infatti, che mi sono state rivolte hanno arricchito la
ricerca con contributi seri e proficui per la conoscenza umana; conoscenza che
non può che scaturire da serrate critiche, severe obiezioni, profondi dissensi,
diversità metodologiche ed euristiche, divergenti punti di vista e ripensamenti
vari. Ma senza indugiare oltre è tempo di commen- tare queste critiche. Ogni
affermazione presuppone anche la propria negazione: luce e tene- bre, dritto e
curvo, finito e infinito, piace non piace, etc.. La dialettica degli opposti
appare una fenomenologia, per così dire ontologica, ossia propria della
struttura mentale dell’essere umano. Ciò non significa che il dualismo sia
dotato di un fondamento maggiore o minore del monismo, ma sem- plicemente, che
né l’uno, né l’altro sono dotati di alcun fondamento non dogmatico, non
assiomatico. Conseguentemente fidare in un paganesimo monista di dei, semidei,
eroi ed uomini divinizzati, come propone Carrino, o in un dualismo
giudaico-cristiano, che separa il divino dall’umano, è scelta meramente
arbitraria e priva di un solido sostegno logico od em- pirico, nonché, meno che
mai, metafisico o religioso. Probabilmente nel pensiero o, meglio, nella
rivelazione cristiana la sintesi teologica, il ponte
138 Il diritto come estetica tra fisico e metafisico avviene attraverso
la figura del Cristo, che viene considerato vero uomo, ma, al contempo, espressione
della trinità divina. Afferma, infatti, Massimo Cacciari, commentando Emo: Lo
sforzo teologico di Emo consiste, dunque, nell’intuire nella Croce stessa (non
oltre la Croce o dopo la Croce) la Resurrezione1. Si tratta, tuttavia di una
Resurrezione/rivelazione di natura puramente spirituale e, conseguentemente
soggettiva, poiché tale rivelazione di pas- sione e di morte nulla ha mutato
nella realtà empirica del mondo, se non il modo di pensare e di credere dei
fedeli e solo dei fedeli: si continua a nascere, soffrire, morire, fare
violenza e guerra, elargire misericordia ed amore esattamente come nell’era
precristiana. Del resto neppure la diviniz- zazione dell’’essere umano (pagana
o meno), con buona pace dell’amico Carrino, nulla ha mutato nel panorama delle
sciagure e delle piacevolezze empiriche, se non la superbia dell’approccio,
basti pensare alla tragedia greca. Inoltre anch’essa si presenta come una
conoscenza di fede (leggasi scelta arbitraria) Le affermazioni del presente
saggio, per essere correttamente comprese, devono essere considerate solo come
ipotesi scettiche di riflessione, tut- te possibili, ma nessuna fondabile su
solide basi conoscitive, e non come asserzioni sostenibili alla luce di
baluardi inconfutabili; ciò sarebbe in evidente contraddizione con il
presupposto fondante tutte le ipotesi che hanno natura nihilista/nichilista. Ė
ovvio che alla luce di tali presupposti teorici qualsiasi critica si voglia
muovere al saggio non può che avere na- tura esterna; infatti una critica interna
affonderebbe inesorabilmente nelle sabbie mobili di posizioni incerte, si
velerebbe nella nebbia di affermazioni tutte possibili e nessuna certa.
L’empiria vorrebbe imporre come certezze le affermazioni della perce- zione
umana, ma tali percezioni derivano dalla struttura organica dell’es- sere
umano, propria del mondo, che noi crediamo di conoscere e, comun- que, nel
quale viviamo; ma di tale mondo nulla si conosce, salvo il nostro percepito ed
il nostro percepito è presupposto di se stesso, pertanto non testabile a sua
volta empiricamente. Il reale, ammesso che esista un qual- che referente
empirico da attribuire a tale termine, potrebbe essere anche molto diverso e
maggiormente composito, come dimostrano altre forme di percezione animale ed
ulteriori possibili modalità ipotetiche percettive, da 1 M. Cacciari,
“Prefazione” ad A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, cit., p.
VIII. M. L. Ghezzi - P.S. Trappola
senza uscita: una riflessione sulle critiche ricevute 139 come viene immaginato
dall’essere umano. In altre parole, il saggio, pro- blematizzando il fondamento
euristico del metodo empirico, problematizza proprio anche l’a priori kantiano
e dubita delle sue categorie. Ciò tende a porre la ricerca empirica sul
medesimo piano di quella metafisica in quanto entrambe fondate su un a priori
indimostrabile. Infatti, giustamente Ema- nuele Severino parla di una struttura
originaria, che implica per necessità l’eternità, ed è proprio e soltanto a
questa struttura, che si può chiedere il fondamento dell’esistenza del soggetto
e dell’empiria. In termini religiosi il problema non muta: il divino intende
permeare l’umano in modo empi- ricamente comprensibile, trasformandolo? Pare
che ciò sino ad ora non sia mai avvenuto. In termini filosofici si ripete il
medesimo quesito: il meta- fisico riesce ad entrare nel fisico, trasformandolo
dialetticamente? Anche in questo caso la risposta sembra sino ad ora essere
negativa. Dunque il dualismo non può tramontare, almeno come ipotesi.
Ovviamente a questi dubbi mostra il fianco anche l’indiscutibile visione morale
di Kant: non fondabile teoreticamente a priori e per necessità re- lativa nella
sua comportamentalità pratica umana; infatti l’illustre filosofo cerca di
fondarla, pur fugacemente ed in modo quasi silente, nell’antropo- logia umana
del mi piace, nell’estetica, che appare essere la dimensione più originaria
(strutturale? ontologica?) dell’essere umano. Ma un macigno an- cora più grande
e pesante ostruisce la strada dell’etica, della morale (kan- tiana e non
kantiana) e del diritto: il tema del libero arbitrio. L’eventuale assenza di
libero arbitrio nell’essere umano cancella d’un solo colpo ogni dover essere ed
ogni prospettiva teleologica. Certo non si può asserire l’as- senza del libero
arbitrio, ma purtroppo non è neppure possibile affermare la sua presenza. Nel
dubbio, e scommettendo, fideisticamente, sulla possibile esistenza del libero
arbitrio, ciascuno può scegliere la propria convinzione e, quindi, la propria
strada da percorrere, ma dovrebbe anche avere ben chiaro che la sua scelta non
ha alcun fondamento euristico, ma solo esteti- co, ossia soggettivo e,
pertanto, è esclusivamente riferibile e vincolante per il solo soggetto, che ha
compiuto tale scelta. Il tema diviene centrale nel mondo del diritto, se si
attribuisce a quest’ultimo, come nella prospettiva di Carrino, una dimensione
teleologica; ma il telos (τέλος) è un fine, ossia un valore, una scelta ed è
proprio dell’assenza di fondamento etico o di qual- siasi altro tipo dei
valori, delle scelte, che si sta discutendo in questa sede. Di fronte al tema
teleologico del diritto pendono almeno due interrogativi, una di natura
prevalentemente politica e l’altra di natura eminentemente teoretica: Cui
prodest; a chi giova, a vantaggio di chi va la scelta compiuta? E, con
affermazione ancora più radicale: per quale motivo si dovrebbe re- putare
superiore, più auspicabile in assoluto il Cosmos, l’ordine rispetto al
140 Il diritto come estetica Caos, il disordine,
quando, come dimostra il pur discusso, in sede di scien- za fisica, principio
di entropia, è quest’ultimo quello verso cui si muove il nostro universo? Sono
mere preferenze soggettive, estetiche, appunto. Il diritto è ideologia e
l’ideologia è arbitrio personale o collettivo. Riguardo, in fine,
all’interpretazione data da Renner delle affermazioni di Emo, penso che vi sia
stato un fraintendimento, cosa, per altro, non stu- pefacente data la generale
oscurità e frammentarietà dell’opera di questo Autore. Emo si muove nello spirito
del Deus absconditus di Nicolò Cu- sano e, soprattutto, nel solco
dell’attualismo gentiliano, pertanto compie una sorta di rovesciamento
lessicale nel significato delle parole: ciò che afferma come negativo viene ad
esprimere una positività, ciò che è invi- sibile assume il ruolo di realtà
visibile, al contrario, il visibile si annienta, ciò che è nulla è il vero
essere e ciò che appare essere è nulla, etc.. Per- tanto tra fede e scienza
prevale euristicamente la fede, in quanto, negando l’apparente realtà
dell’essere può accedere alla realtà reale del nulla, che si presenta come il
vero essere, perché privo di presenza in quanto assoluto. A conferma di questa
pur complessa interpretazione testimoniano alcune affermazioni di Emo:
“L’incoscienza dei vegetali, delle specie viventi, è la loro unità panica col
tutto, che è appunto il paradiso terrestre, il giardino dell’Eden. Il dramma
della coscienza, che è il dramma della Presenza, è la cacciata dal paradiso
dell’unità panica, è il dramma della separazione, della negazione; ma appunto
perché la separazione è negazione, noi, mediante la negazione, possiamo
ritornare all’unità. La fede è fede nella potenza, nella sacralità della
negazione. La nostra colpa è la trasgressione e la sepa- razione; separazione
cioè negazione.”2. Ed ancora: “Il Dio nascosto, il Dio negativo, è già
implicito nel cristianesimo, religione antichissima che ha origine insieme
all’uomo; religione del Dio sacrificato che, per la logica stessa della sua
situazione, diviene religione del Dio che si sacrifica, cioè si nega. Il Dio la
cui attualità ed atto e realtà è il negarsi. Ed a sua immagine e somiglianza
sono gli uomini e il mondo.”3. Per quanto poi riguarda l’interpretazione che
Renner attribuisce al mio concetto di estetica (mi piace/non mi piace) debbo
dire che riflette esatta- mente quanto desideravo esporre. Infatti, con
estetica non intendo né un fugace capriccio, né una ludica superficialità e
neppure una occasionale propensione, bensì un profondo appagamento, un convinto
compiacimento dell’animo, un radicato benessere spirituale, una persistente
pace con se stessi. In sintesi, è un concetto che si avvicina molto al kalos
kai agathòs 2 A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, cit., p.
30. 3 A. Emo, op. cit., p.39. M. L.
Ghezzi - P.S. Trappola senza uscita: una riflessione sulle critiche ricevute
141 (καλòς καì αγαθός) degli antichi greci, nel quale ciò che era bello aveva
buone probabilità di essere anche buono. A mero titolo esemplificativo penso
possa essere utile all’interpretazio- ne fornire da parte mia uno scenario
concettuale per meglio comprendere i dubbi, che permeano le affermazioni
empiriche, ma anche quelle metafi- siche, che agitano questo lavoro.
Naturalmente tale scenario è ispirato ad alcune convinzioni proprie di chi
scrive, che, ovviamente, si presentano ar- bitrarie, soggettive, relative, come
quelle avanzate da qualsiasi altra perso- na. Procedendo con ordine, pare
doveroso iniziare il discorso da ciò che si crede di percepire vivendo: un
continuo movimento, oscuro nel significato, ma soprattutto, senza fondamenti di
certezza non solo sulla sua origine e direzione, ma addirittura anche sulla sua
stessa esistenza. Il treno della vita non consente discese ai passeggeri: non
possiede porte d’uscita e le finestre sono sigillate; non compie fermate; non
avvertì del- la partenza, ma neppure prevede stazioni d’arrivo. I passeggeri
ignorano come sia loro capitato di salirvi; non conoscono il luogo nel quale si
tro- vano e non sanno neppure nulla di se stessi: come funzionino, siano solo
il percepito o si sdoppino in soggetto ed oggetto; siano Tutto, un terminale
del Tutto o parte tra parti. Sentono, ma non hanno accesso alle fonti del
sentire. La fonte si localizza, oscillando tra spazi successivi, ed immagina le
successioni, il tempo. Eppure non vi è ancora forma, ma puro sentire senza
immagine: chi sente? Chi o cosa fornisce l’immagine, quando si presenta?
Tuttavia una qualche forma di immagine deve pur esistere come riferimento sia
del sog- getto, sia dell’oggetto, affinché anch’essi possano assumere una
propria immagine. La forza, l’energia oscilla senza sosta tra se stessa ed una
qualche forma, modulando la propria vibrazione, ma la forma è instabile e si
liquefa con- tinuamente nella forza, come ghiaccio nell’acqua. Se la forza
osserva vede la forma, che non esiste in se stessa, se non è osservata. Il
mondo sembra un osservatorio permanete, che osserva se stesso in un circolo
tautologico, che esiste nell’osservarsi e l’osservarsi è il solo esiste- re. Forza
e forma, due volti del medesimo fenomeno. La forma si dissolve nelle
metamorfosi e la forza persiste, ma non esiste come massa senza alienarsi nella
forma. Tra i due enti si instaura un vizioso legame mutualistico indissolubile,
nel quale il soggetto crea l’oggetto, ma l’oggetto modifica a sua volta il
soggetto. L’incontro dei due enti produce il fenomeno della consapevolezza, che
è solo consapevolezza di se stessi, ossia del soggetto/oggetto. Un se stesso,
oscillante tra tutto e parte, tra onda e particella, tra forza e forma, tra
energia e massa, che non ha identità fissa.
142 Il diritto come estetica Un soggetto indeterminato come l’oggetto privo di
osservatore, che è sog- getto di se stesso. Soggetto ed oggetto sono due
indeterminazioni, che si determinano reciprocamente, dando vita al percepire da
parte sia dell’uno che dell’altro. Il senso è la selezione dei fenomeni, che
costruisce oggetti e soggetti. Il tavolo si occulta sotto la tovaglia, ma la
tovaglia è materiale coprente men- tre significa pasto per l’essere umano, ma
l’essere umano è entità bipede senza piume, se avesse le piume sarebbe un capo
indiano o un uccello, ma un capo indiano o un uccello esistono, il primo sia in
India sia in America il secondo nel cielo, ma India, America e cielo sono solo
terra ed aria e terra ed aria sono composti di elementi chimici, ma gli
elementi chimici sono energia e massa, ma energia e massa sono vibrazioni. Le
forme si dissolvono. La trappola è l’apparire di un ente, che fugge oltre le
quinte (forse ver- gognandosi della propria oscenità – fuori dalla scena) di un
essere, il quale esiste nell’oscillare del nulla, al di là dell’essere e del
nulla (“[...] è nel determinato essente che il Nulla è Essere”4).
L’indeterminato si determina, sentendo se stesso, ma torna indeterminato appena
cessa di sentire; ecco perché non ha senso, perché è e resta indeterminato,
salvo che per se stesso per un breve lampo di sensazione, non di senso.L’arco
del cielo è sorretto da due colonne. Dal lato destro, la metafisica fornisce
abissale profondità a stelle, galassie e mondi; dal lato sinistro, l’empiria
avvicina l’abisso, presupponendone il fondo anche senza poterlo raggiungere.
L’empiria ci accompagna quotidianamente, nella vita di tutti i giorni,
fornendoci informazioni intorno all’ambiente, nel quale viviamo, ed a noi
stessi, alla nostra nascita, vita e morte. Informazioni che, quasi sem- pre,
non soddisfano per la loro oscurità ed incompletezza. L’essere umano possiede
un corpo, di cui manca il libretto d’istruzioni per l’uso. I problemi del
dolore e del senso dell’esistenza non trovano risposta certa e, forse, non
possono neppure trovarla in quanto argomenti sottratti alla ricerca em- pirica.
Non è possibile verificare/falsificare il valore di un biologico, che si decompone
progressivamente e diviene nutrimento di altro biologico. Il proprio e l’altrui
si fronteggiano fieramente come anelli di una catena, che li tiene separati, ma
strettamente legati; come componenti, appunto, di una catena, di cui non si
conosce né l’origine, né il fine e neppure il senso del suo esistere. Di fronte
al mistero l’empiria si arrende e si asserraglia nelle sue deboli certezze
pratiche, tecniche e strumentali, ma l’essere umano non demorde e cerca
risposte con o senza verificabilità/falsificabilità empirica. Si apre a questo
punto il mundus imaginalis1, ma anche l’Universo dell’i- deazione, della
creatività, della fantasia umana, la cui immaterialità è un suo elemento
costitutivo, proprio per sfuggire ai dubbi dell’empiria, non 1 L’espressione è
usata da Henry Corbin per indicare una realtà intermedia tra fisica e
metafisica, tra materia e spirito, una sorta di sintesi tra i due termini, che
non relega il trascendente nell’ambito dell’inesistenza.
16 Il diritto come estetica un inconveniente. Purtroppo
anche questa via si trova ostruita per l’essere umano, in quanto diretta o
verso una conoscenza superiore ed incompati- bile con quella umana o verso una
conoscenza individuale, soggettiva e, quindi, incerta, relativa e prospettica. In
sintesi, sia l’empiria, sia la metafi- sica svelano l’unica conoscenza umana
possibile, quella propria di Socrate e narrata da Platone nell’Apologia: so di
non sapere2. Può la psicologia umana accettare un verdetto tanto duro sul senso
della propria vita? Evidentemente no ed, infatti, le elaborazioni metafisiche
si sono moltiplicate, articolate e complicate nel tempo, mentre gli studi em-
pirici hanno continuato il loro corso senza aspirazione di completezza e di
assolutezza. Il fondamento di qualsiasi discorso continua a sfuggire e le
affermazioni fisiche e metafisiche restano come appese nel vuoto e da nulla
sorrette. Forse è proprio questa loro collocazione priva di alto e di basso,
che ne impedisce la definitiva caduta o, forse addirittura, che rende priva di
senso la domanda stessa sul fondamento. Un dato empirico tuttavia è certo: la
psicologia umana tende verso la certezza anche a costo di rinunziare al mondo
dei cinque sensi. Dunque, il metafisico è, in qualche misura, conna- turato con
l’essere umano come il fisico; è una componente, per così dire, strutturale
dell’antropologia. Nel mondo dell’etica, cui il diritto sino ad ora è
appartenuto, queste medesime problematiche hanno dato corpo all’ideologia ed
all’utopia, alla norma morale ed a quella giuridica, al diritto naturale ed al
diritto positivo, alla giustizia ed alla legalità, alla validità ed
all’efficacia del diritto, al do- ver essere ed al mi piace/non mi piace. Tutte
queste alternative esprimono la tensione tra il vissuto reale e le aspirazioni,
i desideri del soggetto. In particolare, l’ultima alternativa ricordata apre la
strada, che conduce dal diritto come obbligo al diritto come estetica. Lo
smascheramento del dover essere avviene con la constatazione empirica, che le
scelte umane sono 2 “Infatti, operando con una logica (quella apofatica) che
nega ogni proposizione assertiva (ed esaustiva) in merito alla verità di
qualsiasi ente – ma invece proponendovi l’inclusione di ogni possibilità – si
giunge a questo risultato che auspicava Nicolò Cusano con il suo De docta
ignorantia. Si giunge a un non-sapere che include ogni sapere e viceversa: allo
stesso modo in cui l’Essere-Uno – che non è un essere specifico – include in sé
tutti gli esseri a cui conferisce l’esistenza. Ma questo sapere non è,
gerarchicamente, estraneo e al di sopra dell’uomo – che ne verrebbe in qualche
modo dominato e esautorato – ma assolutamente intrinseco all’uomo stesso che ne
è, pienamente, partecipe, pur essendone abissalmente lontano. Così come il
molteplice è l’espressione ontologica dell’Uno di cui è la manifestazione
teofanica”. C. Bonvecchio, Le meditazioni abissali di Henry Corbin, in H.
Corbin, Il paradosso del monoteismo, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp.
14-15. Premessa 17 guidate dal piacere
e non dal dovere, anche se talvolta i due termini coinci- dono. Dover essere e
piacere divengono i due poli reali del disagio esisten- ziale umano e,
contemporaneamente, anche il tentativo di risolverlo. Solo di un tentativo
purtroppo si tratta. Il diritto come estetica non esclude, e non può escludere,
la dimensione metafisica, ma rafforza la descrittività empirica del
comportamento umano, consiglia maggiore consapevolezza psicologica dei limiti
conoscitivi uma- ni ed apre nuove prospettive di regolamentazione sociale. Ogni
demistificazione è un atto di liberazione della conoscenza, ma non è possibile
illudersi di poter superare gli ostacoli ultimi, che oscurano una visione sia
assoluta, sia relativa del mondo, cui apparteniamo. La dea Ananke (Aνάγκη), la
dea Tyche (Τύχη), le Parche, il Fato, il Destino, la Divina Provvidenza intanto
sorridono, interrogandosi intorno al determini- smo ed all’indeterminismo.
Ringraziamenti Al termine di questo mio lavoro voglio rivolgere un particolare
ringra- ziamento ad Emanuele Severino per la sua grande cortesia e
disponibilità ad ascoltare le mie riflessioni; ad Agostino Carrino per il
fraterno impegno con il quale ha setacciato i concetti del mio scritto,
evidenziando proble- matiche a me sfuggite, ed a Don Paolo Renner, che, tra i
moltissimi suoi impegni di misericordia, ha voluto aggiungere, con antica
amicizia, anche quello verso il mio scritto. Capo di Ponte, 11 novembre 2015La
frase, come risulta dalla lettera, riguarda esclusivamente l’Albero della
scienza, della conoscenza del bene e del male, non anche l’Albero della vita,
che pure era presente nel Giardino dell’Eden2. Di quest’ultimo, dunque, Adamo
ed Eva erano legittimati a mangiarne i frutti. Per ora la no- tazione può
apparire irrilevante, ma in seguito risulterà determinante, poi- ché evidenzia
che nel Paradiso terreste i nostri progenitori erano immortali ed, infatti,
compartecipavano della conoscenza divina. La prima evidenza che colpisce il
giurista nella narrazione biblica della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre,
dall’Eden è il concetto di colpa, la quale, per necessità logica, presuppone ed
è indissolubilmente legata ai concetti di conoscenza e di responsabilità. Se
l’albero, del quale mangiano il frutto, è l’albero della conoscenza del bene e
del male, ossia della consapevolezza morale del proprio comportamento, non si
compren- de come sia possibile emettere da parte di una divinità come da parte
di un essere umano un verdetto, una sentenza di condanna per azioni commesse 1
Genesi, 2, 15-17. 2 “Ora il Signore Dio sin da principio aveva piantato un
paradiso di delizia; ivi pose l’uomo da lui formato. Produsse il Signore Dio
dalla terra ogni albero bello a vedersi e buono a mangiarsi; inoltre, l’albero
della vita nel mezzo del paradiso, e l’albero della scienza del bene e del
male”. Genesi, 2, 8-9. 22 Il diritto
come estetica da esseri inconsapevoli, per così dire, innocenti dal punto di
vista sia del- la volontà, sia della conoscenza, in quanto, appunto, ignari dell’esistenza
stessa del contenuto dei concetti di bene e di male: disobbedire poteva essere
sia bene, sia male. Se la ragione, da cui la teoria giusnaturalistica ritiene
di dedurre le norme giuste, è la ragione divina nell’uomo e non la ragione
empirica, questa dottrina non può essere definita come razionalistica. [...].
Se è la ragione conoscitiva a statuire norme, su cui si fonda il valore del
bene e quindi il disvalore del male, allora la distinzione fra bene e male è
una funzione della conoscenza che statuisce norme, cioè della ragion pratica.
[...]. In questa versione, il concetto risale fino al mito dell’albero della
conoscenza: è infatti la conoscenza del bene e del male data a chi gusta i
frutti di quell’albero. [...]. L’essenza di Dio è nel fatto di sapere ciò che è
bene e ciò che è male; sapendolo, egli vuole anche che si faccia il bene e di
ometta il male. Il suo sapere coincide con il suo volere e la sua ragione è una
ragion pratica: è questa la ragione divina di cui l’uomo si appropria col
peccato originale3. Ma è proprio questa la ragione di cui si appropria,
mangiando la mela, l’essere umano o, piuttosto, esistono due diverse ragioni,
quella divina, universale, e quella umana, particolare, ed è della conquista di
quest’ul- tima, che il mito dell’Albero della conoscenza del bene e del male
parla? Probabilmente l’interpretazione della simbologia biblica deve spingersi
oltre, più in profondità, del concetto di acquisizione della responsabilità
(conoscenza del bene e del male) attraverso la colpa: un colpa che non pre-
suppone apparentemente l’esistenza di alcuna responsabilità e scaturisce da una
disobbedienza ad un comando. Forse, è proprio la nostra cultura, ormai
atavicamente assuefatta ad una eteronomia incentrata su divieti e sanzioni, a
condurci sulla strada di una interpretazione colpevolizzante del mito della
mela. Forse, il peccato originale altro non è che il nostro stesso esistere
come esseri umani e non divini e la metafora della mela, intesa come
nutrimento, atto tipico e specifico dell’essere vivente, sembra richia- mare
simbolicamente questa interpretazione. Probabilmente il senso esoterico del
brano biblico nasconde significati, che non sono meramente giuridici, ma
sconfinano nella riflessione filosofi- ca e nella materia teologica. Ogni
condanna prevede una responsabilità, che scaturisce direttamente dalla
consapevolezza e dalla conoscenza sia dell’azione che si compie, sia della
norma, che la vieta: so ciò che faccio e conosco ciò che si può fare e 3 H.
Kelsen, Il problema della giustizia, Einaudi, Torino 1975, pp. 90-91.
La mela, il serpente ed il buon Dio 23 ciò
che non si può fare; ciò che si può fare è bene, ciò che non si può fare è
male. Ma bene e male possiedono almeno due diverse dimensioni: quella assoluta
del bene e del male universale e quella relativa del bene e del male propria di
colui che agisce, del suo modo di sentire, di vedere, di giudicare gli eventi
ed i comportamenti. Dio disse di non mangiare: sembra un comando eteronomo e,
quindi, in quanto tale, pare contrapporre un divieto divino ad un giudizio e
compor- tamento umano. Questa interpretazione, per altro condivisa anche da Alf
Ross (1899-1979)4, viene rafforzata dalla presunta sanzione comminata: se ne
mangerai morirai. Ma si tratta effettivamente di una norma giuridica o morale
dotata di sanzione oppure si tratta di un mero avvertimento, della descrizione
di una sorta di legge naturale, come quelle che derivano da teorie scientifiche
e che prevedono, ad esempio, il moto degli astri? In altre parole si tratta di
un comando o di una descrizione? Per rispondere alla domanda è necessario
risalire alla situazione di Adamo ed Eva rispetto a Dio nell’Eden. Non era una
situazione di separazione, ma di unione; non vi era individualità, ma
comunione; conseguentemente, l’unica conoscen- za esistente era quella divina,
che permeava, proveniente da Dio, anche Adamo ed Eva. Conoscere e volere,
dunque, erano la stessa cosa non solo per Dio, ma anche per Adamo ed Eva ed in
una tale situazione un comando eteronomo è del tutto privo di senso; in primo
luogo, perché non può essere eteronomo, in quanto vi è comunione, ed, in
secondo luogo, perché un co- mando comporta volontà diverse, mentre, in questo
caso, come vi era una sola conoscenza così vi era anche una sola volontà.
Desiderando il frutto dell’albero, torniamo alla realtà del sospetto, cioè allo
svincolare la conoscenza dall’amore e ad impiegarla ai fini dell’autoafferma-
zione dell’individualità. Una conoscenza contemplativa è una conoscenza del
buono, del bello e del vero. La conoscenza contemplativa è una conoscenza della
pace, perché è la conoscenza del riconoscimento dell’altro, dunque non può
essere a fin di male. La conoscenza contemplativa che Dio propone all’uo- mo,
sua immagine, è una conoscenza sapienziale, che ha in sé una dimensione assiologia,
cioè di valutazione del bene e del male. Ma l’uomo ha questa co- noscenza già
in quanto amico di Dio, sua immagine, e può sempre contem- 4 “Il peccato nacque
quando l’uomo violò il divieto, assolutamente arbitrario e irragionevole, di
Dio di mangiare il frutto di un certo albero che gli avrebbe dato una
conoscenza che era di Dio stesso. Peccato significa dunque disobbedienza, pura
e semplice volontà propria, autodecisione e per questo peccato Adamo ed Eva e
la loro discendenza venivano puniti in eterno nel modo più crudele. Tutti
dovevano subire l’ira di Dio ed essere affetti dal peccato originale”. A. Ross,
Colpa, responsabilità e pena, Giuffrè, Milano 1972, p. 19.
24 Il diritto come estetica plarla nell’albero della
conoscenza del bene e del male. Il bene e il male sono conosciuti dall’uomo
insieme a Dio, suo Creatore, e in lui. Anzi, l’unica giusta conoscenza del bene
e del male è quella che l’uomo contempla in Dio. È con gli occhi di Dio che
l’uomo vede il bene ed il male. Ma guardare con gli occhi di un altro e gioire
di questa intimità è proprio delle persone che si amano. Nell’a- more è la
tendenza a conoscere attraverso l’amore dell’altro e con il suo amore. Proprio
nel fatto che l’uomo può guardare l’albero della conoscenza del bene e del
male, perché proprio lì in qualche maniera si incrociano gli sguar- di tra Dio
e l’uomo, c’è la possibilità dell’idolatria, quindi di una tentazione. Guardare
può diventare desiderare, e desiderare prendere5. Il rapporto tra Dio e
l’essere umano in quella dimensione di equilibrio creazionistico, tutto
racchiuso nello spazio/tempo divino dell’Eden, era di completa
compartecipazione, e non proprio di identità (a sua immagine e somiglianza).
L’identità dell’immagine non appartiene ad un semplice fenomeno visivo, ma si
estende anche alla dimensione cognitiva, sebbene non in modo completo
(somiglianza). Il derivato non partecipa a pieno titolo di tutti i caratteri
del derivante, ma certo ne incarna una rilevante porzione. Conseguentemente
Adamo ed Eva non erano privi di conoscenza e, quindi, anche di responsabilità,
ma partecipavano della medesima cono- scenza divina, della conoscenza propria
dell’Uno e del Tutto. L’uomo abbandonerà Dio e la proposta della tentazione
acquisterà sempre più un aspetto di verità [...]. Poiché l’uomo non è più nella
contemplazione dell’albero della conoscenza, ma è ormai scivolato nella logica
della posses- sione, gli rimane solo il male, ossia la necessità di possedere.
Sganciandosi dall’amore, da quella intimità con Dio nella quale ha potuto
conoscere che cosa è bene e che cosa è male per lui, finisce essenzialmente
posseduto dalla necessità di possedere per salvarsi6. La conoscenza divina,
della quale erano compartecipi nell’Eden Adamo ed Eva, era universale,
assoluta, non prospettica, ma posseduta a tutto ton- do nella dimensione della
totalità degli eventi di un Essere, che racchiude in sé ogni evento7. Il
comando, dunque, di non mangiare la mela, la proibi- zione non si presenta come
un atto di volontà eteronoma rispetto ad Adamo 5 M.I. Rupnik, Dire l’uomo.
Persona, cultura della Pasqua, Lipa, Roma 2011, vol. I, pp. 227-228. 6 M.I.
Rupnik , op cit., p. 230. 7 “Il Dio degli Dei, lo Spirito assoluto, permane in
eterno, al di là della conoscenza che può averne la religione in questo mondo.
La storia non è il luogo del divenire della coscienza divina suprema”. H.
Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 74.
La mela, il serpente ed il buon Dio 25 ed Eva, ma come una
informazione, un avvertimento, una descrizione di ciò che avviene quando
dall’unità si passa alla molteplicità, quando l’asso- luto cede il passo al
relativo. Né vi è sanzione nel monito di Dio; ciò che appare come condanna
altro non è se non descrizione di ciò che accade nel relativo, di ciò che
produce, di ciò che è il relativo, ossia l’umano. La mela è un frutto
commestibile, che allieta e nutre il palato umano, quindi potrebbe
simboleggiare quella conoscenza tutta umana e relativa, richiamata anche dalla
leggendaria mela di Isaac Newton (1642-1727), in contrapposizione ad una
conoscenza divina ed assoluta. Adamo ed Eva, mangiando la mela, decidono di
abbandonare l’unione con il divino, per vivere una propria vita separata,
individuale ed autonoma, dotata, quindi, di una propria conoscenza soggettiva e
prospettica, non più oggettiva e completa. Nel racconto del peccato originale,
la tentazione spinge l’uomo a spostare l’attenzione da Dio all’albero – cioè
dalla persona all’oggetto – e a fissarsi sull’oggetto. Prima l’uomo parlava con
Dio e a Dio, poi comincia a contrat- tare con la tentazione, per finire col
ritrovarsi a desiderare l’oggetto – l’albero – come se fosse la sua salvezza.
L’interlocutore ontologico dell’uomo non è più un principio agapico assoluto,
ma una realtà oggettuale. L’uomo diventa ciò che contempla. Come è il suo
interlocutore fondamentale, così è l’uomo. Poiché l’uomo è una realtà
dialogica, non può fare a meno del dialogo, ma tutto dipende da chi è
l’interlocutore di questo dialogo. Se è un oggetto, l’uomo diventerà sempre più
un oggetto. Percepirà se stesso come un oggetto e si rela- zionerà agli altri
come ad oggetti. Anzi, li considererà come suoi oggetti. Ogni peccato commesso
dopo il peccato originale sarà un passo ulteriore in questa reificazione
spersonalizzante dell’uomo8. La ribellione al comando divino (meglio, l’avere
ignorato la descrizio- ne divina) non consiste nell’infrangere un divieto, ma
nel desiderare una propria personalità individuale, separata dal Tutto,
soggettiva, ma questa soggettività si trasforma in oggetto del Tutto;
abbandonata la soggettività del Tutto ciò che resta, come parte, è una
soggettività relativa, ossia una reificazione rispetto al Tutto: il peccato
originale, infatti, si presenta come separazione, rottura del Tutto nelle sue
molteplici parti, come oggetti della soggettività universale. Una prima rottura
nel creato (diversa la rottura dell’Uno prodotta dalla creazione, poiché essa
fu anche rottura, salto qualitativo, di sostanze: so- miglianza con Dio, non
identità) era già avvenuta con la comparsa di Eva: 8 M.I. Rupnik, Dire l’uomo.
Persona, cultura della Pasqua, cit., pp. 233-234.
26 Il diritto come estetica Mandò dunque il Signore Dio ad Adamo
un sonno profondo; ed essendosi egli addormentato, gli tolse una delle coste, e
ne riempì il luogo con della carne. E con la costa che aveva tolta ad Adamo,
formò il Signore Dio una donna, e gliela presentò. E disse Adamo: “Ecco, questo
è un osso delle mie ossa, e carne della mia carne; questa sarà chiamata virago,
perché è stata tratta dall’uomo. Perciò l’uomo lascerà il padre e la madre, e
si stringerà alla sua moglie, e saranno due in un corpo solo”9. Tale rottura,
tuttavia, non si manifesta come irrimediabile, poiché frutto di una medesima
sostanza, la costola di Adamo appunto, che riconduce ad unità ciò che appare
altro, diverso, separato (saranno due in un corpo solo; rebis di alchemica
ispirazione). Ed, infatti, è proprio questo diverso, separato in apparenza, ma
pur sempre composto della medesima sostanza, a patrocinare ed ad attivare la
rottura: è il due che rompe l’unità e la rompe per attrattiva verso
l’individualità, una individualità nuova, il due, appun- to. Il serpente sembra
rappresentare questa attrazione verso il particolare, verso la separazione
(diavolo da diabolos, διάβαλος, colui che divide). La massa della materia (il
serpente) si separa nelle sue parti, forme e qualità dall’energia omogenea e
priva di forme (la Divinità) o, se si preferisce, i corpi si separano dallo
spirito universale. Pare di vivere nel mito l’equa- zione di Albert Einstein
(1879-1955) della conversione, dell’oscillazione, della compresenza (tra?) di
energia e massa in un sistema fisico, che ha su- perato la visione propria di
un materialismo legato solo al visibile, all’og- gettivato: E=mc2. Henry Corbin
(1903-1978) ben sintetizza il tema dell’individualizzazio- ne,
dell’oggettivizzazione nel paradosso (ossimoro?) dell’unità molteplice: 9
È la visione della molteplicità nell’unità. [...]. È la visione dell’unità
nella molteplicità. Le due interpretazioni si completano l’un l’altra
necessariamen- te: l’ontologia integrale presuppone nel perfetto Saggio la
visione simultanea dell’unità nella pluralità e della pluralità nell’unità. È
attraverso questa simul- taneità che si effettua la differenziazione seconda,
quella stessa in forza della Genesi, 2, 21-24.
La mela, il serpente ed il buon Dio 27 quale il pluralismo metafisico si
trova fondato a partire dall’Uno – senza di esso non vi sarebbero i molti, ma
caos e indifferenziazione10. I nostri simbolici progenitori, Adamo ed Eva,
nell’abbandonare la cono- scenza divina, assumono, come loro conoscenza
specifica, quella umana e, dunque, divengono prigionieri di tale conoscenza
limitata, che comporta anche la comparsa di fatiche, dolori e morte. La
separazione è un divenire altro dal Tutto, conseguentemente, all’immutabilità
dell’Essere subentra il divenire con le sue opposizioni, polarizzazioni: essere
e non essere, fatica e riposo, dolore e piacere, morte e vita, etc.. Il
divenire non può esistere senza l’alternarsi di manifestazioni diverse, ossia,
soprattutto, non può esi- stere senza la morte, intesa come termine di una
manifestazione ed inizio di una nuova manifestazione. La morte, dunque, come
nell’ammonimento di Dio, è indissolubilmente legata alla conoscenza umana,
simbolicamente rappresentata dal cibarsi della mela. A questo punto risulta
ormai eviden- te che Adamo ed Eva non potranno più cibarsi dei frutti
dell’altro albero presente nell’Eden, dell’Albero della vita, dei quali sino a
quel momento potevano godere. I frutti dell’Albero della vita donano la vita
eterna, ma la conoscenza ed il divenire umani impediscono l’eternità, ciò che è
eterno non conosce solo la parte, ma conosce direttamente il Tutto, e non
diviene, ma permane sempre immutato uguale a se stesso. La parte, in quanto
limi- tata non può sfuggire alla morte. Particolarmente penetrante si presenta
la puntualizzazione di Friedrich W. Nietzsche (1844-1900): L’albero della
conoscenza. – Verosimiglianza, ma non verità: parvenza di libertà – è per questi
due frutti che l’albero della conoscenza non può venir scambiato per l’albero
della vita11. Alle considerazioni mitologico-religiose sino a questo punto
svolte pos- sono ora essere aggiunte altre ed ulteriori considerazioni di
natura più stret- tamente filosofica. Se il divenire condanna, prima, la parte
a distinguersi da un’altra parte e, successivamente, la stessa parte ad essere
se stessa e, poi, a trasformarsi in altro, allora il divenire appare come un
alternarsi di essere e di non essere. Il tema è antico e vide già contrapposti
il pensiero di Eraclito (535 a.C.-476 a.C.), con il suo tutto scorre, panta rei
(πάντα ρει), a quello di Parmenide (544 a.C.-459 a.C.), sostenitore di un
Essere che non può non essere. Effettivamente anche nella realtà empiricamente
rilevabile il non 10 H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 39. 11 F.
Nietzsche, Umano, troppo umano II, in Opere 1870/1881, Newton, Roma 1993, p.
797. 28 Il diritto come estetica essere
è di problematica individuazione. Rilevabile, invece, con estrema facilità è
l’essere e l’essere altro come espressione del divenire. Ma a livel- lo logico,
secondo il principio di identità, l’essere è solo se stesso e l’essere altro
non è continuità dell’essere iniziale, ma un diverso essere a sua volta uguale
solo a se stesso. La logica parmenidea, ampiamente sviluppata ai nostri giorni
da Emanuele Severino12, nega nella sostanza il divenire e co- struisce una
logica di identità degli eterni, che si separa e distingue dalla logica
dialettica del divenire. La logica degli eterni si addice ad un mondo
metafisico, proprio del divino; mentre la logica dialettica, empiricamente
verificabile/falsificabile, pare tipica degli esseri umani. Commentando Corbin,
Claudio Bonvecchio in proposito ricorda: [...] oltre che teologica – la
modalità catafatica [affermativa n.d.r.] di rap- portarsi al divino ha
costruito una vera e propria logica (di ascendenza aristote- lico-scientifica).
Anzi, si può affermare che si è affermata come la base stessa della logica occidentale
in quanto sostiene (apoditticamente oltre che dogmati- camente) – nella
costruzione del discorso – la possibilità di affermare in manie- ra
indiscutibile le caratteristiche di un ente. Caratteristiche che ne esprimono
la verità che si ritiene assoluta, se si ottemperano determinate condizioni
logico- razionali (principio di non contraddizione, principio del terzo
escluso, etc.). Tuttavia, questa verità [...] non consente mai un rapporto
partecipativo con l’Essere. Infatti, esclude dal discorso [...] la dimensione
dell’Essere che è l’u- nica che fa di un ente un ente esistente13. Ciò che
conta tuttavia, ai fini delle presenti riflessioni non è tanto l’af- fermarsi
nella storia umana dell’una o dell’altra logica, quanto piuttosto la
constatazione che anche a livello filosofico emerge la possibilità di un
dualismo logico non dissimile da quello evidenziato nell’episodio biblico del
Giardino dell’Eden. Sul piano filosofico il legame tra l’Albero della
conoscenza del bene e del male e quello della vita appare ancora più
indissolubile che nel testo bi- blico. Infatti, è la stessa logica conoscitiva
umana del divenire, che trascina con sé, come compagna inseparabile, la morte.
Ciò che diviene possiede un inizio ed una fine, prima non esiste, poi esiste,
quindi torna nel nulla. Non è questa la logica conoscitiva del divino, nella
quale ciò che è, lo è per sempre, dall’eternità e nell’eternità. Scrive Massimo
Donà: 12 Cfr. E. Severino, Immortalità e destino, Rizzoli, Milano 2006. Ed
anche del medesimo Autore: L’identità del destino, Rizzoli, Milano 2009. 13 C.
Bonvecchio, Le meditazioni abissali di Henry Corbin, in H. Corbin, Il paradosso
del monoteismo, cit., p. 12. La mela,
il serpente ed il buon Dio 29 [...], nel testo biblico l’Albero della Vita o delle
vite, al plurale, come dice in verità l’Antico Testamento – a indicare, molto
probabilmente, l’infinito distin- guersi del principio – allude ad una verità
che solo l’Albero della Conoscenza avrebbe potuto spingerci a ridire. Facendoci
innanzitutto tradire quel senso di infinita apertura verso un futuro sempre
ancora possibile che caratterizza ap- punto l’Albero della Vita. Ossia, la
speranza in una rigenerazione in grado di negare la definitività connessa ad
ogni supposto improbabile compimento; in primis quello costituito dalla morte.
Ecco perché l’Albero della Conoscenza avrebbe reso mortale il soggetto che
avesse voluto cibarsi dei suoi frutti. Perché il logos umano, troppo umano, da
quest’ultimo (dall’Albero della Conoscenza) rappresentato, è costitutivamente
portato a credere nell’intrascendibilità delle distinzioni e dunque a fare
dello stesso distinguersi in quanto tale il principio incontrovertibile
dell’esistere. Per questo, proprio dicendo tale intrascendibilità, il logos
avrebbe dovuto comunque riconoscere il limite costitutivamente caratterizzante
il suo stesso orizzonte, concependo anche quest’ultimo come essenzialmente
limitato – os- sia, distinto. Finendo così per negare finanche la sua stessa
intrascendibilità. Ed instituendo l’impossibile per eccellenza: ossia un nulla
posto di là dalla po- sitività di tutto quel che è – un nulla concepito, esso
medesimo, dunque come positivo. E perciò valevole come perfetta metafora del
male assoluto14. Dunque, non solo la riflessione religiosa, si potrebbe dire
teologica, ri- leva la presenza, almeno potenziale, nell’essere umano di ben
due diverse logiche, ma anche l’analisi filosofica giunge alla medesima
conclusione. Alla logica dell’Essere Assoluto si giustappone la logica del
divenire, dell’essere altro. La prima si presenta meramente razionale, priva di
possi- bilità empiriche di verifica/falsificazione, tutta dispiegata intorno a
principi considerati indiscutibilmente veri ed evidenti senza ulteriori
necessità di- mostrative; principi che nella terminologia kantiana possono
essere definiti a priori. La seconda, invece, completamente costruita a
posteriori, grazie alla percezione empirica del divenire, alla rilevazione, si
potrebbe dire, sempre in terminologia kantiana, categoriale degli eventi. Quest’ultima
lo- gica si limita a descrivere una realtà fenomenologica umana e, come tale,
relativa, quindi, senza pretese di accesso conoscitivo ad ipotetiche realtà
assolute e metafisiche. L’indissolubile legame, sostenuto dalla logica
dell’Assoluto, tra l’Albe- ro della Conoscenza e la realtà di separazione
sembra ribadito dalla Bibbia anche nell’episodio simbolico della costruzione e
del crollo della Torre di Babele. L’unione tra terra e cielo, già simboleggiata
dall’albero, qualsiasi albero (Yggdrasil, l’albero di Natale, etc.), viene
ricercata, in questo caso, 14 M. Donà (a cura di), Parmenide. Dell’essere e del
nulla, Albo Versorio, Milano 2012, pp. 94-95.
30 Il diritto come estetica attraverso un’opera di architettura, che
sfida altezza e forza di gravità, ma nel crollo di questo asse umano-divino si
dissolve l’universalità della pa- rola, intesa anche nella sua accezione più
estesa di logos, la sua capacità creatrice e comunicatrice universale. La terra
era tutta d’una sola lingua e d’una sola parlata. [...]. Ma il Signore discese
per vedere la città e la torre che i figli di Adamo stavano edificando, e
disse: “Ecco, è un popolo solo, ed ha una lingua sola per tutti; hanno
cominciato a far questo lavoro, né desisteranno dal loro pensiero sinché non
l’abbiano condotto a termine. Andiamo dunque, discendiamo, e confondiamo ivi le
loro lingue, così che nessuno più comprenda la parola del prossimo suo”15. Il
Tutto diviso in parti si differenzia e perde di unitarietà. Ciascuno divie- ne
consapevole di sé, ma solo di se stesso; gli altri mutano in esseri ignoti,
estranei. La metafora della confusione delle lingue, ancora una volta, non
suona come condanna divina, ma come descrizione delle conseguenze de- rivate
dalla separazione delle parti dal Tutto16. L’essere umano, in quanto parte del
Tutto, non ha né colpe, né meriti, ma solo caratteri suoi propri, che si
separano e divergono da quelli divini: 15 Genesi, 11, 1 e 5-7. 16 “Diventare un
solo popolo, sotto una istituzione – la lingua sola – è qui, chiaramente,
l’espressione della hýbris degli uomini, del loro istinto auto- idolatrico:
così chiaramente che non viene nemmeno detto, ma sottinteso. Ma la questione
più interessante, sulla quale ha richiamato l’attenzione Stefano Levi della
Torre nel suo splendido e illuminante Zone di turbolenza, è se la misura presa
da Dio – la dispersione su tutta la terra e la confusione delle lingue – sia la
punizione per un grande male (come nel caso di Caino reso ramingo e fuggiasco)
o la garanzia di un grande bene. L’interpretazione di Stefano Levi, in breve, è
che la distruzione della città dell’onnipotenza, la moltiplicazione delle
lingue, rese incomprensibili l’una all’altra, e la dispersione dei popoli in
lungo e in largo sulla terra, tutto ciò è una moltiplicazione delle culture e
delle istituzioni, un antidoto all’idolatria del pensiero e del potere unico,
una garanzia di pluralità delle visioni del mondo e del modo di vivere nel
mondo. Secondo questa profonda interpretazione, la civitas maxima non è altro
che idolatria”. G. Zagrebelschy, La virtù del dubbio, Editori Laterza,
Roma-Bari 2007, pp. 134-135. La mela,
il serpente ed il buon Dio 31 è relativo e non assoluto; è finito e non
infinito; possiede una conoscenza limitata e non universale. In conseguenza di
queste considerazioni risulta chiaro che gli avvenimenti drammatici, che videro
come scenario il Para- diso terreste, non possono essere incasellati nella
concatenazione di eventi, che accomuna il diritto e la morale: alla colpa
consegue la responsabilità del soggetto agente, al quale, proprio in quanto
responsabile, viene appli- cata la pena. Questi concetti vengono chiaramente
espressi a livello sia morale che giuridico da Alf Ross (1899-1979): L’idea che
esista una responsabilità morale, è identica all’idea della respon- sabilità
giuridica, è l’espressione di una prescrizione normativa per cui la colpa viene
collegata con le conseguenze della colpa, cioè con la pena che qui si chiama
riprovazione17. Ed ancora in modo più esplicito: Quando si fa valere una
responsabilità, ciò avviene sempre con la motiva- zione che qualcosa fu
commessa che, secondo un determinato ordinamento normativo, non sarebbe dovuta
accadere, qualcosa di riprovevole o proibito che, di conseguenza, dà motivo a
quella reazione che consiste nel far valere la responsabilità18. Nel caso
dell’Eden, come si è detto, non pare che ci si trovi in questa situazione, non
solo perché viene meno l’uso tecnico della terminologia giuridica (colpa,
responsabilità), ma anche, e soprattutto, perché manca la norma vincolante, il
divieto. Infatti, l’interdetto pronunziato da Dio, proprio per il suo carattere
che unisce conoscenza e volontà, non può essere considerato un comando, ossia
una norma, ma più semplicemente una informazione, un avvertimento, al massimo,
un consiglio. Si tratta cioè di una frase ipotetica (se mangi la mela divieni
mortale) tesa a de- scrivere gli avvenimenti conseguenti all’azione segnalata
come perico- losa. Del resto, come avrebbe potuto Dio formulare un comando a
dei soggetti che, prima dello strappo, della rottura, partecipavano della sua
stessa conoscenza e volontà? Dunque, se non vi fu comando, norma, non vi fu
neppure colpa, in quanto mancò la violazione, la disobbedienza. Vi fu, invece,
responsabilità per l’azione compiuta, ma la natura umana di Adamo ed Eva
avrebbe potuto consentire loro di compiere una scelta diversa? La risposta deve
essere rinviata, in quanto strettamente dipen- 17 A. Ross, Colpa,
responsabilità e pena, cit., p. 49. 18 A. Ross, op. cit., p. 29.
32 Il diritto come estetica dente dalle convinzioni
intorno all’esistenza o meno del libero arbitrio. Ovviamente, se non vi fu
colpa non è neppure possibile reputare la tri- ste condizione umana come una
pena inflitta dal Creatore alle proprie creature. Piuttosto si tratta di
considerare la stessa natura umana come caratterizzata, nei propri intrinseci
limiti, in quanto parte di un Tutto mol- teplice e differenziato, appunto,
anche in qualità diverse. Per fornire un paragone pur imperfetto: rispetto alla
media statistica degli esseri umani il fenomeno dell’albinismo è minoritario
ed, in quanto tale, appare come uno svantaggio genetico, ma può veramente
essere considerato sempli- cemente uno svantaggio esistenziale o potrebbe anche
essere visto come una articolazione qualitativa del genere umano, dotata a
propria volta di taluni vantaggi soggettivi, sui quali tendiamo a non
soffermarci per pigrizia culturale? L’interpretazione di comando (norma), di
colpa e di, conseguente, punizione (pena) divina pare prodotta da una cultura
umana troppo governata da una autoflagellazione di natura, prima, etica e, poi,
giuridica; del resto, questa interpretazione prevalente punitiva della cac-
ciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre ed anche della distruzione della Torre
di Babele e relativa confusione delle lingue non può stupire in un mondo sempre
più giuridicizzato, quale è il mondo attuale. Che la parte ed il tutto siano
distinguibili sia teoreticamente, sia empi- ricamente è nozione inconfutabile
anche, ad esempio, a livello geometri- co; così come è inconfutabile che la
parte, almeno quella umana, possieda una consapevolezza, più o meno veritiera,
del proprio esistere (cogito ergo sum) e non certo solo per l’autorità di René
Descartes (1596-1650); altra e ben diversa questione è comprendere se esista e
che caratteri manifesti la consapevolezza di se stesso propria del Tutto. Certo
la parte partecipa del Tutto e, quindi, pare arduo pensare che ad una limitata
consapevolezza della parte non corrisponda una illimitata consapevolezza del
Tutto, pur tuttavia nulla può essere escluso senza l’evidenza di prove
comprensibili alla mente umana ed, inoltre, resta comunque impregiudicato il
tema della qualità, delle caratteristiche di questa eventuale consapevolezza.
Lo Spirito, Dio, l’Energia sicuramente non possiedono un carattere di
autocoscienza, di consapevolezza uguale a quello proprio dell’essere uma- no,
ma neppure la massa (materia individualizzata) possiede livelli omo- genei di
autocoscienza, di consapevolezza, almeno per quanto si conosce attualmente,
nelle sue molteplici articolazioni, nelle sue diverse parti. I minerali, i
vegetali, gli animali e l’animale umano percepiscono se stessi ed il mondo a
loro presupposto esterno in modi molto diversi ed in modi altrettanto diversi
reagiscono, interagiscono con l’ambiente circostante. Il Tutto, come somma di
tutte le singole parti o come entità ulteriore, può, e
La mela, il serpente ed il buon Dio 33 secondo quali modalità,
percepire se stesso? Una possibile risposta passa attraverso il concetto di
Spirito o di Energia che, permeando ogni cosa, ogni fenomeno, pur in quantità
e, forse, anche in qualità diversa, consente questa generale, universale
consapevolezza eterna di sé; una sorta di anima individuale, ma universale
(sembra un ossimoro, ma è solo prospettiva di- versa), di anima mundi. Bene e
male rappresentano una dualità, che acquista significato solo in un mondo
scisso, a sua volta, in un bipolarismo oscillante tra un polo, espressione di
assoluto, ed un secondo polo, espressione di relativo, il qua- le subisce il
giudizio del primo: buono o cattivo, appunto, rispettivamente nelle sue singole
e molteplici manifestazioni comportamentali. Quest’ulti- mo bipolarismo non
riguarda solo la distinzione tra dover essere ed essere, ma si articola
ulteriormente in quel dualismo del dover essere perennemen- te in tensione tra
valori assoluti e valori relativi: i primi frutto della dimen- sione assoluta
del Tutto ed i secondi propri della dimensione relativa delle parti del Tutto.
La dimensione relativa della bipolarità etica consente solo l’espressione di
formule valoriali a contenuto soggettivo, cioè proprie del soggetto, della
parte che le esprime; del resto anche la dimensione assoluta non riesce a
fornire un contenuto etico certo, ma si limita a proporre for- mule o
dogmatiche oppure vuote di contenuto, prive di precise indicazioni
comportamentali, come, ad esempio, il noto broccardo del diritto romano intorno
alla giustizia: unicuique suum tribuere. Il problema irrisolto riguar- da il
significato, cosa si intenda per suum, oltre, ovviamente alla discutibi- lità
del principio generale, che potrebbe anche consistere nell’attribuire a
ciascuno l’altrui e non il proprio o, addirittura non riconoscere l’esistenza
di un proprio. Il problema può essere superato solo distinguendo la cono-
scenza umana, cui si riferiscono queste aporie, dalla conoscenza divina, che,
in quanto assoluta, non può incorrere in esse. Certo tale conoscenza non può
competere all’essere umano se non per fede o per rivelazione, ma qui il tema si
complica, poiché nella storia della cultura umana spesso l’e- sistenza stessa
dell’Assoluto, del metafisico, in quanto non empiricamente percepibile e,
quindi, problematico per la conoscenza umana, è stata messa in discussione.
Pertanto questo argomento si è sviluppato secondo due di- versi percorsi
culturali, l’uno monista e l’altro dualista; il primo sostenitore di una realtà
unitaria, nella quale fisica e metafisica si sintetizzano o si escludono a
vicenda, ed il secondo portatore di una visione separata dei due piani del
reale, anche se in qualche modo comunicanti tra loro; ma di ciò si tratterà tra
poco. Oltre alla possibilità alternativa dell’esistenza di una logica divina e
di una umana si presenta anche l’ipotesi di una vera e propria assenza di
lo- 34 Il diritto come estetica gica, come
risultato dell’inconoscibilità dell’Assoluto; un Assoluto che è solo silenzio,
oscuramento della conoscenza umana, come suggerisce Ni- colò Cusano (1401-1464)
con l’ipotesi del Dio nascosto (absconditus): Né ha nome, né non ha nome, né ha
nome e non nome. Ma quanto può dirsi disgiuntamente e copulativamente, per
accordo o disaccordo, non gli conviene, per incommensurabilità di sua infinità,
perché è principio uno, anteriore ad ogni concetto su esso formulabile19.
Abbandonato il Paradiso terrestre da parte di Adamo ed Eva, non solo subentra
la logica umana, il divenire e la morte al posto dell’unione con il divino,
l’eternità statica e la vita eterna, ma la rottura porta con se stessa anche
l’estraneazione dall’Assoluto, che assume una dimensione impe- netrabile,
misteriosa. L’Assoluto creatore si pone prima di ogni creato e di ogni creatura
e, quindi, anche prima di qualsiasi logica e razionalità. L’Increato non
appartiene al mondo empirico, ma neppure al metafisico pensato od al metafisico
alienato nella creazione. Esso appartiene solo a se stesso ed all’insondabile
abisso, che separa l’Assoluto dal relativo, il Tutto dalle sue parti. 19
N. Cusano, Il Dio nascosto, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 37.
2. MONISMO E DUALISMO DEL MONDO Carcharias Taurus è il
nome scientifico del meglio conosciuto squalo toro, il quale possiede una
caratteristica, che può farlo assurgere ad icona, ad emblema della natura
biologica. Lo squalo toro, infatti, è noto per prati- care il cannibalismo
intrauterino; ossia l’embrione dominante si nutre delle uova e degli altri
embrioni presenti nell’utero materno. Tale pratica non può stupire nel mondo
biologico, giacché il biologico si nutre solo di altro biologico (salvo la
fotosintesi clorofilliana). La vita è, dunque, indissolu- bilmente legata alla
morte in un perenne solve et coagula, nel quale vige la locuzione latina mors
tua vita mea. La fine di un essere vivente costituisce la possibilità di
sopravvivenza per un altro essere vivente. Talvolta, poi, il ciclo vitale si
esaurisce direttamente con la procreazione, evidenziando in tale modo
l’irrilevanza della vita del singolo individuo e la sua funziona- lità
esclusivamente orientata alla continuazione della specie. Lo scenario di morte,
nel quale viene ambientata la vita biologica, si completa anche con la lotta
per la vita, che pervade, permea ogni entità vivente. La lotta si dispiega
all’esterno dei corpi per l’approvvigionamento di cibo, che si concretizza in
una forma di dominio del più forte sul più debole, ma anche al loro interno,
poiché miliardi di microorganismi (batteri, virus, funghi e parassiti vari)
combattono continuamente, senza sosta contro le difese immunitarie dei corpi,
che li contengono, per la propria sopravvivenza. Talvolta, pur nelle loro
ridottissime dimensioni, riescono ad avere il so- pravvento, dimostrandosi più
forti del loro ospite, ma, più frequentemente, soccombono, eppure non si
estinguono, se non raramente, grazie alla loro facilità riproduttiva e
sovrabbondanza numerica. Cannibalismo e lotta si presentano, dunque, come la
struttura (si po- trebbe usare anche il termine ontologia se non fosse troppo
compromesso con visioni metafisiche) profonda della natura del biologico. Non
si creda, poi, di sfuggire a questa struttura con facili moralismi legati a
forme, più o meno radicali, di alimentazione vegetariana o vegana, poiché anche
il mondo vegetale, come quello animale è vivente e, come non si comprende la
discriminazione etica tra animali sacrificabili e non sacrificabili, così
36 Il diritto come estetica non si comprende la
sacrificabilità a fini eduli della vita vegetale, ma non di quella animale.
Potrebbe esservi una spiegazione solo in una ipotetica gerarchia delle
esistenze biologiche, che ponga l’essere umano al vertice e il vegetale alla
base, ma allora non si giustifica perché tale gerarchia debba saltare un
gradino, quello animale, appunto, nella scala delle sacrificabilità
gerarchiche. Lo stato permanente di guerra, che caratterizza il mondo
biologico, è aggravato dalla precarietà programmata della sua esistenza, la
quale si deteriora e consuma progressivamente lungo tutto il corso dello
sviluppo della vita. L’adagio latino, che indica l’inesorabile trascorrere
delle ore, vulnerant omnes, ultima necat, ben descrive l’itinerario tra la
nascita e la morte, funestato non solo dalla ricerca cannibalesca del cibo e
dalle insidie date da malattie ed infortuni vari, ma, soprattutto, dal decorso
del tempo e dal disgregarsi dei corpi, che accompagnano l’essere biologico
verso la sua estinzione, la sua fine. Per sintetizzare l’orizzonte esistenziale
del bio- logico basti ricordare la locuzione latina attribuita ad Agostino
d’Ippona (354-430), ma molto più probabilmente di Bernardo da Chiaravalle
(1090- 1153), con la quale si descrive la nascita dell’essere umano: inter
faeces et urinam nascimur. La nascita, dalla cellula all’essere umano, è una
cruenta rottura dell’individualità, una separazione di materiale organico, una
fuo- riuscita di un ente da un altro ente, il numero uno che produce un altro
uno, dando il via con il numero due alla catena dei molti. Quanto, poi, alla
morte basta visitare ospedali, case di riposo per anziani e cimiteri per
chiarirsi le idee intorno al dolore, al decadimento psico-fisico ed...
all’approvvigiona- mento alimentare di microorganismi, vermi ed insetti vari,
messi in fuga solo dal fuoco liberatore della cremazione. Il tragico
disvelamento della triste condizione del biologico, in genera- le, ed umana, in
particolare, è presente in quasi tutte le religioni, le quali, infatti, tendono
a costruire speranze in un mondo non più biologico ed a porre al centro dei
vari culti il concetto di sacrificio: sacrificio, in epoche arcaiche, non solo
animale e vegetale, ma anche umano, a favore del divi- no. Il Cristianesimo,
con ulteriore lucidità intorno alla condizione umana, poi, ha addirittura
capovolto i termini del mistero sacrificale, rovesciando ed integrando il
sacrificio umano nei confronto della divinità con il sacrifi- cio divino in
favore dell’essere umano. Nell’Eucarestia rivive svelata l’on- tologia del
biologico umano e la sua speranza di redenzione, liberazione attraverso il
sacrificio del Cristo1. Il fedele cristiano, infatti, beve il sangue 1 “Ma se
Cristo ha ripristinato il sacrificio umano e il cibarsi della vittima, questo è
accaduto a lui e non a un fratello, perché Cristo ha instaurato la suprema
legge Monismo e dualismo del mondo 37 e
mangia il corpo del Redentore; si nutre del divino per sfuggire all’orrore del
biologico, per aspirare ad una vita priva di dolore ed eterna in Dio2. Il
Cristo dovrebbe risanare la frattura tra divino ed umano, ricostruire il ponte
crollato, riportare la riconciliazione e l’unione tra le parti ed il Tutto. La
struttura del nostro mondo è stata descritta con estremo realismo da Baruch
Spinoza (1632-1677): Per diritto e istituto naturale, non intendo altro che le
regole della natura di ciascun individuo, in ordine alle quali concepiamo che
ciascuno è naturalmente determinato a esistere e a operare in un certo modo.
Così, per esempio, i pesci sono dalla natura determinati a nuotare e i grandi
mangiano i più piccoli, onde diciamo che di pieno diritto naturale i pesci sono
padroni dell’acqua e i grandi mangiano i più piccoli. È infatti certo che la
natura, assolutamente considerata, ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo
potere, e cioè che il diritto della natura si estende fin là dove si estende la
sua potenza, essendo la potenza della natura la potenza di Dio, il quale ha
pieno diritto ad ogni cosa: ma, poiché la potenza universale dell’intera natura
non è se non la potenza complessiva di tutti gli individui, ne segue che
ciascun individuo ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere, ossia che
il diritto di ciascuno si estende fin là dove si estende la sua determinata
potenza. E, poiché è legge suprema di natura che ciascuna cosa si sforzi di
persistere per quanto può nel proprio stato, e ciò non in ragione di altra
cosa, ma soltanto di se stessa, ne segue che ciascun individuo ha a pieno
diritto, e cioè, come ho detto, ad esistere e a operare così come è
naturalmente determinato. E qui noi non riconosciamo alcuna differenza tra gli
uomini e tutti gli altri individui della natura, né tra gli uomini dotati di
ragione e gli altri che ignorano la vera ragione, né tra i deficienti, i pazzi
e i sani. Tutto ciò, infatti, che ciascuna cosa fa secondo le leggi della sua
natura, questo fa di pieno diritto, dell’amore, per cui nessuno dei fratelli ne
ha riportato danno, ma tutti hanno potuto gioire di questa restituzione.
Succedevano le stesse cose dei tempi antichi, ma sotto la legge dell’amore. Per
cui, se non hai un profondo rispetto di ciò che è stato compiuto, distruggerai
la legge dell’amore. Che cosa quindi accadrà di te? Sarai costretto a
ripristinare ciò che c’era prima, ossia atti di violenza, assassini, azioni
illecite e disprezzo per il fratello”. C.G. Jung, Il libro rosso. Liber novus,
Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 225. 2 Il sangue, la carne, il vino, il
pane, l’acqua, il cielo sono simboli magici sino dai tempi più antichi: “Se
avviene che io sia sopraffatto, quando bevi acqua o mangi pane, l’acqua
assumerà il colore del sangue davanti a te, e il pane prenderà davanti a te il
colore della carne, e il cielo prenderà davanti a te il colore del sangue. Horo
figlio dell’Etiope stabilì dunque questi segni tra sé e la madre; poi si recò
in Egitto, essendo pieno di magie”. E. Bresciani (a cura di), Testi religiosi
dell’antico Egitto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001, p. 397. Il testo è
ambientato ai tempi del faraone Ramesse II, XIX dinastia, 1293-1190 a. C.. Cfr.
anche. J.G. Frazer, La crocifissione del Cristo, Quodlibet, Macerata 2007; S.
Peverada, Il sacrificio del Dio Bambino. Edipo e l’essenza del tragico,
Mimesis, Milano 2004. 38 Il diritto
come estetica in quanto agisce nel modo a cui è determinata dalla natura, né
può comportarsi altrimenti3. Non sempre la potenza coincide con la grandezza,
come dimostrano i microorganismi, tuttavia il senso di Spinoza è chiaro:
ciascuno è per natura se stesso e si comporta secondo la propria natura; la
gazzella è gazzella ed il leone è leone (preda e predatore), ma anche l’essere
umano è tale ed il pazzo od il criminale altro non sono che una particolare
espressione di essere umano. La struttura della natura assegna a ciascuno
caratteri ben precisi, tutti equivalenti nell’articolazione molteplice della
natura, ma ta- luni dotati di una potenza maggiore di altri ed i più potenti
prevalgono sui meno nel breve periodo della conquista del nutrimento, per, poi,
comunque soccombere anch’essi sotto i colpi dell’invecchiamento,
dell’indebolimen- to, delle malattie e della morte. Ovviamente dietro questa
visione si agita un fiero determinismo, di cui ci occuperemo in seguito, per
ora interessa notare che la natura non si presenta benigna ai nostri occhi, ma
la sua strut- tura ci appare profondamente malevola, matrigna. Questa però è la
mera visione propria della prospettiva umana, alla quale manca, come si è detto
in precedenza, la prospettiva globale, quella divina, e, soprattutto, è viziata
da un ragionare antropocentrico di fronte al Tutto, all’universale. Sarebbe
facile ironia sbeffeggiare, dal punto di vista etico, il diritto naturale alla luce
dell’empiria del nostro mondo biologico, ma, forse, è proprio la vi- sione
etica, che dovrà essere messa in discussione nel rapporto tra visione monista e
dualista del reale. In questo senso appaiono particolarmente il- luminanti le
parole di Giacomo Leopardi (1798-1837) nel Dialogo della natura e di un
islandese: Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo
è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di
ma- niera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione
del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe
parimen- ti in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in
lui cosa alcuna libera di patimento. Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare
a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che
distrugge, non gode, e a poco andare è di- strutto medesimamente; dimmi quello
che nessun filosofo mi sa dire: a chi pia- ce o a chi giova cotesta vita
infelicissima dell’universo, conservata con danno e morte di tutte le cose che
lo compongono?4. 3 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino
1980, pp. 377-378. 4 G. Leopardi, Operette morali, Rizzoli, Milano 2008, p.
288. Monismo e dualismo del mondo 39 La
visione del mondo di Spinoza e le domande di Leopardi hanno il grande pregio di
rappresentare un limpido, inequivocabile e coerente esem- pio di monismo
immanentista del reale (Deus sive Natura). Nel pensiero monista non si tratta,
per lo più, di eliminare uno dei due termini dell’al- ternativa, ma di ridurli
entrambe ad unità, di sintetizzarli entro un unico termine. Tale unico termine
può relegare il mondo empirico all’ambito del- la pura illusione (Velo di Maya,
espressione con la quale Arthur Schopen- hauer – 1788-1860 – si richiama alla
religione induista), all’ambito di un sogno che potrebbe appartenere anche solo
al soggetto che lo percepisce; il mondo esterno potrebbe esistere solo
nell’esperienza di chi lo vive (sogget- tivismo filosofico: esse est percipi).
Spinoza esprime l’indiscutibile merito di unificare il mondo senza sacrificare
la sua dimensione empirica, ma am- pliandolo ad un Tutto, che tutto comprende,
seppure nell’incertezza di non riuscirne a descrivere ogni specificità, ogni particolarità,
ogni individualità. Infatti, poiché la virtù e la potenza di Dio, e le leggi e
regole della natura sono i decreti stessi di Dio, si deve senz’altro credere
che la potenza della na- tura è infinita e che le sue leggi sono tanto ampie da
estendersi a tutte le cose concepite dallo stesso intelletto divino5.
L’intelletto umano, ma soprattutto il suo sentimento, di fronte ad uno scenario
tanto deludente e tragico della vita si è posto la domanda del senso, del
significato di tanto dolore. Poiché nel mondo del percepibile attraverso i
sensi non fu, e non lo è tuttora, possibile trovare risposte sod- disfacenti,
la ricerca si è avviata verso l’immateriale, verso un reale imma- ginato solo
nella mente, ma non soggetto a verifica/falsificazione empirica. L’operazione
si è fondata su un modello dualista di negazione del sensibile e di
contemporanea affermazione del suo esatto contrario: soffro la morte ed allora
affermo l’esistenza della vita eterna, a mero titolo d’esempio. Una
approfondita descrizione ed analisi di tale operazione, applicata alla
religione ed, in particolare, al Cristianesimo, la si può trovare nell’opera di
Ludwig Feuerbach (1804-1872)6. Ragione e fede7 si sono contese questo mondo
astratto dell’immagina- rio, che ha duplicato l’universo, spiegando il senso
del percepibile senso- rialmente attraverso il non percepibile sensorialmente.
5 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., p. 153. 6 Cfr. L. Feuerbach,
L’essenza della religione, Einaudi, Torino 1972; del medesimo Autore, L’essenza
del Cristianesimo, Feltrinelli, Milano 1971. 7 Cfr. J. Habermas, Tra scienza e
fede, Laterza, Roma-Bari 2006. 40 Il
diritto come estetica Sul piano razionale sono stati elaborati assiomi,
principi primi imme- diatamente evidenti, ma non dimostrabili, concetti a
priori, ossia ancora non dimostrabili, ed operazioni logiche, teorie e teoremi,
ossia descrizioni di una qualche realtà esistente, validi solo se vengono
accolti i presup- posti non empirici, dai quali prendono le mosse. Del resto, è
ormai noto dai teoremi di incompletezza di Kurt Gödel (1906-1978), che è
possibile definire formule logiche, che negano la propria dimostrabilità, cioè
siano autoreferenziate. Si tratta di teoremi di logica, che hanno prodotto
notevoli conseguenza in ambito matematico e geometrico, ma che possono essere
estesi a qualsiasi sistema formale. Particolarmente significativo ai fini delle
riflessioni qui svolte sembra essere il secondo teorema di Gödel, quello
relativo alla indimostrabilità di un sistema coerente attraverso la sua stessa
coerenza, ossia la coerenza si presenta come una sorta di petitio pricipii (le
premesse già contengono ciò che si deve dimostrare) e/o di tautologia (af-
fermazione vera per definizione) indimostrabile, appunto. Sull’argomento sono
interessanti anche le parole di Bertrand Russell (1872-1970): I grandi scandali
della filosofia della scienza sono sempre stati, dopo Hume, la causalità e
l’induzione. Ad ambedue tutti ci crediamo, ma Hume mostrò che la nostra
credenza è una fede cieca che non poggia su alcuna prova raziona- le. [...]. Se
noi sottolineiamo il fatto che la nostra credenza nella causalità e
nell’induzione è irrazionale, dobbiamo inferire che non sappiamo se la scienza
sia vera, e che da un momento all’altro essa potrebbe anche cessare di darci
quel controllo sul nostro ambiente per amor del quale essa ci piace8. La
ragione, dunque, duplica il mondo secondo il modello proprio di René Descartes
tra res extensa e res cogitans: la prima riferibile ai cor- pi fisici e la
seconda al pensiero dell’essere umano. La distinzione pare speculare a quella
tra materia e spirito, ma ne diverge perché, mentre la distinzione cartesiana
potrebbe sussistere anche all’interno di un sistema immanentista monistico,
tutto incentrato sull’essere umano come modello di unificazione, nel quale i
due termini tendano rispettivamente ad identifi- carsi con l’alternativa
concreto/astratto, la separazione tra materia e spirito, invece, è per
necessità dualista, in quanto le due realtà si escludono vicen- devolmente come
espressione di mondi diversi: fisico e metafisico. Martin Heidegger (1899-1976)
va oltre nella critica e sottolinea come Descartes dualizzi il mondo,
presupponendo, ma non dimostrando, il trascendente: 8 B. Russell, Saggi
scettici, Longanesi &C, Milano 1975, pp. 37-38.
Monismo e dualismo del mondo 41 Cartesio non si fa offrire il modo
d’essere dell’ente intramondano da questo ente, bensì, in base a un’idea di
essere non disoccultata nella sua origine e non dimostrata nel suo diritto
(essere = esser-stabilmente-sottomano), prescrive per così dire al mondo il suo
essere autentico. Non è dunque primariamente il ricor- so a una scienza, guarda
caso particolarmente apprezzata, come la matematica, a determinare l’ontologia
del mondo, bensì l’orientazione fondamentalmente ontologica verso l’essere
inteso come esser-stabilmente-sottomano, alla quale la conoscenza matematica
soddisfa in modo eccezionale. Cartesio opera così filosoficamente in modo
esplicito la commutazione degli esiti dell’ontologia tradizionale sulla fisica
matematica moderna e sui suoi fondamenti trascen- dentali9. Del resto anche
Werner Heisenberg (1901-1976) rileva la problematici- tà euristica della
divisione cartesiana soprattutto alla luce del principio di indeterminazione.
In realtà non erano in gioco soltanto degli esperimenti fisici, ma autentiche
posizioni filosofiche. Qui la vecchia concezione, radicata fin da Cartesio,
del- la divisione tra un mondo oggettivo, svolgentesi nello spazio e nel tempo,
e un’anima da esso separata, in cui esso si rispecchia, entrava in conflitto
con le nuove vedute, alla cui luce non era più possibile compiere quella
divisione nel rudimentale modo precedente10. Oltre la ragione, meglio,
prescindendo dalla ragione, però, si è presenta- ta all’essere umano, come via
d’uscita dalla sua malasorte e dalle incertez- ze del quotidiano vivere anche
un altro strumento mentale: la fede, spesso interpretata più come un dono
divino che come una conquista personale11. Nell’ambito della fede il campo
sembra apparentemente occupato in modo completo dalle religioni, ma non è
possibile tacere che anche talune con- vinzioni filosofiche (paradosso di
Zenone, negazione del divenire di Ema- nuele Severino) od anche scientifiche
(teoria delle stringhe, delle brane, 9 M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori,
Milano 2011, p. 143. 10 W. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica
moderna, Sellerio Editore, Palermo 1999, p. 95. 11 “La fede essenzialmente una
negazione implicita o violenta di una realtà o della realtà. La realtà è per
tutti una prigione: ma, fortunatamente, una prigione male custodita. Ora, la
fede insegna a negare queste muraglie, insegna il modo di fuggirle, ecc. La
scienza è invece una affermazione di questa realtà; il modo che essa ci insegna
di liberarci della realtà è appunto quello di affermare la realtà. La fede
invece vuole insegnarci a fuggire la realtà, insegnando a negarla. La scienza
appare come superiore alla fede, appunto perché essa è una liberazione dalla
negazione”. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teorici 1925 -1981, Marsilio,
Venezia 1989, p. 5. 42 Il diritto come
estetica degli universi paralleli e multidimensionali) sono sorrette più da
dogmi, da assiomi logici, da teorie indimostrabili e da convinzioni personali
che da prove empiriche. Esempio tipico di dualismo è rappresentato dal sistema
filosofico di Pla- tone (428 a.C.-348 a.C.). Il mondo empirico si presenta come
l’ombra di una realtà metafisica ideale, nella quale la perfezione dei modelli
informa di sé le copie degradate della realtà in cui vive l’essere umano. Gli
arche- tipi, le idee delle qualità e degli Enti emanano perfezione,
immutabilità ed eternità e sono questi a presentarsi come la vera ontologia del
mondo, che nelle forme terrene manifesta tutta la propria imperfezione e
provvisorie- tà. Il mondo fisico, come brutta copia del mondo iperuranico,
metafisico, spirituale, privo di spazio e di tempo, posto oltre la volta
celeste e sede delle idee, produce una duplicazione consolatoria, sottraendo il
concetto di verità alla percezione dei sensi ed attribuendolo all’elaborazione
razionale. Questo sopraceleste sito nessuno dei poeti di quaggiù ha cantato, né
mai canterà degnamente. Ma questo ne è il modo, perché bisogna pure avere il
co- raggio di dire la verità soprattutto quando il discorso riguarda la verità
stessa. In questo sito dimora quella essenza incolore, informe ed intangibile,
contem- plabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quella essenza che è
scaturigi- ne della vera scienza. Ora il pensiero divino è nutrito
d’intelligenza e di pura scienza, così anche il pensiero di ogni altra anima
cui prema di attingere ciò che le è proprio; per cui, quando finalmente esso
mira l’essere, ne gode, e con- templando la verità si nutre e sta bene, fino a
che la rivoluzione circolare non riconduca l’anima al medesimo punto. Durante
questo periplo essa contempla la giustizia in sé, vede la temperanza, e
contempla la scienza, ma non quella che è legata al divenire, né quella che
varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che è
nell’essere che veramente è12. Il mito della caverna e delle sue ombre,
proiettate sulla roccia, descrive una conoscenza limitata, tutta ed
esclusivamente umana, che può presen- tarsi completa solo nel momento in cui
riesce ad uscire all’aperto e con- quistare la luce delle idee pure: una
conoscenza, dunque, non empirica è quella sostenuta da Platone, poiché
quest’ultima altro non sarebbe che una falsa conoscenza. Dentro una dimora
sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce [...], pensa di
vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciul- li, incatenati gambe e
collo, [...]. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d‘un fuoco e tra
il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa 12 Platone,
Fedro, in Tutto Platone, Laterza, Bari 1967, vol. I, p. 755.
Monismo e dualismo del mondo 43 pensa di vedere
costruito un murricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti
alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. [...]. Immagina di
vedere uomini che portano lungo il murricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti
dal margine, [...]. Strana immagine è la tua, disse, e strani sono questi
prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere,
anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuo- co
sulla parete della caverna che sta loro di fronte?13. Come si è già fatto
cenno, il pensiero religioso presuppone già di per se stesso un dualismo del
reale: la realtà divina crea la realtà umana ed esse vivono separate nella
costante tensione di quest’ultima verso la prima: il ritorno alla casa del
Padre. Esempio particolarmente significativo in questo senso è il pensiero
gnostico. Sono molteplici le correnti gnostiche, alcune risalgono al mondo
antico ed altre fioriscono nell’alveo del Cristianesimo, ma comunque tutte
hanno in comune alcuni caratteri identificativi. In pri- mo luogo, il mondo
umano rappresenta un degrado rispetto a quello divino. In secondo luogo, lo
spirito, la scintilla divina che alberga in ciascun essere umano è racchiusa,
come in una prigione, dal corpo fisico, ossia nella ma- teria. In terzo luogo,
è aspirazione comune di tutte le scintille racchiuse nei corpi umani di
risalire al cielo per ricongiungersi con la perfezione eterna del divino. La
dottrina di Simon Mago (I secolo d.C.), descritta con spirito critico cristiano
da Ireneo (130 d.C.-202 d.C.) sembra particolarmente utile per rilevare gli
elementi gnostici più caratterizzanti di questo pensiero: Se infatti alcuni
caratteri presentano chiara impronta gnostica (ostilità degli angeli [=
arconti] verso Dio e verso l’uomo, imprigionamento dell’elemento divino nel
corpo umano), altri sembrano estranei a questa esperienza: diviniz- zazione di
Simone, cioè del capostipite della setta, e di Elena, e la loro pretesa
immortalità; mancanza di una specifica colpa che spieghi l’imprigionamento
dell’elemento divino nel corpo; redenzione del credente solo grazie alla cono-
scenza della natura divina di Simone, mentre nell’esperienza gnostica è fon-
damentale il riconoscimento dell’elemento divino che ogni gnostico reca in sé;
assenza del Demiurgo, creatore del mondo, e della componente giudaica in
genere: il personaggio femminile non è Sophia ma ha nomi greci, Ennoia ed
Elena. Anche tenuto conto che la notizia di Ireneo presenta una dottrina che
appare influenzata da tratti tipicamente cristiani e perciò non è di facile
apprezzamento, si ha l’impressione che con Simone siamo sulla via che porta
allo gnosticismo vero e proprio, senza esserci ancora giunti14. 13 Platone,
Repubblica, in Tutto Platone, cit., vol. II, p. 339. 14 M. Simonetti (a cura
di), Testi Gnostici in lingua greca e latina, Arnoldo Mondadori Editore, Milano
2001, pp. 6-7. 44 Il diritto come
estetica Ovviamente anche il Cristianesimo dualizza il mondo nell’attesa di una
sua riunificazione alla fine dei tempi. Il non senso del mondo empirico cer-
ca, dunque, spiegazione in un dualismo astratto, ma non per questo meno
probabile del monismo empirico o soggettivistico. Comunque se i dualismi
concreto/astratto e fisico/metafisico rappresentano probabilmente l’origine del
concetto stesso di dualismo del reale, molti altri dualismi percorrono sia le
visioni dualiste che moniste del mondo. Si pensi alle coppie luce/tenebre,
finito/infinito, eternità/tempo, perfetto/ imperfetto, che per il loro stesso
carattere simbolico aprono le porte alla via metafisica, poiché in esse è già
insito, sottointeso un mondo migliore che si contrappone ad uno peggiore, ma
anche la coppia vita/morte prepara a problematiche di rottura o di continuità
dell’essere umano, ossia ancora a problematiche filosofiche e religiose. Del
resto, è la stessa razionalità nu- merica, che indica il nascere del dualismo
con la presenza del numero due dopo il numero uno; tale presenza consente
l’emergere di tutti gli altri nu- meri ed, in effetti, rotta l’unicità
dell’Essere, il dualismo muta rapidamente in pluralismo e nel mondo empirico
prende il via il divenire e lo scorrere del tempo; lo si è già visto in
precedenza nella vicenda gnoseologica del Giardino dell’Eden. Tra i molti
dualismi esistenti, alcuni appena ricordati, ne emerge uno particolarmente
significativo, poiché favorisce la dualizzazione del reale, sebbene venga
generalmente considerato di natura metodologica e non on- tologica, quello tra
giudizi di fatto e giudizi di valore15. Si tratta della nota Grande Divisione
di David Hume (1771-1776), nella quale si distingue ciò che può essere
predicato di falsità o di verità attraverso la verifica empirica, sono i soli
giudizi di fatto, e ciò che può essere predicato di buono o di cat- tivo, di
giusto o di ingiusto, di bello o di brutto, in quanto non sottoponibile a
verifica empirica, sono i giudizi di valore. Il dualismo immediatamente
evidente tra oggettività empirica e soggettività umana, nasconde un altro
dualismo ben più rilevante per la visione dualistica del reale, quello tra
valori relativi e valori assoluti; infatti questi ultimi non possono che pre-
supporre per avere senso nella loro indiscutibile veridicità una dimensione a
sua volta assoluta, alla quale essi appartengono. Tale dimensione può essere
anche meramente razionale, ma più frequentemente ha natura tra- scendente e
religiosa. Immanuel Kant (1724-1804), infatti, accanto ad una ragion pura e
pratica pone anche una dimensione noumenica. 15 M.L. Ghezzi, La distinción
entre hechos y valores en el pensamiento de Norberto Bobbio, Universidad
Externado de Colombia, Bogotá 2007.
Monismo e dualismo del mondo 45 Nell’antinomia della ragion pura
speculativa si trova un contrasto simile [impossibilità del sommo bene secondo
regole pratiche e, quindi fantasiosità ed inutilità della legge morale, n.d.r.]
fra necessità naturale, e libertà nella cau- salità degli eventi del mondo.
Esso fu tolto col dimostrare che non c’è un vero contrasto se gli eventi, ed
anche il mondo in cui essi avvengono, si considerano (come appunto si deve
fare) soltanto quali fenomeni; perché un solo e mede- simo essere, agente come
fenomeno (anche davanti al proprio senso interno), ha una causalità nel mondo
sensibile, che è sempre conforme al meccanismo naturale; ma rispetto allo
stesso evento, in quanto la persona agente si consideri nello stesso tempo come
noumeno (come intelligenza pura, nella sua esistenza non determinabile secondo
il tempo), può contenere un motivo determinante di quella causalità secondo
leggi naturali, libero esso stesso da ogni legge na- turale16. I valori
assoluti conducono direttamente nel mondo divino dell’igno- to, del noumenico,
appunto17, mentre quelli relativi si situano nel giudizio morale dell’individuo
umano, che tuttavia, può essere a sua volta conside- rato come una entità
noumenica. Questi ultimi, dunque, rivelano immedia- tamente la propria natura
soggettiva, ossia legata al pensiero del singolo essere umano, che solo una
ottimistica visione illuminista può reputare espressione di una razionalità
universale e, quindi, omogenea. Il sogget- tivismo valoriale apre la strada al
nichilismo, ma di ciò si dirà più oltre, per ora bisogna meglio comprendere la
distinzione posta alla base della separazione tra giudizi di fatto e giudizi di
valore. Per quanto riguarda i giudizi di fatto il problema si presenta di
sempli- ce soluzione, giacché possono definirsi tali solo quei giudizi
sostenuti da percezione empirica. Ovviamente esistono delle difficoltà anche
sulla stra- da dell’empiria, poiché sempre di giudizi trattasi, ossia di
percezioni sog- gettive filtrate attraverso la struttura categoriale propria
della conoscenza umana, che possiede almeno due caratteri limitanti la presunta
oggettività esterna al soggetto: quello biologico, anatomico, e quello
culturale. Potreb- be sussistere anche un terzo limite, quello psicologico, se
si attribuisce una propria autonomia individuale o collettiva alla mente come
entità separata dal cervello. Si pensi alla distinzione tra conscio, inconscio
ed inconscio 16 I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari1972, pp.
139-140. 17 “[...] la realtà oggettiva della legge morale non può esser
dimostrata mediante nessuna deduzione, nonostante ogni sforzo della ragion
teoretica, speculativa o sostenuta empiricamente; e quindi, se anche si volesse
rinunziare alla conoscenza apodittica, quella realtà non potrebbe venire
confermata mediante l’esperienza e così dimostrata a posteriori; e tuttavia
essa è stabile per se stessa”. I. Kant, op. cit., p. 59.
46 Il diritto come estetica collettivo18. Una ulteriore
difficoltà è data dai limiti assoluti, non categoria- li, della percezione
umana: le unità di misura di Max Planck (1858-1947) ed, in particolare, il
tempo (tp), la lunghezza (lp) e la massa (mp) di Planck costituiscono
l’attuale, e, forse, definitivo limite di rilevazione empirica, al di sotto del
quale è impossibile o, ancora forse, anche privo di significato procedere19.
Riguardo ai giudizi di valore si presenta qualche ulteriore difficoltà. Tra-
lasciando i valori assoluti, in quanto appartenenti ad un mondo separato da
quello umano, ad un mondo umano assolutizzato o all’individuo sempre
assolutizzato, pare opportuno soffermarsi sulla natura dei giudizi di valore
relativi, soggettivi. Questi ultimi generalmente vengono identificati come un
dover essere, ma cosa significa dover essere a livello del singolo sogget- to?
Parrebbe un impegno inderogabile, morale, non motivato da particolari interessi
personali. Eppure la scelta di un qualche sistema etico e dei suoi 18 “[...]
l’incosciente razionalmente comprensibile [...] consiste per così dire di
materiali artificialmente incoscienti, è solo uno strato superficiale, e [...]
sotto di questo vi è ancora un incosciente assoluto, che non ha nulla a che
fare colla nostra personale esperienza, che dunque sarebbe un’attività psichica
autonoma, opposta all’anima cosciente e perfino agli strati superiori
dell’incosciente, non tocca – e forse non toccabile – dall’esperienza
personale, una specie di attività psichica superindividuale, un incosciente
collettivo, come io l’ho chiamato, in contrapposto con un incosciente
superficiale, relativo o personale”. Cfr. C.G. Jung, Il problema dell’inconscio
nella psicologia moderna, Einaudi, Torino 1971, p. 111. 19 “[...] la gravità
quantistica è proprio la scoperta che non esistono punti infinitamente piccoli.
Esiste un limite inferiore alla divisibilità dello spazio. L’Universo non può
essere più piccolo della scala di Planck, perché non esiste nulla che sia più
piccolo della scala di Planck”. C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La
struttura elementare della cosa, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, p.
201. “Analogamente a come, secondo la teoria della relatività, non si può
parlare in modo sensato di velocità il cui valore superi quello della velocità
della luce, così non si può nemmeno parlare sensatamente di una indicazione di
posizione la cui imprecisione sia inferiore al valore di 0,5. 1013 cm”. W.
Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, cit., p. 103. Ed ancora:
“Se partiamo dall’idea che le leggi della natura contengono realmente una terza
costante universale nella dimensione della lunghezza, e dell’ordine di 1013 cm,
allora dovremmo aspettarci di poter applicare i nostri concetti usuali soltanto
a regioni dello spazio e del tempo che siano grandi rispetto alla costante
universale. E dovremmo attenderci fenomeni di un carattere qualitativamente
diverso quando nei nostri esperimenti ci avviciniamo a regioni nello spazio e
nel tempo più piccole dei raggi nucleari. Il fenomeno dell’inversione
temporale, di cui si è discusso e che, fin qui, è risultato soltanto da
considerazioni teoriche come una possibilità matematica, potrebbe perciò
appartenere a queste minimissime regioni”. W. Heisenberg, Fisica e filosofia,
il Saggiatore, Milano 2015, p. 165.
Monismo e dualismo del mondo 47 valori scaturisce da preferenze
personali, legate all’ambiente in cui il sog- getto è stato educato e/o vive
(consuetudinarietà del comportamento, etc.) e dalle proprie individuali
attitudini (propensioni caratteriali, gusti, etc.), non certo da timore di
ricevere punizioni o dal desiderio di ottenere utilità di qualche tipo per se
stesso o per qualcun altro, poiché, in tale caso, non si sarebbe in presenza di
un dover essere morale. Dunque, in concreto il dover essere consiste in una
scelta comportamentale, che appaga il sog- getto agente almeno da un punto di
vista morale. Potrebbe, infatti, in esso sussistere un conflitto tra un
appagamento contrario al dover essere morale e l’appagamento dell’ottemperanza
al medesimo. Ovviamente il conflitto interiore si risolverà in favore
dell’appagamento più forte, della tensione emotiva più potente. Ma se di
appagamento si tratta, il concetto di dover essere non presenta alcuna propria
autonomia di significato, poiché si iden- tifica semplicemente con il concetto
più immediatamente verificabile in via empirica di mi piace. Del resto, è lo
stesso Kant a fornire indicazioni in questa direzione: Invero, ogni
inclinazione e ogni impulso sensibile sono fondati sul senti- mento, e
l’effetto negativo sul sentimento (mediante il danno che avviene alle
inclinazioni) è anche sentimento. Quindi possiamo vedere a priori che la legge
morale, come motivo determinante della volontà, perché reca danno a tutte le
nostre inclinazioni, deve produrre un sentimento che può esser chiamato dolore;
e qui ora abbiamo il primo, e forse anche l’ultimo caso nel quale, con i
concetti a priori, possiamo determinare la relazione di una conoscenza (qui è
conoscenza di una ragion pura pratica) col sentimento del piacere o del di-
spiacere20. Il dover essere altro, dunque, non è che un mi piace, nobilitato
dall’es- sere riferito ad una forza od ad una entità esterna al soggetto. Si
riferisce la propria scelta ad un obbligo inderogabile esterno, radicato nella
trascen- denza della ragione, del metafisico o del divino. Si sdoppia il mondo
per dare oggettività anche alle scelte soggettive ed, in tale modo,
tranquilliz- zare se stessi della bontà della propria opzione e presentare agli
altri tale opzione non come un arbitrio, un capriccio personale, ma come una
ogget- tiva necessità etica, come un comando eteronomo irresistibile, in quanto
doveroso, a pena di riprovazione, disonore, colpa, peccato, rimorso, etc..
Esempio tipico di questo processo è il concetto di obiezione di coscien- za,
proprio di taluni ordinamenti giuridici, che con tale motivazione esen- tano
alcune persone dal tenere, in una data situazione, il comportamento 20 I. Kant,
Critica della ragion pratica, cit., p. 90.
48 Il diritto come estetica prescritto per legge, ma contrario ai
convincimenti etici delle medesime. Ciò spiega anche il tentativo di taluni
autori21, che comunemente dai divi- sionisti viene definito con l’espressione
fallacia naturalistica, di superare la Grande Divisione di Hume, unificando i
due termini, fatti e valori, in un’unica entità di natura oggettiva. In questo
modo tutti i valori divengono assoluti, gli uni perché trascendenti e gli altri
perché immanenti ed empi- ricamente verificabili; l’essere soppianta il dover
essere, ma quest’ultimo, sotto le sembianze dell’essere, mantiene la propria
funzione di guida delle azioni umane e di giudizio morale. Un tale passaggio
diviene impossibile se si prende atto che il concetto di devo coincide,
semplicemente si identifi- ca, con quello di mi piace. Del resto, è Hume steso
ad indicare questa come la vera e profonda natura del dover essere: Ora, niente
accomuna il bello naturale e morale (entrambi causa di orgo- glio), se non
questo potere di produrre piacere22. Il piacere, quindi, è all’origine del
dover essere, ma, se questa è l’ori- gine, pare opportuno riportare un po’ di
ordine nel vocabolario e chiama- re i concetti col proprio nome senza tentativi
di mistificazione. L’etica, la morale, ma anche il diritto altro non sono che
articolazioni specialistiche dell’estetica; talune diversità le distinguono,
ma, in ultima analisi, sono semplicemente espressioni estetiche del soggetto
agente. Inoltre questa de- mistificazione non solo opera favorevolmente sul
piano pratico, in quanto, svelando la natura estetica, ossia soggettiva e
relativa delle scelte umane, ne mina anche l’arroganza integralista ed
intollerante, ma consente anche una migliore utilizzazione metodologica della
Grande Divisione. Infatti, sostituire ai dualismi buono/cattivo,
giusto/ingiusto il dualismo bello/brut- to significa conservare l’elemento
soggettivo del giudizio, anzi rafforzar- lo, ed inoltre radicarlo anche in una
realtà umana individuale o sociale empiricamente analizzabile. Si apre in
questo modo la strada allo studio delle strutture motivazionali dei soggetti,
alle psicologie individuali, all’e- ducazione, alla cultura ed alle tradizioni.
Tolti i valori dall’empireo della razionalità astratta, della religione, della
metafisica e ricollocati, come en- tità estetiche, all’interno del soggetto
agente e della società cui appartiene, divengono fondamentali gli studi
psicologici, antropologici e sociologici per spiegare le scelte
comportamentali. Il dualismo della Grande Divisione permane, ma non necessità
più di giustificazioni non empiriche (almeno in 21 Cfr. G. Carcaterra, Il
problema della fallacia naturalistica. La derivazione del dover essere
dall’essere, Giuffrè, Milano 1969. 22 D. Hume, Trattato sulla natura umana,
Bompiani, Milano 2001, p. 599. Monismo
e dualismo del mondo 49 uno dei suoi due termini) e non produce più neppure
quello sdoppiamento del mondo, che faceva sospettare una sua natura ontologica,
e non mera- mente metodologica, proprio per l’ambiguità oggettiva/soggettiva
del do- ver essere, dei giudizi di valore. La Grande Divisione, nella versione
essere – mi piace/non mi piace l’essere, giudizi di fatto e giudizi di
estetica, riesce a separare, a distinguere con chiarezza il primo temine come
oggettivo ed il secondo come soggettivo; ossia, il primo, come empiricamente
sussi- stente all’esterno del soggetto giudicante ed, il secondo, empiricamente
sussistente all’interno del medesimo soggetto; ovviamente la prova empi- rica
dell’esistenza e della qualità di quest’ultimo giudizio consisterà, sarà data
proprio dalla espressione, dalla manifestazione di piacere o di dolore esternata
del soggetto. Alla luce di quanto detto sino a questo punto pare chiaro che non
esi- stano dimostrazioni affidabili per propendere decisamente a favore della
tesi di una realtà monista o di una realtà dualista; d’altronde non è logico
pretendere una dimostrazione empirica dell’esistenza di un mondo che, per
definizione, non è empirico, né l’affermazione che il mondo empirico sia
l’unica realtà esistente, in quanto verificabile empiricamente, può essere
considerata qualche cosa di diverso da una tautologia. Forse, l’ontologia del
mondo è e non è monista; è e non è dualista, ma oscillano e coesistono
contemporaneamente entrambe le realtà, come sembra suggerire la fisica
subatomica con la coppia particella/onda ed ancor più con l’equazione, già
ricordata, di Albert Einstein E=mc2, nella quale energia e massa sembrano
essere due aspetti della medesima realtà, come potrebbero essere anche spirito
e materia. Anche in questo contesto appare significativo il fatto che, secondo
la mec- canica quantistica, la conservazione dell’energia da un lato, che
esprime la sua esistenza atemporale, e il manifestarsi dell’energia nello
spazio e nel tempo dall’altro sono due aspetti opposti (complementari) della
realtà. In verità, essi sono sempre compresenti, ma in concreto ora l’uno ora
l’altro esplicano la loro azione in modo predominante23. La riflessione di
Wolfgang Pauli (1900-1958), sopra riportata, apre la strada ad una visione non
più oggettivizzata in modo statico del reale, ma, bensì, oscillante in modo
instabile, con frequenze diverse, sia in se stessa, sia tra soggetto ed
oggetto24. Se il mondo non fosse un fatto, ma una mera 23 W. Pauli, Psiche e
natura, Adelphi, Milano 2006, pp. 36-37. 24 “Laddove il vecchio tipo di
spiegazione della natura, partendo dal presupposto di un osservatore
indipendente, assumeva un decorso totalmente determinato dei
50 Il diritto come estetica possibilità oscillante
continuamente a pendolo tra dualismi indissolubili tra loro, quali
soggetto/oggetto, determinato/indeterminato, assoluto/relativo,
visibile/invisibile, finito/infinito, etc., allora neppure una logica
dialettica potrebbe rendere ragione degli eventi, poiché mancherebbe comunque
il momento di sintesi. Si aprirebbe, invece, una finestra su una visione del
mondo instabile, in pendolare mutazione perenne. Una sorta di metamor- fosi
continua, come nell’opera poetica di Publio Ovidio Nasone (43 a.C. – 18 d.C.):
Vi sono creature, o grandissimo eroe, il cui aspetto fu trasformato una sola
volta e per sempre rimase in questa trasformazione; ve ne sono altre, a cui è
data facoltà di mutarsi in più aspetti, come a te, o Proteo, abitatore del mare
che circonda la terra. Ti videro, infatti, ora quale giovane, ora quale leone;
ades- so eri irruente cinghiale, adesso un serpente, al cui contatto si provava
paura; alcune volte le corna ti fecero toro, spesso riuscivi ad apparire pietra
e spesso anche albero; talvolta, assumendo l’aspetto di acque fluenti, eri
fiume; talvolta, l’opposto delle acque, fuoco25. Ovviamente ad una tale visione
si accompagnerebbero inevitabilmente le domande intorno alla illimitata
variazione delle metamorfosi o alla loro natura evolutiva o non evolutiva
oppure, ancora, alla loro ripetitività cicli- ca secondo il principio
dell’eterno ritorno di nietzschiana memoria. Forse, il futuro ci riserva la
necessità di una profonda revisione dei no- stri processi logici, ad iniziare
dal principio stesso di identità. Per ora basti prendere atto almeno di quanto
la conoscenza scientifica ha ormai empiri- camente appurato: Con l’aiuto di
queste particelle [particelle α] Rutherford riuscì nel 1919, a trasmutare
nuclei di elementi leggeri; poté, per esempio, trasformare un nucleo di azoto
in un nucleo di ossigeno aggiungendo la particella α al nucleo d’azoto ed
espellendone nello stesso tempo un protone. Fu questo il primo esempio di
processi su scala nucleare che ricordassero quelli dei processi chimici ma con-
dussero alla trasmutazione artificiale degli elementi. Il successivo
sostanziale fenomeni naturali, la fisica odierna è giunta a un nuovo tipo di
spiegazione della natura: è il caso cieco, privo di finalità, la probabilità
primaria che non può essere ricondotta a leggi deterministiche. Secondo questa
concezione la probabilità primaria appare legata in modo essenziale al fatto
che l’osservatore influenza i fenomeni attraverso la scelta del dispositivo
sperimentale, dal momento che la misurazione comporta per legge di natura
interazioni incontrollabili con l’oggetto da misurare. Questa concezione
sottolinea quindi con forza l’elemento della libertà nei processi naturali”. W.
Pauli, op. cit., p. 163. 25 Ovidio, Le metamorfosi, Bompiani, Milano 1992, vol.
I, p. 453. Monismo e dualismo del mondo
51 progresso fu, come è ben noto, l’accelerazione artificiale dei protoni per mezzo
di congegni ad alta tensione ad energie sufficienti a produrre la trasmutazione
nucleare. Erano necessari a questo scopo voltaggi di circa un milione di volt,
e Cockcroft e Walton riuscirono nel loro esperimento decisivo a trasmutare
nuclei dell’elemento litio in quelli dell’elemento elio26. Il sogno antico
degli alchimisti diviene sempre più reale, contempora- neamente, le forme si
presentano oscillanti non solo a livello di particella e di onda, appaiono
sempre meno stabili e l’energia sembra giuocare contro il principio
d’identità.Il tema del libero arbitrio e del suo corrispondente opposto, il
servo ar- bitrio, tormenta da sempre, con un dubbio sino ad ora irrisolto, i
pensieri dell’essere umano e percorre tutta la storia della filosofia1. Senza presun-
zione di poter risolvere tale dubbio, conviene tuttavia, per affrontare l’ar-
gomento con sufficiente chiarezza, tentare qualche definizione e qualche
precisazione intorno ai concetti in discussione. In via preliminare, dunque,
pare opportuno prendere le mosse dal noto confronto storico tra Erasmo da
Rotterdam (1466-1536) e Martin Lutero (1483-1546), rispettivamente sostenitori,
il primo, dell’esistenza del libero arbitrio ed, il secondo, della sua
negazione. Erasmo formula una precisa definizione di libero arbitrio: [...] noi
qui definiremo il libero arbitrio come un potere della volontà umana in virtù
del quale l’uomo può sia applicarsi a tutto ciò che lo conduce all’eterna
salvezza, sia, al contrario, allontanarsene2. La contestazione di Lutero non si
fa attendere ed è completamente in- centrata sulla salvezza operata
esclusivamente dalla Grazia di Dio e non conquistata attraverso le opere
umane: 1 2 Innanzitutto Dio è onnipotente non solo per il suo potere ma
anche per la sua azione, altrimenti sarebbe un Dio ridicolo. In secondo luogo
sa tutto e prevede tutto, perciò non può né errare né fallire. Se il nostro
cuore e la nostra intelli- genza approvano pienamente questi due punti, siamo
obbligati ad ammettere, per una conseguenza ineluttabile, che non siamo stati
creati per nostra volontà, ma per necessità; e perciò non facciamo ciò che ci
piace in virtù del nostro Cfr. M. De Caro, M. Mori, E. Spinelli (a cura di),
Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, Carocci Editore, Roma
2014. E. da Rotterdam, Saggio o discussione sul libero arbitrio, in F. De
Michelis Pintacuda (a cura di), Libero arbitrio. Servo arbitrio, cit., p.
57. 54 Il diritto come estetica libero
arbitrio, ma ciò che Dio ha previsto da ogni eternità e che fa accadere secondo
il suo proponimento e il suo potere infallibili ed immutabili3. Sia Erasmo che
Lutero incentrano la questione intorno alla salvezza spi- rituale ed alla
Grazia di Dio, ossia si muovono in ambito religioso, teolo- gico, tuttavia,
mutando i nomi e sostituendo al nome Dio quello di Natura, di scienza, di
necessità causale, di assenza del divenire o di inesistenza del tempo, i
termini del problema non variano e continuano a contrapporsi, anche se
mascherate in Erasmo da formule religiose di stile, proprie dell’e- poca, per
evitare conseguenze repressive, le due medesime posizioni: il monismo umano ed
il dualismo divino. Mentre per Erasmo l’essere umano può conoscere e decidere
il proprio agire, per Lutero, invece, la conoscenza non implica anche la volontà,
la scelta. Una definizione estesa di libero arbitrio potrebbe essere la
seguente: es- sere soggetto autoreferenziato, cioè giustificato nella propria
esistenza da se stesso; autonomo, ossia legislatore in proprio delle proprie
regole di vita, e detentore di una possibilità di volere e di agire
incondizionata da fattori esterni al soggetto medesimo. L’autoreferenzialità
risponde all’esigenza di fornire un’origine ed un senso in proprio della vita
del soggetto. L’autono- mia esprime il rifiuto di regole non condivise,
provenienti da altri soggetti (eteronomia). La libertà di volere e di agire
intende descrive l’inesistenza di condizionamenti sia psichici, mentali, sia
fisici. La definizione deve per necessità presentarsi radicale ed estrema,
poiché nell’alternativa libero o sevo arbitrio sembra impossibile prendere in
considerazione posizioni in- termedie, per così dire, moderate, in quanto o la
libertà c’è o non c’è, una libertà limitata corrisponde ad una non libertà,
sicuramente almeno rispetto ai limiti posti, ma anche in generale, poiché lede
un principio, la libertà, che, per la salvaguardia della dignità umana, non può
che essere assoluto, come è assoluto il soggetto individuale, unico ed
irripetibile. Del resto, l’assolutezza empirica del soggetto individuale è
chiaramente palesata dal fatto che è solo su di esso che si fonda ogni
conoscenza del mondo ed è da esso che si manifesta qualsiasi forma di azione,
ogni agire. Naturalmente per soggetto individuale non si intende esclusivamente
l’essere umano, ma qualsiasi entità esistente, capace in qualche modo di
conoscere ed agire (minerali, piante, animali, entità non visibili,...?). La
definizione sopra illustrata parrebbe far propendere, alla luce della
percezione empirica del nostro esistere, per l’inesistenza del libero arbi- 3
M. Lutero, Commento di Martin Lutero al saggio di Erasmo, in F. De Michelis
Pintacuda (a cura di), op. cit., p. 158.
De libero o de servo arbitrio? 55 trio. Infatti, l’essere umano è condizionato
dal suo stesso vivere entro una forma, una realtà corporea da lui non scelta,
ad esempio non possiede ali per volare, può non apprezzare il proprio aspetto
fisico, rendersi conto di non possedere talune abilità intellettive (difficoltà
di apprendimento, scar- sa fantasia, etc.) o funzionali (carenza di arti,
difficoltà respiratorie, aller- gie, etc.), etc., e l’elenco, è bene
ricordarlo, si presenta come meramente esemplificativo. Ma un colpo ancora
maggiore alla libertà umana è dato dall’impossibilità di scelta di quando, dove,
da chi e se nascere, con il conseguente condizionamento dato dall’ereditarietà
del patrimonio gene- tico e dalla casualità della condizione sociale dei
genitori, inoltre neppure il momento della propria morte è frutto di libera
scelta (salvo il suicidio, forse). Naturalmente tutto ciò alla sola luce della
conoscenza umana, che non può escludere qualsiasi cosa si possa immaginare
nella duplicazione metafisica del mondo, anche la libera scelta di nascere, si
pensi alla dottrina della reincarnazione e della metempsicosi, operanti nel
pitagorismo, nel mito platonico di Er, in talune sette gnostiche,
nell’Induismo, nel Buddi- smo, etc.4. Comunque, empiricamente parlando, le
uniche certezze che si presentano riguardano la nostra forma, il nostro inizio
e la nostra fine5. Sia 4 “Secondo costoro, che appartengono alla setta cui la
ragione è più amica [aristotelici], le anime beate, liberate da ogni
contaminazione materiale possiedono il cielo. Ma quelle che, sotto l’effetto di
un segreto desiderio, da quella dimora vertiginosa e da quella luce perpetua
hanno gettato uno sguardo in basso verso i corpi e verso ciò che chiamano
quaggiù la vita si sono a poco a poco trascinate verso le regioni inferiori,
per il solo peso di questo pensiero terreno. Quando abbandona lo stato di
perfetta immaterialità, questa vestizione del corpo fangoso non è tuttavia, per
l’anima, improvvisa, ma graduale, ed essa si impoverisce impercettibilmente e
con lento degrado dalla sua purezza uniforme e assoluta, mentre s’ingrossa con
certi accrescimenti di sostanza siderale. Infatti, in ciascuna delle sfere
situate al di sotto del cielo, l’anima si riveste di un involucro etereo, di
modo che attraverso tali involucri si adatta, progressivamente, ad unirsi a
questo nostro rivestimento di sostanza terrena e pertanto, per un numero di
morti pari a quello delle sfere che attraversa, l’anima perviene a quello stato
che quaggiù in terra è chiamato vita”. A.T. Macrobio, Commento al sogno di
Scipione, Bompiani,, Milano 2007, pp. 331-333. 5 “I mortali sono gli uomini.
Essi si chiamano i mortali perché possono morire. Morire significa essere
capaci di morte in quanto morte. Soltanto l’uomo muore. L’animale cessa di
vivere (verendet). Esso non ha la morte in quanto morte né davanti a sé né
dietro di sé. La morte è lo scrigno del nulla, vale a dire di ciò che sotto
tutti gli aspetti non è mai qualcosa di meramente essente, ma che, nondimeno, è
essenzialmente in quanto l’essere stesso. In quanto scrigno del nulla, la morte
è il riparo nascosto (Gebirg) dell’essere. Chiamiamo ora i mortali i mortali,
non perché la loro vita terrena cessi, bensì perché sono capaci di morte,
essendo essenzialmente nel riparo nascosto dell’essere. Essi sono il
rapporto 56 Il diritto come estetica
lecito il paragone, siamo come una entità di forma predeterminata, che, nel
percorso della sua caduta dall’ultimo piano di un grattacielo al marciapie- de
sottostante, pensa di essere libera di poter fare ciò che vuole. Ma esiste
veramente questa libertà lungo il tragitto della caduta (vita)? Per poter ri-
spondere a questa domanda converrà ora approfondire anche il concetto di servo
arbitrio. Il determinismo comportamentale o della volontà può presentarsi sotto
diverse sembianze. Quando si afferma di poter fare una certa cosa, di poter
compiere una data azione si possono intendere referenti empirici diversi, come
bene illustra Ross, individuando tre condizioni necessarie per la sus- sistenza
dell’agire: L’agire attuale richiede quindi il verificarsi di tre gruppi di
condizioni: quel- le costituzionali, quelle occasionali, e quelle
motivazionali. Possiamo anche dire che esso presuppone che l’agente abbia sia
la capacità, sia l’occasione, sia la volontà o il motivo per compiere l’atto6.
Ad esempio, per poter nuotare è necessario saper nuotare (capacità), disporre
di uno specchio d’acqua (occasione) e, finalmente anche, volere, decidere di
nuotare (volontà, motivo). A rigore solo quest’ultimo requisito riguarda
direttamente il tema del libero arbitrio; il tema deterministico, in- vece, coinvolge
tutti e tre i gruppi di condizioni. Infatti, il determinismo non riguarda solo
la volontà, ma anche le condizioni soggettive (capacità) ed oggettive
(occasioni) dell’individuo. Comunque, per semplificare un tema sin troppo
arduo, conviene tralasciare queste ulteriori condizioni e soffermarsi solo
sulla volontà. La volontà può presentare almeno tre forme di ipotesi di
condizionamento: 1) la scelta non è riconducibile al soggetto agente (volontà
divina); 2) la scelta è condizionata da fattori immateriali (cultura,
educazione, morale, inconscio individuale o collettivo, psicologia, etc.); 3)
la scelta dipende dalla struttura biologica, biochimica dell’essere umano (si
pensi all’uomo macchina di Julien Offray de La Mettrie (1709- 1751) ed agli
studi medici intorno alla causalità chimica nella struttura organica umana). È
possibile ipotizzare anche altri fattori di condizion- amento, ma, data la loro
particolarità concettuale, sarà più opportuno trat- tarli in seguito; ora è
bene tornare al fattore di condizionamento metafisico. L’esistenza di una
volontà divina prevalente su quella umana presup- pone l’accettazione di una
visione dualista del mondo (fisica e metafisica), essenzialmente essente con
l’essere in quanto essere”. M. Heidegger, La cosa, in A. Pinotti (a cura di),
La questione della brocca, Mimesis, Milano 2007, p. 63. 6 A. Ross, Colpa,
responsabilità e pena, cit., p. 264. De
libero o de servo arbitrio? 57 senza la quale l’esistenza del divino non è pensabile.
Se Dio tutto ha creato, quindi, tutto conosce e tutto vuole, allora la volontà
umana in altro non può consistere che nella volontà stessa di Dio. Tale
posizione fu compiu- tamente espressa dall’occasionalismo di Arnold Geulincx
(1624-1669) e di Nicolas Malebranche (1638-1715). L’occasionalismo, negando un
qual- siasi collegamento tra la res estensa e la res cogitans cartesiane,
sosteneva che le azioni umane altro non erano che occasioni della
manifestazione della volontà divina, l’unica ad essere libera. In questa
visione le azioni umane e la dimensione psichica si presentano come due orologi
perfetta- mente sincronizzati dalla volontà divina, ma indipendenti l’uno
dall’altro. A rigore, data l’evidente derivazione platonica di questo pensiero,
il mondo umano potrebbe essere anche inesistente oppure, seguendo la
convinzione nella onnipotenza creatrice di Dio, apparso solo in questo preciso
istante in cui, tu lettore, stai leggendo questo testo, con tutti i tuoi
ricordi e le tue sensazioni. L’unica certezza dell’esistenza di questo mondo
deriva dalla certezza della fede in Dio7. Ovviamente il determinismo appena
descritto è strettamente legato ad un pensiero religioso. Prendendo ora in
considerazione il pensiero immanentista, si presenta un determinismo tutto
incentrato sulla concatenazione degli eventi attra- verso il nesso di
causa/effetto. La prima considerazione da manifestare ri- guarda la natura di
tale nesso e la sua stessa esistenza. Già Auguste Comte (1798-1857) ne metteva
in evidenza la natura metafisica e lo sostituiva con delle leggi generali di
comportamento degli eventi: Se, più tardi cambia [l’essere umano, n.d.r.] le
sue concezioni in proposito, è unicamente perché, allontanato, attraverso
l’esperienza e la riflessione, dalle illusioni primitive, rinunzia
assolutamente a penetrare il mistero del modo di prodursi dei fenomeni, di cui
la sua natura gli impedisce per sempre ogni cono- scenza, per ridursi ad
osservare le leggi effettive. Ed invero, se anche oggi, con tutte le nozioni
positive acquisite, volessimo, per il più semplice fenomeno, 7 In termini
moderni questo problema è stato affrontato sotto l’aspetto
dell’autoreferenzialità causale: “I fenomeni più elementari dal punto di vista
biologico, incluse le esperienze percettive, le intenzioni di fare qualcosa e i
ricordi, presentano nelle loro condizioni di soddisfazione una struttura logica
particolare. [...]. Le condizioni di soddisfazione del ricordo non si limitano,
se le esamino nei dettagli, all’occorrere effettivo dell’evento, ma richiedono
che il ricordo stesso, delle cui condizioni di soddisfazione è parte
l’occorenza dell’evento, sia stato causato da tale occorenza. Possiamo
esprimere la peculiarità di tale struttura dicendo che sia i ricordi sia le
intenzioni sia le esperienze percettive sono causalmente autoreferenziali. Ciò
significa che il contenuto dello stato stesso si riferisce allo stato ponendo
un requisito causale”. J.R. Searle, La mente, Raffaello Cortina Editore, Milano
2005, p. 154. 58 Il diritto come
estetica tentare di concepire per quale potere il fatto che chiamiamo causa
generi quello che chiamiamo effetto, saremmo inevitabilmente portati a
realizzare immagini analoghe a quelle che sono servite di base alle prime
teorie umane8. Il nesso causale non viene negato dalle leggi generali, ma semplicemente
contenuto entro il limite del suo significato di costanza, di ripetitività
negli accoppiamenti temporali dei fenomeni, senza indagare e pregiudicare il
motivo, si potrebbe dire la causa, di questo legame; ossia possiede natura
meramente descrittiva e non anche esplicativa: rileva il fenomeno, ma non ne
spiega il senso. In altre parole, il principio causale si presenta come il
risultato del principio induttivo, sul quale si fonda tutta la ricerca
empirica, ma che, non essendo a sua volta verificabile/falsificabile in via
empirica, deve essere accolto a priori. Un ulteriore affinamento del principio
caus- ativo passa attraverso la dimensione probabilistica delle rilevazioni em-
piriche9. Conseguentemente le leggi generali causali si sono trasformate negli
studi scientifici in probabilità statistiche di accoppiamento dei feno- meni,
trasformando il nesso causa/effetto in un mero nesso probabilistico a frequenza
variabile. La potenza di questo strumento metodologico (leggi generali causali)
ha creato in un primo tempo negli studiosi una baldanzosa presunzione di poter
conoscere in anticipo tutti gli eventi futuri e tale pre- sunzione ha indotto a
pensare che un generale determinismo governasse gli eventi10. Tuttavia ben
presto il principio probabilistico, in generale, ed, ancor più, in particolare,
quello fisico-quantistico di indeterminatezza di Heisenberg11 hanno, almeno in
parte, ridimensionato questa presunzione e riaperto il dibattito intorno al
libero arbitrio. 8 A. Comte, Opuscoli di filosofia sociale, Sansoni, Firenze
1969, pp. 182-183. 9 “Dobbiamo dire che generalmente i dati rendono il
risultato probabile. La causalità regge, diremo, in ogni esempio che abbiamo
potuto provare: perciò regge probabilmente anche in esempi non confermati. Ci
sono gravi difficoltà nel concetto della probabilità, ma per ora possiamo
trascurarle. Almeno finché è senza eccezione disponiamo così di un principio
logico”. B. Russell, La conoscenza del mondo esterno, Longanesi & C. Milano
1975, p. 38. 10 “Vi sono relazioni così invariabili tra eventi diversi avvenuti
nello stesso tempo o in tempi diversi che, dato lo stato di tutto l’universo in
un tempo finito, per quanto breve, ogni evento precedente o seguente può essere
determinato teoricamente in funzione degli eventi dati durante quel tempo”. B.
Russell, op. cit., p. 210. 11 “Al posto della precisione della posizione
subentra dunque in questa interpretazione l’immagine di una nuvola di materia,
il cui diametro sta nell’ordine di grandezza di 1013 cm e la cui densità decresce
dal centro verso l’esterno suppergiù al modo di una curva di Gauss”. W.
Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, cit., p. 101.
De libero o de servo arbitrio? 59 Il nesso
causa/effetto degli eventi è stato per lungo tempo centrale nell’alternativa
determinismo/indeterminismo, sino al punto da relegare il tema della libertà
del volere ed il relativo indeterminismo nell’ambito delle questioni
metafisiche e degli errori di logica. In proposito Nietzsche si esprime in modo
estremamente chiaro: La credenza originaria di ogni essere organico è forse
addirittura questa, che tutto il resto del mondo sia uno e immobile. Da quel
grado originario del pensiero logico è lontanissimo il pensiero della
causalità: anzi, ancora oggi, noi pensiamo in fondo che tutti i sentimenti e le
azioni siano atti della libera volontà: se un individuo senziente si osserva,
considera ogni sensazione, ogni mutamento come qualcosa di isolato, ossia non
condizionato, privo di senso, che affiora in noi senza legami col prima e col
dopo. [...]. Dunque, la fede nella libertà del volere è un errore originario di
ogni essere organico, che esiste sin da quando esistono in esso gli stimoli del
pensiero logico; e allo stesso modo è un errore originario e ugualmente antico
di ogni essere organico la fede in sostanze non condizionate e in cose uguali.
Ma, in quanto ogni metafisica si è occupata prevalentemente di sostanza e di
libertà del volere, la si può definire come la scienza che tratta degli errori
fondamentali dell’uomo – come se fos- sero però verità fondamentali12.
Estremamente interessanti in merito si presentano i più recenti studi
biochimici e neurologici. In particolare, poiché i neuroni per scambiarsi
scariche elettriche attraverso le connessioni sinaptiche necessitano di ener-
gia, che è loro fornita dal glucosio e dall’ossigeno trasportato dal sangue, è
possibile misurare l’attività cerebrale attraverso l’incremento distrettuale di
tale flusso. Ciò si ottiene grazie a metodologie di esplorazione funziona- le
del cervello quali la tomografia a emissione di protoni per il consumo di
glucosio (PET – positron emission tomography) e la risonanza magnetica
funzionale, per il flusso ematico (fMRI – functional magnetic resonance
imaging). Un esperimento specifico, condotto da Benjamin Libet (1916-2007) e
finalizzato a misurare il, così detto, potenziale di prontezza (ossia il cam-
biamento elettrico cerebrale del soggetto, ormai da tempo dimostrato, in
presenza di movimenti volontari) sembra giuocare a favore di un determi- nismo
inconscio. Infatti, il distretto cerebrale corrispondente al movimento
volontario in esame si attiva 550 msec prima dell’atto presupposto volon-
tario. Dunque, sembrerebbe che un impulso inconsapevole anticipi l’azio- ne, ma
la volontà di agire diviene consapevole 100-150 msec prima della effettiva
manifestazione nel mondo esterno dell’azione stessa. 12 F. Nietzsche, Umano,
troppo umano I, in Opere 1870/1881, cit., p. 529.
60 Il diritto come estetica Si può ritenere che le azioni
volontarie comincino con iniziative inconsce, che vengono borbottate dal
cervello. La volontà cosciente quindi selezione- rebbe quali di queste
iniziative possono proseguire per diventare un’azione, o quali devono essere
vietate e fatte abortire in modo che non compaia nessun atto motorio13. Ciò
comporta che l’esperimento consente anche di ipotizzare, in que- sti istanti
consapevoli, una attività di veto del soggetto nei confronti del processo messo
in atto per giungere all’azione ed il vietare è pur sempre espressione di
libero arbitrio, come il fare. Tuttavia è possibile obiettare, non solo e non
tanto, che il concetto di causa non coincide con quello di correlazione, ma,
soprattutto, che il concetto di conscio non si identifica con quello di
arbitrio. Infatti, è possibile essere consapevoli che la casa, nella quale ci
si trova, stia per crollare, ma ciò non comporta né che si pos- sa agire sul
crollo, né che si possa compiere liberamente la scelta di restare o di fuggire.
Il punto da dimostrare, in relazione al libero arbitrio, riguar- da la scelta,
ossia l’origine dell’eventuale veto, non la consapevolezza o meno dell’azione.
Del resto, tale dimostrazione scientifica pare logicamen- te impossibile,
poiché la verifica/falsificazione empirica può rilevare solo i nessi, gli
accoppiamenti causali, ma tali nessi possono essere considerati pressoché
infiniti, quindi non sottoponibili tutti ad una sistematica speri- mentazione.
Soprattutto non possono essere presi in considerazione, per ovvia
impossibilità, i nessi ignoti e non immaginati come possibili dallo scienziato.
Conseguentemente si può solo empiricamente affermare che l’eventuale veto
all’azione nei precedenti 100/150 msec all’azione stessa può essere libero, ma
può anche essere determinato da un nesso causale ignoto (l’assenza di nesso
causale è solo assenza di nesso noto o ipotizza- to come possibile); ciò
prescindendo da tutti i molteplici condizionamenti noti14. 13 B. Libet, Mind
time. Il fattore temporale nella coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano
2007, p. 143. 14 “Nessuna libertà assoluta dunque, bensì uno spazio di manovra
limitato dalla nostra eredità biologica, dal luogo e dal tempo in cui ci siamo
trovati a nascere, dalle esperienze familiari, dalla banda criminale a cui
abbiamo voluto aggregarci, o dall’associazione differenziale a cui siamo stati
esposti, insomma: uno spazio di manovra limitato dalla nostra storia, nostra in
quanto in gran parte costruita da noi”. I. Merzagora Betsos, Colpevoli si
nasce? Criminologia, determinismo, neuroscienze, Raffaello Cortina Editore,
Milano 2012, p. 101. Cfr. anche E. Soresi, Il cervello anarchico, UTET, Torino
2013. L’Autore affida lo studio delle relazioni intercorrenti tra mente e corpo
ad una nuova scienza, la psico-neuro- endocrino-immunologia (PNEI). Intorno a
detta scienza vedere anche P. Lissoni, Teologia della scienza, Editore Natur,
Milano 2003. De libero o de servo
arbitrio? 61 Vi è poi un ulteriore impedimento logico alla dimostrazione
empirica dell’esistenza del libero arbitrio: quest’ultimo è caratterizzato da
assenza di nessi causativi estranei alla volontà stessa del soggetto agente, ma
ciò si- gnifica che la volontà dovrebbe essere indagata prima della sua
manifesta- zione empirica e ciò non è possibile per definizione. L’assenza di fenomeni
empirici non può essere studiata con metodologia empirica; il nulla fisico non
può essere né falsificato, né verificato, ma solo rinviato o non rinviato a
realtà trascendenti, immateriali, metafisiche. Cercare la causa di una vo-
lontà significa già presupporre il determinismo, poiché la volontà è libera
solo se priva di cause, salvo la volontà stessa del soggetto agente (autore-
ferenzialità ed autonomia), ma nulla è privo di cause nel mondo fisico ed una
volontà del tipo indicato non può appartenere al mondo fisico; anche la scelta
soggettiva, presupposta libera, è ancorata all’essere soggettivo, alla sua
psiche ed al suo corpo, ossia ai condizionamenti culturali e materiali sia
ambientali, sia personali. L’indagine sul libero arbitrio è, dunque, una
indagine sul nulla o sul metafisico; non è possibile ipotizzare l’esistenza di
un libero arbitrio senza duplicare il reale in entità trascendenti la fisicità,
si- ano esse divine o meramente mentali astratte, non risiedenti comunque nel
corpo dell’individuo agente. La consolatoria conclusione di Libet in argo-
mento pare indirettamente confermare le considerazioni appena formulate: La mia
conclusione sul libero arbitrio – libero davvero, in senso non deter- ministico
– è che la sua esistenza è un’opinione scientifica altrettanto buona, se non
migliore, della sua negazione in base alla teoria deterministica delle leggi
naturali. Data la natura speculativa di entrambe le teorie, quella
deterministica e quella non deterministica, perché non adottare il punto di
vista che abbiamo il libero arbitrio, almeno finché non compaia – ammesso che
compaia – qualche evidenza che realmente lo contraddica? Questo ci permette,
almeno, di proce- dere in un modo che accetta e accoglie i nostri più profondi
convincimenti e il comune sentire, che ci dicono che il libero arbitrio lo
possediamo15. Resta il problema che solo il determinismo può essere
assoggettato ad indagine empirica e non anche l‘indeterminismo!
Conseguentemente, con- scia o inconscia che sia l’origine di un’azione, il tema
da affrontare resta la presenza o l’assenza di libertà nella dimensione sia
conscia, sia incon- scia e questo tema rinvia, per il libero arbitrio, ad un
livello immateriale privo di quell’origine deterministica propria del mondo
fisico: il mondo si duplica necessariamente per rispondere alla domanda, ma la
necessità, in questo caso, ha natura logica, non certo empirica. Il punto
focale di questa 15 B. Libet, Mind time. Il fattore temporale nella coscienza,
cit., p. 160. 62 Il diritto come
estetica discussione non sembra, dunque, essere il nesso di causa ed effetto od
an- che le leggi costanti e generali di comportamento e neppure le probabilità
statistiche di accoppiamento dei fenomeni, ma, piuttosto, il fattore con-
dizionante l’esistenza stessa del concetto di scelta, ossia il fattore tempo:
se scegliere significa generare azioni successive in alternativa tra loro, le
azioni di questo tipo si possono produrre solo in un sistema in movimento,
ossia condizionato dal tempo. I sistemi acronici sono privi di movimento e,
quindi, anche di scelte, ma di ciò si parlerà più oltre. Al determinismo
neuro-biologico, appena considerato, può aggiungersi una ulteriore forma di
determinismo, nel quale determinante non appare il nesso causa/effetto, ma la
totalità dell’essere con i propri caratteri e le proprie qualità, già e per
sempre dispiegate nelle sue parti specifiche ed individuali. Questo
determinismo si presenta espresso con rigore da Spi- noza, come in parte si è
già visto, nella sua sintetica espressione Deus sive Natura. La totalità della
Natura, governata dalle proprie naturali leggi, determinazioni, assurge al
ruolo di divinità impersonale. Il problema non riguarda più tanto la catene
causativa degli eventi, ma i caratteri peculiari, con linguaggio moderno si
potrebbe dire genetici, delle sue parti, i quali, per necessità, non possono
che estrinsecarsi nell’attività di queste sue parti, nelle azioni, se si tratta
di animali e di animali umani. Ognuno esiste per sommo diritto di natura, e conseguentemente
per sommo diritto di natura ognuno fa quelle cose che seguono dalla necessità
della sua natura; e perciò, per sommo diritto di natura, ognuno giudica cosa
sia bene e cosa sia male, e provvede alla sua utilità secondo il suo giudizio,
e si vendica, e si sforza di conservare ciò che ama e di distruggere ciò che ha
in odio16. Esponente di questa tendenza deterministica di pensiero pare essere
an- che Nietzsche, come risulta con evidenza dal seguente brano: Che gli
agnelli non amino i grandi uccelli predatori non sorprende nessuno: ma non
autorizza certo a rimproverare i grandi predatori per il fatto di cacciare gli
agnelli. E se gli agnelli dicono tra loro: “Questi predatori sono malvagi; e
chi è rapace il meno possibile, anzi chi è addirittura l’opposto, un agnello
cioè, non dovrebbe essere buono?”, non possiamo certo biasimare questo criterio
di edificazione ideale, anche se i predatori stessi considereranno la cosa con
un 16 B. Spinoza, Etica. Dimostrata con metodo geometrico, Editori Riuniti, Roma
2002, p. 258. “Infatti, alla natura di una cosa non appartiene nulla se non ciò
che segue dalla necessità della natura della causa efficiente, e tutto ciò che
segue dalla necessità della natura della causa efficiente accade
necessariamente”. Ibidem, p. 233. De
libero o de servo arbitrio? 63 certo scherno e si diranno probabilmente: “Noi
non li odiamo affatto, questi buoni agnelli, anzi li amiamo, niente è più
squisito di un tenero agnello”. – Pretendere dalla forza che essa non si
manifesti come forza, che essa non sia volontà di sopraffazione, volontà di
oppressione, di potere, che essa non sia sete di nemici e di resistenze e di
trionfi, è tanto assurdo come il pretendere dalla debolezza che essa si
manifesti come forza17. I rapaci e gli agnelli di Nietzsche si sovrappongono
idealmente ai pesci grandi ed a quelli piccoli di Spinoza, nell’evidente
tentativo di evitare, at- traverso il determinismo della forza, della potenza
insita in ciascuna entità vivente, il giudizio morale. Il vivente si trasforma
in un indifferenziato Tutto, nel quale minerali, vegetali, animali ed umani
rivestono ciascuno il proprio ruolo predeterminato ed esplicano le diverse
potenzialità volitive ed operative, che sono state loro assegnate dalla loro
stessa natura, senza poter sfuggire ai limiti imposti da quest’ultima. La forza
necessitante è consustanziale all’individualità: la pietra non possiede organi
riproduttivi e, quindi, non può riprodursi, ma si moltiplica per frantumazione;
la pianta non ha gambe per camminare e, dunque, vive sempre nel medesimo luogo;
la maggioranza degli animali non possono opporre il dito pollice alle altre
dita della medesima mano, conseguentemente non possiedono manualità ed hanno
sviluppato inevitabilmente attività artigianali limitatissime; l’es- sere umano
vive respirando ossigeno e muore se respira anidride carboni- ca. A causa di
questa particolarità può abitare esclusivamente su pianeti simili, per
caratteri atmosferici, alla Terra. Questo determinismo sembra paragonabile
all’opera di un tiranno, che imprigiona i propri sudditi entro carceri diversi
in qualità per ciascuna categoria di essi, ma anche per cia- scun individuo di
ciascuna categoria (ad esempio esseri umani nati senza braccia o diabetici).
L’unica differenza consiste nella fonte del vincolo: mentre nel caso della
Natura il determinismo si presenta autonomo, cioè proprio della natura stessa,
nel caso del tiranno esso è eteronomo, ossia proveniente dall’esterno del
soggetto agente. Per descrivere la diversità dei due modelli attraverso la
tripartizione sopra ricordata del significato di poter fare qualcosa, proposta
da Ross, si deve dire che il modello determi- nista spinoziano non lascia
spazio né all’occasione, né alla capacità, né alla volontà, mentre il modello
del tiranno inibisce solo l’occasione. Oltre a questa ipotesi determinista è
possibile formulare almeno altre due ipotesi. La prima strettamente legata alla
visione di un mondo governa- to da rigide leggi causali in sviluppo cronologico
progressivo, in sintesi, un 17 F. Nietzsche, Genealogia della morale, Newton
Compton Editori, Roma 1977, p. 64. 64
Il diritto come estetica mondo programmato in via di sviluppo; la seconda,
invece, frutto della vi- sione di un mondo acronico, privo di tempo. Non pare
il caso di soffermarsi ulteriormente sulla prima ipotesi, già trattata in
precedenza, se non per dire che tale ipotesi può essere presa in considerazione
sia dal punto di vista della Totalità di un Essere (realtà, mondo) in sviluppo
determinato e pro- gressivo, ed è di questo che qui si discute, sia dal punto
di vista dei singoli gruppi, delle singole catene di nessi causali, come
l’ipotesi è stata discussa in precedenza e come è usata in ambito strettamente
scientifico. Il mondo in sviluppo causale conserva la variabile tempo, mentre
l’ulteriore ipotesi determinista, che si tratterà ora, non prevede l’esistenza
di tale variabile. Il tempo non esiste. L’affermazione sembra forte,
controintuitiva, ma anche falsificata dall’evidenza empirica del divenire,
eppure da Parmenide a Severino, molti filosofi hanno percorso questa strada. La
qualità non me- ramente logica delle affermazioni di Heidegger, consiglia di
orientarsi, per esemplificare il tema, verso questo filosofo: Il tempo ha
sempre funzionato come criterio ontologico o, meglio, ontico nella distinzione
ingenua delle diverse regioni dell’ente. Si delimita qualcosa che è
temporalmente (i processi della natura e gli accadimenti della storia) rispetto
a ciò che è non temporalmente (le relazioni spaziali e numeriche). Si è soliti
distinguere un senso a-temporale delle proposizioni rispetto al decorso
temporale delle enunciazioni. Infine si trova un abisso tra l’ente temporale e
l’eterno sovratemporale e ci si ingegna nel gettare fra essi un ponte.
Temporale equivale qui in entrambi i casi ad essente nel tempo, una
determinazione che, tra l’altro, è abbastanza oscura18. Il panorama del tempo
heideggeriano si presenta come una estensione spaziale, nella quale si
manifestano gli essenti, si illuminano, per poi scom- parire nuovamente dietro
il sipario del tempo. L’ente che reca il titolo di esser-ci è rischiarato.
[...]. È solo in base al ra- dicamento dell’esser-ci nella temporalità che
diventa intelligibile la possibilità esistenziale di quel fenomeno, che
all’inizio dell’analitica dell’esserci abbiamo contraddistinto come
costituzione fondamentale: l’essere-nel-tempo19. Il tempo sfuma e con esso si
affievoliscono anche le sue articolazioni in passato, presente e futuro. In
fondo è solo la memoria che consente una simile distinzione. Dunque, la
principale prova dell’esistenza del tempo ha natura psicologica: ricordo,
quindi, ho vissuto il passato, ma, a parte 18 M. Heidegger, Essere e tempo,
cit., p. 37. 19 M. Heidegger, op. cit., p. 492.
De libero o de servo arbitrio? 65 l’ipotesi di Malebranche di un
mondo creato da Dio attimo dopo attimo, l’organizzazione cronologica degli
eventi potrebbe essere determinata dal- la forma categoriale, di kantiana
memoria, della nostra conoscenza: cono- sciamo attraverso la categoria del
tempo, che in questo caso risiederebbe in noi e non fuori di noi; avrebbe una
esistenza solamente gnoseologica, non anche ontologica. Russell avanza proprio
questo sospetto: La differenza che sentiamo [...] tra cause ed effetti è una
semplice con- fusione, dovuta al fatto che ricordiamo gli eventi passati ma non
ci capita di ricordare i futuri. L’indeterminatezza apparente del futuro su cui
fanno assegnamento alcuni sostenitori del libero arbitrio, è soltanto il
risultato della nostra ignoranza rela- tiva ad esso. [...]. Il libero arbitrio
in ogni significato importante deve essere compatibile con la conoscenza più
completa. [...]. La nostra conoscenza del passato non è basata interamente
sulle deduzioni causali, ma deriva in parte dalla memoria. È un puro caso se
noi non abbiamo memoria del futuro. [...]. Si deve ricordare che la previsione
supposta non creerebbe il futuro più di quanto la memoria non crei il
passato20. Risulta evidente che Russell costruisce il proprio ragionamento
sulla indifferente reversibilità dei fenomeni di causa e di effetto, proprietà
che è tipica delle operazioni di fisica teorica; inoltre, nell’accogliere
questa ope- razione riduce necessariamente la funzione tempo ad un
indifferenziato presente. Probabilmente la posizione privilegiata di un
filosofo, che è stato al contempo anche un insigne matematico, ha consentito a
questo Autore di vivere pienamente le suggestioni di fisica teorica, che i
tempi agitavano. Se il mondo è privo di divenire e di movimento, che
rappresenta una delle possibili forme del divenire, è anche privo di tempo,
poiché non è pensabile divenire e movimento senza tempo. Riappaiono i fantasmi
del- la scuola eleatica e della formulazione del principio di identità
assoluta, ontologica: l’essere è e non può non essere. Se l’identità non può
essere nientificata nell’essere altro, ossia non essere più se stessi allora il
divenire è pura illusione psicologica. Queste riflessioni di natura filosofica,
nel se- colo passato hanno trovato sostegni e conforto anche in campo
scientifico: L’equazione di Wheeler-De Witt, secondo l’interpretazione più
diretta, ci dice che l’universo nella sua interezza è simile a una enorme
molecola in uno stato stazionario e che le diverse configurazioni possibili di
questa molecola mostruosa sono gli istanti di tempo. La cosmologia quantistica
diventa l’estre- 20 B. Russell, La conoscenza del mondo esterno, cit., pp.
224-225. 66 Il diritto come estetica ma
estensione della teoria della struttura atomica e, simultaneamente, com- prende
il tempo. Domandiamoci di nuovo quali conclusioni possiamo trarne in relazione
al tempo. Le implicazioni sono quanto mai profonde. Il tempo non esiste. Esiste
soltanto la mobilia del mondo che noi chiamiamo istanti di tempo21. L’equazione
sopra richiamata, detta anche di Einstein – Schrödinger (1877-1961), cerca di
conciliare la meccanica quantistica, che necessita di un tempo definito, con la
relatività generale, che lo nega, per descrivere la gravitazione quantistica.
Johon Wheeler (1911-2008) e Bryce De Witt (1923-2004) nel tentare questa
difficile operazione, non ancora completa- mente risolta, evidenziarono, forse
anche in parte inconsapevolmente, che la funzione tempo si presentava come
problematica e lo stesso concetto di tempo poteva essere messo in discussione.
Del resto, già la teoria einstei- niana della relatività, proponendo la
relatività, rispetto all’osservatore, del tempo, non poteva che presupporre non
solo l’assenza di un tempo asso- luto, ma anche l’irrilevanza conoscitiva di un
prima e di un dopo (rispetto a cosa?), di cui l’indifferenza di Russell per il
passato ed il futuro ne sono una coerente espressione. Ma se passato e futuro
si propongono come in- differentemente intercambiabili, la realtà nel suo
insieme, il Tutto, non può che possedere un’unica dimensione temporale: il
presente. Dunque, è nel solo presente che si può discutere del libero arbitrio
in questa ipotesi deter- minista. Il solo presente trasforma il tempo in una
sorta di spazio (spazio/ tempo, appunto), nel quale gli eventi non trascorrono,
ma sono collocati, dispiegati, come tanti libri in una libreria. Ciascuno può
narrare la propria storia, ma sempre quella, il cui finale è ben noto sin
dall’inizio e, comun- que, immodificabile. In questa ipotesi i fenomeni possono
essere solo de- scritti, non anche voluti, ed il libero arbitrio non viene meno
né per catene causali predeterminate di eventi biologici, biochimici,
neurologici etc., né per la natura necessitante dei caratteri e delle potenze
dei singoli enti, ma semplicemente perché non esiste il tempo ed il divenire,
quindi non ha sen- so parlare di scelte libere o condizionate, che siano. Il
mondo si presenta come una pellicola cinematografica, il cui movimento
illusorio è dato dallo scorrere della successione dei singoli fotogrammi, in se
immobili, statici, o, se si preferisce un paragone più naturalistico, come una
prateria unifor- me, della quale è possibile descrivere sassi, piante, animali
ed umani, che vi alloggiano, ma completamente priva di ogni arbitrio umano o divino
21 J. Barbour, La fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura,
Einaudi, Torino 2003, p. 247. Cfr. anche P. Yourgrau, Un modo senza tempo.
L’eredità dimenticata di Gödel e Einstein, il Saggiatore, Milano 2006.
De libero o de servo arbitrio? 67 (salvo che
divina non venga considerata la prateria stessa). Questa totale assenza di
arbitrio e ben descritta da Ross: Ognuno deve agire esattamente a quel modo che
è determinato ad agire. Il nocciolo del problema può chiarirsi con la storiella
del ladro, il quale si difen- deva dicendo che, essendo egli determinato ad
agire così come aveva agito, e non avendo egli alcuna possibilità di sfuggire
alla necessità ineluttabile della legge della causalità, sarebbe stato assurdo
e ingiusto punirlo. E il giudice gli rispondeva: sì, Lei ha ragione. Il Suo
comportamento era determinato e Lei non ha potuto sfuggire alla necessità che
governa tutto l’universo. Lo stesso vale però per la società e per me in quanto
suo rappresentante. La società è determi- nata a difendersi da aggressioni come
la Sua e perciò io Le infliggo una pena22. Il contesto della storiella si
colloca all’interno di un condizionamento governato dalla catena causale, ma si
adatta ancora meglio ad un mondo privo di tempo, nel quale non ha neppure senso
parlare di scelte e tutti si manifestano per quelli che sono, collocati in quel
luogo da sempre e per sempre, in una eternità non data da un tempo infinito, ma
da una completa acronicità. Riguardo al libero o servo arbitrio ogni proposta di
soluzione del proble- ma non può che essere considerata una semplice ipotesi di
lavoro, poiché le eventuali soluzioni non si prestano ad una verifica empirica;
pertanto l’affermazione o la negazione del libero arbitrio deve essere
considerata una mera proposizione a priori. La verifica/falsificazione empirica
del determinismo o dell’indetermini- smo risulta metodologicamente impossibile
a causa, oltre a quanto prece- dentemente già sostenuto, anche per
l’irripetibilità dell’atto presunto voli- tivo. Infatti, se nel tempo to si
presenta l’alternativa tra il compiere l’azione A o l’azione B e si compie
l’azione A, nel tempo t1 si potrà forse anche compiere l’azione B, ma ciò non
dimostra che la si poteva compiere anche nel tempo to. Per poter raggiungere questa
dimostrazione si dovrebbe poter ripetere la scelta dell’azione, questa volta B,
nel tempo to, poiché la ripetiti- vità dell’esperimento in questo caso non
riguarda una serie di eventi simili (solo simili: ogni evento varia rispetto ad
un altro almeno per il tempo nel quale si realizza, oltre che per la sua
configurazione interattiva), ma la scel- ta stessa dell’evento da mettere in
essere. Poiché è la scelta, non l’oggetto della scelta, da sottoporre a
verifica/falsificazione empirica, dovrà essere possibile ripetere l’atto dello
scegliere, non ciò che si è scelto o non scelto, ma ciò risulta impossibile per
l’unidirezionalità presunta del tempo: dal 22 A. Ross, Colpa, responsabilità e
pena, cit., pp. 184-185. 68 Il diritto
come estetica presente pare possibile accedere solo al futuro ed impossibile
tornare nel passato, almeno per una concezione assoluta del tempo23. Il tempo
in mo- vimento unidirezionale, dunque, impedisce di trasformare il libero
arbitrio da concetto a priori in concetto a posteriori, condannandolo in tale
modo alla dimensione metafisica. Oltre all’impossibilità empirica di
raggiungere certezze in questo cam- po, si presenta anche un ulteriore
impedimento, questa volta di natura lo- gica: se il determinismo descrivesse,
corrispondesse effettivamente alla realtà, alla struttura del nostro mondo,
allora essere monista o dualista ed, addirittura, essere determinista o
indeterminista sarebbe una condizione imposta deterministicamente. Pertanto
prima di affrontare il tema del com- portamento e delle convinzioni individuali
si dovrebbe descrivere e spie- gare il modello di sistema, nel quale
comportamenti e convinzioni sono collocati. Se il sistema è deterministico
saranno condizionate, non libere, anche le azioni e le convinzioni, che in esso
si agitano, ma, viceversa, se il sistema è indeterministico le azioni e le
convinzioni ad esso afferenti po- trebbero essere anch’esse libere oppure
vincolate da un determinismo cau- sativo interno al sistema stesso (è il caso
del principio di indeterminazione, che opera solo a livello subatomico).
Tuttavia, per sapere se un sistema è o non è deterministico si devono
analizzare empiricamente le azioni e le con- vinzioni che lo compongono.
Risulta evidente il corto circuito che si crea: per conoscere del sistema si
deve conoscere delle azioni e delle convinzio- ni che lo compongono, ma per
conoscere delle azioni e delle convinzioni che lo compongono si deve conoscere
il sistema. Si è in presenza di una evidente petitio principi, che impedisce
ulteriori conoscenze. 23 Questo esperimento mentale risulta valido solo nella
realtà a dimensione umana, ove il tempo è assoluto (tempo assoluto newtoniano),
a livello di fisica teorica, invece, perde di validità o perché il tempo
diviene relativo e consente viaggi almeno nel futuro (teoria della relatività
einsteiniana), o perché addirittura il tempo è proprio considerato inesistente
(teoria quantistica a loop). “A livello fondamentale, il tempo non c’è.
L’impressione del tempo che scorre è solo un’approssimazione che ha valore solo
per le nostre scale macroscopiche: deriva dal fatto che osserviamo il mondo
solo in modo grossolano”. C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La
struttura elementare delle cose, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, p.
159. “Il tempo non è che un effetto del nostro trascurare i microstati fisici
delle cose. Il tempo è l’informazione che non abbiamo. Il tempo è la nostra
ignoranza”. Ibidem, p. 220. 4. DIRITTO
ARTIFICIALE L’ambito culturale del diritto presenta un ulteriore dualismo
rispetto a quelli precedentemente affrontati: il dualismo diritto naturale,
diritto po- sitivo, meglio, artificiale. Tale dualismo non si discosta dal
modello di duplicazione del mondo, ispirato ad una visione speculare, ma
perfetta, della realtà empirica: al concreto corrisponde l’astratto; al
particolare il generale; al visibile l’invisibile; al finito l’infinito; al
relativo l’assoluto; al fisico il metafisico; all’umano il divino. Questa
specularità opera anche nel campo del diritto e genera, a fronte del diritto
positivo, imposto dalla forza degli esseri umani dominanti, un diritto
assolutamente giusto, detto natu- rale. Ovviamente, il processo potrebbe essere
interpretato anche in senso contrario: il diritto naturale, per specularità,
ispira la produzione del diritto positivo, che, tuttavia, si presenta relativo
ed imperfetto, ossia non necessa- riamente giusto, ma solo valido ed efficace,
rispetto al modello imitato. La differenza tra i due diritti è tutta giuocata
intorno ai concetti contrapposti di assoluto/relativo e di giusto/ingiusto. Si
tratta, dunque, di evidenziare l’origine, la fonte di questi concetti,
rispettivamente nei due tipi di diritto. Il diritto naturale propone come
propria fonte la dimensione assoluta dell’Essere, sia esso Dio, la Ragione o la
Natura. Non cambiano molto i caratteri di queste tre denominazioni, che,
sostanzialmente, esprimono il medesimo referente; ciò che muta è solo il
necessario dualismo del rea- le, implicito nel concetto di Dio, a fronte della
duplice compatibilità dei concetti di Ragione e di Natura sia con la realtà
dualista che con quella monista. Infatti, la Ragione può appartenere solo al
mondo fisico, può dua- lizzarsi nella res cogitans e può anche risiedere nel
mondo metafisico; la medesima riflessione può essere svolta intono alla Natura,
che può essere vista come una realtà completamente immanente o come il
corrispondente degradato di una realtà trascendente. Non conviene addentrasi
nella discussione intorno ad una Natura me- tafisica, giacché non si avrebbe
alcun strumento di riscontro delle affer- mazioni, se non il proprio o l’altrui
personale convincimento. Conviene quindi appoggiarsi ad un concetto di Natura
immanente e procedere con 70 Il diritto come
estetica lo strumento della constatazione empirica. In questo limitato ambito
si incontrano due diversi significati dell’espressione diritto naturale. Da un
lato, si intende descrivere la costanza di comportamento degli eventi na-
turali: la legge di gravità, le condizioni che fanno franare una montagna,
scoppiare un temporale, sollevare le maree, morire un essere vivente, etc.. In
questo significato l’espressione è semplicemente descrittiva di ciò che
avviene. Dall’altro lato, invece, la stessa espressione acquista una valenza
prescrittiva di comportamenti, che possono essere seguiti o violati a livello
umano (se si accoglie l’ipotesi dell’esistenza del libero arbitrio), ossia sono
relativi, ma che a livello dell’Assoluto si impongono come inderogabili,
necessitanti, poiché a tale livello conoscenza e volontà coincidono. Detta
inderogabilità si traduce nel mondo umano in valorialità assoluta sul piano
morale e, tuttavia, non necessitante su quello fisico come le leggi naturali,
descrittive di fenomeni. Ancora una volta la scriminante passa attraverso il
libero arbitrio: se esiste, la legge naturale non è necessitante, se non
esiste, lo è ed, in quest’ultimo caso, scompare la differenza tra i due
significati dell’espressione, che resta solo descrittiva. A livello empirico è
facilmente constatabile che i comportamenti umani non sono omogenei, uniformi,
ma divergono, anche profondamente, gli uni dagli altri (ciò che è bene per gli
uni è male per gli altri e viceversa) e tale constatazione è stata portata da
taluni autori come prova evidente dell’ine- sistenza del diritto naturale in
quanto prescrizione giuridica assoluta. Come una sgualdrina, la legge naturale
è a disposizione di tutti. Non esiste ideologia che non si possa difendere con
un appello alla legge naturale. E a ben vedere come potrebbe essere altrimenti,
dal momento che il fondamento ulti- mo di ogni diritto naturale risiede in una
immediata percezione privata, in una contemplazione evidente, in una
intuizione? Non può la mia intuizione essere buona quanto la vostra?
L’evidenza, assunta a criterio di verità, spiega il ca- rattere assolutamente
arbitrario delle affermazioni metafisiche. Essa le innalza sottraendole alla
forza del controllo intersoggettivo, aprendo completamente la porta alla libera
fantasia e al dogmatismo1. La prova empirica permane in tutta la sua validità,
ma mostra il proprio limite, ossia resta solo empirica, e come tale, non può
escludere che il diritto naturale non sia monolitico, ma, bensì, pluralista od,
addirittura, ni- chilista. In queste due ultime ipotesi la contraddittorietà
dei diritti naturali non dimostrerebbe la loro inesistenza, ma semplicemente il
loro carattere variabile in dipendenza da fattori a noi ignoti: tempo, luogo,
individui inte- 1 A. Ross, Diritto e giustizia, Einaudi, Torino 1965, p. 246.
Diritto artificiale 71 ressati (perché mai il
diritto naturale dovrebbe essere egualitario ed uguale per tutti?), etc..
L’empiria, tuttavia ci riconduce ad osservare la realtà naturale, nella quale
vive l’essere umano. Come si è già detto, il panorama è desolante e fortemente
immorale agli occhi della nostra attuale cultura umana: il più forte vince sul
debole, il cannibalismo governa tutto il biologico, il com- portamento etico
risulta indifferente alla buona o cattiva sorte umana, al premio o alla pena e
la morte trionfa su tutto e su tutti. Sembra che nella natura e nella vita non
vi sia alcun senso. Infatti già Giobbe, il personaggio biblico, si interrogava:
Perché mai fu data all’infelice la luce, e la vita agli amareggiati d’animo? I
quali anelano la morte – che pur non viene – come si cerca un tesoro
[nascosto]; i quali si rallegrano oltre ogni dire, allorché hanno trovato un
sepolcro? [Perché fu data la luce] all’uomo, la cui via è nascosta, avendolo
Dio circondato di tenebre?2. Il senso lo si è dovuto trovare ancora una volta
nello sdoppiamento del mondo, nella dimensione metafisica, religiosa. Comunque,
stando alle rile- vazioni empiriche, non pare che vi sia molto da mutuare dal
diritto naturale per la vita umana. Anzi, è proprio l’orrore della natura che
ha indotto l’es- sere umano a cercare differenti modelli di comportamento,
modelli artifi- ciali, non naturali. Il diritto positivo rientra nel novero di
questi modelli. L’artificialità si è sostituita, per motivi forse
deterministici, etici o forse anche utilitaristici, alla naturalità. Il
dibattito intorno alla natura benigna o maligna di questo mondo appassionò in
passato molti autori tra i qua- li è possibile ricordare Gottfried Leibniz
(1646-1716), quale sostenitore dell’affermazione che questo è il migliore dei
mondi possibili in quanto creato da Dio, e François-Marie Arouet, detto
Voltaire (1694-1778), che contesta tale posizione da un punto di vista
filosofico. L’affermazione di Leibniz si presenta evidentemente metafisica e
teologica, ossia a priori, mentre la critica di Voltaire si muove in ambito
filosofico ed empirico, ossia a posteriori, tanto che quest’ultimo Autore la
affida anche ad un rac- conto satirico, Candide, ou l’Optimisme. 2 Giobbe, 3,
20-23. 72 Il diritto come estetica
Signori – disse Cocambo – voi dunque pensate di mangiare un gesuita oggi; molto
bene, nulla è più gustoso del trattare così i propri nemici. In effetti il
diritto naturale ci insegna a uccidere il nostro prossimo, ed è così che si
agisce in tutto il mondo. Se non esercitiamo il diritto di mangiarlo, è perché
abbiamo altro per fare un buon pranzo; ma voi non avete le nostre stesse
risorse; certo è meglio mangiare i propri nemici anziché abbandonare il frutto
della propria vittoria a corvi e cornacchie. Ma signori, voi non vorreste
mangiare i vostri amici 3. Si ripresenta il solito dualismo ontologico,
umano/divino, e valoriale, bene/male, di cui il dualismo diritto
naturale/positivo ne è una diretta de- rivazione. In ambito immanentista monistico
il dualismo riesce ad essere risolto attraverso l’artificialità dell’agire
umano, attraverso l’homo artifex che crea sempre e solo, pur sotto sembianze
diverse, un diritto artificiale. Una delle principali caratteristiche
dell’essere umano è quella di creare artefatti materiali ed immateriali,
oggetti ed idee, ossia di essere un artefi- ce; è questa una sua particolarità
congenita, che lo distingue da altre entità naturali, in particolare animali.
Dunque, quando si tratta di esseri umani la naturalità coincide con
l’artificialità. È naturale per l’essere umano essere artificiale. La mano
impugnò prima il pugno, poi la spada e la pistola per difendere il proprio
corpo. La mente ideò il diritto per rendere più certi i rapporti
interpersonali. In questo modo nacque il diritto positivo, che è artificiale
per definizione, ma anche il diritto naturale, se espressione della creazione
umana di un modello ideale, è ugualmente artificiale e frutto di istanze etiche
tutte umane. La coscienza è un livello di sistema, una proprietà biologica
pressoché allo stesso modo in cui la digestione, o la crescita, o la secrezione
della bile sono livelli di sistema, proprietà biologiche. In quanto tale la
coscienza è una ca- ratteristica del cervello e perciò è parte del mondo fisico.
La tradizione contro cui mi batto dice che, essendo gli stati mentali
intrinsecamente mentali, non possono per ciò stesso essere fisici. Io sostengo
invece che, in quanto intrinse- camente mentali, essi sono un certo tipo di
stato biologico, e dunque a fortiori sono fisici4. La posizione di Johon R.
Searle è evidentemente materialista rispetto alla mens cogitans, pertanto
rispecchia un modello monista e immanentista del reale. Conseguentemente, in un
tale modello tutto il diritto è solo arti- ficiale, ossia umano e, quindi,
relativo alla cultura dei luoghi e dei tempi 3 Voltaire, Candido o l’ottimismo,
Publidue, Bolzano Novarese 1997, p. 56. 4 J.R. Searle, La mente, cit., p.
104. Diritto artificiale 73 in cui sorge.
In tale visione il diritto naturale è frutto della mente umana esattamente come
il diritto positivo e, pertanto, entrambe possono essere definiti diritti
artificiali. Paradossalmente potrebbero essere anche definiti come naturali,
poiché l’artificialità è una componente naturale, congeni- ta dell’essere
umano5. È bene precisare che il carattere umano di artifex non coincide con
l’espressione latina homo faber fortunae suae, poiché quest’ultima presuppone
un libero arbitrio che la prima ignora: non è pre- cisabile sotto quale spinta l’essere
umano crei manufatti ed idee. Ciò detto, si tratta di evidenziare in cosa si
diversificano questi due tipi di diritto (naturale e positivo), che manifestano
la medesima origine, quella umana. Il diritto naturale esprime la speranza,
sempre viva nell’essere umano, di accedere ad un mondo perfetto ed immutabile
di giustizia; aspirazione che, per altro, come si è visto, ha prodotto la
duplicazione del mondo reale. In questo caso l’accento non viene posto né sul
carattere della perfezione, né su quello dell’immutabilità, bensì sulla
giustizia. Cosa è giusto? La ri- sposta risiede nell’origine stessa del diritto
naturale artificiale. Il giudizio del singolo essere umano determina il
contenuto concettuale del sostantivo giustizia. Esso, dunque, si manifesta come
soggettivo e trascina con sé la relatività propria dei giudizi soggettivi. Non
si tratta di un valore assolto, ma semplicemente dell’espressione di
un’opinione, di una preferenza; ciò spiega ampiamente il suo, già ricordato,
carattere variabile. Per approfon- dire ulteriormente il discorso, quindi, si
dovrà abbandonare il giudizio in se stesso, il suo contenuto, per rivolgere
l’attenzione verso il soggetto che lo ha espresso, verso i suoi interessi, i
suoi gusti, la sua cultura. Infatti, è nel soggetto ed esclusivamente nel
soggetto, che è possibile comprendere non solo la variabilità dei contenuti del
giudizio di giustizia, ma anche la qualità di questi contenuti. Storicamente
gli esseri umani hanno prodotto da sempre utopie sociali tranquillizzanti, che
potessero fungere da faro verso il quale rivolgere, di- rigere la vita in
comunità. Dalla Repubblica di Platone al De Civitate Dei di Sant’Agostino
d’Ippona, all’Utopia di Thomas More (1478-1535), alla Città del Sole di Tommaso
Campanella (1568-1639), alla Nuova Atlantide di Francis Bacon (1561-1626), alle
Avventure di Telemaco di François de Salignac de La Mothe-Fénelon (1651-1715),
al Comunismo di Karl Marx (1818-1883), al movimento New Age dell’Era
dell’Acquario, e l’elenco è 5 Cfr. G. Barsanti, Dalla storia naturale alla
storia della natura. Saggio su Lamarck, Feltrinelli, Milano 1979. Vedere anche
M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli
Editore, Milano 1980. 74 Il diritto
come estetica solo esemplificativo, l’interesse per una società giusta si è
sviluppato attra- verso i secoli, chiedendo conforto ora all’assoluto
metafisico ed ora al rela- tivo immanente. In quest’ultimo caso l’accento è
stato generalmente posto sui valori della libertà e dell’eguaglianza, sia in
alternativa, sia in equilibrio instabile tra loro6. Il desiderio di far
prevalere il valore della libertà o quello dell’eguaglianza, come il cercare un
equilibrio tra i due, è espressione di precise situazioni sociali e personali
indagabili empiricamente. Basti pen- sare ai diversi interessi di potere ed
economici, nonché agli altrettanto di- versi gusti ideologici, culturali e
religiosi, presenti nelle menti dei singoli individui e nelle relative
organizzazioni sociali. Ovviamente i singoli orga- nizzati in gruppo dominante,
più forte, tenderanno a far prevalere le proprie visioni nell’ambito sociale e,
per raggiungere più agevolmente tale scopo, possono avvalersi non solo del
diritto positivo, ma anche, in funzione di sostegno, di quello naturale. Di
contro, i singoli appartenenti al gruppo dominato, recessivo, più debole,
tenteranno di opporsi alle visioni valoriali dominanti e, per fornire maggiore
forza alle proprie idee, faranno appello ad un ipotetico diritto naturale,
giusto per definizione. Il diritto naturale, dunque, può svolgere
alternativamente una funzione sociale di rafforzamento metafisico del diritto
positivo vigente o di contral- tare, sempre metafisico, al diritto positivo
dominante. La contrapposizione tra gruppi sociali dominati e recessivi si
manifesta, quindi, già nella dua- lizzazione tra diritto naturale e diritto
positivo, ma si esprime in modo più evidente intorno ai concetti di ideologia e
di utopia, così come vengono espressi da Karl Mannheim (1893-1947): [...] le
utopie trascendono la situazione sociale, in quanto orientano la con- dotta
verso elementi che la realtà presente non contiene affatto. Ma esse non sono
ideologie, non lo sono nella misura e fino a quando riescono a trasfor- mare
l’ordine esistente in uno più confacente con le proprie concezioni. Ad un
osservatore che abbia di esse un concetto relativamente estrinseco, questa
distinzione teoretica e del tutto formale tra ideologie e utopie sembra offrire
poche difficoltà. Determinare in concreto quale, in un certo caso, sia
l’ideologia e quale l’utopia è invece estremamente difficile. Noi ci troviamo
qui di fronte all’applicazione di un concetto che implica dei valori e dei
modelli. Per riuscire a questo, uno deve di necessità partecipare ai sentimenti
e alle finalità dei partiti in lotta per il potere su di una realtà storica7.
In sintesi, le ideologie esprimono prevalentemente l’opinione consoli- data dei
gruppi dominanti, mentre le utopie quella dei dominati; in questa 6 Cfr. C.
Rosselli, Socialismo liberale, Einaudi, Torino 1979. 7 K. Mannheim, Ideologia e
utopia, il Mulino, Bologna 1970, pp. 197-198.
Diritto artificiale 75 dualizzazione si manifesta all’incirca il medesimo
rapporto che intercorre tra diritto positivo e diritto naturale ed anche in questo
caso, sia l’ideologia che l’utopia sono realtà meramente umane, relative, pur
aspirando ad una dimensione assoluta. Ovviamente la distinzione è solo
indicativa, poiché non è sempre agevole individuare chi veramente domini e chi
sia vera- mente dominato ed in che misura. In ogni caso, il diritto naturale,
al pari dell’utopia, si presenta come una speranza, come una istanza politica
od etica; se si accoglie il dualismo fisica/metafisica, umano/divino, come la
voce, l’ombra empirica del metafisico, del divino. In questo modo il diritto,
in quanto organizzazione della forza fisica degli esseri umani nella storia, si
trasforma in forza anche morale attraverso un dover essere eteronomo, la cui
fonte è superiore a quella umana. Ma proprio quando viene meno, si prosciuga,
con lo svilupparsi del soggettivismo individualista, questa fonte eteronoma ed
il diritto aspira a divenire autonomo (democrazia o nichili- smo, poco rileva),
si indebolisce anche la sua forza morale ed il dover es- sere perde di senso in
favore del mi piace, come si dirà in seguito. A questa perdita di senso
corrisponde un progressivo evaporare del diritto naturale ed una corrispondente
identificazione del diritto positivo tout court con la forza. Il diritto
positivo, ma anche quello naturale, finalmente gettano la maschera e si svelano
come espressione della potenza dei gruppi sociali dominanti, che possono agire,
nel perseguimento dei propri fini, attraverso la violenza, il convincimento od
il condizionamento culturale. Sotto questo profilo le differenze tra dittatura,
monarchia, oligarchia e democrazia risul- tano marginali, poiché anche
quest’ultima, operando attraverso il principio maggioritario, si distingue solo
quantitativamente e non qualitativamente dall’uso della sopraffazione sul singolo
individuo dissenziente. Un ulteriore tentativo mistificatorio trova espressione
attraverso la se- parazione del concetto di ordinamento giuridico da quello di
Stato, come se un diritto potesse esistere come fonte originaria di doveri, di
obblighi, senza il supporto coercitivo di uno Stato, e come se le regole
imposte dallo Stato potessero vivere di vita propria senza lo Stato che le ha
generate. Si è ancora in presenza di una duplicazione, che assegna al diritto
una propria natura trascendente rispetto all’immanenza dello Stato. Immanen- za
e trascendenza continuano ad essere i protagonisti di questo dilemma tra
autonomia ed eteronomia, tra relativo ed assoluto, tra umano e divino. Ma il
dilemma è destinato a restare tale, poiché la scelta non può avva- lersi di
prove né empiriche, né logico-razionali. Le prove empiriche sono
impercorribili, incompatibili con le realtà non empiriche e quelle logico-
razionali non possono descrivere un mondo governato da una logica e da una
ragione diverse da quelle umane. La scelta resta, dunque, arbitraria,
76 Il diritto come estetica affidata ad assiomi, a
fede, la cui origine risale sempre e solo al soggetto, alla sua personale
convinzione, illuminazione ed, in quanto tale, ad esso relativa. Più in
generale, tutto il mondo empirico si manifesta sempre e solo come relativo al
soggetto che lo percepisce. Lo stato di natura, come si è detto, consiste in
una perenne lotta per l’esistenza e la sopravvivenza, che genera una generale
incertezza nei sog- getti consapevoli intono alla propria sorte. Da ciò
scaturisce l’esigenza e, contemporaneamente, il desiderio di costruire una
propria sicurezza di rapporti, sicurezza in gradazione crescente dal mero
impegno morale al diritto. L’artificialità non si limita, dunque, all’ideazione
del diritto, ma lo organizza anche in istituzione, cioè in una entità astratta
permanente, che persiste nel tempo con il mutare dei soggetti umani che la
compongo- no. Esempi tipici di tale organizzazione sono l’ordinamento giuridico
e lo Stato, che nelle società contemporanee tendono praticamente a coincidere,
anche se, come si è visto sopra, originano da un tentativo mistificatorio di
duplicazione. In altre parole, il diritto, inteso come tecnica di trattamento
dei conflitti intersoggettivi umani, si organizza in un sistema burocratico
istituzionalizzato. Il diritto, quindi, diviene tecnica e si produce e si
applica attraverso pro- cedure burocratiche, a loro volta determinate dal
diritto stesso. Il diritto ge- nera se stesso attraverso procedure ed artifici
linguistici, quali i concetti di doverosità e di obbligo. In realtà, può dirsi
diritto solo quel comportamento concretamente messo in essere nella convinzione
del soggetto di adempie- re ad un dovere giuridico. Le procedure legislative
sono solo canali per convogliare o mediare il consenso dei soggetti intorno
alle proposizioni normative e queste ultime sono indicazioni, segnali per
l’azione o la non azione, ma la norma resta il fatto concretamente
materializzato dell’azione compiuta e non perseguita da sanzione. Si potrebbe
dire che il diritto altro non è che l’opinione giuridica del soggetto intorno
ai comportamenti da tenere. Il comportamento conseguente a tale opinione potrà
anche essere sanzionato, ma ciò non potrà cancellare la natura giuridica di
tale opinione e del conseguente comportamento. Ciò spiega anche come il diritto
natu- rale possa considerarsi diritto al pari di quello positivo, non solo in
quanto entrambe artificiali, ma anche perché entrambe soggettivi, esistenti
solo nella convinzione di obbligatorietà del soggetto agente. Tornando ora al
diritto come tecnica burocratica pare opportuno preci- sare che la burocrazia
si forma come strumento di garanzia della certezza e della velocizzazione delle
procedure, ossia come strumento il cui fine è il raggiungimento dei fini propri
dell’organizzazione, cui viene applicata. Nel nostro caso il fine dovrebbe
consistere nella realizzazione della giusti-
Diritto artificiale 77 zia, ma si è già detto che, purtroppo, il concetto di
giustizia resta di conte- nuto vago e, comunque, relativo al pensiero dei
singoli soggetti agenti. In queste condizioni la burocrazia ha buon giuoco a
fare quello che Severino denunzia essere la tendenza di qualsiasi tecnica: il
trasformarsi da mezzo in fine. Tanto il capitalismo, quanto il diritto sono
forme di volontà destinate a di- ventare, da scopi, mezzi della tecnica. La
tecnica è destinata a prevalere stori- camente, e questo prevalere è appunto il
rovesciamento in cui la tecnica – da mezzo della volontà giuridica, o
capitalistica, o democratica, o di ogni altra forma di volontà – diventa lo
scopo di tali forme; si che, anche per quanto ri- guarda la volontà
capitalistica e la volontà giuridica, non sarà più il capitalismo a servirsi
della tecnica (e della volontà giuridica) per incrementare il profitto, e non
sarà più (posto che lo sia stata) la volontà giuridica a servirsi della tecnica
(e del capitalismo) per realizzare un certo ordinamento giuridico, ma sarà la
tecnica a servirsi della volontà del profitto e della volontà giuridica per
incre- mentare all’infinito la propria potenza8. La tecnica incrementa se
stessa perseguendo obiettivi sempre più estesi ed ambiziosi, sino al punto di
dimenticare gli obiettivi stessi e di espandersi per una propria logica di
espansione. La burocrazia segue questo medesi- mo modello espansionista e
diviene la referente di se stessa. Natalino Irti, pur sollevando vari dubbi
intorno alla posizione di Severino, in particola- re riguardo alla capacità di
tenuta dei giuristi e della scienza giuridica, in quanto detentori della
decisione e della scelta (ritorna il libero arbitrio con il diritto), riconosce
il pericolo del pantecnicismo: Insomma, se l’Apparato tecnico-scientifico è
incremento indefinito della ca- pacità di raggiungere scopi, chi decide, nel
silenzio della politica e del diritto, i concreti e determinati scopi, a cui
quella capacità può dare soddisfazione? Non rischia forse, quell’Apparato, di
risuscitare gli antichi dei, i quali, risolvendo in se stessi il tutto, non
hanno bisogno degli effimeri scopi dell’uomo? Così il cammino, aperto dal
giusnaturalismo, si chiuderebbe nel giustecnicismo9. La risposta alla prima
domanda potrebbe essere: nessuno. Le decisioni potrebbero estinguersi nel
dominio di procedure, che, una volta decise, per- mangono per sempre immutate,
perpetuando se stesse. La seconda doman- da si limita a proporre un
inconveniente della tecnocrazia, la sua tendenza 8 E. Severino, Atto secondo,
in N. Irti, E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Edizioni Laterza,
Roma-Bari 2001, p. 80. 9 N. Irti, Atto primo, in N. Irti, E. Severino, Dialogo
su diritto e tecnica, cit., pp. 20-21.
78 Il diritto come estetica al metafisico, ma la risposta giunge dal noto
broccardo latino: adducere inconveniens non est solvere argumentum. Lo sviluppo
dei sistemi informatici, poi, moltiplica queste tendenze espansioniste
autoreferenziate a scapito dei fini, cui erano stati preposti. Valga l’esempio
dei sevizi bancari, che, svolti da persone fisiche, forni- scono informazioni e
prestazioni variabili; parzialmente sostituiti dai ban- comat, ampliano il
servizio sotto il profilo degli orari di apertura, ma lo complicano con
operazioni a computer autogestite dalla clientela e da co- dici segreti;
completamente sostituiti da sistemi informatici, obbligano la clientela entro
rigidi schemi e variabili predeterminate, vincolanti per la prestazione del
servizio, con limitato, se non inesistente, accesso ad un dia- logo, ad una
trattativa personale intorno alle condizioni di erogazione dei sevizi medesimi.
La tecnica ha cancellato il servizio in nome del suo stesso sviluppo
tecnologico. Ciò che vale per la tecnica, vale anche per il diritto, in quanto
tecnica: si estende senza sosta, occupando aree sociali sempre più ampie; la
giuridicizzazione del mondo moltiplica le controversie civili ed i reati; si
creano aspettative di certezza sempre nuove, ma sempre anche frustrate
dall’inevitabile varietà del mondo, che non conosce limiti. Inutil- mente
l’artificialità del diritto si affanna a prevedere futuri comportamen- ti
possibili da governare, i comportamenti continuano a moltiplicarsi alla stessa
velocità delle regole e l’unico risultato resta l’inflazione normativa, ossia
l’estendersi della tecnica giuridica. Da un lato, la tecnica giuridica tende a
soppiantare nella regolamentazione sociale tutte le altre tecniche. Dall’altro
lato, accoppiata ai modelli informatici, si disumanizza e fornisce vita ad un
nuovo diritto naturale, non più divino, ma pur sempre metafisico. L’essere umano,
per natura, pone domande, nei sistemi informatici deve solo fornire risposte;
le domande le pone il computer. I termini dei proble- mi li determina il
computer e le soluzioni pure. Non si è ancora completato questo processo di
disumanizzazione, ma con i ritmi di sviluppo attuali della tecnologia i tempi
della sua realizzazione probabilmente non saranno lunghi. La tecnica, dunque,
si assolutizza, prima, come alibi egualitarista di de- responsabilizzazione
decisionale umana, poi, come vera e propria delega di decisione autonoma, in
fine forse, come effettiva capacità decisionale autonoma. La regolamentazione,
che indirettamente viene generata dalle decisioni informatiche, diviene
diritto, un diritto completamente artificiale, che spodesta sia il diritto positivo
che quello naturale. Ma questo nuovo diritto, che si appresta a nascere, ha i
caratteri del suo genitore informati- co: immateriale, trascendente l’essere
umano, onnipotente, onnipresente ed assoluto.
Diritto artificiale 79 Il metafisico sembra potersi materializzare su questa
Terra attraverso l’informatica ed il diritto naturale riconquistare la propria
autonomia tra- scendente attraverso una nuova dualizzazione: umano/informatico.
Questa nuova legge naturale è meramente descrittiva, come quella divina, poiché
anche in essa conoscenza e volontà coincidono: ci si deve attenere alla
maschera dei comandi e delle domande o non si ottiene risposta e servizio; in
metafora, devi nuotare se non vuoi affogare. Il dover essere del diritto
naturale, per così dire, di derivazione etica cede il passo al dover essere dei
fenomeni naturali, delle frane, delle inondazioni, della fisica e della chi-
mica. Questo diritto naturale informatico non manifesta doverosità etiche o
giuridiche, ma necessità empiriche. L’alienazione dell’umano avviene nella
tecnica, ed in particolare in quella informatica, attraverso una etero- nomia
imposta per necessità e non più per scelta. Il libero arbitrio viene negato nei
fatti e nella loro ineluttabilità. Forse, nella ciclicità delle alterne vicende
del futuro potrà rinascere un nuovo umanesimo, che dovrà portare con sé anche
l’emergere di un nuo- vo diritto positivo o, forse, la rinascita competerà ad
una nuova fede tra- scendente ed al relativo diritto naturale oppure, sempre
forse, lo strumento giuridico potrà non essere più considerato idoneo a gestire
le conflittualità umane, le incertezze prodotte dalla natura ed i suoi orrori.
Probabilmente il mutare della prospettiva potrà dipendere da un nuovo salto
culturale, da un nuovo paradigma, per usare una espressione di Thomas Kuhn
(1922- 1996)10. Del resto anche Foucault, nelle sue ricerche archeologiche
intorno al sapere, alla conoscenza umana ha individuato taluni di questi salti
cul- turali. Essa [la natura] si rivela omicida in quello stesso movimento che
la destina alla morte. Uccide perché vive. La natura non sa più essere buona.
Che la vita non potesse più essere separata dall’omicidio, la natura dal male,
e i desideri dalla contro-natura, era quanto Sade annunciava nel XVIII secolo,
del quale egli esauriva il linguaggio, e nell’età moderna, la quale volle
lungamente con- dannarlo al mutismo. Si perdoni l’insolenza (verso chi?): I 120
giorni sono il rovescio vellutato, meraviglioso, delle Lezioni d’anatomia
comparata. Co- munque sul calendario della nostra archeologia hanno la stessa
età11. 10 Cfr. Th. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come
mutano le idee della scienza, Einaudi, Torino 1978. 11 M. Foucault, Le parole e
le cose. Un’archeologia delle scienze umane, cit., pp. 300-301.
80 Il diritto come estetica Anche il concetto stesso
di natura subisce le mutazioni culturali proprie del soggettivismo e del
relativismo umano: la natura ora appare madre ed ora matrigna, ora si manifesta
come benefica ed ora come malefica (indif- ferente nell’ipotesi leopardiana),
ora generatrice ed ora omicida, probabil- mente perché possiede
contemporaneamente tutti questi aspetti. Il giudizio dipende dal punto di vista
dal quale la si osserva, ossia non è possibile per l’essere umano raggiungere
una conoscenza complessiva, completa, universale, si potrebbe dire olistica. La
stagione, la temperie culturale delle varie società umane consente, poi, il
prevalere di una visione, di un con- vincimento, di una interpretazione
rispetto ad altre, diverse ma altrettanto possibili, secondo un modello di
trasformazione, di sviluppo non ancora ben identificato, secondo un modello di
salto culturale molto simile ai salti quantici propri della fisica
teorica. 5. NICHILISMO E NIHILISMO Le strade
che conducono ad una posizione nichilista o nihilista (si vedrà in seguito la
differenza tra questi concetti) sono almeno due. L’una provie- ne dal
riconoscimento del pieno ed insindacabile soggettivismo delle scelte umane e
conduce al pluralismo, al relativismo dei valori. L’altra origina nella
convinzione del divenire della storia e della vita umana e porta a quel trionfo
logico del nulla, del non essere, che attualmente sembra approdare ai lidi
della tecnocrazia. Entrambe le strade, tuttavia, si aggirano nel mede- simo
panorama ambientale: la fine dell’Assoluto, dell’ episteme (επιστήμη – ciò che
si impone), del trascendente, dell’immutabile, dell’Essere che non può non
essere1. Questo panorama è stato descritto con estrema lucidità da Nietzsche e
sintetizzato nell’espressione: Dio è morto. Cerco Dio! Cerco Dio! [...]. Dov’è
andato Dio? – gridò – Ve lo dico io. L’abbiamo ucciso noi, – voi ed io! Noi
tutti siamo i suoi assassini. Ma come ab- biamo fatto? [...]. Che cosa abbiamo
fatto, quando abbiamo svincolato questa terra dal suo sole? [...]. Non vaghiamo
attraverso un nulla infinito? Non avver- tiamo l’alito dello spazio vuoto?
[...]. Non sentiamo il frastuono dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non
sentiamo ancora l’odore della putrefazione divina – anche gli dei si
putrefanno? Non è troppo grande per noi, la grandezza di questa azione? Non
dobbiamo divenire dei noi stessi, per essere degni di lei?2. 1 “Non ci si ferma
più soltanto al sentimento della mancanza di valore e di senso del divenire, né
a quello dell’irrealtà del divenire. Il nichilismo diventa ora esplicita
incredulità per qualcosa come un mondo eretto al di sopra del sensibile e del
divenire (del fisico), cioè metafisico. Questa incredulità per la metafisica si
vieta ogni sorta di via traversa per giungere a un mondo dietro il mondo o a un
sopramondo”. M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 2010, p. 75.
2 F. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere 1882-1895, Newton, Milano 1993, pp.
121-122. 82 Il diritto come estetica
Già in passato, narra Plutarco (46 d.C.-127 d.C.), all’epoca dell’impe- ratore
romano Tiberio (42 a.C.-37 d.C.) correva la leggenda che un certo Thamus,
capitano di una nave sulla rotta dall’Egitto verso Roma, si fosse sentito
chiamare da una voce tonante, che alla sua risposta gli ingiunse di riferire a
Tiberio che il Grande Pan era morto. Fine di un’epoca? Simbo- logia astrale
della precessione della presunta stella fissa Sirio? Avvento del Cristianesimo
al posto delle antiche divinità? Altro? Poco importa la risposta; ciò che conta
è il concetto di fine di un mondo e delle sue certezze al subentrare di un
altro. La morte cancella il passato ed apre le porte al futuro: nuovi dogmi,
nuovi concetti, nuovi metodi di ricerca, nuove cre- denze, nuovi valori, nuove
leggi. Si rinnovano le basi della conoscenza umana e delle sue modalità
esistenziali, individuali e collettive. Dio è mor- to simboleggia la fine del
mondo trascendente, dell’assoluto, del divino e dell’eteronomia e prepara
l’avvento di un nuovo mondo immanente, rela- tivo, umano, autonomo. Il punto
centrale da affrontare riguardo alla fine del vecchio mondo ed alla nascita del
nuovo, ossia all’origine ed alla forma del nichilismo, è rap- presentato dal
soggettivismo, che Heidegger analizza nel suo sviluppo da Protagora (486
a.C.-411 a.C.) a Descartes, sino a Nietzsche. Il soggettivi- smo genera un
nuovo assoluto, quello umano, sul quale fondare il senso e le scelte, ma tale
assoluto si presenta privo di certezze, di verità, poiché relativo; si è
costretti dentro un ossimoro tra metafisica del soggetto e fisica del soggetto
oggettivato, identificate entrambe nell’essere umano. L’alter- nativa è
stringente: o si accoglie una nuova metafisica o si rinunzia al senso ed alla
verità tradizionale e consolidata, per percorrere la via nichilista, sulla
quale trovare un nuovo senso privo di verità e di valori. Heidegger esprime con
evidenza questa difficoltà: La metafisica moderna, in balia della quale sta o
sembra inevitabilmente stare anche il nostro pensiero, in quanto metafisica
della soggettività fa passare per ovvia l’opinione che l’essenza della verità e
l’interpretazione dell’essere si determinino per l’opera dell’uomo in quanto è
il soggetto vero e proprio. A pensare in modo più essenziale, tuttavia, si vede
che la soggettività si de- termina partendo dall’essenza della verità come
certezza e dall’essere come rappresentazione. E prosegue in modo ancora più
esplicito: Ora, che l’uomo erri, dunque che non sia immediatamente e
costantemen- te in pieno possesso del vero, significa certamente una
limitazione alla sua essenza; di conseguenza, anche il soggetto – come tale
l’uomo funge nel rap- Nichilismo e nihilismo
83 presentare – è limitato, finito, condizionato da altro. L’uomo non è in
possesso della conoscenza assoluta, non è, pensando in termini cristiani, Dio3.
Se il soggettivismo si trasforma in un nuovo assolutismo della verità,
presupponendo a priori come veritiera ogni affermazione soggettiva, si è solo
costruita una nuova metafisica immanentista, ossia priva di dupli- cazione
trascendente. Ma una tale metafisica appare ancora più infondata di quella
trascendente. Infatti, l’immanentismo fisico possiede il carattere della
fattualità, ossia di poter essere sottoposto a verifica/falsificazione em-
pirica. La verifica empirica del soggettivismo narra solo posizioni e scelte
relative ai soggetti che le esprimono, pertanto un suo eventuale assoluti- smo
verrebbe falsificato proprio in via empirica. Ci si deve rassegnare; la via soggettivista
non può che avere come compagno di viaggio il dubbio e come meta l’incertezza.
Si tratta di capire se la psicologia umana è in grado di sostenere un tale peso
esistenziale e se è possibile organizzare una società priva di verità e di
valori assoluti. Se questa è la dimensione umana sarebbe strano rispondere
negativamente ai due precedenti quesiti. Tutta- via non appare strano che il
genere umano abbia tentato di evitare un tale salto nel dubbio e
nell’incertezza attraverso la duplicazione metafisica del mondo. Ma questa
duplicazione può trovare una qualche giustificazione ed, ancor più, un
fondamento, se non logico almeno antropologico. Ciò, in- vece, che è chiaro è
che con l’avvento del soggettivismo, inevitabilmente, viene meno anche
l’Assoluto. Infatti, l’Assoluto, creando il relativo, stacca una parte dal
Tutto, genera un’altra unità, che, sommata alla prima, l’uno, risulta due, la
pluralità. In tale modo, automaticamente, anche l’Assoluto diviene parte di
quel Tutto composto da Creatore e Creato. Il Tutto si esten- de, si diversifica
e l’Assoluto si relativizza; ossia muore. La scienza moderna esprime alle
proprie origini un principio metodo- logico, che passa sotto la denominazione
di Rasoio di Occam (novacula Occami) dal nome di William di Ockham (1285-1347).
Questo principio ha trovato varie formulazioni tra le quali la seguente pare la
più adatta al tema qui trattato: Entia non sunt multiplicanda praeter
necessitatem. In sintesi, si tratta di scegliere tra due alternative, a parità
di fattori, quella più semplice, più immediata. La domanda, dunque, da porre
potrebbe essere: è necessario duplicare il mondo per spiegarlo? In una visione
immanentista sembrerebbe inutile la duplicazione, giacché i nessi causali e le
leggi co- stanti, universali, nonché probabilistiche, paiono poter rispondere
ad ogni quesito, salvo quello dell’origine del mondo stesso, dell’Essere; ma un
tale 3 M. Heidegger, Il nichilismo europeo, cit., pp. 234 e 237.
84 Il diritto come estetica interrogativo dalla
duplicazione viene solo rinviato al metafisico e, quindi, privato di risposta
per non senso della domanda o, più semplicemente, per misteriosità
impenetrabile del metafisico. Le risposte causali e le regolarità
comportamentali, però, si limitano a descrivere i fenomeni, e non giusti-
ficano né la loro esistenza, né la loro finalità, ossia non riescono a fornire
senso, significato alla realtà immanente. Non è questo un difetto dell’em-
piria, ma la sua naturale caratteristica, che consiste nella mera descrittività
dei fenomeni osservati, i quali sono rilevati come privi di finalità nella loro
immediata dimensione dell’attimo presente. Dunque, in una visione imma-
nentista del mondo, a maggior ragione se priva di libero arbitrio, ma anche se
dotata del medesimo (l’empiria si limita a descrivere le scelte non a mo-
tivarle valorialmente), manca completamente il senso della vita, il motivo
dell’esistere: ciò che esiste, esiste perché esiste. Ovviamente una simile
carenza di senso non può soddisfare la presunzione umana e, tanto meno, placare
i timori dell’ignoto. L’essere umano aspira all’assoluto, all’infinito per se
stesso e teme la morte in quanto nulla. Per esorcizzare aspirazioni frustrate e
timori è necessario trovare un senso all’esistere e, possibilmen- te, anche una
sopravvivenza post mortem di questo esistere. Conseguente- mente la
duplicazione del mondo diviene necessaria per giustificare, per attribuire una
qualche finalità alla vita e per calmare le angosce esistenziali; è
antropologicamente e psicologicamente necessaria, non certo teoretica- mente,
come si è già visto. Al contrario, teoreticamente dovrebbe valere il principio
del Rasoio d’Occam e, quindi, reputare inutile, o almeno, poco probabile, la
duplicazione, in quanto operazione meramente mentale al pari di qualsiasi altro
sogno, credenza, ideologia o fantasia. Presa confidenza con il panorama,
conviene ora porre attenzione alla strada da percorrere. Max Weber (1864-1920)
indica la prima (pluralismo e relativismo dei valori). Si tratta di constatare
l’emergere nel mondo occi- dentale moderno di un politeismo di valori, che pone
fine all’unità ideolo- gica, che fu propria della Res publica christiana4. 4
“La Entzauberung der Welt sfocia nel politeismo dei valori, con cui Weber
certifica la destinale pluralizzazione degli ordinamenti della vita, ossia la
perdita di universalità della ragione occidentale. Quella di Weber è la
assunzione radicale della sentenza di Nietzsche Dio è morto, ossia la
consapevolezza di vivere in un mondo senza dei e senza profeti tipica di
un’epoca che ha mangiato all’albero della conoscenza. I valori supremi di
ordine religioso che avevano avviato il processo di razionalizzazione si
svalutano irrimediabilmente nell’epoca del compiuto disincanto, ossia del
nichilismo compiuto”. F. Fusillo, Nichilismo e sovranità, in R. Esposito, C.
Galli, V. Vitiello (a cura di), Nichilismo e politica, Editori Laterza,
Roma-Bari 2000, p. 188. Nichilismo e
nihilismo 85 [...], respingendo come cosa estranea e ostile ogni santità e ogni
bene, ogni legalità etica o estetica, ogni significatività della cultura o
valutazione della personalità, pretenderebbe [questa concezione n.d.r.]
tuttavia, ed anzi proprio perciò, la sua propria dignità immanente nel senso
estremo della parola. Quale che possa essere la nostra presa di posizione nei
confronti di tale pretesa, in ogni caso essa non può venire dimostrata o
confutata con i mezzi di nessuna scienza. Ogni considerazione empirica di
questi argomenti condurrebbe, come ha osservato il vecchio Stuart Mill, al
riconoscimento di un politeismo assoluto come la sola forma di metafisica ad
essi corrispondente. [...]. Tra i valori, cioè, si tratta in ultima analisi,
ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale
senza possibilità di conciliazione, come tra dio e il demonio. [...]. Il frutto
dell’albero della conoscenza, frutto inevitabile anche se molesto per la
comodità umana, non consiste in nient’altro che nel dover cono- scere
quell’antitesi e nel dover quindi considerare che ogni importante azione
singola, ed anzi la vita come un tutto – se essa non deve procedere da sé come
un evento naturale, bensì essere condotta consapevolmente – rappresenta una
concatenazione di ultime decisioni, mediante cui l’anima (come per Platone)
sceglie il suo proprio destino – e cioè il senso del suo agire e del suo
essere5. Il mondo sociologico weberiano è animato da una pluralità di soggetti
individuali e collettivi, che perseguono propri interessi e proprie valuta-
zioni, non richiamandosi necessariamente a legittimazioni trascendenti, Anzi
cercando nell’azione razionale, ossia umana, rispetto al mezzo od al fine il
senso, il significato dell’agire. Questo senso diviene in tale modo meramente
immanente e, quindi, patrimonio esclusivo del soggetto agente. Il soggettivismo
si impone come scelta politica e giuridica, ma anche come procedura
burocratica. In Weber si possono già leggere le prime avvisaglie di quello che
la burocrazia potrà generare come tecnica fine a se stessa; è possibile
intravedere il fantasma della tecnocrazia disumanizzante6. Ma ai fini del
nichilismo ciò che maggiormente interessa è il richiamo alla molte- plicità
degli interessi, delle prospettive e delle ideologie sociali, poiché da tale
molteplicità scaturisce anche il relativismo soggettivo delle stesse. Molti
valori non significano certo nessun valore, ma comunque incrinano 5 M. Weber,
Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958, pp. 331-333. 6
“La burocrazia è di carattere razionale: la regola, lo scopo, il mezzo,
l’impersonalità oggettiva dominano la sua condotta. Il suo sorgere e la sua
espansione hanno perciò avuto ovunque un senso rivoluzionario – che rimane
ancora da esaminare – come di solito avviene per la penetrazione del
razionalismo in tutti i campi. Essa annientò le forme strutturali di potere che
non avevano un carattere razionale in questo senso specifico”. M. Weber,
Economia e società, Edizioni di Comunità Milano 1995, p. 101.
86 Il diritto come estetica il monolitismo sociale e
ne cancellano la legittimazione trascendente. Le società umane si presentano
molteplici come molteplici sono gli esseri umani. Severino intraprende, invece,
per giungere al nichilismo la strada del divenire che nientifica l’Essere.
L’Essere è immutabile quindi non divie- ne, ciò per Severino non significa,
come per Spinoza, che il movimento è illusione, ma che il nulla non esiste; ciò
comporta l’assenza di tempo nel pensiero spinoziano di contro ad un emergere ed
eclissarsi dell’Essere nel tempo, senza mai divenire nulla, in quello
severiniano. Questa posizione di Severino incide anche sul suo concetto di
libertà e di nichilismo. Il libero arbitrio dell’essere umano immutabile si
fonda sulle infinite vite che po- trebbero apparire e che non sono apparse;
ossia si fonda non sull’alternarsi del divenire tra essere e nulla, ma sulla
possibilità di manifestasi dell’Esse- re. La libertà è in questo modo pura
contingenza dell’apparire: La possibilità non è nell’essere, ma nell’apparire
dell’essere [...]. Se vivo eternamente tutte le vite che avrei potuto vivere –
se ho già da sempre deciso tutto ciò che avrei potuto decidere – nell’apparire
entra peraltro solamente que- sta vita che vivo. Ma entra soltanto questa
perché tutte le altre restano nascose, o perché non esiste alcun’altra vita? O
anche: esistono altre mie vite, oltre questa che appare? E se esistono,
sarebbero potute apparire invece di questa che appare? In tale possibilità
risiede il fondamento della libertà dell’uomo; che dunque può essere libero,
solo se è pensato come l’eterno vivere tutte le vite che potrebbe vivere7. La
natura non empirica dell’Essere di Severino appare evidente, ma essa scaturisce
non da una duplicazione del mondo, ma dalla negazione, operata con gli
strumenti della logica, del divenire, del passare dall’essere al non essere nel
tempo. La nozione di nichilismo esprime la medesima esigenza di non dare realtà
al nulla. Un Essere tutto pieno ed eterno in se stesso non diviene, quindi può
trovare disvalori solo nell’altro, ossia nel nulla di sé. Siamo prossimi
all’autoreferenzialità chiusa delle monadi di Leibniz, ma in Severino l’accento
non viene tanto posto sull’autoreferenzialità di una molteplicità di Esseri,
tutti equivalenti, di pari dignità e, quindi, ingiudi- cabili nella loro
autonomia, ma piuttosto sul divenire, che, consentendo il nulla, relativizza
appunto nel nulla qualsiasi affermazione, qualsiasi scelta. 7 E. Severino,
Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995, p. 165. Cfr., per una certa
analogia di pensiero, C. Bruce, I conigli di Schrödinger. Fisica quantistica e
universi paralleli, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006.
Nichilismo e nihilismo 87 Il nulla consente la negazione
dell’assoluto e rende tutto relativo, contin- gente, occasionale, in breve,
nichilista. Nichilismo significa affermare che le cose sono niente, ossia che
il non- niente è niente. Sin da Platone, la metafisica ha identificato le cose
al niente: affermando che escono e tornano ad essere niente. Il mondo è la
dimensione in cui il non-niente è niente, e ove Dio e l’Uomo hanno la capacità
di operare l’identificazione del non-niente e del niente. Forza-cultura,
religione-ateismo, cristianesimo-anticristianesimo, meta-
fisica-antimetafisica, materialismo-spiritualimo, moralismo-immoralismo,
assolutismo-democrazia, capitalismo-comunismo, servo-padrone, umanesimo-
tecnicismo formano i grandi contrasti che si svolgono all’interno della comune
alienazione nichilista dell’Occidente8. Severino è portatore di un monismo
immanentista non empirico, nel quale libero arbitrio e nichilismo si
identificano col problema del divenire e, quindi, giuocano la loro presenza o
assenza intorno all’impossibilità di esistere del non essere e
all’impossibilità di non esistere dell’essere; possi- bilità ed impossibilità
tutte logiche ed, appunto, non empiriche. Oltre il bivio nichilista tra la
strada di un pluralismo valoriale soggettivo e la negazione del divenire si
presenta un ulteriore bivio, quello tra l’eguale fondamento e dignità di
qualsiasi scelta, di qualsiasi valore e l’inesistenza stessa dei valori.
L’equivalenza di tutti i valori conserverà il nome di ni- chilismo, mentre la
vera e propria completa assenza concettuale di entità 8 E. Severino, op. cit.,
p. 137. In merito ai passi citati in testo, con una comunicazio- ne personale
del 6 marzo 2016 via mail, Emanuele Severino precisa quanto segue: “Lei
[Ghezzi] considera quanto si dice nel mio saggio Essenza del nichilismo intorno
al libero arbitrio. Ma in Destino della necessità (1980) mostro che questa
posizione è un residuo di nichilismo e va superata. Quando uso la parola essere
(quasi sempre o sempre con l’iniziale minuscola) intendo gli essenti, qualsiasi
essente, empirico o no. Mostrando che l’essere sè degli essenti (in quanto esso
è ciò la cui negazione è autonegazione, ossia in quanto è la struttura
originaria del destino della verità) implica l’eternità di ogni essente, si
mostra anche l’essere della dimensione non empirica degli essenti. Ma il
decisivo è che l’eternità non è un presupposto, ma è implicata con necessità
dalla struttura originaria; ed è questa necessità che si tratta di discutere.
Questa necessità esclude di essere relativizza- ta e messa accanto alle varie
posizioni filosofico-culturali. Il suo saggio afferma l’esistenza del soggetto
e del suo sentire. Ma la struttura originaria chiede in base a che cosa si
afferma tale esistenza (e l’esistenza del ricco panorama culturale espresso dal
suo saggio, e dunque l’esistenza del mondo) richieste analoghe, si intende,
vanno rivolte a tutta la cultura filosofica e scientifica”. Ulteriori precisa-
zioni in argomento sono presenti anche nella Presentazione di Emanuele Severino
a questo saggio. 88 Il diritto come
estetica definibili come valori verrà chiamata nihilismo. La distinzione potrà
appa- rire più chiara se applicata al nichilismo giuridico. Nella visione
dualista del mondo al diritto positivo, come si è visto, si contrappone una
giustizia, la cui fonte si afferma superiore. L’Assoluto, come analizza senza
timore Irti, tuttavia, si è ritirato nelle sue varie forme (Dio, la Natura, la
Ragione) dalla conoscenza umana, conseguentemente, la volontà dell’essere umano
è stata abbandonata ad una completa solitudine. Solitudine nelle scelte,
soggettività delle medesime e relativismo dei valori perseguiti. Irti constata
questo fenomeno nel diritto e, quindi, ne mette in discussione la capacità
legittimante di comportamenti, che, privi di copertura giuridica, si identifi-
cano con la violenza e con la volontà di potenza del più forte. Gli Dei si sono
ritirati, e non offrono più al potere il fondamento di legitti- mità. Il potere
rimane affidato a se stesso, alla capacità di sostenersi e di rea- lizzarsi. Il
successo della volontà è, appunto, un succedere, un semplice e nudo accadere,
che trae fondamento dalla propria fatticità9. Il diritto abbandona la
dimensione di conoscenza, per divenire volontà, volontà di potenza e
quest’ultima risulta indistinguibile dalla forza, dalla violenza10. La volontà
di potenza non conosce altro imperativo che la pro- pria affermazione ed
espansione. Il dover essere morale e giuridico cede il passo al
confronto/scontro, alla lotta tra le diverse potenze, per determinare quale sia
la maggiore11. [...] il nichilista della volontà di potenza non può auspicare
alcun esito, avendo congedato la categoria del dover essere. Può solo aspettare
l’esito dello scontro storico delle volontà, e non potrà condannare alcunché12.
Una volta abbandonata la categoria del dover essere, il campo, da un punto di
vista pratico, fattuale resta a completa disposizione della forza, ma dal punto
di vista concettuale si deve affrontare il tema di come il dover 9 N. Irti,
Nichilismo giuridico, Editori Laterza, Roma-Bari 2005, p. 49. 10 “Il falso
contrasto tra diritto e forza deriva da una concezione metafisica del diritto,
dal diritto inteso come un potere sovrannaturale, come un potere vincolante che
crea ed impone dei doveri. Questo potere vincolante superiore viene opposto
alla forza, cioè al potere concreto”. K. Olivecrona, Il diritto come fatto,
Giuffrè, Milano 1967, pp. 107-108. 11 “Sul rango decide il quantum di potenza
che sei; il resto è viltà”. F. Nietzsche, La volontà di potenza, in Opere
1882-1895, Newton, Milano 1993, p. 939. 12 V. Possenti, Nichilismo Giuridico.
L’ultima parola?, Rubettino, Savoria Mannelli 2012, p. 146.
Nichilismo e nihilismo 89 essere viene meno e con cosa
viene sostituito. La risposta a quest’ultimo quesito verrà affrontata nel
prossimo capitolo, per ora basti concentrarsi sul primo. Il dover essere può
semplicemente perdere il proprio carattere assoluto o scomparire completamente,
come concetto inesistente o falso. Si è già visto come il soggettivismo renda
relativi i contenuti comportamentali del dover essere e, quindi, ne vanifichi
la forza vincolante, imperativa. Il dover essere resta in vita, ma persiste
come valore individuale, non generalizza- bile, non imponibile a terzi. Però è
dato anche il caso che il dover essere si dissolva come entità concettuale. E
può dissolversi come entità solo teorica od anche come entità pratica; come
affermazione priva di senso o come affermazione falsa. Il dover essere comunque
scompare, ma secondo mo- dalità differenti. Un esempio articolato ed eloquente
di queste tematiche è dato dalla dia- triba sviluppatasi tra la Scuola di
Uppsala, che annovera tra i propri mas- simi esponenti Alex Hägerström
(1868-1939) ed Karl Olivecrona (1897- 1980), e Theodor Geiger (1891-1952). La
prima osservazione che Geiger muove alla scuola di Uppsala riguar- da il
carattere solo teorico del nihilismo proposto. In questo caso si tratta di
nihilismo e non di nichilismo, poiché il presupposto risiede nell’inesisten- za
dei valori, non nella loro generale equivalenza, indifferenza. Chi è
criticamente illuminato è necessariamente un nihilista teorico dei va- lori.
Egli ha compreso che le idee di valore non sono altro che orientamenti emotivi
indebitamente oggettivati. Egli sa che i valori non appartengono alla realtà
temporale-spaziale, che i giudizi di valore non possono pertanto essere altro
che oggettivazioni errate di valutazioni primarie soggettive, traduzioni di
situazioni emotive in enunciazioni conoscitive teoriche13. Gaiger propugna un
nihilismo anche pratico, che cioè abbandoni l’uso dei giudizi di valore anche
nelle discussioni politiche intorno alle decisioni da prendere; non si tratta,
in breve, per questo Autore, solo di teorizzare la fine dei valori, ma anche di
operare senza l’uso giustificativo dei medesi- mi. In questo modo si potrà dare
vita a quello che da Geiger viene definito illuminismo critico e che, a sua
volta, può generare una democrazia sobria, ossia fondata esclusivamente su
discussioni e scelte intorno ai fatti e sulla base dei meri fatti. 13 Th.
Geiger, Saggi sulla società industriale, U.T.E.T., Torino 1970, pp. 553. Vedere
anche M.L. Ghezzi, Un precursore del nichilismo giuridico: Theodor Geiger e
l’antimetafisica sociale, in Sociologia del Diritto, 2007/3, pp. 5-46.
90 Il diritto come estetica [...] la persona
criticamente illuminata deve sapere su quali questioni non si può sapere
niente, quali siano i problemi sui quali non può esprimersi con la pretesa di
validità oggettiva, essa deve conoscere in breve i limiti naturali posti al
processo conoscitivo. Essa ha da mantenersi scettica dinanzi alle as- serzioni
altrui e rigettare tutte le asserzioni presentate con intenti pragmatici. È
pragmatica ogni asserzione che pretenda di motivare teoricamente una finalità
dell’agire (di dimostrarne l’esattezza), o suggerisca tacitamente tali
finalità14. La seconda osservazione riguarda la predicabilità o meno di
verità/falsi- tà dei giudizi di valore. Mentre Hägerström, ma soprattutto i
suoi discepoli e primo fra tutti Olivecrona, sostengono l’inesistenza di una
teoria che for- nisca significato alla domanda sulla veridicità/falsità dei valori
e, pertanto, la domanda risulta priva di senso, neppure formulabile; Geiger,
invece, afferma l’esistenza di senso della domanda, in quanto la teoria esiste,
ma è falsa e, quindi, anche la risposta risulta falsa. Chi asserisce la
veridicità di un valore non formula una proposizione priva di senso, ma intende
soste- nere l’esistenza concreta di ciò che afferma, cioè della fattualità dei
valori; pertanto, per Geiger, non si tratta di una proposizione priva di senso,
ma di una proposizione falsa, poiché ciò che afferma non esiste, è fantasia, è
desiderio soggettivo. Chi giudica non può esprimersi sulle qualità di valore
dei fenomeni, quando è dimostrato che i fenomeni non posseggono alcuna qualità
di valore. Valore e non-valore non sono inerenti all’oggetto stesso, ma gli
sono attribuiti dal soggetto dell’esperienza. [...]. Il giudizio di valore non
è che una esplosione emotiva rivestita della forma linguistica di una
enunciazione oggettiva15. È evidente che mentre Hägerström si muove su un piano
meramente logico, nel quale dovrebbero operare solo teorie verificabili e la
veridicità dei giudizi di valore non è verificabile, ossia su un piano sul
quale le teorie non falsificabili o falsificate sono già state scartate;
Geiger, invece, opera nel mondo empirico dove il primo passo da compiere è
proprio la verifica/ falsificazione delle ipotesi e delle relative teorie16.
Empiricamente la do- manda intorno alla veridicità dei giudizi di valore è
stata posta e continua 14 Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, cit.,
pp. 573-574. 15 Th. Geiger, op. cit., p. 554. 16 “Ora una ideologia è per
definizione qualcosa di unilaterale perché è determinato dalla prospettiva
particolare di colui che pensa. Secondo questo si dovrebbe dire che tutte le
ideologie sono false . [...]. L’ideologia è determinata dalla prospettiva
corrispondente alla posizione sociale di colui che la pensa quindi è pensiero
unilaterale. Essa non soddisfa i requisiti dell’oggettività posti dalle scienze
naturali e quindi è teoricamente falsa”. Th. Geiger, op. cit., p. 142.
Nichilismo e nihilismo 91 ad essere posta,
pertanto si tratta di falsificare la teoria che la regge ed è proprio questa la
conclusione a cui giunge Geiger. La differenza appare minima, ma non
irrilevante e tutta impostata sul piano del discorso svolto e sui tempi cui si
riferisce l’affermazione (prima o dopo la verifica empiri- ca). Del resto, il
tema fu affrontato in senso generale anche da Heisenberg, riguardo alla
costruzione di teorie attraverso l’accoppiamento di simboli a fenomeni: Il
procedimento della scienza naturale è raffigurato come l’applicazione di
simboli a fenomeni. I simboli possono, come in matematica, essere combinati
secondo certe regole, in tal modo le affermazioni sui fenomeni possono essere
rappresentate da combinazioni di simboli. Perciò una combinazione di simboli in
disaccordo con le regole non è falsa ma priva di significato. L’ovvia
difficoltà di questo ragionamento è la mancanza di un criterio ge- nerale che
indichi quando una proposizione debba essere considerata priva di significato.
Una chiara decisione è possibile soltanto quando la proposizione appartiene ad
un sistema chiuso di concetti e di assiomi, il che nello sviluppo delle scienze
naturali costituisce piuttosto l’eccezione che la regola17. L’equivoco,
dipendente sia dalla difficoltà di definizione dei concetti, in quanto legati
alle teorie di cui sono figli, sia dall’impossibilità di verifi- ca empirica
degli assiomi su cui si fondano le teorie (concetti ed assiomi non chiusi), non
può stupire. Infatti, come afferma Michel Foucault (1926- 1984), le parole
(simboli) e le cose (fenomeni) non coincidono dal crollo della Torre di Babele
in poi: Nella sua forma originaria quando fu dato agli uomini da Dio stesso, il
lin- guaggio era un segno delle cose assolutamente certo e trasparente poiché
asso- migliava ad esse. I nomi erano deposti su ciò che indicavano, come la
forza è scritta nel corpo del leone, la regalità nello sguardo dell’aquila,
come l’influsso dei pianeti è stampato sulla fronte degli uomini: mediante la
forma della simi- litudine. Tale trasparenza fu distrutta a Babele per castigo
degli uomini. Le lin- gue furono separate le une dalle altre e rese
incompatibili solo nella misura in cui venne anzitutto cancellata la
somiglianza alle cose, la quale aveva costituito l’originaria ragione d’essere
del linguaggio. Tutte le lingue che conosciamo non vengono da noi parlate che
sullo sfondo di tale similitudine smarrita e nello spazio da essa lasciato
vuoto18. Riemerge il solito dualismo tra divino ed umano, tra conoscenza asso-
luta e conoscenza relativa, tra certezza e dubbio. Tuttavia, ritornando ora 17
W. Heisenberg, Fisica e filosofia, cit., p. 90. 18 M. Foucault, Le parole e le
cose, cit., p. 50. 92 Il diritto come
estetica alla polemica tra la Scuola di Uppsala e Geiger, probabilmente essa ne
sottointende un’altra ben più rilevante e di natura politica; non è possibile,
infatti, dimenticare le simpatie della Scuola di Uppsala ed, in particolare, di
Olivecrona per il nazismo di fronte alla posizione social-democratica di
Geiger, sostenitore della Repubblica di Weimar19. In conclusione, il nichilismo
come il nihilismo scaturiscono dalla fine della credenza in verità assolute,
siano esse trascendenti od immanenti, ossia dalla fine della duplicazione del
mondo. Questa fine può giungere attraverso una relativizzazione dei giudizi di
valore od una loro completa soppressione, ma, in ogni caso, l’antica via
eteronoma rispetto all’essere umano non può più essere percorsa. Si tratta, quindi
di costruire una nuova strada autonoma, che tenga conto della fluidità, della
varietà, dell’incer- tezza, ma anche dell’arbitrarietà dei giudizi di valore.
Si tratta di capire se sono effettivamente necessari o, almeno, utili per la
convivenza sociale e se non possono essere sostituiti da altre e diverse entità
in grado di guidare l’agire umano, ammesso che esista la possibilità di
guidarlo attraverso la volontà umana. Tralasciando ora i dubbi intorno
all’esistenza o meno del libero arbitrio, chi scrive è convinto della
possibilità di compiere questa ricostruzione comportamentale anche senza i
giudizi di valore in ambito sia morale, sia giuridico, ma questo è argomento
del prossimo capitolo. 19 Cf.r. K. Olivecrona, I problemi del tempo visti
da uno svedese. Inghilterra o Germania?, in Lo Stato, 3/2014, pp.
173-195. 6. IL DIRITTO COME ESTETICA
L’estetica è una disciplina che studia, dal punto di vista trascendente, il
bello in sé, mentre, dal punto di vista immanente le sensazioni umane che si
manifestano nell’alternativa bello/brutto. Il bello in sé, il Sublime conduce
subito verso il metafisico, la perfezione delle idee, una realtà per- fetta non
appartenente alla realtà umana. Il semplice bello e brutto sono, invece,
giudizi tutti umani intorno a ciò che piace o non piace. Già Aristo- tele (384
a.C.-322 a.C.), nella Poetica (ποίησις, poiesis, il cui significato è fare,
creare) evidenziava come il parametro attraverso il quale giudicare un’opera
d’arte fosse la produzione o meno nel soggetto di una percezione gradevole, di
piacere. Sembra poi in generale che la poesia l’abbia prodotta due cause, e
tutte e due naturali. Infatti è proprio della natura umana, sin dall’infanzia,
l’istinto dell’imitazione e che tutti godano innanzi ai suoi prodotti, e l’uomo
differisce specialmente dagli altri animali come quel genere che più sa
imitare, e questo è il mezzo con cui si procaccia le prime cognizioni. E che
ciò sia vero è mostrato dai fatti, perché mentre certi oggetti, così come sono
in natura, ci riescono sgradevoli, le loro riproduzioni invece, quanto più sono
esatte, ci danno diletto, come le forme degli animali più ripugnanti e dei
cadaveri1. Aristotele definisce l’arte come capacità di suscitare piacere
attraver- so l’imitazione, ossia attraverso il primo strumento umano di
conoscenza. Dunque, riporta al soggetto che conosce la decisione intorno al
bello ed al brutto. In particolare, sottolinea che una imitazione perfetta
dell’orrore naturale può risultare piacevole e questa sensazione pare essere il
fonda- mento del diritto positivo come estetica. Il diritto positivo è
decisamente disumanizzante in quanto generale ed astratto, mentre l’essere
umano è particolare e concreto, pertanto non può essere giudicato con canoni
stati- stici, medi, ma deve essere indagato in tutte le sue particolarità
individuali, personali, ammesso che ciò sia possibile, se si intende
comprenderne vera- 1 Aristotele, La poetica, La Nuova Italia Editrice, Firenze
1940, p. 10. 94 Il diritto come
estetica mente il comportamento. Tutto vero; ma la natura, con il suo diritto
natu- rale, è ancora peggiore, poiché sembra colpire a caso, in modo
arbitrario, senza una qualsiasi giustificazione; giustificazione che, seppur
arbitraria, spesso anche ipocrita e sempre soggetta ad errore, il diritto
positivo tenta di fornire. Dunque, Aristotele ha ragione a sostenere che il
bello può scaturire anche dall’imitazione del brutto naturale; in questo senso
si indirizza anche un autore più recente quale Thomas De Quincey (1785-1859):
Ci asciughiamo le lacrime, e abbiamo forse la soddisfazione di scoprire che
un’azione disgustosa e indifendibile sotto il profilo morale si rivela, se
valutata secondo i criteri del gusto, un atto meritevole2. Non deve stupire il
divario tra dover essere ed estetica, perché il primo è frutto di una
duplicazione metafisica o razionale del tutto estranea (sal- vo che per il
concetto di Sublime) al secondo. Pertanto, abbandonata ogni duplicazione del
Mondo, il vero divario esistente, che tuttavia accomuna dover essere ed
estetica, riguarda la diversità che intercorre tra il sentito individuale,
personale ed il sentito indotto a qualche titolo (minaccia, edu- cazione,
tradizione, etc.) dall’ambiente circostante il soggetto. Ma si tratta di un
divario più apparente che sostanziale, poiché sussiste solo a livello
individuale, infatti, a livello collettivo, viene colmato dal gusto prevalente
dei gruppi sociali, che riescono ad assicurarsi il dominio sugli altri gruppi.
[...] la situazione nell’estetica non è dissimile da quella nell’etica. In en-
trambe le sfere di valori i criteri di valutazione del gruppo influenzano le
nostre decisioni, in entrambe sono stati interiorizzati nella voce della
coscienza o in quello che gli psicoanalisti chiamano il super-io. C’è una
creatura ansiosa na- scosta in noi che domanda posso fare questo?, oppure può
piacermi questo?3. Questa creatura è il nostro sdoppiamento, che non ci
consente aperta- mente di porci come unici giudici delle nostre azioni. È lo
sdoppiamen- to dell’eteronomia. Si cerca sicurezza in un parametro
comportamentale esterno ed, in quanto tale, presupposto oggettivo. L’autonomia
non con- cede giustificazioni esterne all’agire; si agisce palesemente per
seguire il proprio gusto, sia che esso sia originario, sia che sia stato indotto
dall’am- biente o dal determinismo. Tuttavia lo sdoppiamento appare più
evidente 2 Thomas De Quincey, L’assassinio come una delle belle arti, TEA,
Milano 1990, p. 25. 3 E.H. Gombrich, Ideali ed idoli. I valori nella storia e
nell’arte, Einaudi, Torino 1986, p. 94.
Il diritto come estetica 95 nella visione del bello metafisico, del
Sublime, espresso da Platone attra- verso l’esempio di un letto inteso come
mobile d’arredo, di un letto come quadro e dell’idea di letto: Questi nostri
letti si presentano sotto tre specie. Uno è quello che è nella natura: potremmo
dirlo, creato, creato dal dio. – Uno poi è quello costruito dal falegname. –
Sì, disse. – E uno quello foggiato dal pittore. Non è vero? – Va bene. – Ora,
pittore, costruttore di letti, dio sono tre e sovrintendono a tre specie di
letti. – Si, tre. – Ebbene, il dio, sia che non l’abbia voluto sia che qualche
necessità l’abbia costretto a non creare nella natura più di un solo e unico
letto, si è limitato comunque a fare, in un unico esemplare, quel letto in sé,
ossia ciò che è letto. Ma due o più letti di tal genere il dio non li ha
prodotti, e non c’è pericolo che li produca mai4. L’idea del letto in sé o del
bello in sé non si differenziano, sono entrambe metafisiche, assolute e perfette,
quindi rappresentano il corretto parametro verso il quale rivolgere
l’attenzione per sapere cosa è letto e, ciò che in questa sede più interessa,
cosa è bello. In questa prospettiva la dualizza- zione del mondo si è compiuta
completamente e l’eteronomia diviene un elemento strutturale del sistema
interpretativo del mondo, in generale, e di quello umano, in particolare.
L’ulteriore duplicazione, quella tra dover es- sere ed estetica, si è
probabilmente prodotta sia per contenere l’arbitrarietà evidente del senso
estetico, sia per quell’illusoria pausa che intercorre tra la constatazione che
una cosa piace e l’azione che ne segue. In questa pausa potrebbe celarsi il
libero arbitrio, che potrebbe far rinascere la distinzione secondo il
principio: ho agito in un modo che non mi piace perché era mio dovere farlo!
Purtroppo non abbiamo conoscenze idonee né per escludere che in quel momento
nel soggetto il dovere coincidesse con il piacere, ma neppure che questa pausa
concettuale tra sensazione ed azione esista e sia governata nella libertà.
Tralasciando ora i problemi metafisici legati al Sublime, in quanto frutto
della solita duplicazione del mondo già più volte discussa, pare interessan- te
approfondire il termine estetica, il cui significato deriva dal sostantivo
greco αίσθησις, che indica un sentire, una sensazione e dal verbo, sempre
greco, αισθάνομαι, che significa percepire attraverso la mediazione dei sensi,
ossia ricevere stimoli che producono sensazioni. L’essere umano percepisce in
continuazione sensazioni provenienti dal mondo esterno attraverso i suoi cinque
sensi fisici, ed è questa la base sulla quale si fonda il metodo empirico di
ricerca; ma percepisce anche sensa- 4 Platone, La Repubblica, in Tutto Platone,
Editori Laterza, Bari 1967, p. 427. 96
Il diritto come estetica zioni interiori, sentimenti provenienti da precedenti
esperienze, da ricordi, da pregiudizi, da preconcetti, da convinzioni
personali, da tutto ciò, in sin- tesi, che può essere considerato il suo vissuto
mentale. Queste due fonti di sensazioni non sono e non possono essere
rigorosamente separate, poiché insistono sull’unitarietà del soggetto che
percepisce. La percezione fisica viene selezionata, filtrata e completata dalle
propensioni della mente, sino al punto di rendere indistinguibile la percezione
fisica in quanto tale dal percepito e vissuto mentale. La questione, poi, si
complica ulteriormente, poiché la percezione occupa anche il campo del sogno e
del ricordo, con i loro stati dubbi, incerti di realtà empirica. Le percezioni
esterne presuppongono l’esistenza di un ambito circostan- te il soggetto, dal
quale partono gli stimoli che colpiscono i sensi. Non si può, tuttavia, essere
certi, che questo ambito esterno esista veramente fuori dal soggetto, poiché
ciò che si percepisce altro non è che una immagine, una sensazione mentale. Del
resto, non è neppure possibile asserire con certezza l’inesistenza del mondo
esterno, sempre per il problema che a giu- dicare è una entità soggettiva non
oggettiva. L’oggettività nella percezione umana è impossibile, per la stessa
natura umana di soggetto. Si è già osservato che alla mente non si presentano
che percezioni [...]. Ora, siccome le percezioni si distinguono in due generi,
impressioni e idee, questa distinzione solleva una questione, con cui avvieremo
la nostra indagine sulla morale: è dovuto alle idee oppure alle impressioni il
fatto che noi distinguia- mo la virtù dal vizio, e dichiariamo un’azione
biasimevole oppure pregevole? Questo escluderà tutti i discorsi e le dichiarazioni
arbitrarie, riconducendoci a qualcosa di preciso e di esatto in merito al
presente argomento5. La percezione, dunque, è legata ai sensi, l’acqua fredda
produce una sensazione di freddo, mentre l’impressione esprime la
predisposizione, il giudizio del soggetto verso il percepito: il freddo mi
produce sollievo dall’afa estiva o mi disturba perché abbassa la temperatura
dell’ambiente. Conseguentemente l’Autore non esita nella sua risposta, come del
resto era prevedibile data la Grande Divisione di cui è artefice ed alla quale
ha fornito anche il nome: [...] è impossibile che la distinzione tra bene e
male morale possa essere compiuta dalla ragione; poiché quella distinzione ha
sulle nostre azioni un’in- fluenza di cui la sola ragione non è capace. La ragione
e il giudizio possono, infatti, essere la causa mediata di un’azione, destando
o guidando una passione: 5 D. Hume, Trattato sulla natura umana, Bompiani,
Milano 2001, p. 903. Il diritto come
estetica 97 ma non bisogna pretendere che un giudizio di questo genere, sia
vero o sia fal- so, possa accompagnarsi alla virtù o al vizio6. Hume non si
limita a negare la predicabilità di vero/falso all’ambito mo- rale, ma affronta
anche la natura di questo ambito, di queste impressioni, ed appare con evidenza
che la sua analisi conduce direttamente al principio del piacere come
scriminante tra bene e male. La prossima domanda è: di quale natura sono queste
impressioni, e in che modo agiscono su di noi? È qui impossibile non esitare,
ma dobbiamo dichia- rare che l’impressione che sorge dalla virtù deve essere
gradevole, e quella che deriva dal vizio sgradevole. In qualsiasi momento
l’esperienza deve convin- cerci di questo. [...]. Una rappresentazione teatrale
o un romanzo bastano a darci esempi di questo piacere, che la virtù ci procura;
e del dolore, che nasce dal vizio7. Risulta chiaro che sia l’alternativa
buono/cattivo, sia quella bello/brutto dipendono dalle impressioni umane, ossia
sono legate alla percezione di piacere o di dolore. Nell’essere umano la
percezione è unitaria, non esisto- no due diverse forme di percezione, come può
dimostrare l’empiria, forse possono esistere due diverse forme di impressioni,
se elaborate nella mente e quindi non sottoponibili, almeno per ora, a
verifica/falsificazione empiri- ca. Dunque, se non si desidera procedere ad una
ulteriore duplicazione, pri- va in questo caso di motivazione, che avrebbe un
sapore formale incentrato sul mero linguaggio (dover essere o mi piace) e non
su fatti, tra percezioni e conseguenti impressioni morali ed estetiche, si deve
concludere che vi è un’unica percezione ed i due ipotetici tipi di impressioni
coincidono tra loro e sono un solo ed unico tipo di impressione; ossia la
morale altro non è che una forma dell’estetica in quanto fondata, come
l’estetica, sul piacere. In questo caso la prova empirica è possibile poiché si
tratta di impressioni prodotte da percezioni, sensazioni empiriche, salvo
sempre, ovviamente, la duplicazione strutturale del mondo in fisico e
metafisico. Se le percezioni esterne, produttrici di impressioni esterne,
provengono dalla presupposta esistenza di un mondo esterno al soggetto
percipiente, da dove provengono le sensazioni interne, ammesso che abbiano
natura diversa da quelle esterne? La risposta potrebbe risiedere nella capacità
del- la mente di apprendere, ricordare e rielaborare il percepito ed il
sentito, in qualunque modo venga percepito e sentito: fisico o metafisico.
Certa- 6 D. Hume, op. cit.., p. 915. 7 D. Hume, op. cit., p. 931.
98 Il diritto come estetica mente la tradizione,
l’educazione, le convinzioni religiose e scientifiche dovrebbero giuocare un
ruolo centrale nella determinazione delle sensa- zioni interiori e nel giudizio
su quelle esteriori. Commozione, attaccamen- to, repulsione, amore, odio, etc.
possono essere conseguenze di precedenti esperienze: il fuoco mi ha scottato e
provo una repulsione nell’avvicinarlo. Ma anche preconcetti, superstizioni,
credenze si presentano come sensazio- ni interiori e possono avere un’origine
culturale: provo paura alla vista di un gatto nero, perché sono convinto che
porti sfortuna; provo gioia per aver trovato un quadrifoglio, perché penso che
porti fortuna. Searle affronta il tema immediatamente nel suo significato
empirico; le impressioni umane determinano il comportamento, in presenza del
libero arbitrio, attraverso le sensazioni di piacere o di dispiacere. Dunque,
le sensazioni di piacere o di dispiacere si collocano all’origine
dell’intenzionalità, che per sua stessa natura è sempre e solo cosciente;
pertanto la domanda da porre diviene la seguente: come funzionano nei
particolari gli stati intenzionali? L’Autore, pur reputando che resti un
mistero il funzionamento dell’intenzionalità, tuttavia fornisce alcune
interessanti riflessioni ed indicazioni in merito. [...] ogni stato cosciente
presenta un certo grado di piacere o dispiacere. Per meglio dire, occupa una
certa posizione sulla scala che include le nozioni ordi- narie di piacere e
dispiacere. Così, per ogni esperienza cosciente che qualcuno abbia, è sensato
chiedergli: È stato piacevole? È stato bello? Sei stato bene, male, ti sei
annoiato, ti sei divertito? È stato disgustoso, delizioso o deprimen- te? La
dimensione piacere/dispiacere si estende pervasivamente a tutti gli stati di
coscienza8. Si deve notare che la dimensione piacere/dispiacere ha natura
empiri- ca, ossia può essere sottoposta ad un processo di
verifica/falsificazione, pertanto passare da un giudizio di valore ad un
giudizio estetico comporta anche la reintroduzione della metodologia empirista.
Ovviamente non ri- guardo all’oggettività del giudizio, ma all’impressione
prodotta dalla sen- sazione percepita. Infatti, un giudizio morale, se non si
identifica con un giudizio estetico, se non è un giudizio estetico, non può
scaturire da una sensazione produttrice di impressioni di piacere/dispiacere,
non solo per Kant, ma per sua stessa definizione, in quanto il dover essere,
per essere morale, deve essere anche privo di interesse personale. In modo
diverso si presenta la doverosità giuridica, che può anche essere sostenuta da
un interesse personale, e, proprio per questo motivo, sembra appartenere più 8
J.R. Searle, La mente, cit., p. 128. Il
diritto come estetica 99 al mondo dell’estetica che a quello della morale. Ma è
bene continuare con Searle, che precisa il concetto di percezione: Dovremmo
concepire la percezione non come qualcosa che crea la coscien- za, ma come
qualcosa che modifica un campo di coscienza preesistente9. Siamo vicini
concettualmente alla res cogitans di Descartes, ma lontani dalla sua
astrattezza; infatti in Searle tutto ruota intorno ad una sensazio- ne
rapportata ad una percezione non necessariamente autoreferenziata al soggetto
percipiente; in breve, soggetto ed oggetto vengono posti in cor- relazione, non
rigidamente separati. Pare un timido tentativo di riduzione del dualismo
soggetto/oggetto. Ma ciò che più conta riguarda direttamente lo stato mentale
cosciente, che altro non è che l’espressione delle proprie condizioni di
piacere/dispiacere. L’esser vera sta alla credenza come l’esser appagato sta al
desiderio o l’esser realizzata sta all’intenzione. Propongo di descrivere tale
fenomeno nel modo seguente: ogni stato intenzionale con direzione di
adattamento non nulla pos- siede condizioni di soddisfazione. Possiamo
considerare gli stati mentali come rappresentazioni delle proprie condizioni di
soddisfazione10. Searle è esplicito; la separazione fatti/valori comporta, per
i fatti, la pos- sibilità di rispondere a verificabilità empirica, mentre, per
i valori morali o estetici, negata questa possibilità, produce la mera
soddisfazione o insod- disfazione personale del soggetto agente. La Grande
Divisione persiste, ma ridimensionata entro un vocabolario, che meglio la
descrive. La sepa- razione tra giudizi di fatto e giudizi di valore non
esaurisce la serie delle possibili divisioni. Infatti, subito subentra anche la
sottodivisione giudizi di valore e giudizi di estetica, come si è già visto.
Tuttavia, mentre la pri- ma divisione regge alla prova empirica come
scriminante fra i due tipi di giudizio (solo i giudizi di fatto sono
empiricamente verificabili/falsifica- bili), la seconda suddivisione (giudizi
etici/giudizi estetici) non trova altra giustificazione che il tentativo di
recuperare, attraverso il giudizio etico, di 9 J.R. Searle, op. cit., p. 141.
10 J.R. Searle, op. cit., p. 154. “Come è possibile che io abbia sete d’acqua?,
vale a dire che abbia un desiderio il cui contenuto è bere acqua. [...] la
risposta si fornisce mostrando la connessione essenziale tra intenzionalità e
condizioni di soddisfazione. Ciò che fa del mio desiderio il desiderio di bere
acqua è che sarà soddisfatto se e solo se berrò acqua. Non si tratta di
un’osservazione psicologica che predice cosa mi farà sentire bene, ma della
definizione del contenuto intenzionale pertinente”. Ibidem, p. 171.
100 Il diritto come estetica valore, un
metafisico assoluto, trascendente od anche solo razionale. Del resto, risulta
chiaro che, rispetto alla sua origine, il giudizio di valore non è altro che un
giudizio estetico, poiché scaturisce da condizioni di soddisfa- zione o, se si
preferisce, da sensazioni percepite e produttrici di impressioni
(piacere/dispiacere). Le sensazioni, dunque, producono dei giudizi estetici
(impressioni), ri- assumibili sinteticamente nell’alternativa mi piace/non mi
piace. Si tratta ora di vedere se questi giudizi estetici, oltre all’origine,
possiedono anche i medesimi caratteri dei giudizi di valore. Sia i giudizi
estetici che i giudizi di valore esprimono una dimensione meramente mentale, ma
mentre i primi dovrebbero essere finalizzati a manifestare un piacere
personale, i secondi, invece, dovrebbero svolgere la funzione di governo del
comportamento. Ma il giudizio di valore che cosa è? Vi è una sola alternativa
possibile: o è un valore assoluto, in qualche modo trascendente, che è giunto
all’essere umano dal di fuori per illuminazione, per rivelazione, per
quant’altro di immaginabile; oppure è un valore relativo, nato nella mente del
soggetto agente e caratterizzato dalla sue preferenze. Si tralasci ancora il
primo caso, che resta indimostrabile empiricamente e che, comunque, deriva
sempre dalla duplicazione del mondo, e si affronti il secondo caso. Esso non si
distingue dal giudizio estetico: è soggettivo nel medesimo modo; porta giu-
stificazioni solo apparentemente diverse alla propria adozione; infatti, al di
là di giustificazioni autonome od eteronome, funzionali, utilitaristiche,
pietistiche, anagrafiche, culturali, etc., la scelta finale altro non è che una
preferenza personale, un equilibrio tra le convinzioni e le scelte possibili,
che soddisfi il soggetto, lasciandolo emotivamente tranquillo. Il giudizio di
valore è un giudizio estetico formulato in modo diverso, poiché pone l’accento
sul comportamento da tenere e non sul piacere nel tenerlo, ma la forma non
riesce a mascherare il piacere di fondo, che si colloca all’origine delle
scelte etiche; dunque, poco conta la forma funzio- nale, ciò che importa è,
invece, la matrice, la natura comune, unitaria, che li caratterizza. Inoltre la
loro sovrapponibilità perfetta è anche confermata dal modo in cui se ne può
venire a conoscenza: per sapere quali siano i giudizi estetici e di valore di
un soggetto non è possibile fare altro che porre la domanda al soggetto medesimo
od osservarne il comportamento, pre- supponendo (sperando) che il pensiero sia
coerente con l’azione. Tuttavia i giudizi estetici presentano un vantaggio
empirico su quelli di valore: il giu- dizio estetico produce un immediato senso
di piacere nel soggetto, piacere che è empiricamente verificabile; al
contrario, il giudizio di valore aspi- rerebbe ad essere disinteressato e,
quindi, il piacere non dovrebbe essere percepibile nell’imperativo del dovere.
Ciò ovviamente nasconde il piacere Il diritto
come estetica 101 originario della scelta etica, ma, soprattutto, lascia
intendere l’estraneità alla verifica/falsificazione empirica del giudizio di
valore, in quanto asso- luto, a priori, arbitrario. Anche il giudizio estetico
è e resta arbitrario, ma esso riconosce la propria origine empirica nel piacere
e, quindi, può essere studiato anche senza duplicare il mondo. Demistificare il
giudizio di valore significa svelarne l’egoismo e la volontà di potenza, che
nasconde. Il pathos dell’aristocrazia e della distanza [...] il duraturo e
dominante sen- timento totale e basilare di una specie superiore e dominante
nei confronti di una specie inferiore, di un sotto, questa è l’origine
dell’opposizione tra buono e cattivo. (Il diritto signorile di imporre nomi,
risale così indietro nel tempo, che si sarebbe autorizzati a ritenere l’origine
della lingua stessa come espressione di potenza di chi era al potere: essi
dicono questo è questo e questo e con un suono impongono il loro sigillo a cose
e avvenimenti e, così facendo, se ne impossessano)11. Il giudizio di valore ha
una lunga storia dietro le spalle di violenza, di persecuzioni, di soprusi, di
processi, di torture, di eresie, di condanne capi- tali proprio per questa sua
tendenza a porsi fuori dall’immediato giudizio umano individuale, per questa
sua costante aspirazione all’assoluto, anche quando si manifesta palesemente
come relativo, come appunto avviene nell’ambito del diritto. Infatti, quando il
giudizio di valore prende vera- mente atto della propria relatività, si apre il
capitolo del nichilismo e del nichilismo giuridico. Il giudizio estetico,
invece, non sembra manifestare questa tendenza: esso è relativo e tale resta,
almeno nella attuale cultura occidentale, eppure i due giudizi sono un medesimo
giudizio, che, più cor- rettamente dovrebbe essere definito solo giudizio
estetico12. Per continuare ora la marcia verso il diritto estetico si devono
svolgere alcune considerazioni intorno al diritto. Non si tratta certo di
aspirare ad una compiuta definizione di diritto, che ha affaticato vanamente
genera- zioni di giuristi, quanto piuttosto di estrarne alcuni caratteri, che
possono evidenziarne la natura. Kelsen individua chiaramente due aspetti
diversi, ma fondamentali, del diritto: la validità e l’efficacia. 11 F.
Nietzsche, Genealogia della morale, Newton Compton Editori, Roma 1988, p. 49.
12 “[...] quello che vale per i giudizi di valore sensoriali e estetici vale
anche per quelli morali, di cui fanno parte quelli politici e sociali”. Th.
Geiger, Saggi sulla società industriale, cit., pp. 452-453.
102 Il diritto come estetica La possibile indipendenza
della validità della singola norma giuridica dalla sua efficacia indica
nuovamente la necessità di distinguere con chiarezza fra i due concetti13. La
validità attiene alla vincolatività giuridica della norma, l’efficacia, invece,
alla sua capacità di manifestarsi nella realtà operativa umana. La validità
appartiene al mondo delle convinzioni, mentre l’efficacia a quel- lo
dell’empiria. Efficace è una norma che viene applicata da coloro cui è diretta,
rivolta; valida è una norma che viene considerata appartenente all’ordinamento
giuridico vigente, ossia in essere in un certo luogo e tempo (si tratta sempre
di convinzioni personali). In entrambe i caratteri la realtà, tuttavia, non può
essere tralasciata: è evidente per l’efficacia, ma è altret- tanto evidente
anche per la validità dell’ordinamento giuridico, che o si impone o non si
impone come efficace. Come è impossibile nella determinazione della validità di
astrarre dalla re- altà, così è anche impossibile di identificare la validità
con la realtà. [...]. Nel senso della teoria qui sviluppata il diritto è un
determinato ordinamento (od organizzazione) della forza14. Il diritto, dunque,
si presenta sia come valore (validità), sia come forza (efficacia), ma anche la
validità a livello di ordinamento giuridico, ossia di cambio di regime politico
o sociale, si riduce ad efficacia, in breve, a forza. Certo, la validità cerca
di pilotare l’attenzione verso il giudizio di valore, verso il dover essere,
verso la vincolatività, verso la doverosità, ma il depi- staggio non è
sufficiente a far scomparire la forza, la violenza (sanzione), come principale
carattere identificativo del diritto. È al vincitore che appartiene il vinto,
con la sua donna e i suoi figli, i suoi beni e il suo sangue. La violenza è il
primo fondamento del diritto, e non c’è diritto che nel suo fondamento, non sia
tracotanza, usurpazione, prepotenza15. La forza del diritto è, dunque, mera
forza bruta, mera violenza, alla qua- le è difficile resistere, senza subire
gravi danni materiali. Il mito dell’ob- bligo giuridico, della doverosità,
prima, morale e, poi, anche giuridica, non descrive fedelmente il fenomeno
diritto, ma lo cela dietro un immateriale velo di spontanea subordinazione, di
impegno interiore, che poco o nulla esprime del reale. Nel dover essere la
fantasia imperversa libera da qualsia- 13 H. Kelsen, Lineamenti di dottrina
pura del diritto, cit., p. 104. 14 H. Kelsen, op. cit., pp. 101-102. 15 F.
Nietzsche, Verità e Menzogna, Newton Compton Editori, Roma 1988, p. 103
Il diritto come estetica 103 si vincolo
empirico verso poli opposti di intensità, che vanno da una razio- nalità morale
dubbiosa, moderata e tollerante ad un integralismo fanatico ed intollerante, e
di qualità, di contenuto variegato e molteplice. Sia i giuristi che i filosofi
sono perfettamente consapevoli del fatto che la forza vincolante del diritto
non è un elemento del mondo spazio-temporale che li circonda, del mondo
empirico. L’ovvia conclusione a cui dovrebbe portare tale constatazione è che
la forza vincolante esiste soltanto nell’immaginazione degli uomini. Ma la
convinzione della sua esistenza reale è talmente radicata che una simile idea
non è stata quasi mai formulata. Al contrario la nozione di forza vincolante
intesa nel senso tradizionale ha continuato, e continua tutto- ra, a costituire
una della assunzioni fondamentali di tutte le teorie giuridiche correnti16. Il
diritto è l’organizzazione della forza operata dal gruppo sociale domi- nante,
sia esso politico, economico, etnico, religioso od anche solo mag- gioritario;
neppure la democrazia, infatti, è estranea a questo contenuto del diritto.
Pertanto, la burocrazia, come organizzatrice di questa forza, svolge un ruolo
dominante nel diritto, anzi, il diritto come procedura, come applicazione
procedurale e processuale è burocrazia, tecnica buro- cratica con tutti i
problemi disumanizzanti, che sono già stati evidenziati nel rovesciamento della
tecnica da mezzo a fine. Anche il diritto rischia e talvolta subisce tale
rovesciamento. Basti pensare al detto latino: Fiat ius et pereat mundus. Il
diritto, secondo questo broccardo, deve trionfare in quanto tale, costi quello
che costi; si presenta come un imperativo cate- gorico di kantiana memoria, che
ha perso la sua funzione di trattamento dei conflitti sociali17 e si è
trasformato in un valore assoluto, metafisico, da mezzo è diventato fine. Non
si tratta, dunque, di descrivere il diritto quale si vorrebbe che fosse, ma di
attenersi rigorosamente al diritto quale esso effettivamente è nella realtà
umana. In questa direzione il diritto si manifesta come l’espressione di una
preferenza individuale, che, sommata ad altre preferenze individuali omogenee,
riesce a raggiungere un punto critico di forza, a produrre una forza dominante,
sulla base della quale si impone nel contesto sociale e si organizza secondo il
modello burocratico. Questa scelta personale, spesso detta ideologica, altro
non è che una prefe- renza estetica del soggetto, che risponde alla domanda: mi
piace o non mi piace? L’organizzazione, che ne deriva, dunque, in nulla si
discosta dagli stili e dai canoni estetici, che hanno accompagnato l’essere
umano lungo 16 K. Olivecrona, Il diritto come fatto, Giuffrè, Milano 1967, pp.
9-10. 17 Cfr. V. Ferrari, Funzioni del diritto, Editori Laterza, Roma-Bari
1987. 104 Il diritto come estetica la
storia nelle sue avventure culinarie, musicali, letterarie, architettoniche,
pittoriche, scultoree, etc.. Non casualmente, infatti, non solo il nichilismo
giuridico ha fatto la sua comparsa all’orizzonte delle nostre società con-
temporanee, ma anche i modelli, le regole, i canoni, gli ordini estetici, con
la modernità, sono precipitosamente tramontati. Il nichilismo si converte, a
parte subjecti, in solipsismo giuridico. Il diritto è scelto da me; accettando
l’inizio, anche accetto le procedure, con cui si svolge l’intero ordine di
norme. Scegliendo l’inizio di un regime democratico accetto il criterio della
maior pars, e procurerò di scendere nel conflitto e di inserirmi in una od
altra delle forze in campo18. Il solipsismo è l’essenza stessa del nichilismo;
la piena consapevolezza dell’autonomia individuale umana19; il riconoscimento
dell’irriducibilità del soggettivismo ad oggettività; la constatazione che
l’individuo è il referente ultimo ed indiscutibile di qualsiasi scelta.
L’individuo osserva se stesso e, senza la duplicazione del mondo, resta solo
con se stesso, con le proprie speranze, con le proprie opinioni, con il proprio
senso estetico, ma anche con le proprie angosce e con un profondo senso di
impotenza, che certo non riesce ad essere compensata dalla volontà di potenza
insita nel nichilismo. Non deve stupire che il nichilismo ed ancor più il
nihilismo dei valori terrorizzi i gruppi sociali dominanti. Sono, infatti, essi
che governano più facilmente, velando la forza ed il potere con lo strumento
del dover essere etico, morale e giuridico, che riescono a meglio celare i
propri interessi e le proprie preferenze estetiche sotto una parvenza di
universalità, di bene comune, di giustizia oggettiva. [...] la teoria del
nihilismo dei valori è altrettanto pericolosa quanto alcuni secoli orsono lo è
stata la nuova immagine astronomica del mondo, e cento anni fa la teoria
genetica e a suo tempo ogni rivoluzionamento delle rappre- sentazioni abituali.
A lungo andare tale pericolosa verità non potrà rimanere celata; gradualmente
si imporrà, e sarà pericolosa soltanto nella misura in cui durante un periodo
di transizione provocherà disorientamenti passeggeri. Con il graduale
adattamento degli atteggiamenti pratici di vita alla nuova visione teorica il
pericolo verrà superato. Per ciò che concerne in particolare l’incom- bente
pericolo del nihilismo dei valori, di una disgregazione morale, io non riesco a
vederlo. Nessun nihilismo dei valori potrà far sì che il nostro standard 18 N.
Irti, Nichilismo giuridico, cit., p. 139. 19 Cfr. V. Frosini, L’ipotesi
robinsoniana e l’individuo come ordinamento giuridico, in Sociologia del
Diritto, 2001/3, pp. 5-15. Il diritto
come estetica 105 morale sia più disgregato di quanto già non lo sia a causa
dello scisma delle rappresentazioni morali20. La Grande Divisione di Hume si trasforma,
come si è visto preceden- temente, facendo cadere il termine giudizi di valore
e sostituendolo con il termine giudizi di estetica. Ciò produce un certo
vantaggio nel campo della tolleranza, poiché è a tutti noto e da quasi tutti
accettato che i gusti sono personali e non discutibili (de gustibus non est
disputandum), per- tanto non ha senso affaticarsi a convincere gli altri della
maggiore bontà dei propri gusti, della bontà dell’arrosto piuttosto che dello
stufato o del bollito, della bellezza dello stile architettonico romanico
piuttosto di quel- lo gotico o barocco. Il soggettivismo appare in tutta la sua
sfrontatezza e taglia la strada a qualsiasi tentativo di oggettivizzazione. Ma
ciò vale tanto per il prossimo, quanto per il soggetto medesimo e questo fatto
(si tratta di un fatto l’origine personale dei giudizi) mina alla radice ogni
presuntuosa pretesa di verità assoluta. Solo l’ottusità cerebrale potrà
consentire con- vinzioni personali certe ed intolleranti delle, altrettanto
possibili quanto le nostre, scelte e ragioni estetiche altrui. Il nichilismo ha
in parte contribuito a costruire questa strada ed in altra parte ne è la
conseguenza. Il nihilismo, poi, ne è lo sviluppo logico più radicale, ma anche
più concreto e coerente. L’inesistenza fattuale, oggettiva dei valori non
poteva più trovare pudica copertura nell’ipotetica equivalenza di qualsiasi
valore. Il soggettivismo non produce tante oggettività diverse, non produce
alcuna oggettività. Il soggettivismo, se rende il soggetto consapevole dei
propri limiti, dovreb- be guidarlo anche verso una revisione critica delle
proprie convinzioni, prima che verso la censura delle convinzioni altrui. Il
nihilismo non è né caos, né arbitrio capriccioso, ma semplice consapevolezza
dei propri limiti conoscitivi e questi limiti, nella loro varietà, forniscono
il panorama del multicolore teatro umano. La pazzia è una forma particolare
dello spirito e aderisce a tutte le dottrine e le filosofie, ma ancor più alla
vita di ogni giorno, poiché la vita stessa è colma di follia ed è sostanzialmente
irragionevole. L’uomo aspira alla ragione solo per potersi creare delle regole
per lui stesso. La vita in sé non ha regole. Questo è il suo segreto, questa è
la sua legge sconosciuta. Quello che tu chiami cono- scenza è un tentativo di
imporre alla vita qualcosa che risulti comprensibile21. 20 Th. Geiger, Saggi
sulla società industriale, cit., p. 559. 21 C.G. Jung, Il libro rosso. Liber
novus, Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 227-228.
106 Il diritto come estetica La partita intorno al nihilismo
la si può giuocare solo se si considera fuorviante la duplicazione metafisica
del mondo; è, infatti, solo nell’ipotesi metafisica che i valori non sono
giudizi, ma fatti di una oggettività assoluta, tanto assoluta da essere
trascendente. Il dualismo cartesiano, razionale (res cogitans/res extensa),
potrebbe anche sussistere, giacché nulla impedisce in via teorica che le scelte
estetiche siano frutto di autonoma elaborazione mentale. Intorno al tema del
determinismo o dell’indeterminismo, poi, la caduta della categoria del dover
essere e della sua sostituzione con il giu- dizio estetico, non muta la
prospettiva, che resta come scelta necessaria nel primo caso e libera nel
secondo. Evidentemente si avranno due diversi giudizi estetici: l’uno condizionato
dal sistema e l’altro espressione della scelta, della preferenza del soggetto
singolo. Resta sempre aperto il proble- ma se il soggetto può essere
completamente libero da condizionamenti di qualsiasi tipo, a cominciare da
quelli culturali, ma questi condizionamenti potrebbero anche essere intesi
proprio come i limiti personali, individua- li della conoscenza. Deve risultare
ben chiaro che né le ipotesi trascen- denti, né quelle immanenti e neppure il
determinismo e l’indeterminismo possono essere sostenuti da
verifica/falsificazione empirica; al massimo è possibile affermare che ciò che
si verifica empiricamente è empiricamente verificabile: una tautologia, come è
evidente. Il nichilismo, tuttavia, viene visto da Nietzsche, e non solo da lui,
come un mostro incombente, come una sciagura del nostro mondo occidentale, ma
una tale visione negativa appare eccessiva a chi scrive: Pensiamo questo
pensiero nella sua forma più terribile: l’esistenza, così com’è, senza senso e
scopo, ma che ritorna ineluttabilmente senza finire nel nulla: l’eterno
ritorno. È questa la forma estrema del nichilismo: il nulla (il non senso)
eterno!22. È bene ripeterlo; il nichilista ed il nihilista dovrebbero mettere
in discus- sione le proprie scelte, non le altrui, che rispondono ad un
soggettivismo esterno ed estraneo al nostro e, quindi, si presentano
insindacabili, in quan- to autonome. L’educazione in questo ambito è destinata
a trasformarsi in autoeducazione, in autocontrollo, in autolimitazione, non
certo in arbitrio verso il prossimo, sul quale non si potrebbe vantare alcun
titolo, come il prossimo non può vantare alcun titolo verso il soggetto agente.
Risulta evidente che etica, morale, diritto, sinteticamente, dover essere, in
questa cornice risultano privi di senso, ma ciò non significa, che la vita 22
F. Nietzsche, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 2006, pp. 13-14.
Il diritto come estetica 107 umana sia priva
di senso. Significa soltanto che il senso non è dato, non può essere dato, da
valori né morali, né giuridici, ma solo dal soggetto stesso, ammesso che abbia
senso interrogarsi intorno al senso di un essere, di un esistere che si
presenta come dato ineluttabile, ineludibile, come un dato primo, come una
singolarità, si potrebbe dire con espressione propria della fisica teorica. Un
diritto estetico è solo espressione di una maggiore consapevolezza intorno alla
realtà, non certo di un imbarbarimento dei costumi. Se, infatti, il diritto
estetico è mero frutto di una descrizione, come pare che sia, e non di una scelta
valoriale, allora già esiste nei fatti, come sostiene chi scrive, e nulla muta
nell’averlo smascherato, se non una maggiore chiarezza sul- la natura e i
limiti del diritto. Il diritto estetico è un diritto positivo, che non si
nasconde dietro né la trascendenza universalistica dello Stato, né la
doverosità metafisica della norma, ma prende atto della propria origine
arbitraria umana. Del resto è interessante riflettere intorno al fatto che già
in epoca romana si discuteva sull’identificazione di ius come ars. L’idea di
associare alle artes la conoscenza del ius appare infatti, sia pure di fuggita
e in modo concettualmente marginale, in due testi di Tacito e di Gellio,
entrambi, curiosamente, riferiti a Labeone [...]. La connessione fra ius e ars
era stata infatti, tempo prima, una bandiera [...] degli studi giuridici di
Cicerone. Quando Celso scriveva non poteva pensare che a lui23. Naturalmente,
all’epoca, il termine ars non corrispondeva all’attuale si- gnificato di opera
artistica, tuttavia, nella interpretazione di Marco Tullio Cicerone (106 a.
C.-43 a. C.) esso descriveva l’elaborazione di un metodo, di una teoria
tecnico-logica universale, di una dottrina razionale. Tale dot- trina, frutto
dell’interpretazione giuridica, spostava sulla ragione umana il contenuto
normativo e, quindi, consapevolmente o inconsapevolmente il diritto, pur
sembrando trasformarsi in una forma di conoscenza e non di volontà, in realtà
diveniva una elaborazione dei giuristi, una scelta relativa, arbitraria,
soggettiva, come tutte le scelte umane. Nota infatti senza esitazioni Guido
Alpa: Un po’ di sano realismo consente di dissacrare i dogmi
dell’interpretazione, o, meglio, di strappare il velo dell’omertà su dogmi
interpretativi. Questi dog- 23 A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in
Occidente, Einaudi, Torino 2005, p. 385.
108 Il diritto come estetica mi tacitando le coscienze, restituiscono
tranquillità al giudice, danno conforto al dottore. Tutti questi schemi o
espedienti possono essere considerati per l’appunto schemi o espedienti da
parte di altri interpreti, e quindi la linea del lecito e dell’arbitrio tende a
spostarsi o a non riconoscersi. Nella più parte di casi essa coinciderà con la
linea che la maggioranza degli interpreti dirà essere collocata nella posizione
corretta24. Il soggettivismo, di cui l’interpretazione è un aspetto, esprime
nel diritto estetico tutta la propria potenzialità delegittimante di Stati,
ordinamenti giuridici e norme giuridiche non condivise, ma semplicemente
subite. Poiché l’origine dell’autorità, la fondazione o il fondamento, la
posizione della legge possono per definizione appoggiarsi alla fine solo su
loro stessi, sono anch’essi una violenza senza fondamento. Il che non vuol dire
che siano ingiusti in sé, nel senso di illegali o illegittimi. Non sono né
legali né illegali nel loro momento fondatore. Eccedono l’opposizione del
fondato e del non fondato, come di ogni fondazionalismo o di ogni
antifondazionalismo. Anche se il successo di performativi fondatori di un
diritto (ad esempio, ed è più di un esempio, di uno Stato come garante di
diritto) suppongono delle condizioni e delle convenzioni preliminari (ad
esempio, nello spazio nazionale o interna- zionale), lo stesso limite mistico
risorgerà all’origine supposta delle suddette condizioni, regole o convenzioni
– e della loro interpretazione dominante. [...] il diritto è essenzialmente
decostruibile [...] perché il suo ultimo fondamento per definizione non è
fondato25. Ancora una volta per discutere del fondamento si deve uscire sia dal
soggettivismo, sia, conseguentemente, anche dall’empiria, per entrare in una
qualche forma di duplicazione mistica del mondo. L’alternativa, sem- pre
possibile resta il nichilismo/nihilismo, ma anche del nichilismo/nihi- lismo si
può avere una versione metafisica ed una non metafisica legate alla sorte
dell’Essere e dell’Ente: inesistente, il primo, (metafisica come affermazione
infondata); in dissoluzione, il secondo, (come espressione empiricamente
verificabile/falsificabile). Se l’Essere è inesistente la me- tafisica diviene
priva di fondamento, mentre l’Ente, dissolvendosi nel non essere, appartiene al
mondo dell’empiria. Tuttavia la dimensione metafisi- ca può anche sopravvivere,
monoteisticamente, con un Essere molteplice, 24 G. Alpa, Interpretare il
diritto: dal realismo alle regole deontologiche, in J. Derrida, G. Vattimo (a
cura di), Diritto, Giustizia e Interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1998, p.
210. 25 J. Derrida, Diritto alla giustizia, in J. Derrida, G. Vattimo (a cura
di), op. cit., pp. 16-17. Il diritto
come estetica 109 ad esempio, nel Cristianesimo, con una Divinità una e trina
e, nella Gnosi, con il progressivo alienarsi, decadere del divino nella
materia, (in alterna- tiva politeista: con una molteplicità di Esseri equivalenti)
oppure con un Ente cristallizzato, che si manifesta immutabile. Ma anche la
negazione, il Nulla, se dotato di esistenza, di presenza e non di assenza,
vincola alla metafisica. Si sarà già capito che il nichilismo rimane impigliato
nella metafisica fino a che, anche solo implicitamente, si pensa come la
scoperta che là dove crede- vamo ci fosse essere, c’è, in realtà, il nulla.
Così, dove credevamo ci fossero principi della legge c’è solo l’arbitrio del
legislatore o dell’interprete, la de- cisione infondata, e per questo
essenzialmente violenta, che deve essere resa accettabile dalla finzione delle
affabulazioni, o da una accettazione motivata misticamente (nella versione
kierkegaardiana del nichilismo). Una definizio- ne non metafisica del nichilismo
si può invece formulare richiamandosi all’e- spressione con cui Heidegger
caratterizza la storia del nichilismo nietzschiano: nichilismo è la vicenda
nella quale dell’essere come tale non ne è (più) nulla. Nichilismo, se non deve
(e non può) intendersi come la scoperta che al posto dell’essere c’è il nulla,
non può che pensarsi come la storia (senza fine – senza conclusione in uno
stato in cui al posto dell’essere c’è il nulla) in cui l’essere,
asintoticamente, si consuma, si dissolve, si indebolisce26. Il Nulla è entità
metafisica al pari dell’Essere, tuttavia, paradossalmente, tale negazione
dell’Essere, del Principio può trasformarsi, capovolgendosi, in affermazione a
livello di teologia negativa. Scrive, infatti, Andrea Emo (1901-1983): Il principio.
Dobbiamo cominciare con un principio. Ma, nessun principio è definibile od
oggettivabile. Dobbiamo dunque cominciare con la rinuncia ad un principio, il
che equivale ad una negazione del principio. Ed è appunto questa negazione che
è il principio. Il cogito. Come passare da questa negazione alla presenza.
Dobbiamo contemplare l’origine della negazione. L’assolutezza della presenza
consiste in questo: che essa non è presenza in quanto presenza di qualcosa, ma
è presenza per sé, in quanto cioè nega ogni cosa. Nega ogni cosa che non sia la
presenza stessa. Il suo essere pura presenza è un essere presenza di... che è
un essere presenza di nulla, quindi è un negarsi, appunto perché è un ridurre a
presenza27. 26 G. Vattimo, Fare giustizia del diritto, in J. Derrida, G.
Vattimo (a cura di), op. cit., p. 286. 27 A. Emo, Il Dio negativo. Scritti
teoretici 1925-1981, cit., pp. 18-19.
110 Il diritto come estetica La negazione diviene, metafisicamente,
affermazione proprio per la sua alienazione da qualsiasi affermazione. Ma
questa affermazione negativa della metafisica si distingue dall’affermazione
positiva dell’empiria, poi- ché mentre quest’ultima è oggettivata,
individualizzata, è parte di un tutto, la prima, invece, è puro soggetto, privo
di specificazioni e qualità empiri- che, proprio perché le trascende come puro
Essere. In questa logica nega- tiva conoscenza e volontà, pur coincidendo, si
connotano come non cono- scenza e non volontà. Ovviamente, l’ipotesi si
capovolge nella metafisica positiva, nella quale conoscenza e volontà si
presentano come assolute, e scompare nell’empiria, ove la negazione è
metamorfosi, ove il nulla è essere altro. Tuttavia anche nella metafisica
negativa il nulla sembra sci- volare nell’altro, tanto altro da essere al di là
della fisica e della metafisica, ossia del pensiero umano, ma questo altro è a
sua volta nulla, almeno per la dimensione conoscitiva umana, che non riesce a
comprendere un altro non umano e fatica ad immaginare una nullità, una assenza
assoluta. Tornando ora in modo più stretto al tema del diritto, è possibile
riassu- mere quanto detto nel seguente modo: se conoscere e volere coincidono a
livello metafisico, nella realtà fisica possono sia coincidere (Spinoza), sia
non coincidere (volontà di potenza) e lasciare spazio a scelte soggettive. Il
diritto, inteso come estetica, consente di non rinunziare al diritto, pur rela-
tivizzandolo, e di affidare al singolo soggetto l’adesione o meno al diritto
dominante, che in questo modo non rappresenta più una obbligatorietà, ma
l’alternativa tra una vita omologata, ma sicura (forse), ed una vita origina-
le, deviante, ma pericolosa. La norma estetica può essere obbedita o disat-
tesa. Il disattenderla, senza possedere una potenza, una forza sufficiente a
piegarla alla propria volontà, significa soccombere alla forza dominante.
Disattendere il diritto diviene una scelta come tante altre, della quale si
possono subire le conseguenze, generalmente sgradevoli. Il determinismo o la
volontà di potenza governano comunque il sistema umano, ma almeno non
sopravvive l’inganno di un mitologico dover essere, frutto dell’ulterio- re
sdoppiamento nel soggetto che agisce e nel soggetto che guida l’azione.
Nichilismo/nihilismo, in sintesi, sono la demistificazione del mondo ed il diritto
estetico è ciò che resta del diritto dopo questa demistificazione, che,
tuttavia, è solo empirica e, quindi, non può fornire certezze assolute. Ma
l’incertezza, il dubbio sembrano proprio essere il sigillo della condizione
umana. Infatti, la duplicazione del mondo, dei piani della conoscenza e del- la
volontà si presenta come una possibile via di fuga dall’incertezza, dalla
solitudine angosciante dell’individuo; ma, al contempo, è anche la misura
fisiologica del biologico, della stirpe animale ed umana. La duplicazione,
dunque, si manifesta sia come una contromisura psicologica ed artificiale
Il diritto come estetica 111 alla condizione umana
di assenza di senso esistenziale, sia come naturale moltiplicarsi e perpetuarsi
della vita. La singola cellula aliena parte di se stessa, scindendosi in due
cellule. Dalla madre fuoriesce per espulsione viscerale la prole. Le scissioni,
il sacrificio di parte del proprio corpo per generare il corpo dell’altro è un
processo traumatico di riproduzione, che tendenzialmente volge verso
l’infinito, salvo eventi esterni ed imprevi- sti, che ne interrompono lo
sviluppo. Dall’uno scaturisce per rottura un secondo uno, il due, ed, una volta
iniziata la pluralità, automaticamente, sopraggiungono gli altri numeri (3, 4,
5, 6, ..., infinito). Anche l’infinito, come idea, è richiamato da questo
processo moltiplicativo, ma, come in matematica, è una duplicazione
(finito/infinito) espressione di un processo al limite, che mai si compie, che,
per sua stessa natura, non può compiersi, giungere al termine, altrimenti
cadrebbe la duplicazione stessa e resterebbe solo il finito. La vita propone la
tentazione dell’infinito, ma, subito, infligge la disil- lusione. Ogni
duplicazione si presenta come speranza e si accomiata come sconforto. Resta
solo un soggetto, della cui identità tutto o quasi si ignora (dell’oggetto,
poi, non vi è neppure certezza della sua stessa esistenza), con il proprio
sentire incomunicabile se non attraverso l’atto comportamentale. Un sentire
percorso da limiti organici, stimoli, motivazioni, giustificazioni,
condizionamenti, influssi misteriosi, comandi metafisici, etc., ma pur sem- pre
riducibile ad una semplice alternativa: mi piace/non mi piace. Nella solitudine
dell’essere è questa l’unica certezza; una certezza dal contenuto vario e
variabile, come vari e variabili sembrano essere i singoli soggetti; una
certezza che può essere definita estetica. Morris Lorenzo Ghezzi. Morris L.
Ghezzi. Gezzi. Keywords: i tordi ubriachi, i tordi, tordo, “drunk as a
thrush/newt” turdus ubriacus – sturdy – I tordi -- nihilism about values,
Mackie, Inventing right and wrong, Hare, emotivism, Grice, The conception of
value, valitum – valore – axiology, stato federale, federazione, fascismo, il
fascismo e la autobiografia d’Italia – Gobetti – statocentrale – diritto –
diritto naturale e diritto artificiale – assiologia, codice valoriale,
fierezza, onore, massoni, bruno, Alighieri, conte Cagliostro, bobbio, nihilism,
nichilismo, pena e castigo, Beccaria, delitto, delinquent, delinquenza,
devianza, diritto come estetica. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ghezzi:
l’implicatura del tordo” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757983938/in/dateposted-public/
Grice e
Ghisleri – atlante filosofico – federalismo contrarivoluzione – lo stato
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cascina Sant’Alberto). Filosofo. Grice:
“Whereas to many, Ghisleri’s best work is that on Ancient Rome and
counter-revolution, I treasure the details: ‘the pen is like a sword’ – ‘the
pen and the sword.’ “The pen is my sword.’ Note that the first is a mere simile
– as used by Ghisleri, but his executor turns it into a metaphor just by
eliding the ‘like’ (“come”). Grice: “I like Ghisleri – a typical Italian
philosopher; wrote on geography, on ‘la penna d’oca,” and a fabulous history of
Roman philosophy!” -- “He was into
politics, too!” L'Italia non è studiata, non è conosciuta dagli italiani.
Dobbiamo rifare la nostra educazione politica e civile sulla base di una nuova
e più razionale conoscenza del nostro paese. Dobbiamo studiare l'Italia regione
per regione nella natura del suolo, nella sua topografia, ne' suoi prodotti
nelle sue industrie, ne' suoi dialetti, nelle sue tradizioni, nelle sue varie
necessità politiche e sociali.” Fonda La Società dei Liberi Pensatori (L’'Associazione
Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno") di chiare simpatie
democratiche e repubblicane. Iniziato in Massoneria, l'anno seguente entrò
nella Loggia "Pontida" di Bergamo e nel 1906 fu affiliato alla Loggia
"Carlo Cattaneo" di Milano.
Ghisleri diede alle stampe una nuova rivista mensile, Cuore e critica,
rivolta all'educazione civile e agli studi sociali ed espressione di
un'avanguardia intellettuale impegnata nella costruzione di una coscienza
repubblicana e progressista. Sorta a Savona, la redazione della rivista si
trasferì a Bergamo, in coincidenza con il trasferimento del Ghislèri al Sarpi
di quella città. Si dedica con assiduità agli studi di geografia e di
cartografia, che aveva cominciato a coltivare quando insegnava a Matera. Allora
si era sentito mortificato nel constatare che nelle scuole italiane venivano
adottati atlanti stranieri, assai carenti nel trattare la geografia storica
dell'Italia. Dopo aver pubblicato il “Piccolo manuale di geografia storica”
(Bergamo) volle perciò cimentarsi in un'impresa che non era mai stata tentata:
la realizzazione di un testo-atlante che desse il dovuto rilievo all'evoluzione
storico-geografica dell'Italia. Al progetto fu interessato lo stabilimento
"Fratelli Cattaneo di Bergamo" che, grazie al successo delle
iniziative editoriali promosse da Ghisleri, si trasformò in Istituto italiano
d'arti grafiche e s'impose nel settore della cartografia. Ghisleri concepì il
suo atlante in modo da offrire per una stessa regione molteplici carte e
cartine con le denominazioni e le divisioni topografiche proprie di ogni epoca.
L'apparizione dell'atlante fu salutata dalle lodi di esperti e studiosi, ma
suscitò anche riserve di parte del mondo accademico, che rimproverava al
Ghisleri superficialità e la commistione tra la geografia fisica e la storia
dei popoli, delle civiltà, delle esplorazioni, dei commerci. Commistione del
resto ricercata dal Ghisleri che, in polemica con il tradizionale approccio
alla geografia e senza sentirsi condizionato dai limiti angusti dei programmi
scolastici di allora, perseguiva metodi nuovi nello studio e nell'insegnamento
della materia. Tenne la cattedra di filosofia nel Liceo di Lugano. Giornalista,
fu direttore di «La geografia per tutti» e «Le comunicazioni di un collega».Di
idee mazziniane, recepite soprattutto nella versione che ne proponeva Saffi, in
campo politico fu vicino ai movimenti rivoluzionari e collabora con Gaudenzi
alla fondazione del Partito Repubblicano Italiano. Tuttavia Ghisleri non fu un
ideologo sistematico: una sistematizzazione del suo pensiero è soprattutto
opera di Conti. Diresse la rivista
Preludio di stampo filosofico positivista e progressista. Diresse L'Italia del
popolo. Al Congresso del Partito
Repubblicano, tenuto a Forlì, intervenne con una relazione su La questione
meridionale e la sua logica soluzione. Demofonti, La riforma nell'Italia del
primo Novecento: gruppi e riviste di ispirazione evangelica, Roma, Edizioni di
Storia e Letteratura, Vittorio Gnocchini, L’Italia dei Liberi Muratori,
Milano-Roma, Mimesis-Erasmo. Altre opera: “La Scapigliatura democratica:
carteggi” (Pier Carlo Masini,Milano), L'archivio di Ghisleri fu ritrovato da
Pier Carlo Masini ed è depositato presso la Domus Mazziniana di Pisa.
Democrazia come civiltà. Il carteggio Ghisleri-Conti, Antonluigi Aiazzi,
Libreria Politica Moderna, Firenze, Tripolitania e Cirenaica dai più remoti
tempi sino al presente, Emporium, novembre, Tripolitania e Cirenaica, dal
Mediterraneo al Sahara, monografia storico-geografica, Società Editoriale
Italiana, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, Le meraviglie del globo
esplorato e le zone non ancora conosciute Letture geografiche Società Editoriale
Italiana, Milano, Bagdad e la Mesopotamia nel passato e nell'avvenire,
Emporium, giugno, Lombroso nella vita intima, Emporium, luglio 1917 L'ultima
colonia africana della Germania, Emporium, Atlante scolastico di Geografia
moderna astronomica-fisica-antropologica,Istituto Italiano d'Arti Grafiche,
Bergamo (a cura dei professori Magg. G.Roggero, G.Ricchieri, A.Ghisleri) Saffi.
La vita, gli studi, l'apostolato, Libreria politica moderna, Roma, La questione
meridionale nella soluzione del problema italiano, Libreria politica moderna,
Roma, “Testo-atlante di geografia storica generale e d'Italia in particolare,
espressamente compilato per le scuole italiane conforme ai loro programmi- I
Mondo Antico; II Storia Romana; Fratelli Cattaneo e poi Istituto di Arti
Grafiche, Bergamo. Medio Evo, Evo Moderno e contemporaneo Atlante d'Africa,
Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, Antipode, a Radical Journal of
Geography, Berardi, Verso un nuovo Risorgimento. Il Carteggio tra Ghisleri e
Belloni, Acireale-Roma, Bonanno, Dizionario biografico degli italiani, L'Italia risorgimentale di Ghisleri, Milano,
Angeli, Aroldo Benini, Vita e tempi di Ghisleri, con appendice bibliografica,
Manduria, Lacaita, Tomasi, Scuola e liberta in Arcangelo Ghisleri: con una
scelta di lettere inedite dell'archivio Ghisleri, Pisa, Nistri-Lischi, Ghisleri:
mente e carattere: L'Italia e la rivoluzione italiana, Milano, Sandron Editore,
Treccani. Arcangelo Ghisleri, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema
Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Opere di Arcangelo Ghisleri, su Liber
Liber. Opere di Arcangelo Ghisleri, su
openMLOL, Horizons. ANTROPOGEOGRAFIA. 21. Antiobb
oe.sti b vicbndb storiodb DBLL'I- TAbiA 6RTTKNTRI0NALB. — Avanzi di armi
e di stru¬ menti di pietra primitivi, preistorioi (punte di soioe»
epeoie di asole oon.) e poi di bronzo e di ferro» nonobè avanzi di
palafitte, di abitazioni umane, dei pasti, di oggetti diversi ritrovuti
In più luoghi nel sottosuolo, dimostrano ohe l'Italia
settentrionale fu abitata nelle età più remote, anohe prima^ del xieriodo
storioo, quand'ossa era io gran parte oooupata da foreste e da
paludi. Ma di oodesci primissimi aoitanti ben pooo» quasi nulla
Allorché si oominotano ad avere documenti sto- rfoi sulle
popolazioni dell* Malia settentrionale questa si trova abitata in qualche
tratto delle Alpi centrati dai Reti, di stirpe etrusoa» ohe la¬
sciarono il loro nome alle Api Retiohe; ma per massima parte del resto,
sopratutto nel bassopiano Padano (dove sono attualmente il Piemonto,
la L/)mbardÌa»l'Bmilial» dal OtltioÒollif da ouÌ venne appunto il
nome antico éìOallia ei$alpina. Nella attuale Liguria, invece» erano i
Liguri, ohe si ore- dono afnni alla stirpo Iberica» e nella parte
orien¬ tale 1 Kensff» di stirpe Illirloa, il ouÌ nome sioon- Borva
appunto anohe attualmente. l Romani più tardi si sovrapiiosoro agli
abitanti e li assimilarono; non oosl però ohe non si distin¬ guano
anoora» soprattutto nei dialetti» le tracce delle antiche genti nel vari
oompartimenti. Pinal- roente nel medio evo avvennero lo Invasioni
bar¬ bariche. Ma i Oérmanici invaoori, rolatlvamento I>oohl di numero»
invece di far soomparire ia po¬ polazione vinta, si ooufusoro oon essa»
adottan¬ done la piviltà e la lingua o lasoiando di sO ap¬ pena {
ricordi in certi nomi (ad es. Lombardia dai Longobardi).
Nell’800 d. U. Carlo Magno» re del Fronohl, vinti i Longobardi, fu
dal PonteHoe di Roma incoronato Imperatore Augusto, considerato cioè
quale erede dell'autorità e dei diritti dell'impero Romano
d’Oecidontei il quale, almeno di nome, durò fino al jprinoipio del 13ii0,
vale a diro por diooi seooli. H}' in baso a tali diritti ohe Carlo .Magno
e i suoi Huooessori pretesero al dominio dell'Italia e spo-
oiulmente deiritalia sottoritrioiialo e della cen¬ trale» mentre 'l'
Italia meridionale oontfnuò per oiroa due seooli a oonslderarsiinolusaneirimpero
d'Oriente» greoo-bisantino. ~ Passata» Uopo raen di un sooolo, la oorona
imperiale dai diretti di- Noendenti dì Carlo Magno ai ro Germanioi
anche l'Italia settentrionale e oentralo fooe parte del oosiddetio
Sacro Romano Impero della nazione Germanica e fu divisa in feudi,
assegnati ai vas¬ salli dei sovrani tedoaohi. Questi però si
trovarono in lotte continue tanto oói Pontefloi di Roma, quanto
oolle popolazioni» soprattutto delle città; le quali, cresciute in
potenza e rionhezza oon le industrie e ool oommorol. vollero ornanoiparsi
e governarsi sotto forma di liberi Comuni. Alcuni di ouosti, oome
Milano e le città marittime di Ve- nesia e di Genova acquistarono, colla
libertà» una importanza e potenza, una gloria e prosperità sempre
maggiore. — Disgraziatamonto. però» le lotte fra oittà o oitt.à o quello
intorno tra lo olassl scoiali, prepararono la trasformazione dei
oomuni in signorie» e mantonnero l'Italia divisa e mili¬ tarmente
debole» proprio nel moatroaldi là delle Alpi, in luogo del frazionamento
dei feudi e del oomuni, si costituivano doi forti regni unitari e
nazionali» ohe volgevano gU occhi cupidi all’UaHa» giunta allora al colmo
della floridezza eoonomioa e oivile. Cosi fu ohe dalla fine
del 1400 Tltalia fu Invasa Uni Franoesi. d.'igli Spagnoli» dai Todesohl.
Bonza ohe gli Stati Italiani opponessero valida resistenza D'allora
In poi soltanto*11 Piemonte sotto la Gasa di Savoja e la repubblica di
Venezia poterono oonsorvaro la loro indipendenza» mentre 11 diioato
di Milano fu occupato dagli stranieri e anohe gli nitri stati minori
(Ducato di Parma, di Modena, Murobesato di Mantova eoo.) orano ad essi
indiret- laiuonte soggetti. Dulia metà del 1500 fin al
prlnoipio del 1700 do¬ minò 008 ) nell'Italia settentrionalu la Spagna»
a oiG suooedette l'Austria, mentre una parte d*d- l'RmiUa (la
cosiddetta Romagna» oon Bologna, Ra¬ venna» Ferrara) apparteneva alto
stat^/dolla Chiosa. — Alla flne del 1700 1« rivoluziono Fran¬ cese
e quindi l'epoca Napoloonioa portarono anohe nell'Italia settentrionale
grandi mutamenti. Pur troppo però» il Congresso di Vienna del 1815
as¬ segnò la tradita reptibblloa di Venezia oon la Lom¬ bardia
airAustria, mentre la Casa di Savoia ag- - 39
- U Liguria al Piemoote ed alia Sardegna, le derivava il
titolo del itegno. tla l’e- rimento per la liberaiione nazionale
trovò nel Piemonte e nell* Italia settentrionale mtri e focolari
maggiori e s’iniziarono le ria unità e l’indipendenza, l’ultima delle
. tra coronata dalle gloriose vittorie del li Vittorio Veneto.
(Ved. Atl. tav. VI). 22. Sdpbbfioib b popolazionb. — Sopra
una superfloio ohe si può oaloolare, entro ai oonfiiii fisioi, di circa
132 000 kmq., ha ora una popolazione che ei calcola di circa 18
700000 di ab. pi codesta superfloie i oonBni del Regno inelu'
devano finora soltanto lOiUOO km> oiroa, mentre ora ne inoludono IZ7
000 ; e includevano otre» 16 milioni 0 >/z di ab., mentre ora la
popolazione, per i nuovi acquisti (oiroa 1 milione e i/il o per il
oaturale aumento annuo, si oaloola di oiroa 18 mi¬ lioni.
Tale popolazione tende continuamente a crescere, nonostante la
forte emigrazione di alcuni compartimenti, soprattutto del Veneto,
del Piemonte e della Lombardia. La densità dunque dell’Italia
Bettentrio- nale entro ai nuovi oonBni del Regno ri¬ sulta in media
141 ab. per kmc^., mentre entro ai vecchi confini sarebbe di IBO.
L’I¬ talia settentrionale ha perciò una densità superiore alla
media di tutta Italia, che nei 1921 risultò di I2fj ab. per kmq. ed
è fra le regioni d’Europa più popolose. La densità tuttavia è
inuguale, perohò in certe province supera 200 e In quella di àlllano
arriva fino a 002 ab, per kmq. mentre in altre e speoial- mente nelle
regioni montuose può soendero a mono di 60 por kmq. — Oltre a oio 6 da
osservare ohe, aehbeue la popolazione per le indusirie tenda ad
aumentare nello città, anche la popolazione eparea deU'ltalia
settentrionale 6 assai numerosa e vive in case sparse e in pioooli
villaggi, ohe dànno alle sue campagne un aspetto molto dille- rento
da quello dell’Italia meridionale e della Bioilia. Delle
città deli’ Italia settentrionale consi¬ derate nella cerchia del comune,
una supera ormai i 700 000 ab-, Milano — una e^cra già '/; milione,
Torino — una supera 300000 ab., Genova — due superano 200 000, —
Trieste e Bologna — una vi s’avvicina, Venezia — due superano 100000,
Padova e Ferrara, mentre altre due vi si avvicinano, Brescia e
Verona. La popolazione di quasi tutte le città dell’Italia
settentrionale tende a crescere. 83 Gruppi ni liroua ■
kazioràlitX btraviera — Abbiamo già detto ohe nelle valli Alpine
Pie¬ montesi (speoialmonte in Val d’Aosta e nelle valli dpi
Valdesi) si parla tuttora franoeee da oiroa SS mila individui : i quali
sono però di eentimenti nazionali perfettamente italiani. —
Ugualmente legati alla nazionalità italiana sono quelli ohe par¬
lano tetteeoo nelle valli intorno al m. Rosa (Qros- soney. Alagna,
Maougiiaga) oiroa 4mila; — nell'alto- piano dui Sette Comuni in provinola
di Yioenza, oiroa 3 mila; — e nella Gamia, circa 8 miU. mentre
inve-ie li popolazione tedeso.a dell’Alto Adig^ oompatta nelle valli
superiori, oaloolata circa ZOO mila Individtii.ò stata finora delle piò
ostili contro l'Italia. — Finalmente nel Friuli orientale si tro¬
vavano finora entro i confini del regno oiroa -tO mila Sloeeni
ispnoialmente intorno a Cividale) anoh'essi nazionalmente fedeli
all’Italia : ma oltre ad essi si trovano Inoluai entro 1 nuovi confini
del regno d’Italia, noi baoino dell’Isonzo, nella otttà e nel re¬
troterra di Trieste, nellTstriao nello Statodi Fiume oiroa i/i milione di
Ulaoi (Sloreni e Croofi) finora molto ostili agli Italiani.
24. OoOUFàZlONI OBOLI ABITANTI ■ PBO- DOTTi - IsTRCzioME. (V’cd.
Atl. tav. IX). — L’agricollura occupa il maggior numero di abitanti
ed ò in più luoghi agricoltura in¬ tensiva, con vigneti (specialmente in
Pi^ monte) ed orti e veri giardini per la colti¬ vazione dei fiori
(in Liguria), — con campi ohe dànno un prodotto por ettaro pan a
quello dei paesi più progrediti dollaTerra, — con risaie (speoialmonte in
provinoia di Novara), — con prati irrigui (mar- oite) specialmente
nella bassa Lombardia, ohe permettono il girando allevamento del
bestiame e l’industria pel cas«i;?cto (nel Lo- digiano, come pure nel
Parmigiano); — fi¬ nalmente con cana;i«/t, soprattutto nell’E¬
milia, — con la coltura della barbabietola da zucchero (nell’Emilia, nel
basso Veneto e altrove). Gli olivi dànno copioso prodotto nella
Liguria e i gelsi diffusi in tutto il bassopiano permettono uno sviluppo
della bachicoltura, che rendo l'Italia unode^aesi di maggior
produzione dellaseta nella'Terra. La Venezia Tridentina darà
all’Italia grande quantità di tranarneoou i nosoni, oue si trovano
uu- nbe in altri luoghi, ma non eooossivamonte al>- londanti
nulla zona alpina. — La pesca t> fonte abbastanza importante di
guadagni lungo le coste dell’Adriatico e nelle lagune (ealli di Gomaoohio
eco.); ò pooo frutti fra invece nel mar Ligure. Ma l’occupazione
che subito dopo all’ a- griooltura ha raggiunto nell’ Italia
setten¬ trionale uno 8vilup(K) grandissimo ò Tindu- sfria nelle sue
svariatissime manifestazioni. Sotto questo riguardo l'Italia
settentrionale supera senza confronto il resto d’Italia e può
gareggiare con le regioni più industriali dol- Pestero, nonostante la
mancanza di mate- ' rie prime (metalli, carbone, cotone eoc.)o)io è
uno degli ostacoli maggiori alla prosperità eoonomioa del nostro paese.
Alla mancanza di carbone mal si provvede con le ligniti o con il
poco petrolio dell’Emilia e molto più efficacemente, invece, ma sempre in
modo inadeguato ai bisogni, con le energie elet¬ triche ottenute
dai corsi d’acqua. Iva le industrie piti importanti e sviluppate
sono quelle metallurgiche o mecoaniohe per fusione e lavorazione di
metalli e fabbrioazione di maooliine, di automobili, di navi,
specialmente a Milano, a Torino, a Genova e dintorni (8. Pier d’Arena.
Sa¬ vona eoo.), a Venezia, a Trieste ed anche in altre località,
come nel Bergamasco e nel Bresciano. Non meno importanti sono le
induatrie teeaili: soprattutto della eeta, a àlilano. a Como e
altrove, in modo da gareggiare con I piu progrediti paesi della
Terra sotto questo riguardo ; del ootone, pure nel Milanese e nelle
province di Torino, di Novara, di Como, di Bergamo, di Genova. Por la
lana hanno acquistato fama soprattutto i dintorni di Biella (prov.
di Novara) o di Schio (prov. di VIoenza). Delle induetrie
alimentari ha preso grande svi- gliingova dalla qua
foioo mo' appatj»^ { •uoi 06 ^crre pe quali fu 5
Piave e d — 40 — luppo
negli ultimi anni quella iJello xùcchero di barbabietola specialmente
nell’Elmilia, nel Veneto o in Liguria. A (lenora sono anche numerose
le fabbrlohe di pa*r«. R nell'Sìmilia sono (famose le t alum trix
di Modena e di liologna. Terzo grande ramo d’oootipazione
degli abitanti nell’ Italia settentrionale sono il commercio e la
navigazione ; il primo age¬ volato dalla posizione goograflna, e
dalla rete ormai assai svilupjjata ui strade, e spe¬ cialmente di
ferrovie, ohe s’intrecoiano in tutti i sensi e_ traversano, come
abbiamo veduto, le Alpi e gli Appennini. Ad esse s’aggiungeranno Io
vie d’acqua interne, specialmente quella Padana. La
navigazione ò occupazione delle pili antiche per gli abitanti dei
litorali della Liguria o del Veneto, dove sorsero nel medio evo le
più potenti città marinare di quei tempi. Uenclib superati ormai sulla
Terra e nello stesso Mediterraneo da altri d’altre regionij i porti
di Genova, Venezia e Trieste gareggiano con i maggiori od è a
crederò furmamente che avranno uno sviluppo commerciale sempre più
intenso. Por tutte questo ragioni l’Italia setten¬ trionale
supera le altre parti d’Italia in ricchezza e in generale anche nelle
varie formo di vita civile. Wistruzione vi è no¬ tevolmente
sviluppata, d’ogni ramo o grado: gli analfabeti, sebbene pur troppo
non manchino, sono in generalo in numero mi¬ nore ohe altrove,
soprattutto nel Piemonte tu su 100 ab. d’oltre 6 anni), nella Lom¬
bardia (13 su 100) e nella Liguria (17 su 25. Rboio.vi stobiohb b
divisioni aumini- STRATivB. — Come già abbiamo detto, l’I- tiilia
settentrionale si divide in 8 compar¬ timenti 0 regioni storiche :
Piemonte. Liqu- ria ool Nizzardo, Lombardia, Canton Ticino, che
costituisce la parto maggiore della Sviz¬ zera italiana, Venezia propria,
Venezia Tri- dentina, Venezia Giulia con lo Stato di Fiume, ed Emilia,
con la piccola repubblica indipen¬ dente di S. Marino. Di
questi compartimenti o regioni sto¬ riche (delle quali il Canton Ticino o
il Niz¬ zardo, oltre a S. Marino, non fanno parte del Regno
d’Italia) diamo qui sotto la su¬ perfìcie e la popolazione, secondo il
cen¬ simento del 1921. Si noti, però, ohe tale superfìcie e
popolazione corrisponde alla somma di quelle delle provinole (che
sono le maggiori oiroosorizioni amministrative del Regno) ; ma i
uonfìni di queste non sempre corrispondono ni oonfìni fìsici, et¬ nici
0 storici dei compartimenti. In fìne al volume diamo in una
tabella i dati statistici particolari per le varie pro¬
vinole. Si noti poi ohe la popolazione che indi¬ chiamo fra
parentesi per le varie città nella | descrizione dei vari compartimenti
corri¬ sponde a quella della cerchia del comune, non del centro
principale abitato, che h la città vera. Tra l’una o l’altra di
tali cifre vi sono assai spesso differenze gran¬ dissime, ohe
rileveremo a mano a mano quando l’occasione se ne presenterà.
Dati statistici relativi alle ragioni dell’ Italia
settentrionale. Entro 1 nuovi confini politioi e
amministrativi. Superficie Popol. nel 1921
In km> assol. relat.
l’iemonto 29 8b6 3 88S 000 116
Liguria . . . . S 280 1 S'IO flOO
248 Iximbardia 24 180 S uo ooo
211 Vanesia propria . 28 010 4 2IS
OOO 150 Venezia 'Tridentina . 18 800
645 000 47 Venezia Giulia 8 iOO
OiO flOO 103 Emilia . . . . 21
848 3 012 000 138 RepubhItQt di 8. Marino
00 12 OOO 200 Nizzardo ool Principato
di Monaco . 600 200 OOO
290 Svizzera italiana 8 8J0 170
000 43 Dati piò speolfioati, soprattutto
per lo'province. Si trovano in aopendioo at fasotoolo.
lo - IL PIEMONTE. r Confini e nosloni generali. —
Il Piemonte (In S latino ftdemontium, oioO paese > pie’ di monti) si
T può dire all'insrosso limitato a H, a WeaN dalla { crosta
dell’Appennino Ligure e dello Alpioocideu- 1 tuli 0 t'entrali fino alle
sorgenti dolla Tooe e al 4 lago Maggioro. Verso R. il Ticino lo divide
soloiJ in parte amministrativamente dalla I.ombordia, <| perohò
a questa appartrngono la Lomellioa o il I cosi detto Oltrepò Pavese,
formante il curioso ou- 4 neo di Bobbio. '4 Pisioaraento
ooraprondo: la sona alpina; la pla-iL nura piemontese da Ounoo ai Ticino,
Il paeso ool- J linose del Monferrato e la pianura di Marengo. Y
Divisione in province. — II Piemonte, di oul / sopra abbiamo
indioato la suporfloie e la popole-'V alone a>soluta o relativa, ò
diviso in t province: ili Torino (!• per superlicfe e per popolaaione)
ohe 'I abbraooia l'angolo NW del compartimento, cioè ■ gran parte
delie Alpi Ponnlne, tutte le Graie ita- . liane e parie dolio Cozie, un
tratto piano luogo il Poe le colline sulla destra del fiume; —di
Cuneo (Z» per Slip.. 4* per popolaz.) ohe oooupa l’angolo' SW ; —
di A.le%8andria (4* por sup. o 2» por pope- ’ laz.) por niussima parto
formata dal Monferrato;! — di Novara (»• por sup. e por popola:.) a
NE, , par.e alpina e parte piana. Occupazioiij degli abitanti
e prodotti. — I vi-, gneti ^ecialmentc del Monferrato e lo] risaie
aoì Vercellese, dànno i prodotti più caratteristici del Piemonte. Il
quale ha ' grande sviluppo anche industriale a To¬ rino e dintorni
(industrie metallurgiche e > meccaniche), nel Diellese per la
tessitura di • lana, in parecchi luoghi per filatura e les-J silura
di cotone, in Valsesia per cartiere^ Città principali. — Torino
6'20) capitale de l Piemonte, è per alcuni anni (dal 1881 a j 1885)
già capitale del regno d’Italia, o entro] deU'tilt.i valle del Po e delle
relazioni cora-J meroiali terrestri dell’Italia con l’Buropa oc-1
cidentale à, dopo Milano, la più iniuatriale] città d’Italia. Si distingua
da tutte le^altrej - 41 -
grandi oitt& italiane per la re^olarith delle vie o le sue
costruzioni tuoderno. Torino Tu oiilU 'Ini risor|;irapnio itahiiiio
r pa¬ tri» t' 'lliiKtrl uomini, comi- U ih'ranso, Kali'O, liio-
(mrtl. IVAmifiio e, superiore a tutti. Camlilo (;.i- yn,,r HiiI rioinn
nnlle 41 Kurerir» /> la hasllina ohe oontiene le tomtie dei re e
prinoipi di Casa Barola flno a Carlo Alberto. Impila
provincia di Torino sono da ricordare an- oorii: /rrea(12) allo sbocco
dolla valle d’Aosta, città d'orisine romana di notevole importanza
storica _ e Aosta I Mianch'essa d'origine romana e capo- luogo
doila bellissima valle, a oui^dà il nome. Cuneo (30), allo sboooo
delle etrmle dei passi di Tenda e dell' Argenterà. Sostenne oon
esito felice otto assedi dei Francesi. Nella sua provincia è
Saluteo (16), giàrapoluogo di un Uarohesato, patria di Silvio
Pellioo. Novara (60), molto commerciante. Sotto le sue mura
avvennero importanti battaglie nel 1613 e nel 1849. Grande centro di
pro- iluzione di riso. Nella sua provincia: ttirl/a (13),
soprannominata la àlanohostor d'Italia, per le sue numerose e Ho-
renii industrie. — VtretUi (36), antiohisaitna città sulla ferrovia
Torino-àlilano, in territorio fertilis¬ simo: centro del mercato del riso.
Alessandria (78), fondata dalla Lega Lom¬ barda contro Federico
Barbarossa alla con¬ fluenza della Bormida eoi Tànaro, nella pianti
rar di Marengo : ebbe in passato no¬ tevole importanza strategica.
Nella Rum provincia: Asfi (àO), città antichissima, repubblica dei
medio evo; centro vinifero del Pie¬ monte. patria di Vittorio Autori. —
Aeaui (15), fa¬ mosa per le sue aocue termali, da cui ha li nome. —
Uanal* Monferrato (35), sulla destra dei Po, già oapiiale del ducato di
Monferrato. Importante cen¬ tro vinloolo. 2o . LA
LIGURIA. Confini e nozioni generali — La Liguria fl-
slonmente oooupa il versante dell’ Appennino e delle Alpi Idguri rivolto
al mare, arrivando a W en¬ tro I oonfini politioi o amministrativi fino
alla valle della ifoja e ad K verso la Tosoana (Ino alla foce della
.Magra. Etnograficamente però ed anche am- inliiistraciraraente la
Liguriapassa in qualohepunto al di là della cresta spartiacque. Oonlina
perciò con la Pranoia, oon il Piemonio, por breve tratto oon la
lx>mbardia, in causa del cuneo di Bobbio, oon l'Emilia e oon la
Tosoana. Divisione In province. — Ni divide in duo pro- rinoe
: di Oenova a E (la maggioro per sup. e par popol.) e Porto Maurizio a
W. Occupazioni degli abitanti e prodotti. — Suolo ristretUL
moatuoso e naturalmente poco fertile. Gli abitanti però seppero trarne
il maggior profitto, ooltivandolo a giardini ed orti, che dànno,
per il clima, fiori e legumi primatiooi, ohe si spediscono in altre
re¬ gioni d'Italia od all’estero. Altri prodotti abbondanti sono :
olio, castagne, vino e a- riimi. Le industrie prinoipali sono
quelle el ferro e dei cantieri navali a Genova, a S. Pier
(l’Arena, a Savona ed alla Spezia; poi quelle ohiraiebe (zucoherifloi),
del co¬ tone, eco.. Ma la riochozza di Genova b il commercio
marittimo, che supera quello di tutto il resto d’Italia.
Città principali. — Genova (300), sorta nel punto della costa ligure pili
opportuno per le oornunicazionì ool bassopiano Padano, è il primo
porto e insieme una delle pili belle citth d' Italia. Edificata ad
anfiteatro su per il monte, ohe salo subito dal mare, manca di
spazio por allargursi ; e le costruzioni anche per l'ingrandimento del
porto furono assai difficili e costose. Un tempo ora pure piazp forte
; ora non pili. I molti e son¬ tuosi palazzi le meritarono il nome di
Su¬ perba. Decaduta dalla sua prima potenza e dal suo splendore dal
1600 in poi, riac¬ quistò tutta la sua importanza nel secolo
passato con l’unità d’Italia, oon l’apertura del oanale di Suez e con i
trafori del S. Got¬ tardo e del Sempione. Ora Genova è rivale di
Marsiglia e si sviluppa sempre più, anche por le industrie Vi nacquero
Cristoforo Colombo e Giuseppe Mazzini. Nell.a sua (Tovincla:
8. J-Her d’Arma (SOI, ò quasi un sobborgo di Genova, oon rInoinaM
fon¬ derie ed oltloiiio sidertirgioho. — àfaronaiTò), sooon-
deporto della Riviera, molto ingrandito; si può oon- siderarooome ti
porto del Piemonte — Npezia( 90), pruno porto militaru d'Italia, si trova
In fondo ad un golfo ampio o ben riparato, cinto da ripide mon¬
tagne, o«ronato da forti,e chiuso danna diga a Ror d'acqua ^sta
diventando anche centro industriale. — Molte altre cittadine minori,
amenissime, Af- bmga, Sestri Levante, lìapallo eoo., sono stazioni
olimatloho di fama internazionale.j Porto Maurizio (9) è il
(piooolo c^oluogo della provincia a cui dà il nome. E’ diviso da
Oneglia{S) quasi somplioemonte dal tor¬ rente Impero, alla cui foce;fe il
piooolo,porto comune. '■* *■' Nella provinola ben piti
imiràrtante oo'me' città ò S»N RaunlSO), rinomata stazione olimatioa,
oome la Tlolna Bordighera (li), — yentimigiia ò a pojiii' km. dal
oonflna franoese; grande mordalo di (lori. Arcangelo Ghisleri. Ghisleri. Keywords:
atlante filosofico, tavola I, tavola II, tavola III, -storia romana, eta romana
– classe V ginnasiale -- storia romana e filosofia, memoria di Cattaneo,
rivoluzione con Rensi – Mazzini, mazziniano – lo stato italiano – stato
federale – federazione -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ghisleri: storia
romana e filosofia”– The Swimming-Pool Library.
Grice e Giacchè – l’altra visione dell’altro – Barba,
Bene, e Fellini antropologo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Perugia). Filosofo. Grice: “I like Giacché; for
one, he philosophises on theatre, which any Sheldonian should appreciate!”
Grice: “Giacché is what I would call a philosophical anthropologist.”
Grice:”Giacché has an ability with language: “l’altre vision dell’altro,” for
example – difficult to translate, but genial nonetheless, or perhaps genial
because uneasily translatable!” – “He has philosophised on spectator and
participant, which is conversational in tone – there’s no monologue, but
dialogue --.” “He has criticised authoritarian types of performances like
traditional teaching which he has compared to religion!” Insegna a Perugia. Si
occupa di varie problematiche socio-culturali quali condizione giovanile,
devianza, comunicazione di massa, solitudine abitativa, politica culturale. Saggi:
Una nuova solitudine. Vivere soli fra integrazione e liberazione, Roma); “Lo
spettatore partecipante. Contributi per un'antropologia del teatro, Guerini, Milano,
Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani, L'altra visione
dell'altro. Una equazione fra antropologia e teatro, Ancora del Mediterraneo,
Napoli, Ci fu una volta la sinistra. Ovvero il silenzio dei post-comunisti, Asino,
Roma. CURRICULUM di Piergiorgio Giacchè (Perugia, 16.04.46), Professore a
contratto (incarico gratuito), docente di “Etnologia europea: patrimonio
culturale immateriale” presso la Scuola di Specializzazione in Beni demo-etno-
antropologici, Università di Perugia, Firenze, Siena e Torino (sede di
Castiglione del Lago, PG) - anni accademici 2014-15, 2015-16. TITOLI DI STUDIO
E INCARICHI ACCADEMICI Laurea in lettere (indirizzo moderno), con tesi in
Etnologia conseguita nell’anno acc. 1969-70 presso l’Università degli studi di
Perugia, con voti 110/110 e lode. Abilitazione all’insegnamento delle materie
letterarie nelle scuole medie inferiori - titolo conseguito il 3.2.1973 con
voti 100 su 100. Borsa di studio quadriennale (dal 1.11.77 al 31.08.76) per
“ricerche nel campo sociale”, usufruita presso l’Istituto di Etnologia e
Antropologia culturale dell’Università di Perugia. Titolare di contratto
quadriennale (dal 1.11.77 al 31.10.81) presso la Facoltà di lettere e filosofia
della stessa università. Addetto alle esercitazioni presso la cattedra di
Etnologia della stessa Facoltà, per gli anni accademici 1974-75, 1975-76,
1977-78, 1978-79, 1979-80, 1980-81. Ricercatore confermato dal 1° settembre
1981 al 28 dicembre 2004, presso l’Istituto di Etnologia e Antropologia
culturale dell’Università di Perugia; in tale ruolo ha condotto seminari, cicli
di lezione, moduli didattici e progetti speciali (in prevalenza sui temi della
devianza, della condizione giovanile, della società dei consumi e dello
spettacolo, dell’antropologia e sociologia del teatro) fino all’anno acc.
1994-95, in cui è divenuto affidatario di un Corso di Antropologia teatrale
(unico corso attivato in Italia), riconfermato per tutti i successivi anni
accademici. E’ stato altresì docente affidatario del corso di Antropologia
culturale presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università di
Perugia, nell’anno accademico 1998-99. Professore associato presso il
Dipartimento Uomo & Territorio – Sezione antropologica ; docente di
Fondamenti di Antropologia e di Antropologia del teatro e dello spettacolo
presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di
Perugia, dal 23.12.2004 al 31. 12. 2013. Professore a contratto, docente di
Antropologia culturale presso la Facoltà di Scienze della Formazione della
L.U.M.S.A. di Roma – corso per Educatori professionali, sede di Gubbio – anni
accademici 2004-05, 2005-06, 2006-07, 2007-08, 2010-11, 2011-12, 2012-13.
Professore invitato, nel quadro del progetto “Socrates”, presso l’Université
Libre de Bruxelles - facoltà di Scienze Sociali e di Filosofia e lettere (9 -
27 febbraio 1998); (10 -15 marzo 2000). Visiting Professor presso l’Università
di Malta, Facoltà di Scienze della Formazione (23 – 29 aprile 2001). Professore
invitato, nel quadro del progetto “Socrates”, presso l’Université Paris VIII –
Département d’Etudes théâtrales (7 - 15 dicembre 2000 ; 10 – 20 gennaio 2002; 7
– 9 aprile 2004; 12 – 14 gennaio 2005). Professore invitato dall’Université
Paris VIII per un seminario da tenersi presso il laboratorio di Etnoscenologia
della Maison de l’Homme – Paris Nord (15 novembre – 15 dicembre 2006). Membro
della Commissione per la Procedura di valutazione comparativa per il
reclutamento di un ricercatore presso la Facoltà di Scienze della Formazione
dell’Università di Cagliari, M05X – Discipline demoetnoantropologiche (gennaio
– luglio 2002). Docente del Dottorato Internazionale in Antropologia ed
Etnologia (A.E.D.E.) – anni accademici 2006-07, 2007-08, 2008-09, 2009-2010.
CONSULENZE, COLLABORAZIONI E ALTRI INCARICHI ISTITUZIONALI Consulente
socio-antropologico per alcuni programmi R.A.I. della Sede Regionale
dell’Umbria: “Decentramento e sviluppo urbanistico” (15 - 25 ottobre 1979);
“Anticamera” (novembre 1980 - aprile 1981); “Aperitivo” (aprile-luglio 1982).
Consulente antropologico del Centro Regionale Umbro per le Ricerche Economiche
e Sociali, nel 1978 (Ricerca sulla “popolazione reale”). Consulente del
Comitato Regionale Umbro Radiotelevisivo e curatore di numerose indagini sul
sistema dell’emitttenza locale e sull’ascolto radiotelevisivo ( dal 1978 al
1989). Consulente e collaboratore del Festival Internazionale del Teatro in
Piazza di Santarcangelo di Romagna (edizioni: 1981 e 1982). Consulente e
collaboratore del Teatro Studio 3 di Perugia, dal 1981 al 1985. 2
Consulente e collaboratore della 1^ Rassegna Internazionale del Teatro di Strada
(Montecelio di Guidonia, 24 - 31 luglio 1982). Consulente artistico e
scientifico del festival di teatro, musica e cinema “Segni Barocchi” di Foligno
(edizioni 1985, 1986, 1987). Consulente del Teatro San Geminiano di Modena, poi
centro teatrale “Dramma Teatri”, dal 1982 al 1995. Consulente e assistente, in
qualità di antropologo del teatro per il periodo 27 settembre- 30 ottobre 2013,
della rappresentazione teatrale de “La escuela de la escena y la escena de la
escuela jesuita en el siglo XVII” a cura di Bruna Filippi, nel quadro del
congresso De los Colegios a las Universidades. Las ensenanzas jesuitas y sus
relatos cotidianos, organizzato da la Universidad Iberoamaricana de Ciudad de
Mexico (Città del Messico, 25-29 ottobre 2013). Membro del comitato scientifico
dell’International School of Theatre Anthropology diretta da Eugenio Barba, con
sede a Holstebro, Danimarca (dal 1981 al 1997). Membro del gruppo di lavoro
internazionale di Sociologia del teatro, con sede presso l’Université Libre de
Bruxelles, Belgio (dal 1992 fino al suo scioglimento nel 1995). Membro del
gruppo di lavoro della Maison de Sciences de l’Homme (E.H.E.S.S.) “Spectacle
vivant et sciences humaines” (dal 1996 al 2002). Membro del comitato
scientifico della quinta sezione di ricerca “Créations, Pratiques, Publics”
della Maison de Sciences de l’Homme – Paris Nord (dal 2002). Membro del
Laboratorio di Ricerca Interdisciplinare dell’Istituto di Psicosomatica
Psicoanalitica “Aberastury” di Perugia (dal 2000). Membro del Comité de Rédaction
de “L’Ethnographie. Noveaux objets, nouvelles méthodes. Revue de la Société
d’Ethnographie de Paris” (dal 2002). Collaboratore della rivista “Lo straniero.
Arte Cultura Società” diretta da Goffredo Fofi (dalla sua fondazione – 1997 –
ad oggi); già redattore della rivista “Linea d’ombra” (1982- 1997) e
co-direttore de “La terra vista dalla luna” (1995-1996). Collaboratore della
rivista “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, diretta da Luigi Monti,
dalla sua fondazione – 2010. Membro del Comitato scientifico della rivista
trimestrale “Catarsi. Teatri della diversità”, dalla sua fondazione – 1996.
Membro del Comité scientifique de la revue trimestrelle “Théâtre Public” (dal
2013) Presidente della Fondazione “L’Immemoriale di Carmelo Bene” (dal 2002 al 2005).
Membro della Commissione Consultiva per il Teatro – Ministero per i Beni e le
Attività Culturali (dal 2005 al 2007). Membro della Commissione di valutazione
dei progetti di cofinanziamento per lo spettacolo – Ministero per i Beni e le
Attività culturali. (giugno-luglio 2007). 3 Consulente della Regione
dell’Umbria – Assessorato alla Cultura, con l’incarico di ricognizione ed
esplorazione del settore teatro nel territorio regionale (luglio 2010 –
settembre 2011). Membro della Commissione Consultiva per il Teatro – Ministero
per i Beni e le Attività Culturali (dal 2011 al 2013) Membro del Comitato
Scientifico della Fondazione Centro Studi “Aldo Capitini” di Perugia (dal
2012). Membro del Comitato scientifico PerugiAssisi, candidata a capitale
europea per il 2019. CORSI E SEMINARI DIDATTICI SPECIALI Partecipazione, in
qualità di docente, ai seguenti corsi o seminari: • Corso biennale per la
formazione di tecnici della ricerca sulle tradizioni popolari nella regione
umbra (Perugia, 1974-75). • Primo corso regionale di preparazione e
aggiornamento per operatori socio-sanitari impegnati nell’attività di
prevenzione, cura e riabilitazione degli stati di tossicodipendenza (Bologna,
27 e 28 settembre 1977). • Corso regionale per operatori culturali nel settore del
cinema (Orvieto, dicembre 1977 - giugno 1978). • Corso di riqualificazione
professionale per operatori audiovisivi: il videotape (Foligno,
febbraio-ottobre 1978). • Corso di formazione professionale per i 28 diplomati
di scuola media superiore (schedatori) previsti dal progetto di “catalogo unico
regionale dei beni bibliografici” (Perugia, maggio 1978). • Corso di formazione
professionale per i 46 diplomati di scuola media superiore (ordinatori di
biblioteca) previsti dal progetto “sistemi bibliotecari comprensoriali”
(Perugia, luglio 1978). • Corso Animatori Q/1 - Seminario sulle comunicazioni
di massa (Spoleto, 23 - 26 giugno 1984). • Seminario residenziale “L’Atelier:
centro internazionale di ricerche artistiche” (Volterra, 1 novembre - 23
dicembre 1984). • “Soglie: esperienze di confine tra attore e spettatore”,
seminario-laboratorio per studenti e insegnanti delle scuole medie superiori
(Perugia e Todi, novembre 1990 - aprile 1991). 4 • Corso di Formation
Doctorale Esthetique, Sciences et Technologies des arts della Université Paris
VIII à Saint Denis (lezioni del 15 e 22 gennaio 1991). • Corso di Scenografia
della Facoltà di Architettura e del Dipartimento di Musica e Spettacolo
dell’Università “La Sapienza” di Roma (lezione del 29 gennaio 1991). • “Teatro,
gioco, narrazione”, progetto teatrale per insegnanti delle scuole materne
(Perugia e Città di Castello, febbraio e marzo 1991). • “L’attore consapevole.
Seminario teorico-pratico sull’arte dell’attore” (Fara Sabina, Rieti, 25 - 31
gennaio 1993). • “La società italiana del dopoguerra”. Seminario di
aggiornamento per gli italianisti polacchi, organizzato dall’Ambasciata
d’Italia, dall’Università Jagellonica di Cracovia e dall’Istituto Italiano di
cultura di Cracovia (Cracovia, 20 – 23 settembre 1993). • Corso di
aggiornamento A/41 dell’I.R.R.S.A.E. dell’Umbria (Perugia, lezioni del 4 marzo
1994). • Seminario di Antropologia del teatro per gli allievi della Scuola
Civica d’Arte drammatica “Paolo Grassi” (Milano, 24 e 25 marzo 1994). • V Corso
Universitario Multidisciplinare di Educazione allo sviluppo, “La cultura del
confronto”, organizzato dall’Unicef di Roma (lezione del 20 aprile 1995:
“Uomini e teatro: culture del mondo a confronto”). • I Corso di aggiornamento
sulla didattica del teatro nella scuola - Seminario internazionale su Scuola e
Teatro (Marcellina, Roma, 19 - 21 ottobre 1995). • Corso di aggiornamento per
insegnanti delle scuole medie superiori della regione Lazio (Roma, novembre
1995 - giugno 1996). • III Corso Universitario Multidisciplinare di Educazione
allo sviluppo, organizzato dall’Unicef di Bari (lezione del 28 marzo 1996). •
Università del Teatro Euroasiano, sessione dedicata alla “Storia sotterranea
del teatro contemporaneo. Solitudine, tecnica, drammaturgia e rivolta” (Scilla,
Reggio Calabria, 9 - 16 giugno 1996). • “Le età del teatro. Corso triennale di
storia e cultura teatrale” - II anno: Dalla Commedia dell’arte alla Riforma
goldoniana - organizzato da Emilia Romagna Teatro (Modena, Teatro Storchi,
ottobre - novembre 1966). • Corso Uni-Tea 1997: “Figli della storia e maestri
del teatro” (Parma, 5 febbraio - 19 aprile). • Corso d’aggiornamento per
docenti e dirigenti di ogni ordine e grado, organizzato dal C.I.D.I. Versilia e
dal Provveditorato agli studi di Lucca e intitolato “Letteratura teatrale e
scuola” (Forte dei Marmi, 21 - 23 febbraio 1997). • Convegno-seminario “La musa
fra i banchi di scuola. Esperienze e modelli di relazione / incontro fra teatro
e scuola” (Cervia, 11 - 13 aprile 1997). 5 • Università del Teatro Euroasiano,
sessione dedicata alla formazione dell’attore e intitolata “Apprendere ad
apprendere” (Scilla, Reggio Calabria, 1 - 8 giugno 1997). • Corso Uni-Tea 1998,
“Oplà noi viviamo! Tecniche originarie e tecniche nuove nel teatro d’attore” -
seminario interno al Corso di Sociologia dell’Educazione dell’Università di
Parma (Parma, 19 marzo 1998). • “Vedere Fare Pensare Teatro, per una formazione
dell’educatore teatrale”, organizzato dall’E.T.I., dal Teatro delle Briciole,
dal G.S.A Fontemaggiore, dal Teatro Kismet OperA e tenutosi in tre sessioni a
Bari (25 - 29 marzo 1998), a Isola Polvese - Perugia (17 - 21 aprile 1998) e a
Parma (8 - 12 maggio 1998). • Corso d’aggiornamento per insegnanti degli
Istituti medi e superiori su “1968 - 1969. Gli anni della contestazione”
(Parma, 24 marzo 1998). • « Sulla verticalità del verso », seminario di e con
Carmelo Bene, organizzato dall’Ente Teatrale Italiano (Roma, Teatro Valle, 19
maggio 1998). • “Criticando criticando. Laboratorio d’analisi dello
spettacolo”, organizzata in collaborazione con l’Associazione Nazionale Critici
di Teatro (sessione dedicata al Teatro Ragazzi - Bagnacavallo, 4 giugno 1998;
sessione dedicata al Teatro di Ricerca - Reggio Emilia 29 giugno 1998. • “I
mestieri e le lingue del teatro”, Seminario di autoapprendimento per operatori
dell’area penale esterna, organizzato dal Teatro Kismet e dall’Università di
Bari, con il patrocinio del Ministero di Grazia e Giustizia (Bari, 2 - 3 luglio
1998). • “Teatro e Carcere: l’esperienza della Compagnia della Fortezza” -
conversazione con P. Giacchè e Armando Punzo, in collaborazione con l’E.T.I.
(Volterra, 21 luglio 1998). • Ciclo di incontri organizzati dall’Istituto Sardo
per la Storia della Resistenza e dell’Autonomia (ottobre-dicembre 1998)
“Rivelazioni e promesse del ‘68”; relazione su “Il ‘68 e il teatro” (Cagliari,
20 novembre 1998). • “La magia del leggere”, Corso di aggiornamento per
insegnanti e genitori della Scuola Elementare “Ciro Menotti”, Villanova di
Modena (26 marzo 1999). • Corso di aggiornamento per insegnanti delle scuole
elementari del comprensorio Valle Umbria (Foligno, 23 aprile 1999). • “Teatro e
Carcere: l’esperienza della Compagnia della Fortezza”, nel quadro di “Maggio
cercando i teatri” organizzato dall’E.T.I. (Roma, Teatro Valle, 19 maggio
1999). • “Il verso dannunziano e il concerto d’autore”, seminario con A. Asor
Rosa, C. Bene, P. Giacchè (Roma, Teatro dell’Angelo, 24 novembre 1999). • Ciclo
di incontri “La parte dello spettatore” (relatore del 1° incontro – Faenza, 22
gennaio 2000). • Corso Uni Tea 2000, “Il teatro come disagio antropologico”
(Parma, 27 gennaio 2000) 6 • “Divenire teatro”, incontri su Antonin
Artaud organizzati dal Centro Teatro Universitario di Ferrara. Relatore del 3°
incontro: “Artaud fatto Bene” (Ferrara, 17 aprile 2000). • “Politica e società
nel 2000”, ciclo di incontri di formazione politica (Roma, aprile – giugno
2000). Relatore del 5° incontro: “Minoranze e movimenti nell’Italia del
dopoguerra”, insieme a G. Fofi (Roma, 29 maggio 2000). • “Incontri in scena.
Per un’indagine sull’antropologia dell’infanzia” (Vicenza, Teatro Astra, 20
ottobre – 24 novembre 2000), organizzati dalla compagnia “La Piccionaia – I
Carrara” con la collaborazione dell’Università di Cà Foscari di Venezia.
Relatore del 2° incontro: “Antropologia dell’infanzia” (3.11.00). • “L’utopia
del teatro vivente. Living Theatre” (Siena, 7 marzo 2001), nel quadro di
incontri organizzati dall’Università degli studi di Siena attorno ai “Cinque
sensi del teatro. Cinque trasmissioni monografiche sulla filosofia del teatro”
(Rai-Pontedera Teatro). • “Strumenti innovativi per favorire l’inclusione
sociale”, lezione inaugurale (“Altro è narrare”) del corso organizzato dal
Centro Solidarietà di Modena (CEIS) e da Emilia Romagna Teatro (Modena, 19
ottobre 2001). • Giornate di studio per l’inaugurazione della sezione di
ricerca “Créations, Pratiques, Publics”, presso la Maison de Sciences de
l’Homme – Paris Nord (St. Denis, 23 – 23 maggio 2002). • Conferenza sul Living
Theatre, nel quadro del seminario “Maestri del ‘900. Gli uomini e le idee che
hanno fatto la storia del teatro contemporaneo” organizzato dal Teatro Nuovo
“Giovanni da Udine” (Udine, 28 gennaio 2003). • Conferenza su Carmelo Bene o
delle provocazioni del genio, nel quadro del seminario “Maestri del ‘900. Gli
uomini e le idee che hanno fatto la storia del teatro contemporaneo”
organizzato dal Teatro Nuovo “Giovanni da Udine” (Udine, 13 febbraio, 2004). •
“Le risorse della diversità”, seminario organizzato da Proteo Fare Sapere e dal
Movimento Cooperazione Educativa (Firenze, Educandato SS. Annunziata, 20 – 21
febbraio 2004). • Corso per attrici “Il corpo del testo”, organizzato da Emilia
Romagna Teatro Fondazione; docente di Elementi di antropologia e cultura del
teatro e spettacolo (30 ore di Antropologia del Teatro nel biennio 2004-2005).
• Seminario sulle “Quattro lezioni sul teatro” di Carmelo Bene, organizzato
dalla Fondazione L’Immemoriale di Carmelo Bene” e dall’Università di Lecce
(Lecce, 19 marzo 2004). 7 • Dimostrazione-conferenza “L’attore
compositore: Mejerchol’d e la biomeccanica teatrale”, organizzata dal Centro
Internazionale Studi Biomeccanica Teatrale (Perugia, 30 aprile 2004). • Quattro
giornate di lavoro teatrale: incontri, dimostrazioni di lavoro, spettacoli
Pontedera, Teatro di via Manzoni, 7 – 10 ottobre 2004), nel quadro di
“Generazioni Festival 2004”, organizzazione e cura della Fondazione Pontedera
Teatro. • Seminario dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, “Carmelo
Bene. Voir la voix, écouter le visible”, coordinato da B. Filippi e G. Careri
(Parigi, Institut National d’Histoire de l’Art, 8 novembre – 20 dicembre 2004);
comunicazione Le Sud du Sud des Saints,, 15.11.04. • “Teatro in forma di
libri”, incontri organizzati dal Teatro Due Mondi – Casa del Teatro (Faenza,
novembre-dicembre 2004). • “Arte dello spettatore”.Corso di formazione per
insegnanti, organizzato dal Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore
(Perugia, Teatro Sant’Angelo, novembre 2004 – aprile 2005). • Seminario
orientativo sul settore spettacolo, organizzato dalla Fondazione Emilia-
Romagna Teatro nel quadro della Laurea specialistica “Progettazione e gestione
di attività culturali” della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di
Modena (lezione del 17.3.2005). • Seminario di studio nel quadro della Mostra
“Carmelo Bene. La voce e il fenomeno. Suoni e visioni dall’archivio”,
organizzato dalla Fondazione L’Immemoriale e dal Comune di Roma (Casa del
Teatri-Villino Corsini, 29 aprile – 26 giugno 2005); comunicazione L’ultimo
Bene. La verticalità del verso, 7.5.05. • Incontro seminariale “Parole chiave
per il teatro” (Lecce, 22 ottobre 2005), organizzato dai Cantieri teatrali
Koreja. • “Un’antropologia della memoria” Conferenza dibattito sul libro di C.
Severi Il percorso e la voce (Perugia, Palazzo dei Priori, 23 novembre 2005). •
Corso “Salute mentale, Antropologia e Teatro: confronto su un’esperienza di
pratica laboratoriale” (Perugia, Parco di S. Margherita, Padiglione Neri,
13.12.2005), organizzato dal Centro di Formazione della ASL 2 di Perugia. •
“Pasolini antropologo” (Gubbio, Biblioteca Comunale Sperelliana, 17 dicembre
2005), nel quadro del ciclo di incontri “Pasolini e la nuova barbarie.
Conversazioni su un testimone del nostro tempo” organizzato dal Comune di
Gubbio (dicembre 2005 – aprile 2006). • “Atelier intensif S.P.O.T. (Spectacle
vivant, Opèra, Thèâtre)”, organizzato nel quadro del Master Europeen conjoint
en Etude du spectacle vivant, coordinato dall’Université Libre de Bruxelles e
organizzato dalla Universitad de La Coruña - Spagna (6 – 18 febbraio 2006);
docente di un corso di 15 ore di Antropologia teatrale. 8 • “Teatro come
impegno civile”, seminario-incontro con Marco Paolini organizzato dai Cantieri
Teatrali Koreja (Lecce, 10 giugno 2006) • Laboratorio di ricerca interdisciplinare
– Quello che ci fa la vita che facciamo, nel quadro del “50° Seminario di Louis
Chiozza”, organizzato dall’Istituto di Psicosomatica “Aberastury” e dalla
Scuola di specializzazione in Psicoterapia psicoanalitica di Perugia (Città di
Castello, Palazzo Vitelli, 22 febbraio 2007). • “Quadri concettuali per
l’analisi del sistema cultura – Seminari di studio”, organizzati dalla
Fondazione Mario Del Monte di Modena (febbraio – aprile 2007); comunicazione su
L’antropologia e il “teatro” della cultura (Modena, Teatro delle Passioni, 29
marzo 2007). • “L’ultimo Bene”, conferenza-lezione nel quadro delle attività
didattiche speciali della Fondazione Accademia di Belle Arti di Perugia
(Perugia, 17 maggio 2007). • Seminario di studio “Economia della cultura, sviluppo
umano e politiche culturali”, a cura del CAPP (Centro di Analisi delle
Politiche Pubbliche), Modena, ottobre 2007- gennaio2008; comunicazione su La
domanda di teatro. Una prospettiva antropologica (Modena, Facoltà di Economia,
17 dicembre 2007). • S.P.O.T. II (Spectacle vivant, Opèra, Thèâtre)
“Espectàculos y dialogo entre culturas: La adaptacioòn y la escena”,
organizzato nel quadro del Master Europeen conjoint en Etude du spectacle
vivant, coordinato dall’Université Libre de Bruxelles e organizzato dalla
Universitad de Sevilla - Spagna (28 gennaio – 8 febbraio 2008); docente di un
corso di 8 ore di Antropologia del teatro e dello spettacolo. • Laboratorio
Interculturale di Pratiche Teatrali (III edizione in collaborazione con
l’International School of Theatre Anthropology, organizzata dal Teatro Potlach,
Fara Sabina (Rieti), 13 – 26 ottobre 2008); comunicazione su L’antropologia
dello spettatore, 14.10.08. • Seminario – Convegno “Omaggio a Carmelo Bene”
(Centro Teatro Ateneo – Dipartimento Arti e Scienze dello Spettacolo
dell’Università “La Sapienza” di Roma, 12 – 14 novembre 2008); Prologo al
seminario e comunicazione dal titolo A scuola da Bene, 12.11.08. • “Il potere
di tutti. Conversazione su Aldo Capitini” (Perugia, Sala Miliocchi, 14 febbraio
2009), organizzata dall’Associazione “Vivi il borgo”, dalla Società Operaia di
Mutuo Soccorso e dalla Fonoteca Regionale “O. Trotta”. • Giornata di studi “La
religione dell’educazione. Don Milani e Aldo Capitini”, organizzata dalla
L.U.M.S.A. di Roma, Facoltà di Scienze della Formazione (Roma, Aula “Edda
Ducci”, Piazza delle Vaschette, 1° aprile 2009). • Seminario “Migrazioni.
Prospettive etnografiche sullo Stato italiano”, organizzato dal Dipartimento
Uomo & Territorio – sezione antropologica (Perugia, Facoltà di Lettere e
Filosofia, Palazzo Manzoni, 16 aprile 2009). 9 • “Voler Bene al cinema.
Omaggio a Carmelo Bene” (Bellaria, Cinema Astra, 4 giugno 2009), nel quadro di
“Bellaria Film Festival 2009. • Seminario interdisciplinare su: “Grotowski e la
ricerca invisibile” (Perugia, Istituto Aberastury, 20 giugno 2009. • “Bruciare
la casa“, incontro-colloquio con Eugenio Barba (Isola Polvese (PG), 8 settembre
2009), nel quadro di “Terre di confine. Lo spazio del teatro”, progetto a cura
di Linea Trasversale. • Séminaire doctoral collectif - Centre d'Etudes
Féminines et d’Etudes de Genre/ CRESPPA-GTM : « Théâtre du genre : production,
performance, spectacle » (Parigi, CNRS , 4 dicembre – comunicazione su
“Travestissement à théâtre: masculin, féminile ou neutre? “). • Séminaire
“SPACE-Supporting Performing Arts Circulation in Europe “- Session Paris (ONDA,
Paris, 3 – 6 février 2010), Comunicazione “Europe Toolbox: quelle boîte pour
quels outils?” • “Cinema e teatro non si incontrano mai, se non all’infinito”
(Bergamo, 17 febbraio 2010) incontro seminariale nel quadro de “Il teatro vivo.
Introduzione al teatro contemporaneo: Corso di Alti Studi Teatrali – XI
edizione, 2009-2010”, organizzato dal Teatro Tascabile di Bergamo. • “La Festa
nelle culture dei popoli: criteri di autenticità” (Gubbio, 19 marzo 2010), nel
quadro del ciclo di incontri “La Festa nella Festa dei Ceri”, per la
celebrazione del 850° anniversario della morte di S. Ubaldo. • Introduzione e
partecipazione al XI Seminario Interdisciplinare dell’Istituto Aberastury su
“La vocazione minoritaria”, condotto da G. Fofi (Perugia, 14 maggio 2010). •
Incontro seminariale su “Lo spettatore partecipante” nel quadro del progetto
“Paesaggio con spettatore” a cura di R. Vannuccini e organizzato da ArteStudio
per il Festival dei Due Mondi – Spoleto 53 (Spoleto, Palazzo Comunale, 25
giugno 2010). • Coordinatore del IX Laboratorio di Ricerca Interdisciplinare
dell’Istituto Aberastury “Dialogo con Sctutatori d’anime di Carlo e Rita
Brutti” (Assisi, 23 febbraio 2011). • Incontro-conversazione “Radicalism:
Piergiorgio Giacchè speakes about Carmelo Bene with Dora Garcia” (Venezia,
Padiglione Spagnolo della Biennale Arte, 4 giugno 2011), nel quadro della
performance THE INADEQUATE: ogni giorno un artista in scena (Padiglione spagnolo,
54th International Art Exibition – Venice Biennale, 1 giugno - 27 novembre
2011). • Relatore e conduttore del XIII Seminario Interdisciplinare
dell’Istituto Aberastury su “L’anima del mondo viene prima del mondo
dell’anima? (Perugia, 11 giugno 2011). • Dialogo teatrale – incontro tra un
antropologo e un avvocato su Teatro Trattamento Carcere, nel quadro di “Stanze
di teatro in carcere 2011. Rassegna intinerante di Teatro Carcere in Emilia
Romagna” (Modena, Teatro delle Passioni, 29 ottobre 2011). 10 • “La
congiura della creatività”, seminario pubblico con P. Giacchè e R. Sacchettini,
organizzato dal collettivo Nevrosi (Agliana, PT, Teatro Il Moderno, 28 gennaio
2012). • Incontro con Marc Augè in dialogo con Piergiorgio Giacchè, organizzato
dal Circolo dei lettori di Perugia (Perugia, Sala dei Notari, 29 marzo 2012). •
Incontro con Piergiorgio Giacchè e Giuseppe Di Leva (Piccolo Teatro Grassi di
via Rovello, Milano, 12 luglio 2012), nel quadro di “Visioni di Bene. Voce,
teatro, cinema, televisione secondo Carmelo”, Milano, 12 – 15 luglio 2012. •
“Memorie del sottosuolo. Il teatro raccontato da spettatori speciali:
Piergiorgio Giacchè su Carmelo Bene” (Giardino del MUSAS, Santarcangelo di
Romagna, 13 giugno 2012), nel quadro di Santarcangelo 12 – Festival Internazionale
del Teatro in Piazza – 13-22 luglio ’12. • “Raduno degli artisti della scena:
Punctum e tempo, dalla fotografia alla scena”, incontro seminariale a cura di
Claudio Morganti, organizzato dal Teatro Metastasio Stabile della Toscana, nel
quadro del festival “Contemporanea 12: le arti della scena” (Prato, spazio
Magnolfi, 6 ottobre 2012). • Incontro-Lezione – TITOLO - per il seminario
residenziale Università Elementare de Gli asini nel quadro di “Leggere la
città: lo spazio pubblico” (Pistoia aprile 2014) • Seminario su “La parabola
dell’animazione teatrale” nel quadro della seconda edizione della Summer School
di Arti performative e Community care (Carpignano Salentino, 20 – 29 agosto
2013). • Incontro con Piergiorgio Giacchè e Alessandro Leogrande condotto da
Giovanna Casadio, intitolato Vizi privati e pubbliche virtù, nel quadro della
decima edizione del “Festival Lector in fabula: Privato, Pubblico, Comune”
Conversano, 11-14 settembre 2014 (Conversano, BA, Auditorium di San Giuseppe,
12 settembre 2014). • Conferenza Orizzonti e vertici del “viaggio del teatro”
nel quadro della XVII edizione de “IL TEATRO VIVO. Progetto di promozione e
diffusione del teatro contemporaneo”, organizzato dal Teatro Tascabile di
Bergamo (Bergamo, 5 dicembre 2014). • Conferenza Dal Living Theatre all’Odin
Teatret, nel quadro di “Effetti collaterali. Ciclo di incontri per la
formazione degli operatori e del pubblico”, organizzato dal Teatro di Sacco di
Perugia (Perugia, Sala Cutu, 18 dicembre 2014). • Incontro-Lezione “Essere
giovani, essere attori” (Pistoia, Piccolo Teatro Mauro Bolognini, 11 aprile
2015) per il seminario residenziale Università Elementare de Gli asini “La
cultura di massa dall’emancipazione all’alienazione”, nel quadro di “Leggere la
città: lo spazio pubblico” (Pistoia 9-12 aprile 2015). • Corso residenziale “Si
deve, si può. Ruolo delle minoranze etiche tra globale e locale” - primo modulo
Dove va il nondo? Analisi del presente: il globale e il locale (Lamezia Terme,
3-4-5 luglio 2015); Progetto Spring organizzato dalla Comunità Progetto Sud in
collaborazione con le riviste Gli asini e Lo straniero. Relazione: “La
mutazione antropologica: dal locale al globale e ritorno”. 11 •
Corso di formazione per docenti presso l’Istituto Omnicomprensivo “D. Alighieri”
di Nocera Umbra (PG): intervento formativo di due ore sul tema “Giovani Oggi”
(1° aprile 2016). • Corso d formazione per docenti “Teatro come cultura delle
differenze”, organizzato dal 1° Circolo didattico di Marsciano (PG) e dal
Teatro Laboratorio Isola di Confine; conferenza “A scuola da Pinocchio”
(Marsciano, Sala E. De Filippo, 14 giugno 2016). Curatore e ideatore dei
seguenti progetti o seminari speciali: • “La casa de l’Odin”, Ciclo di
conferenze sulla cultura teatrale e sull’antropologia del teatro (Valencia,
Barcellona, Castellon e Madrid, marzo - aprile 1983). • “Apriamo un salotto:
appuntamenti di restaurazione culturale” - tre cicli di conferenze sulle
attività e sulla politica culturale (Perugia, marzo - giugno 1984). • “Storia
& Geografia. Corso effimero di educazione permanente” - cinque incontri
dedicati a Gabon, Germania, Iran, Argentina e Umbria, per favorire
l’integrazione degli studenti stranieri (Perugia, febbraio - maggio 1985). •
“La parte dell’altro. Teatro ed esperienze antropologiche” - ciclo di
conferenze e seminario conclusivo con E. Barba (Perugia, febbraio - aprile
1989). • “Altro e Teatro” - ciclo di conferenze e relazioni di ricerca sugli
ambiti contigui al teatro (Perugia, febbraio - maggio 1990). • “L’età dell’oro.
Per un teatro giovane” - incontri e discussioni fra giovani gruppi teatrali
(Parma, 17 - 20 aprile 1994). • “Il primo giorno. Scuola di teatro a scuola” -
convegno/laboratorio sul rapporto tra il teatro nella didattica scolastica e la
pedagogia del teatro (Parma, 5 - 8 novembre 1997). • Coordinatore del seminario
“L’infanzia ritrovata. Lo sguardo dell’artista nel presente che muta” (Parma,
14 gennaio - 25 marzo 1999), all’interno del Corso Uni-Tea 1999. • Coordinatore
del seminario laboratorio “Curare gli affetti. Il teatro come legame sociale.
Un percorso tra luoghi e non luoghi” (Parma, 27 gennaio – 6 aprile 2000),
all’interno del Corso Uni-Tea 2000. • Curatore (assieme a G. Fofi) del ciclo di
incontri “L’arte contro lo stato. Lo stato delle arti” (Santarcangelo di
Romagna, 8 – 16 luglio 2000), nel quadro del XXX Festival “Santarcangelo del
Teatri”. • Curatore (assieme a F.Orlandi) del Corso di aggiornamento per
insegnanti della Scuola Media Superiore “Oralità, Narrazione, Teatro: In
Principio era il verbo”, organizzato da Emilia Romagna Teatro – Fondazione
(Modena, Teatro delle Passioni, 26 gennaio – 23 marzo 2006). • Curatore
(assieme a S. Cipiciani) di “Piccoli maestri. Incontri video spettacoli con il
Teatro delle Albe”. (Spello, Palazzo Comunale e Teatro Subasio, 16 – 17 maggio
2006), organizzato dal Teatro stabile di innovazione “Fontemaggiore” di
Perugia. 12 • Coordinatore (assieme al prof. L. Mango) del Laboratorio di
osservazione dello spettacolo contemporaneo, nel quadro del Festival
Internazionale ESTERNI (Terni, 20 – 30 settembre 2006). • Curatore (assieme a
S. Cipiciani) di “Piccoli maestri. Incontro con Santagata o Morganti” (Terni,
Officine Ex-Siri, 22 – 25 settembre 2007), organizzato dal Teatro stabile di
innovazione “Fontemaggiore” di Perugia nel quadro del festival Es-Terni 2007. •
Ideatore e curatore di “Bene Detto. Oratorio e Laboratorio sull’arte di Carmelo
Bene” (Oratorio: Mondaino (RN), 1° settembre 2009 – Laboratorio: Mondaino (RN)
luglio 2010), organizzato da L’arboreto. Teatro Dimora, con la collaborazione
dell’Ass. Liminalia di Perugia e di B. Filippi e S. Pasello. • “I tagli e le
ferite. La poetica della politica e viceversa”, Incontro con gli artisti
italiani nel quadro di “Vie. Scena contemporanea festival”, organizzato
dall’E.R.T. (Modena, Biblioteca Delfini, 16 ottobre 2010). • Curatore e
conduttore del meeting “Per Ora Labora” sulla condizione lavorativa dell’attore
teatrale, nel quadro del Cantiere delle Arti (Modena, Biblioteca “Delfini”, 15
ottobre 2011). • Ideatore e curatore di “InizioAzione.Vacanze scolastiche per
allievi attori delle scuole di teatro” (per una ricerca sulla motivazione
teatrale), nel quadro del Festival VIE 2012 dell’E.R.T. (Rubiera, Corte
Ospitale – Modena, Biblioteca “Delfini”, 25 – 28 maggio 2012). • Curatore e
coordinatore dei sei incontri del seminario-laboratorio “Il grande attore e il
piccolo spettatore” a cura del Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore di
Perugia e del Dipartimento Uomo e Territorio – sezione antropologica –
dell’Università degli studi di Perugia (Perugia, Teatro Brecht, 7 marzo – 2
maggio 2013). • Curatore di “Autocritica”, quattro incontri fra critici e
attori per il Cantiere delle Arti, nel contesto di Vie Scena Contemporanea
Festival 2013 (Modena, Biblioteca “Delfini”, 23 maggio – 1 giugno 2013). •
Curatore e coordinatore del laboratorio per spettatori “Piccolo pubblico”,
organizzato dal Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore di Perugia
nell’occasione delle repliche degli spettacoli del Progetto Interregionale di
promozione dello spettacolo dal vivo “Teatri del presente” (Teatro Brecht di
Perugia e Teatro Clitunno di Trevi, novembre e dicembre 2013). • Curatore e
direttore scientifico de “Il Centro della Visione. Per un’accademia dello
spettatore”, progetto organizzato da Kilowat Festival a Sansepolcro (AR), dal
dicembre 2013 a luglio 2014. • Ideatore e curatore del progetto “Verso
Capitini, per un Colloquio corale”, prodotto dal Teatro Stabile d’Innovazione
“Fontemaggiore” di Perugia (da aprile 2014 ancora in corso: prima sessione
presso il Teatro Drama di Modena 17-18-19 ottobre 2104; seconda sessione presso
il Teatro Brecht di Perugia 23 dicembre.2014). 13 • Ideatore e curatore
del convegno “Il teatro della critica” (Pistoia, 14 e 15 novembre 2015),
organizzato dal Centro Culturale “Il Funaro” e dall’Associazione Teatrale
Pistoiese. CONVEGNI • Convegno su “L’Italia e l’Umbria dal Fascismo alla
Resistenza: problemi e contributi di ricerca” (Perugia, 5 - 7 dicembre 1975). •
Convegno internazionale su “Droga. Dalle esperienze ad una proposta concreta.
Aspetti terapeutici, sociali e legislativi” (Firenze, 14 - 17 aprile 1980). •
Incontro seminariale “Musica, Possessione, Spettacolo” (Greve in Chianti,
Firenze, 15 - 17 maggio 1981). • Seconda sessione dell’I.S.T.A. - International
School of Theatre Anthropology (Volterra, 8 agosto - 6 ottobre 1981). •
Convegno di studi su “Improvvisazione e spettacolo” (Firenze, 21 ottobre 1981).
• Convegno di studi su “Vedere ed essere visti” (Volterra, 26 - 28 febbraio
1982). • Convegno di studi su “Come si potrebbe vivere. Corpo e linguaggio”
(Vicenza, 22 maggio - 4 giugno 1982). • Giornate della cultura e della
partecipazione (Barcellona, 17 - 18 giugno 1983). • Convegno di studi su
“Elogio dei fiori: tecniche personali e creatività” (Volterra, 9 - 11 dicembre
1983). • Mostra-Convegno “Spoleto come titolo” (Spoleto, 7 - 9 marzo 1985). •
Simposio “Le maître du regard”, nel quadro della terza sessione dell’I.S.T.A.
(Paris, Malakoff, 20 - 21 aprile 1985). • “Incontri di lavoro con Richard
Schechner” (Pontedera, 24 - 26 aprile 1985). • Convegno-seminario su “Cosa
narrare e come narrare” (Bellaria-Igea Marina, 29 - 30 luglio 1985). • Convegno
Nazionale di Psichiatria “Crisi e costruzione delle conoscenze” (Massa, 4 - 6
ottobre 1985). • Convegno “Le forze in campo. Per una nuova cartografia del
teatro” (Modena, 24 e 25 maggio 1986). 14 • Quarta sessione dell’I.S.T.A.
- “Il ruolo della donna nel teatro delle diverse culture” (Hostelbro, 17 - 22
settembre 1986). • Convegno Nazionale di Antropologia delle società complesse
(Roma, 27 - 30 maggio 1987). • Quinta sessione dell’I.S.T.A. - “Tradizione
dell’attore e identità dello spettatore. Dialoghi teatrali” (Otranto, 1 - 14
settembre 1987). • Convegno su “Teatro e Emergenza. Quattro incontri” (Bologna,
11 - 13 dicembre 1987). • “Natura e buongoverno del teatro. Convegno Nazionale
per il rinnovamento della scena italiana” (Milano, 20 e 21 ottobre 1988). • 1°
Encuentro de Artes Escenicas sobre perspectivas, necesidades, metodos,
limitaciones y alternativas para la investigacion y esperimentacion (Mexico D.
F., 23 - 26 gennaio 1989). • Convegno su “La presenza misconosciuta. Nuovi
progetti di teatro” (Frascati, 17 - 19 marzo 1989). • Giornate di studio su
“Grotowski, la presenza assente” (Modena, 6 e 7 ottobre 1989). • 2° Congresso
Mondiale di Sociologia del Teatro (Bevagna, 27 - 29 ottobre 1989) • Seminario
Internazionale “A la recerca d’un espai teatral contemporani” (Olot -
Catalunya, 28 - 30 giugno 1990). • Sesta sessione dell’I.S.T.A. - “Università
del teatro euroasiano. Tecniche della rappresentazione e storiografia”
(Bologna, 28 giugno - 18 luglio 1990). • XIIth World Congress of Sociology
(Madrid, 9 - 13 luglio 1990). • Convegno di fondazione di “Mantis. Centro per
la ricerca sui linguaggi del comportamento funzionale” (Palermo, 15 e 16
dicembre 1990). • Convegno su “Culture immigrate e teatro in Europa. Analisi
dei fenomeni interattivi fra culture immigrate e culture europee” (Bologna, 16
novembre 1991). • Seminario-convegno della Università del Teatro Euroasiano
(Padova, 7 e 8 marzo 1992). • Convegno internazionale su “Teatro Europeo: quali
percorsi formativi” (Torino, 14 - 17 maggio 1992). • 3° Congresso Internacional
de Sociologia do Teatro (Fondazione Gubelkian, Lisbona, 30 ottobre - 2 novembre
1992). • Convegno su “La piazza nella storia. Eventi, liturgie,
rappresentazioni” (Università di Salerno-Fisciano, 9 - 11 dicembre 1992). •
Seminario-convegno della Università del Teatro Euroasiano - “Drammaturgie
parallele” (Fara Sabina, 21 - 30 maggio 1993). • Giornate di incontri e di
studi “Per Carmelo Bene” (Perugia, 13 - 16 gennaio 1994). • 1° Congresso
Nazionale “L’antropologia e la società italiana” (Roma, 28 - 30 aprile 1994).
15 • Convegno “L’identità collettiva e la memoria storica: un confronto
tra Italia e Polonia”, organizzato dall’Ambasciata d’Italia e dall’Università
di Varsavia (Varsavia, 16 – 18 giugno 1994). • Convegno di studi su “L’altra
via dell’intelligenza. Teatro e valore” (Terza Università di Roma, 11 e 12
ottobre 1994). • 1° Convegno Europeo Teatro e Carcere - “Immaginazione contro
emerginazione” (Milano, 21 - 23 ottobre 1994). • Convegno su “I sommersi e i
salvati. Come, perché, dove e per chi fare teatro?” (Terza Università di Roma,
4 e 5 marzo 1995). • Convegno internazionale per la fondazione del Centre
International d’Ethnoscènologie (Paris, 3 - 4 maggio 1995). • Convegno su
“Pacifismo, disobbedienza civile, obiezione di coscienza: il ruolo della
Comunità di Capodarco” (Lido di Fermo, 13 - 14 maggio 1995). • Congresso
Europeo della Biennale Théâtre Jeunes Publics - “Pourquoi aller au théâtre
aujourd’hui?” (Lyon, 3 - 5 giugno 1995). • Convegno su “Teatro antropologico e
Antropologia teatrale” (Scilla, 25 giugno 1995). • Convegno su “Tradizione e
modernità al sud” (Gallipoli, 14 agosto 1995). • Convegno Internazionale su
“Teatro e Scuola: Università ed Educazione al Teatro” (Roma, 18 - 19 ottobre
1995). • Convegno “Teatro e Scuola fra espressività e percezione” (Modena, 15 -
16 novembre 1996). • 5ème Congres International de Sociologie du Théâtre (Mons,
20 - 23 marzo 1997). • Convegno Nazionale su “Arte del narrare, arte del
convivere. Incontro tra immigrati, educatori e artisti narratori” (Palermo, 3 -
5 aprile 1997). • Convegno di studio “Creativi si nasce? Teatro e creatività
nei possibili percorsi della riforma scolastica” (Palazzolo sull’Oglio - BS, 16
- 17 ottobre 1997). • Convegno su “Le letterature popolari. Prospettive di
ricerca e nuovi orizzonti teorico- metodologici” (Fisciano e Ravello -
Università di Salerno, 21 - 23 novembre 1997). • Convegno su “Il gioco del
teatro. L’animazione trent’anni dopo” (Torino, 21 - 22 aprile 1998). • Convegno
“Processo federalistico delle istituzioni meridionali e mediterranee” (Messina,
24 aprile 1998). • Convegno-Seminario “Carmelo Bene e Gabriele D’Annunzio.
Sulla verticalità del verso” (Roma, Teatro Valle, 19 maggio 1998). • “Acting,
Life, and Style”, convegno per un progetto internazionale di ricerca
organizzato dall’Italienska Kulturinstitutet “C.M. Lerici” e dal
Teatervetenskapliga Institutionen della Universitet Stockholms (Stoccolma, 9 -
13 settembre 1998). 16 • 3° Convegno Europeo di Teatro e Carcere: “Verso
il Duemila, il cammino di un’utopia concreta” (Milano, 27 - 31 ottobre 1998),
tavola rotonda su “Il costringimento e il suo doppio” (30.10.98). • Convegno
“Io sono la prima attrice. Crocevia di esperienze tra teatro e handicap”
(Milano, 20, 21, 22 novembre 1998). • Convegno “Un teatro per domani”,
all’interno della X edizione di Galassia Gutemberg Mostra mercato del libro e
della multimedialità (Napoli, Mostra d’Oltremare, Galleria Mediterranea, 21
febbraio 1999). • Convegno di studio per dirigenti e docenti della scuola “Il
Corpo - la Macchina tra avventura, traduzione, mistero” (Calcinate, Bergamo, 21
- 22 maggio 1999). • Congresso “Le Corps du Théâtre. À partir de la
Méditerranée: organicité, contemporanéité, interculturalité” (Bologna, 13 e 14
ottobre 1999), organizzato dalla Maison de Sciences de l’Homme, Ente Teatrale
Italiano e D.A.M.S. dell’Università di Bologna. • Encontro Internacional de
Novo Teatro para Crianças e Adolescentes – “Percursos” (Lisboa – Portugal,
Centro cultural de Bélem, 20 – 27 maggio 2000). • “Per un teatro popolare di
ricerca”, convegno organizzato da La Corte Ospitale (Rubiera, 23, 24 e 25
giugno 2000). • Primo Convegno Internazionale di Studi “I teatri delle
diversità e l’integrazione” organizzato da Ass. Cult. Nuove Catarsi (Cartoceto
–Ps, 14 – 15 ottobre 2000). • Convegno Internazionale “Intrecci tra Educazione
Arte Natura nella prospettiva della conversione ecologica” (Amelia, 29 marzo –
1 aprile 2001), organizzato dalla Casa Laboratorio di Cenci. • Giornate di
studio e di ricerca “I Sud e le loro Arti” (Arnesano, 6, 7 e 8 settembre 2001,
organizzato dal Comune di Arnesano (Le) e dall’Università di Lecce. • Convegno
“Il cinema al limite, al limite il cinema” (Perugia, 9 novembre 2001),
organizzato da Batik-Perugia Film Festival. • “Ho sognato che vivevo. Teatri
della trasformazione e dell’esclusione. Esperienze di teatro con protagonisti
non comuni (pazienti psichiatrici, carcerati, portatori di deficit, immigrati)
a confronto con studiosi e amministratori”, (Arena del Sole, Bologna, 12 e 13
aprile 2002) convegno organizzato dall’Azienda USL Bologna Nord e dalla Regione
Emilia-Romagna. • Convegno di Studi “Antropologia e poesia” (Fisciano-Ravello,
2 – 4 maggio 2002), organizzato dall’Università degli studi di Salerno e
dall’A.I.S.E.A.- Sezione di Antropologia e letteratura. • Convegno “Per un
nuovo Teatro in Italia e in Europa” (Roma, Teatro Valle, 16 e 17 maggio 2002),
organizzato dall’Ente Teatrale Italiano nel quadro di “Cercando i teatri
2001-2002”. 17 • Convegno “Residui illimitati” (Bergamo, Chiesa di
S.Agostino, 21 giugno 2002), organizzato da Il Teatro Prova nel quadro del
festival “Non voglio perdere la meraviglia. Teatri e arti tra diversità e
alterità”. • Convegno Internazionale “Le arti del ‘900 e Carmelo Bene” (Torino,
Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 24 – 27 ottobre 2002),
organizzato dalla Regione Piemonte e dall’Organizzazione per la Ricerca in
Scienze e Arti di Torino. • Convegno Internazionale “Performing Through –
Tradition as Research at the Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards”
(Vienna, Theater des Augenblicks, 28 – 29 giugno 2003. • Non solo per piacere.
Pratiche teatrali. Adolescenti. Giustizia. Convegno nazionale sulle esperienze
di teatro con minori in area penale interna ed esterna (Bologna, Maison
Française, 28 febbraio 2003), organizzato dal Dipartimento Musica e Spettacolo
dell’università di Bologna, dalla Regione Emilia-Romagna e dal Centro Giustizia
Minorile per L’Emilia Romagna e Marche. • Colloque International
d’Ethnoscénologie (Parigi, Université Paris 8, 12 – 14 settembre 2005) •
Convegno “L’Attore”, organizzato da Primafila e InScena con il patrocinio delle
Segreterie di stato per il Turismo e gli Istituti Culturali – Repubblica di san
Marino (Sala SUMS, 23 e 24 settembre 2005). • Giornate di lavoro e di studio
nel quadro dell’Assemblea Generale di IRIS - Associazione Sud Europea per la
Creazione Contemporanea (Modena, Palazzo Comunale, 28 – 29 ottobre 2005). •
“Controscuola. Riflessioni ed esperienze pedagogiche”, convegno organizzato
dalla rivista “Lo straniero” (Roma, Museo di Roma in Trastevere, 4 – 5 febbraio
2006). • International symposium on tracing roads across “Living Traces –
Performing as a Shared Reality” (in the occasion of the 20th Anniversary of the
Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards), Teatro Manzoni, Pontedera –
PI, 11 – 13 aprile 2006. • Convegno “Réécritures de Médée”, organizzato dal
Centre de Recherche en Etudes Féminines – Etudes de genre del’Université Paris
8 (Saint-Denis, Musée d’Art et d’Histoire, 24 e 25 novembre 2006. • “Il disagio
e chi se ne occupa. Crisi dei sistemi educativi e di cura e prospettive
dell’agire sociale”, convegno organizzato dalla rivista “Lo straniero” (Roma,
Sala Civita, Piazza Venezia, 12 – 13 maggio 2007. • 1° Incontro su
“Travestitismo e identità di genere nelle scienze della recitazione” (Napoli,
Galleria Toledo, 16 novembre 2007), organizzato dal Dipartimento di
Neuroscienze, Unità di Psicologia Cilinica e Applicata e dalle Università degli
Studi di Napoli Federico II , L’Orientale, Suor Orsola Benicasa; comunicazione
su Il teatro e l’alterità di genere. Il caso o l’esempio di Carmelo Bene. 18
• 2° Convegno Regionale A.I.Fi Umbria su “Le alterazioni posturali: dalla
conoscenza alla coscienza riabilitativa” (Trevi, Hotel della Torre, 1 marzo
2008), organizzato con la collaborazione dell’Università di Perugia;
comunicazione su Postura e cultura. Il corpo della tradizione e il corpo della
rappresentazione. • Convegno “Venti anni di teatro della Compagnia della
Fortezza – Per un teatro stabile in carcere” (Volterra, Cortile principale del
carcere, 21 e 22 luglio 2008) – coordinatore e relatore. • Convegno
internazionale “Il teatro che ho in testa. Per un festival di teatro da sogno”
(Ulassai e Jerzu, 8 – 9 agosto 2008), organizzato da Cada Die Teatro, nel
quadro di “Ogliastra Teatro, festival dei tacchi”. • Convegno “La frontiera del
teatro. Grotowski 30 anni dopo” (Milano, Teatro dell’Arte, 23 – 24 gennaio
2009), organizzato dal CRT Centro di Ricerca per il Teatro di Milano. •
Convegno “Teatro e Infanzia”, a cura di G. Fofi e M. Martinelli, organizzato
dal Teatro Stabile di Napoli e da Punta corsara (Scampia-Napoli, Teatro
Auditorium, 28 e 29 marzo 2009. • Journée d’étude “Modes et formes d’émergence
dans le théâtre” (Liegi, Belgio, 15 maggio 2009), organizzato, nel quadro del
progetto Prospero, dall’Université de Liège e dal Théâtre de la Place. • “Ricordando
Lévi-Strauss. Convegno di studi” (Macerata, 6 maggio 2010), organizzato dal
Centro Internazionale di Studi sul Mito e dall’Università di Macerata. •
Convegno seminariale “Chi è il prossimo?”, organizzato dalla rivista “Lo
straniero” nel quadro del 40° Festival Internazionale del Teatro in Piazza
(Santarcangelo di Romagna, Supercinema, XXXXX luglio 2010) • “Futuramente. 1°
Convegno intorno alla Creatività per le future generazioni” (Pontedera, Museo
Piaggio, 29, 30, 31 ottobre 2010), organizzato dall’ass. Libera Espressione e
dal Comune di Pontedera (PI). • Journée d’étude “Vous ne trouvez pas ça
tragique? – conversation publique sur l’art, l’esthétique et la politique”
(Tolosa, Francia, 15 gennaio 2011), organizzata dal Théâtre Garonne, nel quadro
di “In Extremis # 7”, 6 – 15 gennaio ’11. • “Una giornata con il Living
Theatre” – conversazione pubblica (San Sisto – Perugia, Teatro Bertolt Brecht,
27 marzo 2011) organizzata dall’UILT nel quadro della Giornata Mandiale del
Teatro. • Convegno Internazionale “Civiltà, culture, educazione. Le sfide della
società tardo- moderna alla pedagogia” (Aula Magna della Lumsa, Roma, 5 aprile
2011), organizzato dalla Facoltà di Scienze della Formazione della LUMSA di
Roma. • Convegno seminariale “Un’idea di rivoluzione” , organizzato dalla
rivista “Lo straniero” nel quadro del 41° Festival Internazionale del Teatro in
Piazza (Santarcangelo di Romagna, Supercinema, 16 luglio 2011). 19 • “Il
n’y a pas de révolution politique possible, s’il n’y a pas d’une révolution poétique”
– incontro internazionale e tavola rotonda sul rapporto tra pratiche artistiche
e mutazioni politiche nelle aree interessate dalla “primavera araba” (Terni,
Festival Internazionale della Creazione Contemporanea, Caos Area Lab, 18
settembre 2011). • Journée d’études “Potlach notionnel sur la performance.
National potlach on performance”, organizzata dall’E.H.E.S.S., dall’Université
Paris Ouest-Nanterre, dal Centre Edgar Morin e dal H.A.R. (Amphithéâtre
François Furet, 105 bld. Raspail, Paris – 29 maggio 2012). • Convegno
internazionale della Facultatea de Teatru si Televiziune – Universitatea
Babes-Boyai di Cluj-Napoca (Romania) “The Bad Spectator. Performing Arts
between Construction and Destruction / Le mauvais spectateur. Les arts du
spectacle entre construction et destruction”, organizzato dal gruppo di ricerca
Istoria Teatrului, Iconografie si Antropologie Teatrali a Cluj-Napoca (7 – 9
giugno 2012). • Seminario “L’esperienza del principio. Jerzy Grotowski,
l’infanzia e la rinuncia all’assenza” (Cenci-Amelia, 16 giugno 2012), nel
quadro della manifestazione “Sorgenti e torrenti. Omaggio a Jerzy Grotowski e
al Teatro delle sorgenti” organizzata dal Laboratorio di Cenci 15 – 17 giugno
2012. • Convegno “Le théâtre et ses publics: la création partagée” - 2°
Colloque International du Projet Européen PROSPERO (26 -29 settembre 2012,
Salle académique dell’Università di Liegi – Belgio), organizzato dal Théâtre de
la Place di Liegi e dell’Université de Liège. • “Confusion de genres. Journées
d’étude en l’honneur de Jean-Paul Manganaro”, organizzato dall’Université de
Lille 3, dall’Université Paris Ouest-Nanterre-La Defense e dall’Università
Italo Francese (Lille, 29 novembre – 1° dicembre; Paris, 12 dicembre 2012). •
Colloque International “D’après Carmelo Bene” (Parigi, Institut National
d’Histoire de l’Art - Conservatoire National Supérieur d’Art Dramatique -
Cinéma du Panthéon – 8, 9 e 12 gennaio 2013), organizzato da HAR, Université
Paris Ouest-Nanterre, Labex Arts-H2H, Université Paris 8 Vincennes-Saint Denis,
CNSAD, Dipartimento Uomo e Territorio dell’Università di Perugia (in
partenariato con Union des Théâtres de l’Europe e con Emilia Romagna Teatro
Fondazione). • Incontro sul tema “Memoria e Identità” (Gubbio, Biblioteca
Sperelliana, 23 febbraio 2013), organizzato dal Comune di Gubbio e dal Lyons
Club Gubbio Host. • “Teatro e nuovo umanesimo”, convegno nel quadro della
“Giornata per Claudio Meldolesi” (Bologna, Laboratorio delle Arti, 18 marzo
2013), organizzata dal Dipartimento delle Arti visive, performative, mediali
dell’Università di Bologna, con il patrocinio dell’Accademia dei Lincei.
20 • Convegno Nazionale di Teatro educativo intitolato “Scrittura e
riscrittura. Da testo alla messa in scena – Esperienze a confronto” (Avigliano
Umbro, TR, 27 -28 aprile 2013). • 7° Colloque international d’ethnoscénologie,
organizzato da Maison des Cultures du monde, Université Paris 8, Maison des
Sciences de l’Homme Paris Nord (Paris, 21 -23 maggio 2013) • Incontro sul tema
“Ai confini della democrazia” (Roma, La Pelanda, 11 settembre 2013) organizzato
dalle Edizioni dell’Asino nel quadro della rassegna Short Theatre n. 8
intitolato “Democrazia della felicità” (Roma, 5 – 18 settembre 2013). •
Convegno Seminario “Intellettuali e riviste tra passato, presente e futuro”
(Perugia, Sala della Partecipazione del Consiglio regionale dell’Umbria, 17
settembre 2014). • Convegno sulla Rete Regionale dei Teatri (Modena, Teatro
delle Passioni, 27 novembre 2013), organizzato dalla Fondazione Mario del Monte
e da Emilia Romagna Teatro. • Convegno “La possibilità del teatro. Un incontro
di riflessione e confronto”, organizzato dalla Fondazione Pontedera Teatro
(Pontedera, PI, Teatro Era, 12, 13, 14 dicembre 2014). • Convegno “Il teatro
della critica” (Pistoia, 14 e 15 novembre 2015), organizzato dal Centro
Culturale “Il Funaro” e dall’Associazione Teatrale Pistoiese. RICERCHE ricerche
teoriche: • Il contesto sociale della criminalità e della devianza - “Le basi
strutturali dei processi di criminalizzazione” (1974 - 1976). • La solitudine
abitativa come fenomeno emergente (gennaio - ottobre 1980). • Riferimenti
teorici ed esperienze empiriche nella fondazione di una antropologia del teatro
(1984 - 1988). • Cultura dell’attore nelle tradizioni teatrali euroasiatiche
(1987 - 1992). 21 • L’identità dello spettatore e i modelli di fruizione
del teatro (1988 - 1990). • Sociabilità, Relazionalità, Spettacolarità (1990 -
1991). • Tecniche del corpo e azioni performative (1992 - 1993). • Studio per
la realizzazione di uno spettacolo teatrale sul tema del cooperativismo
(dicembre 1993 - febbraio 1994). • Elements anthropologiques dans le théâtre
contemporain - nel quadro della partecipazione al Groupe international de
recherche interdisciplinaire “Spectacle vivant et sciences de l’homme” - Maison
de l’Homme, Paris (dal 1996 ancora in corso). • Il teatro e la scuola: le
funzioni pedagogiche del teatro e i corsi di formazione degli operatori
teatrali e degli insegnanti - nel quadro dell’attività dell’Uni-Tea, progetto
coordinato dall’Ente Teatrale Italiano (dal 1997 al 2000). ricerche empiriche:
• Gli atteggiamenti nei confronti della devianza criminale e dell’istituzione
carceraria (ricerca condotta nel quartiere di P.ta Eburnea di Perugia - giugno
1974). • Le opinioni e gli atteggiamenti degli studenti dell’Istituto Tecnico
per Geometri di Perugia nei confronti della scuola e della condizione giovanile
(aprile - maggio 1976). • Indagine su tipologia e censimento degli organismi di
democrazia di base (ricerca per il Consiglio Regionale dell’Umbria, 1976 -
1977). • Ricerca sulla definizione e le caratteristiche della popolazione
“reale” (ricerca del C.R.U.R.E.S., marzo - maggio 1978). • Indagine
sull’ascolto radiotelevisivo in Umbria (ricerca del Comitato Regionale Umbro
per il Servizio Radiotelevisivo, maggio 1978 - ottobre 1979). • Ricerca sul
comportamento elettorale in Umbria attraverso l’analisi dei risultati delle
elezioni politiche ed europee del giugno 1979 (giugno - dicembre 1979). •
Indagine sull’esercizio e il mercato cinematografico in Umbria (ricerca
dell’Associazione Umbra per il Decentramento delle Attività Culturali, ottobre
1982 - marzo 1983). • Inchiesta sul teatro dialettale in Umbria (ricerca del
Centro Documentazione Spettacolo, settembre 1983 - aprile 1984). • Analisi dei
risultati delle elezioni amministrative del 1985 nel comune di Perugia (ricerca
del Comune di Perugia, giugno 1985 - aprile 1986). • Ricerca sulla memoria e
sulla identità dello spettatore (ricerca condotta in Salento per
l’International School of Theatre Anthropology, marzo- ottobre 1987). •
L’informazione televisiva in Umbria: i notiziari regionali (ricerca del
Comitato Regionale Umbro per il Servizio Radiotelevisivo, novembre 1987 -
giugno 1988). • Indagine sulle emittenti radiotelevisive operanti in Umbria
(ricerca del Comitato Regionale Umbro per il Servizio Radiotelevisivo, novembre
1988 - settembre 1989). • Aspetti devozionali e spettacolari nelle feste
religiose patronali (ottobre 1996 – ottobre 2002). 22 • “In compagnia:
ricerca e analisi sulle opportunità di lavoro e di impiego nel settore
teatrale” (nel quadro dell’azione pilota “terzo settore e occupazione” promossa
dalla Commissione Europea D.G.V); ricerca coordinata da Emilia Romagna Teatro
con la collaborazione di “Amitié”, Taller de Investigaciòn de la Imagen
Teatrale di Madrid, Teatro delle Briciole, Teatro Festival, Thomas Consulting
Group (dal 15 dicembre 1997 al 15 dicembre 1998). • Ricerca empirica sulla
definizione e sulla’informazione e formazione dello spettatore, all’interno del
progetto “100 spettatori da adottare” organizzato dalla Fondazione Pontedera
Teatro e dall’ETI Ente Teatrale Italiano (aprile 2000 – aprile 2001). • “Il
nuovo attore nuovo” Osservatorio scientifico sulla pedagogia dell’attore di
innovazione, applicato al Progetto interregionale “Teatro – Percorsi di Alta
Formazione” organizzato dalla Fondazione Pontedera Teatro, dai Cantieri
Teatrali Koreja di Lecce e dal Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, in convenzione con
le rispettive Regioni (gennaio – giugno 2008). • Analisi documentale del
“Cantiere delle Arti” – un cantiere transnazionale per la creazione di percorsi
integrati connessi alla realtà produttiva del settore spettacolo dal vivo –
costituito da Emilia Romagna Teatro Fondazione, dalla Regia Accademia
Filarmonica e Musica e Servizio Cooperativa Sociale (aprile – dicembre 2011)
23 PUBBLICAZIONI Sull’opera e il pensiero degli antropologi Giulio
Angioni. Tra antropologia e letteratura (recensione), “Lo straniero Arte
Cultura Società”, anno VII, n. 35, maggio 2003, pp. 153 – 156. Bourdieu:
l’autoanalisi di un maestro, “Lo straniero Arte Cultura Scienza Società”, anno
X, n. 70, aprile 2006, pp. 90 – 92. Postfazione alla parte quinta “Dimensioni
della festa” in: T. Seppilli, Scritti di antropologia culturale, (M. Minelli –
C. Papa, curatori), 2 voll., Olschki Ed. , Firenze, 2008; vol. II – La festa,
la protezione magica, il potere, pp. 519 – 529. Lo sguardo lontano di
Lévi-Strauss, “Lo straniero Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 116,
febbraio 2010, pp. 106 - 109. Lezione e monito dell’ultimo Baudrillard, “Lo
straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 157, luglio 2013, pp.
76 – 79. Sulla condizione e la subcultura giovanile: Dopo Licola, (in coll. con
G. Baronti), “Ombre Rosse”, n. 17, nov. 1976, pp. 50 - 67. Il corpo e il
territorio, “Segno critico”, anno I, nn. 2 - 3, luglio - dicembre 1979, pp. 99
- 103. Una nuova solitudine. Vivere soli tra liberazione e integrazione, (in
coll. con P. Bartoli e S. La Sorsa), Savelli ed., Roma, 1981, 255 pp.
Protagonismo, narcisismo e consumismo, “Ombre Rosse”, n. 33, marzo 1981, pp. 13
- 21. Forza ragazzi, “Linea d’ombra”, anno IV, n. 13, febbraio 1986, pp. 8 -10.
Disagi giovanili, disagi senili, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II,
n. 8, autunno 1999, pp. 43 – 50. Il diavolo, sicuramente, “Lo Straniero. Arte
Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 84, giugno 2007, pp. 33 – 37. Lo studente
quotidiano, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno I, n. 3,
novembre- dicembre 2010, pp. 10 – 19. La Giovane Italia, “Gli asini. Educazione
e intervento sociale”, anno II, n. 7, settembre- ottobre 2011, pp. 93 – 98. Un
saggio Laffi sui giovani e i vecchi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza
Società”, anno XVIII, n. 166, aprile 2014, pp. 30 – 34. Sulla devianza e la
criminalità: La ricerca dei ricercati. Sociologia dell’ordine pubblico, (in
coll. con G. Baronti), “Ombre Rosse”, n. 21, luglio 1977, pp. 85 - 95. 24
La organizzazione del consenso nel regime fascista: la manipolazione ideologica
della devianza criminale, (in coll. con G. Baronti), “Studi e materiali di
antropologia culturale”, n. 5, Perugia, 1983, 33 pp. Sulla cultura meridionale:
Mezzogiorno è già passato, in: G. Fofi – A. Leogrande (curatori), Nel sud,
senza bussola. Venti voci per ritrovare l’orientamento, L’ancora del
mediterraneo, Napoli, 2002, pp. 17 – 30 Sulla cultura politica e la politica
culturale: Partiti e comportamento elettorale. Analisi dei risultati delle
elezioni del giugno 1789 in Umbria (in coll. con A. Sorbini), Com.Reg.Umbro
PSI, Perugia, 1980, 295 pp. Caro nome..., in: AA.VV., A proposito dei
comunisti, Linea d’ombra ed., Milano, 1990, pp. 49 - 64. La festa dell’albero.
Come ri-nasce un partito, “Linea d’ombra”, anno IX, n. 58, marzo 1991, pp. 16 -
20. Invenzione, diffusione e agonia dell’operatore culturale, “Linea d’ombra”,
anno XI, n. 88, dicembre 1993, pp. 13 - 17. Ebrei e naziskin. I fatti e le
notizie, in: A. Cavaglion (a cura di), Gli aratori del vulcano. Razzismo e
antisemitismo, Linea d’ombra ed., Milano, 1994, pp. 59 - 64. Il punto e la linea.
Maggioranze, minoranze e critica della politica, “Linea d’ombra”, anno XIII,
gennaio 1995, n. 100, pp. 4 - 5. La cultura del maggioritario, “La terra vista
dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 1, febbraio 1995, pp. 4 - 7.
Una merce come le altre? La fiera del libro a Torino, “La terra vista dalla
luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 4, giugno 1995, pp. 65 - 66. Laici
ed eretici, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n.
13, marzo 1996, pp. 15 - 16. A Perugia c’è cultura da vendere , “L’indice”,
anno XV, n. 10, novembre 1998, p. 50. Sull’industria della coscienza: una
questione di dettaglio , introduzione a: H.M. Enzensberger, Questioni di
dettaglio. Poesia, politica e industria della coscienza , trad. di G. Piana,
ediz. e/o, Roma, 1998, pp. 5 - 12. La parabola del buon rettore, “Lo Straniero.
Arte Cultura Società”, anno II, n. 5, inverno 1998-99, pp. 56 – 60. L’età dello
stagno , “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 6, primavera 1999,
pp. 150 - 159. Cosa ci tocca vedere, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno
II, n. 7, estate 1999, pp. 58 – 63. Il laico e il sacro, “Lo Straniero. Arte
Cultura Società”, anno V, nn. 15-16, primavera 2001, pp. 165 – 176. 25
Qualcosa è accaduto, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno V, n. 17,
settembre 2001, pp. 41 – 48. Il porto dell’università, fra la nebbia e il
miraggio, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, n. 21, marzo 2002, pp.
47 – 53. Toni, Bepi e san Francesco (per tacere di sant’Agostino), “Lo
Straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, n. 23, maggio 2002, pp. 24 – 27.
(recensione) La sera del dì di festa, “Lo straniero. Arte Cultura Società”,
anno VI, n. 28, ottobre 2002, pp. Questo Papa e quella guerra, “Lo Straniero.
Arte Cultura Società”, anno VII, n. 38-39, agosto- settembre 2003, pp. 15 – 20.
La controriforma e il doposcuola, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno
VIII, n. 42-43, dicembre 2003 – gennaio 2004, pp. 120 – 124. Grande Papa, tanta
gente, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno IX, n. 60, giugno
2005, pp. 20 –22. La questione comica, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza
Società”, anno IX, n. 65, novembre 2005, pp. 10 –13. Il silenzio dei
post-comunisti, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno X, n. 73, luglio
2006, pp. 10-14. Il viaggio di Francesco Piccolo nei divertimenti di massa
(recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 81,
marzo 2007, pp. 106 –108. La mamma ha un cuore verde. Un racconto di Rosa
Matteucci (recensione),“Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XI,
n. 88, ottobre 2007, pp. 33 – 37. La montagna elettorale, “Lo Straniero. Arte
Cultura Scienza Società, anno XII, n. 94, aprile 2008, pp. 14 – 17. Il male
minore, in: M. Bon Valsassina (curatore), In fondo al male. Contributi e
Iconografie sul Male, Futura ed., Perugia, 2008, pp. 81 – 85. Universitas
docet, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 105, marzo
2009, pp. 24 – 28. Un pomeriggio tra le minoranze, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza
Società”, anno XIII, n. 110-111, agosto-settembre 2009, pp. 161 – 165. Silvio,
Umberto e i giovani d’oggi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno
XIII, n. 112, ottobre 2009, pp. 18 – 23. La parte dell’arte, “Lo Straniero.
Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 118, aprile 2010, pp. 93 – 104.
(riedito in: P. Giacchè – V. Giacopini – E. Morreale – N. Lagioia, Necessità e
servitù della critica. Cosa cerca l’arte? A che serve la critica?, Edizioni
dell’Asino, Roma, 2011, pp. 5 – 18). Prefazione a: Carlo e Rita Brutti,
Scrutatori d’anime. La psicoanalisi che viene, Edizioni dell’Asino, Roma, 2010,
pp. 5 – 19. Lo sciopero e la grève, ovvero dalla Francia con stupore, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 126/127, dicembre
2010-gennaio 2011, pp. 15 – 18. Il teatro del prossimo, “Lo Straniero. Arte
Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 126/127, dicembre 2010-gennaio 2011, pp.
48 – 52. 26 Teatro e politica all’italiana: l’Attore e l’Assessore, “Gli
asini. Educazione e intervento sociale”, anno II, nn. 5 – 6, marzo/aprile –
maggio/giugno 2011, pp. 161 -168. Via col vento, “Lo Straniero. Arte Cultura
Scienza Società”, anno XV, n. 133, luglio 2011, pp. 33 – 37. Specchiarsi nelle
vite degli altri. Un romanzo di Emmanuel Carrère, (recensione), “Lo Straniero.
Arte Cultura Scienza Società”, anno XV, n. 136, ottobre 2011, pp. 44 – 46. Il
maggio è francese, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVI, n.
144, 2012, pp. 15 – 21. Ci fu una volta la sinistra, ovvero il silenzio dei
post-comunisti, Edizioni dell’asino, Roma, 2013, 149 pp. La cultura e la
politica, un atto unico in due tempi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza
Società”, anno XVII, n. 153, marzo 2013, pp. 94 – 98. Indovinala Grillo!, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 154, aprile 2013, pp.
15 – 18. Fazio ovvero l’ultima volta della tivvù, “Lo Straniero. Arte Cultura
Scienza Società”, anno XVII, n. 154, aprile 2013, pp. 71 – 76. L’università dei
vavassini, “Gli asini. Rivista di educazione e intervento sociale” (numero
monografico su Valutazione e meritocrazia nella scuola e nella società), anno
IV, ottobre- novembre 2013, pp. 50 – 58. Il niente che avanza, “Lo Straniero.
Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, n. 164, febbraio 2014, pp. 18 - 25.
Il Giovane Renzi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, n.
167, maggio 2014, pp. 35 – 39. I volontari dell’ottimismo. Marino Sinibaldi
riflette sulla cultura, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno
XVIII, nn. 170-171, agosto-settembre 2014, pp. 14 – 18. Sul pensiero e l’azione
di Aldo Capitini Introduzione e cura del volume: A. Capitini, Opposizione e
liberazione. Scritti autobiografici, Linea d’ombra ed., Milano, 1991
(riedizione con il titolo Opposizione e liberazione. Una vita nella
nonviolenza, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2003). Al servizio (civile)
della coscienza, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”,
nn. 5 - 6, luglio-agosto 1995, pp. 18 - 19. Aldo Capitini e l’obiezione di coscienza,
“La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 10, dicembre
1995, pp. 45 - 49. Introduzione e cura del volume: A. Capitini,
Liberalsocialismo, ediz. e/o, Roma, 1996. L’obiezione è coscienza.
L’insegnamento di Aldo Capitini, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno V,
n. 18, ottobre-novembre 2001, pp. 123 – 133. Introduzione e cura del volume: La
religione dell’educazione. Scritti pedagogici di Aldo Capitini, Edizioni La
Meridiana, Molfetta (Bari), 2008, 226 pp. 27 Capitini e i Perugini,
“Studi Umbri”, n. 0, anno I, 2009, (www.studiumbri.it) Cura –assieme a G. Fofi-
del volume: A. Capitini, Agli amici. Lettere 1947-1968, Edizioni dell’Asino,
Roma, 2011. L’importanza di chiamarsi prete, “Gli asini. Educazione e
intervento sociale”, anno II, n. 9, aprile/maggio 2012, pp. 6 – 11. Sulla
cultura teatrale e la società dello spettacolo: Il teatro delle esperienze, (in
coll. con S. De Matteis), “Quaderni di Teatro”, anno V, n. 20, maggio 1983, pp.
145 - 155. Diario scolastico del sussidiario teatrale, “Scenascuola”, n. 1,
giugno 1984, pp. 42 - 52. Un pugno di terra. Conversazione con Eugenio Barba,
“Linea d’ombra”, anno II, n. 12, novembre 1985, pp. 36 - 46. Living memories.
Ricordi del Living e memorie viventi, “Teatro Festival (nuova serie)”, n. 1,
dicembre 1985, pp. 4 - 9. Antropologia culturale e cultura tetrale. Note per un
aggiornamento dell’approccio socio- antropologico al teatro, “Teatro e Storia”
4, anno III, n. 1, aprile 1988, pp. 23 - 50. Una bùsqueda de “antropologia
teatral” sobre la identidad del espectator, “Repertorio. Revista de teatro”,
nos. 9,10,11, agosto 1989, pp. 93 - 97. Memoire sociologique. Extraits de
carnets d’une recherche anthropologique sur “L’identité du spectateur”,
“Buffonneries”, nn. 22 - 23, 1989, pp. 177 - 197. Teatro necesario y teatro
suficiente, “Màscara. Cuadernos Latinoamericanos de Reflexion sobre la
Escenologia”, anno I, n. 2, gennaio 1990, pp. 105 - 108. Come lavorare in
discesa. Ragionamenti e aggiornamenti sul teatro “minore”, “Linea d’ombra”, anno
VIII, n. 46, febbraio 1990, pp. 86 - 90. Lo spettatore partecipante. Contributi
per una antropologia del teatro, Guerini e ass., Milano, 1991, 207 pp. Uno
spettacolo prigioniero e un teatro libero, in: M.T. Giannoni (a cura di), La
scena rinchiusa. Quattro anni di attività teatrale dentro il Carcere di
Volterra, Tracce ed., Piombino, 1992, pp. 73 - 76. Introduzione all’identità
dello spettatore. Una ricerca di antropologia del teatro, “R.I.S.T. Revue
Internationale de Sociologie du Théâtre”, n. 0, 1992, pp. 12 - 19. Teatro e
antropologia. Note su una “canoa di carta”, “Linea d’ombra”, anno XI, n. 86,
ottobre 1993, pp. 75 - 78. Una equazione fra antropologia e teatro, “Teatro e
Storia”17, anno X, 1995, pp. 37 - 64. L’esplorazione antropologica e i “fines”
del teatro, “Etnoantropologia”, nn. 3 - 4, 1995, Argo ed. Lecce, pp. 60 - 67.
Nostalgia del teatro e simulazione della piazza, in: D. Scafoglio - M. Vitale
(a cura di), La piazza nella storia: eventi, liturgie, rappresentazioni , Ed.
scientifiche italiane, Napoli, 1995, pp. 201 - 254. 28 Introduzione
e cura del volume: AA. VV., Per Carmelo Bene (Atti del convegno, Perugia, 14 -
15 gennaio 1994), Linea d’ombra ed., Milano, 1995, 218 pp. De l’anthropologie
du théâtre à l’ethnoscènologie, “Internationale de l’immaginaire (nuovelle
serie)”, n. 5, 1996, Ed. Maison de Cultures du monde, Paris, pp. 249 - 254. Il
teatro “privato “del pubblico. Cenni di storia e appunti sulla fenomenologia
dello spettatore, in: Le età del teatro. Corso triennale di storia e cultura teatrale,
Ert (Emilia Romagna Teatro) ed., Modena, 1997, pp. 3 - 15. Carmelo Bene.
Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani ed., Milano, 1997, 185 pp.
(Premio del Presidente del Premio “G. Pitrè – S. Salomone Marino). De la
consommation du théâtre au théâtre dans la société de consommation, in: AA.VV.,
Pourquoi aller au théâtre aujourd’hui? (Actes du quatrième colloque européen -
Biennale Théâtre Jeunes Publics, Lyon), Les Cahiers du soleil debout, Lyon,
1997, pp. 27 - 35. “Giulio Cesare”, teatro dei corpi, (recensione),“Lo
straniero. Arte Cultura Società”, anno I, n. 1, estate 1997, pp. 122 - 126.
Teatro antropologico: atto secondo, “Catarsi. Teatri delle diversità”, anno II,
nn. 4 - 5, dicembre 1997, pp. 12 – 14 (ripubblicato in: E. Pozzi – V. Minoia (a
cura di), Di alcuni teatri della diversità, ANC ed., 1999, pp. 57 – 65).
Consumare teatro , “Teatro e Storia” 19, anno XII, 1997, pp. 349 - 369.
Shakespeare e Garibaldi, (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”,
anno I, n. 2, inverno 1997/98, pp. 73 - 77. Au théâtre comme à la guerre!, in:
Centre Dramatique Hainuyer - Centre de Sociologie du Théâtre, La mediation
théâtrale (Actes du 5è Congrès International de Sociologie du théâtre organisé
a Mons (Belgique) mars 1997) , Lansman, Carnières-Morlanwelz (Belgique), 1998,
pp. 75 - 80; (ripubblicato dalla rivista “Théâtre éducation”, nouvelle serie,
n. 9, maggio 1998, pp. 22 - 26). Spettatori non si nasce, in: Provincia di
Modena - Emilia Romagna Teatro,Teatro e scuola fra espressività e percezione.
Atti del convegno (Modena, 15 - 16 novembre 1996), Centro Stampa Provincia di
Modena, ottobre 1998, pp. 126 - 136. O la guerra o il teatro. Sul film di Mario
Martone (recensione),“Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 4,
autunno 1998, pp. 55 – 59. Politica culturale e cultura teatrale , “Primafila.
Mensile di teatro e di spettacolo dal vivo”, n. 49, novembre 1998, pp. 13 - 17.
Aux confins du théâtre. Sur la relation entre théâtre et anthropologie ,
“Diogène”, n. 186, Avril- Juin 1999, pp. 110 -123. (ripubblicato nell’edizione
inglese: At the Margins of Theatre. On the Connection Between Theatre and
Anthropology, “Diogenes”, n. 186, vol. 47, feb. 1999, pp. 83 – 92) Il Teatro
come ‘attore’ del terzo sistema, in: “In Compagnia. Materiali per la costruzione
di un quadro di riferimento per lo sviluppo dell’occupazione degli operatori
artistici teatrali: il teatro quale strumento di crescita sociale”, (relazione
di ricerca), Emilia Romagna Teatro, Stampa Tem, Modena, 1999, pp. 40 – 64.
29 Dell’ascolto distratto e dell’attenta lettura. I versi di Campana
ripartoriti dalla voce di Carmelo Bene, (recensione), “L’indice”, anno XVI, n.
10, ottobre 1999, p. 22. Cinque domande sul presente di Danio Manfredini,
(intervista), “La porta aperta”, n. 1, settembre-ottobre 1999, pp. 70 – 79. Le
bugie della scuola e quelle del teatro, “Art’o”, n. 4, gennaio 2000, pp. 42 –
45 (ripubblicato in: Abbecedario della non-scuola del Teatro delle Albe,
allegato a “Lo straniero Arte Cultura Società”, anno VIII, n. 45, marzo 2004,
pp. 37 – 41). Il giullare fatto santo. Fo Dario fu Francesco, “L’indice”, anno
XVII, n. 5, maggio 2000, pp. 24 – 25. (recensione) La settima volta di Riccardo
terzo. Incontro con Claudio Morganti (intervista), “La porta aperta”, n. 5,
maggio – giugno 2000, pp. 7 – 15. Tragedie nella terra, verso il mare, sotto il
cielo. Incontro con Alfonso Santagata (intervista), in: S. Maggiorelli (a cura
di), Tragicamente. Il teatro di Alfonso Santagata, Titivillus ed., Corazzano
(PI), giugno 2000, pp. 63 – 75. (testo parzialmente ripubblicato con il titolo
Teatro a cielo aperto. Incontro con Alfonso Santagata in “La porta aperta”, n.
6, luglio – agosto 2000, pp. 16 – 24) La fine dello spettatore, in: P. Giacchè
(a cura di), Lo spettatore e le visioni del teatro futuro, “Prove di
Drammaturgia”, anno VI, n. 1, settembre 2000, pp. 11 – 13. Entelechia del Bene.
Incontro con Carmelo Bene, “La porta aperta”, n.8, novembre-dicembre 2000, pp.
48 – 59. Il teatro fuori dai teatri. Memorie di uno spettatore di provincia,
in: F. Gentili (a cura di), Teatri dell’Umbria. La storia, il gioco, la
memoria, Octavo, Firenze, 2000, pp. 259 – 287. L’arte dello spettatore, vedere
i suoni e ascoltare le visioni, in: Città di Palermo – Assessorato alle
Politiche Educative, Arte del narrare, arte del convivere (Atti del Convegno
nazionale – Palermo, 3 – 5 aprile 1997), Eliocopisteria “Milone”, Palermo,
2000, pp. 123 – 138. L’identità dello spettatore. Un saggio di Antropologia
Teatrale, “Etnostoria” nn. 1 – 2, 2000, pp. 57 – 86. L’art du spectateur: voir
les sons et écouter les visions, “Diogène”, n. 193, Janvier – Mars 2001, pp.
100 – 113 (ripubblicato nell’edizione inglese: The Art of Spectator: Seeing
Sounds and Haering Visions, “Diogenes”, n. 193, vol. 49, issue 1 2002,
pp.77-87.) Carmelo Bene, attore della cultura, “Lo Straniero Arte Cultura
Società”, anno VI, n. 22, aprile 2002, pp. 106 – 108. Lo spettatore del teatro
e il pubblico del rito, in: A. Cappelli – F. Lorenzoni (a cura di), La nave di
Penelope. Educazione, teatro, natura ed ecologia sociale. Testimonianze e
proposte a partire dai 20 anni di esperienze della Casa-Laboratorio di Cenci,
Giunti ed., Firenze, 2002, pp. 98 – 109. Teatro prigioniero, in: M. Buscarino,
Il teatro segreto, Leonardo Arte, Milano, 2002, pp. 13 – 18. Il Sessantotto e
il Teatro: un anno senza “stagione”, in: AA.VV., Rivelazioni e promesse del
’68, CUEC, Cagliari, 2002, pp. 141 – 164; (riedito con il titolo Un anno senza
“stagione”: il ’68 e il teatro, “Lo straniero Arte Cultura Società”, anno VII,
n. 36, giugno 2003, pp. 57 – 71). 30 L’avventura finale di Benigni
(recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, nn. 30-31,
dicembre 2002-gennaio 2003, pp. 49 – 53. Questa non è una tragedia
(recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VIII, n. 44, febbraio
2004, pp. 59 – 63. L’altra visione dell’altro. Una equazione tra antropologia e
teatro, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2004. Perdere un amico, “Rivista di
psicologia analitica”, nuova serie n. 17, 2004, pp. 87 – 97; (ripubblicato in
“Lo straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno IX, n. 59, maggio 2005, pp.
68 – 75, con il titolo Perdere un amico. Ricordo di Carmelo Bene) (ripubblicato
in: B. Massimilla (a cura di), La perdita. Lutti e trasformazioni, Vivarium
ed.. Milano, 2011, pp. 137 – 150). Apparire alla Madonna, postfazione a: C.
Bene, Sono apparso alla madonna. Vie d’(h)eros(es). Autobiografia, Bompiani,
Milano, 2005, pp. 157-159. L’identitè du spectateur. Essai d’anthropologie
théâtrale, “L’Ethnographie. Création, Pratiques, Publics”, n. 3, printemps
2006, pp. 14 – 44. “Arrevuoto”: il teatro in festa (recensione), “Lo Straniero.
Arte Cultura Società”, anno X, n. 72, giugno 2006, pp. 74 –77. Un Amleto di più
(recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno X, n. 76, ottobre
2006, pp. 110 – 113. Dar corpo alla poesia: l’esempio e il metodo di Carmelo
Bene, in: D. Scafoglio (a cura di), La coscienza altra. Antropologia e poesia,
Marlin ed., Cava de’ Tirreni (SA), 2006 (Atti del Convegno di Studio
“Antropologia e poesia”, organizzato dall’Università di Salerno,
Salerno-Ravello, 2 – 4 maggio 2002), pp. 202 – 212. Carmelo Bene. Antropologia
di una macchina attoriale – nuova edizione aggiornata e ampliata, Bompiani ed.,
Milano, 2007, 224 pp. Arrevuoto, n’ata vota (recensione), “Lo Straniero. Arte
Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 83, maggio 2007, pp. 107 – 109.
“Arrevuoto”: quando il teatro sospende la dittatura del mondo, in: Teatro delle
Albe, M. Martinelli – E. Montanari (curatori), Suburbia. Molti Ubu in giro per
il pianeta. 1998-2008. Ubulibri, Milano, 2008, pp. 99 – 109. La verticalità e
la sacralità dell’atto, in: A. Attisani – M. Biagini (curatori), Opere e
sentieri. Testimonianze e riflessioni sull’arte come veicolo, Bulzoni ed.,
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contemporain: un parcours à l’envers, in: AA.VV., Réécritures de Mèdée , (sous
la direction de N. Setti – Centre de Recherche en Etudes Féminines et Etudes de
genre, Université Paris 8), “Travaux et Documents”, n. 37, 2008, pp. 221 – 230.
Saldi di fine stagione, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XII,
nn. 98-99, agosto-settembre 2008, pp. 104 – 109. Teatro: Romeo all’Inferno
(recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XII, n. 100,
ottobre 2008, pp. 108 – 110. 31 Un soffio di teatro, in AA.VV., In
cammino con lo spettatore (Laggiù soffia – Era – In carne ed ossa), (a cura di
S. Geraci), La casa Usher, Firenze, 2008, pp. 118 – 126. De la consommation du
théâtre au théâtre dans la société de la consommation (nouvelle édition),
“Degrés. Revue de synthèse à orientation sémiologique”, XXXVI année, nn. 134 –
135, été- automne 2008, pp. e/1 – e/19.
L’effetLiving.Lavisiond’Artaudparles“Balinais”deNewYork,“Theatre/Public”
(L’avant- garde américaine et l’Europe / II. Impact), n. 191, décembre 2008,
pp. 9 -12. Le personnage public et l’acteur privé (entretien avec Piergiorgio
Giacchè pas Ciryl Béghin), “Théâtre et Cinéma 2009. Marco Bellocchio, Carmelo
Bene”, tome 20, publié à l’occasion du 20e Festival à Bobigny (18 mars – 5
avril 2009), sous la direction de Dominique Bax, pp. 141 -144. Voler Bene al
cinema, in “Bellaria 27” (catalogo di Bellaria Film Festival, 27^ edizione, 2 –
6 giugno 2009), pp. 66 – 68; riedito in: “Lo straniero”, anno XIII, n. 109,
luglio 2009, pp. 109 - 112. Fellini antropologo. Fra nostalgia e profezia, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, nn. 110-111,
agosto-settembre 2009, pp. 94 – 101. La nostalgia, merce per tutti, “Lo
Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 113, novembre 2009, pp.
129 -133. Bene Detto. Dispensa per Oratorio e Laboratorio, (a cura di P.
Giacchè, con interventi di C. Bene, B. Filippi, G. Fofi, P. Giacchè, J.P.
Manganaro, S. Pasello), L’arboreto – Teatro Dimora, Mondaino, 2009-2010, 143
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européen – in European Theatre), revue bilingue français-englais / bilingual
English-French review, nn. 48 -49, 2^ semestre 2010, pp. 111 – 118. Uomini e
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Di Matteo), giugno 2011, pp. 205- 210. 32 La parabola dell’animazione
teatrale, in: D. Pietrobono – R. Sacchettini (curatori), Il teatro salvato dai
ragazzini. Esperienze di crescita attraverso l’arte, Edizioni dell’Asino, Roma,
2011, pp. 46 – 65. Non fare l’amore, in: T. Cots (a cura di), Loving effects,
Quodlibet ed., Macerata, 2011, pp. 17-66 (trad.inglese: pp. 175-184). Buttare
il bambino nell’acqua sporca, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”,
anno XV, n. 138/139, dicembre 2011-gennaio 2012, pp. 125 – 127. Les Menoventi
et le Perithéâtre, in: C. Hurault – G. Banu (curatori), Frontières liquides –
territoires de l’art. Emergences de la scène européenne, Editions Alternatives
théâtrales / Union des Théâtres de l’Europe (n. 9 hors série de la revue
“Alternatives théâtrales”), maggio 2012, pp. 75 – 76. Liquidité et/ou
verticalité, in: C. Hurault – G. Banu (curatori), Frontières liquides –
territoires de l’art. Emergences de la scène européenne, Editions Alternatives
théâtrales / Union des Théâtres de l’Europe (n. 9 hors série de la revue
“Alternatives théâtrales”), maggio 2012, pp. 32 – 33. Le public est mort. Vive
le Public! Sur la poétique et la politique du mauvais spectateur, in: S. e J.
Pop-Curseu – A. Maniutiu – L. Pavel-Teutisan – D. Enyedi (curatori), Regards
sur le mauvais spectateur – Looking at the Bad Spectator, Presa Universitara
Clujeana, Cluj-Napoca, Romania, 2012, 346 pp., cfr. pp. 21 – 29. Eugenio Barba
e Carmelo Bene. Vite parallele e viaggi perpendicolari, “Teatro e Storia”, a.
XXVI, vol. IV nuova serie, Bulzoni ed., n. 33, 2012, pp. 321 – 332. (riedito in
francese, traduzione di Cristina De Simone in: Les Voyages ou l’ailleurs du
théâtre. Hommage à Georges Banu (Essais et témoignages réunis par Catherine
Naugrette), Éditions Alternatives théâtrales – Sorbonne Nouvelle-Paris 3, 2013,
pp. 252 – 263). Il pubblico troppo emancipato, “Quaderni del Teatro di Roma”,
n. 11, gennaio-febbraio 2013, pp. 12 – 13. O Espectador-Hòspede, “Revista
Brasileira de Estudos da Presença”, Porto Alegre, v. 3, n. 1, pp. 101 – 109,
jan./abr. 2013 - http://www.seer.ufrgs.br/presenca. Le public est mort. Vive le
Public!, “Alternatives théâtrales” (Le mauvais spectateur), n. 116, 1er
trimestre 2013, Bruxelles, pp. 16 – 19. Le “Public” trop émancipé: vers une
poétique pauvre de la politique théâtrale, in: Le théâtre et ses publics. La
création partagée (Actes du 2° Colloque International du Projet Européen
PROSPERO - Liège, 26 -29 settembre 2012), Les Solitaires Intempestifs Editions,
Besançon, 2013, pp. 57 – 72. Teatro e comunità, “Scena”, n. 74, 4° trimestre
2013, pp. 12 – 15. Sur Sieni, et surtout sur Virgilio... Trois exemples, in: V.
Sieni, Trois Agoras Marseille. Art du geste dans la Méditerranée, Maschietto
editore, Firenze, 2013, pp. 42 – 43. Risposte o riposte. Cinque lettere aperte
su CB, “Prove di drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali”, anno XVIII, n.
1, ottobre 2013, pp. 43 – 46. Un Pinocchio letto per Bene, introduzione a: C.
Bene, Pinocchio, Bompiani ed., Milano, 2014. 33 Vers la verticalité
du vers, “Revue d’Histoire du Théâtre”, LXVI année, juillet-septembre 2014-III,
n. 263 (D’Après Carmelo Bene. Actualité), pp. 345-354. Il combattimento tra la
teoria e la poesia (dedicato a Claudio Meldolesi), “Prove di drammaturgia.
Rivista di inchieste teatrali”, anno XIX, nn. 1 - 2, novembre 2014, pp. 27 –
29. Il teatro piccolo, povero, nuovo, in: “L’Italia e le sue regioni. L’età
repubblicana, vol. IV Società (a cura di M. Salvati – L. Sciolla)”, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Abramo Printing,
Catanzaro, 2015, pp. 485 – 503. Carmelo selon Jean-Paul in: Croisement
d’écritures France-Italie. Hommage à Jean-Paul (sous a direction de Camille
Dumoulié, Anne Robin et Luca Salza), éd. Mimésis, 2015, pp. 177 – 182.
Vêtements liturgiques et corps dévôts, in: Jean-Marie Pradier (sous la
direction de), La croyance et le corps. Esthétiques, corporeité des croyances
et identités (Actes du 7° colloque international d’ethnoscénologie, Paris,
21-23 mai 2013), Presses Universitaires de Bordeaux, 2015, pp. 113 – 121. Il
presente curriculum comprende i titoli, le attività e le pubblicazioni al 31
dicembre 2016 Il sottoscritto è a conoscenza che, ai sensi dell‚art. 26 della
legge 15/68, le dichiarazioni mendaci, la falsità negli atti e l‚uso di atti
falsi sono puniti ai sensi del codice penale e delle leggi speciali. Inoltre,
il sottoscritto autorizza al trattamento dei dati personali, secondo quanto
previsto dalla Legge 196/03. Quanto dichiarato nel presente curriculum vitae
corrisponde al vero ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. 445/2000 Piergiorgio
Giacchè. Giacchè. Keywords: l’altra visione dell’altro, Clifton, religion and
education, ego et tu. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giacchè: A Cliftonian
implicature” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757949198/in/dateposted-public/
Grice e
Giacomo – icona -- sensibile, imagine, presentazione, rappresentazione,
formante e formato, contentente e contenudo -- l’inspiegabile – filosofia
italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Avola).
Filosofo. Studia estetica. Il rapporto tra estetica e figura, immagine, rappresentazione.
Si laurea sotto Garroni. Insegna a Parma e Roma. Fonda la Società Italiana
d'Estetica. Nell'affrontare il concetto di ‘immagine’ è necessario rifiutare sia
l'interpretazione che vede una'immagine come lo specchio di una cosa (“Fido”-Fido).
E necessario rifiutare anche quella interpretazione del concetto di ‘imagine’
che la considera esclusivamente come un segno significante di se stesso. Il
concetto di ‘rap-presentazione’ implica qualcosa che si mostra e nel
manifestarsi resta ‘altro' dalla ‘percivibilita’ della rappresentazione stessa.
Così, nel ‘presentare’ se stessa, una immagine manifesta l'altro del
perceptible, del rappresentabil. Quell'altro che si rivela nel perceptibile,
nascondendosi a esso. Ed è proprio così che una immagine si fa un ‘icono’ di
quello che e altro il perceptibile. Afferma la tendenziale perdita di ‘figurativita’
di una immagine e del continuare a sussistere dell'immagine stessa. Una
immagine, infatti, è una segno e insieme una non-segno. E il paradosso di una
“irrealta reale”. Si riferisce al tentativo di scindere la natura ancipite
dell'immagine negli elementi che la compongono. Da una parte in un “readymade”
(come l’urinale di Duchamp), nel quale la dimensione rap-presentativa si
dissolve in una dimensione puramente PRE-sentativa, e dall'altra in una pura
immagine soggetiva, dotata di un debole supporto materiale. Una immagine e una
meta-immgine: l’immagine di una immagine (homuncular regressus ad infinitum of
Griceian theories of representation, according to Cummings, but not Grice!). Di
questo modo, una immagine non e neppure propriamente immagini quanto piuttosto una
‘simul-azioni’, simile allo imperceptibile, un “simul-acro”. Non a caso una immagine, in quanto ri-produzione
(doppia) ha uno scarso valore di immagine, giacché quello a cui tende è l’assumere
dell’ ‘aspetto’ di una cosa. L’immagine
perde così quella connessione di ‘trasparenza’ o ‘opacità’ che caratterizza una
immagine autentica. Di qui, appunto, la questione di realizzare una immagine
vera e propria. Troviamo il superamento della dimensione epifanica che è
propria dell'icona, dove appunto il perceptibile è il luogo di mani-festazione
di la cosa impercetibile – l’Assoluto di Bradley. Emerge una concezione
dell'immagine che, nella consapevolezza dell'impossibilità di ogni pretesa di
esaurire ‘il reale’ e insieme di ‘manifestare’ l'Assoluto, può essere
interrogata come testimonianza di quanto non si lascia ‘tradurre’ (translation)
in immagine: testimoniare, infatti, è raccontare ciò che è impossibile
raccontare del tutto. In questo modo, la testimonianza fa tutt'uno *non* con la
memoria in quanto conformità con l'accaduto, ma con l’immemoriale -- qualcosa
che non possiamo né ricordare né dimenticare, che non è “dicibile” né
“indicibile”. Insomma, il testimone “parla” (spiega, dispiega) soltanto a
partire da l’impossibilità concettuale di spiegare o dispiegare. Che l'immagine
valga allora come testimonianza significa che il tentativo di dire l'indicibile
(spiegare l’inspiegabile) è un compito infinito. La questione dell'immagine è
una questione di fidanza, di etica. In una immagine, non essendoci alcuna
compiutezza, non si dà alcuna redenzione né alcuna pacificazione nel confronto
col reale. Analissare l’immagine come testimonianza equivale a vedere
l’immagine come il luogo di una tensione sempre irrisolta tra memoria e oblio, e
quindi come l'espressione del dover essere (il possibile) del senso in un
orizzonte, come l’attuale. quale sempre di più sia il mondo che l'arte sembrano
essere abbando il NON-senso. Altre opera: “Dalla logica all'estetica”
(Parma, Pratiche); “Icona” “L’immagine tra presentazione e rappresentazione” (Palermo,
Centro internazionale studi di estetica); Estetica e letteratura. Il grande
romanzo tra Ottocento e Novecento, Roma-Bari, Laterza. Introduzione a Paul
Klee, Roma-Bari, Laterza, "Ripensare le immagini", Mimesis,
Milano, "Volti della memoria", Mimesis, Milano,
Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento, Milano,
Mimesis, "Malevic. Pittura e filosofia dall'Astrattismo al
Minimalismo", Carocci, Roma, Fuori dagli schemi. Estetica e figura
dal Novecento a oggi, Laterza, Roma-Bari, "Arte e modernità. Una
guida filosofica", Carocci, Roma, "Una pittura filosofica: l'informale",
Mimesis, Milano, "F. Nietzsche. L'eterno ritorno", Alboversorio,
Milano, Media e divulgazione Art
and Perspicuous Perception in Wittgenstein’s Philosophical Reflection, L’immagine-tempo
da Warburg a Benjamin e Adorno. Il saggio più importante per il rapporto tra
estetica e letteratura è Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra
Ottocento e Novecento, Laterza, Cf. "Dalla logica all'estetica”, "Alle
origini dell'opera d'arte contemporanea" “Astrazione e astrazioni”, "La questione dell'aura tra Benjamin e
Adorno", Rivista di Estetica, “Volti della memoria”. Giuseppe Di
Giacomo è stato Professore ordinario di Estetica presso la Facoltà di Lettere e
Filosofia della Sapienza Università di Roma fino al 2015 e, dopo il pensiona-
mento, dal 2015 al 2017, è stato professore a contratto di Estetica presso
stessa la Facol- tà. Sempre presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della
Sapienza Università di Roma, è stato membro del Collegio dei Docenti del
Dottorato di Ricerca in “Filosofia e Storia della filosofia” e Presidente del
Corso di Laurea Magistrale in “Filosofia e Storia della filosofia”. È socio
fondatore e membro del Consiglio di Garanzia della Società Italiana d’Estetica
(SIE). È direttore della collana Figure dell’estetica presso l’editore Albover-
sorio (Milano) e della collana Forme del possibile, presso l’editore Mimesis
(Milano); fa parte del Comitato scientifico della rivista Paradigmi, della
rivista Studi di estetica, della Rivista di estetica, della rivista Estetica.
Studi e ricerche, della rivista Compren- dre. Revista catalana de filosofia,
della rivista on line Memoria di Shakespeare. A Jour- nal of Shakespearean
Studies e di Aesthetica Preprint, collana editoriale del Centro In-
ternazionale Studi di Estetica. Fa parte inoltre del Comitato scientifico delle
seguenti collane editoriali: Filosofie (Mimesis, Milano), Caffè dei filosofi
(Mimesis, Milano), Eterotopie (Mimesis, Milano). È stato Coordinatore nazionale
dell’Osservatorio di Storia dell’Arte della Società Ita- liana di Estetica e
coordinatore, dal 2001, di numerose Ricerche di Ateneo dell’Università degli
studi di Roma “La Sapienza” relative a diverse tematiche filosofi- che,
estetiche e artistiche. E’ stato inoltre responsabile di diversi progetti PRIN.
Dal no- vembre 2012 all’ottobre 2015 è stato Direttore del Museo Laboratorio di
Arte Contem- poranea (MLAC) della Sapienza Università di Roma. Come Direttore
del Museo Labo- ratorio di Arte Contemporanea della Sapienza Università di
Roma, ha ideato e coordina- to, in collaborazione con la Galleria Nazionale
d'Arte Moderna di Roma e con il Teatro Argentina di Roma, numerose iniziative
di carattere seminariale aventi per oggetto la filosofia, la letteratura, la
musica, le arti figurative, il teatro. Dal 2015, collabora con il Teatro Eliseo
all'interno del quale tiene una serie di conferenze e organizza seminari sul
teatro, la musica, la letteratura e le arti visive. Collabora inoltre con la
Fondazione Pri- moli di Roma e con il Museo Andersen (Polo Museale del Lazio).
Tra le sue pubblicazioni: Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a
Wittgenstein (Parma, 1989); Icona e arte astratta. La questione dell’immagine
tra presentazione e rappresentazione (Palermo, 1999); Estetica e letteratura. Il
grande romanzo tra Otto- cento e Novecento (Roma-Bari, 1999; trad. in lingua
spagnola a cura di D. Malquori, Estética y literatura, Universidad de Valencia,
Servicio de Publicaciones, 2014); Intro- duzione a Paul Klee (Roma-Bari, 2003);
Alle origini dell’opera d’arte contemporanea (Roma-Bari, 2008); Beckett ultimo
atto (Milano, 2009), Ripensare le immagini (Milano, 2009); Astrazione e
astrazioni (Milano, 2010); L’oggetto nella pratica artistica, (Para- digmi, 2,
2010), Il Museo oggi (Studi di Estetica, 2012), Aura (Rivista di Estetica,
2013), Malevič. Pittura e filosofia dall’Astrattismo al Minimalismo (Roma,
2014), Fuo- ri dagli schemi. Estetica e arti figurative dal Novecento a oggi
(Roma-Bari, 2015; trad. in lingua spagnola a cura di Juan Antonio Méndez, Al
margen de los esquemas. Estética y artes figurativas desde principios del siglo
XX a nuestros dìas, La balsa de la Medusa, Madrid, 2016), Filosofia e teatro
(Paradigmi, 1, 2015), Tra il sensibile e le arti. Trent’anni di estetica (Studi
di Estetica, 1-2/2014), Tra arte e vita. Percorsi fra testi, immagini, suoni
(Milano, 2015), Arte e modernità. Una guida filosofica (Roma, 2016), 1
Una pittura filosofica. Antoni Tàpies e l'informale (Milano, 2016), Nietzsche e
l’eterno ritorno (Milano, 2016). Ha partecipato a progetti di ricerca
internazionali e a progetti di ricerca europei. Ha svolto attività didattica e
di ricerca (tenendo conferenze, lezioni e seminari, partecipan- do a convegni
di studio e svolgendo attività didattica anche in qualità di correlatore o
tutor di tesi di laurea e di Dottorato) presso importanti istituzioni straniere
sia accademi- che che extra-accademiche, in Spagna, Russia e Messico: Facultat
de Filosofia, Universitat de Barcelona; Facultat de Pedagogia, Universitat de
Barcelona; Facultat de Filosofia, Universitat “Ramon Llull”, Barcelona;
Societat Catalana de Filosofia, Institut d’Estudis Catalans; Ateneu de Vic;
Ateneu de Barcelona; Associació Filosòfica de les Illes Balears, Mallorca;
Facultat de Filosofia i Lletres, Universitat de les Illes Balears, Mallorca;
Facultat de Filosofia i Ciències de l’educació, Universitat de València;
Facultad de Filosofía, Universidad Complutense de Madrid; Istituto di studi
post-universitari “SS. Cirillo e Metodio”, Mosca; Russian Christian Academy for
the Humanities, S. Pietroburgo; “Peter the Great” St. Petersburg Polytechnic
University, S. Pietroburgo; Producciòn Artìstica Contemporànea Coloquio (PAC),
Centro Cultural San Pablo, Ciudad de Oaxaca, Messico; PUBBLICAZIONI: Monografie
·
Nietzsche e l’eterno ritorno, Commentario a F. Nietzsche, L’eterno ritorno, Al-
boversorio, Milano, 2016 · Arte e modernità. Una guida filosofica, Carocci, Roma, 2016 · Una
pittura filosofica. Antoni Tàpies e l'informale, Mimesis, Milano, 2016 · Fuori
dagli schemi. Estetica e arti figurative dal Novecento a oggi, Laterza,
Roma-Bari, 2015 (trad. in lingua spagnola a cura di Juan Antonio Méndez, Al
margen de los esquemas. Estética y artes figurativas desde principios del siglo
XX a nuestros dìas, La balsa de la Medusa, Madrid, 2016) ·
Malevič. Pittura e filosofia dall’Astrattismo al Minimalismo, Carocci, Roma,
2014 ·
Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento, Mimesis,
Milano, 2012 ·
Introduzione a Paul Klee, Laterza, Roma-Bari, 2003 ·
Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Laterza,
Roma-Bari, 1999 (quinta ed., 2015; trad. in lingua spagnola a cura di D. Mal-
quori, Estética y literatura, Universidad de Va-lencia, Servicio de
Publicaciones, 2014); 2 · Icona e arte astratta. La questione dell'immagine tra
presentazione e rappresen- tazione, «Aesthetica Preprint», Palermo, 1999 · Dalla
logica all'estetica. Un saggio intorno a Wittgenstein, Pratiche, Parma, 1989
Curatele · G. Di
Giacomo, L. Talarico (a cura di), Letture shakespeariane. Otello e Re Lear,
«Studi di Estetica», 3, 2017 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Contemporaneo. Arti
visive, musica, architettura, «Rivista di Estetica», 61 (2016) · G. Di
Giacomo (a cura di), Tra arte e vita. Percorsi fra testi, immagini, suoni,
Mimesis, Milano, 2015 · G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Filosofia e teatro.
Amleto e Macbeth, «Paradigmi», 1, 2015 · G. Di Giacomo, L.
Marchetti (a cura di), Tra il sensibile e le arti. Trent’anni di estetica,
«Studi di Estetica», 1-2/2014 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Aura, «Rivista di
Estetica», 52 (2013) · G. Di Giacomo, A. Valentini (a cura di), Il museo oggi, «Studi di
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2012 · G. Di
Giacomo (a cura di), Astrazione e astrazioni. In occasione di una mostra di
Gualtiero Savelli, Alboversorio, Milano, 2010 · G. Di Giacomo, L.
Marchetti (a cura di), L'oggetto nella pratica artistica, «Pa- radigmi», 2
(2010), Franco Angeli, Milano, 2010 · G. Di Giacomo (a cura
di), Ripensare le immagini, Mimesis, Milano, 2009 · G. Di
Giacomo, R. Colombo (a cura di), Beckett ultimo atto, Albo Versorio, Mi- lano,
2009 · G. Di
Giacomo, C. Zambianchi (a cura di), Alle origini dell'opera d'arte con-
temporanea, Laterza, Roma-Bari, 2008 Saggi 2018 Introduzione a D. Malquori,
L’incomprensibile ambiguità dell’orizzonte. Un so- gno fatto a Ginostra,
Mimesis, Milano, collana Narrativa Mele d’Oro, 2018, pp. 5-10. 2017 Il problema
della forma nella Teoria estetica di Adorno, in M. Manicone (a cura di),
Sostanza di cose sperate. Scritti in onore di Franco Purini, Iiriti Editore,
Campo Calabro (RC), 2017, pp. 329-337. 2017 Re Lear. “Essere maturi” in un
mondo abbandonato alla cecità e alla follia, in G. Di Giacomo-L. Talarico (a
cura di), “Letture shakespeariane. Otello e Re Lear”, «Studi di Estetica», 3,
2017, pp. 85-108. 3 2017 Otello: la tragedia della parola e il ruolo
della narrazione, in G. Di Giacomo-L. Talarico (a cura di), “Letture shakespeariane.
Otello e Re Lear”, «Studi di Estetica», 3, 2017, pp. 1-18. 2017 Dostoevsky, a
writer and philosopher: “The Grand Inquisitor”, in “ACTA ERU- DITORUM”, 2017,
Vol. 23, Publishing house of the Russian Christian Academy for the Humanities,
2017, pp. 61-68. 2017 Tradició i innovació en l’art, in “La Tradició”,
Col-loquis de Vic, Societat Catala- na de Filosofia, Institut d’Estudis
Catalans, XXI, 2017, pp. 171-178. 2017 Understanding of the «image» in Plato,
in «PLATO AND ANCIENT SCIENCE», Collection of materials of 25TH INTERNATIONAL
CONFERENCE «THE UNIVER- SE OF PLATONIC THOUGHT», RUSSIAN CHRISTIAN ACADEMY FOR
HUMA- NITIES, Saint Petersburg, June 21–22, 2017, Appendice alla rivista di
Fascia A (in Russia “VAK”) “Vestnik” della RUSSIAN CHRISTIAN ACADEMY FOR
HUMANI- TIES. Redattori: Svetlov R. V., Robinson T. M. (Canada), Protopopova I.
A., Mochalo- va I. N., Kurdybajlo D. S., Shmonin D. V., Alymova E. V., pp.
163-170. 2016 Form, appearance, testimony: reflections on Adorno’s Aesthetics,
in G. Matteucci, S. Marino (a cura di), Theodor W. Adorno: Truth and
Dialectical Experience / Verità ed esperienza dialettica, “Discipline
filosofiche”, XXVI, 2, Quodlibet, Macerata, 2016, pp. 79-97 2016 Antoni Tàpies
e Bill Viola: un'arte che sopravvive alla mercificazione, in G. Di Giacomo, L.
Marchetti (a cura di), Contemporaneo. Arti visive, musica, architettura,
“Rivista di Estetica”, 61, pp. 49-64 2016 Composizione, costruzione, icona
nella concezione artistica di Pavel Florenskij, in D. Guastini, A. Ardovino (a
cura di), I percorsi dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani,
Pellegrini Editore, Cosenza, pp. 325-334 2016 Prefazione a A. Lanzetta, Opaco
mediterraneo. Modernità informale, Libria, Fog- gia, pp. 7-9 2016 Reflexions
filosòfiques sobre la festa. Entre temporalitat i eternitat, in “La festa”,
Col-loquis de Vic, Societat Catalana de Filosofia, XX, Vic, pp. 51-66 2015 The
Myth. Aesthetic surgery clearly demonstrates what Greek myth has already taught
us: beauty stems from horror, in P. Gandola, P. Persichetti (a cura di), Art of
Blade. A book about surgery and humanity, T.A.M. Books, 2015, pp. 17-29 2015 La
guerra i l'art, in La guerra, Col-loquis de Vic, Societat Catalana de
Filosofia, XIX, pp. 11-26 2015 Arte e vita nella Recherche di Marcel Proust, in
G. Di Giacomo (a cura di), Tra arte e vita. Percorsi fra testi, immagini,
suoni, Mimesis, Milano, 2015, pp. 111-138. 4 2015 Lettura dell’Amleto, in
G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Filosofia e teatro. Amleto e Macbeth,
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Talarico (a cura di), Filosofia e teatro. Amleto e Macbeth, «Paradigmi», 1,
2015, pp. 111-125. 2014 Arte, linguaggio e rappresentazione nella riflessione
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pp.29-50. 2014 Icona e immagine, in G. Bordi, J. Carlettini, M.L. Fobelli, M.R.
Menna, P. Poglia- ni (a cura di), L'officina dello sguardo. Scritti in onore di
Maria Andaloro, Gangemi, Roma, pp. pp.33-37. 2014 El poder i les seves
representacions, in L'estat, Col•loquis de Vic., vol. XVIII, pp.27-49. 2014
Dalla modernità alla contemporaneità: l’opera al di là dell’oggetto, in G. Di
Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Tra il sensibile e le arti. Trent’anni di
estetica, «Stu- di di Estetica», 1-2/2014, pp. 57-84. 2013 Entre la paraula i
el silenci: la filosofia com a recerca de la veritat, prefaci a An- toni
Bosch-Veciana, "Imatge-Mirada-Paraula", Barcelona,Facultat de
Filosofia, URL, 2013 2013 L’immagine artistica tra realtà e possibilità, tra
“visibile” e “visivo”, in P. D’Angelo, E. Franzini, G. Lombardo, S. Tedesco (a
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«Comprendre. Revista Catalana de Filosofia», 2 (2012), vol. 14, pp. 41-57 2012
La qüestió de la imatge a partir del debat sobre la icona, in «Col•loquis de
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5 2012 L'opera di Kafka come narrazione infinita, in A. Valentini, Il
silenzio delle Sire- ne. Mito e letteratura in Kafka, Mimesis, Milano, 2012,
pp. IX-XXIV 2012 Lo statuto paradossale del museo tra globalizzazione e
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testimonianza tra estetica ed etica, in Volti della memoria, a cura di G. Di
Giacomo (a cura di), Mimesis, Milano, 2012, pp. 445-481 2011 La idea d'Europa
entre la cosciència de l'ocàs i l'obertura a l'altre, in Europa, in J.
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Etica ed estetica nella filosofia del giovane Lukács, Introduzione a G. Lukács,
Teoria del romanzo, Pratiche, Parma, 1994, pp. 7-41 1992 Realtà e Finzione in "Dissonanzen-Quartett"
di Emilio Garroni, in «La ra- gione possibile», 5 (1992), pp. 264-268 1986 Il
comportamento cognitivo dell'uomo nell'epistemologia evoluzionistica di Popper,
in «Terzo Mondo», 27 (1986), pp. 48-71 1984 L'epistemologia di Mach fra positivismo
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nella filosofia del linguaggio di Wittgenstein, in A. Gar- gani (a cura di), Il
Circolo di Vienna, Longo, Ravenna, 1984, pp. 131-156 1983 La nozione di «uso» e
la funzione della filosofia in Wittgenstein, in A. Gar- gani (a cura di), L.
Wittgenstein e la cultura contemporanea, Longo, Raven- na, 1983, pp. 117-127
1982 Implicazioni e aspetti epistemologici della sociobiologia, in M. Ingrosso,
S. Manghi, V. Parisi (a cura di), Sociologia possibile, Franco Angeli, Milano,
1982, pp. 69-82 1982 Natura e cultura: il rapporto tra "strutture"
genetiche e "processi" di ap- prendimento nel comportamento animale e
umano, in AA. VV. (a cura di), L'osservazione del comportamento sociale,
Regione Piemonte, Torino, 1982, pp. 37-54 PROGETTI DI RICERCA - Progetto PRIN
Tema: La forma dell’immagine Ente promotore: MIUR 2003 / 24 mesi; - Progetto
PRIN / Responsabile Tema: Estetica analitica ed estetica continentale:
problemi, prospettive e tradi- zioni a confronto 9 Ente promotore: MIUR
2005 / 24 mesi; - Progetto PRIN / Responsabile nazionale e Coordinatore
dell’unità locale Tema: Memoria e rappresentazione nella riflessione filosofica
e artistica Ente promotore: MIUR 2007, 24 mesi; Coordinatore dei seguenti
Progetti di Ateneo: - Progetto di Ateneo: Immagine e rappresentazione. Problemi
estetici, artistici e storici Ente promotore: Università di Roma "La
Sapienza” 2001 / 24 mesi - Progetto di Ateneo: Significati e usi delle immagini
nella cultura dell'Otto- Novecento - Ente promotore: Università di Roma
"La Sapienza" 2002 / 24 mesi; - Progetto di Ateneo: Significati e usi
delle immagini nella cultura dell'Otto- Novecento - Ente promotore: Università
di Roma "La Sapienza" 2003 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo:
Significati e usi delle immagini nella cultura dell'Otto- Novecento - Ente
promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2004 / 12 mesi; -
Progetto di Ateneo: Memoria e testimonianza nella riflessione filosofica e
artisti- ca del Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La
Sapienza" 2007 / 24 mesi; - Progetto di Ateneo: Memoria e testimonianza
nella riflessione filosofica, storica e artistica - Ente promotore: Università
di Roma "La Sapienza" 2008 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Rappresentazione,
memoria e testimonianza nella riflessione filosofica e artistica - Ente
promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2010 / 12 mesi; -
Progetto di Ateneo: La questione arte-vita nella società multiculturale.
Identità, immagine e implicazioni etico-politiche - Ente promotore: Università
di Roma “La Sapienza” 2012/ 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Il tema
dell'"Annunciazione" come chiave di lettura degli at- tuali processi
di globalizzazione - Ente promotore: Università di Roma “La - Sapienza” 2013/ 12
mesi; - Progetto di Ateneo: Memoria e rappresentazione nella riflessione
estetica e arti- stica Ente promotore: AST - Università di Roma "La
Sapienza" 2007 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Evento e testimonianza
nell'estetica del Novecento Ente promotore: AST - Università di Roma "La
Sapienza" 2008 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Il problema dell'aura
nell'arte contemporanea Ente promoto- re: AST - Università di Roma "La
Sapienza" 2009 / 12 mesi; 10 Coordinatore dei seguenti Seminari
dell’Osservatorio di Storia dell’Arte della Società Italiana di Estetica,
presso la Facoltà di Filosofia dell’Università degli studi di Roma “La
Sapienza” - 22 settembre 2003: Seminario sul tema Estetica e storia dell’arte:
necessità di un dialogo; - 27 settembre 2004: Seminario sul tema Fine (della
storia) dell'arte?; - 26-27 settembre 2006: Seminario sul tema Arte, Estetica,
Visual Studies; - 8-9 febbraio 2008: Seminario sul tema Oggetto artistico e
oggetto comune; - 20-21 febbraio 2009: Seminario sul tema Leggere l'opera d'arte;
- 18-19 febbraio 2011: Seminario sul tema Ancora l’aura oggi?; - 27-28 gennaio
2012: Seminario sul tema Che cos’è il museo oggi? Cfr. inoltre: - Sito Web
ufficiale: www.giuseppedigiacomo.it - Voci su Wikipedia:
https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo ;
https://fr.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo
https://en.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo
https://de.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo
https://ca.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo 11ROMANTIC PAINTERS and
playwrights of the nineteenth century found rich material in the lives of the
old masters. Fueled by irresistible half-truths and rumors, they created
swashbuckling narratives about the personal intimacies and rivalries, as well
as the career failures and triumphs, of the Italian Renaissance artists. At the
Paris Salon of 1843, for instance, Léon Cogniet unveiled his grand entry, a
large canvas depicting Tintoretto painting a portrait of his beloved daughter
Marietta, who lies on her death bed. Three years later, the painter and
playwright Luigi Marta published a melodrama about an amorous intrigue that
supposedly led to the death of Marietta, who assisted her father as an artist
in his workshop. The six-episode play reads like a soap opera in which the
aristocratic Alfredo is pitted against Marietta’s true love, Valerio Zuccato, a
Venetian mosaicist (and thus, in Tintoretto’s world, a fellow craftsman). The
play circles around the inevitable showdown between the arrogant count and the
sincere artist, which precipitates Marietta’s death at the hands of the
entitled, privileged, and violent Alfredo. Parallel to this love story,
the reader is regaled with the homosocial rivalry between Tintoretto and
Titian, with Paolo Veronese appearing as an intercessor who mediates a grandiloquent
reconciliation scene in which all three masters unite to defend the honor of
the Venetian state. The narrative unfolds against Tintoretto’s commission for
the Last Judgment (1562–64) in Santa Maria dell’Orto. Marta’s artist was thus,
in no uncertain terms, a struggling genius waiting for recognition from his
fellow artists even at the height of his success. Indeed, the episode concludes
with Titian’s transformative endorsement—Ora non siete più il povero
Tintoretto, ma bensì il famoso Giacomo Robusti (“now you are no longer the poor
‘son of a dyer,’ but the famous Jacopo Robusti”).1 Loosely based on
actual historical personages, the tale is almost entirely fantasy. Such
theatrical characterizations are nevertheless of great importance, for they
help give legends the veneer of history. Giorgio Vasari’s sixteenth-century
notices about Tintoretto, as well as, in the seventeenth century, Carlo
Ridolfi’s biography and Marco Boschini’s various writings on the artist, were
the primary sources for many of these tasty morsels, and while scholars have
tried to sift fiction from reality, some myths are just too delectable to give
up. We still hear repeated, for instance, the unfounded story that the young
Tintoretto was kicked out of Titian’s studio. It’s not entirely impossible, but
there isn’t a shred of solid evidence to confirm the tale (any more than
Ridolfi’s allegation that Tintoretto dressed Marietta up as a boy so that
father and daughter could wander the city streets unimpeded by society’s strict
gender expectations). The image of Tintoretto-as-rebel would
culminate in Jean-Paul Sartre’s essay “The Prisoner of Venice”(1964), where the
artist is reinvented as an existentialist hero, a lone wolf fighting against
the stultifying rules of the system: Fate has decreed that Jacopo
unwittingly expose an age which refuses to recognize itself. Now we understand
the meaning of his destiny and the secret of Venetian malice. Tintoretto
displeases everyone: patricians because he reveals to them the puritanism and fanciful
agitation of the bourgeoisie; artisans because he destroys the corporate order
and reveals, under their apparent professional solidarity, the rumblings of
hate and rivalry; patriots because the frenzied state of painting and the
absence of God discloses to them, under his brush, an absurd and unpredictable
world in which anything can occur, even the death of Venice.2 At the
other end of the spectrum, this leitmotif is perhaps best played out for comic
effect in Woody Allen’s Everyone Says I Love You (1996), in which a
skirt-chaser (Allen) is overheard in the so-called Tintoretto Museum (really
the Scuola Grande di San Rocco) in Venice trying to impress a Tintoretto
enthusiast (Julia Roberts) by lauding the artist’s immense genius for painting
“outside the academic convention of sixteenth-century Venice.”
Sometimes myths are just too powerful, and the Tintoretto myth is an
extremely appealing one for modern tastes, especially in the celebratory year
marking the fifth centenary of the artist’s birth. Tintoretto’s anniversary has
been staged as a magnificent international banquet. The festivities began last
autumn in Venice with exhibitions at the Palazzo Ducale(“Tintoretto: Artist of
Renaissance Venice”) and the Gallerie dell’Accademia (“The Young Tintoretto”),
as well as an excellent little show at the Scuola Grande di San Marco (“Art,
Faith, and Medicine in Tintoretto’s Venice”). New York, in the fall, offered
“Drawing in Tintoretto’s Venice” at the Morgan Library & Museum and
“Celebrating Tintoretto: Portrait Paintings and Studio Drawings” at the
Metropolitan Museum of Art. The fete continues in 2019 at the National
Gallery of Art in Washington, D.C., where slightly adapted versions of the
Palazzo Ducale and Morgan Library exhibitions go on view this month, fortified
by a third independent show called “Venetian Prints in the Time of Tintoretto.”
This is a once-in-a-lifetime opportunity for audiences in America to see some
one hundred and seventy artworks by Tintoretto and other Venetian Renaissance artists,
painstakingly gathered by art historians Robert Echols and Frederick Ilchman
(who organized the show at the Palazzo Ducale),along with curators John
Marciari (of the Morgan) and Jonathan Bober (of the National Gallery). Fans of
the artist and of painting in general should take note. IT’S
HARD NOT TO get swept up in all the unbridled Tintoretto worship, but this
celebration also provides us an opportunity to revisit the man, the myth, the
legacy, and above all, the work. To start with the biographical elements:
Tintoretto was hardly seen as a pitiful “poor dyer’s son” in the eyes of his
fellow Renaissance artists, nor as a maverick who “displeases everyone.” When
speaking about Titian vs. Tintoretto, one must take into account a few
historical particulars. For instance, in 1519, the year after Titian installed
the magnificent Assumption of the Virgin in Santa Maria Gloriosa dei Frari,
Tintoretto’s only achievement was to be born. In 1545, two years before
Tintoretto’s first self-portrait (with which all Tintoretto exhibitions seem
compelled to begin), Titian was called to Rome by Pope Paul III; in the 1550s
and 1560s he was practically a court painter to the Habsburgs, while Tintoretto
was painting acres of canvas to fill the walls at the Chiesa della Madonna
dell’Orto, the Scuola Grande di San Rocco, and the Scuola Grande di San Marco
in Venice; Titian died in 1576 during the plague, and in 1577 a conflagration
devastated the Palazzo Ducale, destroying many of his paintings there, some of
which would be replaced with works by Tintoretto and his assistants in the
1580s. While there was probably no love between the two men of the kind that
nineteenth-century dramatists might dream up, their careers ran parallel to
each other rather than in constant antagonistic competition. Many
romantic myths are dispelled in the scholarship that went into the exhibitions
and the catalogue essays, but the melodrama of this rivalry still sneaks into
sections such as “The Mantle of Titian,” which, at the Palazzo Ducale, was
called “Dopo Tiziano” (After Titian) thereby underlining both chronological
priority as well as influence. The paintings Tintoretto did afterTitian’s death
in 1576—large, powerful mythological pictures such as the Forge of Vulcan
(1577) and the Origin of the Milky Way (ca. 1577–78)—are spectacular, but why
filter these achievements once more through Titian? And why not have, instead,
a section labeled “Dopo Tintoretto,” which would include El Greco, the
Carracci, Caravaggio, and a host of other artists from the past five centuries
who found inspiration in his stark chiaroscuro, raking perspective, extreme
foreshortening, airborne saints, psychologically charged portraits, barefoot
worshippers, elaborate banquet scenes, wraithlike angels and spirits, and busted-out
straw chairs? The oft-repeated trope that Tintoretto was an outsider also
willfully overlooks his obvious status as a complete insider, born in Venice
and fully embedded in its institutions from birth. Titian and Veronese, in
contrast, were both provincials (practically foreigners by Renaissance
standards), who came from the hills and plains beyond the lagoon. While a
questionable seventeenth-century account suggested an aristocratic lineage for
the Robusti family, more recent studies have emphasized instead the artist’s
“working class” origins. The truth is somewhere in between. Stefania Mason’s
essay “Tintoretto the Venetian,” from the catalogue that accompanies
“Tintoretto: Artist of Renaissance Venice,” goes a long way to contextualize
the precise socioeconomic conditions of the son of a Renaissance dyer or—to be
more accurate—the son of a manager of a dye works married to a “well-born
woman.” The Robusti were not wealthy by any means, but they were comfortable
enough to give Tintoretto a basic education that enabled him later in life to
befriend the circle of writers and intellectuals known as the poligrafi,
including the notorious satirist Pietro Aretino (a friend of Titian and an
early supporter of Tintoretto). Like his father, Tintoretto married
up. His father-in-law, Marco Episcopi, not only belonged to an influential
family of Venetian cittadini, he was also the guardian of the Scuola Grande di
San Marco, where Tintoretto—two years before his marriage—painted his finest
early work, Miracle of the Slave (1548). The scene features St. Mark swooping
in headfirst from the sky to protect a slave from being martyred for his faith.
Current viewers need not be intimidated by the religious matter of the vast
majority of Tintoretto’s pictures—they are gripping visual tales of life and
death. According to seventeenth-century artist and critic Marco Boschini, one
beholder of Tintoretto’s St. Mark cycle reported: “The terror makes me faint,
and the piety liquefies my heart in such a manner that I lose heart and melt
like wax and feel completely mad!”3 As much “Game of Thrones” as Catholic
doctrine in pictures, these works were meant to move, delight, and instruct
their audience. Indeed, one cannot help but feel that if Tintoretto were alive
today, he would be an unapologetic fan of action films and special effects.
Looking at Miracle, with its explosive light and tense shadows, its superhuman
heroes and racially profiled villains, and its meticulous staging of powerful,
muscular, controlled bodies, one might think he invented the genre. No wonder
Boschini described him as a “thunderbolt” and the “cannons of a ship.”4
Unfortunately, Miracle of the Slave has not been allowed to cross the Atlantic.
Audiences in D.C. can, however, marvel at the luminous Saint Augustine Healing
the Lame (ca. 1550) and the always pleasing Creation of the Animals (1550–53),
which the French philosopher Gilles Deleuze once described as an image of God
as a referee “at the start of a handicapped race, in which the birds and the fish
leave first, while the dog, the rabbits, the cow, and the unicorn await their
turn.”5 While Miracle has been in the possession of the Gallerie
dell’Accademia for many decades now, seeing it anew, rehung next to the
diminutive bronze relief of the same subject by the Florentine sculptor Jacopo
Sansovino, was one of the highlights of the “Young Tintoretto”exhibition. With
the works placed next to each other in a darkened room, the similarities and
differences were enlightening. Designed and executed between 1541 and 1546 for
the north tribune of the choir at the Basilica di San Marco, Sansovino’s
glowing bronze panel reduces the scene to a compact, tactile, monochromatic
field of chiaroscuro with a vibrant mass of bodies emerging from the picture
plane in dynamic, agitated poses. Tintoretto, just on the cusp of his thirtieth
year when he painted Miracle, clearly looked closely at the dramatic effects
that could be sculpted out of gesture, form, and composition alone. To this art
he would add the detail of expression, the intensity of extreme lighting, the
terribilità that often comes with scale, and the incomparable power of
color. WHILE THE TWENTY-FIRST CENTURY audiences might think
it odd for an ambitious artist to unveil a painting so closely modeled on a
recent work by another artist, the reuse of motifs was a common Italian
Renaissance practice, as was made clear in an insightful section of the Palazzo
Ducale exhibition simply called “The Recycler.” Tintoretto and his assistants,
after all, produced more square footage of painting than any other workshop in
the Venetian Renaissance. In one instance, the painter salvaged an old
composition from his painting Mystic Crucifixion by cutting, splitting, and
reintegrating the canvas into a new picture, The Nativity(ca. 1550s and 1570s);
on another occasion, he copied, pivoted, and re-costumed a previously used
figure of St. Lawrence intended for the Bonomi family altar in San Francesco
della Vigna, transforming the martyr into Helen of Troy. Such shortcuts were
standard in most Renaissance workshops, especially prolific ones that had to
turn out hundreds of altarpieces, portraits, mythological paintings, battle
scenes, and other pictures. The juxtaposition between the Florentine
sculptor and the Venetian painter also underlines Tintoretto’s connectedness
with other artists. He painted Sansovino’s portrait more than once, even
signing one of the works as “Jacobus Tintorettus eius amicissimus” (which, if
you believe the inscription, means they were Renaissance BFFs). Tintoretto was
an artist’s artist. His profound sense of community comes across in a rather
touching contract found in the Venetian archives and included in the small but
brilliant “Art, Faith, and Medicine in Tintoretto’s Venice” at the Scuola Grande
di San Marco. In this document, drafted and signed shortly after Christmas in
1585, the artist agrees to provide works and forgo any payment on the condition
that the confraternity admit four people: his son Giovanni Battista Robusti;
his son-in-law Marco Augusta (the real-life husband of Marietta); the tailor
Bartolomeo di Lorenzo; and another man named Angelo Girardi. His dedication to
his family, friends, and students is also borne out in numerous workshop
drawings, which are well represented in D.C. Offering important
opportunities for artistic communion, drawing had its pragmatic as well as
pleasurable purposes. In several sketches made after a copy of the ancient bust
known as the Grimani Vitellius, we see multiple hands working seemingly side by
side, line by line, smudge by smudge, highlight by highlight, with the goal of
mastering the visible world around them. The willful way that these graphic
studies dematerialize carved stone and reincarnate the male portrait head into
what looks at first glance like the image of a flesh-and-blood subject is
remarkable. In this sequence, note especially the Morgan Library drawing
rendered by what the curator identifies as a “left-handed draftsman.” The work
seems almost too bold in its deliberate, sweeping gestures to be “workshop,”
but then Tintoretto was clearly a very good master with some very capable
assistants. In Tintoretto’s drawings and paintings, one often feels
that he is “sculpting” with chalk, charcoal, watercolor, oil, and pigment, ignoring
the flat surface of the paper or canvas. This comes across not only in the
speckled black-and-white patterns of his drawings from sculptures (which he
avidly collected) but in his life studies, too. His rendering of flesh
frequently seems to be rippling and quivering with animal energy, as if the
artist were trying to catch the living body in motion. His is possibly the most
atomistic rendering of the human form in the Renaissance. The frenetic,
vibrating lines in Seated Man with Raised Right Arm (ca. 1577), for instance,
exemplify this stylistic peculiarity: the contours of the mythological body can
never sit still but seem to be in a constant state of flex and flux. (Indeed,
Tintoretto’s figural drawings make Marcel Duchamp’s Nude Descending a Staircase
and every episode of “The Incredible Hulk” seem old hat when they appear
centuries later.) One of the art-historical myths
destroyed—hopefully once and for all—by the exhibitions in honor of Tintoretto
is that Venetians did not really draw. Some did more than others, and
Tintoretto and his assistants surely drew up a storm. On various sheets we find
words such as fa (make), sì (yes), fatto (made), no (no), and bono (good)
scrawled across the surface; sometimes figures are singled out by an asterisk.
These marks were workshop instructions on designs that had been cleared for
production by the master. Sheets such as Study of a Man Climbing into a Boat
(1578–79) were frequently greased and held up to the light so that forms could
be retraced on the verso, offering compositional options. Many have squaring
grids drawn across them. In some instances, this facilitated the transfer of
the design onto a larger surface; in other cases, it assisted in the correction
of foreshortening and the adjustment of figural proportions. Of the
thirty-some drawings by Tintoretto and his workshop on display at the National
Gallery of Art, the majority are on the blue paper favored by Venetian artists.
The dark surface of this carta azzurra provided an ideal ground upon which to
map out gestural movements, tonal subtleties, and, above all, the effects of
light and shadow. It might also be compared with the darkened grounds of many
Tintoretto paintings. The canvas support for The Origin of the Milky Way, for
example, is prepared with a brownish layer upon which the artist sketched out
his composition with white lead paint (rather than using black paint on a white
gessoed surface). Once a scene had been plotted out on the canvas, however,
Tintoretto was prone to further editing, altering, and redrawing of figures and
forms in a variety of white, black, and even red paint until the work was
completed. PAINTERS AND people interested in the way things
are made will find much to consider in these exhibitions. Tintoretto’s process
is revealed in medias res through the various X-rays that accompany the
didactic material in the galleries and comes across most clearly in the oil
sketch Doge Alvise Mocenigo Presented to the Redeemer(1571–74, a work included
in the 2016 exhibition “Unfinished: Thoughts Left Visible” at the Met Breuer in
New York). Looking at the mannequinlike figures waiting to be dressed with
flesh and clothes, one comes to appreciate the procedural logic that binds
these drawings and paintings together (a topic expertly discussed in Roland
Krischel’s essay “Tintoretto at Work” in the National Gallery of Art exhibition
catalogue). The show reveals Tintoretto’s exploratory procedure: visceral,
intuitive, yet ultimately studied and thought-through—but never entirely
scripted. Tintoretto is all gestalt. If the Marxist machismo of
Sartre’s characterization of the artist as a rebel “born among the underlings
who endured the weight of a superimposed hierarchy” is misplaced, one must
admit that his phenomenological acumen regarding the works is often startlingly
spot on. Sartre writes with great perspicacity about the narrow, vertical
composition of Saint George and the Dragon (ca. 1553–55): Everything is
simultaneous in his canvas, he contains everything within the unity of a single
instant. But to mask the over-harsh rift, he presents the spectator with the
spectre of a succession of events. Not only is the route traced in advance, but
each stage devalues the previous one and shows it up as an inert memory of
things past. The corpse’s immobility is memory: it is prolonged and repeated
from one moment to the next, identical and useless. . . . The time-trap works,
we are caught: a false present welcomes us at every step and unmasks its
predecessor which returns, behind our backs, to its original status of
petrified memory.6 Time and space collapse in on the spectator’s embodied
experience, simulating the effects of a hallucinatory drug. And indeed, as
early as Boschini we find the revelatory quality of Tintoretto’s art described
in pharmacological terms. Of the whirlwind of paintings on the ceilings and
walls of the Scuola Grande di San Rocco, he effuses: “I feel as if I am in a
drugstore. Under my nose these odors have aromas that overwhelm my heart. These
fragrances remain in my mind, my mind feels so utterly purged that my heart
jumps for joy in my chest, and my soul feels totally jubilant.”7 One must
be in the presence of the work in order to experience the psychosomatic force
of Tintoretto’s art. A black-and-white photograph of a room filled with
Tintoretto’s portraits can look like a field of dull heads, but in person these
works become alarmingly ghostly presences, with hands and faces that seem
capable of movement. The sketches that move from light fluffy strokes to
devastating valleys of black charcoal seemingly carved with a chisel, the thick
ridges of impasto that rise suddenly like waves from the surface of a canvas,
the glazes and scumble that modulate color and reflect light differently
depending on the angle of view, the enormity of compositions that threaten to
engulf the spectator’s body—these elements simply do not translate in any form
of mechanical or digital reproduction. This is true not only for Tintoretto but
for Venetian art in general, with its penchant for chromatic and luminous
variability and richness. In “Drawing in Tintoretto’s Venice” the
difference between Veronese’s gorgeous drawings covered in elegant, spindly
figures created in a torrent of quick brown ink strokes and Jacopo Bassano’s
schematic black chalk sketches marked by dusty smudges of red, white, green,
pink, and brown becomes immediately clear. Domenico Tintoretto, one of the
master’s sons, produced oil sketches of battle scenes that look comic in
reproduction, but when one stands before the flurry of red, white, and black
patches on dark brown paper, these detailed compositions dissolve unexpectedly
into near abstraction. Renaissance drawings are so fragile and sensitive
to light that they can be exhibited only rarely, and many Tintoretto
paintings are so large that they have remained in situ in Venice for most of
their existence. Thus the current triple exhibition is the first substantial
retrospective of the old master’s work in America. It is a fitting tribute on
the occasion of his five hundredth birthday—and a viewing experience not to be
missed. Endnotes 1. Luigi Marta, Il Tintoretto e sua figlia: drama in sei
quadri del pittore Luigi Marta, Milan, Borroni e Scotti, 1846, p. 46. 2.
Sartre quoted in Laura Lepschy, Tintoretto Observed: A Documentary Survey of
Critical Reactions from the 16th to the 20th Century, Ravenna, Longo Editore,
1983, p. 185. 3. Marco Boschini, La carta navegar pitoresco, edited by
Anna Pallucchini, Venice/Rome, Istituto per la collaborazione culturale, 1966,
p. 280. 4. Ibid., p. 4. 5. Gilles Deleuze, Francis Bacon: The Logic
of Sensation, trans. Daniel W. Smith, London, Continuum, 2003, p. 7. 6.
Sartre quoted in Lepschy, p. 189. 7. Boschini, p. 150.Tintoretto was too
good an artist for his time’s uses; he still clamors for a proper role, seeking
affirmation, four centuries later. This thought came to me as whimsy, and
stayed as conviction, at the Prado, in Madrid, which has just opened the
second-ever retrospective (the first was in Venice, in 1937) of Jacopo Comin, who
was also known as Robusti, and called Tintoretto, or “Little Dyer,” after his
father’s profession. Tintoretto (1518-94) is the most mercurial of the five
undisputed immortals of Venetian painting—the others being Bellini, Giorgione,
Titian, and Veronese—and I was eager to see the Prado show, because I have
never managed to get a satisfying fix on him. How could someone so great, able
to summon the world with a brushstroke, be so inconsistent in style, and, on
occasion, so awful? Stupefyingly prolific, Tintoretto garnished the walls,
ceilings, altars, exteriors, and even the furniture of Venice, performing
commissions for free when that was what it took to edge out a rival. (He was
not popular with his fellow-artists.) He brought off one of the world’s largest
paintings—“Paradise” (1588-92), in the Ducal Palace, which, at seventy-two feet
long and twenty-three feet high, is so vast as to be essentially unseeable—and
perhaps history’s most sustained demonstration of sheer painterly talent,
brimming the Scuola Grande di San Rocco, between 1564 and 1588, with pictures
whose profusion and intensity burn the most concerted effort of looking to
ashes. But he and his populous workshop also perpetrated some of the grimmest
daubs—murky and slack—that you ever rushed past with a shudder. I realized, too
late, that my puzzlement was a warning. Now I feel that I have acquired a
brilliant, neurotic, exhausting friend who enjoins me to undertake on his
behalf campaigns that he bungled when their conduct was up to him. Nothing
inferior taxes the eye at the Prado, which augments the cream of Tintorettos in
European and American collections with a few loans from Venice, where hundreds
of his paintings—including his greatest works, such as “The Miracle of the
Slave” (1548)—reside immovably in churches, palaces, and galleries. The show
more than overcomes doubts about presuming to assess the artist outside his
home town, which he is known to have left just twice, briefly, in his life. The
well-restored canvases, shown in good light, sparkle and blaze. Some make
plungingly deep space with muscular figures of different sizes; your mind
provides perspective that the artist didn’t deign to chart. Others array action
on intersecting diagonals, along which someone is apt to be arriving from
somewhere at terrific speed. (There is an old line that Tintoretto invented the
movies; his ways of enkindling routine scenarios, with thrilling visual rhythms
that seem to unfurl in time, endorse it.) He drew with his brush, light over
dark—so that shadings came first, imparting a sumptuous density to forms that
are hit with highlights like spatters of sun. He is supposed to have said that
his favorite colors were black and white, but he could be every bit the
startling and seductive Venetian colorist when a commission required it. With
abject competitive fury, he was not above imitating the grand dragon of the
Venice art world, Titian, and his designated successor, Veronese. “As a
matter of fact, he almost never takes the liberty of being himself unless
someone builds up his confidence and leaves him alone in an empty room,”
Jean-Paul Sartre wrote in a 1957 essay, “The Venetian Pariah.” For Sartre,
Tintoretto is an avatar of existential anguish, who was both behind his time—as
the last native-born master on a scene ruled by a cosmopolitan élite—and ahead
of it, as the ideal artist for a rising bourgeoisie that was too intimidated by
the pomp of the ducal republic to recognize itself in his demotic trashings of
aristocratic decorum. Intellectuals of the era, while in awe of Tintoretto’s
gifts, scolded him for being too fast, careless, and insolent; when Vasari
credited him with “the most extraordinary brain that the art of painting has
ever produced,” it wasn’t meant as unalloyed praise. (Vasari also called him
the medium’s “worst madcap.”) As a boy, Tintoretto is said to have
entered Titian’s workshop as an apprentice but was thrown out after a few days,
having either frightened the master with his aptitude or irked him with his
personality; at any rate, Titian’s attitude toward him was plated with
permafrost. Little is known of Tintoretto’s subsequent training. His earliest
surviving work, from the early fifteen-forties, is anti-Titianesque—radically
sculptural and draftsmanly, embracing Central Italian influences. Then
something happened which the art historian Alexander Nagel compares to the
bluesman Robert Johnson’s “going down to the crossroads and coming back with
scary new powers.” “The Miracle of the Slave,” made for the Scuola Grande di
San Marco, electrified Venice. Its unprecedented range of spatial, chromatic,
and kinetic effect suggested a synthesis of “the disegno of Michelangelo and
the coloring of Titian”—a contemporaneous formula, often cited, for ultimate
greatness in painting. He was roundly hailed, though Pietro Aretino, Titian’s
literary ally, added a caveat about his lack of “patience in the making.”
Commissions came in bunches to the new hero, but solid status skittered out of
reach. He compensated by striving to engulf the town. Meanwhile, Titian
refused to slacken his grip on preëminence, let alone die. When he finally
expired, at the age of eighty-eight or so, in 1576, it brought Tintoretto no
peace. Though he was now, by general consent, Italy’s leading painter, he
responded with pictures as flailingly ambitious and various as ever. Three from
the late fifteen-seventies triumph in as many styles. In “The Rape of Helen,”
the hauntingly lovely captive languishes in the corner of a churning land-sea
battle scene, with scores of figures, ranging in size from huge to tiny, which
you can all but hear and smell. In “Tarquin and Lucretia,” the naked, lividly
fleshy protagonists struggle at the edge of a bed, toppling a sculpture and
breaking a necklace that rains pearls. The woman’s right hand seems to extend
from the canvas, as if to be grasped by a rescuing viewer. (The Baroque, which
took hold two decades later, with Caravaggio, can seem an edited ratification
of tendencies already developed by Tin-toretto.) “The Martyrdom of St. Lawrence”
is a sketchy and fierce nightmare of death by roasting, with an anticipatory
whiff of Goya. Tintoretto strongly influenced El Greco, blazed trails for
Rubens, and fascinated Velázquez, who acquired his paintings for Philip
IV. “What is a Tintoretto?” the art historian Robert Echols asks in the
show’s catalogue. The answer might be almost anything touched with genius and a
strange, thorny, dashing humor. Tintoretto was reported to be a witty man who
never smiled. What is his “Susannah and the Elders” (1555-56) if not a grand
lark? A luxuriant, glowing nude sits outdoors, surrounded by a glittering
still-life of jewelry and implements of beauty, and is ogled by dirty old men
(one pokes his bald pate, at ground level, practically out of the canvas) from
behind a hedge that forms part of a corridor-like recession into the far
background. There are distant little ducks, and the rear end of a stag. But the
picture’s form is too disorienting to sustain any particular response,
including amusement. The backstage space outside the hedge ignores the unity of
the central perspective, bespeaking a world that rolls away in all directions,
indifferent to pocket realms of mythic anecdote. The effect is stirring and
confusing. “Who is Tintoretto’s viewer?” strikes me as the really compelling
question. No other great artist before modern times, in which shifting
contingency affects every enterprise, seems less certain of whom he is
addressing, and why. It might as well be you or me as some cinquecento ingrate,
and, if we happen to think of people we know who may be interested, the artist
encourages us to contact them without delay. ♦La tesi di fondo di questo saggio
è che l’orizzonte problematico entro il quale si muove da sempre la pittura
faccia tutt’uno con le questioni dell’immagine e che la tradizione occidentale,
soprattutto nella riflessione sulla storia dell’arte, abbia incentrato la sua
atten- zione sul problema dell’immagine senza tenere conto in genere dei suoi
aspetti iconici. Già Tommaso d’Aquino aveva posto in questi termini tale
problema: l’immagine può essere considerata come og- getto particolare, o come
immagine di un altro; nel primo caso l’og- getto è la cosa stessa che al
contempo ne rappresenta un’altra, nel secondo l’aspetto dominante è ciò che
l’immagine rappresenta. Sem- bra dunque che rispetto a un’immagine l’attenzione
si rivolga o al- l’immagine in se stessa – all’immagine come fine – o a ciò che
l’im- magine rappresenta – all’immagine come mezzo 1. A diversi secoli di
distanza un pensatore della statura di Witt- genstein riproporrà con forza il
problema dell’immagine che, a par- tire da una prospettiva iniziale fortemente
improntata a concezioni logico-raffigurative, si andrà via via sempre più
delineando all’inter- no della sua riflessione come un problema di natura
estetica. Così egli scrive nelle Ricerche filosofiche: «E chi dipinge non deve
dipin- gere qualcosa – e chi dipinge qualcosa non deve dipingere qualcosa di
reale? – Ebbene, qual è l’oggetto del dipingere: l’immagine di un uomo (per
esempio), o l’uomo che l’immagine rappresenta?» 2. Tut- tavia Wittgenstein
porta il problema alle estreme conseguenze: «Se paragoniamo la proposizione con
un’immagine, dobbiamo tener con- to se la paragoniamo con un ritratto
(un’esposizione storica) o con un quadro di genere. E tutti e due i paragoni
hanno senso. Se guar- do un quadro di genere, esso mi ‘dice’ qualcosa, anche se
io non cre- do (mi figuro) neppure per un momento che gli uomini che vedo
rappresentati in esso esistano realmente, o che uomini in carne e ossa si siano
davvero trovati in questa situazione. Ma, e se chiedessi: ‘Al- lora, che cosa
mi dice?» 3. La risposta di Wittgenstein suona: «‘L’im- magine mi dice se
stessa’ vorrei dire. Vale a dire, ciò che essa mi dice consiste nella sua
propria struttura, nelle sue forme e colori» 4. Ponendo la questione in tali
termini tuttavia Wittgenstein non in- 7 tende affatto contrapporre
un’immagine intesa come ‘ritratto’, il cui scopo sarebbe quello di indirizzare
l’attenzione dell’osservatore esclu- sivamente su ciò che essa rappresenta, e
un’immagine intesa come ‘quadro di genere’, il cui fine sarebbe quello di
presentare la «sua propria struttura» e le «sue forme e colori». Del resto,
continua Wittgenstein nello stesso paragrafo, «(Che significato avrebbe il
dire: ‘Il tema musicale mi dice se stesso’?)». Il fatto è che per Wittgenstein
queste due modalità dell’immagine: immagine intesa come mezzo e immagine intesa
come fine, sono tra loro connesse, tanto da formare un unico concetto di
‘immagine’. Che il problema vada inteso e ap- profondito in questi termini, lo
chiarisce lo stesso Wittgenstein, af- frontando in alcuni paragrafi successivi
la questione relativa al «com- prendere una proposizione»: «Noi parliamo del
comprendere una proposizione, nel senso che essa può essere sostituita da
un’altra che dice la stessa cosa; ma anche nel senso che non può essere
sostituita da nessun’altra. (Non più di quanto un tema musicale possa venir
sostituito da un altro.) Nel primo caso il pensiero della proposizione è qualcosa
che è comune a differenti proposizioni; nel secondo, qual- cosa che soltanto
queste parole, in queste posizioni, possono esprime- re. (Comprendere una
poesia)» 5. E subito dopo aggiunge: «Dunque qui ‘comprendere’ ha due
significati differenti? – Preferisco dire che questi modi d’uso di
‘comprendere’ formano il suo significato, il mio concetto del comprendere» 6.
Wittgenstein sottolinea in questo modo che i due tipi di com- prensione –
quella che potremmo chiamare ‘logica’, nel senso che il pensiero espresso dalla
proposizione può essere riformulato in modi diversi, rimanendo lo stesso, e
quella che potremmo definire ‘esteti- ca’, caratterizzata invece dal fatto che
il suo ‘tema’ non può essere riformulato in altro modo, come esemplifica il
caso del ‘tema musica- le’ o della ‘poesia’ – sono imprescindibilmente connessi
tra loro in un concetto unitario. È la stessa interconnessione che Wittgenstein
aveva rilevato in relazione all’immagine. Il fatto è che quel particolare tipo
di immagine che l’opera d’arte costituisce può rimandare all’altro da sé,
soltanto in quanto in primo luogo rimanda a se stessa, ‘dice se stessa’; può
essere ‘rappresentazione’ dell’altro, solo in quanto è ‘pre- sentazione’ di se
stessa. Di conseguenza, ciò che nell’opera viene rap- presentato riceve la sua
‘unicità’, la sua ‘specificità’, è insomma pro- prio ‘questo’, grazie al fatto
che l’immagine lo rappresenta, lo ‘dice’, secondo le sue ‘linee e colori’. Così
questo qualcosa di ‘unico’ può e anzi deve essere visto come qualcosa che,
seppure da sempre presen- te sotto i nostri occhi, appare come se lo vedessimo
per la prima vol- ta e, proprio per questo, non può che procurarci stupore e
meravi- glia. Scrive a questo proposito Wittgenstein: «Non pensare che sia cosa
ovvia il fatto che i quadri e le narrazioni fantastiche ci procura- 8 no
piacere, tengono occupata la nostra mente; anzi, si tratta di un fatto fuori
dell’ordinario. (‘Non pensare che sia cosa ovvia’ – questo vuol dire:
Meravigliatene, come fai per le altre cose che ti procurano turbamento [...])»
7. Già nel Tractatus Wittgenstein aveva affermato che «La tautologia segue da
tutte le proposizioni: essa dice nulla» 8, volendo con ciò sot- tolineare il
fatto che ogni proposizione dice, rappresenta qualcosa solo in quanto in primo
luogo è una tautologia, ossia ‘dice nulla’, e tale tautologicità della
proposizione è ciò che la proposizione ‘mostra’ in ciò che dice. Secondo
Wittgenstein il carattere logico della proposizio- ne in quanto immagine 9 è
dato dal suo essere ‘rappresentazione’ di qualcosa, ossia dal suo rinviare a
qualcosa d’altro da sé. In questo con- siste, sempre secondo Wittgenstein, la
«fondamentalità» della logica, giacché «se segno e designato non fossero
identici rispetto al loro pie- no contenuto logico, allora vi dovrebbe essere
qualcosa d’ancora più fondamentale che la logica» 10. E tuttavia Wittgenstein
si rende con- to che «Nella proposizione qualcosa dev’essere identico al suo
signi- ficato, ma la proposizione non può essere identica al suo significato,
dunque in essa qualcosa dev’essere non identico al suo significato» 11. Questo
qualcosa di ‘non-identico’, vale a dire di differente, tra la proposizione, o
l’immagine, e il qualcosa che viene rappresentato o detto, è ciò che esse
mostrano o ‘presentano’. Tale presentazione, nel suo costituire la condizione
interna al rappresentato, è anche ciò che dà a quest’ultimo il suo carattere di
unicità, ossia di individualità, che sfugge a ogni previsione logica, vale a
dire a ogni identificazione nel già-saputo; ciò che fa, in definitiva, del
rappresentato qualcosa di non-previsto e di non-saputo, qualcosa che nell’opera
d’arte trova il suo luogo esemplare. E, se la logica «è prima del Come, non del
Che cosa» 12, allora «Il miracolo per l’arte è che il mondo v’è, che v’è ciò
che v’è» 13. C’è dunque per Wittgenstein qualcosa di più fondamentale della
logica 14. La rappresentazione logica infatti implica qualcosa che si mostra,
che si manifesta e nel manifestarsi resta ‘altro’ dalla visibilità della
rappresentazione stessa. Così, nel presentare se stessa, l’imma- gine manifesta
l’altro del visibile, del rappresentabile: quell’altro che si rivela nel
visibile, nascondendosi a esso. Se questo è il tratto carat- terizzante
l’icona, allora possiamo affermare che le riflessioni di Witt- genstein
sull’immagine si riferiscono non all’immagine come ‘copia’ della realtà, bensì
all’immagine intesa appunto come ‘icona’. Non a caso, se per Wittgenstein il
silenzio, sul cui tema si ‘chiude’ il Tracta- tus, non può dirsi, giacché esso
mostra sé, è proprio l’icona che ha a che fare con l’irrappresentabile, con ciò
che resta sempre altro rispet- to a ogni determinazione logica e
rappresentativa. Ciò che nell’opera d’arte ‘si presenta’ sfugge alla nostra
cono- 9 scenza e alla rappresentazione. Non è stata l’arte ‘astratta’ a
mettere per prima in opera la ‘presentabilità’ del pittorico di contro alla sua
‘rappresentabilità’, dal momento che il rapporto tra presentazione e
rappresentazione appartiene all’essenza stessa dell’immagine. È pro- prio della
natura dell’immagine infatti il suo presentarsi sempre chiu- sa e insieme
aperta, opaca e insieme trasparente, vicina e insieme lon- tana: nell’offrirsi
all’occhio, essa cattura il nostro sguardo. È necessa- rio tornare, al di qua
del visibile rappresentato, alle condizioni stes- se dello sguardo, della
presentazione. È questo il non-sapere che l’immagine manifesta, e tuttavia tale
non-sapere non è una condizio- ne privativa, una mancanza, ma piuttosto una
condizione positiva, come positivo è il ‘Niente’ dei quadri suprematisti di
Malevicˇ. Si trat- ta dell’esigenza di qualcosa che costituisce l’altro del
visibile, il suo al-di-là e che non va pensato come l’Idea platonica, dal
momento che questo altro del visibile è nel visibile stesso. Così l’iconoclastia
del Quadrato bianco di Malevicˇ annuncia non la fine dell’arte, ma ciò che
l’arte deve essere, per essere tale, arte appunto. Nell’opera d’arte qualcosa è
rappresentato e si offre alla vista, ma qualche altra cosa nello stesso tempo
ci guarda, ci ri-guarda. Ciò si- gnifica che la visione si divide, si lacera,
nel suo stesso interno, tra vedere e guardare, tra rappresentazione e
presentazione. Nella visibi- lità del quadro è in opera qualcosa che non si
lascia cogliere e che, come l’oblio, resta sempre altro rispetto a ciò che
possiamo ricorda- re. È come se l’immagine fosse nello stesso tempo
rappresentazione di ciò che ricordiamo e presentazione di ciò che abbiamo
dimentica- to; per questo nell’immagine la rappresentazione deve essere pensa-
ta sempre con la sua opacità. In particolare nell’icona cogliamo l’assenza di
ogni immagine, in- tesa come rappresentazione logica: è questa l’ ‘astrazione’
dell’icona, astrazione come sarà intesa, teorizzata e messa in opera da tanta
par- te della pittura del Novecento. Quello che l’icona mostra non è di-
scorsivamente esprimibile e, se essa può far valere la propria impre-
scindibile implicazione di senso di contro alla critica iconoclastica, è perché
mostra l’inesprimibile in quanto inesprimibile. È proprio que- sta
paradossalità dell’icona a permettere di superare l’iconoclastia, per la quale
non può che porsi l’alternativa schiacciante tra un asso- luto realismo e un
assoluto silenzio. L’icona è la «porta regale», come voleva Florenskij,
attraverso la quale si manifesta l’invisibile e si tra- sfigura il visibile: in
essa non c’è né imitazione, né rappresentazione, ma comunicazione tra questo e
l’altro mondo. Così nell’icona la di- mensione epifanica finisce per coincidere
con la sua dimensione apo- fatica. Da questo punto di vista si può dire che i
problemi posti dal- l’icona siano gli stessi problemi che si ritroveranno nella
contempo- ranea problematica dell’‘astrazione’. 10 L’arte astratta fa
appello all’occhio spirituale, ossia allo sguardo, e ciò comporta il rifiuto
della tradizionale distinzione soggetto-ogget- to, dal momento che l’oggetto è
in tale prospettiva un soggetto che ci cattura proprio mentre lo guardiamo. Già
Kandinskij con la nozio- ne di ‘composizione’ intende superare sia gli stati
d’animo del sogget- to che l’oggetto come fenomeno naturale, per dare luogo a
una pit- tura «iuxta propria principia», nella quale lo stesso limite estremo,
la tela bianca o il silenzio, non significhi la ‘morte dell’arte’, ma la ra-
dicale ‘presentazione’ di quella possibilità dalla quale ogni arte pren- de le
mosse: l’essenza o, per dirla con Heidegger, l’origine dell’arte stessa. In
Kandinskij l’astrattismo non è vuoto decorativismo. Al con- trario,
l’astrattezza del segno, la sua non-rappresentatività, è la mani- festazione
della sua «risonanza interiore», ossia della sua «spiritua- lità». La
concezione dell’arte di Kandinskij è intessuta della connes- sione di
interiorità e astrazione, e una componente essenziale di tale astrazione è il
«misticismo». Già la mistica tedesca medievale affer- mava, con Meister Eckart,
che, come Dio agisce al di là del mondo dell’essere, così l’anima, che è in
grado di rappresentarsi le cose che non sono presenti, opera nel non-essere;
un’analoga operazione com- pie il pittore astratto, che nientifica il mondo
naturale delle cose, dando vita a un mondo di entità non-oggettive, inesistenti
e tuttavia reali. Così nel principio di Kandinskij della «necessità interiore»
si riflette la natura mistica del procedimento astratto di costruzione di
un’opera che viene sottratta alla dipendenza delle cose esistenti. Que- sto
rimando a un agire interiore dà luogo a un non-oggetto che, ana- logamente a
quanto avviene nella mistica, mostra un diverso modo d’essere delle cose
rispetto a quello della loro forma reale. L’eman- cipazione da qualsiasi
dipendenza diretta dalla natura, della quale parla Kandinskij, è la riduzione
delle cose naturali al non-essere. Di conseguenza, la necessità interiore di
Kandinskij, che costituisce il tratto essenziale della sua pittura astratta, si
pone come ‘altro’ rispet- to al mondo delle cose, e quest’ultimo trova in essa
la sua unità e il suo senso. Del resto per Kandinskij, come per Wittgenstein,
il misticismo riguarda «Non come il mondo è [...], ma che esso è» 15; esso
consiste nel «Sentire il mondo quale tutto limitato» 16. Ciò significa dunque
che la totalità del visibile ha un limite: lo ‘sguardo’ delle cose, ossia la
loro spiritualità. ‘Astrazione’, d’altro canto, è proprio questo visi- bile
limitato dal manifestarsi in esso di ciò che visibile non è: è sen- tire il
non-visibile nel visibile, è cogliere la differenza nell’identità.
Nell’astrattismo il segno mostra se stesso, nel senso che non riman- da
all’altro fuori di sé, all’oggetto, ma all’altro che è nel segno senza essere
tuttavia esso stesso segno. Così l’astrattismo rifiuta il significato 11
del segno e nello stesso tempo ne esalta il senso, che si mostra nel segno
ritraendosi da esso. Non c’è dunque alcun contenuto, alcun significato
manifesto dell’immagine, ma questa è l’espressione di un «contenuto interiore»:
è questo a rendere il segno ‘astratto’, proprio nel suo presentarsi come
‘evento’. In definitiva, se il cubismo ha in- franto la totalità, lasciando
solo frammenti, la composizione di Kan- dinskij mira non a ricomporre tale
totalità, bensì a ‘presentare’ il sen- so, facendo risuonare il «contenuto
interiore» del frammento stesso. Se lo ‘spirituale nell’arte’ di Kandinskij,
come il suo concetto di composizione, è interno al problema dell’icona, altrettanto
lo è il «mondo senza oggetto» del suprematismo di Malevicˇ. L’opera su-
prematista infatti ha un’intenzione iconica: non esprime una perdita, ma una
presenza, la presenza dell’‘altrimenti che essere’. Di qui quella dimensione
apofatica, propria dell’icona in genere e del suprematismo di Malevicˇ in
particolare, che, in opposizione ai presupposti dell’ico- noclastia – tesi a
identificare la verità con la rappresentazione logico- discorsiva – mostra la
verità che contiene in sé la propria negazione: la docta ignorantia è la
testimonianza di tale inesprimibile coincidenza. Per questo nel colore
suprematista, come nell’icona, non c’è alcuna ‘finzione’. L’essere di Malevicˇ
non è l’essere secondo la necessità, ovvero secondo il concetto, ma è l’essere
come evento: è qualcosa che si la- scia riconoscere solo al momento del suo
apparire e, in quanto even- to, l’essere è l’altro, poiché non è soggetto ad
alcuna identificazione: è l’essere così, che potrebbe anche non essere; in
questo senso, affer- ma Malevicˇ, l’essere è il ‘Nulla’, ovvero il «che», lo
spazio parados- sale proprio dell’opera d’arte, del tutto indipendente dal
pensiero logico. Questo «che» è negazione del significato, inteso come signi-
ficato logico, è negazione della rappresentazione, come rappresenta- zione
logica e nello stesso tempo è affermazione del senso, in quan- to condizione
dei significati possibili 17. Il «che» non può essere rico- nosciuto in
relazione ad altro, ma solo per se stesso, e tuttavia por- ta in sé l’alterità,
la differenza. Nel non significare nulla al di là di se stesso, l’evento – il
«che» – è assolutamente singolare: accade sem- plicemente, si dà, si mostra,
non come un mero oggetto per un sog- getto. Esso è il manifestarsi di qualcosa
che, presentando se stessa, presenta l’altro, vale a dire si presenta come
l’altro dell’essere oggetto di rappresentazione possibile. Per raggiungere
infatti questo essere, che è il Nulla, Malevicˇ è uscito dal mondo degli
oggetti e delle rap- presentazioni, aprendo uno spazio ‘assoluto’, in quanto
spazio del- l’‘altro’. Così l’astrazione di Malevicˇ è il liberarsi dalla
rappresentazio- ne per la presentazione: è questa l’autentica iconoclastia che
rivela il profondo legame del suprematismo di Malevicˇ con l’icona. 12 E,
se nel suo «mondo senza oggetto» il segno non è rappresenta- zione di qualcosa,
ma rivela l’altro, ovvero il Nulla – in quanto Nulla di rappresentabile e di
dicibile – questo Nulla non è da intendersi come nichilismo: non indica il
silenzio, la fine della pittura, ma espri- me la consapevolezza che si deve
continuare a dipingere perché il Nulla si riveli. È questa la radicalità della
pittura di Malevicˇ. A differenza di quella di Malevicˇ, l’opera di Mondrian
presenta uno spazio la cui assolutezza assume un preciso significato: tutto ciò
che è, è perché si dà solo spazialmente. Per questo in Mondrian il se- gno non
nasconde e in esso non ha luogo alcun ‘ritrarsi’; al contra- rio, nel segno si
mostra l’essenza, l’Idea, e non a caso egli definisce l’astrattismo come la
sola «arte concreta». In definitiva: nella pittura di Mondrian non si manifesta
alcun ‘altro’, né alcun «contenuto in- teriore»; essa si risolve totalmente
nella superficie del quadro, ossia in un piano assolutamente bidimensionale,
nel quale non c’è alcuna fin- zione di profondità, ma ci sono soltanto linee in
rapporto ortogonale che, tautologicamente, ‘dicono se stesse’. Così, se la
‘composizione’ di Mondrian è volta a ricostituire la totalità, tale
ricomposizione si dà proprio e solo all’interno della rappresentazione
pittorica, rappresen- tazione ‘assoluta’, in quanto indipendente da qualsiasi
riferimento ad altro da sé. L’arte di Klee, pur interrogandosi su problemi non
del tutto dis- simili, muove in direzione opposta rispetto a quella di
Mondrian. Se infatti quest’ultimo vuole abolire l’elemento soggettivo –
definito «tragico» – in nome dell’oggettività, Klee invece indaga proprio la
presenza del mondo nel soggetto. L’oggettività di Mondrian è il ri- fiuto del
mondo, in quanto particolarità e contingenza; Klee, al con- trario, non cerca
una realtà più vera di quella sensibile, non cerca cioè una realtà fissa e
immutabile, retta da leggi eterne, fuori dalla storia. Ciò a cui tende l’opera
di Klee è ‘frugare’ nel profondo, nel- la vita sotterranea, immergendosi nel
divenire delle cose stesse, nel- la genesi dei mondi possibili. Il compito
dell’artista è infatti, a suo giudizio, quello di ritornare sulla creazione,
portando avanti e tentan- do le vie di realtà possibili. Klee, in definitiva,
non vede nel mondo qualcosa di già-concluso, ma ne ripercorre la genesi, e tale
genesi si riferisce al sorgere della realtà nella percezione e quindi al
costituirsi dell’essere in significa- to. I presupposti di tutto ciò vanno
rintracciati nel fatto che è pro- prio sul piano della percezione che il mondo
non si configura come l’insieme delle cose già date, ma come un continuo
generarsi. Così l’immagine di Klee «richiama alla memoria» 18 possibilità
diverse, so- miglianze e dissomiglianze, e queste trovano la loro ragione sul pia-
13 no dell’agire del pittore, che non prende le mosse da una logica pre-
fissata, ma genera continuamente forme via via che procede, muoven- dosi
appunto tra somiglianze e differenze. I processi di formazione di Klee sono
questa sorta di «somiglianze di famiglia» – ancora una vol- ta nell’accezione
wittgensteiniana – e, in quanto tali, escludono la de- finitività di ogni
forma. Non a caso nell’opera di Klee la genesi dei mondi possibili riguarda
l’essenza stessa della pittura: si tratta di mo- strare l’apparire di qualcosa
che nessuna logica ha pre-visto, qualcosa che viene all’esistenza, apportando
un «aumento di essere» 19 rispetto a tutte quelle altre possibilità che
comunque sono presenti nel qua- dro come possibilità simultanee. Klee ha
disvelato così l’essenza dell’opera d’arte: quest’ultima non è la
rappresentazione di un fatto del mondo, ma è un evento nel qua- le si manifesta
la possibilità di molteplici determinazioni del mondo, senza che tale
possibilità sia riconducibile ad alcun principio logico di identità e di
non-contraddizione. A ben vedere dunque tale evento, che l’opera costituisce,
altro non è che il darsi del contingente, del ciò che è così ma poteva essere
diversamente, in quanto condizione della stessa necessità logica che regola ciò
che nel mondo è già-dato; si trat- ta di quel «che» – che si dia questo mondo e
non un altro – il qua- le, come afferma Wittgenstein, precede quella logica che
presiede al «come» del mondo. Si tratta insomma di quel senso che è la condi-
zione dei tanti significati possibili: l’opera è la presentazione del darsi di
questo senso, e non la rappresentazione del suo configurarsi come significato
dato, di un senso che si può dunque soltanto sentire, stan- do al suo interno e
non contemplare dall’esterno. Per questo la pit- tura di Klee ha il suo luogo
d’elezione nel cuore stesso della creazio- ne, lì dove hanno origine tutte le
cose. 1 Sul problema dell’immagine e del segno in genere nella riflessione
filosofica medievale, si veda A. Maierù, «Signum» dans la culture médiévale, in
“Miscellanea Mediaevalia”, Veröf- fentlichungen des Thomas-instituts der
Universität zu Koln, Walter de Gruyter, Berlin – New York 1981; Id., Signum
negli scritti filosofici e teologici fra XIII e XIV secolo, di imminen- te
pubblicazione. 2 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1968, §
518 (ed. or. Philoso- phische Untersuchungen, Blackwell, Oxford 1953). 3 Ivi, §
522. 4 Ivi, § 523. 5 Ivi, § 531. 6 Ivi, § 532. 7 Ivi, § 524. 8 L. Wittgenstein,
Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1968,
5.142 (ed. or. Tractatus logico-philosophicus, London 1922). 9 Nel Tractatus
infatti i due termini si equivalgono, dal momento che «La proposizione è
un’immagine della realtà» (ivi, 4.01). 10 Ivi, p. 87. 14 11 Ivi, p. 103.
12 Ivi, 5.552. 13 Ivi, p. 189. 14 Vedi su questo G. Di Giacomo, Dalla logica
all’estetica. Un saggio intorno a Witt- genstein, Pratiche Editrice, Parma
1989. 15 L. Wittgenstein, Tractatus..., cit., 6.44. 16 Ivi, 6.45. 17 Si veda in
proposito E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano 1992,
in part. pp. 245-270. 18 L’espressione è usata nel senso del Wittgenstein delle
Ricerche filosofiche, §§ 89,90. 19 H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani,
Milano 1983, pp. 168-196 (ed. or. Wahr- heit und Methode, J. C. B. Mohr (Paul
Siebeck), Tübingen 1972).Giuseppe Di Giacomo. Giacomo. Keywords: l’inspiegabile,
aura; ‘impiegatura como spiegatura dell’inspiegabile” sensibile, imagine,
icona, segno segnante segnato presentazione rappresentazione contenente
contenuto formante formato, Tintoretto, Sartre, Venezia. -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Giacomo: impiegatura come spiegatura dell’inspiegabile” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758320754/in/dateposted-public/
Grice e Giametta – il volo d’Icaro e l’implicatura di Sanctis –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Frattamaggiore). Filosofo. Grice: “Giammetta is a good’un, but you gotta
be an Italian to appreciate him fully, or at least have gone to Clifton, as I
did!” -- Grice: Giametta’s philosophy is
full of Italianateness: ‘il volo d’Icaro,’ and then there’s his ‘Croceian
heterodoxies,’ and most Italianate of all, the Dantean reference to Nisso,
Chiron, and Folo in the “Inferno”! Sublime!” Cura Nietzsche a Firenze. Ha
scritto saggi di critica "eterodossa" su Croce. Cura Cesare. È anche
romanziere, estraneo a scuole o correnti, con storie dalla forte valenza
filosofica e morale; attitudine
stilistica: la prosa di Giametta pare quella di un centauro: sorprendente
incontro di letteratura e filosofia. Nella
"Trilogia dell'essenzialismo" (composta da “Il Bue squartato” -- L'oro prezioso dell'essere e Cortocircuiti),
elabora un proprio sistema di filosofia erede del naturalismo rinascimentale.
L’Essenzialismo è una nuova filosofia, fondata esclusivamente sulla natura,
intesa nei suoi due aspetti, sia come “naturans” (cf. Grice, implicans,
implicaturus) sia come “naturata” (cf.
Grice implicatum, implicatura, implicaturus, implicata). Grice: “The problem:
‘is ‘naturare’ a good verb?’ --. L’essenzialismo descrive la condizione umana
come determinata dalla combinazione di due elementi eterogenei: dall’essenza di
tutto ciò che esiste, che è divina, e dalle condizioni di esistenza, che sono
spesso fin troppo diaboliche, a cui sono sottoposte tutte le creature. Il con-temperamento
di questi due elementi (essenza ed esistenza), diverso in ogni individuo,
spiega le ragioni per cui si afferma o si nega la vita, si è ottimisti o
pessimisti...". Alter opera: “Oltre
il nichilismo” (Tempi moderni, Napoli); “Poeta e filosofo” (Garzanti, Milano); Palomar,
Han, Candaule e altri. Scritti di critica letteraria, Palomar, Bari Nietzsche e
i suoi interpreti. – cfr. ‘Grice interprete di se stesso” – “Erminio; o, della
fede. Dialogo con Nietzsche di un suo interprete. Spirali, Milano); “Saggi
nietzschiani” (La Città del Sole, Napoli); “Croce” (Bibliopolis, Napoli); “Il mondo”
(Palomar, Bari); “Madonna con bambina e altri racconti morali, BUR, Milano);
“Commento allo Zarathustra” Mondadori Bruno, Milano); “Filosofia come dinamita”
BUR, Milano), “Croce, il pazzo” (La Città del Sole, Napoli); “Eterodossie
crociane” (Bibliopolis, Napoli); “La caduta di Icaro” (Il Prato, Padova); Introduzione
a Nietzsche. Opera per opera, BUR, Milano, Il bue squartato e altri macelli. La
dolce filosofia, Mursia, Milano. L'oro dell'essere. Saggi filosofici, Mursia,
Milano. Cortocircuito e implicatura -- Mursia, Milano. Adelphoe, Unicopli,
Milano. Il dio lontano, Castelvecchi, Roma); “Tre centauri, Saletta dell'Uva,
Napoli. Filosofi, Saletta dell'Uva, Napoli. Una vacanza attiva, Olio Officina,
Milano. Grandi problemi risolti in piccoli spazi. Codicillo dell'essenzialismo;
Bompiani, Milano. Colli, Montinari e Nietzsche, BookTime, Milano. Capricci
napoletani. Pagine di diario (Marco Lanterna), OlioOfficina, Milano; “Il colpo
di timpano, Saletta dell'Uva, Napoli); “Dio impassibile” (Babbomorto, Imola.
Contromano, BookTime, Milano. Il bue squartato e altri macelli, Mursia, Milano. La passione della conoscenza. Pensa
Multimedia, Lecce,. Marco Lanterna, Le grandi oscurità della filosofia risolte
in lampeggianti parole. Marco Lanterna, Contributo alla critica di Sossio (in
Giametta, Capricci napoletani, OlioOfficina, Milano ). Friedrich Nietzsche Arthur Schopenhauer
Giorgio Colli Mazzino Montinari. DE SANCTIS, Francesco. - Nacque il 28
marzo 1817 a Morra Irpina (oggi Morra De Sanctis, in prov. di Avellino), al
centro di. una zona che fino a dieci anni prima era stata tutta feudale e di
cui gli antichi feudatari ancora sfruttavano la scarsa ricchezza boschiva,
mentre il potere era gestito direttamente dal clero e dai piccoli o medi
proprietari terrieri, anch'essi strettamente legati alla Chiesa sul piano
economico -, sociale e Politico. In questo ambiente il D. trascorse solo i
primi nove anni, ma esso costituì sempre per lui un punto di riferimento,
perché sempre egli lo ebbe presente come "polo reale" e, insieme,
come "polo negativo" della storia: la realtà da cui partire e
rispetto alla quale operare per tutte le conquiste del "progresso"
(morale, culturale, civile). La famiglia De Sanctis apparteneva a quel
ceto di piccoli proprietari del Sud che produceva i preti, gli avvocati e i
pochi medici. Avvocato era il padre del D., Alessandro (1787-1874), che però
viveva del reddito della sua piccola proprietà, prima ampliata attraverso un
"buon matrimonio" locale con Maria Agnese Manzi (1785-1847), poi
progressivamente sempre più dissestata; preti i due zii Carlo e Giuseppe;
medico lo zio Pietro (ed anche per costui la qualifica professionale servì
soltanto a sostenere l'orgoglio del ceto dei "galantuomini"). Come
molti esponenti del "galantomismo" meridionale, don Giuseppe e Pietro
De Sanctis avevano aderito alla carboneria (in funzione patriottica e
antifeudale): dopo aver partecipato ai moti carbonari del 1820-21, vissero in
esilio per dieci anni, serbando intatto lo spirito antiborbonico, ma non il
patrimonio. L'altro prete, invece, don Carlo, fece fortuna in Napoli come
titolare di una stimata "scuola di lettere" (un ginnasio
privato). Nel 1826 il D. fu trasferito come ospite ed allievo presso lo
zio Carlo. Dai "ricordi" del D. (La giovinezza) si può ricavare
l'elenco delle discipline da lui studiate, con fortissimo impegno, per tutta la
durata del corso quinquennale tenuto dallo zio ("Grammatica, Rettorica,
Poetica, Storia, Cronologia, Mitologia, Antichità greche e romane" e
inoltre "l'Aritmetica, la Storia Sacra, il Disegno"), nonché una
serie di notazioni sul metodo d'insegnamento tutt'altro che critico e
innovativo ("Un grande esercizio di mernoria era in quella scuola, dovendo
ficcarsi in mente i versetti del Portoreale, la grammatica di Soave, le Storie
di Goldsmith, la Gerusalemme del Tasso, le ariette del Metastasio; tutti i
sabati si recitavano centinaia di versi latini a memoria"). Poiché i
cinque anni di studi "letterari" avevano un completamento canonico in
due anni di studi "filosofici", nel 1831 fu iscritto alla scuola di
don Lorenzo Fazzini, matematico e fisico illustre, di dichiarate convinzioni
sensistiche. Per due anni, perciò, egli visse immerso nello studio di
"Locke, Condillac, Tracy, Elvezio, Bonnet, Lamettrie", o del
Genovesi, ma (e questo è un tratto molto importante, destinato a rimanere come
atteggiamento mentale) nell'ottica "moderata" che era propria sia
dell'ambiente familiare sia del maestro ("Il professore diceva che il
sensismo en una cosa buona sino a Condillac, ma non bisognava andare sino a
Lamettrie e ad Elvezio .... Voltaire, Diderot, Rousseau mi parevano
bestemmiatori, avevo quasi paura di leggerli"). Lo stesso amalgama di
aperture progressiste e di scarsa chiarezza ideologica fu nell'esperienza
successiva (quella degli studi giuridici), in un'altra scuola privata, dove
(con l'abate Garzia) il D. imparò ad apprezzare soprattutto i codici
napoleonici, aprendosi così alla dialettica giuridica liberale. Questi studi
avrebbero dovuto rappresentare il punto d'arrivo di tutto il lavoro precedente
(poiché, scartata una primitiva ipotesi di carriera ecclesiastica, si pensava
di far di lui un avvocato), ma a determinare una diversa scelta di vita
intervenne una grave malattia dello "zio Carlo", in seguito alla
quale il peso della scuola cadde sulle fragili spalle del D. diciottenne, ed
egli divenne fonte di sostegno economico per la sua numerosa famiglia (dopo la
morte della primogenita Genoviefa, restavano ben cinque tra fratelli e sorelle,
che sempre in qualche modo gravarono su di lui, con molte preoccupazioni e ben
poche gratificazioni affettive o sociali). Un altro avvenimento, questo
di qualche anno prima (1833), aveva preparato nel D. tale mutamento di
interessi e di scelte: il suo ingresso nella "scuola di lingua
italiana" del marchese Basilio Puoti: di un "maestro", cioè, che
rappresentava in quel momento uno dei punti di riferimento più vivi della
cultura napoletana e che presto prese a stimarlo, ad amarlo e a guidarlo. Ed è
in ambito puotiano che nascono i primi scritti a stampa del D.: la sua
volgarizzazione di un brano dell'Eudemia di Giano Nicio Eritreo (Discorso
contro gl'ippocriti), apparsa nel 1835 sul Tesoretto, e la Dedicatoria (sua e
del cugino Giovannino) al Puoti dell'edizione (da entrambi curata) del
Volgarizzamento delle Vite de' santi Padri di D. Cavalca e del Prato spirituale
di Feo Belcari (1836). Non è da qui però che si può ricavare l'immagine
complessiva di ciò che egli era alla fine del suo corso ufficiale di studi e all'inizio
del suo primo magistero. Certo, la competenza grammaticale e testuale e
la sensibilità alle cose della lingua (alla lingua come sistema formale in cui
penetrare con il rigore dell'intelligenza, della scienza e del gusto) erano
allora e restarono per sempre una componente molto importante del D. studioso e
maestro (questo va ribadito, anche per opporsi a una troppo lunga
sottovalutazione critica dell'eredità puristica attiva all'interno della
metodologia critica desanctisiana); ma dalla sua precedente esperienza
culturale egli aveva ricavato anche un complessivo eclettismo nozionistico e
ideologico, un evidente taglio "settecentesco" nell'impostazione del
sapere e in più una vastissima pratica di letture, che egli sottolinea con
forza nella Giovinezza e che si riverbera in tutta la sua opera. Ricostruendo
dai suoi "ricordi", risulta che il D., diciottenne, aveva letto con
profondo coinvolgimento (oltre a tanti latini, greci, filosofi, storici e
giureconsulti) un'incredibile quantità di classici italiani maggiori e minori,
dai trecentisti a Metastasio, e poi Parini, Alfieri, Verri, Monti, Foscolo,
Manzoni, Berchet, Leopardi, e Fénelon e Voltaire, Young e Scott (ma la zona
"moderna" ed "europea" andava rapidamente allargandosi: a poco
più di venti anni, il suo patrimonio di lettura spaziava con sicurezza da
Shakespeare a Richardson, da Milton e Klopstock a Chateaubriand, Lamartine e
Hugo). La professione dell'insegnamento diventò per il D. definitiva
(grazie all'intervento del marchese Puoti) nel 1838-39, più o meno
contemporaneamente nel settore della scuola pubblica (prima alla scuola dei
sottufficiali; poi, dal 1841, al Collegio militare della Nunziatella,
prestigiosa accademia militare borbonica) e in quello privato (con la
"scuola di Vico Bisi", che il Puoti aprì per lui, affidandogli
all'inizio i suoi allievi più giovani, poi di fatto - a grado a grado - la sua
stessa funzione docente). A quest'ultima esperienza (di cui restano importanti
documenti nei Quaderni discuola e una vasta rievocazione nella Giovinezza) si
attribuisce, per tradizione ormai consolidata, la definizione di "prima
scuola" del De Sanctis. Ma sarebbe forse più giusto comprendere nella
definizione l'esperienza didattica complessiva del decennio 1838-48: il
decennio che consacrò il successo indiscusso del D. maestro, il quale intanto
(nelle diverse fasi della sua frenetica attività) metteva a punto il suo metodo
e il suo atteggiamento critico, mentre andava costruendo intorno a sé rapporti
affettivi e intellettuali che sarebbero rimasti centrali in tutta la sua vita,
e mentre andava maturando fondamentali scelte ideologiche, filosofiche,
politiche. I numerosi Quaderni di scuola, che documentano il primo
insegnamento desanctisiano, furono in massima parte scritti dagli alunni sotto
dettatura del maestro e finalizzati a raccogliere il "succo" dei
diversi corsi di lezioni, rispetto ai quali si configuravano come veri e propri
libri di testo costruiti in parallelo con l'esperienza scolastica. Si tratta,
perciò, di una testimonianza ampia e diretta del suo progressivo evolversi (a
stretto contatto con la cultura del proprio tempo) dal purismo e
dall'illuminismo moderato fino all'hegelismo, attraverso l'eclettismo, il
neocattolicesimo, la partecipazione alla temperie vichiana e a quella dello
storicismo romantico. In vista della loro funzione manualistica, i quaderni
sono divisi secondo le "materie d'insegnamento" della scuola (alcune
presenti fin dall'inizio, altre introdotte successivamente, come lo stesso D.
testimonia nella Giovinezza). La grammatica fu l'insegnamento originario della
scuola, ma i quaderni "grammaticali" più importanti che ci restano
appartengono agli ultimi anni e si configurano perciò come approdo della
ricerca desanctisiana in materia (con l'acquisizione dello storicismo
romantico, del giobertismo, di Hegel). I più antichi tra i quaderni in nostro
possesso sono quelli di Lingua e stile (1840-41), dove, dopo una serie di
precetti di radice puristico-illuministica (con forte incidenza della
"grande Enciclopedia" e in particolare di D'Alembert), troviamo
documentato il primo impatto con il pensiero romantico tedesco (in particolare
con F. Schlegel) e tracciata la prima sintesi di storia della letteratura
italiana ("Sviluppo della letteratura italiana"). Questa ha già
alcune caratteristiche che resteranno immutate nel D. maggiore (si muove in
ambito postilluministico, con grande attenzione all'Europa e al presente
letterario, ma presenta come modello privilegiato di scrittore
"contemporaneo" il Manzoni, con un'accentuazione del punto di vista
neocattolico, che andrà attenuandosi in seguito). Una lunga storia della poesia
è nei quaderni dedicati alla Lirica (1841-42), in cui l'approdo è rappresentato
dal Leopardi; i quaderni sul Genere narrativo (1842-43) hanno le loro fonti in
Villemain, Sismondi, Voltaire, F. e A. W. Schlegel. Un salto di qualità
notevolissimo si avverte nei corsi del 1843-44 (Estetica) e del 1844-45
(Estetica applicata), in cui l'esigenza di definire teoricamente i problemi
dell'arte trova un sicuro sostegno nelle teorie estetiche di Gioberti, mentre
Hegel fa la sua apparizione nel corso di Storia della critica (1845-46), che
introduce una più stimolante rivisitazione della lirica. Nei due anni
successivi egli presenta ai suoi allievi l'Estetica di Hegel nella traduzione
francese di Ch. Bénard. Alla luce dei nuovi principî affronta inoltre l'esame
della Letteratura drammatica (1846-47), soffermandosi a lungo sulle opere di
Shakespeare. Dell'ultimo anno di scuola (1847-48) ci resta anche un quadernetto
di Storia e filosofia della storia, che ha come punti di riferimento costanti
Vico, Sismondi, Hegel e che aiuta a chiarire il senso dei "compendi"
(autografi) della Storia d'Inghilterra di Hume e della Storia civile del Regno
di Napoli di Giannone. Questo blocco di materiali storiografici conferma il
livello criticamente e ideologicamente molto avanzato della ricerca
desanctisiana alla fine della "prima scuola", attestando una visione
laica della storia, un rigoroso rifiuto di ogni astrattismo e una forte
rivendicazione della "concretezza" in ogni ambito d'analisi, nonché
una chiara assunzione di metodo hegeliano in direzione progressista.Negli
entourages di Puoti, della Nunziatella, della sua stessa scuola (e delle altre
che dopo il 1830 fiorirono a Napoli, inaugurando il clima
"filosofico" vichiano-hegeliano), il D. aveva finito per trovarsi al
centro dell'intellettualità progressista napoletana, non si sa fino a che punto
compromettendosi con le frange estremistiche di essa. Fatto sta che molti
giovani della sua scuola si schierarono a combattere sulle barricate del maggio
1848 (dove fu ucciso quello che era certamente il più colto e il più
ideologizzato fra tutti: Luigi La Vista) e che dopo quella data il D. fu in
qualche modo implicato in una setta segreta rivoluzionaria di ascendenza
musoliniana, l'Unità italiana, e in un attentato per il quale, tra gli altri,
furono condannati a morte L. Settembrini e C. Poerio ("Si facevano i più
matti deliri: porre una mina sotto Palazzo Reale pareva un gioco ... Fu la prima
volta e sola che fui in convegni segreti"). "Espulso", perciò,
dalla Nunziatella e da "ogni altra scuola anche privata" (come
recitano i rapporti della polizia borbonica, che cominciava ad interessarsi di
lui), nel 1849 il D. si rifugiò in Calabria presso un noto e attivo
"patriota", il barone Francesco Guzolini, in casa del quale fu
arrestato il 3 dic. 1850 con l'accusa di essere "uno dei principali
agenti" della "setta diretta da G. Mazzini e da Ledru-Rollin".
Trasferito a Napoli e rinchiuso in Castel dell'Ovo, subì due anni e mezzo di
"carcere duro", e fu infine giudicato politicamente molto pericoloso
("attendibilissimo") e perciò bandito dal Regno e imbarcato per gli
Stati Uniti (3 ag. 1853). 1 suoi allievi-amici napoletani (in particolare A.C.
De Meis e D. Marvasi, a quel tempo già in esilio) lo aiutarono a sbarcare a
Malta, per raggiungere il Piemonte, inserendosi nell'allora foltissima schiera
degli illustri esuli politici ivi rifugiatisi (tra i meridionali, sono da
ricordare: B. Spaventa, R. Bonghi, P. S. Mancini, S. Tommasi, M. d'Ayala, G.
Nicotera, E. Cosenz). Gli scritti del periodo calabrese e della prigionia
rappresentano la punta massima della "spinta a sinistra" che segnò il
pensiero desanctisiano a partire dal 1848. In Calabria furono elaborati due
saggi (Introduzione all'Epistolario di G. Leopardi e Sulle opere drammatiche di
F. Schiller), in cui l'interpretazione dei testi esita in senso fortemente
politico (sia Leopardi sia Schiller segnano la fine di un'epoca, quella
dell'individualismo, dalla quale va nascendo un'epoca nuova -
dell'"Umanità" - impegnata in senso sociale). In Calabria fu
probabilmente impostato anche un dramma in prosa, il Torquato Tasso, terminato
negli anni di prigionia (il modello più vicino è quello goethiano; il linguaggio
è leopardiano; evidente è l'identificazione personale-politica dell'autore con
l'intellettuale perseguitato). Negli stessi anni il D. studiò la lingua tedesca
e se ne servì sia per tradurre il Manuale di una storia generale della poesia
di K. Rosenkranz, sia per leggere in lingua originale la Logica di Hegel, che
ridisegnò in una serie di Quadri sinottici (praticamente una sintesi completa
dell'intera opera). Ma il testo più interessante elaborato in Castel dell'Ovo
(nel 1850-51) è certamente La prigione: un carme di 256 endecasillabi sciolti
(l'unica prova poetica, se si esclude qualche poesia d'occasione), che
rappresenta il punto massimo di "giacobinismo" realizzato dal D., con
il rifiuto e la denuncia di ogni metafisica (un'inversione fortissima rispetto
al neocattolicesimo degli anni della "prima scuola"), e con una
proposta politico-ideologica chiaramente ispirata all'interpretazione "di
sinistra" della filosofia di Hegel. Fortissima è anche la svolta di
atteggiamento nei confronti del Leopardi: all'immagine sentimentalistica e
scettica divulgata nel clima del primo romanticismo napoletano si sostituisce
un'immagine combattiva e materialistica del poeta di Recanati (che offre, del
resto, il modello stilistico e strutturale all'intero carme. costruito come
storia metaforica del pensiero umano, in rivolta per la libertà, contro la
tirannia, l'oscurantismo, l'ingiustizia sociale). A Torino il D. rimase
dal settembre 1853 al marzo 1856, in un vitale rapporto d'amicizia con De Meis
e Marvasi e con B. Spaventa, ma molto isolato rispetto al potere politico e
culturale. Il suo unico lavoro fisso fu, allora, l'insegnamento dell'italiano
nell'istituto femminile della signora Eliott (dove si verificò un episodio
d'innamoramento - per la giovanissima Teresa De Amicis - che riempirà
d'illusioni e di malinconie gli anni successivi); ma ebbe anche alunni privati
dal nome prestigioso (come Virgina Basco - futura destinataria del Viaggio
elettorale -, Ainardo di Cavour, Luigi di Larissé). L'esperienza centrale del
periodo torinese si realizzò, tuttavia, attraverso due corsi di "lezioni
pubbliche" su Dante (1854 e 1855): conferenze organizzate dai suoi amici
per soccorrerlo "nella dignitosa povertà dell'esilio" e che di fatto
lo rivelarono alla cultura italiana. Nel 1855 egli prese a collaborare
alle appendici letterarie: sul Cimento di Torino pubblicò alcuni saggi
fondamentali, vero e proprio punto d'arrivo della sua critica
"militante". E allo stesso anno risale anche il primo episodio di
giornalismo politico della sua vita: la pubblicazione, sul Diritto di Torino,
di una serie di interventi contro il "murattismo" (cioè contro
l'ipotesi di una sostituzione "diplomatica" della dinastia borbonica
di Napoli con la discendenza di Gioacchino Murat), che rappresenta la prima fase
di avvicinamento del D. alla monarchia sabauda (questa viene proposta come
unico possibile strumento di unificazione della nazione, in un'ottica di
"patriottismo costituzionale" cui, in seguito, egli resterà sempre
sostanzialmente fedele). Nel 1856, sempre per interessamento dei suoi
compagni d'esilio, fu finalmente gratificato di un importante incarico pro-
fessionale: l'insegnamento della letteratura italiana presso l'Istituto
universitario politecnico federale di Zurigo, dove rimase fino al 1860. Gli
anni di Zurigo furono anni di nostalgia e di isolamento (anni di réve, com'egli
stesso diceva), ma produssero almeno due conseguenze molto importanti:
l'elaborazione di lezioni che sarebbero rimaste come una pietra miliare della
sua ricerca critica (soprattutto su Dante, Petrarca e la poesia cavalleresca) e
il contatto con ambienti culturali e politici di vera e propria avanguardia in
Europa (Wagner e Matilde Wesendonck, Moleschott, gli Herwegh, Burckhardt,
Vischer, ecc.) che egli ebbe modo di conoscere e di valutare criticamente (per
esempio, prendendo le distanze dall'irrazionalismo di Wagner e di Schopenhauer
molto prima che le mode irrazionalistiche toccassero l'Italia, o cercando di
capire i limiti concreti del ribellismo dei mazziniani quando Mazzini era
ancora un mito in Italia). Dei corsi danteschi di Torino non restano
manoscritti, ma ciascuna lezione fu ricostruita su appunti di allievi (Marvasi,
D'Ancona), in vista di una non mai realizzata pubblicazione in volume. Le
conferenze torinesi (undici di argomento teorico, diciannove dedicate
all'Inferno, cinque al Purgatorio) sviluppano presupposti romantico-hegeliani,
con particolare riguardo ai problemi dell'"unità" e della
"forma" del poema di Dante. Nell'esaltazione "passionale"
dell'Inferno, emergono le grandi figure alla cui analisi è legata la fama
popolare del D. dantista (Farinata, Francesca, Ugolino) e si afferma il taglio
monografico che sarà proprio dei maggiori saggi desanctisiani. Semplificando la
materia dei corsi, e prolungandola fino a percorrere tutta la Divina Commedia,
il D. insegnò Dante a Zurigo dal 1856 al 1859 (anche di queste lezioni ci resta
la ricostruzione da appunti). Da tale lavoro deriva tutto ciò che egli pubblicò
successivamente su Dante e sul suo tempo (ivi compresi i capitoli della Storia,
che ne tesaurizzano le idee-forza), ma i risultati metodologici più avanzati da
lui raggiunti negli anni d'esilio sono testimoniati dai contemporanei scritti
giornalistici (che furono poi pubblicati, a partire dal 1866, tra i Saggicritici).
Il Pier delle Vigne (1855) è addirittura una lezione torinese trascritta, per
LaNazione di Firenze, da A. D'Ancona: la celebre lettura del canto esalta i
"grandi caratteri" e le "grandi passioni" dei personaggi e
ne analizza le sfumature, le "situazioni", i contrasti; il saggio La
Divina Commedia(versione di Lamennais), anch'esso del 1855, dichiara la fine
dell'antico metodo retorico e il rifiuto del metodo "storico" di
oscuola francese"; quello intitolato Carattere di Dante e sua utopia
(1856) individua il "centro" della grandezza poetica di Dante nella
sua "anima di fuoco" in cui "si riverbera l'esistenza in tutta
la sua ampiezza". Il punto d'arrivo della ricerca zurighese (molto più
problematica di quanto appare nelle lezioni) è suggerito nel saggio del 1857
Dell'argomento della Divina Commedia, che afferma da una parte il rifiuto del
sistema e dall'altra la validità degli strumenti d'analisi hegeliani, a stretto
contatto col testo letterario (un approdo, in sostanza, per il D.
definitivo). Negli scritti letterari d'argomento contemporaneo o
d'occasione (destinati a giornali torinesi e anch'essi in massima parte
raccolti poi nei Saggi), il D. esplicò, negli anni d'esilio, il suo impegno
"militante", ma sempre a stretto contatto con i problemi di metodo
critico che sono al centro dell'insegnamento dantesco. Il più esplicitamente
politico di questi saggi è L'ebreo di Verona (febbraio 1855), che consacrò, a
livello nazionale, la sua fama di polemista laico e liberale (l'autore del
romanzo, il gesuita A. Bresciani, ignorando le conquiste del cattolicesimo
manzoniano, ripropone la religione in funzione antiliberale e antiprogressista:
il suo ruolo storico, dopo la sconfitta del '48, è "aggiungere i suoi
colpi codardi alle mannaie del carnefice"). La militanza critica passa
sempre attraverso una precisa idea (romantico-hegeliana o posthegeliana) della
letteratura. In Satana e le Grazie (1855) essa è espressa con molta chiarezza:
di fronte al poemetto di G. Prati "la fantasia rimane inerte: il cuore riman
freddo", perché "in questo lavoro non vi è creazione e quindi non vi
è fantasia ... Prati ha una viva immaginazione, e per questa facoltà è forse il
primo poeta di second'ordine che sia oggi in Italia"; del resto, i suoi
testi poetici hanno tutti i limiti e i difetti della "declamazione
rettorica". E questa non è un difetto esclusivo degli scrittori moderati:
essa è condannabile anche quando sia posta al servizio delle più ardite analisi
politiche, come nella Beatrice Cenci di F. D. Guerrazzi (1855), avvolta nel
"vecchio repertorio" delle "metafore" e dei "luoghi
comuni". C'è un solo poeta italiano che abbia attinto i livelli della
"grande poesia" nel mondo moderno, dice in un importantissimo saggio,
e questo è Leopardi. Il saggio s'intitola Alla sua donna. Poesia di G. Leopardi
ed è, probabilmente, lo scritto leopardiano più importante del D., che, con
parametri schilleriani e byroniani, traccia qui una straordinaria immagine di
poeta laico, interprete della civiltà contemporanea perché capace di farsi
"critico e filosofo" e di far "scintillare" la poesia dalla
"meditazione". Ma, a parte l'eccezione leopardiana, il clima del
presente letterario fa temere un ritorno alla identificazione tra poesia e
retorica (Sulla mitologia - Sermone di V. Monti, 1855). A questa pericolosa
tendenza il D. oppone la difesa di Alfieri contro i critici francesi
contemporanei (Veuillot e la Mirra, Giulio Janin, Janin e Alfieri, Vanin e la
Mirra), ed evidentemente questa polemica ha un profondo retroterra politico: la
rivalutazione della fase "eroica" del classicismo settecentesco,
nella cultura "rivoluzionaria" dell'intera Europa. Perciò questa
rivalutazione riguarda anche Foscolo (Giudizio del Gervinus sopra Alfieri e
Foscolo e "Storia del secolo decimonono" di G. G. Gervinus, 1855) e
la polemica colpisce anche un critico come A. de Lamartine ("Cours
familier de littérature" par M. de Lamartine, 1857). Nello stesso ambito
il modello di V. Hugo viene proposto come sostanzialmente positivo (Triboulet e
"Le contemplazioni" di V. Hugo, 1856) ed è possibile perfino il
recupero di un classico manierato come Racine, perché capace di creare dei
grandi personaggi drammatici (La "Fedra" di Racine, 1856). In questo
ambito, infine, si configura una delle prime, ma già precise professioni di
"realismo" del D. critico (Saint-Marc Girardin, 1856): "Il
sentimento astratto non è poesia, non è cosa vivente ... La poesia dee
riprodurre la realtà "vivente" ... Il poeta dee rappresentarci un
uomo vivo", perché questo, in quanto tale, "ègià un perfettissimo personaggio
poetico". La progressiva conquista di un punto di vista
"realistico" con cui guardare al testo letterario è registrata dai
ricchi appunti che ci restano (a cura di V. Imbriani) delle lezioni zurighesi
sul Poema epico. Proprio in questa sede il D. usa per la prima volta il termine
"realismo" (ancora nuovo nella critica francese più avanzata da cui
lo deriva), mentre ribadisce il rifiuto del "sistema" hegeliano come
strumento di critica letteraria e conferma la validità degli strumenti
d'approccio al testo ricavabili dall'estetica hegeliana. Il messaggio
filosofico più complessivo, nell'ultima fase del suo esilio e del suo vitale
contatto con le avanguardie europee, fu affidato dal D. al dialogo Schopenhauer
e Leopardi (1858). Anche questo testo ha una struttura leopardiana (ispirata
alla provocatoria ironia delle Operette morali), ma s'interessa a Leopardi solo
nell'ultima parte, dedicando molto spazio all'illustrazione del pensiero di
Schopenhauer, indicato come il liquidatore di un'epoca (quella "dell'Ottantanove",
"del Trenta", "del Quarantotto") che egli considera
"un'illusione, o piuttosto ... una imbecillità generale". La
filosofia di Schopenhauer è, perciò, "nemica della libertà, nemica
dell'idee, nemica del progresso"; in politica, egli ripropone "lo
Stato monarchico, la nobiltà, il clero, i privilegi", nega la libertà di
stampa e odia Hegel come "corrompiteste" (la moda di Schopenhauer in
Europa è, in sostanza, un grave sintomo di regresso storico: la sua tardiva
riscoperta equivale a un'abiura di tutto il progressismo europeo). A prima
vista, il rifiuto dell'ottimismo ideologico accosta Leopardi a Schopenhauer;
ma, in realtà, c'è tra i due una vera e propria opposizione, e Leopardi è tanto
interno alla fase "eroica" (progressista e rivoluzionaria)
dell'umanità, quanto ad essa è estraneo e ostile Schopenhauer. La differenza
non è solo nel "materialismo" di Leopardi (opposto allo
"spiritualismo" di Schopenhauer) o nelle sue scelte di stile
"inamabile" (mentre Schopenhauer si affida al fascino della
retorica), ma anche e soprattutto nell'effetto di lettura che Leopardi produce
come uomo e poeta veramente "grande" (egli "non crede al
progresso, e te lo fa desiderare non crede alla libertà, e te la fa amare , è
scettico, e ti fa credente"). Dopo le speranze e le delusioni della
seconda guerra d'indipendenza, sulla scia dell'impresa dei Mille, il D. lasciò
improvvisamente Zurigo e il politecnico e ritornò a Napoli, dove svolse un
ruolo, probabilmente importante, nella mediazione che portò il "partito
garibaldino" (e lo stesso Garibaldi) ad accettare il plebiscito
"piemontese". Per nomina di Garibaldi, appunto in fase di
preparazione del plebiscito annessionistico, fu governatore della provincia di
Avellino e si mostrò attivissimo organizzatore del consenso politico, della
guardia nazionale locale, della lotta al banditismo (che era già esploso
violento in Alta Irpinia, recuperando antiche radici sanfediste). Subito dopo,
fu direttore dell'Istruzione a Napoli e, in quindici giorni (tra l'ottobre e il
novembre del 1860), tesaurizzando tutte le precedenti esperienze di riforme
liberali degli studi (in particolare quella del 1848), impostò una vera e
propria rifondazione della scuola napoletana. All'università chiamò ad
insegnare illustri rappresentanti della cultura liberale (da Spaventa a
Ranieri, a Bonghi, a Imbriani, a Villari, a Mancini); in sostituzione del liceo
gesuitico istituì un ginnasio-liceo statale; per la formazione dei maestri
elementari (sua grande preoccupazione di progressista ottocentesco) deliberò
l'istituzione di scuole "normali" in tutte le province della
luogotenenza (non senza ragione, il 1860 restò per sempre nei suoi ricordi come
il periodo eroico della sua vita). Eletto deputato al primo Parlamento
nazionale unitario, fu ministro della Istruzione pubblica con Cavour e con
Ricasoli (dal marzo 1861 al marzo 1862), continuando sulla linea già tracciata
a Napoli, ma senza ripetere l'exploit del 1860, nell'ambito della troppo vasta
e ibrida realtà nazionale (in pratica, rinunciando .all'ambizione di produrre
una "legge di riforma" della scuola italiana, si limitò ad estendere
con decreti all'Italia unita la legge Casati). Ciò che resta di più indicativo
del primo periodo di attività come ministro è proprio la linea di tendenza
teorizzata nel programma iniziale e vanificata dall'opposizione dei gruppi
reazionari ("Noi abbiamo decretato la libertà in carta. Sapete, o signori,
quando questa libertà cesserà di essere una menzogna? Quando noi avremo
effettivamente uomini liberi; quando della plebe avremo fatto un popolo libero
... Provvedere all'istruzione popolare sarà la mia prima cura"). In questo
ambito si pone anche la battaglia per istituire una rete capillare di
"scuole tecniche" e "istituti professionali", nonché
l'impegno per la qualificazione degli studi scientifici (ma molto avversate
furono anche in questo campo le più importanti scelte progressiste, come quella
che portò il materialista e "rivoluzionario" J. Moleschott ad
insegnare fisiologia nell'università di Torino). Dopo questo incarico
ministeriale, pur sempre rieletto in Parlamento (con la sola parentesi di un
anno, tra il 1865 e il 1866), il D. rimase estraneo e in forte opposizione
rispetto ai nuovi gruppi di potere (le "consorterie", che vedeva via
via riavvicinarsi ai "retrivi" e ai "codini"), su una linea
mediana di progressismo monarchico e antirivoluzionario. Su questa linea si
pose il giornale L'Italia (che egli diresse dal 1863 al 1867), in appoggio al
gruppo emergente della Sinistra costituzionale, che nel 1865 ottenne proprio
nel Sud il suo primo successo elettorale. L'appassionamento garibaldino ai
tempi di Mentana, la firma del manifesto di opposizione crispina e un
importante discorso di denuncia contro il riemergere del clericalismo (in campo
ideologico, politico ed economico) segnarono, nel 1867, i punti più alti della
sua partecipazione politica. Nel 1863 aveva sposato, a Napoli, Maria
Testa dei baroni Arenaprimo, ma il matrimonio agiato (da cui non nacquero
figli) non fu sufficiente a sconfiggere la precarietà economica in cui tutta la
sua vita si svolse, né fornì uno stabile nutrimento al suo complesso bisogno di
réve e di comunicazione sentimentale. All'interno di una sempre meno
inconfessata delusione politica e personale, egli tornò, quindi, agli studi che
gradualmente ridivennero protagonisti della sua vita: dal 1866 al 1872 pubblicò
in volume i Saggi critici (dove raccolse gli scritti giornalistici
dell'esilio), il Saggio critico sul Petrarca, la Storia dellaletteratura
italiana, i Nuovi saggi critici. Il Saggio critico sul Petrarca (1869)
ripropone un corso di conferenze tenuto a Zurigo nell'inverno 1858-59, con
"pochi mutamenti" e con una "introduzione" del 1868. Esso
si articola in dodici capitoli (tre dedicati alla personalità del poeta e al
suo "mondo" culturale; gli altri strutturati come lettura tematica e
analisi del Canzoniere) ed è finalizzato a fornire un preciso punto di vista
per l'interpretazione del testo petrarchesco, sulla base della teoria elaborata
dal D. a partire dalla "prima scuola" e consolidata appunto negli
anni dell'esilio (tesaurizzazione dell'illuminismo, del romanticismo,
dell'hegelismo; rifiuto del metodo "sistematico" e dei suoi esiti
panlogistici; rivendicazione della "poesia" come "forma uscita
dal più profondo della vita reale" e come "sostanza vivente",
secondo i grandi modelli di Omero, Dante, Ariosto, Shakespeare). In
quest'ottica, Petrarca va riscoperto, pur con i limiti che la cultura romantica
ne aveva segnalato, e va rivalutato per quel che lo separa dal petrarchismo (cioè
dalla sua riduzione a modello "rettorico" e "platonico").
La "poesia" di Petrarca va, quindi, individuata in particolari
"situazioni" liriche (soprattutto nella "malinconia" e nei
momenti di "abbandono" sentimentale), pur tra gli ostacoli frapposti
dall'educazione "rettorica" e da una visione
"spiritualistica" della vita. Particolare interesse è rivolto alla
figura di Laura (cui sono intitolati quattro capitoli): Laura è "la
creatura più reale ... che il Medioevo poteva produrre", e la sua
"realtà", tutta interiorizzata nella poesia del Canzoniere, non si
spegne, ma si ravviva dopo la morte del personaggio (proprio in questa
"situazione" Petrarca tocca le sue rare punte di "poesia
sublime"). La Storia della letteratura italiana (1870-71) nacque
come testo scolastico ed è, infatti, una sintesi didattico-pedagogica di
materiali in gran parte preelaborati secondo una precisa metodologia critica
(quella appena illustrata a proposito del saggio petrarchesco) e utilizzati per
un progetto complessivo di informazione-formazione (il progetto
dell'"educazione nazionale") nel quale convergono tutte le attese (ed
anche i timori) del D. "letterato" e "politico" agli inizi
degli anni Settanta. Divisa in venti capitoli, la Storia disegna una linea di
svolgimento della letteratura italiana che va dal XIII al XIX sec. secondo il
"principio direttivo" (ufficialmente dichiarato dal D. in uno dei
suoi ultimi scritti) della "successiva riabilitazione della materia"
(di "un graduale avvicinarsi alla natura e al reale", in parallelo
con i progressi della scienza, della cultura, del costume, della vita politica,
della stessa morale). Ma la finea risulta tutt'altro che retta e univoca: sia
perché l'ipotesi del "graduale" svolgimento della storia letteraria
verso mete progressive è fortemente contraddetta dalle fasi di stasi,
d'involuzione, di "ritorno"; sia perché continuamente emergono
distanze o divaricazioni tra livello storico e livello letterario (e qui
s'innesta la forte rivendicazione della "forma" come valore specifico
del testo letterario); sia, infine, perché (in base alla predilezione per il
metodo monografico e per l'analisi testuale) il racconto della Storia alterna
lunghe soste con rapidissimi voli, grandi indugi analitici con improvvise e
fortissime elisioni. La Storia procede, perciò, per grandi nodi tematici e
testuali, muovendosi in un sistema "a spirale" di allusioni e
richiami tra fenomeni, autori, epoche, con un disinibito oscillare del
linguaggio dal familiare e dal basso all'oratorio e al patetico, non senza momenti
di carattere mimetico a ciascun livello di scrittura (sono queste, del resto,
le caratteristiche peculiari del suo composito stile). Seguendo il cammino
della Storia a partire dai primi capitoli, troviamo anzitutto ISiciliani come
"scuola poetica ... feudale e cortigiana", legata alla potenza della
corte sveva e destinata a spegnersi prima che "venisse a maturità",
radicandosi nelle "classi inferiori". Proprio questo processo di
radicamento si analizza nel ben più complesso capitolo intitolato I Toscani, ma
centrato soprattutto sulla cultura bolognese (e sulla "scienza" che
si sviluppò in senso antifeudale presso l'università di Bologna). Il punto
d'arrivo di questa storia del "mondo lirico" medievale è Dante. Il
breve capitolo dedicato a La lirica di Dante la definisce come "la voce
dell'umanità a quel tempo": Dante rappresenta (vichianamente) l'epoca
della "fantasia", ed è "la prima fantasia del mondo
moderno". Coi capitoli IV e V il discorso ritorna alle origini, per esaminare
La Prosa e I Misteri e le Visioni del sec. XIII, che esprimono "l'idea
religiosa penetrata ne' costumi e nelle istituzioni", ma che restano a
livello di fase letteraria preparatoria dell'"aureo" Trecento. A
questo secolo è dedicato un capitolo molto puotiano (attento ai Fioretti, al
Cavalca e al Passavanti. ai testi di s. Caterina da Siena e alla
"maravigliosa cronaca" di D. Compagni), che però anch'esso converge,
romanticamente, verso la grande figura protagonistica di Dante. La trecentesca
"commedia dell'anima" esprime, infatti, l'ordito culturale da cui
nascerà La "Commedia" (cap. VII), con la sua "base
ascetica" e la sua radicata abitudine alla "allegoria". Ma tutto
ciò rappresenta (secondo l'ottica tipica del D. dantista) la "falsa
poetica" attraverso e nonostante la quale Dante crea un'opera somma di
poesia (una vasta analisi del poema tende proprio a mostrare come, per virtù di
passione e di poesia, esso possa esprimere, "ancora pregno di misteri,
quel mondo che, sottoposto all'analisi, umanizzato e realizzato, si chiama oggi
letteratura moderna"). Il capitolo defficato al Petrarca (Il
"Canzoniere") è breve, ma fondamentale: Petrarca non è solo un
"artista" pieno di "grazia" e di "malinconia", ma
è il rappresentante di una nuova generazione culturale che, dopo Dante,
"volgeva le spalle al Medio Evo ... e si affermava popolo romano e
latino". In questa scelta, secondo il D., c'è una profonda ambivalenza (da
una parte c'è il "rinnovamento" inteso come nascita della coscienza
laica; dall'altra la letterarietà come "erudizione", "imitazione",
abito retorico), in cui si muoverà, per lunghi secoli, la storia della
letteratura italiana. E in un'ottica così conflittuale il Decamerone (cap. IX)
appare come "l'apoteosi dell'ingegno e della dottrina" in dimensione
laica, ma anche come espressione di un "niondo borghese" che,
liberatosi dai vincoli dello spiritualismo, non riesce ad innalzarsi, al di là
del "comico", fino alle "alte regioni dello spirito". Il
Cinquecento (cap. XII) è il secolo che vede l'arte assoldata al mecenatismo,
pur quando potrebbero porsi le condizioni storiche per un avvicinamento tra
cultura e "popolo" (ad esempio, nella Firenze medicea) e pur quando
sono già stati raggiunti grandi vertici di raffinatezza letteraria (ad es.,
nelle Stanze del Poliziano, cap. IX). Infine il Seicento, simboleggiato dal
Marino (cap. XVIII), produce in letteratura "idilli" ed
"elegie", "voluttà" e "musica", mentre
l'intellettuale italiano si fa "estraneo al movimento della cultura
europea e a tutte le lotte del pensiero", stagnando "in un
classicismo e in un cattolicesimo di seconda mano". Nell'arco fra '300 e
'600, e sempre in chiave antifrastica, sono tanti gli episodi letterari che il
D. analizza, e ad alcuni, comunemente ritenuti minori, dedica interi capitoli:
a F. Sacchetti il cap. X (L'ultimoTrecento), a La Maccaronea il cap. XV, a
Pietro Aretino il cap. XVI. L'opera dell'Ariosto (L'Orlando furioso, cap. XIII)
è esaminata secondo i parametri zurighesi: inserita nella serialità storica,
essa si propone come "sintesi dell'intero Rinascimento", mentre
l'"ironia" e il "riso scettico" di Ariosto si manifestano
espressione di un "secolo adulto" (cioè divenuto capace di critica e
ormai maturo per la libertà "borghese", pur nell'accettazione di fatto
della realtà "cortigiana"). T. Tasso (cap. XVII), autore-simbolo
dell'ambivalenza ideologica e sentimentale, offre l'occasione per un discorso
altrettanto ambivalente sulla Contro-riforma e sul suo significato
storico-culturale. Il poema del Tasso è lo specchio della "ipocrita"
cultura controriformistica italiana e i suoi valori letterari vanno individuati
in senso opposto rispetto a quello programmatico e ufficiale: non nella
"falsa" religiosità, ma nell'"idillio",
nell'"elegia", nella "voluttà" (Tasso è, perciò, accostato
al Petrarca, nella tradizione di storiografia politica risalente a Sismondi e
Ginguené). Ma proprio al centro dell'arco storico fra '300 e '600 c'è una punta
alta, un grande ritratto in positivo: quello di Machiavelli (cap. XV), che
riesce a costruire una valida ipotesi di "rinnovamento", sia
opponendo alla teocrazia "l'autonomia e l'indipendenza dello Stato"
("un presentimento dei nostri ordinamenti costituzionali"), sia
rinnovando il "metodo" della conoscenza, col rifiuto della
"teologia" e del principio di "autorità" (per lui "la
verità è la cosa effettuale, e perciò il modo di cercarla è l'esperienza
accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti").
Evidentemente, il ritratto di Machiavelli (liberato da tutte le riserve
moralistiche precedentemente espresse su di lui) è un caso-limite
d'interpretazione "tendenziosa" di un autore: se è scelto a
simboleggiare, all'inizio del '500, la politica e la scienza moderna, è perché
il D.-maestro che scrive la Storia nel 1870 (l'anno della presa di Roma, a cui
esplicitamente, proprio nel cap.XV, egli fa riferimento) vuol proporre ai
giovani un preciso progetto di produzione letteraria che leghi
indissolubilmente letteratura, "scienza" e politica laica (e che
indichi anche lo strumento di una lingua letteraria "precisa e concisa",
antiretorica e antimusicale, che pure a Machiavelli viene attribuita con
qualche forzatura). Nel nome di Machiavelli, dunque (anche se a distanza di 4
capitoli), si apre la parte "moderna" e propositiva della Storia, che
consiste nei due ultimi lunghissimi capitoli, intitolati La nuova scienza (cap.
XIX) e La nuova letteratura (cap. XX). Il rapporto tra essi è derivativo: la
"nuova letteratura" non potrà nascere se non dalla
"scienza", che ha come obiettivo "il progresso e il
miglioramento dell'uomo", e che ha come principale strumento la libertà
intellettuale e politica. Perciò, "i primi santi del mondo moderno"
(i primi intellettuali capaci di "lottare, poetare, vivere, morire"
per la "fede" nel progresso) furono Bruno, Telesio, Campanella,
Galilei; e poi Sarpi, Vico, Giannone; infine Beccaria e Filangieri, con alle
spalle il pensiero laico europeo, da Bacone alla Rivoluzione francese. Come
s'innesta in questo clima la "nuova letteratura"? Dopo l'affascinante
ma "superficiale" opera di Metastasio, l'innesto si realizza con la
scelta illuministica di utilizzare "cose e non parole". Il primo
autore "vero" della "nuova letteratura" è Goldoni (ma con
dei limiti di superficialità). Il primo "uomo nuovo" è Parini, e poi
vengono Alfieri e Foscolo (col Monti personaggio negativo), ma con dei limiti
negli eccessi e nelle scelte di stile retorico. L'Ottocento (pur con la sua
tensione d'impegno e di sperimentazione) non ha ancora offerto, in Italia,
modelli attendibili per il cammino da percorrere. Il nostro futuro letterario
è, perciò, incerto ma la direzione da seguire è chiara: "convertire il
mondo moderno in mondo nostro, studiandolo, assimilandocelo e trasformandolo,
"esplorare il proprio petto" secondo il motto testamentario di G.
Leopardi, questa è la propedeutica alla letteratura nazionale
moderna". Nella seconda edizione dei Saggi critici (1869) e poi nei
Nuovi saggi critici (1872) il D. inserì alcuni scritti (in gran parte composti
per la Nuova Antologia) che precedono o accompagnano la stesura della Storia e
che nei confronti di essa risultano in diverso modo illuminanti. Il più antico
è Una "Storia della letteratura italiana" di C. Cantù (1865), che,
recensendo l'opera appena pubblicata, la denuncia come fondata su
"pregiudizi" e "superficiale dottrina" e su valori che
nulla hanno a che fare col letterario (perciò l'inevitabile sottovalutazione di
autori come Machiavelli, Ariosto, Leopardi, Alfieri, Giusti, Berchet, cui si
contrapporrà, appunto, la Storia desanctisiana). Fondamentale, per chi indaghi
sulla genesi della Storia, è il saggio Settembrini e i suoi critici (1869), in
cui il D. condanna il grave limite del contenutismo radicale settembriniano,
così come aveva condannato il contenutismo cattolico-moderato del Cantù, ed
afferma che una vera storia della letteratura dovrebbe essere un lavoro
interdisciplinare (con contributi di "filosofia, critica, arte, storia,
filologia") al quale la cultura italiana non è ancora attrezzata
(risalendo queste considerazioni al periodo iniziale di stesura della Storia,
esse dimostrano la problematicità del D. nei confronti della sua opera
maggiore, e la profonda consapevolezza della "parzialità" di essa).
Più collegati alla componente ideologica "positiva" della Storia
risultano L'"Armando" di G. Prati e L'ultimo dei puristi del 1868.
Nel primo si denuncia la fine dei "tempi sentimentali" e si afferma,
per il presente, la necessità di un impegno tutto reale e concreto ("il
materialismo è uscito trionfante dal seno stesso del mondo hegeliano" e impone
la "serietà della vita terrestre"); nel secondo, la stroncatura di un
purista attardato (F. Ranalli) dà luogo a una attenta e intelligente
rievocazione del Puoti e della sua scuola, che fu "bandiera" di
"libertà, scienza, progresso, emancipazione" nei primi decenni del secolo,
ma che (a parte il valore sempre vivo del "metodo" puotiano) esaurì
il suo ruolo storico alla vigilia della fase rivoluzionaria del '48 (al
presente, ogni nostalgia puristica risulta storicamente e politicamente
ingiustificata). Anche i grandi saggi danteschi del 1869 (Francesca da Rimini,
Il Farinata di Dante, L'Ugolino di Dante) nacquero in margine alla Storia, sia
come ripresa del tema-Dante (e, in particolare, delle riflessioni zurighesi),
sia come esempio di quel lavoro di "monografia" che il D., all'epoca,
considerava storicamente e scientificamente più valido delle
"sintesi". I personaggi danteschi prediletti dalla cultura romantica
ed hegeliana sono letti rispettivamente in chiave di "amore" e
"pietà femminile" (Francesca), orgoglio politico (Farinata),
complessità e profondità di sentimenti antinomici (Ugolino), nell'ambito di
un'attenta, colta, sensibile lettura testuale (era in questo, appunto, che il
D. voleva proporsi come modello di critica "attuale",
"paziente" e costruttiva, ed è appunto questo l'aspetto dei Saggi che
va ancor oggi rivendicato). Il saggio L'uomo del Guicciardini(1869) ripropone
l'antitesi (presente anche nella Storia) fra Machiavelli, precursore del
nazionalismo moderno, e Guicciardini, il cui "particulare" rifiuta
ogni "vincolo religioso, morale, politico" (ma la vera funzione del
saggio si esplicita nell'ultima frase, di amara denuncia della situazione
politica presente: "L'uomo del Guicciardini vivit, immo in Senatum venit,
e lo incontri ad ogni passo"). Nel 1871 venne affidata al D. la
cattedra di letteratura comparata nell'università di Napoli, dove egli tenne
quattro corsi annuali, dal 1872 al 1876 (è questa l'esperienza nota come
"seconda scuola napoletana", che produsse quattro gruppi di lezioni,
rispettivamente su Manzoni, Scuola cattolico-liberale, Scuola democratica,
Leopardi). Contemporaneamente pubblicò una seconda raccolta di saggi (Nuovi
saggi critici, Napoli 1872) e inaugurò quella serie di conferenze e articoli
sugli orientamenti della letteratura contemporanea in chiave realistica che
sarebbe continuata, per dieci anni, fino alla vigilia della morte. Tra il 1874
e il 1875 realizzò un nuovo momento d'impegno politico attivo, in occasione
delle elezioni che prepararono l'avvento al potere della Sinistra costituzionale
(in particolare, nel gennaio 1875 appoggiò, con un'avventurosa campagna
elettorale, la propria candidatura - difficile e piuttosto equivoca - nella
provincia d'origine, e ne rivisse il ricordo in una serie di cronache
giornalistiche pubblicate prima sulla Gazzetta di Torino e subito dopo in
volume, col titolo Un viaggio elettorale, 1876). Al 1877 data il terzo e
ultimo episodio importante di giornalismo politico desanctisiano: ancora un
impegno battagliero, ma interno alla Sinistra (contro la gestione
trasformistica e antidemocratica del potere da parte di Depretis e Nicotera),
condotto soprattutto sulle colonne del Diritto di Roma. Nel 1878 Cairoli
riaffidò al D. il ministero della Pubblica Istruzione che egli tenne fino al
1880, riproponendo, dopo 17 anni, i problemi della "scuola di tutti"
(la "scuola per l'infanzia", la "scuola primaria", la
formazione dei maestri) e quelli dell'istruzione tecnica, in un'ipotesi di
cultura "scientifica" da sostituire alla "cultura
retorica"; ma ancora una volta fu sconfitto nei punti più qualificanti del
suo programma (la traccia più concreta che ne rimase fu l'inserimento
dell'educazione fisica tra le materie d'insegnamento: un omaggio alla
rivalutazione positivistica dell'uomo fisico). Nel 1880, colpito da una grave
malattia agli occhi, lasciò l'incarico ministeriale e dedicò i suoi ultimi anni
di vita a un lavoro di riflessione autobiografica (le Memorie che andò dettando
alla nipote Agnese) e critica (soprattutto ripresa e riorganizzazione della
riflessione petrarchesca e leopardiana). Morì a Napoli il 29 dic. 1883,
lasciando incompiuti i suoi ultimi lavori, cui, pur tra le sofferenze della
malattia, si dedicò sino alla fine. Come tutti i principali episodi
dell'insegnamento desanctisiano, anche le lezioni della "seconda scuola
napoletana" sono documentate da riassunti (redatti in genere da F.
Torraca), rivisti e ufficialmente accettati dall'autore. Il primo corso
(gennaio-marzo 1872) fu dedicato a Manzoni e rappresenta il punto d'arrivo di
una riflessione iniziata all'epoca della "prima scuola", sviluppata a
Zurigo e rimasta sempre centrale nella ricerca del D., pur senza trovare una
sistemazione editoriale. In queste lezioni le posizioni ideologiche e gli
strumenti di ricerca sono molto cambiati rispetto agli anni della "prima
scuola", ma non cambia il giudizio di valore. La grandezza del Manzoni è
identificata ora nella sua capacità di "calare l'ideale nel reale":
da lui escono tre "grandi idee critiche che hanno importanza universale":
la "misura dell'ideale", il "vero" positivo e storico, la
"forma" diretta e "popolare". Manzoni rappresenta la
massima realizzazione della letteratura "moderna" in Italia e le
"scuole letterarie" non segnano alcun progresso né sul piano
dell'arte né su quello dell'ideologia. Negli anni successivi. il D. analizzò,
appunto, lo svolgimento della letteratura in Italia a partire dal Manzoni,
dividendola (secondo una traccia già seguita da Emiliani Giudici, da
Settembrini e da altri) nei due filoni cattolico e laico, definiti rispettivamente
"scuola liberale" e "scuola democratica". Alla Scuola
liberale fu dedicato il secondo anno di lezioni universitarie (1872-73), con
risultati di giudizio fortemente militanti: l'impegno dei cattolici per
l'"educazione popolare" non offre risultati validi in arte e svolge
un ruolo (più o meno esplicito) d'insegnamento reazionario ("nuovi
Arcadi" sono Grossi, Carcano, Tommaseo, Cantú; Gioberti e Rosmini
ripropongono una dimensione "metafisica" della storia e della
politica; D'Azeglio resta attardato su una vecchia e superata immagine di
letteratura retorica). Un interessante excursus riguarda, però, la letteratura
meridionale dell'Ottocento: poeti poco noti (come D. Mauro, V. Padula, P. P.
Parzanese, N. Sole) vengono esaminati con interesse e simpatia. Il corso del
1873-74 fu dedicato alla Scuola democratica, e anche in quest'ambito il
giudizio globale è negativo: Mazzini, Rossetti, Berchet, Niccolini non possono
fornire il modello della "nuova letteratura". Si conferma così
l'esito perplesso e sostanzialmente pessimistico che caratterizza le ultime
pagine della Storia e l'affermazione del principio del
"realismo". I saggi più importanti elaborati dal D. nell'ultimo
decennio di vita riguardano, appunto, le tematiche del realismo (alcuni di essi
furono raccolti nella 2 ed. dei Nuovi saggi critici, del 1879). Dopo la
prolusione universitaria La scienza e la vita (1872), sono da ricordare:
Ilprincipio del realismo (1876), Studio sopra Emilio Zola (1878), Zola e
l'Assommoir (1879), Il darwinismo nell'arte(1883). L'assunto complessivo è che
il "realismo" auspicato dal D. non si può confondere né col
materialismo, né col positivismo, né col naturalismo di Zola (il quale, però, è
molto valido come scrittore: lo studio a lui dedicato è particolarmente vasto e
attento). La letteratura del "reale" dev'essere (cfr. Manzoni)
"l'ideale calato nel reale", e cioè una costruzione "eticac
forza morale impegnata per rinnovare la società, contro l'individualismo, la
reazione, l'autoritarismo sempre in agguato. Nell'ultima fase della sua
vita il D. non si limitò a teorizzare l'importanza e la "modernità"
del realismo in letteratura, né ad inserirsi con diversi strumenti critici
all'interno del problema per farne emergere i pericoli (o quelli che a lui
sembravano tali sul piano morale e politico), ma volle fornire delle prove
concrete di narrativa realistica, utilizzando un registro di linguaggio
"familiare", che già aveva usato nelle sue lettere alla moglie (con
estrema semplificazione sintattica e con frequenti coloriture dialettali) e
che, del resto, non era ignoto ai momenti più colloquiali della sua critica.
L'operetta narrativa che elaborò in funzione di esempio e modello fu Un viaggio
elettorale (1876): una serie di cronache del tragicomico attraversamento della
provincia natia da lui compiuto a sostegno di una candidatura politica poco
chiara e poco fortunata. Nella cronaca, il bozzettismo locale si alterna col
patetico dei ricordi d'infanzia o delle esortazioni politiche; ma il senso del
testo va ricercato più nella sua funzione che nei suoi esiti, né si può
dimenticare che nella storia del realismo italiano esso si colloca quasi in
contemporanea con Nedda (1874), quattro anni prima di Giacinta (1879), sei anni
prima dei Malavoglia (1881). Alla vigilia della morte (sempre su
materiali autobiografici e sempre in ambito di racconto dal vero in linguaggio
familiare), il D. perseguì un progetto molto più ambizioso: la stesura di
un'autobiografia, della quale, però, non riuscì a portare a termine che la
prima parte (egli l'aveva intitolata Memorie; P. Villari ne pubblicò il
frammento realizzato col titolo La giovinezza). Così come ci resta, il
frammento narra l'esperienza del D. dalla nascita fino al 1843, e consta di due
nuclei narrativi essenziali. Il primo è legato ai personaggi bozzettistici
della famiglia paesana e degli ambienti napoletani alti e bassi (preti,
professori, avvocati, ragazze da marito, giovani avventurieri, vecchie
serventi) e, al centro di essi, l'autore pone il personaggio "comico"
di se stesso, pieno di tic, di timidezze, di chiusure, di sogni. Il secondo
nucleo è legato, invece, alla formazione culturale e all'esperienza della
"prima scuola". Qui il tessuto è molto serio e impegnativo: il D.
(utilizzando ricordi, ma soprattutto vecchi "quaderni di scuola")
vuole offrire un importante contributo alla critica di se stesso, mostrando
come siano andate formandosi le linee di forza del suo metodo. In ciò la
Giovinezza non è del tutto veritiera (molti sono gli imprestiti ideologici e
teorici che il vecchio D. fa al se stesso giovane maestro di Vico Bisi), ma
resta, comunque, il fascino di un clima in cui rivivono Puoti e Leopardi, la
scoperta del romanticismo, di Vico e di Hegel, l'autoritarismo borbonico e le
utopie libertarie del primo '800 napoletano. Nell'ultimo anno
d'insegnamento all'università di Napoli (1875-76), argomento delle lezioni era
stato Leopardi: dagli appunti delle lezioni il D. ricavò, negli ultimi mesi di
vita, uno Studio su G. Leopardi, che segue il poeta nelle diverse tappe della
vita, dell'opera, del pensiero, secondo lo schema della "biografia
critica" di taglio positivistico. La biografia rimane, però, incompiuta,
chiudendosi al livello dei "nuovi idilli" (come il D. definisce i
grandi canti del 1827-29), e proprio in questo tentativo di riduzione di
Leopardi alla misura dell'idillio lo Studio è stato foriero di gravi equivoci e
fraintendimenti nella successiva critica leopardiana, mentre nell'ultimo D. si
giustifica come tentativo di leggere Leopardi in quella stessa chiave di
"realismo" che si era rivelata funzionale per il Manzoni e il suo
romanzo. Celebri, proprio in quest'ambito, le riflessioni sulle figure
femminili dell'"idillio" leopardiano ("Silvia non è questa o
quella donna; è il primo apparire della giovinezza in un cuore femminile",
ecc.); ma, a parte questo, lo Studio non aggiunge molto né alla conoscenza del
Leopardi né alla critica del De Sanctis. In sostanza, il meglio su Leopardi era
stato detto nel saggio del 1855 (ma non vanno dimenticate certe importanti
considerazioni della "prima scuola", né il ruolo interessantissimo,
problematico e antidogmatico, che Leopardi ha nelle ultime pagine della
Storia). Altri saggi leopardiani appartengono alla fase e al clima di ricerca
della Storia (La prima canzone di G. Leopardi, 1869; Le nuove canzoni, 1877; La
Nerina, 1877). In quest'ultimo, ancora un esame (forse uno dei più importanti)
della donna nella poesia leopardiana: "La vita è tutta e solo in terra...
La morte è l'altro motivo tragico di questa concezione ... Il motivo della Silvia
è lo sparire. Il motivo della Nerina è il riapparire". Lasciando da
parte la fortuna del D.-maestro (un vero e proprio appassionamento suscitato
nei giovani allievi di Napoli, Torino e Zurigo), per ricostruire la storia del
dibattito sul D. bisogna muovere da un dato obiettivo di iniziale
"sfortuna" critica: lo scarto fra i tempi della genesi dei testi
maggiori (a partire dagli anni '40) e quelli della loro pubblicazione (intorno
al '70). A causa di questo scarto, egli apparve subito come un idealista "attardato"
(e perciò più meritevole di giudizi sommari che di attenzione testuale), nel
clima di positivismo dominante in cui i suoi scritti si offrivano ad
un'interpretazione globale (per es. F. D'Ovidio era convinto che il D.
ignorasse "la pazienza della ricerca e dello studio", e G. Carducci
gli attribuiva "difetto" di "cognizione dei fatti e dei
documenti"). A sintomatico che, in un dibattito così fortemente
pregiudiziale, venisse del tutto ignorato non solo il tipo di formazione del
D., ma anche l'ultimo decennio della sua produzione, con la dichiarata opzione
"realistica" e con la forte propensione per lo scientismo. Ma proprio
a causa della pregiudizialità del dibattito di fine secolo (rilevata, fin
d'allora, da qualche attento osservatore straniero, come A. Gaspary), il D.
poté divenire, attraverso l'elaborazione crociana, lo strumento chiave per il
rilancio di un metodo critico antipositivistico e per la progressiva
riaffermazione culturale e ideologica dell'idealismo nei primi decenni del
'900. Al Croce spetta, certo, il merito di aver "costretto" la
cultura italiana a riconoscere nel D. un protagonista dell'800 (la sua
appassionata cura di editore e di studioso del D. durò per oltre mezzo secolo);
ma, contemporaneamente, Croce prese a "rielaborare" il
"pensiero" del D., fino a propome la riduzione a teoria del
"puro" gusto estetico (G. A. Borgese, che nel 1905 presentò il D.
come punto di arrivo di "tutte le esperienze della critica romantica in
Italia", fu, in realtà, uno dei primi e più autorevoli interpreti di
questa tendenza riduttiva; scarsa fortuna ebbe, d'altra parte, una proposta di
G. Gentile per un "ritorno al De Sanctis" di segno fascista).
Proprio dall'interno della scuola crociana (dai cosiddetti "crociani di
sinistra") fu prospettata, tuttavia, l'esigenza di un dibattito
diversamente impostato, volto al recupero della complessità della figura del
D.: mentre L. Russo rivendicava "il significato pedagogico ed etico"
dell'opera (1928) e la sua "intelligenza dell'arte" come
notalità" (1931), C. Muscetta sottolineava l'importanza della sua
"poetica realistica" (1931), la sua "serietà" culturale
(1934), la sua visione della letteratura come "vita morale" (1940).
Importanti, in questa fase, furono anche gli studi di W. Binni sull'"amore
del concreto" che nutrì tutta la ricerca desanetisiana e che problematizzò
i suoi rapporti con l'hegelismo (1942) e di G. Getto sulla Storia, "in cui
la letteratura era studiata nel suo autonomo valore e insieme nel suo
necessario legame con tutta la vita e la cultura" (1942). Infine,
presentando una importante antologia di scritti desanctisiani, nel 1949, G.
Contini dichiarò, a nome di un'intera generazione di studiosi, l'uscita
dall'"equivoco formalistico" della "riduzione crociana" del
D. e la necessità di tentare finalmente una comprensione filologica dei testi
desanctisiani, con tutta la loro problematicità anche irrisolta. Ma lo
spostamento ideologico dell'intero dibattito critico mosse dalla pubblicazione
dei Quaderni di Gramsci (Letteratura e vita nazionale, Torino 1950) e dalla sua
celebre affermazione che "il tipo di critica letteraria proprio della
filosofia della prassi è offerto dal De Sanctis". Da qui appunto si partì
per un'ampia verifica dell'"impegno" del D., del carattere "militante"
della sua critica, dei "saldi convincimenti morali e politici" che,
secondo Granisci, la sostanziavano: era una verifica, evidentemente, molto
correlata al bisogno della cultura d'incidere sul presente storico, dopo e
contro il "disimpegno" teorizzato, nel ventennio fascista, da
crociani e non crociani. Questo momento di dibattito produsse, fra l'altro, le
iniziative editoriali, cui si deve, oggi, la possibilità di leggere il D. su
testi di alto livello scientifico: le due collane avviate nel 1952 da Einaudi e
Laterza (e dirette rispettivamente da C. Muscetta e L. Russo) per la
pubblicazione delle "opere complete". E non a caso, negli stessi
anni, apparivano fuori d'Italia (dove la letteratura desanctisiana è
scarsissima) due importanti interventi critici: quello di R. Wellek (che nella
sua grande Storia della critica moderna del 1957 presentò il D. come autore
della "più bella storia che sia stata mai scritta di una
letteratura") e quello di P. Antonetti (che nel 1963 ne pubblicò in
Francia una documentata e intelligente biografia culturale). Né a caso, negli
anni '50-'60, furono condotte indagini nuove e approfondite sui legami tra il
D. e la cultura dell'800 (M. Mirri, S. Landucci, G. Oldrini). Alla fine
degli anni '70, in un clima culturale ancora una volta mutato, e ormai
insofferente dell'insistenza sull'"impegno politico del letterato",
si affermò l'esigenza di uscire dall'ottica di un D. modello per il presente, e
di sottolineare (accanto ai "valori" ormai definitivamente affermati)
la distanza storica e le diversità culturali che ci separano da lui. Tra gli
interpreti di questa esigenza ricordiamo A. Asor Rosa e parecchi dei
partecipanti al convegno napoletano del 1977 su "De Sanctis e il
realismo". Con maggiore cautela, le più recenti occasioni offerte dal
centenario desanctisiano (F. D. nella storia della cultura, a cura di C.
Muscetta, Bari 1983 e F. D.: un secolo dopo, a cura di A. Marinari, ibid. 1985)
si sono mosse su una linea di attenzione ai testi, di chiarificazione e
approfondimento della vasta (ancora aperta e interessante) problematica
desanctisiana, di tricollocazione" storico-culturale nel mutevole
orizzonte di cultura europea in cui tutta la sua ricerca si mosse. Il
materiale manoscritto, ormai quasi tutto edito, si trova (tranne una parte di
quello epistolare, sparso un po' in tutta Italia) a Napoli (Bibl. nazionale,
bibl. di casa Croce e bibl. del dott. F. De Sanctis Jr.) e ad Avellino (Bibl.
prov. S. e G. Capone). Restano inediti quasi solo i voll. dell'Epistolario,
relativi agli anni 1870-1883. Le raccolte degli scritti, dopo le
incomplete ediz. Cortese (1931-38) e Barion (1933-411, sono oggi quella
laterziana (Bari, negli "Scrittori d'Italia", a cura di L. Russo,
incompleta) e quella einaudiana (Torino, Opere di F. De Sanctis, a cura di C.
Muscetta, priva soltanto degli ultimi due voll. dell'Epistolario). La raccolta
laterziana comprende i seguenti voll.: La letteratura italiana nel sec. XIX, I
(A. Manzoni, a cura di L. Blasucci, 1953); II (La scuola liberale e la scuola
democratica, a cura di F. Catalano, 1953); III (G. Leopardi, a cura di W.
Binni, 1953); Storia della letteratura italiana, a cura di B. Croce 19121,
19659; Memorie, lezioni e scritti giovanili, I, a cura di F. Brunetti, 1962;
Saggio critico sul Petrarca, a cura di E. Bonora, 1954; Saggi critici, a cura
di L. Russo, 19521, 19656; La poesia cavalleresca, a cura di M. Petrini, 1954.
La raccolta einaudiana, invece, comprende: Lagiovinezza (memorie postume
seguite da testimonianze biografiche di amici e discepoli), a cura di G.
Savarese, 1961; Purismo illuminismo storicismo (scritti giovanili, frammenti di
scuola e lezioni), a cura di A. Marinari, 1975; La crisi del romanticismo
(scritti del carcere e primi saggi critici), a cura di G. Nicastro e M. T.
Lanza, 1972; Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, 19551, 19672;
Saggio sul Petrarca, a cura di N. Sapegno e N. Gallo, 1952; Verso il realismo
(prolusioni e lezioni zurighesi sulla poesia cavalleresca, frammenti di
estetica, saggi di metodo critico), a cura di N. Borsellino, 1965; Storia della
letteratura italiana, a cura di N. Sapegno e N. Gallo, 19581, 19663; La
letteratura italiana del secolo XIX, Manzoni (a cura di C. Muscetta e D.
Puccini, 1955), La scuola cattolico-liberale e il romanticismo a Napoli (a cura
di C. Muscetta e G. Candeloro, 19531, 19722), Mazzini e la scuola democratica
(a cura di C. Muscetta e G. Candeloro, 19531, 19612), Leopardi (a cura di C.
Muscetta e A. Perna, 1960); L'arte la scienza e la vita (nuovi saggi critici,
conferenze e scritti vari), a cura di M. T. Lanza, 1972; Il Mezzogiorno e lo
Stato unitario (scritti e discorsi politici dal 1848 al 1870), a cura di F.
Ferri, 1960; I partiti e l'educazione della nuova Italia (scritti e discorsi
dal 1871 al 1883), a cura di N. Cortese, 1970; Un viaggio elettorale(seguito da
discorsi biografici, dal taccuino parlamentare e da scritti politici vari), a
cura di N. Cortese, 1968; Epistolario: 1836-1856 (a cura di G. Ferretti e M.
Mazzocchi Alemanni, 1956); 1856-1858 (a cura degli stessi, 1965); 1859-1860 (a
cura di G. Talamo, 1965); 1861-62(a cura dello stesso, 1969); 1863-1869 (a cura
di A. Marinari, G. Paoloni e G. Talamo, in corso di stampa). Ottime antologie
degli scritti del D. sono quelle curate da G. Contini (Torino 1949) e da N.
Sapegno e N. Gallo (Milano-Napoli 1961). Fonti e Bibl.: Per la bibl.
delle opere e della critica, cfr. B. Croce, Gli scritti di F. D. e la loro
varia fortuna, Bari 1917 (con integrazioni di C. Muscetta, in F. De Sanetis,
Pagine sparse, Bari 1944) ed E. Pesce, Supplemento alla bibliografia
desanctisiana 1944-65, Napoli 1965. Sono da tener presenti inoltre le rassegne:
M. Tondo, La lezione di D. Rassegna degli studi dell'ultimo venticinquennio,
Bari 1976; P. Tuscano, F. D. a cento anni dalla morte, in Cultura e scuola,
LXXXVI (1983), pp. 32-45; G. Oldrini, La storiografia desanctisiana dell'ultimo
decennio, nel miscellaneo F. D. - Un secolo dopo, a cura di A. Marinari, Bari
1985. Per la biografia, vanno ricordati anzitutto i seguenti saggi
d'insieme: E. Cione, F. D., Messina-Milano 1938 e Milano 19442; F. Montanari,
F. D., Brescia 1939; P. Antonetti, F. D. (1817-1883). Son évolution
intellectuelle, son esthétique et sa critique, Aix-en-Provence 1963; E.
Croce-A. Croce, D., Torino 1964. Per gli anni della formazione, sono da tener
presenti i seguenti scritti: B. Croce, Introd. a F. De Sanctis, Teoria e storia
della letteratura, Bari 1926; A. Marinari, Introd. a Purismo illuminismo
storicismo cit., nonché Le correzioni del Puoti ai primi due discorsi di scuola
del D., in Belfagor, XV (1960), pp. 584-601; Id., Alcuni problemi di cronologia
desanctisiana, Firenze 1963 e Il giovane D. lettore di P. Giannone, in
Letteratura e critica, Studi in onoredi N. Sapegno, II, Roma 1975, pp. 643-80;
G. Savarese, Primo tempo del D. e altri saggi, Bologna 1971; P. Luciani,
L'"estetica applicata" di F. D., Firenze 1983; C. Muscetta, D. e i
generi letterari in F. D. nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta,
Bari 1983, pp. 363-84. Per gli anni della prigionia e dell'esilio, sono
indispensabili: E. Cione, F. D. dallaNunziatella a Castel dell'Ovo, Napoli
1933; B. Croce, Il soggiorno in Calabria, l'arresto e la prigionia di F. D.,
Napoli 1917 (ora in Aneddoti di varia letteratura, IV, Bari 1954); F. D. a
Torino, a cura di C. Vernizzi, Torino 1984; M. Guglielminetti-G. Zaccaria, F.
D. e la cultura torinese (1853-56) e R. Martinoni, Gli anni zurighesi
(1856-60), entrambi in F. D. nella storia della cultura cit. (dello stesso
Martinoni, cfr. anche La puzza della birra e del tabacco. Gli anni zurighesi di
F. D. [1856-60], in L'Almanacco 1983, Bellinzona 1983, pp. 112 s.); O. Besomi,
D. "in partibus transalpinis", ma non "infidelium": letture
zurighesi, in Per F. D., Bellinzona 1985, pp. 89-118. Per gli anni 1836-60 sono
da tener presenti i voll. dell'Epistolario (con le rispettive introduzioni). Lo
stesso vale per gli anni successivi (almeno fino al 1869). Per il soggiorno del
D. a Firenze, cfr. G. Spadolini, D. e Firenze capitale, in F. D. - Un
secolodopo cit., pp. 437-43. Per il D. ministro, cfr.: G. Talamo, F. D.
politico e altri saggi, Roma 1969; S. Soldani, Scuola e lavoro: D. e
l'istruzione tecnico-professionale, inF. D. nella storia della cultura cit.,
pp. 451-516; G. Ciampi, Il governo della scuola nello Stato postunitario,
Milano 1983, ad Indicem; A. Santoni Rugiu, Aspetti dell'ideologia formativa di
F. D., nonché S. Valitutti, Il pensiero e l'azione scolastica di D. ed E.
Bottasso, D. ministro e la formazione delle prime tre biblioteche nazionali
(tutti in F. D. - Un secolo dopo cit.). Per la morte e le onoranze funebri,
cfr. In memoria di F. D., a cura di M. Mandalari, Napoli 1884 (rist. anast.,
Napoli 1983, a cura della Comunità montana "Alta Irpinia"). Tra
gli studi critici di carattere generale, cfr.: B. Croce, F. D., in Letteratura
della nuova Italia, I, Bari 1956 (per gli altri scritti desanctisiani del
Croce, cfr. G. Savarese, Croce e D., in Rassegna della letteratura italiana,
CXLIV [1967], pp. 158-174; L. Russo, F. D. e la cultura napoletana, Venezia
1928 (poi Firenze 1956, ora Roma 1983); C. Muscetta, F. D., inLetteratura
italiana. I minori, IV, Milano 1962 e in Letteratura italiana. Storia e testi,
VIII, 1, Bari 1975, ibid 19854; M. Fubini, F. D. e la critica letteraria, in
Romanticismo italiano, Bari 19653; M. Mirri, F. D. politico e storico della
civiltà moderna, Messina-Firenze 1961; S. Landucci, Cultura e ideologia di F.
D., Milano 1963 (sul quale cfr. M. Mirri in Critica storica, III [1964] e la
risposta di S. Landucci, in Belfagor, XX [1965]); A. Asor Rosa, L'idea e la
cosa: D. e l'hegelismo, in Storia d'Italia (Einaudi), IV, 2, Torino 1975, pp.
850-78 e Il "diagramma De Sanctis"... e il nostro, in Letteratura
italiana (Einaudi), Torino 1982, I, pp. 22-26. Utilissime sono anche tutte le
introduzioni ai singoli volumi delle edizioni cinaudiana e laterziana. Sono da
tenere inoltre in grande considerazione le osservazioni di I. Svevo (in
Racconti. Saggi. Pagine sparse, Milano 1968, p. 800" e G. Debenedetti
(Commemorazione del D.), 1934 (ora in Saggi critici, 2a serie, Milano 1971),
nonché quelle di W. Binni (L'amore del concreto e la "situazione"
nella prima critica desanctisiana [1942], ora in Critici e poeti dal
Cinquecento al Novecento, Firenze 1951, pp. 99-116), G. Contini (Introd. a F.
De Sanctis, Scelta di scritti critici, cit.); G. Getto (Storia delle storie
letterarie, Milano 1942, ad Indicem), C. Dionisotti (Geografia e storia della
letteratura italiana, Torino 1967, ad Indicem) e R. Wellek (Storia della
critica moderna, IV, Bologna 1969, pp. 123-55). Molto ricche sono le
miscellanee: F. D. e il realismo, con Introd. di G. Cuomo, Napoli 1978; F. D.
nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983; F. D. tra etica e
cultura ("Riscontri", VI, 1-2), a cura di M. G. Giordano, Avellino
1984; D. - Un secolo dopo, a cura di A. Marinari, Bari 1985; Per F. D.,
Bellinzona 1985; F. D.: recenti ricerche, a cura dell'Ist. per gli studi
filosofici, Napoli 1989. Per i rapporti fra il D. e la cultura napoletana
dell'800, cfr. gli scritti di G. Oldrini (in particolare, La cultura filosofica
napoletana dell'800, Bari 1973 e gli interventi apparsi nelle varie miscellanee
già citate). Per quelli con l'hegelismo, oltre allo scritto già cit. del Binni,
cfr.: N. Giordano Orsini, D., Hegel e la situazione poetica, in Civiltà
moderna, XIV (1942), pp. 138 ss.; M. Rossi, Sviluppi dello hegelismo in Italia
(F. D., S. Tommasi, A. Labriola), Torino 1957; Il primo hegelismo italiano, a
cura di G. Oldrini, Firenze 1969; M. T. Lanza, D. e Hegel, in F. D. nella
storia della cultura, cit., pp. 155-84; S. Landucci, cit. Tra i tanti
altri saggi, cfr. pure: M. Aurigemma, Lingua e stile nella critica di F. D.,
Ravenna 1968; F. Battaglia, Parva desanctisiana, Bologna 1970; B. Moretti, La
lingua di F. D., Firenze 1970; A. Prete, Il realismo di D., Bologna 1972. G.
Malcangi, F. D. deputato di Trani, con Introd. di A. Lapenna e A. Marinari,
Bari 1972; A. Marinari, Il "viaggio elettorale" di F. D. Il
"dossier Capozzi" e altri inediti, Firenze 1973; F. Ghilardi, Il
superamento del kantismo e l'esperienza politica di F. D., Napoli 1974; G.
Guglielmi, Da D. a Gramsci: il linguaggio della critica, Bologna 1976; N. Celli
Bellucci-N. Longo, F. D. e G. Leopardi tra coinvolgimento e ideologia, Roma
1979; M. Dell'Aquila, Giannone, D., Scotellaro. Ideologia e passione in tre
scrittori del Sud, Napoli 1981; G. Nencioni, F.D. e la questione della lingua,
Napoli 1984. Per i rapporti con le altre letterature europee: per la
Francia cfr. F. Neri, Il D. e la critica francese, 1922 (ora in Saggi, Milano
1964); P. Antonetti, F. D. et la culturefrançaise, Firenze-Parigi 1964; U.
Piscopo, D. e la culturafrancese, in F. D. - Un secolo dopo cit.; per la
Germania, cfr.: G. Bach, La cultura tedesca in F. D., in Studi e ricordi
desanctisiani, Avellino 1935; F. Matarrese, Goethe e D., Bari 1975; M. Westhoff,
Schiller e D., Roma 1977; M. Mazzocchi Alemanni, La "fortuna" di D.
in Germania, in F. D. nella storia della cultura cit., pp. 547-76; per il mondo
angloamericano, cfr.: A. Lombardo, D. Shakespeare e la letteratura inglese, in
F. D. - Un secolo dopo cit., pp. 549-68; D. Della Terza, D. e la cultura
anglosassone, in F. D. nella storia della cultura cit., pp. 527-45, e D. negli
Stati Uniti d'America, in F. D. - Un secolo dopo cit., pp. 651-63. Per la
fortuna critica dell'opera del D., cfr. L. Biscardi, F. D., Palermo 1960; S.
Romagnoli, F. D., in Iclassici italiani nella storia della critica, a cura di
W. Binni, II, Firenze 19612 ; F. De Castro, F. D. nella critica italiana del
secondo dopoguerra, in Problemi, LIX (1980); N. Longo, Il "ritorno"
di D. Storia, ideologia, mistificazione, Roma 1980. Cfr. pure, al riguardo, le
rassegne di G. Oldrini, M. Tondo e P. Tuscano citate a proposito degli scritti
bibliografici.Sossio Giametta. Giametta. Keywords: il volo d’Icaro, l’implicatura
di Croce – eterodossie crociane – Cosi parlo Zoroaster; cosi
implico!”—cortocircuito e implicature, la pazzia di Croce, il pazzo di Croce –
la caduta di Icaro? No, il vuolo di Icaro! – Colli e Montanari! -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Giametta: cortocircuito ed implicatura” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51716489340/in/photolist-2mRAqeJ-2mQxzwE-2mQDDPt-2mQMcti-2mQMcsB-2mQHU1f-2mQK7Hp-2mQMcs1-2mQMcr4-2mQK7Gn-2mQDDQq-2mQMcsG-2mQHTYB-2mQHU15-2mQK7GY-2mQNoEv-2mQK7HQ-2mQNoHr-2mQK7J1-2mQDDPd-2mQHU1a-2mQHTZo-2mQMct8-2mQDDPP-2mQHTYG-2mQNoEF-2mQMcqT-2mQNoFx-2mQK7Hz-2mQHTYr-2mQMcqN-2mPkhvE-2mN1wvj/
Grice e Giandomenico – l’apertura semantica e
l’implicatura di Galilei – filosofia italiana – Luigi Speranza (Carunchio).
Filosofo. Grice: “I like Giandomenico; he makes excellent commentary on
Bernard’s controversial, deterministic idea of life – from amoeba to man, in
Russell’s words --.” Grice: “Surely this has connections with my method in
philosophical psychology, from the banal to the bizarre, which actually starts
with philosophical BIO-logy!” Grice: “Giandomenico shows that while Bernard
never thought he had to provide a ‘conceptual analysis’ of ‘vivente,’ he does
propose this or that criterio: for one he tries to prove that self-nourishment
cannot be the criterion – but I’m not sure what the positive he poes, if any!” Si
laurea con Corsano all’istituto di filosofia di Bari.Insegna a Brindis, Lecce,
Foggia, e Bari. Studia l'insegnamento di Filosofia nei Licei. Studia filosofia della
comunicazione. Fonda il Laboratorio di Epistemologia Informatica e il Centro per
la Metodologia della Sperimentazione. Studia pragmatica computazionale e
Informatica umanistica. Membro della Società Filosofica Italiana. Si occupato della
storia della fisiologia, la storia sdell’informatica, l’informatica pragmatica,
teoria della comunicazione, teoria dell’implicatura conversazionale, e teoria
del segno. Pubblicato uno studio su Tommasi, che aderì alla sperimentazione. Ha
trattato il contributo scientifico di Pende. Analizza i fondamenti
dell'informatica nei suoi rapporti con le teorie filosofiche, mettendo in
evidenza le strutture epistemiche reciprocamente significative. “Filosofia ed
informatica”, Inoltre, ha sperimentato applicazioni delle tecnologie informatiche
nella ricerca umanistica. Le ricerche condotte nell'ambito
dell'informatica linguistica si sono proposte l'analisi
linguistico-computazionale. L'obiettivo è stato quello di andare al di là del
livello “lessicografico” – il filosofese – o terminologia filosofica, como
‘implicatura’ -- e di implementare una rete sintattica automatica con l'ausilio
di software dedicati. Il primo progetto ha riguardato l'analisi della
conversazione nel “Dialogo sopra i due massimi sistemi” di Galileo. Usando un
software, creato dal Laboratorio di Epistemologia Informatica di Bari, ricava
un “vocabolario” (filosofese, terminologia filosofica, vocabolario filosofico)
galileiano, procedere ad una prima valutazione dello stile ed avviare l'analisi
“semantica” di un “concetto” utilizzato da Galileo. Ha raccolto, infine, questi
spunti in una riflessione sui linguaggi dell'artificiale, intersecati con
quelli della vita, sulle nuove tecnologie della comunicazione e sull'etica.
Altre opera: “Tommasi, filosofo, Bari, Adriatica; “Filosofia e sperimento”
Bari, Adriatica; “Scienza, filosofia, letteratura, Verona, Bertani; “
Introduzione a Charcot, Fasano, Schena); “Epistemologia informatica, Bologna,
Transeuropa); “ Filosofia e informatica. Bari: G. Laterza); “L'uomo e la
macchina trent'anni dopo: Filosofia e informatica, Società Filosofica Italiana,
Bari, G. Laterza); “Dall'offerta formativa alla creazione di un nuovo lavoro:
la laurea umanistica” in Convegno per il corso "Informatica umanistica”
BARI: G. Laterza); “Laboratori di psicologia tra passato e futuro, Lecce, Pensa
Multimedia); “La prosa di Galileo: la lingua la retorica la storia, Lecce, Argo);
“La filosofia come strumento di dialogo tra le culture, Bari, Mario Adda Editore);
La Società Filosofica Italiana, Roma, Armando,. Note M. Triggiani, Cultura, un fronte unico.
Università e Comune per una rete dei contenitori, in Gazzetta del Mezzogiorno,
3 A.L., Dopo la laurea faccio il master in orecchiette, in Specchio.
Supplemento di La Stampa, F. Di Trocchio, Dall'archivio al futuro, in
L'Espresso,de Ceglia, l. Dibattista, Semi di storia della scienza. Milano, Franco Angeli. L’esperire
immediato e l’esperienza mediata Affronteremo in questa lezione il difficile
rapporto che s’instaura tra il mondo-della-vita e quello della scienza, tra
esperienza diretta ed immediata ed organizzazione razionale. Husserl ritiene
che le scienze moderne (matematiche e naturali) hanno bisogno di un nuovo fondamento,
diverso e ben più solido di quello che vien loro solitamente attribuito dalla
comunità degli scienziati, dei logici e dei metodologi. Per trovare questo
nuovo fondamento, egli si rivolge direttamente al mondo-della -vita, cioè al
mondo dell’esperienza concreta, nel quale le intuizioni si presentano al loro
stato originario, non ancora elaborate in concetti: in una parola, si rivolge
al mondo del precategoriale. A questo proposito egli mette in guardia gli
scienziati, i quali ritengono di considerare la natura come è realmente e non
si accorgono dell’astrazione attraverso la quale essa è diventata per loro un
tema scientifico, non si accorgono cioè che le cose cui fanno riferimento -
perfino quando parlano di oggetti empirici, di risultati dell’osservazione e
della sperimentazione - sono in realtà il frutto di un precedente, assai
complesso e artificioso, lavoro categoriale. Possiamo ricordare, a questo
proposito, le procedure operative che oggi (in maniera più evidente di quanto
si poteva percepire ai tempi di Husserl) le scienze sperimentali adottano. Ecco
un esempio. Vedere, nella scienza del nostro tempo, vuol dire, quasi
esclusivamente, interpretare segni generati da strumenti: tra la vista di un
astronomo del nostro tempo che fa uso del telescopio spaziale Kepler e una di
quelle lontane galassie che appassionano gli astrofisici ed accendono la
fantasia di tutti gli esseri umani sono interposti oltre una dozzina di
complicati apparati mediatori Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale
dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la
riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della
legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 3 di 17
Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune del
tipo: un satellite, un sistema di specchi, una lente telescopica, un sistema
fotografico, un apparecchio a scansione che digitalizza le immagini, vari
computer che governano riprese fotografiche e processi di scansione e memorizzazione
delle immagini digitalizzate, un apparecchio che trasmette a terra queste
immagini in forma di impulsi radio, un apparecchio a terra che ritrasforma gli
impulsi radio in linguaggio per un computer, il software che ricostruisce
l’immagine e le conferisce i necessari colori, il video, una stampante a colori
e così via. Questo esempio evidenzia che la scienza ha due attività
fondamentali: la teoria e gli esperimenti. Le teorie cercano di immaginare come
il mondo è; gli esperimenti servono a controllare la validità delle teorie e la
tecnologia che ne consegue cambia il mondo. L’intero iter della ricerca
scientifica si può sintetizzare con una affermazione netta: rappresentiamo e
interveniamo. Rappresentiamo al fine di intervenire e interveniamo alla luce
delle rappresentazioni. Dall’epoca della rivoluzione scientifica ha preso vita
una sorta di “artefatto collettivo” che dà campo libero a tre fondamentali
interessi umani: la speculazione, il calcolo, l’esperimento. La collaborazione
fra ciascuno di questi tre ambiti porta a ciascuno di essi un arricchimento che
sarebbe altrimenti impossibile. Per questo, come aveva insegnato già il
filosofo inglese Francesco Bacone (ritenuto con Galilei il padre della scienza
moderna), la scienza non è osservazione della natura allo stato grezzo. I sensi
dell’uomo vanno ampliati mediante strumenti. I raggi dell’ottica di Newton,
così come le particelle della fisica contemporanea, non sono dati in natura,
sono i dati di una natura sollecitata da strumenti. Di fronte alla natura -
come aveva affermato con una delle sue barocche metafore il Lord Cancelliere
inglese - dobbiamo imparare a “torcere la coda al leone”. Da questo punto di
vista la storia degli strumenti non è esterna alla scienza, ma ne è parte
costitutiva e integrante. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso
personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la
riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della
legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 4 di 17
Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune In
altre parole: la definizione operativa accolta usualmente dagli scienziati
tende sì a ricondurre i concetti ad un contenuto empirico, ma questo contenuto
in realtà è quello filtrato da teorie e strumenti, come dall’esempio che
abbiamo sopra riportato. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso
personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la
riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della
legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 5 di 17
Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune 2
Categoriale e precategoriale La tesi di Husserl è, invece, che il fondamento di
tutte le scienze - anche di quelle cosiddette empiriche - possa venire fornito
soltanto dal «fiume eracliteo» delle intuizioni che precedono qualsiasi tipo di
concettualizzazione e che ci coinvolgono nell’immediatezza della vita,
personale e professionale, vissuta, la quale presuppone “il mondo circostante
quotidiano della vita, in cui tutti noi, e anch’io in quanto filosofo,
esistiamo coscienzialmente: non meno le scienze, in quanto fatti culturali
inclusi in questo mondo, e gli scienziati e le loro teorie. Nei termini del
mondo-della-vita: noi siamo oggetti tra gli oggetti; siamo qui o là, nella
certezza diretta dell’esperienza, prima di qualsiasi constatazione scientifica,
fisiologica, psicologica, sociologica, ecc. D’altra parte siamo soggetti per
questo mondo, soggetti egologici che lo esperiscono, che lo considerano, che lo
valutano, che vi si riferiscono attraverso un’attività conforme a scopi,
soggetti per i quali il mondo circostante ha il senso d'essere che gli è stato
attribuito dalle nostre esperienze, dai nostri pensieri, dalle nostre
valutazioni, ecc., e nei modi di validità (della certezza, della possibilità,
eventualmente dell’apparenza, ecc.) che noi realizziamo attualmente, in quanto
soggetti di validità o che già possediamo da prima e che portiamo in noi in
quanto abitualmente acquisiti, in quanto validità di questo o di quel contenuto
che possono essere attualizzate a piacimento. -Naturalmente tutto ciò soggiace
a una molteplice evoluzione, mentre ”il” mondo continua a essere un mondo
unitario, e si corregge soltanto nella sua struttura di contenuto”.[...] Ora,
se consideriamo noi stessi in quanto scienziati, nella funzione di scienziati
in cui ora di fatto ci troviamo, al nostro particolare modo d’essere, di essere
scienziati, corrisponde il nostro fungere attuale nel modo del pensiero
scientifico, del nostro porre problemi e del nostro ricavare Attenzione! Questo
materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da
copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche
parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L.
22.04.1941/n. 633) 6 di 17 Università Telematica Pegaso La
rivincita della conoscenza comune soluzioni teoretiche in relazione alla natura
e al mondo dello spirito; ciò a cui ci riferiamo non è dapprima altro che uno
degli aspetti del mondo-della-vita già precedentemente sperimentato o,
comunque, già presente alla coscienza e già valido scientificamente o
pre-scientificamente. Fungono con noi gli altri scienziati, che vivono con noi
in una comunità teoretica, che attingono o già possiedono le stesse verità,
oppure che, grazie all’accomunamento di questi atti, stanno con noi nell’unità
di operazioni critiche e nel proposito di un accordo critico. D’altra parte noi
possiamo essere per gli altri, e gli altri per noi, meri oggetti; invece che
nella comunità dell’unità di un interesse teoretico attuale, possiamo
conoscerci reciprocamente attraverso l’osservazione; possiamo conoscere gli
atti del pensiero, gli atti dell’esperienza e, eventualmente, altri atti, come
fatti obiettivi, ma “senza interesse”, senza partecipazione, senza un’adesione
o un rifiuto critico”. (E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit. pp.
134-135, 139). Ogni pensiero scientifico e qualsiasi problematica filosofica,
secondo Husserl, implicano sempre certe ovvietà, per esempio la certezza che il
mondo esiste, che è già sempre preliminarmente, e che qualsiasi rettifica di
un’opinione di qualsiasi tipo, presuppone sempre il mondo in quanto orizzonte
di ciò che senza dubbio è e vale. Anche la scienza oggettiva pone i suoi
problemi sul terreno di questo mondo, il quale, però, è sempre già da prima,
che è già a partire dalla vita prescientifica. Essa, come qualsiasi prassi,
presuppone il suo essere; ma, insieme, si pone come fine la trasformazione del
sapere prescientifico (che è imperfetto sia nella sua portata che nella sua
consistenza), in un sapere compiuto, conformemente all’idea della correlazione
tra mondo, che in sé è ben determinato, e verità scientifiche che lo spiegano,
presentandosi come delle verità in sé. In altri termini, il suo compito è
quello di attuare questa esplicazione attraverso un processo sistematico,
attraverso gradi di compiutezza, utilizzando un metodo che permetta un costante
progresso. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello
studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o
il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul
diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 7 di 17 Università
Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune In realtà Husserl tende
a realizzare una descrizione dello strato precategoriale (o antepredicativo)
posto a fondamento dell’edificio logico-categoriale. Questo strato può
presentarsi sia come un piano autonomo d’esperienza che ignora la destinazione
predicativa, sia come un’anteriorità funzionale, cioè come un precategoriale
non autonomo in quanto indirizzato verso il piano predicativo (o categoriale).
In questo secondo caso, il predicativo assume il valore di interpretazione ed
esposizione linguistica dell’antepredicativo cioè dell’originario d’esperienza.
Il criterio che egli assume, peraltro, richiede che ogni fondazione e
chiarificazione conoscitiva acquisisca, dal punto di vista fenomenologico, la
forma del rinvio all’intuizione fondante. In tal modo il rapporto tra
sensibilità ed intelletto (è evidente qui il richiamo critico alle due “fonti
della conoscenza”, di kantiana memoria) si traduce nel rapporto tra “sensibile”
e “categoriale”: il non-categoriale, il precategoriale è collocato nella sfera
del sensibile con tutta la sua valenza fondativa per gli atti logici
superiori. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale
dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la
riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della
legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 8 di 17
Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune 3
Agrimensura empirica e geometria scientifica Tra le pagine più note, nelle
quali Husserl analizza il rapporto fondativo del precategoriale incarnato nel
mondo-della-vita ed il categoriale consacrato nei paradigmi scientifici, quelle
dedicate alla genesi della geomertia e della geometrizzazione della natura sono
particolarmente idonee per le tematiche che stiamo analizzando. Husserl precisa
subito che la sua indagine “genealogica” non mira ad una ricostruzione
“storiograficamente corretta” delle origini della geometria (emblematicamente
assurta a simbolo della scienza “esatta”, ma non “rigorosa”) bensì vuole
rintracciare il senso profondo, originario della sua collocazione categoriale.
“Il problema dell'origine della geometria (e sotto il titolo di geometria
raccogliamo qui, a fine di concisione, tutte quelle discipline che si occupano
delle forme esistenti matematicamente nella spazio-temporalità) non è qui un
problema storico-filologico; non si tratta quindi di reperire i primi geometri
che·abbiano formulato proposizioni, dimostrazioni, teorie geometriche, né
quelle determinate proposizioni che essi possono aver scoperto, ecc. Il nostro
interesse mira invece a risalire al senso più originario in cui la geometria si
è costituita, in cui si è sviluppata attraverso millenni, in cui è ancora viva
per noi e in cui continua a evolvere; noi indaghiamo cioè il senso in cui si è
presentata per la prima volta nella storia - il senso in cui dev’essersi
presentata, anche se nulla sappiamo, né cerchiamo di sapere, sui suoi creatori.
Partendo da ciò che sappiamo della nostra geometria, oppure dalle sue forme più
antiche tramandateci (per es. dalla geometria euclidea), cerchiamo di risalire
agli inizi originari e ormai sommersi della geometria, a quegli inizi
“originariamente fondanti” così come devono necessariamente essersi prodotti.
Questo tentativo di risalire al senso originario si mantiene necessariamente
nell’ambito delle generalità, ma, come Attenzione! Questo materiale didattico è
per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli
effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 9 di
17 Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza
comune risulterà tra breve, si tratta di generalità ricchissime, la cui
esplicitazione offre la possibilità di attingere problemi particolari e
constatazioni evidenti che a loro volta si configurano come problemi. La
geometria, per così dire, compiuta, a cui occorre rifarsi per risalire al suo
senso, è una tradizione. La nostra esistenza umana si muove nell’ambito di un
numero enorme di tradizioni. Tutto il mondo culturale, in tutte le sue forme, è
per noi in base alla tradizione. Perciò le forme culturali non sono soltanto
divenute causalmente: noi sappiamo anche che la tradizione è appunto una
tradizione che si è costituita nel nostro spazio umano e in base all’attività
umana, sappiamo che è spiritualmente divenuta - anche se in generale noi non
sappiamo nulla della sua precisa provenienza e della spiritualità che l’ha di
fatto determinata. E tuttavia, anche questo non-sapere include sempre, per
essenza e implicitamente, un sapere che può essere esplicitato, un sapere di
un’evidenza incontestabile”. (E. Husserl, ibidem, p.381). Questo sapere,
continua Husserl, affonda le radici, nell’esempio specifico che egli illustra,
nell’impiego empirico dei concetti geometrici. A questo livello possiamo certo
accontentarci di determinazioni piuttosto vaghe, di una vaga tipicità; e dunque
di confronti sommari, a occhio e croce. Ci possiamo contentare, ma beninteso
secondo i casi. Vi sono situazioni in cui non ci contentiamo affatto. Se, ad
esempio, dobbiamo vendere il nostro campicello o scambiare il nostro con quello
di un altro, presumibilmente non saremo affatto soddisfatti da determinazioni
tra il più e il meno. Cercheremo di escogitare metodi più precisi di confronto,
dunque metodi di misurazione. Si vede subito allora in che senso la pratica
della misurazione abbia a che fare con la geometria, e in particolare con la
sua origine. Pur essendo motivati da interessi pratici, cominciamo tuttavia ora
a porci problemi teorici, continua Husserl, sia pure in una forma relativamente
disorganica. Per escogitare metodi di misurazione abbiamo bisogno di operare
una certa Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello
studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o
il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul
diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 10 di 17 Università
Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune classificazione delle
forme, scoprire certe relazioni tra esse o inventare dei ben determinati
congegni per stabilire tra esse una relazione. In tutto ciò sono implicite
numerose riflessioni teoriche che preparano la riflessione propriamente
geometrica. Lo stesso problema di una classificazione tenderà, ad esempio, ad
un certo ordinamento che prefigura la distinzione tra forme elementari e forme
derivate e che non solo richiede un preciso intervento teorico, ma configura
altrsì un possibile campo di indagine con fini propriamente ed esclusivamente
conoscitivi. Questa origine della problematica geometrica non ha evidentemente
un carattere “storiografico” nel senso consueto del termine. In altri termini,
non ci sono “documenti” che mostrino che le cose siano andate proprio così, e
questo è un altro elemento di notevole interesse che emerge dalle riflessioni
di Husserl e che riguarda il concetto della storicità. È innegabile infatti che
siamo comunque di fronte ad una descrizione “storica”, ma essa è condotta sul
filo di una logica interna ai concetti, non è un racconto più o meno
leggendario. E persino l’origine della riflessione geometrica dall’agrimensura
ha forse queste caratteristiche di una connessione “genetica” non
storiograficamente documentata in senso stretto, ma che rientra tuttavia, in un
certo senso, nel pensiero di una storia della geometria alle sue origini.
Scrive Husserl: “La metodica geometrica della determinazione operativa di
alcune e poi di tutte le forme ideali a partire da forme fondamentali, in
quanto mezzi elementari di determinazione, rimanda alla metodica esercitata già
nel mondo circostante pre-scentifico-intuitivo, dapprima in modo rudimentale poi
secondo regole d’arte, alla metodica della misurazione e in generale della
determinazione misurativa. Le sue finalità hanno un’origine, che è rivelatrice,
nella forma essenziale di questo mondo-della-vita. Le sue forme sensibilmente
esperibili e sensibilmente- intuitivamente pensabili in esso e tutti i tipi
pensabili, a qualsiasi grado di generalità, si Attenzione! Questo materiale
didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è
severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e
per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)
11 di 17 Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza
comune connettono continuamente le une con gli altri. In questa continuità essi
riempiono la spazio- temporalità (sensibilmente intuitiva) che è la loro forma
(Form). Ogni forma che rientra in questa aperta infinità, anche quando è data
come un fatto nella realtà, è priva di “obiettività”, perciò non è
determinabile intersoggettivamente da chiunque - per es. da un altro che non la
veda di fatto -, né comunicabile nella sua determinatezza. Evidentemente a
costui serve la misurazione. La misurazione è qualcosa di molto differenziato,
il misurare vero e proprio non è che il suo momento conclusivo: da un lato si
tratta di produrre concetti adatti per le forme corporee dei fiumi, dei monti,
degli edifici, ecc. che di regola devono rinunciare a concetti e a nomi
rigorosamente determinanti; innanzitutto per le loro “forme” (nell’ambito della
somiglianza visiva), e poi per le loro grandezze e per i loro rapporti di
grandezza e; ancora, per l’ubicazione, mediante la determinazione delle
distanze e degli angoli che vengono riportati a luoghi e a direzioni
presupposti noti e immobili. La misurazione scopre praticamente la possibilità
di scegliere come misura certe forme fondamentali empiriche, che sono
concretamente definite su corpi che di fatto sono generalmente disponibili ed
empirico-rigidi, e, mediante i rapporti che esistono (e che devono essere scoperti)
tra queste misure e le altre forme corporee, cerca di determinare
intersoggettivamente e in modo praticamente univoco queste forme - dapprima in
sfere ridotte (ad es. nell’ agrimensura) poi per nuove sfere di forme. Si
capisce così come, in seguito all’esigenza, ormai desta, di una conoscenza
“filosofica”, di una conoscenza che determinasse il “vero” essere, l’essere
obiettivo del mondo, la misurazione empirica e la sua funzione empiricamente-
praticamente obiettivante, attraverso la trasformazione dell’interesse pratico
in un interesse puramente teoretico, potesse venir idealizzata e trapassare
così in un pensiero puramente geometrico. La misurazione prepara così la
geometria universale e il suo “mondo” di pure forme- limite”. (E. Husserl,
ibidem, pp. 57-58). Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale
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legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 12 di 17
Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune
Naturalmente la fenomenologia rappresenta in certo senso la guida di questo
pensiero. Benché l’istante della transizione non possa essere documentato, è
tuttavia chiaro che molte conoscenze geometriche siano state anticipate e
presupposte nella tecnica degli agrimensori. Anzi in generale i problemi che
sorgono nell’ambito della soluzione di difficoltà pratiche stimolano la ricerca
sul piano teoretico–conoscitivo: la prassi tecnica genera motivi di riflessione
teorica. E inversamente la riflessione teorica diventa un “mezzo della
tecnica”; una volta che una scienza come la geometria si è costituita, quando
cioè esiste un lavoro scientifico diretto in modo autonomo ad un universo di
oggetti concettualmente definito, questo lavoro si ripercuote a sua volta sul
terreno dei problemi tecnici suggerendo nuove idee e nuovi progetti.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è
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22.04.1941/n. 633) 13 di 17 Università Telematica Pegaso La
rivincita della conoscenza comune 4 Logica trascendentale e mondo-della-vita
Questa interconnessione tra precategoriale e categoriale non riguarda soltanto
le scienze naturali e sociali, ma investono ovviamente anche le scienze formali
e, tra queste, la logica, verso la quale Husserl, fin dall’inizio della sua
attività filosofica, ha sempre mostrato particolare interesse. Dalle Ricerche
logiche (1900) a Logica formale e trascendentale (1929) a Esperienza e giudizio
(1939), egli traccia la via di una “genealogia” della logica, in polemica con
il logicismo e lo psicologismo, Nello sviluppo del suo pensiero si impone a
Husserl anche l’esigenza di chiarire che genere di rapporto sussiste tra la
logica antepredicativa e la logica predicativa . La percezione sensibile, per
quanto consista nel tendere da parte dell’io verso l’oggetto intenzionato, è
sempre una conoscenza instabile, insicura, che non consente mai di possedere
l’oggetto conosciuto in maniera definitiva. Questo è possibile soltanto
mediante una conoscenza predicativa, cioè attraverso la logica, la quale ha la
capacità di fissare l’oggetto e di conservarlo anche quando non è presente
nella percezione. La conoscenza antepredicativa e quella predicativa, perciò,
si differenziano nettamente e ciascuna si caratterizza per una propria
specificità. Se però si analizza la genesi della logica, ci si rende conto che
bisogna rifarsi alla percezione sensibile per spiegare la logica predicativa.
Questo significa che la conoscenza predicativa, di cui appunto la logica è
l’espressione più compiuta, riposa fenomenologicamente, cioè dal punto di vista
della sua fondazione, sulla conoscenza antepredicativa, cioè si esplicita in
logica trascendentale. Scrive Husserl: Attenzione! Questo materiale didattico è
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effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 14 di
17 Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza
comune “Chiarito il contrasto tra scienza obiettiva e mondo-della- vita,
occorre tuttavia localizzare la loro essenziale connessione: la teoria
obiettiva nel suo senso logico (in termini universali, la scienza come totalità
delle teorie predicative, dei sistemi “logici” in quanto sistemi di
“proposizioni in sé”, di “verità in sé” e, in questo senso, di enunciati
logicamente connessi) è radicata e fondata nel mondo-della-vita, nelle sue
evidenze originarie. Proprio per questo la scienza obiettiva ha una costante
relazione di senso col mondo in cui sempre viviamo, e in cui, quindi, viviamo
anche nella nostra qualità di scienziati accomunati a tutti gli altri
scienziati - si tratta cioè di una relazione col comune mondo-della-vita. Ma
così la scienza obiettiva è un’operazione di persone pre-scientifiche, di
persone singole e di persone accomunate nell’attività scientifica, di persone
quindi che appartengono al mondo-della-vita. Le loro teorie, le formazioni
logiche, non sono naturalmente cose del mondo-della-vita nel senso in cui lo
sono i sassi, le cose, gli alberi. Sono totalità logiche e parti logiche
costituite da elementi logici ultimi. Per parlare con Bolzano: sono
“rappresentazioni in sé”, “proposizioni in sé”, conclusioni e dimostrazioni “in
sé”, unità ideali di significato, la cui idealità logica è determinata dal loro
telos “verità in sé”. Ma anche questa idealità, come qualsiasi altra, non muta
nulla al fatto che sono formazioni umane connesse per essenza alle attualità e
alle potenzialità umane, e che quindi rientrano nella concreta unità del
mondo-della-vita, la cui concrezione dunque ha una portata maggiore di quella
delle “cose”. Ciò vale, correlativamente, anche per le attività scientifiche,
sperimentali, per le attività che “in base” all’esperienza plasmano le
formazioni logiche, in cui esse compaiono in forma originaria e in modi
originari di evoluzione, nei singoli scienziati e nella comunità degli
scienziati: quale originarietà delle proposizioni, delle dimostrazioni, ecc.
che sono state elaborate in comune”. (E. Husserl, ibidem, pp. 158-159).
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è
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anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L.
22.04.1941/n. 633) ' 15 di 17 Università Telematica
Pegaso La rivincita della conoscenza comune Come potete notare, si tratta di
un’ampia riflessione sul come le strutture logiche siano o meno adeguate alla
dimensione della realtà oggettiva. In questo senso la logica trascendentale si
presenta come logica dei fondamenti, ed è in seno ad essa che si costituisce la
logica come scienza formale. La logica formale tradizionale, invece, ha
ignorato la propria genesi, presupponendo come ovvia la validità delle proprie
leggi. Al contrario, un giudizio logico deve essere valutato come un atto
soggettivo di conoscenza che si impadronisce del suo contenuto. Per questo
motivo le leggi logiche formali, che siano normative del giudizio, ma che non
tengono conto del fatto che sono normative anche del suo contenuto, fanno
sorgere interrogativi sulla validità dei loro giudizi sul mondo naturale e
sulla verità ed evidenza dei loro contenuti. Seguendo questo punto di vista,
Husserl sviluppa pienamente il tema della logica trascendentale in rapporto
alle categorie di verità e di significato. Conseguentemente, la logica si
configura qui come teoria delle teorie: essa non è solo un discorso logico
sulla logica, condotto con i mezzi della logica, ma un metadiscorso sulla
logica, che tuttavia non si presenta né come una sovrastruttura né come una
forma speculativa. E’, a tutti gli effetti, una regressione, un ritorno ai
fondamenti che l’hanno costituita nelle sue operazioni originarie, anche
storiche, nonché nelle sue operazioni attuali. Le ricerche fenomenologiche,
ribadisce Husserl, risultano necessarie alla logica pura, trascendentale. Ne
rappresentano la sua fondazione intuitiva e precategoriale: in quanto la logica
è da ricercare nelle operazioni costitutive, diventa logica filosofica,
filosofia prima, teoria della teoria. Ma, badate bene, ciò non è in
contraddizione con la fondazione precategoriale: è solo l’altra faccia della
questione, poiché la fondazione deve sempre essere ristabilita nella presenza e
nelle modalità temporali e quindi genetiche e storiche. Attenzione! Questo
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copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche
parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L.
22.04.1941/n. 633) 16 di 17 Università Telematica Pegaso La
rivincita della conoscenza comune Le scienze, invece, che non prendono in
considerazione ciò che costituisce il loro fondamento trascendentale, cioè le
condizioni per cui si danno, si risolvono in pure tecniche di manipolazione di
simboli linguistici.Mauro Di Giandomenico. Giandomenico. Keywords: l’apertura
semantica, “How Pirots Karulise Elatically” – pirots karulise elatically –
pirots karulise – ‘implicazione’ – aperture semantica, Galileo, la retorica di
Galilei, Galilei, lo stile di Galilei, Vinci, I corpi, la filosofia
positivistica italiana -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Giandomenico: l’implicatura conversazionale: ‘Pirots
karulise elatically; therefore, pirots karulise!” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757604051/in/dateposted-public/
Grice e Giani – implicatura mistica – l’implicatura
di Catone -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Muggia).
Filosofo. Grice: “It’s hard for me to judge Giani’s philosophy because I fought
against the Italians during the so-called ‘second world war,’ so-called!”
Grice: “But I would be willing to expand: if Giani developed what he aptly
called a ‘mystique’ – so did we at Oxford – Churchill surely held his
‘mystique.’ Of course the Italian, being more scholastic, had to call it
‘scuola di mistica,’ – and the idea was that of an all-male chivalry order –
aptly set at Milan!” Fonda la corrente filosofica nota come "Mistica".
Partì come volontario di guerra e morì sul fronte. Dopo aver frequentato
il Liceo ginnasio Dante Alighieri di Trieste si trasferì a Milano, dove si
iscrisse a Milano e quindi ai Gruppi Universitari, laureandosi. Anticipa l'imminente
apertura della scuola sul foglio dei Gruppi Universitari, "Libro e
moschetto" della Scuola di Mistica. Ne divenne direttore, carica che
lasciò alla fine dell'anno seguente dopo aver scritto il suo ampio discorso da
tenersi a Roma in occasione dellaI iunione della Società Italiana per il
Progresso delle Scienze che coincideva anche con il decennale della Marcia su
Roma in cui enuncia i principi della nuova scuola. Su impulso di Giani si
comincia inoltre a pubblicare i Quaderni della scuola di mistica. Poche
settimane dopo la riunionesi dimise da direttore con una lettera inviata a
Mussolini, per contrasti interni con il segretario politico dei Gruppi
Universitari. Imputa le dimissioni al mancato trasferimento della Scuola nella
vecchia sede de Il Popolo d'Italia chiamato anche "Il covo" La
richiesta di entrare in possesso de "Il Covo" puntava ad ottenere il
possesso di uno degli ambienti più importanti dell'immaginario fascista.
Continua quindi a collaborare con diversi quotidiani come "Il Popolo
d'Italia" e "Gerarchia". "Lineamenti sull'ordinamento
sociale dello Stato" gli fece ottenere la libera docenza e e quindi la
cattedra di Storia a Pavia ma parte volontario per la guerra d'Etiopia
arruolandosi col grado di capomanipolo della Milizia Volontaria per la
Sicurezza Nazionale nel CXXVIII Battaglione"Vercelli".
Rientrato in Italia, riassunse la guida della scuola, qui in occasione della
chiusura dell'anno scolastico nell'aula della casa del Fascio di Milano.
Rientrato in Italia riassunse la carica di direttore della "Scuola di
Mistica" lanciando due importanti iniziative, rilancia la pubblicazione
della serie di "Quaderni" che affrontavano differenti problematiche e
sempre per sua iniziativa fu creata nell'ambito della scuola la rivista
mensile, Dottrina che divenne l'organo ufficiale della Scuola, in cui pubblica il "Decalogo dell'italiano nuovo”. Si
dedica inoltre al giornalismo diventando direttore a Varese di "Cronaca prealpina"
e collaborando a diverse testate, tra cui Tempo (Direttore: Alfredo Acito).
Dalle pagine di "Cronaca prealpina" prese parte alla campagna fondata
sui propri convincimenti del ‘spirito’ contrapposto al "biologico" La Cronaca prealpina dopo la nomina di Giani a
direttore arriva a quadruplicare la tiratura. L'incontro a Roma con
Mussolini in cui si decise la cessione del "Covo" ai "mistici"
della Scuola. Su impulso di Giani, con una cerimonia presieduta di Starace, la
sede ufficiale della Scuola di Mistica si spostò nel medesimo edificio che
ospitò ai suoi primordi il giornale Il Popolo d'Italia, chiamato "il
Covo". Il "Covo" negli anni era stato trasformato in una
galleria. La palazzina e proclamata monumento nazionale con tanto di guardia
d'onore svolta da squadristi e
combattenti. Per esplicita decisione di Mussolini, fu ufficialmente consegnata
ai mistici della scuola. L'evento fu vissuto come una autentica consacrazione
dei insegnanti riuniti intorno a Giani. In realtà la consegna era già stata
disposta come risulta da un foglio d'ordini del PNF e in quell'occasione il
consiglio direttivo era stato ricevuto a Roma da Mussolini. Mussolini li aveva
spro continuare nella loro attività. A Milano, in occasione del decennale
dalla fondazione della scuola, organizzò il "Convegno nazionale di mistica"
che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere il primo della serie. Obiettivo
che sfumò a causa dell'entrata in guerra. L'incontro vide oltre 500
partecipanti ed ebbe l'adesione della maggior parte degli filosofi dell'epoca. Come
gran parte dei "mistici", partecipa nuovamente come volontario alla
seconda guerra mondiale, conflitto nel quale vedeva il presagio di una
rivoluzione in vista di una nuova era. Inquadrato nell'11º reggimento
alpini prese parte alla battaglia delle Alpi Occidentali contro la Francia e
venendo decorato con la medaglia d’argento al valor militare.Terminata la
campagna di Francia in seguito all'armistizio tornò alla vita civile ma
incominciata nel frattempo la guerra in nord Africa richiese più volte di
partire volontario senza ottenere soddisfazione. Alla fine ottenne di
partire come corrispondente di guerra de
Il Popolo d'Italia, della Cronaca prealpina e de L'Illustrazione Italiana
presso i reparti della Regia aeronautica. Per quest'ultima realizza anche
diversi servizi fotografici. All'attività di giornalista affiance anche quella
di militare prendendo parte ad alcune azioni e ottenendo una medaglia di bronzo
al valor militare. E richiamato in Italia dove riassunse la guida de "La
cronaca prealpina".Nuovamente incorporato nell'11º reggimento alpini
riparte infine come volontario per la campagna di Grecia, dove cadde sul fronte
greco-albanese nella battaglia per la conquista della Punta Nord del Mali
Scindeli. Si offre volontario per una pericolosa missione che prevede la
conquista di una munita postazione greca. L'attacco ebbe inizialmente successo
con la conquista della posizione ma riorganizzatisi i greci condussero un contrattacco.
Nello scontro cadde. Il periodico L'Illustrazione Italiana scrisse, senza
riportare dove o come avrebbe potuto registrare tali parole, che l'ufficiale
greco che lo aveva colpito a morte avrebbe raccontato che nello scontro Giani
gli si era parato davanti "come un dio o un demone". Il corpo
di Giani andò disperso e gli altri assaltatori che avevano preso parte
all'attacco dovettero ritirarsi rapidamente incalzati dai soldati greci. Fu
pochi giorni dopo incaricato delle ricerche Carati che era anche vice-direttore
della Scuola di mistica. Le ricerche a causa della perdurante situazione di
guerra furono nulle, e riuscì solo ad individuare il luogo in cui era
caduto. In quell'occasione, richiesta un'udienza al Duce, chiese che
potessero partire per l'Albania il cognato Guido Giani e il fratello Aldo Sampietro.
Questi ultimi rinvennero la salma sepolta in maniera anonima in territorio
greco. Di qui la salma fu translata nel piccolo cimitero militare di
Klisura. Mussolini fu preso come principale punto di riferimento dalla
Scuola di Mistica. Elabora un discorso programmatico in cui enuncia i principi
fondanti della Scuola e della Mistica fascista. Compito nostro deve essere
soltanto quello di coordinare, interpretare ed elaborare il pensiero del Duce.
Ecco perché è sorta una Scuola di mistica ed ecco il suo compito: elaborare e
precisare i nuovi valori che sono nell'opera
del Duce. (Giani in La marcia sul mondo).
Inizialmente i principi esposti da Giani facevano parte di un discorso più
ampio da tenersi a Roma in occasione di una riunione della Società Italiana per
il Progresso delle Scienze. L'ampio discorso fu poi pubblicato nella serie dei
"Quaderni" voluti da Giani con il titolo "La marcia sul mondo
della Civiltà". Si impone un ritorno alle origini, ovvero al movimentismo
rivoluzionario, riallacciandosi idealmente all'esperienza delle prime squadre
d'azione e degli arditi della Grande Guerra quindi, secondo Veneziani "una
più radicale rivoluzione coniugata al recupero di una più integralistica
tradizione". Ma più che legati agli enunciati politici del manifesto di
sansepolcro i mistici di quella esperienza esaltavano soprattutto la lotta contro
la borghesia affaristica del primo dopoguerra. La mistica si considera rappresentante
proprio di questo mondo ispirato dall'amore di patria e posta a guardia della
rivoluzione permanente e in contrasto con gli opportunisti e i
trasformisti. Individuava nell'epoca contemporanea *quattro* principali
mistiche, destinate ad apportare in un primo tempo dei benefici ma poi a
fallire: liberale, democratica, socialista e comunista. Liberalismo,
democrazia, socialismo e comunismo sono le quattro mistiche dominanti nella
societa. Il bilanciolo abbiamo già visto è per tutte negativo. Il liberalismo
porta all'anarchia. La democrazia porta all'instabilità politica e sociale. Il
socialism porta alla otta civile. Il comunismo porta alla vita primitiva. Queste
quattro mistiche sono pertanto anti-storiche. A fronte di esse l'unica mistica
in grado di superare tali crisi era quella come sviluppato nel capitolo intitolato
"La marcia ideale" la cui conoscenza e diffusione presso le masse era
compito della élite. Medaglia d'argento al valor militarenastrino per uniforme
ordinariaMedaglia d'argento al valor militare «Volontario nella guerra d'Africa
ove prese parte volontario a diverse pattuglie esploratori, chiese ed ottenne
di essere anche in quest guerra assegnato ad un reparto combattente. Destinato
all'11º alpini volontario a due azioni del battaglione Bolzano chiese di
partecipare alla ardita discesa di due compagnie del battaglione Trento
effettuata in una valle occupata dal nemico e avanzò con la prima pattuglia
sotto intenso bombardamento, sprezzante del grave pericolo di sorprese e di
accerchiamento nemico, esempio trascinante a ufficiali e soldati, e prova di
dedizione alla patria, di alta fede e di valore.» Medaglia di bronzo al valor
militarenastrino per uniforme ordinariaMedaglia di bronzo al valor militare
«Corrispondente di guerra presso una squadra aerea disimpegnava il suo
particolare e delicato servizio con alto senso di responsabilità. Spesso
presente sugli aeroporti più avanzati e maggiormente battuti dall'offesa nemica
allo scopo di rendersi conto di ogni particolare, partecipava volontariamente a
difficili e rischiose missioni di guerra, dando sicura prova anche nelle più
critiche circostanze di sereno sprezzo del pericolo e completa dedizione al
dovere.» Medaglia d'oro al valor militarenastrino per uniforme ordinaria Medaglia
d'oro al valor militare «Volontariamente, come aveva fatto altre volte, assumeva
il comando di una forte pattuglia ardita, alla quale era stato affidato il
compimento di una rischiosa impresa. Affrontato da forze superiori, con grande
ardimento le assaltava a bombe a mano, facendo prigioniero un ufficiale.
Accerchiato, disponeva con calma e superba decisione gli uomini alla
resistenza. Rimasto privo di munizioni, si lanciava alla testa dei pochi
superstiti, alla baionetta, per svincolarsi. Mentre in piedi lanciava l'ultima
bomba a mano ed incitava gli arditi col suo eroico esempio, al grido di:
«Avanti Bolzano! Viva l'Italia», veniva mortalmente ferito. Magnifico esempio
di dedizione al dovere, di altissimo valore e di amor di Patria.» — Punta
NordMali Scindeli (Fronte greco), 14 marzo 1941. Opere: “La via della
gloria, anni 20 La marcia sul mondo della Civiltà Fascista, Lineamenti su
l'ordinamento sociale dello Stato, Giuffré ed. La mistica come dottrina. Perché
siamo, A. Nicola. Perché siamo mistici. Mistica della rivoluzione. Antologia di
scritti, Il Cinabro, Longo, “I vincitori
della guerra perduta” (sezione su Giani), Edizioni Settimo sigillo, Roma.Carini,
Giani e la scuola di mistica fascista,
Mursia, Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su storia
illustrate,Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su storia illustrate, Tomas
Carini nella prefazione su Giani, La
marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,Carini, Giani e la scuola di mistica, Mursia,Tomas
Carini, Giani e la scuola di mistica, Mursia, Carini, Giani e la scuola di
mistica fascista, Mursia, Tomas Carini nella prefazione su Giani, La marcia sul
mondo, Novantico Editore, Pinerolo,Grandi, Gli eroi, Giani e la Scuola di mistica,
Cfr. a tale proposito le ricerche di Enzo Laforgia, una cui sommaria sintesi è
nel sito varesenews Archiviato. Tomas Carini nella prefazione su Niccolò Giani,
La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo, Il saggio, edito da Dottrina
Fascista, riporta in forma integra la conferenza inaugurale tenuta da Giani per
l'inaugurazione del corso per maestri della Scuola di Mistica. Cfr. a tale
proposito le ricerche di Enzo Laforgia in Aldo Grandi, Gli eroi di Mussolini,
BUR, Milano, Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su storia illustrate, Veneziani,
La rivoluzione conservatrice in Italia, Sugarcoedizioni, Varese, Longo, Gli
eroi della guerra perduta, edizioni settimo sigillo, Roma, L'Illustrazione italiana, Grandi, Gli eroi di
Mussolini. Niccolò Giani e la Scuola di mistica fascista, cAldo Grandi, Gli
eroi di Mussolini. Niccolò Giani e la Scuola di mistica fascista, cNiccolò
Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,, Tomas Carini nella
prefazione su Niccolò Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,Marcello
Veneziani, La rivoluzione conservatrice in Italia, Sugarcoedizioni, Varese, Giani,
La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,, Tomas Carini nella
prefazione su Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo, Tomas
Carini nella prefazione su Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore,
Pinerolo, Tomas Carini, Giani e la
Scuola di mistica, prefazione di Marcello Veneziani, Mursia, Milano, Grandi,
Gli eroi di Mussolini. Giani e la Scuola di mistica, BUR Biblioteca Univ.
Rizzoli, RaidoSpeciale Scuola di Mistica, Raido, Roma, Arnaldo M., Coscienza e dovere.
Niccolò Giani MISTICA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA Antologia di scritti,
1932-1941, pp. 302, euro 15.00 In libreria dal 27 novembre In
breve: «Siamo mistici perchè siamo degli arrabbiati, cioè dei faziosi, se così
si può dire, del Fascismo, uomini [...] partigiani per eccellenza e quindi
anche assurdi [...]. Del resto nell’impossibile e nell’assurdo non credono gli
spiriti mediocri. Ma quando c’è la fede e la volontà, niente è assurdo».
(Niccolò Giani) Un’antologia che raccoglie i più significati testi di Niccolò Giani,
tra i massimi esponenti della corrente più radicale, oltranzista e universale
del Fascismo, la Scuola di Mistica Fascista.
Questa antologia rappresenta la prima raccolta organica dei più
significativi scritti di Niccolò Giani nel periodo che va dal 1932 al 1941. È,
a nostro giudizio, il modo migliore per illustrare senza filtri la sua persona,
il suo pensiero e la sua azione. È un omaggio doveroso al testimone di quello
che fu il Fascismo universale e intransigente che mai scese a compromessi con
la “vita comoda”, al rinnovatore spirituale e politico di una intera
generazione. Esempio di eroismo che, al di là della contingenza storica, seppe
essere coerente con i propri principî vivendo l’ideale sino all’estremo
sacrificio; quasi innalzando il Fascismo ad una categoria universale
dell’essere, come fonte inesauribile di spiritualità cui innestarsi per fare la
rivoluzione dell’uomo e del mondo. Niccolò Giani, nato a Muggia il 20 giugno
1909, cadde sul fronte greco il 14 marzo 1941, nello slancio del combattimento,
trasfigurato ormai nell’eroismo muto. Dimostrò con la vita affermata oltre la
morte, l’armonia tra pensiero e fede, la continuità tra dottrina ed azione, e
della autentica Rivoluzione rimane il puro rappresentante della giovinezza
nuova: per questo il suo esempio sarà il seme fecondo dell’aspro cammino di
domani. Seppe con l’azione indicare la strada, con l’intransigenza insegnare
l’esempio. I «tesserati» furono i suoi avversari. Contro di essi combatté,
contro cioè i falsi, i presuntuosi, gli esibizionisti, i retorici, gli
arrivisti; contro coloro, insomma, che considerarono la Rivoluzione come atto
di ordinaria amministrazione, sfruttabile per fini personali. Il
Cinabro Ufficio stampa ufficiostampa@ilcinabro.it INDICE: Saggi
introduttivi: - Luca Leonello Rimbotti: Mistica Fascista. L’ordine della
Milizia sacra - Maurizio Rossi: La Mistica Fascista dell’Uomo Nuovo. Tra
milizia politica e metapolitica la scuola rivoluzionaria del Fascismo ***
Introduzione: - Fernando Mezzasoma: Niccolò Giani discepolo di Arnaldo ***
Decalogo dell’Uomo Nuovo La marcia ideale sul mondo della Civiltà fascista
Generazioni di Mussolini sul piano dell’Impero Civiltà fascista civiltà dello
spirito Aver Coraggio A difesa dell’Europa Fuori La mistica come dottrina del
fascismo Le due Europe Mistica del fascismo, Corporativismo e Autarchia Il
Centro di preparazione politica per i giovani. Fucina di Campioni della
Rivoluzione Valore primordiale del “Covo” I soliti imbecilli L’equivoco Perché
siamo dei mistici Il volto della guerra Testamento spirituale al figlio Niccolò
Giani: Presente!Mistica Della Rivoluzione Fascista “E questo diritto alla prima
linea, ad essere i disperati del Fascismo, è l’unica pretesa che, oggi, domani,
sempre, i mistici del Fascismo accamperanno di fronte alla Rivoluzione, come,
con vena veramente squadrista, ha detto Guido Pallotta nella sua relazione che
ha avuto lo spirito e la mordenza del «menefreghismo» più autenticamente
fascista. Prima linea, sul fronte esterno ed interno, contro il nemico di fuori
e di dentro. Contro gli attentatori della nostra integrità territoriale, ma
anche, e con uguale decisione e durezza, contro gli attentatori della nostra
integrità spirituale.” (Niccolò Giani) Le conseguenze derivate
dalla fine del primo conflitto mondiale e l’immediatarossi 5 crisi strutturale
delle istituzioni e dei valori che investì, con una forza che non aveva avuto
precedenti nella storia, le società europee, vennero allora giudicate come
l’annuncio di un radicale mutamento di tutte le forme della vita politica e
civile fino ad allora conosciute e complessivamente accettate. Una
deflagrazione interna dei costumi, di certezze consolidate e di mentalità che
modificò in maniera irreversibile l’immaginario collettivo di popoli e nazioni.
Niente sarebbe più stato come prima. Uno Spirito nuovo si affacciava con ruvida
decisione e realismo eroico reclamando il proprio posto nella Storia. L’alba
delle grandi rivoluzioni si affacciava sul continente europeo e i popoli si
sarebbero messi in marcia affascinati da nuove e esaltanti
Weltanschauung. Per Arthur Moeller Van Den Bruck, uno dei primi e tra i
più significativi esponenti della Rivoluzione Conservatrice tedesca, si
tratterà di una presa di posizione a carattere diffuso più che evidente: “Assistiamo
all’evento per cui tutto quel che non è liberale si unisce contro quel che è
liberale. Noi viviamo i tempi di questa agitazione mondiale, che si produce per
una estrema consequenzialità, e che si esplica in una rivoluzione radicale che
prospetta la perdita da parte del nemico della sua posizione di potere: tale
nuova situazione mondiale esordisce con un allontanamento
dall’Illuminismo.” Il periodo che immediatamente fece seguito al termine
di un conflitto di così immensa portata, venne visto dai più attenti e acuti
osservatori incredibilmente saturo di una genuina e stupefacente valenza
rivoluzionaria e innovatrice, ciò significò l’inizio di una nuova stagione di
entusiastiche mobilitazioni che avrebbero alla fine tonificato la fibra morale
e politica del continente fino ad allora logorata ed estenuata da
sovrastrutture ipocrite e corrose nel loro intimo che erano riuscite,
attraverso innumerevoli sotterfugi, a sopravvivere a se stesse, sempre più
annichilite da un pervasivo decadentismo culturale e morale e dal predominio di
una mentalità borghese e oligarchica connotata dalle sue più perniciose vedute
utilitaristiche e mercantilistiche. Le conseguenze della fine della
grande guerra significarono soprattutto una presa di coscienza collettiva e
un’accelerazione formidabile dei fenomeni sociali, accompagnate entrambe da una
esigenza totalmente nuova di considerare l’esistenza e i rapporti umani,
esigenza che venne principalmente percepita prima dai combattenti e poi dai
reduci come il frutto maturo della traumatica e allo stesso tempo travolgente
esperienza della guerra di trincea, insomma un insieme di condizioni
imprescindibili che prepararono il terreno e l’atmosfera per l’avvento delle
ondate rivoluzionarie nazionalpopolari che misero in crisi valori e regole
consolidate da tempo, assestando colpi mortali alle strutture politiche,
sociali e culturali delle società borghesi liberal-democratiche. Dalle
forme statiche si passava alle forme dinamiche, nel senso jungeriano del
termine. Il Fascismo sarà la matrice principale che inaugurò la feconda
ed entusiasmante stagione delle insurrezioni nazional-rivoluzionarie e il primo
laboratorio culturale delle ancor più affascinanti sintesi nazionali e
sociali. Furono infatti i reduci del fronte, gli ex-combattenti che
avevano creduto fino in fondo ad una particolare visione eroica della vita
propria di una ideologia della guerra sviluppatasi nell’interiorizzazione del
sacrificio bellico e del sangue versato – subendo poi la frustrazione di una
vittoria conseguita sul campo di battaglia a duro prezzo che videro mutilata
negli accordi di pace internazionali – a rappresentare la spina dorsale di una
innovativa e volontaristica visione politica che pretendeva di coniugare un
nazionalismo intransigente e guerriero partorito nelle trincee con le più
avanzate e spregiudicate chiavi di lettura sociali. La grande guerra di
popolo aveva travasato nei combattenti il senso della tensione nazionale e
sociale verso scopi e missioni comuni, una nuova coscienza collettiva che sarebbe
stata cementata da un formidabile sentimento di fraterno e virile cameratismo,
il culto della differenza e del radicamento nella specificità etnica della
Stirpe italica. Gli squadristi fascisti non fecero altro che travasare
tutti questi motivi nelle battaglie di piazza. Sorti dalla guerra di
popolo, divennero avanguardia di popolo. E il 28 Ottobre 1922 sarà il
coronamento dei loro sacrifici, la loro apoteosi. D’altronde era stato lo
stesso Mussolini a dire che l’esperienza della guerra avrebbe generato le
migliori condizioni per la rivoluzione sociale e politica. Anzi, ne sarebbe
stata la prefazione. Era il novembre 1916 e Mussolini combatteva sul fronte del
Carso, nei ranghi del 11° Reggimento Bersaglieri: “Noi vinceremo la guerra: ma
poi dovremo vincere la pace. Sarà duro; ma ci arriveremo. La società italiana
deve assolutamente mutare. (…) Sui giovani bisognerà contare. Questa guerra che
noi combattiamo e che con tragica definizione viene detta di logoramento,
porterà alla ribalta delle lotte civili una generazione che riuscirà a fare
quello che la nostra non è riuscita a fare: il riscatto sociale e politico del
mondo del lavoro, al di sopra e al di fuori dei dottrinarismi che oggi lo
incatenano. A ciò non saremmo mai arrivati se non avessimo voluto la guerra,
rovesciato i vecchi feticci sostituendo alle vuote ideologie i fatti e le loro
naturali conseguenze. Questo non sarà solo di noi, ma anche di altri
popoli.” Una lucida e profetica anticipazione di quanto sarebbe poi
accaduto in tutta l’Europa. Tutto questo si pose, in maniera del tutto
naturale, in totale opposizione al principio democratico in politica e a quello
liberale nel campo economico, all’insegna di una rivoluzionaria concezione
elitaria, fortemente gerarchica e anti-egualitaria che reclamava la
valorizzazione delle minoranze attivistiche e carismatiche con la conseguente
affermazione del principio guida del Capo, con il mito dello Stato totalitario
come asse formante e legittimante della Comunità nazionale e non ultimo la
funzione pedagogica del Partito unico, soprattutto mediante una costante
mobilitazione politica delle masse, una sacralizzazione della politica
attraverso il ricorso a liturgie collettive, miti e simbologie, e una crescente
militarizzazione della vita sociale e civile, l’intervento statale attraverso
gli istituti del Corporativismo per una razionale direzione disciplinata
dell’economia che ponesse termine all’epoca del predominio delle oligarchie
mercantilistiche e parassitarie e riportasse la vita economica al servizio
dell’interesse collettivo subordinandola alle necessità politiche
nazionali. Infine, l’affermazione sovrana di una particolare e severa
tipologia umana di nuova impronta che avrebbe rappresentato lo spirito del
nuovo tempo: l’Uomo Nuovo, l’Uomo integrale come manifestazione vivente di una
Tradizione atemporale che ebbe la volontà e la capacità di tradursi in
Rivoluzione. Proprio nel senso di quell’interpretazione che Niccolò Giani
seppe dare, facendosi portavoce di quegli ambienti del Fascismo intransigente e
rivoluzionario che vollero interpretare al meglio gli insegnamenti
mussoliniani: “Il Fascismo è un richiamo violento alla Tradizione, non un
ritorno o una ripetizione. Per noi fascisti la Tradizione come lo dice il
significato etimologico del termine e come Evola ha documentato, è e non può
essere che dinamica. Altrimenti si parlerebbe di conservatorismo o di reazione.
Invece, la Tradizione è continua coniugazione, attraverso il presente, del
passato e dell’avvenire; è processo inesausto di superamento, è una fiaccola
accesa con la quale ogni popolo illumina la propria strada e corre nel tempo
verso l’avvenire. Ecco perché, oggi, Rivoluzione e Tradizione non si escludono,
ma anzi si identificano e questo spiega il culto che noi abbiamo pel passato e
dice ai soliti uomini dai paraocchi che l’italiano del secolo XX non può che
essere fascista.” Questa nuova visione della politica rappresentata dal
Fascismo rappresentò inequivocabilmente la radicale negazione dei principi
emersi dalla rivoluzione francese, una evidente antitesi storica e culturale di
quanto fu incarnato dall’illuminismo, che costituì l’essenza di tutte le
manifestazioni materialistiche ed economicistiche della decadenza moderna: da
quelle individualistiche, liberali e democratiche a quelle cosmopolite,
genericamente progressiste e marxiste. Il Fascismo, anche nella sua più
vasta comprensione europea, intese proporre in maniera concreta ed efficace un
discorso radicalmente alternativo alla politica borghese e alla società borghese
richiamandosi al concetto di avanguardia delle idee, un’avanguardia
rivoluzionaria che fosse in grado, senza contraddizioni, di saldare assieme
passato e presente vincendo così la sfida della modernità, sostituendo il
vigore giovanile della passione idealistica e volontaristica alla decadente
dissolutezza del conservatorismo borghese e il cameratismo militante radicato
nella coscienza popolare alla società atomizzata e polverizzata delle
democrazie liberali. Un discorso ambizioso per un’avanguardia che ambiva ad
essere al contempo simbolo della genuinità politica e della resurrezione
spirituale, una speranza che venne riposta nel mito capacitante dell’Uomo Nuovo
creatore di nuovi valori, l’esemplare di una specifica specie umana lanciata
alla conquista del futuro senza per questo dover recidere le radici culturali e
spirituali che lo mantenevano legato alla propria dimensione storica, etnica e
popolare; nei confronti della quale si espresse il Duce parlando nel 1933
all’Assemblea delle Corporazioni: “L’uomo economico non esiste, esiste l’uomo
integrale che è politico, che è economico, che è religioso, che è santo, che è
guerriero.” Quindi questa figura particolare dell’Uomo Nuovo,
capace di raccogliere in sé tutte le sue forze creative, che la cultura
rivoluzionaria del Fascismo proponeva e che non mancava costantemente di
ricollegare alla stagione dello squadrismo, così intrisa di eroicità e di
sacrificio, riconduceva alla stessa definizione dell’Uomo integrale di
mussoliniana memoria, ovvero un uomo che non esistesse unicamente perché
cartesianamente pensante, ma perché arricchito di tutte quelle virtù
“romanamente” intese, eroiche, civiche e politiche, sia nella ragione come nei
sentimenti. Spesso e volentieri nell’immaginario intellettuale il
discorso sull’Uomo Nuovo si andava a concretizzare poi nell’ideale della
gioventù, una gioventù non solamente intesa in senso spirituale ma anche come
dato anagrafico, poiché il concetto di gioventù rimandava all’ansia del
cambiamento e all’impeto rivoluzionario, racchiudendo in se stessa gli ideali
della forza e della bellezza, di una esuberante virilità aggressiva, l’anelito
vitale di un futuro tutto da conquistare, proprio l’opposto di quanto ancora
proponevano i rappresentanti delle democrazie borghesi con tutte le loro
desuete convenzioni e i loro logori formalismi, con tutta la loro boriosa
rispettabilità e lasciva ipocrisia. Il Fascismo fu quindi profondamente
giovane e irruento, meravigliosamente violento e lo fu sia spiritualmente che
anagraficamente. Il comune denominatore della più intransigente e
autentica cultura fascista, quella derivata appunto dalla passionale ed eroica
stagione dello squadrismo, si trovava nell’aspirazione alla realizzazione di un
originale disegno politico ed esistenziale da esplicarsi mediante cambiamenti
radicali frutto di una ferma volontà rivoluzionaria che armonizzava i
riferimenti alla rivolta romantica dell’interventismo e alla mistica eroica
evocata dalla guerra di trincea con i nuovi miti palingenetici di
trasformazione della società e dello Stato. Questa cultura dell’azione che si
nutriva dello spirito barricadiero di rivolta contro l’ordinamento borghese in
nome di un rivoluzionario e fascista Ordine Nuovo era la caratteristica di
quell’ambiente fascista che si riconosceva, anche per esperienza diretta, nel
mito capacitante delle aristocrazie del combattentismo – quella trincerocrazia
più volte evocata da Mussolini – e nella scuola di vita e di coraggio
rappresentata dalla militanza squadristica che venne vissuta, letta ed interpretata
non solamente come una reazione organizzata e armata volta all’annientamento
dei focolai dell’insurrezionalismo marxista, ma soprattutto come militanza
rivoluzionaria e idealistica volta alla rigenerazione della Nazione e alla
creazione di uno Stato nuovo. Una specifica rilettura che si svolgeva anche in
aperta polemica con coloro che ritenevano che la nascita del governo presieduto
da Mussolini, all’indomani della marcia su Roma, rappresentasse la fase
risolutiva del Fascismo. In questo modo, il Fascismo, doveva e poteva
assumere una superiore valenza metafisica affermando il suo essere come un
completamento naturale e organico della storia della Nazione italiana, andando
ben oltre la semplice insorgenza anti-sovversiva e anti-modernista – non a caso
lo stesso Niccolò Giani volle mettere l’accento sul fatto che: “La Rivoluzione
Fascista infatti non è stata reazione come qualcuno ha creduto in origine e
come tuttora si crede da molti all’estero; è stata invece l’ostetrica della
nuova storia. Il 28 ottobre 1922 è sorta una nuova civiltà capace di risolvere
tutti i problemi della società contemporanea.” Per costoro, che in fondo
rappresentavano la vasta base della militanza fascista e anche quella
intellettualmente più viva, l’agire politico del Fascismo non doveva
assolutamente compromettersi con i residui della vecchia classe dirigente, che
in virtù del processo di normalizzazione e di pacificazione avviato dal Duce si
adoperavano nell’inserimento all’interno dei gangli del regime, doveva invece
mantenere e tonificare una assoluta intransigenza dottrinaria senza incorrere
in alcun cedimento politico e morale, perché se il Fascismo era una
rivoluzione, doveva necessariamente procedere nei suoi obiettivi con mentalità
e metodi rivoluzionari, come perentoriamente affermò un autorevole esponente
dell’epopea squadristica della statura di Roberto Farinacci: “Bisogna insomma
che la bestia proteiforme del vecchio conservatorismo sornione sia liquidata
bruscamente; che le vecchie clientele d’interessi e d’ambizioni fiorite ai
margini della vita politica italiana siano messe in mora, vigilate,
controllate, sopra tutto tenute lontane, bisogna che sia impedito a chiunque di
rifarsi, attraverso il Fascismo, una qualsivoglia verginità e continuare, sotto
mentite spoglie, le abitudini peccaminose del passato. La vittoria deve essere
integrale.” Tra gli oppositori più accaniti della deriva moderata si
evidenziarono gli ideatori della Scuola di Mistica Fascista, costituitasi a
Milano il 10 Aprile 1930, tutti provenienti da quella generazione di giovani
dei GUF che era cresciuta respirando l’atmosfera del Fascismo, maturando così
una profonda convinzione nei miti fondatori del regime e una fedeltà assoluta
nella persona del Duce. Al loro fianco si schierarono altre personalità
di spicco del Fascismo rivoluzionario: Berto Ricci con il suo universalismo
fascista, Alessandro Pavolini e l’esaltazione della primavera squadristica,
Edmondo Rossoni con tutte le aspettative del sindacalismo rivoluzionario.
Il 29 Novembre 1931, la Scuola di Mistica Fascista verrà intitolata a Sandro
Italico Mussolini, il figlio prematuramente scomparso di Arnaldo
Mussolini. Niccolò Giani, Guido Pallotta, Fernando Mezzasoma e molti
altri giovani entusiasti, avvalendosi della guida orientatrice di Arnaldo
Mussolini, seppero rappresentare, attraverso l’opera che fu sviluppata dalla
Scuola, una autentica e intransigente avanguardia intellettuale e morale posta
a difesa dei valori espressi dalla Rivoluzione Fascista, che sempre più doveva
farsi rivoluzione culturale e antropologica per meglio adempiere alla consegna
rivoluzionaria che il Duce del Fascismo aveva dato alle nuove
generazioni. Sarà Niccolò Giani a spiegare gli scopi dell’istituzione:
“Poiché una mistica è un postulato di tanti credo, e un valore assoluto non lo
si può derivare che da una fonte indiscutibile, questa fonte non può essere che
il Duce. Ecco perché la fonte deve essere quella, esclusivamente quella.
Compito nostro deve essere soltanto quello di coordinare, interpretare ed
elaborare il pensiero del Duce. Ecco perché è sorta una Scuola di Mistica
fascista ed ecco il suo compito: elaborare e precisare i nuovi valori del
Fascismo che sono nell’opera del Duce.” Quindi una rivoluzione culturale,
del carattere e dello Spirito che, attraverso interessanti rievocazioni del
mito della romanità e della sacralità della Stirpe – rappresentazioni
metastoriche e metafisiche della migliore tradizione aryo-romana – sarebbe
approdata ad una coesione organica della Stirpe italica costituitasi in Comunità
nazionale e avrebbe dato all’Italia fascista il diritto-dovere di adempiere ad
una missione universale facendo del Fascismo il crocevia della storia europea
del ventesimo secolo e il riformatore dei tratti essenziali della Civiltà
contemporanea in ogni suo aspetto, la ripresa e il rinnovamento dell’Europa
all’indomani del fallimento della democrazia liberale e delle utopiche promesse
marxiste. Aprire la strada al secolo fascista. Certamente nella visione
della Mistica fascista elaborata dalla Scuola vi era la ferma consapevolezza
che il Fascismo fosse una autentica rivoluzione totale della società italiana:
spirituale ed etica, sociale e politica, ma al contempo anche una ripresa di
tutte le tradizioni essenziali, però la memoria storica proposta non si sarebbe
dovuta risolvere in un ripiegamento nel passato, l’immagine del passato non
finì mai per schiacciare la dimensione del presente e tanto meno si configurò
come un richiamo intensamente nostalgico, bensì le potenzialità ideologizzanti
della rimemorazione storica vennero fatte espandere fino a provocare una vera e
propria occupazione del cosiddetto campo dei ricordi – una lotta spirituale e
rivoluzionaria per il dominio del ricordo e della memoria – che conducesse ad
una riscrittura della cronologia nazionale che rispecchiasse le concezioni del
pensiero irrazionalista, anti-intellettualista e pragmatista dei decenni
trascorsi, un pensiero profondamente permeato di sfumature di matrice
nietzschiana e soreliana. Anche i richiami alla Mistica insita nel
Fascismo erano animati dallo spirito di rivolta, contro le mentalità borghesi
ancora sussistenti, delle nuove generazioni cresciute ed allevate nelle
organizzazioni totalitarie giovanili e universitarie, una rivolta che si
manifestava con i forti caratteri di un idealismo morale ed etico
qualitativamente aristocratico esprimente l’esaltazione di una giovinezza
istintiva, disinteressata e piena di spirito vitale, aggressiva, pura e decisa
a dare battaglia a qualsiasi forma di conservatorismo e di borghese “buon
senso” pur di affermare il carattere intransigente e le finalità rivoluzionarie
sociali e spirituali del Fascismo. Non vi era nessun punto di convergenza
con eventuali nostalgie reazionarie, mentre invece era presente una totale e
coerente aderenza alle istanze di trasformazione rivoluzionaria che il Fascismo
esigeva e che ancor di più il Duce imponeva. Per questi giovani attivisti
non vi era altra strada per uscire definitivamente dalla crisi della modernità,
esplosa alla fine del primo conflitto mondiale, che con un mutamento radicale
del popolo italiano e una tale mutazione antropologica poteva provenire
solamente da una fede ben salda che aveva iniziato a germinare in un primo
tempo con l’esperienza della guerra nel mito della Nazione in armi, della
guerra di popolo, proseguendo poi con l’esaltante epopea della lotta
squadristica, per approdare infine nella costruzione dello Stato fascista di
popolo, corporativo e totalitario, il compimento finale del rinnovamento
sociale e spirituale della Stirpe e della grandezza politica della
Nazione. Nel corso degli anni che trascorsero dal 1930 fino all’entrata
in guerra dell’Italia nel 1940 la Scuola di Mistica Fascista assolse in maniera
esemplare ai compiti che si era prefissata, ovvero l’ambizione di voler
rappresentare l’infrangibile scudo morale, etico e dottrinario contro il quale
si sarebbero dovute infrangere le velleità dei nemici del Duce e del Fascismo,
soprattutto i nemici interni, i più pericolosi, quelli che si annidavano tra le
pieghe del regime per minarlo alla base. Affinché lo scudo della
rivoluzione fosse solido i mistici della Scuola, i soldati politici dell’Idea,
vollero essere loro stessi esempio di virtù civiche, morali e politiche, di
fedeltà indiscussa nei confronti della guida della rivoluzione, il Duce, spesso
descritto come il genio della Stirpe, l’Eroe che con la sua instancabile opera
dava quotidianamente prova di rappresentare pienamente la coscienza e la voce
dell’anima del popolo, soprattutto di un popolo a cui il Fascismo aveva
restituito la dignità politica e sociale e un’unità spirituale che attingeva
dalla viva coscienza di appartenere integralmente all’organismo della
Nazione. Da questa chiave di lettura emergeva, quindi, una superiore
comunione mistica che legava il Duce al suo popolo, cementata dalla comune fede
fascista, una fede intensa che a sua volta veniva elevata al rango di una sorta
di religione mistico-popolare sacralizzata dal sangue offerto in sacrificio dai
martiri dello squadrismo sull’altare della rivoluzione, una rivoluzione
continua che, come affermava un giovane esponente della Scuola, procedeva
impetuosamente la sua marcia: “I giovani della Mistica si sono irradiati tra le
file delle generazioni vecchie e nuove e hanno dato il goccio d’acqua, il pezzo
di pane del conforto, hanno sorretto i deboli, hanno convinto i pusillanimi. La
Rivoluzione ha attraversato le ubertose valli della sua fase politica, ora
sale. Guai a chi volesse tentare di derogare alle direttive di marcia per
evitare le asprezze della salita e impedire che dalla politicità si torni alla
rivoluzione piena e travolgente delle ore di audacia e di lotta.” Per
queste nobili motivazioni gli esponenti della Mistica fascista chiesero e
ottennero nel 1939 che la Scuola divenisse la custode del famoso “Covo”
milanese di via Paolo da Cannobio, il sacrario della rivoluzione delle camicie
nere, appunto il Covo del fascio primogenito dove la fede fascista aveva mosso
i primi passi e dove il Duce aveva chiamato all’adunata.rossi Un luogo
simbolico carico di suggestivi richiami emozionali, ben presente
nell’immaginario collettivo della militanza squadristica, che avrebbe dovuto
essere la fonte di irradiamento della Mistica fascista verso tutta la
Nazione. Il cosiddetto “Covo” del fascio primogenito rivestì sempre per i
mistici fascisti un ruolo centrale nel loro immaginario dottrinario,
rappresentava la fonte mitica della fede mussoliniana, il principio fondante
del Fascismo, era come trascendere il tempo profano per riapprodare al tempo
mitico della purezza dell’Idea, un riaccostamento di ordine metafisico a cui si
poteva accedere soltanto attraverso i miti e i simboli, e la Mistica fascista
era satura di richiami, di miti e di simboli: “Qui è tutta l’attualità e la
contemporaneità del “Covo”. Attualità e contemporaneità che non dovranno mai
tramontare. Non solo per noi, infatti, ma per i nostri figli e per i figli dei
nostri figli il “Covo” deve e dovrà essere l’Arca dei valori della Rivoluzione,
la bussola cui guardare nei momenti di indecisione, la guida cui ispirarsi, la
stella polare che il navigante dello Spirito deve vedere sempre alta e lucente
davanti a se. E ad esso oggi, domani, sempre gli italiani dovranno salire in
pellegrinaggio, per meditare, per ispirarsi. Ad esso le generazioni si accosteranno
sempre con stupore religioso per imparare che nulla allo Spirito è
impossibile.” Il Fascismo, come spesso ripeteva il Duce, era una fede
coltivata nella lotta che aveva avuto i suoi caduti, i suoi martiri che
immortalatisi vestendo la gloriosa camicia nera la avevano rafforzata e
sacralizzata: “Se ogni secolo ha una sua dottrina, da mille indizi appare che
quella del secolo attuale è il Fascismo. Che sia una dottrina di vita, lo
mostra il fatto che ha suscitato una fede: che la fede abbia conquistato le
anime, lo dimostra il fatto che il Fascismo ha avuto i suoi caduti e i suoi
martiri. Il Fascismo ha oramai nel mondo l’universalità di tutte le dottrine
che, realizzandosi, rappresentano un momento nella storia dello spirito
umano.” Adesso, questa fede, attraverso i mistici fascisti della Scuola
aveva trovato i suoi intransigenti custodi e i suoi più appassionati
apostoli. Anche loro si stavano preparando al combattimento – nella sua
duplice veste fisica e spirituale – aspirando di potere affrontare degnamente
il supremo sacrificio per il Fascismo e onorare così la loro scelta di vita
versando il proprio sangue per la causa rivoluzionaria. Morire all’ombra
dei gagliardetti neri: Mistica dell’azione – Mistica del realismo eroico –
Mistica della fede. Fedeltà che era più forte del fuoco, come narravano antiche
saghe. Che l’intensa e interessante attività svolta dalla Scuola
nell’approfondimento e nell’arricchimento della Dottrina fascista fosse il
risultato di un grande impegno contrassegnato da un’altrettanto grande serietà
venne comprovato dai numerosi riconoscimenti che ricevette, non ultimo
l’apprezzamento e la manifesta simpatia avuta da parte di Julius Evola, ma il
riconoscimento più importante, i mistici, lo ricevettero dal Duce che li
encomiò pubblicamente il 20 novembre 1939, incontrando i quadri della Scuola a
Palazzo Venezia, incitandoli a proseguire nel cammino intrapreso quali custodi
della purezza dell’Idea e del mito rivoluzionario: “Io vi ho seguito in tutti
questi anni da vicino e con vivissima simpatia perché considero la mistica in
primo piano. Ogni rivoluzione ha infatti tre momenti: si comincia con la
mistica, si continua con la politica, si finisce nell’amministrazione. Quando
una rivoluzione diventa amministrazione si può dire che è terminata, liquidata.
Potrei dimostrarvi che tutte le rivoluzioni sono passate attraverso questo
ciclo: noi che conosciamo la storia dobbiamo impedire che la politica scivoli
nell’amministrazione. Alle origini di ogni rivoluzione c’è la mistica: se la
politica è il contingente, la mistica è l’immanente, essa rappresenta i valori
eterni, essenziali, primordiali. (…) Voi dovete lavorare per l’avvenire. Per
far questo occorre la fede. E’ facile ad un certo momento deviare nella
politica: voi dovete essere al di fuori e al di sopra delle necessità della
politica. Di queste cose ho parlato in modo molto sommario; ma tutte erano
presenti in voi. Avete tempo di riflettere.” Il secondo conflitto
mondiale era però già iniziato e l’Italia sarebbe entrata in guerra l’anno
successivo. I mistici fascisti volendo essere, fino alle estreme
conseguenze, la prima linea del Fascismo accolsero con felicità ed entusiasmo
la notizia, chiedendo ufficialmente che gli venisse concesso l’Onore
dell’arruolamento volontario “nei più rischiosi reparti di terra, di mare o di
cielo”. Subito, ben 169 quadri dirigenti della Scuola partiranno per il fronte,
convinti che il processo rivoluzionario fascista avrebbe avuto una formidabile
accelerazione proprio per effetto della guerra. Molti altri mistici seguiranno
a ruota l’esempio dei loro capi. La loro esemplare condotta evidenzierà
una magnifica esplicazione degli insegnamenti della Tradizione: se hai di
fronte due strade, scegli sempre la più difficile. Poiché c’è sempre una strada
per chi vuole percorrerla. Sia Niccolò Giani, sia un’altra figura di
eccezionale valore come Berto Ricci, testimonieranno la loro intransigente
coerenza esistenziale e politica con la scelta del combattimento. Il primo
volontario sul fronte greco-albanese dove troverà eroicamente la morte nel
marzo del 1941, il secondo, sempre volontario, sul fronte africano dove
coronerà la propria esistenza di credente nella fede fascista incontrando,
altrettanto eroicamente, la morte il 2 febbraio 1941 a Bir Gandula sul Gebel cirenaico.
Nell’arco di un solo mese il Fascismo perse due tra i suoi migliori
campioni. Le vicende belliche decimarono di fatto il gruppo dirigente
della Scuola che sarà costretta a cessare le sue attività. I pochi
sopravvissuti di quell’esperienza raccolsero di nuovo la chiamata del Duce
aderendo nel 1943 alla Repubblica Sociale Italiana, tra questi Fernando
Mezzasoma che era stato il vicepresidente della Scuola e che ricoprì il
dicastero della propaganda nella RSI, trasportando con il proprio esempio le intime
motivazioni della Mistica fascista nell’esperienza repubblicana: “È questa
nostra intransigenza nei confronti della Dottrina che abbiamo sposato, delle
battaglie che combattemmo, delle realizzazioni che abbiamo attuate, che, se ci
consente di accettare la collaborazione di qualsiasi Italiano in buona fede e
di buona volontà che voglia aiutare la titanica fatica del Duce, ci obbliga
tuttavia a respingere sdegnosamente qualunque patteggiamento con coloro che
agiscono al servizio del nemico, uccidendo a tradimento i nostri migliori
compagni di marcia e di battaglia, con coloro che nell’Italia invasa
perseguitano i fascisti che a migliaia risorgono e insorgono per rendere dura
la vita agli invasori e aprire la strada al nostro ritorno. Questa deve essere oggi
la nostra missione di fascisti. Questo è il comandamento di Niccolò Giani.
Questo è il suo insegnamento. Nel suo nome, e nel nome degli altri Caduti, i
superstiti della Scuola di Mistica fascista chiamano a raccolta l’autentica
gioventù italiana.” Anche lui morirà poi nel 1945 assassinato dai
partigiani. Andarono tutti volontariamente incontro alla morte per
onorare un patto di fedeltà e di fede che li legava al Duce e al Fascismo, così
facendo coronarono una vita degna e ben vissuta, il loro abbraccio mistico con
il Fascismo si consumò eroicamente in combattimento e di fronte ai plotoni di
esecuzione. Se ancora oggi, dopo i tanti decenni trascorsi, la loro
memoria, la memoria delle tante battaglie ideali e materiali affrontate, viene
nonostante tutto ancora sentita come viva, se il ricordo di questi uomini
caduti con onore non in nome di una passione generica, ma per il Fascismo, per
il compimento di una Rivoluzione che è rimasta scolpita nella Storia, torna
ancora ad emergere non deve assolutamente avvenire perché i vivi di oggi
debbano morire nel loro cuore, struggendosi nella nostalgia del ricordo, ma
deve invece impetuosamente emergere affinché i morti di ieri possano tornare a
vivere tra di noi. Quella marcia, iniziata il 28 Ottobre 1922, non è ancora
terminata. Non ci consta che esistessero specifiche istituzioni
pubbliclie, ma in proposito possiamo ricordare numerosi provvedimenti e diverse
associazioni private. Fra quelli, le leggi agrarie, le disposizioni a favore
dei debitori, le distri buzioni semigratuite o gratuite dì grano, fatte dagli
edili; i congiari imperiali (che erano copiose elargizioni di farina, olio e
carne disposte dagli imperatori). Provvidenze che mi ravano tutte a
combattere, direttamente e indirettamente, le cause dell’indigenza o almeno a
paralizzarne gli effetti, ben ché nella loro essenza e origine avessero
carattere politico, cioè fossero prese sopratutto per cattivarsi il favore e la
simpatia della plebe o evitare tumulti e sommosse. Fra le associazioni,
sopratutto bisogna ricordare quelle costituite a scopo mutualistico ; e tale è
il carattere dei collegia fune- raticia, dei collegia termiorum, delle casse di
soccorso isti tuite da Giulio Cesare fra i suoi legionari. Anche nel campo
dell’istruzione si devono ricordare istituti privati i quali istruivano la
classe dirigente romana. E’ invece nelle opere pubbliche ohe specialmente i
romani ai distinsero legando ai posteri terme e acquedotti, palestre e strade,
circhi e palazzi olle ancora oggi, in parte, almeno, durano e sono
efficienti. L’ORDINAMENTO SOCIALE DELLO STATO SECONDO LA CONCEZIONE
FASCISTA Capitolo Primo Pag. LA TEORICA
FASCISTA SULLA NATURA E SULLE FUNZIONI DELLO STATO.' . . 3-10
Capitolo Secondo IL CONTENUTO DELLA FUNZIONE SOCIALE
DELLO STATO .11-18 Capitolo Terzo I
PRECEDENTI STORICI DELLA FUNZIONE SOCIALE DELLO STATO NELLA POLITICA E
NELLA LEGI¬ SLAZIONE SOCIALE 19-32 Capo i - in generate ..
19 § 1. Nell’antica Grecia. 19 § 2. In Roma sino
all’editto di Costantino. 20 § 3. In Roma dopo li riconoscimento
ufficiale del cattoli¬ cesimo . 20 § 4. Durante il medioevo.
21 § 5. Dopo la riforma protestante. 22
XIV Ordinamento sociale dello Stato
fascista Capo II - In Italia . 25 § 1. L’evoluzione e
la trasformazione della legislazione sociale 25 § 2. La
legislazione sulla beneficenza e sulla assistenza pub¬ blica e privata.
26 § 3. La legislazione sulla mutualità e sulla previdenza . .
2? § 4. La legislazione del lavoro. ?t) § 5. La
legislazione sull’istruzione pubblica .... 30 § 6. La legislazione
sull’igiene e sulla sanità pubblica . . 31 § 7. La legislazione sui
servizi e sulle opere pubbliche . 31 Capitolo Quarto
GLI ELEMENTI DELL’ORDINAMENTO SOCIALE DELLO STATO
FASCISTA.33-47 Capo I - I soggetti . 33 Capo II - (Hi
obiettivi . 36 § 1. Gli obiettivi relativi ai cittadini in genere
.... 36 A. Gli obiettivi inerenti alle condizioni generali di vita
. 36 B. Gli obiettivi inerenti in particolare alla fase di
forma¬ zione e di preparazione del cittadino, a quella di
produttività e a quella di riposo. 37 g 2. Gli obiettivi relativi
ai cittadini benemeriti .... 38 § 3. Gli obiettivi relativi ai
cittadini non risanabili e non rieducabili 38 Capo III
- Gli strumenti . 38 § 1. Il criterio, profondamente corporativo,
adottato dal legi¬ slatore fascista per la scelta degli strumenti
attuanti la politica sociale. 36 g 2. La famiglia. 40
g 3. L’associazione professionale . 42 § 4. Le istituzioni
promananti, singolarmente o paritetica¬ mente, dalle associazioni
professionali. 43 g 5. Gli enti locali. 43 g 6. Le
opere nazionali parastatali. 43 Capo IV - I limiti . 44
Indice-S
onvmario xv PARTE SECONDA LE ISTITUZIONI
DEL NUOVO ORDINAMENTO SOCIALE DELLO STATO FASCISTA Di alcune
considerazioni preliminari. 51 Capitolo Pbimo LE
ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLE CONDI¬ ZIONI GENERALI DI VITA DEL
CITTADINO . . 55-118 Preliminari . Capo I - ha-
legislazione inerente alla sicurezza, all’igiene e alla sanità
pubblica . 56 § 1. Per garantire la sicurezza. 56 § 2.
Per assicurare l’igiene e la sanità ...... 58 Capo II - La
legislazione inerente alla previdenza ... 62 | 1. Per incrementare
il risparmio .. 63 § 2. Per potenziare la mutualità. 64
£ 3. Per favorire la cooperazione. 64 § 4. Per diffondere le
assicurazioni Ubere. 65 Capo III - La legislazione inerente alla
assistenza di soccorso 65 § 1. Per l soccorsi in natura e in contanti.
66 § 2. Per i soccorsi medico-sanitario-ospitalieri .... 67
Capo IV - La legislazione inerente alla propaganda, all'inte¬
grazione culturale e al perfezionamento scientìfico . 68 § 1. Per
favorire il perfezionamento scientifico .... 68 § 2. Per la
propaganda e l’integrazione culturale .... 60 Capo V - La
legislazione inerente all’integrazione della forma¬ zione e
dell’educazione fisica e sportiva . 71 Capo VI - La legislazione
inerente alla costituzione e all’in¬ cremento del nucleo familiare . 72
§ 1. Per favorire la costituzione della famiglia .... 72 § 2.
Per facilitare l’esistenza e lo sviluppo delia famiglia . 73 Capo
VII - La legislazione inerente a particolari servizi pub¬ blici. 73
§ 1. Per garantire il soddisfacimento di bisogni primari . . 74
§ 2. Per assicurare i rapporti e i contatti economico-sociali . 75
§ 3. Per valorizzare il patrimonio nazionale ..... 76
XVI Ordinamento sociale dello Stato
fascista * Capo Vili - La legislazione inerente al
controlla, <UVadegua¬ mento e al collegamento ielle istituzioni
dell’ordinamento sociale e alla selezione dei suoi soggetti . 77
§ 1. Per assicurare il controllo e l’adeguamento delle istitu¬
zioni sociali . 78 § 2. Per ottenere il collegamento nell'ambito dell’ordina¬
mento sociale . 78 •§ 3. Per assicurare la formazione della classe
dirigente me¬ diante la selezione totalitaria del cittadini .... 79
Appendice al Capo Vili IL PARTITO NAZIONALE FASCISTA E LE
ORGANIZZA¬ ZIONI DIPENDENTI.80-116 Origine, natura e
funzione sociale del P. N. F . 80 I. I Fasci di Combattimento ..
86 co I compiti . gg 3 - I soggetti .• . . 87
y. L’ordinamento. 87 II. L’Associazione nazionale famiglie
Caduti fascisti e Muti¬ lati e Invalidi per la Causa Nazionale .
88 a- I compiti . 88 0 . I soggetti . 88 y.
L’ordinamento. 88 III. L’Unione nazionale ufficiali in congedo
d’Italia ... 88 • a- I compiti .. gg &• I soggetti
. 89 y. L’ordinamento. gg IV. L’Unione nazionale
fascista del Senato . 90 a- I compiti . gg 3 . I soggetti
. 90 Y- L’ordinamento. 90 V. I Gruppi Universitari
Fascisti . 90 co I compiti . 90 3 . I soggetti .
91 y. L’ordinamento. 91 VI . I Fasci Giovanili di
Combattimento . 92 a- I compiti . 92 3 . I soggetti .
94 y. L’ordinament*. 94
Indice-Sommario
XVII VII. I Fasci Femminili ..... ♦
* 95 tt . I compiti .
95 0 . I soggetti . 95
y. L’ordinamento. 96 Vili. L’Opera
Nazionale Dopolavoro . 96 a- I compiti
. 96 I soggetti .
97 y. L’ordmamento. 9T
IX. Le Scuole superiori femminili 00
X. Le Associazioni fasciste .... 99
a . I compiti . 99 5 . I soggetti
.. 101 y. L’ordinamento.
103 XI. Il Comitato intersindacale ....
104 a- I compiti .
104 0 . I soggetti . 105 Y-
L'ordinamento. 105 XII. OU Uffici di
Collocamento 105 tt . I compiti .
105 0 . I soggetti .
105 y. L’ordinamento. 106
XIII. L'Ente Opere Assistenziali 106
a- I compiti . 106 g. I soggetti
. 106 y. L’ordinamento.
106 XIV. L'Opera Universitaria ....
107 a. I compiti .
107 0 . I soggetti . 107 y.
L’ordinamento. 107 XV. Il Comitato
olimpionico nazionale italiano 108 a. I
compiti . 108 0 . I soggetti .
* 108 y. L’ordinamento.
109 Di alcune considerazioni sul P. N. E.
. * * 109 La
legislazione richiamata .... . . .
113 DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SO¬
CIALI RELATIVE ALLE CONDIZIONI GENERALI DI VITA DEL CITTADINO.116
XVIII Ordinamento
sodale dello Stato fascista Capitolo Secondo LE
ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FORMA¬ ZIONE FISICO-MILITARE E ALLA
PREPARAZIONE PROFESSONALE-NAZIONALE DEL CITTADINO . . 119-167
Preliminari . 119 Capo I - La legislazione inerente al nucleo
familiare per la formazione fisico-militare del cittadino .
121 S 1. Per sopperire alla insufficienza relativa dei mezzi
econo¬ mici della famìglia e sostituirla nella vacanza di alcune
sue funzioni. 121 § 2. Per integrare l’inadeguatezza assoluta di
alcuni mezzi della famiglia. 122 Appendice al Capo
I L’OPERA NAZIONALE PER LA PROTEZIONE DELLA MA¬ TERNITÀ’ E
DELL’INFANZIA.122-189 I. L’origine, la natura e la funzione sociale
deU’.O.N.M.I. , . 122 II. I compiti . 129 a- Per
l’integrazione e il coordinamento dell’azione svolta da altri enti
o istituti o da privati. 130 3 - Pev la vigilanza e il controllo
delle singole istituzioni di assistenza. 131 Per la
propaganda e la vigilanza suU’applieazione delle leggi e dei regolamenti
riguardanti l'assistenza materna e infantile. 132 III. I
soggetti . . 133 IV. L’ordinamento . 135 Dì alcune
considerazioni suli’O. N. M. 1 . 137 La legislazione richiamata.
140 Capo II - La legislazione inerente all’istruzione e alla
forma¬ zione professionale del cittadino . 142 § 1. Per
garantire l’istruzione professionale del cittadino sino al 14° anno
di età. 143 § 2. Per favorire e incrementare l’istruzione
professionale Capo III - La legislazione inerente all’educazione e
alla forma¬ zione fisica, premilitare, morale e nazionale del cittadino
149 Appendice al Capo III L’OPERA NAZIONALE BALILLA PER
L’ASSISTENZA E L’EDUCAZIONE FISICA E MORALE DELLA GIO¬ VENTÙ’
.150-164
Indice-Sommario XIX I. L’origine, la natura e la
funzione somale dell’.O.N.B. . . 150 II. I compiti . 155
III. I soggetti .. 160 IV. L’ordinamento . 161 Di
alcune considerazioni sull’O.N.B. 162 La legislazione richiamata.
164 DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SO¬ CIALI
RELATIVE ALLA FORMAZIONE FISICO-MI¬ LITARE E ALLA PREPARAZIONE
PROFESSIONALE- NAZIONALE DEL CITTADINO. 166 Capitolo
Teszo LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FASE DI
PRODUTTIVITÀ’ DEL CITTADINO.189-100 Preliminari . 169
Capo I * La- legislazione inerente all’azione sociale attuata
dalle associazioni professionali ....... 172. § 1. Per
garantire l’azione sociale da attuarsi direttamente dai sindacati .
174 § 2. Per assicurare l’azione sociale da attuarsi dai
sindacati a mezzo di speciali istituzioni. 175
Appendice al § 2 del Capo 1 IL PATRONATO NAZIONALE PER
L’ASSISTENZA SO¬ CIALE .’ - • 176-183 I. L'origine, la natura
e la funzione sociale del P.N.A.S. . . 176 II. / compiti .
179 IH. I soggetti . 181 IV. L’ordinamento . 181
Di alcune considerazioni sul P.N.A.S. 182 La legislazione
richiamata. 183 Capo II - La legislazione inerente all’azione
sociale attuata. dalle corporazioni . 183 § 1. Per
garantire il produttore obiettivamente e subiettiva- mente di
fronte alle condizioni del lavoro. 184 § 2. Per tutelare i
reciproci rapporti fra i produttori nella loro dualità di datori di
lavoro e di prestatori d’opera . 186 § 3. Per favorire ii
perfezionamento e l'elevazione professio¬ nale del produttore. 187
XX
Ordinamento sociale dello Stato fascista- capo III - La
legislazione inerente alla conservazione dello spirito nazionale e della
preparazione fisico-militare del produttore . 188 DI ALCUNE
CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SO¬ CIALI RELATIVE ALLA FASE DI
PRODUTTIVITÀ’ DEL CITTADINO. 189 Capitolo Quarto
LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE AL PERIODO DI
RIPOSO-VECCHIAIA DEL CITTADINO .... 191-105 Preliminari .
191 Capo I - La legislazione inerente all’obbligo delle garanzie
pre¬ videnziali per la fase di riposo-vecchiaia . . . 193
Capo II - La legislazione inerente a speciali interventi statuali
a favore del vecchio bisognoso ....... 194 DI ALCUNE
CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI 'SO- CIALI RELATIVE AL PERIODO DI
RIPOSO-VEC¬ CHIAIA DEL CITTADINO. 194 Capitolo Quinto
LE ISTITUZIONI RELATIVE AI CITTADINI CHE HAN¬ NO BENEMERITATO DALLO
STATO .... 197-203 Preliminari . 197 Capo I - La
legislazione inerente alle benemerenze collettive 198 Capo II - La
legislazione inerente alle benemerenze individuali 200 DI ALCUNE
CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SO¬ CIALI RELATIVE AI CITTADINI
BENEMERITI . . 202 Capitolo Sesto LE ISTITUZIONI
SOCIALI RELATIVE AI CITTADINI ■ MINORATI NON RISANABILI E NON
RIEDUCABILI 205-210 Preliminari . 205 Capo I - La
legislazione inerente ai minorati assolutamente non produttori .
208 Indice-Sommario
XXI Capo II - La legislazione inerente ni minorati
relativamente non produttori . 200 DI ALCUNE
CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI RE¬ LATIVE AI CITTADINI MINORATI NON
RISANA¬ BILI E NON INEDUCABILI. 209 * PARTE
TERZA LA POSIZIONE E I RAPPORTI DI RELAZIONE DEL CITTADINO
NEL NUOVO ORDINAMENTO SOCIALE Di alcune considerazioni preliminari
...... 213 Capitolo Primo LA POLITICA SOCIALE PER IL
CITTADINO DALLA NA¬ SCITA ALLA MAGGIORE ETÀ’.215-236 Capo I -
L’anione previdenziale e assistenziale dello Stato sino al quinto
anno . 216 § l. Per la costituzione della famiglia. 215
§ 2. Per la esistenza e l’incremento della famiglia . . 217 §
3. Per la donna gestante. 218 § 4. Per li cittadino neonato .
218 A. Per Viilegittimo e l’esposto ....... 210 B. Per
l’orfano. 220 § 5. Per iì cittadino infante.. 220 Di
alcune considerazioni sull’azione previdenziale e assisten¬ ziale dello
Stato sino al quinto anno. 221 Capo II - L’azione previdenziale e
assistenziale dello Stato dal sesto al quattordicesimo anno .
223 § 1. Per la formazione e lo sviluppo fisico, militare,
morale e nazionale. 223 § 2. Per la formazione
intellettuale e professionale . 225 Di alcune considerazioni sull’azione
previdenziale e assisten¬ ziale dello Stato dal sesto al quattordicesimo
anno . . 228 Capo III - L’azione previdenziale e assistenziale
dello Stato dal quindicesimo al ventunesimo anno . 229
xxn Ordinamento sociale dello Stato
fascista § 1. Per il cittadino elle studia. 230 § 2.
Per il cittadino che lavora. 233 Di alcune considera «ioni
sull’azione previdenziale e assisten¬ ziale dello Stato dal quindicesimo
al ventunesimo anno 235 Capitolo Secondo DA POLITICA
SOCIALE PER IL CITTADINO PRODUT¬ TORE . 237-251 Preliminari .
237 Capo I - L’anione previdenziale e assistenziale dello Stato
per il cittadino ohe è produttore . 239 Di alcune
considerazioni. 245 Capo II - L’azione previdenziale e
assistenziale dello Stato per la cittadina che è produttrice
.247 § 1. Per la cittadina sposa e madre. 248 § 2. Per
la cittadina lavoratrice 249 Di alcune considerazioni sull’azione
previdenziale e assi¬ stenziale dello Stato per la cittadina che è
produttrice 250 Capo III - L’azione previdenziale e assistenziale
dello Stato per la famiglia e i suoi membri . 251
Capitolo Terzo LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO A RIPOSO
. 253-254 Capitolo Quarto LA POLITICA SOCIALE PER IL
CITTADINO BENEME¬ RITO . 255 Capitolo Quinto LA
POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO MINORATO NON RISANABILE E NON
RIEDUCABILE . . . 257-258
In dioe-Sommario XXIII PARTE QUARTA
LA POLITICA SOCIALE DELLO STATO FASCISTA PER GLI ITALIANI
ALL’ESTERO Di alcune considerazioni preliminari. 261
Capitolo Primo DELL’AZIONE SVOLTA DIRETTAMENTE DALLO
STATO ATTRAVERSO AI SUOI ORGANI. 269-274 Capo I - Per
la riorganizzazione, il potenziamento e l’esten¬ sione della rete
consolare . 269 Capo II - Per i cittadini che emigrano . 270
Capo III - Per gli italiani all’estero . 272 Capitolo
Secondo DELL’AZIONE SVOLTA MEDIANTE LA STIPULAZIONE DI
CONVENZIONI BILATERALI E PLURILATERALI E MEDIANTE L'OPERA DELL’O.I.L.
275-305 Capo 1 - Le convenzioni bilaterali e plurilaterali ....
275 Capo II - Le convenzioni intemazionali, le raccomandazioni
e le risoluzioni dell'O.I.L . 280 La legislazione
richiamata. 294 DI ALCUNE CONSIDERAZIONI FINALI - - • ™ CAMERATI,
Niccolò Giani apparteneva alla categoria dei mistici per i quali è bello vivere
se la vita è nobilmente spesa ma è più bello morire se la vita è donata
all'Idea. Arnaldo Mussolini fu il suo Maestro: da Arnaldo im parò che prima di
agire e costruire è necessario ele varsi, purificare il proprio spirito, temprare
il proprio carattere; allora soltanto si potrà essere certi che l'azione sarà
feconda e l'edificio sicuro. Da Arnaldo imparò che per conoscere, giudicare e
guidare gli al tri è prima indispensabile conoscere bene se stessi, punire
inesorabilmente i propri difetti, affinare inces santemente le proprie virtù:
allora soltanto si potrà aspirare all'onore del comando. Da Arnaldo imparò che
solo il sacrificio può suscitare le opere grandi e buone e distruggere le cose
piccole e vili. Ciò che —7 non costa non vale; ciò che non procura
fatica e sof ferenza non dura; quanto è al di fuori di noi non conta; gli
onori, le cariche, le ricchezze sono effimere e ca duche cose. Quello che
importa è quanto è dentro di noi, perchè è nostro e nessuno potrà mai portarcelo
via, neanche a strapparci la carne viva di dosso. Es sere se stessi in ogni
momento, rimanere se stessi sempre: ecco la più grande conquista degli uomini.
Uomo di fede Un uomo di fede fu Niccolò Giani. E la sua fede era di quelle che
non vacillano mai, di quelle che restano intatte nella buona e nella cattiva
sorte e che traggono anzi dalle difficoltà e dalle sfortune un più profondo
contenuto e sempre nuovi motivi. La sua fede era di quelle alte cui fonti
cristalline attingono le intelligenze chiare e gli animi trasparenti degli
uomini puri i quali sanno che se si vuole raggiungere l'ultima cima, mol te
vette bisogna scalare e talvolta anche scendere da alcune per risalire su aifre
vette più alte ancora. In 8 i Giani la fede nasceva da un inesausto
tormento spi rituale, da un'ansia incontenibile di elevazione e di conquista
per divenire, come dice il Poeta, «cara gioia sopra ia quale ogni virtù sì
fonda ». Egli credeva in Dio, nel Dio di noi Italiani fascisti e cattoiici a
cui dobbiamo non soltanto il dono misterioso della vita ma anche il privilegio
di averci chiamati a continuare la missione di civiltà e di giustizia che la
gente nostra svolge nel mondo da più di due millenni. Egli credeva nella
dottrina politica enunciata da Mussolini, scaturita dall'azione, alimentata
dalla fede, consacrata dal sa crificio e nella sua possibilità di instaurare
un nuovo sistema di vita, di educare gli uomini a una visione vasta ed umana
delle cose, di creare un nuovo tipo di civiltà italiana, ed europea. Credeva in
Mussolini perchè lo considerava l'uomo della Provvidenza, l'e sponente di una
razza eletta, il fondatore di una ci viltà universale, il protagonista e
l'artefice di una nuòva storia, il condottiero di giovani generazioni, il DUCE,
a cui non occorre chiedere prima di iniziare la marcia dove ci porta e quando
si arriverà perchè dal giorno in cui un destino fortunato (o pose alla testa —9
‘1 del suo popolo, la meta era già nei suoi occhi e la vittoria nel
suo pugno. Credeva nei giovani nati e cresciuti col sorgere del Fascismo,
educati alla severa scuola del Partito e li voleva rivoluzionari nello spirito
e nel sangue, gene rosi ed audaci, pronti alla lotta e alla rinunzia. Sogna
va una classe dirigente che sapesse dimostrare con l'esempio, nelle opere e nel
sacrificio, di essere de gna del nostro grande popolo e del nostro grande
Capo; una classe dirigente fatta di uomini integrali, forti della loro
indipendenza morale — la sola ric chezza umana che non abbia un valore
misurabile in denaro — e dotati di tutte le virtù spirituali, intellet tuali e
fisiche che sono indispensabili per poter eser citare con dignità e con
efficacia la missione dei co mando. Concepiva la famiglia nel senso più
tradizio nalmente nostro; amava cioè la sana numerosa fami glia italiana,
ricca di onestà e prodiga di figli, sboc ciata dall'amore tra l'uomo che vive
lavorando o com battendo-per la Patria e la donna che nel piccolo gran de
regno della casa vive nella serena ed operosa attesa del ritorno di lui; e se
l'uomo non tornerà la 10 — donna lo piangerà senza lacrime perchè
egli sopravvi va nella fierezza dei figli, I quali continueranno, nella luce
del suo esempio, l'opera sua. Credeva nella Patria come ne « la più pura, la
più grande, la più umana delle realtà », amava la Patria « più della propria
anima ». Tutto per la Patria: fu la sua consegna. Niente per lui valeva qualche
cosa se non serviva alla Patria. Perchè la Patria è tutto e tutti; sè e gli
altri; le generazioni che furono, che sono e saran no; la storia di ieri, di
oggi e di domani. La Patria è la sintesi di tutte le più nobili aspirazioni.
Essa è fatta di uomini da rendere sempre più degni e di territori da fare
sempre più vasti. Per essa si lavora, si soffre, si spera; per essa si
combatte, si vince o si muore. Giornalista della Rivoluzione e Maestro dei
giovani Niccolò Giani fu un giornalista della Rivoluzione. Egli intendeva il
giornalismo come una scuola di vita, come uno strumento di educazione e di
formazione. Dalle agili colonne del suo giornale, la «Cronaca Preal- — 11
■^ . " T T r pina », e da quelle della sua rivista « Dottrina Fasci
sta » si battè accanitamente per la creazione di un giornalismo rivoluzionario,
dinamico, coraggioso, un giornalismo che fosse in grado di svolgere una fun
zione costruttiva di divulgazione, di propulsione e di controllo, un
giornalismo che fosse degno di essere considerato un'arma affilata della
Rivoluzione. Ma soprattutto maestro dei giovani egli fu. All'Inse gnamento si
era consacrato con il religioso fervore con il quale soleva dedicarsi a tutte
le attività rivolte ai giovani. All'Ateneo di Pavia, al Centro di prepara
zione politica, alla Scuola di Mistica Fascista egli portò il contributo della
sua beila cultura fatta di conoscen za e di azione, illuminata dalla fede,
riscaldata dal sentimento, Alla Scuola di Mistica diede la parte mi gliore di
se stesso. «Tutto quello che di buono e di meritevole è stato fatto dalla
Scuola — ha detto Vito Mussolini, nostro Presidente — proviene unicamente da
lui. Bisognerà ricordarlo sempre e presentarlo co me un mirabile esempio ai
giovani che in lui potranno vedere l'espressione più sublime di obbedienza ai
comandamenti del Duce ». Era il migliore tra noi: il più
limpido, ii più generoso, ii più puro. Delia nostra mistica fede fu l'aifiere
più ardilo e i'apostolo più acceso. Egli voieva che dalia nostra Scuoia
uscissero ì missionari, i portatori del no stro credo politico e fu egli
stesso il più tenace e il più convinto assertore dei principi che sono a fonda
mento deiia nostra dottrina. La Scuola sorse con lui per la volontà di un mani-
poio di credenti che egli chiamava i «disperati del Fascismo », così come gli
squadristi un tempo amava no chiamarsi « fascisti arrabbiati ». Aii'inizio la
Scuola fu un'attività de! Guf milanese; divenne quindi un'attività di tutti i
Gruppi Fascisti Uni versitari: oggi si è imposta al rispetto e ail'atten-
zione di tutti i fascisti. La sua opera è rivolta ai gio vani, ma la sua
azione è seguita ed amata anche dai camerati della vecchia guardia che vedono
con in tima gioia esaltate e rinnovate ogni giorno, dagli al lievi della
Scuola, le due più preziose virtù dello squa drismo: la fedeltà e la
intransigenza. I camerati della vecchia guardia milanese sanno che il, nome di
Niccolò Giani è legato alla riapertura — 13 del Covo di Via Paolo
da Cannobio, prima sede del « Popolo d'Italia », prima trincea del Fascismo,
che il Duce ha voluto affidare in gelosa custodia ai giovani della Scuola di
Mistica perchè le giovani generazioni, accostandosi alle sorgenti genuine delia
nostra Ri voluzione, cogliessero, dall'umile grandezza delle ori gini, la
poesia e il fermento delia vigilia. Niccolò Giani fu soprattutto un fedele ed
un in transigente. Taluni potrebbero chiamarlo un fanatico, ma solo I fanatici
sanno dare movimento col sangue «alla ruota sonante della storia». Il suo
spirito si ribellava a qualunque forma di com promesso; sul terreno della fede
non ammetteva pat teggiamenti; il bello, il buono, il vero sono da un lato della
barricata; dall'altra parte c'è il brutto, il male, la meschinità. Mi piace di
ricordarlo ai Convegno di Mistica del febbraio 1940: eravamo alla vigilia delia
nostra guer ra di liberazione e c'era in tutti noi una febbrile im pazienza
di decisione. Il tema del Convegno era bru ciante: «Perchè siamo dei
mistici?». I problemi del- 14 — l'inteiligenza e deila cultura
furono esaminati al lume della fede; i poveri dì fede furono sbaragliati e
Giani dichiarò guerra a viso aperto a tutti gli spiriti troppo raziocinanti,
agli innamorati della ricerca fredda e del ragionamento calcolatore. La
dottrina che conquista è quella che sorge dalla fede e non quella che discende
dalla indagine arida ed oziosa; la cultura che costruisce è quella che pene
tra e trasforma e non quella che resta gelida ed inerte. li Convegno si svolse
in un'atmosfera di fuoco e la risposta al tema che fu oggetto dei nostri
appassionati dibattiti fu data dallo stesso Giani: « Fascismo uguale a spirito,
uguale a mistica, uguale a combattimento, uguale a vittoria. Perchè credere non
si può se non si è mistici, combattere non si può se non si crede, e vincere
non si può se non si combatte ». Fu in quel Convegno, ò giovani camerati della
Scuola di Mistica, che i giovani della generazione del Litto rio affermarono
solennemente il loro diritto al combat timento, — 15 Soldato dì
Mussolini Niccolò Giani fu tra i primi a partire. C'era in lui la
preoccupazione morbosa di stabilire coi fatti una coe renza perfetta tra il
pensiero e l'azione. Aveva già partecipalo come volontario alla guerra per la
con quista dell'Impero, aveva chiesto ripetutamente di partire per la Spagna e
non gli era stato concesso; finalmente sopraggiungeva la nuova prova lungamente
attesa. Chi lo vide tenente degli alpini al Fronte Occidentale lo ricorda come
un esempio di disciplina e di ardi mento. Ma la parentesi fu troppo breve:
tornò insod disfatto, Andò in Africa settentrionale come corrispon dente di
guerra del «Popolo d'Italia»; ma quando seppe che il suo reggimento era già sul
fronte greco chiese di raggiungerlo. Non poteva vivere lontano dai suoi alpini,
gli sembrava un tradimento. Partì per non tornare. Tre volte si offrì per
azioni rischiose, tre volte fu appagato, la terza volta fu l'ul- 16
tima. I suoi uomini lo adoravano; con lui sarebbero andati dovunque:
potenza insuperabile dell'esempio! Andò con un manipolo di 25 alpini a
raggiungere una vetta lontana per compiere una ricognizione sulle po sizioni
del nemico; assolse il suo compito felicemente e rapidamente, ma proseguì
oltre: il suo programma era un altro. Aveva incontrato poco prima, lungo il
cammino, un camerata di Milano e gli aveva affidato l'incarico di salutare per
lui tutti gli amici di Mistica e di comunicare loro che egli era partito per
un'impresa della quale si sarebbe dovuto' parlare. Mantenne la promessa. Alla
testa dei suoi alpini raggiunse un'altra vetta, sulla quale alta sfolgorava la
luce della gloria, e a bombe a mano assalì un presidio greco. Circon dato,
lottò eroicamente, fino a quando una pallottola ' gli recise la gola, gli
spezzò la vita, soffocò il canto della sua giovinezza. Così cadde Niccolò
Giani. Egli è morto come era vissuto, non per sè ma per gli altri, Ètriste non
potergli più vivere accanto, non poter più rinfrescare il nostro spirito alia
polla purissima della sua fede; ma egli 17 ha chiuso la sua vita
terrena in modo degno di luì, Arnaldo gli aveva insegnato che i! segreto della
vita è tutto qui; saper vivere, saper morire, nel modo più degno. Niccolò Giani
ha voluto insegnare ai giovani della sua generazione come deve vìvere e come sa
morire un italiano di Mussolini. La nostra Scuola, o camerati di Mistica, non
lo onora col pianto che egli non approverebbe. Il nostro ciglio è asciutto
anche se il cuore in questo momento acce lera il ritmo dei suoi palpiti. Ma
noi sentiamo che non un vuoto egli ha lasciato nelle nostre file, li suo
spirito inquieto è con noi, dinanzi a noi, oggi come non mai, ad additarci la
strada che conduce alla vittoria, ad ammonirci che il suo tormento deve essere
anche il nostro tormento, la sua ansia anche la nostra ansia, il suo amore
anche il nostro amore, oggi, domani, sempre. E noi sentiamo che Arnaldo, il suo
ed il nostro Mae stro, lo ha accolto nell'altra esistenza, accanto al suo
figlio prediletto e agli altri Martiri delia nostra Scuola, come il migliore
dei suoi discepoli. Il mito di Roma contro Si guardi Ro- il mito di Jehova in
ma repubblicana. Catone, Cicerone, Quale è il suo Tacito, Giovenale ideale? Ce
lo di- e negli Imperatori ce Marco Porcio Catorie nel suo libro « De Agri
cultura » laddove scrive che i romani « quando lodavano un uomo dabbene,
15 lo chiamavano buon agricoltore, buon colono. E con ciò si
riteneva di dare la maggiore lode a colui che così veniva chiamato ». E ciò per
chè « dalla classe degli agricoltori nascono gli uo mini più forti e i soldati
più valorosi... e coloro che si dedicano a tale occupazione non concepi scono
cattivi propositi ». Queste parole, questo saggio romano le scrive va più di
150 anni avanti Cristo, cioè, esattamen te, nello stesso periodo in cui Roma
combatteva l’ultima e definitiva partita con la semita Carta gine. Ma, a
questo proposito, ci si è mai chiesto perchè poi Cartagine era delendam, perchè
Ro ma s’era fissata ili questo mito della distruzione totale della città di
Annibaie? La risposta è una sola : la lotta tra le due rivali infatti non era
solo politica ed economica : era ben di più : era lotta di civiltà, di sistema
di vita. Roma rurale, Ro ma gerarchica, Roma guerriera ed eroica com batteva
anche la Cartagine dei mercanti e della demagogia. Ecco perchè non è strano,
ma, anzi, logico, necessario addirittura, che l’uomo che in Senato terminava i
suoi discorsi col noto « cete- rum censeo Carthaginem delendam esse » fosse lo
stesso che nel suo libro poneva l’ideale ro mano nella gente nata dai campi,
cresciuta in mezzo alle bellezze e alle forze della terra, tem prata nelle
lotte aperte e solari della natura. Più di un secolo dopo, un altro grande roma
no, che gli ebrei aveva conosciuto perchè uno di 16 essi, Apollonio
Molone, come ci dice il giudeo Lazare, aveva avuto per maestro : Cicerone, tuo
nerà anche lui contro la loro mentalità. « Il tenere testa alla turba giudaica
che spesso schiamazza nelle riunioni popolari e farlo nel l’interesse della
Repubblica è prova di saldi prin cipi », diceva infatti Cicerone rivolto a
Lelio, cinquanta anni prima di Cristo, nella sua orazio ne « Pro Fiacco ». E
nel suo « De Officiis » (II, 89) si legge questo aneddoto che dice anche ai
sordi in quale dispregio avessero i romani i traf ficanti di denaro. Ecco
infatti come Cicerone rac conta che Catone rispondesse a chi lo interroga va
sul miglior modo di amministrare i propri beni : « Bene pascere ». E in quale
altro modo? fu richiesto a Catone. « Salis bene pascere » fu la risposta. E
poi? « Arare » egli disse ancora. «£ che ne pensi del prestare ad usura?» cioè
del prestare denaro a interesse. Rispose Catone : « E tu che ne pensi
dell’uccidere un uomo? ». Come, quindi, i romani, con mentalità siffat ta,
avrebbero potuto, non dico apprezzare, ma solo riconoscere la mentalità
ebraica? E se è vero che nel 160 avanti Cristo con l’Ambasciata di Giuda
Maccabeo si iniziano i primi rapporti di plomatici tra Roma e Gerusalemme, se
è vero che nel 143 e nel 139 seguono altre ambasciate, se è vero che Giulio
Cesare e Ottaviano li tolle rano, è altrettanto vero che gli ebrei anziché
essere grati e devoti allo stato romano ricambia- 17 2 rio con
disordini e con tradimenti la generosità dei Cesari, al punto che Claudio, da
un decreto di tolleranza passa alla loro espulsione e ciò per chè, come
testimoniano numerosi scrittori lati ni — da Persio a Ovidio, da Svetonio a
Plinio, da Tacito a Giovenale — « gli Ebrei conside rano come profano tutto ciò
che da noi è consi derato sacro » (cfr. Tacito, Hist.; V, 4, 5); per chè «
essi hanno un culto particolare, leggi par ticolari, disprezzano le leggi
romane » (cfr. Gio venale, Im. Lat.; XIV, 96, 104). Colle generazioni questo
contrasto di civiltà e questa antitesi di istituzioni si acuiscono. È così che
si arriva alla spedizione di Tito : all’assedio e alla distruzione di
Gerusalemme. E in tal mo do, due secoli dopo Cartagine, anche sull’or
goglioso regno di Giudea passa l’aratro romano e viene cosparso il sale. Così
quei giudei che pretendevano di essere il popolo eletto e che per invidia di
capi e per in comprensione ingenerosa di popolo avevano tra dito e condannato
nostro Signore Gesù Cristo; quegli eredi del Profeta che smentirono la profe zia
compiuta, furono dispersi per il mondo. La profezia del Golgota ebbe in tal
modo realizza zione per mano di Tito, di quel Tito, il cui arco, forse per
imperscrutabile volontà di quel Dio che egli inconsciamente servì, s’aderge
ancora intatto contro il cielo eterno di Roma, quasi a testimonia re e
ammonire le genti e il mondo intero della giu- 18 stizia e della
verità che promanano dai sette colli sacrati all’Impero del Littorio e alla
Chiesa di Cristo.Niccolò Giani. Giani. Keywords: implicature mistica, mistico,
il mistico – la mistica del liberalismo – la mistica del comunismo – la mistica
della democrazia – la mistica del socialismo – filosofia politica – dottrina
liberale – dottrina comunista – dottrina democratica – dottrina socialista --.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giani” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756746927/in/dateposted-public/
Grice e Giani – la radice italica del melodramma -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I love Giani;
for one, he was less fanatic than Nietzsche, even if it is Nietzsche’s
fanaticism that attracts Strawson! For one Giani is more careful: if ‘music’
comes from the muses, which are Apollonian, why has Nietzsche to emphasise in a
piece of bad rhetoric, that tragedy has its birth in the ‘spirit’ of “music” –
surely Nietzsche means ‘Dionysian,’ but there’s no ‘music’ in Dionysus, only
noise! Trust an Italian to correct Nietzsche on that point!” -- Appartene ad una famiglia dell'alta
borghesia torinese con spiccate inclinazioni per la musica e per l'arte: lo
zio Giuseppe (Cerano d'Intelvi) fu pittore piuttosto noto, docente
all'Accademia Albertina, così come il figlio di lui Giovanni (Torino). Si
dedica al violino e condusse contemporaneamente gli studi fino alla laurea. Si interessa inoltre al
fermento filosofico di fine Ottocento, a Spencer, ma soprattutto Nietzsche: di
Così parlò Zarathustra eavrebbe in seguito dato una traduzione, a partire dalla
seconda edizione italiana (Torino, Bocca). Si appassiona, inoltre, al teatro
musicale di Wagner, così come altri intellettuali torinesi, e lo
difende. Risale la fondazione, per opera sua e dell'amico editore Bocca,
della Rivista musicale italiana, in cui inizialmente hanno parte preponderante
gli scritti di Giani, soprattutto recensioni sul teatro musicale contemporaneo
e note sui testi poetici da musicare, anche se va probabilmente ascritto a
Giani anche l'editoriale programmatico del primo numero, all'interno di una
rivista che si propone di ospitare scritti musicologici ispirati al metodo
positivistico diffuso tra i due secoli, pur restando aperta all'apporto di
altre correnti filosofiche quali quelle dell'idealismo. In “Per l'arte
aristocratica”, dimostra le doti di polemista che lo avrebbero accompagnato per
tutta la vita: in esso si confuta un giudizio di Torchi e si afferma che la
cosiddetta "arte per l'arte" non solo non è immorale, ma è anzi la
naturale evoluzione e conclusione dello sviluppo storico di questa manifestazione
dello spirito umano. Dedica un saggio al “Nerone” di Boito, che egli da
allora considerò incondizionatamente un maestro: al tempo Boito aveva reso
pubblico il solo testo del Nerone, che venne accolto molto vivacemente e con
alterna fortuna dall'ambiente letterario italiano. La posizione intorno al
Nerone è singolare e indicativa di quali fossero i requisiti che la cerchia di
Giani e Bocca ricercava nell'opera musicale. Questa tragedia farebbe parte del
novero delle tragedie vere, quelle in cui ritmo, suono della parola, gesto,
musica concorrono alla creazione di un che di superiore. Tuttavia, quando la
musica del Nerone fu resa nota postuma, dichiara una certa delusione. Uomo
dalla cultura enciclopedica, versato con competenza anche negli studi di letteratura,
Giani cura L'estetica di Leopardi. Vede inLeopardi il luogo in cui le immagini
della sua poesia si comporrebbero in un universo etico ed estetico coerente.
All'interno della storia della critica leopardiana, pare avvicinabile ora alla
posizione di Croce, di distinzione tra il momento della poesia e il momento
della riflessione, ora a quelle positivistiche. Singolarmente,parla di musica e
dell'analogia tra il ruolo del coro greco e il ruolo del coro nelle Operette
morali solo nella conclusione, benché in termini acuti. Avrebbe
contribuito ad un ulteriore campo degli studi letterari, quello della musica
nel mondo antico. Apparve “Gli spiriti della musica nella tragedia” -- Fin dal
saggio, si richiama alla nota opera di Nietzsche, “La nascita della tragedia
dallo spirito della musica”. Giani non condivide l'opinione di Nietzsche
secondo cui il razionalismo del teatro di Euripide avrebbe spento la portata dionisiaca
della tragedia. La tragedia di Euripide permane ad un livello musicale altissimo.
Per affermare questo ricostruisce il ruolo della musica nei testi tragici sulla
base delle fonti antiche, dedicandosi alle singole parti e forme musicali dei
drammi, sempre attento a sottolineare la valenza estetica complessiva della
tragedia o melodramma, ma nel contempo senza trascurare le posizioni
metodologiche della scuola filologica. Fino ad allora non aveva stretto
profondi legami con i musicisti coevi (eccettuato Boito), si avvicina sempre più
alle compositori. Saluta con favore Bastianelli e Pizzetti, approvandone
principalmente le posizioni estetiche e la ricerca di una certa spiritualità
nella music, tipica dei due esponenti del circolo fiorentino della Voce, ma
prese le distanze ben presto dalle loro prove compositive, in particolare dai
drammi musicali di Pizzetti, che non parvero a opere d'arte totalmente
compiute. Un legame creativo e biografico molto più stretto strinse con Ghedini,
anche per via delle comuni frequentazioni torinesi: per Ghedini, che sta ancora
cercando una personale posizione estetica e anda raggiungendo progressivamente
le conquiste di stile e di linguaggio che lo avrebbero reso famoso, Giani valse
come una sorta di pigmalione, suggerendo testi da musicare per le liriche e
esaminando con occhio critico le composizioni di Ghedini. Giani stesso fu
librettista. Ridusse L'Intrusa di Maeterlinck, musicata da Ghedini ma mai
rappresentata, e scrisse Esther per Pannain.Verso il termine della sua vita, divenne
molto noto in tutta Italia per i suoi scritti di radicale confutazione di Croce.
Non era particolarmente ostile all'idealismo di Croce, anzi considerava la
teoria dell'arte come intuizione una delle chiavi per la valutazione della
creatività anche musicale e teatrale. Tuttavia, a mano a mano che l'estetica di
Croce veniva sistematizzata dal suo stesso autore, ma soprattutto da alcuni
suoi pedestri seguaci mal tollerati dal nostro, attaccò tale concezione con il
bellicoso pseudonimo di Luigi Pagano in La fionda di Davide, criticando che in
essa non vi fosse posto per il lato tecnico e materiale della creazione e che
addirittura la stessa musica non fosse stata debitamente considerata da Croce
al medesimo livello delle altre arti che diedero lustro al passato
italiano. Il posto di Giani nella storia della musicografia è tutto particolare.Pestalozza
vi ha addirittura visto un predecessore della “fenomenologia musicale.”In
realtà, ad un attento esame quantitativo dei suoi scritti, pare essersi
dedicato assai poco a questa o quella musica in particolare, mentre il suo
contributo fu assolutamente preponderante nei temi di estetica musicale.Fu una
voce originale, fuori dal coro, che inizialmente difese il dramma di Wagner,
quindi auspice fermamente all'interno dei testi musicati dai compositori
qualità come la purezza e la letterarietà, infine spronò, pur da lontano, i
compositori ad una libertà adogmatica e ad una ricerca continua di stile e di
linguaggio, rendendoli attenti alla peculiarità della musica, che doveva essere
cosa che egli ripete spessissimo nei suoi scrittila "figuratrice dell'invisibile",
cioè l'elemento che dà corpo alle sensazioni, alle suggestioni, alle fantasie
suscitate dai testi musicati e non immediatamente in essi esplicate. Una
posizione la sua che può essere paragonata a quella del "critico-artista"
teorizzata da Wilde, che Giani ben conosceva: un "critico-artista"
nel senso di ri-creatore dei percorsi attraverso cui la composizione è venuta
alla luce, e ignoti al compositore stesso, ma nei quali quest'ultimo riesce a
identificarsi una volta che il critico li rivela a lui e al mondo. Dispose
per testamento che i suoi libri venissero donati "ad una biblioteca di
piccola Città preferibilmente Pinerolo" e proprio presso la Biblioteca
Civica "Camillo Alliaudi" di Pinerolo ora si trovano, presso il Fondo
che prese il suo nome. Altre saggi: “Per l'arte aristocratica (in
proposito di uno studio di Luigi Torchi), in “Rivista Musicale Italiana”, --
aristocrazia, democrazia, crazia – kratos – il concetto di potere -- Il “Nerone” di Arrigo Boito, in “Rivista
Musicale Italiana”, L'estetica di Leopardi, Torino, Bocca, con lo pseudonimo di
Anticlo: Gli spiriti della musica nella tragedia greca, in “Rivista Musicale
Italiana”, Milano, Bottega di Poesia, L'amore nel Canzoniere di Francesco
Petrarca, Torino, Bocca, con lo pseudonimo di Luigi Pagano: La fionda di
Davide. Saggi critici (Boito, Pizzetti, Croce), Torino, Bocca. Dizionario Biografico
degli Italiani Cesare Botto Micca, in morte di Romualdo Giani, in “Rivista
Musicale Italiana”, Annibale Pastore, In memoria,, in “Rivista Musicale
Italiana”, Massimiliano Vajro, “Rivista Musicale Italiana”, Luigi Pestalozza,
Introduzione a «La Rassegna Musicale». Antologia, Luigi Pestalozza, Milano,
Feltrinelli, Guido M. Gatti, Torino musicale del passato, in «Nuova Rivista
Musicale Italiana». Guglielmo Berutto, Il Piemonte e la musica, Torino, in
proprio, ad vocem. Stefano Baldi, “Fotografare l'anima” -- Romualdo Giani e
Giorgio Federico Ghedini, in “Bollettino della Società Storica Pinerolese”, Paolo
Cavallo,La vita, il fondo musicale, le collaborazioni musicologiche e gli
interessi letterari, Pinerolo, Società Storica Pinerolese,. Con contributi di
Casagrande, Baldi, Betta, Cavallo,
Balbo, Fenoglio. GIANI, Romualdo. - Nacque a Torino il 28 febbr. 1868 da
Francesco e da Clementina Guidoni, originari della Valle d'Intelvi.
Laureatosi in giurisprudenza non ancora ventenne, esercitò l'avvocatura
patrocinando esclusivamente cause civili nel settore commerciale; allo stesso
tempo si occupò con continuità di arte e letteratura. Creativo e versatile,
ebbe profonde conoscenze della storia e della tecnica delle diverse arti,
ampliate dai numerosi viaggi effettuati nelle principali città d'arte
europee. Nel 1894 fu tra i fondatori, con l'amico editore G. Bocca, della
Rivista musicale italiana, alla quale collaborò ininterrottamente per
trentasette anni, spesso valendosi di pseudonimi. Esordì sul primo numero
della rivista con la critica "I Medici". Parole e musica di R.
Leoncavallo. Il dramma (Riv. mus. italiana, I [1894], pp. 86-95); sullo stesso
numero diede il via alla rubrica Note sulla poesia per musica(ibid., pp.
141-143, 321-323), ove poneva in luce difetti e pregi dei testi inviati da
autori sconosciuti per dimostrare che la poesia del melodramma era forma
d'arte. Nel 1896, in Per l'arte aristocratica (ibid., III, pp. 92-127),
sostenne una vivace polemica con L. Torchi sull'autonomia dell'arte, alla quale
parteciparono M. Pilo, D. Garoglio, A. Foulliée e altri; il G. volle dimostrare
che la formula "l'arte per l'arte" o "l'arte aristocratica"
non era cosa assurda e immorale, come sostenuto dal Torchi, ma l'ultimo effetto
di un'evoluzione. Nel 1901 pubblicò il saggio critico
Il"Nerone"di A. Boito (Torino 1901; 2a ed. ampliata ibid. 1924; cfr.
Riv. mus. ital., VIII [1901], pp. 861-1006, e XXXI [1924], pp. 199-392), che
gli procurò l'amicizia dell'autore, il quale gli inviò numerose lettere in cui
si dichiarava suo grande ammiratore. Nel volume L'estetica nei
"Pensieri" di G. Leopardi (Torino 1904; 2a ed. ibid. 1928; cfr. Riv.
musicale italiana, XXXV [1928], pp. 226-243) il G. oltre a ricostruire il
pensiero estetico del poeta di Recanati, ne esaminò anche le teorie sull'arte
musicale. Nel 1899, per la "Biblioteca di scienze moderne" del
Bocca, era stato pubblicato Così parlò Zaratustra di F. Nietzsche, tradotto da
E. Weisel; il G., ritenendo la traduzione non fedele all'originale, ne approntò
una nuova versione d'accordo con il Weisel, pubblicata, sempre dal Bocca, nel
1906. Nel 1913, con lo pseudonimo di Anticlo, diede alle stampe lo studio Gli
spiriti della musica nella tragedia greca (Milano 1924; Riv. musicale italiana,
XX, pp. 821-887). Nel 1917, durante il primo conflitto mondiale uscì L'amore
nel Canzoniere di F. Petrarca (Torino 1917; in appendice Nota sul suono e sul
ritmo), considerata dalla critica, forse, la sua opera più riuscita. Il
G. inoltre traduceva per diletto dal latino, soprattutto Tibullo e Orazio, e
dal francese; come poeta pubblicò nel 1920 soltanto due libretti d'opera: Esther
(Riv. musicale italiana, XXVII, pp. 611-648), tragedia lirica in tre atti
ispirata dal testo biblico, mai musicata, sebbene offerta dal G. a I. Pizzetti,
e L'Intrusa (ibid., pp. 340-358), un atto per musica, tratto dal dramma in
prosa di M. Maeterlinck, musicato dapprima da G.F. Ghedini (1921; non
rappresentato), e poi da G. Pannain (1926), che la rappresentò a Genova nel
1940. La pubblicazione dell'articolo Il Vangelo e il
Breviario,celebrazione dell'estetica crociana (in Riv. musicale italiana, XXXII
[1925], pp. 571-598), apparso sotto lo pseudonimo di Luigi Pagano, rappresentò
un attacco all'estetica crociana che diede origine a una polemica col Croce
stesso. Il G., con logica inflessibile, dimostrò infondati alcuni concetti del
filosofo, come l'eccessivo idealismo che considerava la musica estranea ai
fenomeni fisici che la originano e alla tecnica, espressi in Estetica come
scienza dell'espressione e linguistica generale (1902) e nel Breviario di
estetica (1913), opere che il G. ironicamente chiama Vangelo e Breviario. Con
Socrate e la pulce (ibid., XXXIII [1926], pp. 77-102) rispondeva allo scritto
La musica e l'estetica dell'idealismo (ibid., pp. 61-76), in cui il Pannain
assumeva la difesa delle tesi crociane. Questi saggi, compreso quello del
Pannain, furono raccolti in seguito nel volume La fionda di Davide (Torino
1928) insieme con uno studio sul Boito, e la critica a Debora e Jaele di
Pizzetti, giudicata un'opera mancata. Contemporaneamente il G. pubblicava il
Sillabario di estetica (in Riv. musicale italiana, XXXV [1928], pp. 442-453), e
a conclusione della polemica aggiungeva una Nota crociana, nel capitolo terzo
de La fionda di Davide, in cui evidenziava ancora altre contraddizioni nella
teoria del Croce. La polemica si riaprì nel 1929 con lo scritto La favola
dell'aridità(ibid., XXXVI, pp. 311 s.) con il quale il G. insorgeva, in difesa
del Seicento musicale italiano, contro un'affermazione del Croce che definiva
"età di aridità creativa" il secolo compreso tra il 1550 e il 1650;
la rettifica crociana Obiettanti e seccatori non soddisfece il G., che replicò
con Il parto settimello (ibid., XXXVII [1930], pp. 249-254). Il G.
scrisse inoltre numerose recensioni e articoli sulla Rivista musicale italiana
e sulla Rassegna musicale, a cui collaborò dal 1928, spesso sotto gli altri
pseudonimi di H. Giraud e A. Cannella. Il G. morì a Torino il 16 genn.
1931. Oltre agli scritti citati si ricordano: "Savitri"Idillio
drammatico indiano in tre atti di L.A. Villanis. Musica di N. Canti. La poesia,
in Rivista musicale italiana, II (1895), pp. 95-112; Note marginali agli
"Intermezzi critici" di I. Pizzetti, ibid., XXVIII (1921), pp.
677-690;Note Leopardiane, in Campo (Torino), n. 5, 18 dic. 1904; Estetica
nuova, ibid., n. 9, 15 genn. 1905; Per una biografia di Berlioz, ibid., n. 26,
14 maggio 1905; Melodramma e dramma musicale, ibid., n. 37, 30 luglio
1905. Fonti e Bibl.: G. Adler, R. G., Gli spiriti della musica nella
tragedia greca, in Riv. mus. ital., XXXII (1925), pp. 113-115; L. Ronga, In
morte di R. G., ibid., XXXVIII (1931), 1, pp. 115-124; C. Botto Micca, R. G.
(Lo scrittore e il critico), in Il pensiero di Bergamo, VI (1931), 7; A.
Pastore, In memoria di R. G., in Riv. musicale italiana, XLV (1941), pp. 50-53;
M. Vajro, R. G., ibid., LIII (1951), pp. 337-368; A. De Angelis, Diz. dei
musicisti, Roma 1928, pp. 244 s.; Diz. encicl. univ. della musica e dei
musicisti, Le biografie, III, p. 189.Romualdo Giani. Giani. Keywords:
implicatura. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Giani” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Giannantoni – la dialettica – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Perugia).
Filosofo. Grice: “I love Giannantoni; for one, he believes, with me, that there
is Athenian dialectic, Roman dialectic, Florentine dialectic and Oxonian
dialectic; like me, he has explored mostly ‘Athenian dialectic,’ and he has
noted that its birth (‘nascita’) is in the ‘dialogo socratico,’ so it should
surprise nobody that I have based my philosophy on the facts of conversation!” Si
laurea a Roma sotto Calogero. In “Il dialogo di Socrate e la dialettica di
Platone” attribuisce a Socrate una concezione molto laica della divinità e
della religiosità («Religiosità, che Socrate, il quale era certamente una
personalità religiosa, intendeva in modo del tutto diverso da come comunemente
era sentita a quell'epoca»). La sua dottrina storico-filosofica si fonda sul
principio che ogni seria riflessione filosofica si debba basare su un'accurata
e rigorosa ricerca filologica delle fonti. Questo spiega l'enorme dispiego di tempo
dedicato all'elaborare la sua opera monumentale, “Reliche di Socrate” (“Socratis
et Socraticorum reliquiae”). Giannantoni ha sempre seguito il criterio di Croce
e Gramsci, secondo cui l'esposizione di un filosofo debba avvenire tramite
l'esame storico cronologico (unita longitudinale) delle sue opere, allo scopo
di prendere consapevolezza dell'evoluzione della dottrina e di separare da
questa ogni sovrapposizione interpretativa personale non adeguatamente basata
sulle fonti. Convinto dell'onestà
intellettuale come valore fondamentale cui deve rifarsi ogni interprete della
storia della filosofia, capace perciò di rinunciare di fronte alla ricostruzione
filologica dei testi anche alle proprie più profonde convinzioni personali. Traccia
un profilo “ideale” dello «storico autentico» della filosofia, che ha il
«dovere di farsi filologo rigoroso per avvicinarsi il più possibile al mondo
del filosofo da lui studiato», ben sapendo che ciò «non basta ancora se non è
accompagnato da una sensibilità filosofica e da una consapevolezza teoretica e
storica insieme. Di qui conclude il fascino di una ricerca che, rendendoci
consapevoli di una grande quantità di problemi altrimenti inavvertiti, termina
in un autentico arricchimento spirituale. Il suo insegnamento è stato
caratterizzato dalla volontà di essere semplice e chiaro nell'espressione del
pensiero considerando questo un dovere morale dell'intellettuale nei confronti
degli altri studiosi. Anche allo scopo
di realizzare una scrittura filosofica quanto più scientificamente precisa, ha
compiuto studi approfonditi sulla logica di Aristotele e sulla storia della
semantica filosofica (teoria del segno). Nella sua vita e nella dottrina si è sempre
impegnato nel mettere in pratica l'insegnamento socratico, così come fece il
suo maestro Calogero: insegnando la conversazione basatio sulla regola d’oro:
il rispetto verso il co-conversazionalista. Cura I Presocratici di Diels e Kranz.
Altre saggi: “La metafisica dei lizii” (Roma, Rai); “Che cosa ha veramente
detto Socrate” (Roma, Ubaldini); Cirenaici (Firenze: Sansoni); “Filosofia
romana” (Napoli: Bibliopolis); “Filosofia italica in eta antica” (Milano: Vallardi);
Le filosofie e le scienze contemporanee, Torino: Loescher, I fondamenti della
logica de’ lizii” (Firenze: La nuova Italia); Le forme classiche / Torino:
Loescher, “Volpe / Roma: Riuniti, Socrate. Tutte le testimonianze: Da
Aristotfane e Senofonte ai Padri cristiani; Bari: Laterza, Aristotele. Opere;
introduzione e indice dei nomi, Roma; Bari: Laterza, Epicuro. Opere, frammenti,
testimonianze sulla sua vita; Bignone;.Bari: Laterza, I presocratici: testimonianze
e frammenti / Bari: Laterza, Profilo di storia della filosofia, Torino: Loescher.
La razionalitàmTorino: Loescher, Socratis et Socraticorum Reliquiae. Collegit,
disposuit, apparatibus notisque instruxit G. Giannantoni, 2Bibliopolis. Anthropine Sophia. Studi di
filologia e storiografia filosofica in memoria di Gabriele Giannantoni; Introduzione
di Francesco Adorno: per Gabriele Giannantoni: un dialogo, Editore Bibliopolis
(collana Elenchos), 2009 Deputati della
V, VI, VII legislatura. Op.cit. Bruno Centrone,
ed.Bibliopolis, Enciclopedia Treccani, Bruno Centrone, Bibliopolis, Edizioni di
filosofia, ILIESI CNR La traduzione dei
Presocratici da parte di Giannantoni è stata criticata da Giovanni Reale
nell'introduzione alla sua nuova traduzione dei Presocratici del 2006, critiche
riportate in due articoli-intervista comparsi sul "Corriere della Sera"
nei quali Giannantoni, di formazione gramsciana
veniva accusato come curatore della "vecchia" edizione laterziana di
avervi perpetrato «una certa manomissione del sapere filosofico», in ossequio
all'ideologia e all’egemonia culturale marxista. Interpretazioni del pensiero
di Socrate#Socrate: l'interpretazione di Giannantoni Guido Calogero La teoria sul
pensiero greco arcaico. Per chi abbia svolto la propria attività di
ricerca o abbia compiuto la propria formazione scientifica nell’ambito della
storiografia filosofica negli anni ’80 e ’90, il nome di Gabriele Giannantoni
(Perugia, 1932 – Roma, 1998) è legato anche al Centro di Studio del Pensiero
Antico (CSPA). dal Consiglio Nazionale delle Ricerche Roma,1 su
richiesta, appunto, di Gabriele Giannantoni – in sostituzione del precedente
Centro di Studio per la Storia della Storiografia Filosofica –, il Centro di
Studio del Pensiero Antico si inserì nel panorama nazionale e internazionale della
ricerca storica come una realtà innovativa e contribuì allo sviluppo di una
disciplina, la storia della filosofia antica, appartenente al duplice contesto
della storiografia filosofica e delle scienze dell’antichità. Il Centro fu
attivo in modo autonomo fino al 2001, quando, a seguito di una riforma che
ridisegnò la rete scientifica del Consiglio Nazionale delle Ricerche, esso fu
accorpato con il Centro di Studio per il Lessico Intellettuale Europeo per dar
vita all’ Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee
(ILIESI), sotto la direzione di Tullio Gregory.2 L’attività del Centro di
Studio del Pensiero Antico fu inevitabilmente legata al percorso intellettuale
e di ricerca del suo fondatore, benché in modo non esclusivo. In questo breve
profilo si cercherà di rievocare, in primo luogo, i motivi culturali che furono
alla base della costituzione di questa realtà, nonché alcuni modelli
scientifici di riferimento che ne hanno determinato in certa misura la
configurazione e l’attività; in secondo luogo, i contributi originali che il
Centro è stato in grado di fornire all’area disciplinare di propria competenza,
in termini di pubblicazioni, progetti e formazione, sotto la guida di
Giannantoni e di coloro che ne coadiuvarono la direzione. 1 Decreto del
Presidente del CNR. n. 6303, ratificato successivamente da una convenzione tra
il CNR e “La Sapienza”, stipulata il 21 aprile 1983 e confermata dal Presidente
del CNR fino al 2001. Per il testo della convenzione si veda “Elenchos”, 1,
1980, pp. 201-202. 2 Sull’iter di riforma che portò alla nascita dell’Istituto
per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee e per i riferimenti
normativi, si veda Liburdi 2018, p. 49 e ss. Istituito nel 1979 presso la
Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “La Sapienza” di
Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico
MOTIVI CULTURALI E MODELLI ISPIRATORI Come accennato, l’attività scientifica
del Centro di Studio del Pensiero Antico fu comprensibilmente orientata da
precise scelte critiche e metodologiche di colui che ne aveva voluto
l’istituzione. Per dare ordine a questo sintetico profilo, credo sia opportuno
riassumere i motivi che ispirarono la promozione di un organo di ricerca mirato
agli studi storici sul pensiero antico, in tre principali indirizzi: in primo
luogo, la possibilità di considerare la storia della filosofia antica come una
disciplina dotata di un proprio specifico (e in certa misura autonomo) profilo
quanto a materia di indagine, arco storico e metodologia; in secondo luogo, la
nascita, o rinascita, dell’interesse verso scuole filosofiche dell’antichità
greca e romana tradizionalmente classificate come minori, in particolare, le
cosiddette scuole socratiche e le scuole ellenistiche, che dalle socratiche
discendono direttamente sotto l’aspetto storico e dottrinale; infine, la
rivisitazione del patrimonio dossografico – cioè del complesso della tradizione
indiretta che ha conservato, per estratti, parafrasi o compendi, il pensiero di
quei filosofi antichi di cui non è giunto a noi né il corpus né una singola
opera completa –. Quest’ultimo indirizzo si inseriva in una tendenza di studi
continentale che fece della dossografia antica una vera e propria categoria
storiografica con risultati particolarmente innovativi. L’interesse portato
alla dossografia, oltre a sostenere gli studi nell’ambito delle filosofie di
derivazione socratica e quelle ellenistiche (delle quali, per l’appunto, non si
è conservato alcun testo d’autore), apriva un percorso di studi a cui
Giannantoni era particolarmente legato e che lo vide impegnato sia come
direttore del Centro che individualmente, e cioè la riconsiderazione di tutta
la dossografia relativa alla filosofia presocratica. Una rapida messa a fuoco
di questi tre indirizzi permetterà di chiarire quali interessi scientifici di
Gabriele Giannantoni abbiano maggiormente pesato sulle strategie generali e
sulle iniziative specifiche del Centro, nonché sulla formazione professionale
che esso ha reso possibile. Quanto al primo indirizzo, la questione del profilo
specifico della storia della filosofia antica presuppose, da parte di
Giannantoni, una approfondita analisi della visione storica che la cultura
filosofica italiana era venuta maturando intorno alla filosofia antica. In questa
analisi, i cui esiti si leggono, non a caso, nell’articolo di apertura della 6
ILIESI digitale Temi e strumenti Francesca Alesse G. Giannantoni e
il Centro di Studio del Pensiero Antico rivista “Elenchos” intitolato La
storiografia idealistica e gli studi sul pensiero antico (“Elenchos”, 1, 1980,
pp. 7-44), svolge un ruolo chiave la rappresentazione che del pensiero antico
seppe dare l’idealismo italiano, specie con Croce, e la sua valutazione
critica. L’idealismo italiano si era infatti distinto per due caratteri, l’uno
teorico, l’altro metodologico, che apparentemente non favorirono lo sviluppo di
una moderna storiografia del pensiero antico. Per un verso, tanto Croce che
Gentile vedevano nella filosofia antica (cioè greca) i limiti di un pensiero oggettivo,
astratto e naturalistico, che mai sarebbe arrivato a concepire la positività
dell’idea di infinito, né quella della soggettività. I punti più alti raggiunti
dalla filosofia teoretica greca, Socrate, Platone, Aristotele, coincidevano
rispettivamente con la delineazione del concetto, o universale astratto, con la
sua separazione dalla realtà sensibile (la teoria delle idee trascendenti e la
scienza come dialettica delle sole idee) e con una logica puramente strumentale
(la sillogistica), alla quale sarebbe mancata la teorizzazione del giudizio
individuale, o giudizio storico,3 nonché la capacità di superare l’astrattezza
e attingere l’atto stesso del pensiero.4 Nella filosofia pratica parimenti i
Greci antichi, pur non mancando di intuizioni profonde, non avrebbero superato
il precettismo e l’empirismo, e la loro etica ingenua non sarebbe mai giunta a
distinguere etica ed economica, morale e diritto, come categorie dello
spirito.5 3 Giannantoni 1980, n. 13, rimanda a Croce 19092, di cui diamo qui i
riferimenti da Croce 1996a, pp. 112-116, 352-356, 396-398. 4 Ciò Giannantoni
ricavava, pur senza riferimenti testuali precisi, sia dagli excursus storici
che possiamo leggere in Gentile 19543, presumibilmente alle pp. 112-113,
123-125, 202-206, e in Gentile 1917, vol. I, pp. 21-32, sia da Gentile 1964. 5
Giannantoni 1980, nn. 14 e 15, rimanda a Croce 19455; si veda Croce 1996, pp.
112-114, 224-225, 367-368, e a Croce 19273, si veda Croce 2007, pp. 164-165.
ILIESI digitale Temi e strumenti 7 Figura 1: copertina di
“Elenchos”, 1, 1980. Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro
di Studio del Pensiero Antico Per l’altro verso, però, l’idealismo formulò una
critica, entro certi limiti giusta e salutare, alla filologia classica – cioè
alla filologia classica moderna sviluppata in Germania nel corso del XIX
secolo, distintasi, tra le altre cose, per una predilezione della cultura greca
rispetto alla latina –, colpevole sostanzialmente di non essere una disciplina
veramente storica. La filologia classica, malgrado i grandi risultati raggiunti
nella costituzione dei testi della letteratura antica, nella revisione della
tradizione bizantina e nelle nuove acquisizioni, si affermò come una procedura
tecnica complessa e molto raffinata ma priva della visione della storicità del
documento, del suo autore, dell’ambiente della sua composizione, nonché del suo
testimone. La questione, che emerse inizialmente nel campo delle edizioni
letterarie,6 non è meno complessa per quelle filosofiche: i testi della
filosofia antica richiedono anche una comprensione dei contenuti teorici e
pretendono di essere inquadrati in sistemi di pensiero il cui senso trascende
il ripristino del testo, o quanto meno se ne distingue in data misura. Questo
fu il nodo che si dovette sciogliere perché si potesse cominciare a delineare
una storia della filosofia antica che includesse tanto la capacità di fornire
edizioni affidabili sotto il profilo testuale, quanto quella di storicizzare i
documenti, cioè di comprenderne i contenuti alla luce di coordinate culturali
congrue con le epoche di appartenenza. La storiografia idealistica è dunque
imputata da Giannantoni di evidenti limiti interpretativi del pensiero antico,
come fu ben presto mostrato, ad esempio, dalle due celebri monografie di
Rodolfo Mondolfo sull’infinito nel pensiero greco e sul soggetto umano
nell’antichità,7 che smentivano l’idea di un connaturato e irreparabile
oggettivismo della filosofia greca. Tuttavia l’idealismo ha fornito
un’importante lezione e soprattutto ha indicato con chiarezza un ostacolo da
superare: 6 In particolare, la critica crociana a cui Giannantoni fa
riferimento (1980, p. 18 s., n. 11) prese le mosse da edizioni di testi poetici
e si volse contro la “mera filologia” e la Kulturgeschichte che, nella pretesa
di restituire il senso del testo letterario, non apportavano comprensione né
storica né concettuale. Cfr. ad esempio la recensione alla monografia del 1950
di Ettore Romagnoli su Aristofane e che si può leggere in Croce 2003, pp.
97-107. Dice Giannantoni al riguardo (p. 19): “...il problema del rapporto tra
filologia e poesia, tra filologia e storiografia, tra filologia e filosofia sta
al centro dell’elaborazione dell’idealismo italiano”. Giannantoni probabilmente
pensava anche alle considerazioni gentiliane intorno al “filologismo” che
affligge la storia e ostacola la costituzione di una storia della filosofia, in
Gentile 19543, pp. 132-134. 7 Mondolfo 1933; Mondolfo 1958. 8 ILIESI digitale
Temi e strumenti Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di
Studio del Pensiero Antico Tracciando nel primo dei due volumi in onore di B.
Croce per il suo 80° compleanno, quello che è tuttora l’unico panorama
complessivo degli studi di filosofia antica nel cinquantennio 1896-1946, Guido
Calogero non ritenne di dover prendere in considerazione né Croce stesso né
Gentile (e neppure De Ruggiero) quali interpreti del pensiero antico; né altri
ne hanno trattato in modo approfondito (mentre studi importanti esistono sulle
loro interpretazioni di altri periodi della storia del pensiero) ... la ragione
... è da ricercare in una persistente separazione, non solo concettuale, ma
anche di organizzazione degli studi, che lo stesso idealismo ha contribuito non
poco a consolidare, tra considerazione filosofica, ricostruzione storica e indagine
filologica. Gli studi di filosofia antica hanno infatti sofferto in modo
particolare di una vera e propria scissione tra quelli che erano considerati i
compiti esclusivi del filologo e quelle che erano considerate le competenze
dello storico e del filosofo: con la conseguenza che questi studi sono potuti
apparire troppo filologici ... ad alcuni e ad altri, all’opposto, troppo
filosofici per entrare di pieno diritto nell’ambito di ciò che si era soliti
chiamare la “scienza dell’antichità”.8 Quando Giannantoni scriveva queste
parole (cioè nel 1980), era persuaso che la scissione non fosse superata e
fosse causa, oltre che di una durevole influenza idealistica, anche di un
pregiudizio nei rispetti della filologia, malgrado i grandi progressi e le
messe a punto di tanta prestigiosa filologia classica italiana.9 Stante,
quindi, una situazione di progresso “zoppicante”, per così dire, degli studi
storiografici italiani sulla filosofia antica, Giannantoni nutrì l’aspirazione
di delimitare un preciso terreno metodologico cogliendo la preziosa occasione
che il Consiglio Nazionale delle Ricerche gli offriva. Il secondo indirizzo è
quello che, almeno a prima vista, rivela maggiormente la stretta relazione tra
il percorso scientifico individuale di Giannantoni e lo spettro di interessi
messi in campo da quanti hanno operato nel o col Centro, a cominciare dai suoi
allievi. Tanto più che l’attenzione rivolta non solo a Socrate ma alle
tradizioni socratiche ed ellenistiche non è del tutto indipendente dalla
questione dell’impatto dell’idealismo italiano sulla fortuna della storiografia
filosofica dell’antichità. Il giudizio crociano sui limiti delle filosofie di
Socrate, Platone e Aristotele, ad esempio, diventa un vero e proprio
deprezzamento delle tradizioni “minori”.10 Ed è appena necessario 8 Giannantoni
1980, pp. 7-8. Il riferimento a Calogero è da intendersi a Calogero 1950, pp.
43-59. 9 Si veda al riguardo il chiarimento di Giannantoni relativo all’opera
di Giorgio Pasquali, che pervenne ad un’unità di filologia e storia come unità
di metodo, non di contenuti, e che si caratterizzò tramite uno storicismo della
filologia classica, profondamente diverso dallo storicismo idealistico: questo,
inteso come riconoscimento nella storia e nella cultura di figure e “categorie”
del pensiero e dello spirito, quello, inteso come intima connessione tra le
rigorose tecniche filologiche e la conoscenza storica (cfr. 1980, p. 37). 10
Cfr. Croce 19455, p. 201: “... col considerare principalmente il contrasto
delle passioni verso la volontà razionale sorsero le scuole opposte dei cinici
e cirenaici, ILIESI digitale Temi e strumenti 9 Francesca Alesse
G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico ricordare che la
figura di Socrate, a cui deve farsi risalire il terreno di ricerca costituito
dalle scuole socratiche e buona parte di quello attinente alle tradizioni
ellenistiche, fu al centro di importanti riflessioni teoretiche e
storiografiche di Guido Calogero,11 che di Giannantoni fu il maestro. Abbiamo
poi vari segni di un’interazione di tendenze di studio comuni a più scuole
anche fuori dell’Italia. L’interesse per le tradizioni dette “minori”, tali
cioè in quanto paragonate alle filosofie di Platone e Aristotele e, in più,
conservate solo tramite tradizione indiretta, si manifesta già alla fine degli
anni ’40 con studi seminali sui Sofisti, su alcuni discepoli di Socrate, in
particolare Antistene di Atene e Aristippo di Cirene, sulla tradizione
scettica.12 Proprio ad Aristippo di Cirene e alla sua scuola Giannantoni dedica
la sua prima importante opera scientifica (Giannantoni 1958). In essa si
profilano le problematiche, filologiche e storiografiche prima ancora che
concettuali, relative alla intricata questione della eredità socratica:
l’edizione critica di un corpus proveniente da molti e diversi testimoni; la
possibilità di dirimere le fonti storicamente attendibili dalla ritrattistica
aneddotica; la contestualizzazione del filosofo all’interno di un milieu
composito in cui si intrecciano le influenze della Sofistica e della retorica
classica e il magistero socratico. stoici ed epicurei e altrettali; ma le
dottrine di tutte coteste scuole, se serbano qualche valore empirico come
precetti di vita più o meno convenienti a individui, classi e tempi
determinati, non ne presentano alcuno o scarsissimo, esaminate in quanto
concetti filosofici; e cinici e cirenaici, stoici ed epicurei, piuttosto che
filosofi sembrano monaci, seguaci di questa o quella regola”. Sulle “scuole
socratiche minori” cfr. anche il giudizio, meno sommario, di Gentile 1964, pp.
141-177. 11 Com’è molto noto, Socrate occupò un ruolo centrale nella personale
riflessione teorica di Guido Calogero, che elaborò la sua “filosofia del
dialogo” esattamente sul modello del Socrate dei dialoghi platonici, nel quale
il filosofo italiano vide la prima formulazione di un’istanza intellettuale e
morale – il dialogo, appunto, contrapposto al “logo” conclusivo e assertivo –
destinata a far giustizia della pretesa di fondare l’etica sulla epistemologia
e sulla metafisica, e che sarebbe stata anche alla base della moderna
concezione dello stato liberale e di diritto. Ma Socrate fu anche al centro di
importanti lavori storiografici di Calogero, alcuni dei quali aprirono la
strada alla ricerca della posterità del magistero socratico nel pensiero
tardo-ellenistico e cristiano. Una visuale critica diversa da quella di
Giannantoni, ma in linea con la percezione del ruolo capitale svolto da Socrate
nella storia del pensiero antico. Mi limito su tutto ciò a rimandare a
Giannantoni 1987 e a Brancacci 2017. 12 Per limitarsi alle opere principali:
Untersteiner 1949, con moltissime riedizioni; Dal Pra 1950; Humbert 1967;
Mannebach 1961; Decleva Caizzi 1966; Patzer 1970. 10 ILIESI digitale Temi e
strumenti Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di
Studio del Pensiero Antico Questi elementi appaiono, nella storiografia e nella
filologia europea degli anni ’70, sempre più determinanti per la comprensione
delle dottrine di personalità come Aristippo, Antistene di Atene, Euclide di
Megara, Eschine di Sfetto. In più, il superamento della Quellenforschung
tradizionale e l’approfondimento dei contenuti filosofici aprirono nuove
possibilità di delineare il percorso che dalle scuole socratiche della seconda
metà del IV secolo a.C. porta alle principali tendenze ellenistiche, il
Giardino, la Stoa, il Peripato post- aristotelico, la scepsi pirroniana ed
accademica. A questo complesso terreno di ricerca è dedicata una iniziativa che
precede l’istituzione del Centro di Studio del Pensiero Antico benché sempre
sostenuta dal Consiglio Nazionale delle Ricerche: il convegno “Scuole
socratiche minori e filosofia ellenistica”, organizzato nel 1976 dal Centro di
Studio per la Storia della Storiografia (la cui direzione era stata affidata
allo stesso Giannantoni), e i cui atti furono pubblicati nel 1977 dalla casa
editrice il Mulino di Bologna. Le relazioni presentate al Convegno del 1976,
mirate ad una ricognizione dello stato documentario delle filosofie
riconducibili a Socrate o ad uno dei suoi discepoli, e dei rapporti concettuali
tra queste tradizioni e le filosofie ellenistiche e di età imperiale,13 furono
aperte dalla comunicazione dello stesso Giannantoni sul tema Per un’edizione
delle fonti relative alle scuole socratiche minori, nella quale lo studioso
esponeva i risultati di un già lungo percorso di ricerca, ma ancora lontano,
nel 1976, dalla sua conclusione. In questa relazione vengono messe a fuoco le
13 Cambiano 1977; Celluprica 1977; Sillitti 1977; Decleva Caizzi 1977; Ioppolo
1977; Brancacci 1977; Donini 1977; Isnardi Parente 1977; Repici 1977. ILIESI
digitale Temi e strumenti 11 Figura 2: copertina di G. Giannantoni,
I Cirenaici. Raccolta delle fonti antiche, traduzione e studio introduttivo,
Firenze, 1958. Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di
Studio del Pensiero Antico peculiarità e la notevole problematicità,
soprattutto sotto il profilo filologico, di una edizione di testi filosofici e
di molti autori. Emerge da questo breve testo non solo uno stato dell’arte ma
un criterio programmatico che non considera sufficienti, benché certamente
necessarie, le sole competenze della filologia classica, ma pretende una
sensibilità storica e una capacità di comprensione teorica che gli sforzi della
Altertumswissenschaft tradizionale non avevano sempre garantito. L’edizione di
testi filosofici di trasmissione indiretta non può limitarsi alla costituzione
del testo e alla redazione di apparati critici da cui si desuma il meticoloso
lavoro di collazione dell’editore, ma deve tener conto dei contesti storici e
problematici nei quali sono vissuti tanto il filosofo quanto il suo testimone.
Inoltre, un’edizione che sia, in più, una silloge di testi relativi a (e non
provenienti da) molti filosofi, comporta di andare oltre la natura estrinseca14
della singola testimonianza (epoca e ambiente del testimone, distanza
cronologica dall’autore, genere letterario della fonte, parametri stilistici,
etc.) e di individuare alcune strutture di pensiero che, in un lasso di tempo
abbastanza lungo, si facciano riconoscere per caratteri salienti e durevoli e,
al contempo, riflettano le condizioni storiche che ne determinano la
specificità (secondo i dettami dello storicismo), diventando pagine e capitoli
di una lunghissima storia culturale; si configurino, cioè, come tradizioni: Il
fatto è che a proposito di una raccolta di testi che riguardano uno o più
filosofi, emerge molto più nettamente che in altri casi l’impossibilità di
considerare la testimonianza antica come un dato puramente oggettivo, e quindi
la necessità di storicizzarla fino in fondo: in realtà essa deve essere
considerata come un capitolo di una vera e propria storia della cultura durata
all’incirca un millennio, e perciò da ricondurre di volta in volta al suo tempo
e alle tendenze storicamente determinate che la produssero: parleremmo di un
Diogene irreale e mai esistito se pensassimo di poter adoperare come
ingredienti mescolabili a piacere Epitteto e Dione Crisostomo, Luciano e
Giuliano l’Apostata, un padre della chiesa e le epistole apocrife che vanno sotto
il nome del cinico.15 Il terzo indirizzo, relativo alla dossografia, è quello
che presenta, almeno in apparenza, un maggiore tecnicismo, perché volto alle
problematiche ecdotiche ed interpretative attinenti allo studio di 14 Sulla
cosiddetta filologia “esterna”, sul ruolo da essa svolto nelle edizioni
filosofiche e sui suoi limiti, si veda Giannantoni 1980, p. 15, a proposito
dell’opera di Girolamo Vitelli, la cui importanza per la storia della filosofia
antica è legata specialmente alle edizioni critiche dei commenti aristotelici
di Giovanni Filopono. 15 Giannantoni 1977, p. 22. 12 ILIESI digitale Temi e
strumenti Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio
del Pensiero Antico dottrine riportate da testimoni spesso assai lontani, per
cronologia ed orientamento intellettuale, dagli autori di cui si vuole
conoscere il pensiero. D’altra parte, la dossografia si è rivelata un capitolo
importantissimo di quella millenaria storia culturale che costituisce il
terreno di indagine della storia della filosofia antica. Non si potrebbe ancora
oggi redigere una storia della storiografia filosofica dell’antichità senza
iniziare non solo dalle grandi raccolte di testi e frammenti allestite dalla
filologia ottocentesca e comparse nei primi anni del XX secolo (le raccolte di
Usener,16 Diels,17 Arnim,18 per citare degli esempi), ma anche dalla prima
grande opera di analisi e comparazione dei testimoni, i Doxographi Graeci di
Hermann Diels;19 come è altrettanto vero che non si può oggi fare a meno dei
più recenti e sistematici contributi all’analisi della dossografia filosofica,
cioè gli Aëtiana di Jaap Mansfeld e David Runia.20 I più importanti progetti
editoriali varati negli ultimi decenni, inoltre, si sono strettamente legati
alla problematica della dossografia e all’analisi dei testimoni, a lato di
quelle condotte sugli autori e sulle tradizioni dottrinali. Allo studio di
autori di grande notorietà e impatto della tradizione culturale antica, ai
quali si deve gran parte della conoscenza dei filosofi precedenti, come
Cicerone e Plutarco, si è venuta affiancando una sempre maggiore familiarità
con testimoni meno noti ma che hanno rivelato un’importanza fondamentale, come
Filodemo, Diogene Laerzio, Sesto Empirico, Galeno, Giovanni Stobeo. L’indirizzo
dossografico fu quindi un segno della tempestività e della sensibilità di
Gabriele Giannantoni nei rispetti di un terreno di ricerca che si veniva
imponendo in ambito internazionale, e che di fatto contribuì alla dimensione
internazionale dello stesso Centro, la cui attività progettuale e congressuale
fu in buona misura dedicata alla dossografia di epoca tardo ellenistica ed
imperiale. Si può far rientrare in questo ultimo indirizzo anche una linea di
attività di studi la cui ragione storiografica fu oggetto di un vivacissimo 16
Usener 1887. 17 Diels 1903. 18 Arnim 1903. 19 Diels 1879. 20 Mansfeld-Runia
1997; Mansfeld-Runia 2009; Mansfeld-Runia 2010. È appena necessario ricordare
che le parole stesse “doxographus”, “doxographia”, sono coniate da Hermann
Diels. Sulla dossografia e sul suo sviluppo come categoria
filologico-storiografica, cfr. Mansfeld 1998, rist. in Mansfeld-Runia 2010,
Mansfeld 2002, rist. in Mansfeld-Runia 2010. ILIESI digitale Temi e strumenti
13 Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del
Pensiero Antico dibattito e che è nota come la questione delle dottrine non
scritte di Platone. Sorta nell’accademia tedesca, in particolare a Tübingen, da
un’ipotesi schleiermacheriana, la questione degli agrapha dogmata consisteva,
molto in breve, nella convinzione che Platone avesse teorizzato una dottrina
dei principi (Uno e Molteplice), della quale non resta traccia nei suoi scritti
– perché oggetto di pura trasmissione orale all’interno dell’Accademia antica –
ma solo sparsi indizi in pagine aristoteliche. Alla nascita, per così dire, del
Centro, Giannantoni invitò Konrad Gaiser, ordinario di filologia classica
all’Università di Tübingen e uno dei maggiori sostenitori di questa ipotesi, a
tenere una lezione presso la Sapienza sul tema La teoria dei principi in
Platone, il cui testo venne pubblicato nel primo numero della rivista
“Elenchos”.21 Tuttavia, il punto che merita attenzione in questa sede è che la
questione delle dottrine non scritte di Platone fu, oltre che un tema rilevante
per se stesso, anche un “pretesto” per riconsiderare Aristotele come testimone
egli stesso del passato filosofico, più precisamente per le cosiddette
filosofie presocratiche. Com’è noto, Aristotele può essere considerato se non
il primo testimone in assoluto delle precedenti tradizioni di pensiero,
certamente il primo testimone che ne offre una informazione organizzata secondo
criteri espositivi dettati dalle proprie esigenze filosofiche e che hanno
inevitabilmente condizionato la visione storiografica moderna. Per quanto
apparisse improprio, naturalmente, definire Aristotele un dossografo, il
riesame della sua testimonianza della filosofia precedente, anch’essa una
tradizione indiretta, apparve a Giannantoni una linea d’azione congrua con
quelle relative alle scuole socratiche e le filosofie ellenistiche, ancorché
meno visibile tra i risultati delle ricerche del Centro. A conclusione di
questo primo paragrafo, ricordiamo che l’istituzione del Centro di Studio del
Pensiero Antico non fu del tutto priva di modelli in Italia e fuori e che con
alcuni di essi si instaurò una costante collaborazione. L’esempio più
immediato, sia sotto il profilo tematico e scientifico, che sotto quello del
funzionamento istituzionale, fu il – Léon Robin, una unità di ricerca del 21
Gaiser 1980. 14 ILIESI digitale Temi e strumenti Centre de Recherches sur
la Pensée Antique Centre National de la Recherche Scientifique
(CNRS), ma operante all’interno e sotto l’egida Francesca Alesse
G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico dell’Université
Paris-Sorbonne (perciò definito anche Unité Mixte de Recherche, o UMR),
in modo non troppo dissimile dai Centri di Studio del CNR istituiti in
regime di convenzione con i vari Atenei italiani. La collaborazione con
questo Centro si focalizzò sulle tematiche socratiche e dette luogo al
ripetuto scambio di studiosi tra le due sedi nel biennio 1994-1995 nell’ambito
del programma di ricerca “Socrate e la storia del pensiero antico: rottura o
continuità?”; i contributi pubblicati nel 1997 sotto il titolo di Lezioni
socratiche, a cura di furono Gabriele Giannantoni e Michel Narcy,
per l’Editore Bibliopolis di Napoli. Un’altra importante istituzione
scientifica a cui Giannantoni guardò con particolare attenzione e con cui
intrecciò stretti rapporti scientifici nonché di cordiale amicizia è
stata senz’altro il Centro Internazionale per lo Studio dei Papiri
Ercolanesi, oggi intitolato a Marcello Gigante, che ne fu il fondatore
nel 1969. I motivi di tale collaborazione erano dettati ovviamente
dall’interesse intrinseco per la grande opera editoriale a cui il Centro
fondato da Gigante era votato. La pubblicazione delle nuove edizioni
critiche dei papiri reperiti nel sito ercolanese offriva alla comunità
scientifica un patrimonio inestimabile per la conoscenza
dell’Epicureismo, della tradizione socratica, dello Stoicismo. Ma furono
anche ragioni metodologiche a sancire un sodalizio importante, che si
concretizzò in varie iniziative e pubblicazioni cui parteciparono entrambi
i Centri: i testi ercolanesi, com’è molto noto, costituiscono un
materiale che permette di arricchire enormemente la conoscenza di molte
importanti tradizioni filosofiche e letterarie, a condizione di possedere
un complesso di conoscenze e tecniche interpretative che difficilmente
possono trovarsi nella medesima personalità e che però vanno
applicate contestualmente. In altre parole, l’esperienza collaborativa
tra questi due Centri, forti, l’uno, di una formazione propriamente
storica e filosofica, l’altro, di alte competenze filologiche, contribuì
in modo significativo a costituire quella storiografia della filosofia
antica che aveva, almeno per la cultura accademica italiana dei primi
decenni del ’900, faticato ad assumere uno statuto proprio. ILIESI
digitale Temi e strumenti 15 Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro
di Studio del Pensiero Antico L’ATTIVITÀ DI RICERCA DEL CENTRO E I SUOI
RISULTATI: I PROGETTI, I CONGRESSI, LA FORMAZIONE Quanto detto nel precedente
paragrafo trova un riflesso, diretto o indiretto, nelle attività di ricerca del
Centro, nonché nelle sue pubblicazioni. L’interesse per il consolidamento della
storia della filosofia antica come disciplina autonoma, dotata cioè di un suo
impianto metodologico, oltre che di un preciso confine cronologico, viene
perseguito tramite l’attività progettuale, congressuale e editoriale, di cui si
dà qui una descrizione sintetica. Vale però la pena di ricordare, prima di
tutto, una iniziativa promossa da Giannantoni dopo l’istituzione del Centro, in
conformità di un indirizzo dell’organo direttivo della rivista “Elenchos”, e
dedicata alla problematica storiografica: Nelle riunioni del Comitato direttivo
della rivista “Elenchos” è emersa più volte l’opportunità di aprire una
discussione sul metodo o, meglio, sui metodi attuali della storiografia
filosofica relativa al pensiero antico. Si è pensato perciò di cominciare con
una “tavola rotonda”, chiamando a parteciparvi esponenti di orientamenti
diversi e significativi, ai quali è stato chiesto di intervenire liberamente su
tre questioni principali: 1) se ha senso parlare ancora di una storia della
filosofia (e quindi anche di una storia della filosofia antica) come disciplina
a se stante e in sé autonoma; 2) quali innovazioni si possono riconoscere
all’ampliarsi e al differenziarsi delle impostazioni teoriche che sono sottese
ai vari approcci metodici alla storia del pensiero antico; 3) quale è il
contributo che viene, una volta tramontato il vecchio mito classicistico,
dall’applicazione di categorie elaborate dalle “scienze umane”.22 Alla tavola
rotonda parteciparono Enrico Berti, Mario Vegetti, Carlo Augusto Viano, e lo
stesso Giannantoni, ciascuno portando un contributo molto peculiare e
strettamente conforme al proprio orientamento intellettuale. L’intervento di
Giannantoni rispecchia le riflessioni condotte qualche anno prima e pubblicate
nel già citato articolo di apertura della Rivista (La storiografica
idealistica), di cui ripropone le premesse problematiche e a cui aggiunge
precise prese di posizioni sulla specificità della storia della filosofia
antica e sul modo di salvaguardarla: ... senza perdere di vista il fatto che lo
scopo principale (scil. dello storico della filosofia antica) resta la
comprensione dei testi che ci trasmettono il pensiero antico, ritengo
necessario rivendicare l’imprescindibilità di una rigorosa e metodica
impostazione filologica, anche se tale impostazione non può non venire
assumendo sempre più, essa stessa, una fisionomia storica: quella della storia
degli studi ... ciò dovrebbe indurre a uscire da un tradizionale isolamento e a
promuovere una 22 Giannantoni 1983, p. 147. 16 ILIESI digitale Temi e
strumenti Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio
del Pensiero Antico organizzazione del lavoro diversa e meno diffidente verso i
sussidi che la tecnologia moderna può offrire. In ogni caso, la storia degli
studi è ormai elemento costitutivo di ogni indagine che voglia avere un minimo
di serietà, non solo per le conoscenze che ha acquisito ma anche per le
divergenze che ha proposto. L’alternativa a questa impostazione è o l’arbitrio
nella scelta dei riferimenti o l’illusione di un ritorno alla “lettura diretta”
dei testi.23 In queste parole possiamo rintracciare ad un tempo la finalità
della costituzione del Centro e la visione di Giannantoni del modo di operare
storiografico: più che il cenno alle nuove tecnologie e più che l’esortazione
ad abbandonare l’isolamento, sicuramente importanti l’uno e l’altra, conta
sottolineare, a mio parere, il richiamo alla storia degli studi come parte
integrante della storia della filosofia, in particolare della filosofia antica,
affidata in larghissima misura alla tradizione indiretta. La “serietà”, cioè la
plausibilità dei risultati della ricerca storico-filosofica sono messi a rischio
dalla “illusione” di poter leggere (e capire) le parole del filosofo, specie se
antico, senza gli strumenti della conoscenza filologica, linguistica e
culturale nel senso più lato, conoscenza cui si perviene ricostruendo, ove sia
possibile, anche una storia intelligente delle letture altrui. Uscire
dall’“isolamento” è, allora, non solo la cooperazione tra colleghi ad un
progetto scientifico unitario, ma anche la conoscenza e la valutazione delle
migliori offerte interpretative che di un testo e del suo contesto siano state
date entro un certo arco di tempo. 23 Giannantoni 1983, pp. 182-183.
ILIESI digitale Temi e strumenti 17 Francesca Alesse G. Giannantoni
e il Centro di Studio del Pensiero Antico Sia nelle azioni istituzionali, che
investirono e coinvolsero il complesso delle risorse del Centro, incluse le
relazioni stabilite con il mondo universitario, sia nelle attività di ricerca
individuali, un ruolo primario fu senz’altro svolto dalle tradizioni
ellenistiche e dall’analisi della letteratura dossografica. Già nel 1980, il
Centro organizza un convegno sullo scetticismo antico,24 e tra il 1982 e il
1986 coopera strettamente con l’Università degli Studi di Pavia e in
particolare con Mario Vegetti, ordinario di Storia della filosofia antica di
quella Università, e con i suoi più stretti collaboratori, sostenendo
l’organizzazione di due importanti convegni: “La scienza ellenistica” (Pavia,
1982)25 e “ 1986).26 Ancora alla filosofia ellenistica è dedicata l’importante
pubblicazione dei Proceedings del quarto simposio internazionale sulla
filosofia ellenistica, che vide tra i suoi partecipanti esperti di caratura
internazionale, alcuni di stretta collaborazione con il Centro stesso.27
Figura 3: copertina del primo volume di Lo scetticismo antico, Atti del
convegno, a cura di G. Giannantoni, Napoli, 1981. Le opere psicologiche
di Galeno” (Pavia, 10-12 settembre 14-16 aprile 24 25 26 27 18
ILIESI digitale Temi e strumenti Giannantoni 1981.
Giannantoni-Vegetti 1985. Manuli-Vegetti 1988. Barnes-Mignucci 1988.
Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico
Carattere sistematico ebbe anche la linea d’azione dedicata allo studio della
dossografia. Il Centro organizza, nel 1985, il congresso internazionale
sull’opera del biografo di età imperiale Diogene Laerzio (“Diogene Laerzio
storico del pensiero antico”, Napoli-Amalfi, 30 settembre-3 ottobre 198528) e,
nel 1991, il congresso internazionale sull’opera del medico scettico di età
imperiale Sesto Empirico (“Sesto Empirico e il pensiero antico”, Sestri
Levante, 28 maggio-1 giugno 199129). Si delinea in entrambi gli eventi un’unica
prospettiva, grazie alla quale l’oggetto dell’indagine storiografica è, per
così dire, duplice e contestuale: l’autore, cioè il filosofo il cui pensiero è oggetto
di trasmissione da parte di un testimone, e il testimone stesso, la sua epoca,
il suo orientamento, nonché la struttura formale della sua testimonianza,
struttura che rivela assai spesso una tesaurizzazione delle informazioni
attraverso i differenti metodi per la loro esposizione. Così, mentre l’opera di
Diogene Laerzio, che già da lungo tempo aveva attirato l’attenzione della
filologia classica, conserva una concezione ampia del genere biografico,
restituendo non solo informazioni biografiche e dottrinali dei singoli filosofi
nonché cataloghi d’autore, ma anche specifici schemi espositivi presi a
prestito dalla letteratura storica (il più caratteristico è senz’altro quello
delle “successioni”), l’opera di Sesto Empirico mostra le conseguenze sul piano
storiografico di un modello propriamente concettuale, la diaphonia. Un altro
forte sodalizio, quello con il Centro Internazionale per lo Studio dei Papiri
Ercolanesi di Marcello Gigante, permise di allestire negli anni subito
successivi un grande congresso internazionale sul tema “L’Epicureismo greco e
romano” (Napoli-Anacapri, 19-26 ILIESI digitale Temi e strumenti 19
Figura 4: copertina di Diogene Laerzio storico del pensiero antico, Atti
del congresso, “Elenchos”, 7, 1986. 28 Atti pubblicati nel volume 7
dell’annata 1986 della rivista “Elenchos”. 29 Atti pubblicati nel volume 13
dell’annata 1992 della rivista “Elenchos”. Francesca Alesse G.
Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico maggio 1993),30 un evento
di ampio spettro tematico e cronologico all’interno del quale poterono
cimentarsi papirologi e papirologi ercolanesi, filologi classici, paleografi ed
epigrafisti, storici, storici della letteratura e della poesia greca e romana
e, ovviamente, storici della filosofia antica. Proprio di questo incontro fu il
suo carattere transdisciplinare e, per quel che attiene alle attività in corso
presso il Centro, la messa alla prova di molte ipotesi di lavoro anche
individuali sulla relazione tra l’Epicureismo e le rilevanti tradizioni (le scuole
socratiche, la Stoa, la scepsi accademica e pirroniana) che impegnavano in
quegli anni sia Giannantoni in prima persona che il suo gruppo di lavoro
operante presso la Sapienza e il Centro. Tra gli ultimi impegni di Giannantoni
in qualità di direttore del Centro ci fu l’organizzazione di due altri
convegni: “ “Empedocle e la cultura della Sicilia antica. Illustrazione di un
frammento inedito della sua opera” (Agrigento, 4-6 settembre 1997).32 Il primo
raccolse un gruppo consistente di esperti della cultura greco- romana e fu un
raro esperimento di indagine lessicale da parte del Centro, volto a delineare
l’area semantica dell’affezione (emozione, sentimento, malattia) nelle diverse
manifestazioni della cultura classica antica, dalla letteratura, dal teatro e
dall’arte figurativa, alla filosofia e alla medicina. Il secondo convegno fu un
altro esempio del modo in cui Giannantoni intendeva inserire la vita
scientifica del Centro all’interno di una rete di relazioni istituzionali,
oltre che scientifiche e accademiche, perché il convegno, motivato dalla 30
Giannantoni-Gigante 1996. 31 Atti pubblicati nel volume 16/1 dell’annata 1995
della rivista “Elenchos”. 32 Atti pubblicati nel volume 19/2 dell’annata 1998
della rivista “Elenchos”. 20 ILIESI digitale Temi e strumenti
Figura 5: copertina del primo volume di Epicureismo greco e romano, Atti
del congresso, a cura di G. Giannantoni e M. Gigante, Napoli, 1992. Il
concetto di pathos nella cultura antica” (Taormina, 1-4 giugno
1994);31 Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di
Studio del Pensiero Antico recente scoperta del Papiro di Strasburgo contenente
una porzione del poema empedocleo, fu organizzato in collaborazione con la
sovrintendenza dei beni archeologici di Agrigento. Esso inoltre doveva essere
una prima tappa di un più ampio progetto dedicato alle tradizioni culturali e
filosofiche della Sicilia e della Magna Grecia, e che non vide la luce per la
scomparsa dello stesso Giannantoni. *** Sarebbe un errore pensare che le
strategie e i progetti del Centro avessero come unici interlocutori le
istituzioni accademiche italiane e straniere. Certamente, uno degli obiettivi
di Giannantoni era quello di costituire un piccolo ma vivace e solido bacino
collettore degli interessi intorno al pensiero antico, e tali interessi erano,
di fatto, collocati nelle Università e organizzati secondo i modi della
didattica e della formazione universitarie. Ma il Centro partecipò anche alla
realizzazione di una delle maggiori iniziative che il Consiglio Nazionale delle
Ricerche abbia dedicato al settore delle scienze umane, e cioè il progetto
strategico intitolato “Il Sistema Mediterraneo. Radici Storiche e Culturali e
Specificità Nazionali”.33 Questo grande progetto fu articolato in cinque
linee di indagine, la prima delle quali dedicata al mondo antico, in
particolare greco- romano.34 Fu in questo contesto che Giannantoni, oltre
a scrivere il saggio La tradizione culturale greca in Magna Grecia e
Sicilia, apparso nel 2002 nel volume che raccoglieva i risultati delle attività
promosse dal progetto,35 maturò l’idea di una linea di attività, cui si è
fatto cenno, dedicata alle tradizioni filosofiche della Magna Grecia e
della Sicilia, linea che avrebbe dovuto raccogliere e mettere a frutto le
metodologie sperimentate nella più generale attività del Centro 33 Il
Progetto Strategico, svoltosi negli anni 1995-2000 e coordinato da Antonello
Folco Biagini fu varato nel 1994 dal 34 “ 35 Biagini 2002. ILIESI digitale Temi
e strumenti 21 Comitato Nazionale di Consulenza del CNR per le
Scienze Storiche, Filosofiche e Filologiche, allo scopo di convogliare tutte le
competenze rappresentate ed espresse dalla rete scientifica costituita dai
Centri di Studio e dagli Istituti afferenti al Comitato stesso, in una grande
area di interesse, appunto il “Mediterraneo”. Al fondo della decisione del
Comitato era la convinzione che il Mediterraneo costituisse non un’entità
identitaria ma un complesso “sistema” di realtà molteplici, tradizionalmente
oggetto di indagine da parte di settori disciplinari indipendenti. Si trattava
perciò di conferire unità strategica e di metodo ad una naturale e
fisiologica molteplicità di fenomeni culturali. Origine e incontri di
culture nell’antichità”. Francesca Alesse G. Giannantoni e il
Centro di Studio del Pensiero Antico (studio della dossografia e delle
tradizioni indirette). Rivisse, in questo progetto non realizzato,
l’antico interesse di Giannantoni per la trasmissione delle cosiddette
tradizioni presocratiche, molte delle quali per l’appunto fiorite nelle
aree magnogreche (l’Eleatismo, il Pitagorismo, Empedocle, Gorgia di
Leontini), e per il ruolo svolto in tale trasmissione da Platone e
Aristotele. A questo più antico arco cronologico, si sarebbe poi unito il
costante interesse per l’Epicureismo, nella forma storica
dell’Epicureismo campano. Vale la pena ricordare, infine, l’attività
formativa che il Centro riuscì a svolgere, facilitata, come è facile
comprendere, dalla posizione accademica di Giannantoni. Il Centro di Studio
del Pensiero Antico si formò infatti raccogliendo i suoi allievi, che si
unirono ai ricercatori già in forza presso il precedente Centro di Studio
per la Storia della Storiografia Filosofica. L’attività progettuale, inoltre,
non si limitava alla sola attività di pianificazione scientifica e ancor meno
alla sola organizzazione dei convegni, ma prevedeva lavori continuativi di
studio collettivo e di confronto sulle tematiche di principale interesse e di
rilevanza strategica. I maggiori convegni venivano quindi preceduti
da seminari propedeutici sulle dossografie antiche, sull’opera di Diogene
Laerzio e su quella di Sesto Empirico, e su quest’ultimo autore, anzi, si
svolse un seminario aperto anche ai dottorandi di ricerca della Sapienza.
Nell’ambito del progetto strategico “Mediterraneo” e quindi della linea
di ricerca sul Mediterraneo antico, il Centro ottenne dal Comitato di
Consulenza per le Scienze Storiche, Filosofiche e Filologiche tre borse
di studio (1995-1996). 22 ILIESI digitale Temi e strumenti Francesca
Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico LE
PUBBLICAZIONI DEL CENTRO Un discorso a parte merita l’attività editoriale
a cui il Centro riuscì a dar vita. Due furono le iniziative editoriali,
strettamente coerenti con l’idea programmatica che ispirò la costituzione
del Centro: la serie “Elenchos. Collana di testi e studi sul pensiero
antico”, e il periodico “Elenchos. Rivista di studi sul pensiero antico”.
La scelta del medesimo nome per le due iniziative si spiegava facilmente
in riferimento all’orientamento intellettuale ed al bagaglio culturale
dello stesso Giannantoni, che riteneva la discussione, il confronto
(elenchos, appunto), in primo luogo, uno dei lasciti più significativi
della cultura filosofica antica, quello che maggiormente ha contribuito
alla formazione della coscienza moderna. Ma in secondo luogo, e secondo
un’angolatura più tecnica, Giannantoni vedeva nella discussione, intesa
come analisi critica, il metodo per eccellenza dello studio del testo filosofico
antico e della dottrina in esso contenuta, come avevano mostrano i primi
autori di una nascente “storia della filosofia” ancora in forma di
dossografia, Platone e soprattutto, com’è assai noto, Aristotele. In
omaggio dunque, all’ideale dialogico trasmesso dal magistero di Guido
Calogero, l’elenchos fu, nei limiti del possibile, il contrassegno delle
ricerche realizzate o promosse dal Centro e divenne il nome delle due
pubblicazioni, entrambe affidate alla casa editrice napoletana
Bibliopolis, Edizioni di Filosofia e Scienza, di Francesco del
Franco. La collana era destinata in larga misura, benché non
esclusivamente, a premiare le ricerche individuali, le quali dovevano
concretarsi in studi monografici, edizioni di testi e strumenti per la
ricerca. Non deve stupire che in questa sede ci si limiti a mettere in
primo piano l’opera Socratis et Socraticorum Reliquiae, collegit,
disposuit apparatibus notisque instruxit Gabriele Giannantoni, 1990, 4
voll. Frutto di una ricerca individuale più che trentennale, preparato da
molte precedenti pubblicazioni, questa edizione delle testimonianze
relative a Socrate e alle scuole socratiche, corredata di apparati
critici e note di commento (e senza traduzione, secondo la prassi
dell’austera filologia classica moderna), rappresentò la più importante
espressione degli interessi tematici e dei principi metodologici che
caratterizzarono il Centro. Basterebbe infatti considerare i volumi
usciti nella medesima collana “Elenchos” votati alle tradizioni
socratiche, alle scuole ellenistiche, alla dossografia e alle edizioni di
ILIESI digitale Temi e strumenti 23 Francesca Alesse G. Giannantoni e il
Centro di Studio del Pensiero Antico testi e frammenti di autori
ancora poco studiati, per apprezzare l’impatto delle ricerche
di Giannantoni su tutto il gruppo di ulteriori interessi e accolse studi
accademica. ricerca del Centro.36 Naturalmente la collana non
fu preclusa ad critici su tematiche di grande rilevanza nell’ambito
del platonismo e dell’aristotelismo e delle filosofie della tarda
antichità,37 promuovendo in tal modo uno scambio costante con la
più ampia comunità Quanto alla rivista, è forse opportuno
rimandare direttamente alla Presentazione che Giannantoni Figura 6:
copertina del primo volume di G. Giannantoni, Socratis et Socraticorum
Reliquiae, Napoli, 1990. antepose al primo fascicolo: essa fa molto
ben intendere tanto la relazione essenziale tra il programma scientifico
del Centro e il periodico che di quel programma doveva essere lo
strumento di diffusione; quanto l’apertura al dibattito scientifico che
la rivista (e quindi il Centro stesso) si prefiggeva; quanto, infine, la
tempestività di un’operazione culturale che il Consiglio Nazionale delle
Ricerche ebbe la sagacia di sostenere: Questa rivista ... intende dare
attuazione ad uno dei punti programmatici contenuti nella convenzione stipulata
tra il Consiglio Nazionale delle Ricerche e l’Università di Roma, e che sta
alla base del neocostituito Centro di Studio del Pensiero Antico ... essa non
è, tuttavia, in senso stretto espressione soltanto di questo Centro: al
contrario, chi ha la responsabilità di dirigerla intende farne uno strumento di
studio e di ricerca aperto alle collaborazioni più ampie, un punto di incontro
e di confronto e un’occasione a disposizione sia di studiosi già affermati sia
di giovani ricercatori ... Questa rivista è l’unica dedicata interamente al
pensiero antico che si pubblichi in Italia38 e perciò essa non può non proporsi
anche un compito di promozione di questi 36 I titoli della collana
“Elenchos”, corredati da schede riassuntive, sono consultabili al sito web
dell’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle idee
http://www.iliesi.cnr.it/pubblicazioni.shtml 37 Mi limito a citare il grande
progetto di traduzione e commento della Repubblica di Platone, promosso e
diretto da Mario Vegetti, e i cui primi tre volumi furono stampati quando
Giannantoni era ancora in vita: Vegetti 1998, 2000, 2003, 2005, 2007. 38 Questa
situazione è rimasta invariata fino al 2007, e cioè fino alla comparsa della
rivista “Antiquorum Philosophia”, edita da Fabrizio Serra Editore, Roma-Pisa, e
diretta da Giuseppe Cambiano. 24 ILIESI digitale Temi e strumenti
Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico
studi ... Ma essa si propone anche uno scopo più ambizioso; se è vero, come è
vero, che la storia del pensiero antico è un campo in cui debbono potersi
incontrare ... gli apporti e le problematiche della storiografia filosofica e
del metodo filologico; e se è vero, come è vero, che tanto la storiografia
filosofica quanto il metodo filologico attraversano ... una fase di
ripensamento critico molto profondo dei propri presupposti e delle proprie
certezze, allora ad una rivista come questa spetta, in primo luogo, il compito
di proporsi come sede di verifica di discipline diverse e di modi diversi di
affrontare lo studio del pensiero antico e di aprire le sue pagine ... anche a
contributi che per la conoscenza del pensiero antico possono venirci da storici
dell’antichità, filologi classici, studiosi delle lingue e delle
letterature classiche, archeologi, papirologi ... Per questi motivi di
fondo – oltre e più che per la sua origine istituzionale – questa rivista si
caratterizza per l’unità del campo di ricerca, non per l’unità
dell’orientamento interpretativo ...39 CONCLUSIONI: LA PERMANENZA DI UN
PATRIMONIO E L’ATTUALITÀ DI UN METODO In accordo con gli obiettivi enunciati
nella Presentazione della rivista “Elenchos” e nel protocollo che lo istituiva,
il Centro di Studio del Pensiero Antico si dotò di un consiglio scientifico che
affiancò Gabriele Giannantoni nella direzione del Centro e delle pubblicazioni
che esso produsse, il quale contò tra i propri membri eminenti storici della
filosofia, quali Francesco Adorno, Enrico Berti, Giovanni Reale, Carlo Augusto
Viano, Anna Maria Ioppolo, Aldo Brancacci e Vincenza Celluprica, nonché
eminenti filologi classici e storici della letteratura greca quali Marcello
Gigante e Luigi Enrico Rossi. Il Centro poté disporre di sufficienti risorse e
di una struttura organizzativa40 che gli 39 “Elenchos”, 1, 1980, pp. 3-4. 40
Fecero parte del Centro in qualità di ricercatori inquadrati nei ruoli del
Consiglio Nazionale delle Ricerche: Barbara Faes (direttrice del Centro nel
1999), Gigliola Caporali, Stefano Garroni, Vincenza Celluprica (direttrice del
Centro per il biennio 2000-2001 e poi responsabile della linea relativa al
pensiero antico nell’ILIESI fino al 2005), Lucina Ferraria, Aldo Brancacci (poi
docente presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”), Bruno Centrone
(poi docente presso l’Università degli Studi di Pisa), Francesca Alesse, Maria
Cristina Dalfino, Luca Simeoni, Riccardo Chiaradonna (poi docente presso
l’Università degli Studi di Roma Tre). Collaborarono in modo istituzionale e
continuativo con il Centro Anna Maria Ioppolo (Università degli Studi di Roma
“La Sapienza”), Luciana Repici (Università degli Studi di Torino); Giuseppina
Santese (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”); Giovanna Sillitti
(Università degli Studi di Roma “La Sapienza”); Carmela Baffioni (Università
degli Studi di Napoli l’Orientale); Emidio Spinelli (Università degli Studi di
Roma “La Sapienza”) e Francesco Aronadio (Università degli Studi di Roma “Tor
Vergata”). Molti sono stati i giovani che, nel corso della loro formazione post
lauream sono venuti in contatto con Gabriele Giannantoni e con il Centro,
lavorando fattivamente alla redazione di “Elenchos” o adoperandosi in attività
editoriali e scientifiche in senso proprio. Tra questi mi è gradito ricordare
Rosa Maria Piccione (Università degli Studi di Torino), Michele Alessandrelli
(ILIESI-CNR), Diana Quarantotto (Sapienza Università di Roma), Francesco
Fronterotta (Sapienza Università di Roma), Adriano ILIESI digitale Temi e
strumenti 25 Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio
del Pensiero Antico consentirono di diventare un organismo collettore di
attività di ricerca nel campo dell’edizione critica e dell’interpretazione dei
testi della filosofia antica, fino al 2001. Chi scrive non crede che
l’esperienza acquisita nei poco più che vent’anni di vita del Centro sia andata
perduta né dimenticata. Quando, nel 2001, nacque l’Istituto per il Lessico
Intellettuale Europeo e Storia delle Idee, al suo interno fu garantita la
prosecuzione e l’autonomia delle indagini relative alla storia della filosofia
antica, per esplicito volere di Tullio Gregory che del nuovo Istituto fu il
primo direttore. Queste indagini confluirono in una linea progettuale
denominata prima “Storia del pensiero filosofico- scientifico e della
terminologia della cultura mediterranea greco-latina, ebraica e araba” e
successivamente “ Il pensiero filosofico nel mondo antico: testi e
studi”.41 L’impegno principale della linea fu rappresentato da una serie
di progetti che in parte proseguivano le tematiche di studio e le
strategie cooperative del Centro di Studio del Pensiero Antico, e in
parte introducevano nuove tipologie di analisi, connesse alle tecnologie
digitali. La continuità culturale fu inoltre garantita dal mantenimento
delle due pubblicazioni, la collana “Elenchos” e la rivista “Elenchos”.
Da questa permanenza delle ricerche sul pensiero antico nella nuova
realtà istituzionale si deve ricavare non solo e non tanto l’attualità di
una disciplina (che si è comunque stabilizzata nel mondo accademico con
la benefica diffusione di cattedre e centri di insegnamento, in Italia e
fuori), quanto piuttosto l’attualità di un metodo di lavoro. Questo
metodo di lavoro, che potrebbe descriversi, un po’ aulicamente, come un
nuovo diatribein socratico, cioè come la capacità di discutere in
modo competente con i “morti” prima che con i vivi, rispecchia
abbastanza bene la disposizione intellettuale e comportamentale di
Gabriele Giannantoni, uomo tanto pacato nelle discussioni con i
contemporanei, quanto fermo nelle sue strategie di ricerca sul mondo
antico. Gioè, Matteo Nucci, Mariacarolina Santoro, Francesca Gambetti e
Cristina Cunsolo (a quest’ultima si deve l’allestimento della bibliografia
ragionata digitale Le tradizioni filosofiche e culturali greche della Magna
Grecia e della Sicilia antica, ora in fase di aggiornamento ad opera di
Francesca Gambetti). 41 A questa linea, diretta da Vincenza Celluprica fino al
2005, fanno riferimento i ricercatori già operanti nel Centro, a cui si
aggiunge, dal 2010, Silvia M. Chiodi, specialista in storia delle religioni del
mondo antico e del Vicino Oriente. 26 ILIESI digitale Temi e strumenti
Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico
BIBLIOGRAFIA Arnim 1903 = Hans von Arnim, Stoicorum Veterum Fragmenta, Lipsiae,
Teubner. Barnes-Mignucci 1988 = Jonathan Barnes, Mario Mignucci (a cura di),
Matter and Metaphysics. Fourth Symposium Hellenisticum, Napoli, Bibliopolis.
Biagini 2002 = Antonello F. Biagini (a cura di), Il Sistema Mediterraneo.
Radici Storiche e Culturali e Specificità Nazionali, Roma, CNR Edizioni.
Brancacci 1977 = Aldo Brancacci, Le orazioni diogeniane di Dione Crisostomo, in
Gabriele Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche minori e filosofia
ellenistica, Bologna, il Mulino, pp. 141-171. Brancacci 2017 = Aldo Brancacci,
Il Socrate di Guido Calogero, “Giornale Critico della Filosofia Italiana”, s.
7, vol. 13, pp. 205-226. Calogero 1950 = Guido Calogero, Gli studi italiani
sulla filosofia antica, in Carlo Antoni, Raffaele Mattioli (a cura di),
Cinquant’anni di vita intellettuale italiana. 1896-1946. Scritti in onore di
Benedetto Croce per il suo ottantesimo anniversario, Napoli, Edizioni
scientifiche italiane, vol. I, pp. 43-59. Cambiano 1977 = Giuseppe Cambiano, Il
problema dell'esistenza di una scuola Megarica, in Gabriele Giannantoni (a cura
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traduzione Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Vol. VI (Libri VIII-IX). Vegetti 2007
= Platone. La Repubblica, traduzione Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Vol. VII
(Libro X). e commento a cura di Mario e commento a cura di Mario e commento a
cura di Mario e commento a cura di Mario e commento a cura di Mario Vegetti,
Napoli, Bibliopolis, Vol. VII (Libro X). a BS’l RATTO
<Ia 1 Bollettino (ti Filologia Classica Anno XXIV. - Fase. 2-3-1 -
Agosto-Setteiiibre-Ottobre 1917 X II 6xi|iòvtov di Soorate
— Como già nei tempi antichi, cosi anello più tardi il 3 r.|iàviov di
Socrate lui sempre suscitato il più vivo inte¬ resso ed è rimasto lino ai
giorni nostri oggetto di studio. Ma, per quanto sia stato scritto attorno
ad essa e per quanto no sia stata ago- volata la compronsione por merito
di Seliloiormacher e dei suoi suc¬ cessori, non si può dire clic si sia
linoni riusciti a trovare una spie¬ gazione soddisfacente di questo
fenomeno, che fu una dèlio cause dèlia tragica fine del grande
pensatore. Le fonti, alle quali dobbiamo attingere nella nostra
ricerca, sono, come si sa', gli scritti di Platone o di Senofonte. Ma.qui
ci troviamo subito di fronte ad una questione molto discussa c cioè;
quale dei due autori sia rispetto alla dottrina socratica il più
attendibile. Poiché i rapporti di Platono o di Senofonte si contraddicono
riguardo allo ma¬ nifestazioni del Satpdviov di Socrato in un modo assai
pronunciato, è chiaro che dalla decisione alla quale arriviamo rispetto a
questo divario, deliba infine dipendere la soluzione del problema.
1 > m ,to che nel diciottesimo secolo si fece strada il parere del
leib- niziuno Brucfecr, secondo il quale gli scritti di Senofonte
sarebbero per lo studio del socratismo i più veritieri, parere che ha
avuto fino ad oggi i suoi fautori. Di quest’opinione è in linea generalo
anche Hegel (IJ. 1|S. principio del secolo passato però, Schleiermacher (2)
ed altri insistettero che por la valutazione della dottrina socratica
do vesso tenersi maggior conto delle opere di Platone. Di fronte a
queste due correnti lo Zollerai sogni un indirizzo, elio possiamo
chiamare intermediario. Senza entraro in particolari, si può dire che,
sebbene gli atti attorno a questo divario non siano ancora chiusi,
diventa sem¬ pre più salda la convinzione, che senza uno studio profondo
di Platone una comprensione del socratismo non è possibile (-1). Ma con
ciò il no¬ stro quesito non è ancora risolto. Secondo Platone
il Sxigóvwv agisce in modo esclusivamente inibitorio, esso non è mai
incitativo. Secondo Senofonte, però, funziona nei due modi. Si è, è vero,
creduto che la contraddizione tra lo due versioni fosse soltanto
apparente, perchè, se il «aigóviov non inibiva Socrate nel 6uo fare, ciò
equivaleva, si è detto, ad un'atrcrmaziono nel senso «C.
(1) G. W. F. Hegel, Vorl. ti. d. Gesch. d. l'Ii tfp s. Il, 2* ed., p. 69,
1812. (2) F. Schleiermacher, Abkdl. kad. su Berlin, 1818, p. 50
seg. (3) E. Zm.i.ER, Die Philosophie hen li, 1, t* '.al., p. 91
seg., p. 131 Mg. 1869. (4) Cfr. G. Zuocantb,
Socrate, pòrte prima, 1909.
35 ISOLI,ETTI NO L>1 FILOLOGIA CLASSICA di un
ordine positivo. In verità, però, mi sembra, che la diversità venga con
una talo interpretazione soltanto celata, ma non eliminata, perchè in
realtà le differenze tra i rapporti doi due autori sono do¬ vute a
processi psichici in sè diversi. Corto, se qualcuno mi dice, ad es. : non
andare via ! quosto equivale praticamente al comando positivo: rosta ! Ma
con ciò la cosa non è fluita. So io non distolgo qualcheduno, che devo
guidaro, da una azione, che egli è in procinto di compiere, do, è vero,
con ciò il mio consentimento al suo proposito, ma la sua azione scaturì
da motivi sorti nella sua coscienza e prosegue secondo leggi psichiche. E
so, in un altro caso, lo freno con un semplice: no! senza però dargli
altri ordini positivi, io non permetto che egli ese¬ guisca quello che
stava per fare, ma con ciò non gli indico ancora quanto devo in sua vece
intraprendere. Il suo agiro dipende di nuovo unicamente da lui o si
sviluppa ancora da motivi che sorgono in lui stesso. Ma so gli dico: fa
cosi ! allora lo sottopongo in senso positivo ad una volontà non sua o lo
faccio compiere un’azione, i cui motivi sorsero nella mia coscienza e non
nella sua. Egli diventa lo strumento del volere di un’altra persona, e,
se consideriamo il fatto dal lato etico, la responsabilità per lo
conseguenze di una tale azione cado in questo caso interamente su di rao
o per nulla su di lui. Non occorrono altri esempi : in fondo la diversità
doi due rapporti si riduco presso a poco al caso citato. Secondo
Senofonte, Socrate riceve anche ordini positivi dalla divinità, egli
compie quindi azioni, che non furono da lui deciso, secondo Platone mai.
Ogni sua azione procedo, secondo Platone, in se¬ guito a motivi, che
appartengono alla sua propria coscienza, ed è sem¬ pre la sua volontà che
lo fa agiro anche dopo che egli ha abbandonato, per l'intorvonto del
Baijióvwv, una decisione presa. Como si vede, la differenza non si
lascia eliminare. Per quanto si corchi di celarla, essa riappare sempre.
Mi sembra quindi più savio di riconoscerla. Ma ciò facondo ammettiamo
anche che una dello due versioni non può essere esatta e cho si deve
decidere, quale delle due si abbia da riconoscere come vera.
Delle opero cho portano il nome di Senofonte, V Apologia viene oggi
quasi da tutti riconosciuta apocrifa. Per ciò non ne teniamo conto. Degli
altri suoi scritti sono per noi importanti i Memorabili ed il Con¬ vito.
Faccio qui osservare che, dopo un esame della rispettiva lette¬ ratura o
specialmente in base agli studi dello Schonkl(l), sono arri¬ vato alla
conclusione cho per il nostro problema soltanto i passi Meni. 1, 1, 2
segg., Meni. I, 4, 15 segg. o Conv. 8, 5 sono con tutta sicurezza da
considerarsi come autentici. Per talo ragione lasciamo da parte in questa
breve nota i passi : Mem. IV, 3, 12, IV, 8, 1 o IV, 8, 5. Dalle
opero cho vanno sotto il nome di Platone e che trattano del Saipóviov
escludiamo il Teagete, perchè oggi generalmente ritenuto apo¬ lli
K. Schenkl, Xenophont. Studien. Sitzungsber. d. K. Akad. d. Wiss . i zu
Wien, 1875, 1876. BOLLETTINO DI FILOLOGIA
CLASSICA 36 orilo. L’autenticità dell'A Icibinde 1 è
fortemente messa in dubbio, lo accettiamo con riserva. Non posso
decidermi di respingere 1 Fall frane, malgrado lo obiezioni di Ueborwog
(I). Dogli altri scritti platonici limino per noi valore VApologià,
YEutidemo, il Tediato, il Fedro e la Repubblica. Senza entrare rpii
noi particolari della questiono, (pialo sia I ordino cronologico delle
opere di Platone, dobbiamo intenderci sull'epoca in cui fu scritta Y
Apologia, perchè questo lavoro ci dà la più esatta in- i rmazione intorno
al Saipiviov di Socrate. La maggior parto dogli stu- .dcigi — c ciò è per
noi importante — fa salirò l’origine di quest o- pcra ad un’epoca non
molto distante dalla condanna o dalla morte del illusolo, l’orsino autori
elio sono del parere clic Platone 1 abbia scritta a Megara, ammettono con
ciò (dio questo importante documento ap¬ partiene al suo primo periodo di
attivila, scientifica. Allo stesso risul¬ tato giunse Lutoslawski per
mezzo del suo metodo stilometrico. Quan¬ tunque si debba riconoscere
l’unilateralità di questo metodo e per •quanto sarebbe arrischiato di
fondarci unicamente su di esso, ci co- -stringono nondimeno ragioni
psicologiche di non negargli ogni valore. Alla questione esposta si
connetto quost’altra, cioè, so nell’Apologià .di Platone si tratti di una
fedele riproduzione di quanto Socrate real¬ mente disse davanti al
tribunale di Atene, o se si tratti soltanto di una riproduzione piu o
meno fedele del contenuto dei suoi discorsi. La prima opinione è quella
di Schleiermacher (2), della seconda è Stcinhart (3), elio vede
nell’Apologià un'opera d'arte, in cui lo spirito -socratico o quello di
Platone si trovano armonicamente fusi insieme. Ambedue le opinioni hanno
avuto i loro fautori. Considerazioni psico¬ logiche mi hanno condotto
nelle duo questioni accennato a con' inzioni che risultano da quanto
seguo. Come si vuol spiegare l'influenza che quest'opera ha sempre
eser¬ citata sui più grandi spiriti della razza umana, o come si
potrebbo comprendere la elevazione morale clic ognuno devo provare in
sè, quando vi si abbandona senza pregiudizio, so non si ammette che
essa suscita nel lettore la convinzione di sentire la parola viva di Socrate
stesso ? Quale valore potrebbo avere questo scritto, se si volesse con¬
siderarlo unicamente come una creazione d'arto, come una descrizione
dell’ideale platonico? In questo caso dovremmo bensì inchinarci da¬ vanti
all’autore quale artista, ma in fondo avremmo cosi un Socrate come
Platono avrebbo desiderato che egli fosso, ma non come real¬ mente era.
Non stava in Socrato piuttosto la verità incorporata da¬ vanti ad Atene
decadente, davanti alla stessa Atene che egli aveva conosciuta nello
splendore del periodo di Pericle? Non era quest uomo un idealo morale di
una tale grandezza elio ogni tentativo di idealiz¬ zarlo maggiormente
doveva necessariamente rimpicciolì rio ? .y ■ ' ' V
v- V / f.'O- ;!£■ : S
% (1) P. Ueberweg, Unters. fi. d. Echtheit u.
Zeitfolge piatoli. Schriflen , ,p. 201, 250, 1861. (2) F.
Schle i rum ache R, Plalons Werke, I, 2, 3* ed. p. 128, 1835. (3)
H. MQli.er e K. Stf.inhart, Plalons sàmmtl. Werke, li, p. 216, 1851.
— 3 — 37 BOLLETTINO DI FILOLOGIA
CLASSICA Per quali ragioni poi l 'Apologia non fu scritta in forma
di dialogo? Nessuna introduzione, nessuna descrizione dello scenario,
nessun nesso tra i singoli discorsi, nessun accenno a circostanze
secondarie inter¬ rompono l'azione in questo meraviglioso documento. Non
dovremo con¬ venire che soltanto forti motivi psicologici indussero
l’autore ad esporre cosi lo sviluppo del processo? Non si dimentichi
neppure quanto di¬ versamente Socrate parla della morte ne\\'Apologia e
nel Fedone, la qual opera, senza alcun dubbio, fu scritta molto più
tardi. Nell’yfpo/ofna è in verità Socrate stesso che parla, mentre nel
Fedone è Platone che motto, entro la cornice della realtà storica, la
propria convinzione in bocca al suo amato maestro. Vi sono poi
altri fatti psicologici da rilevare. Ricordiamo che Platone ascoltava un
maestro, che aveva seguito con tutto l'ardore del suo en¬ tusiasmo
giovanile per lunghi anni, e dal quale emanava un lascino che faceva
dimenticare a lui come ad altri giovani greci la figura di Sileno clic
nascondeva il vero essere del grande innovatore. Ricordiamo clic Platone
era penetrato nello spirito della dottrina socratica come nessun altro e
clic egli solo è stato capace di salvarla interamente per la filosofia
occidentale. Gli orano quindi lamiliari tutti i partico¬ lari esteriori
che sono caratteristici por ogni personalità umana o senza i quali non
possiamo neppure rappresentarcela. Conosceva esattamente il timbro e la
cadenza della sua voce, il suo vocabolario, il suo perio¬ dare, i suoi
movimenti mimici e pantomimici, in breve tutti i numerosi fattori clic,
secondo la leggo della fusione psichica, cooperano a lar sorgere in noi
l’immagine di una persona a noi nota c che, tutti quanti, esercitano la
loro influenza dormito la riproduzione di un suo discorso. È
inoltro cosa saputa che ogni riproduzione di un discorso riesce tanto più
fedele, quanto piu l'attenzione rimaneva tosa, quanto mag¬ giore era
l’interesse che l'oratore suscitava in chi l'ascoltava. Si può immaginano
un’attènzione piu concentrata elio nel caso presente? Figuriamoci
lo stato d’animo del giovano Platone, che pende dalle labbra del suo
maestro e che appercepisce attivamente ogni parola da lui pronunciata; ridestiamo
nella nostra immaginazione l’uragano di emozioni che lo travolge, le
fluttuazioni della sua anima tra la spe¬ ranza ed il timore, tra
l'ammirazione della grandezza sovrumana che si palesa e lo schianto per
la certezza della perdita irrimediabile, e si dovrà convenire elio
l’organismo umano forse non sopporterebbe tali stati d’animo una seconda
volta. Sappiamo che emozioni come queste non passano facilmente, ma (die
tornano sempre in nuovo on¬ dato. Sappiamo inoltro che nessun moto
d'animo rimane senza espres¬ sione o elio lo singolo persone a questo
riguardo si comportano diver¬ samente. Anche l’anima dell’artista lui le
sue reazioni ed ogni artista le ha a seconda dell’arto, alla quale dedicò
la sua vita. Ora, anche Pla¬ tone era artista o come tale non potevano
rimaner mute lesile emo¬ zioni. Ma egli era anello scienziato, uno
scolaro, anzi Io scolaro per eccellenza, ili quoH'uomo che durante una
lunga vita non aveva ccr- BOLLETTINO DI FILOLOGIA
CLASSICA :i8 rato altro ohe la verità. Oli era
impossibile di rinchiudere in se ciò clic aveva vissuto quel giorno.
Cosi, appena può, prende lo stile por dare uno slogo all'emozione olia lo
soffoca. li se il suo stato non diede luogo a fenomeni precisamente
nllucinnttfri, nondimeno tutto ciò che aveva visto e sentito, torna a
vivere in lui, conio per il poeta vivono ed agiscalo lo persone croato
dalla sua fantasia. Cosi, io penso, nacque VApologia platonica.
Essa non è un rapporto stonogralico, perché è certo olle anche questa riproduzione
doveva su¬ bire quei cambiamenti che, secondo i risultati della
trattazione speri¬ mentale. hanno luogo in tutti i processi riproduttivi.
Perciò non ogni parola ebbe il suo posto originario, un pensiero avrà
avuto un'espres¬ sione un po' più breve, un altro una l'orma un po' più
lunga, eco., ma quanto al resto il documento è. come per il contenuto,
cosi puro pol¬ la forma tanto fedele, quanto, data la mente Idi un
Platone, era uma¬ namente possibile. Con ciò ho esposto II mio punto di
vista rispetto allo due questioni sovracconnatc. No risulta che dobbiamo
fondarci nella nostra ricerca4U/-quanto viene riferito in quest'opera
intorno al &ti- póviov di Socrate. Aggiungo die gli accenni contenuti
negli altri scritti di Platone non contraddicono in alcun modo i dati
precisi dell’Apologià. Per quanto concerno lo opero di Senofonte
che ci interessano, bi¬ sogna ricordare che esse furono scritte parecchi
anni dopo la morto di Socrate, o die in esse i.on veniamo mai informati
intorno al feno¬ meno da Socrate stesso. Desideroso di dimostrare
l'innocenza del grande filosofo, come puro la ingiustizia dell’accusa c
della condanna, Senofouto metto, convinto, beninteso, di scrivere la
verità, il Saipòvcov di Socrate in relazione colla fedo popolare nello
divinazioni. Ciò non può sorpren¬ dere, quando si pensa all'abuso che il
popolo di qucH'epoea, già invaso dallo scetticismo, fece dei divinatori,
c quando si tiene presente elio Souofontc non ora filosofo, ma uomo
politico. Per questa ragione non dove recar meraviglia, se Senofonte non
aveva compreso ciò che era nuovo ed essenziale nella concezione socratica
del fenomeno. In Meni. I, I, 2 è detto clic la divinità (vi
Saipòviov) dava segni a Socrate ed in I, 4 viono aggiunto elio egli comunicava
tali messaggi a quelli clic lo ci re urlavano o elio aveva loro predetto
ciò che dove¬ vano faro e ciò elio non dovevano l'aro, come puro elio
quelli elio se¬ guivano questi consigli ne ebbero vantaggi, mentre gli
altri elio non li seguivano, dovevano poi pentirsene. Meni.
1, 4 contiene il noto colloquio con Aristodemo. In 4, 11 Socrate domanda
ad Aristodemo, clic cosa gli dei dovessero l'aro per convin¬ cerlo elio
si curavano anche di lui. A ciò Aristodemo, alludendo al S-x.aó e.'j'i.
risponde, un po' ironicamente, che dovevano mandargli dei consiglieri per
fargli sapere quello elio doveva faro e non fare, corno Socrate
pretendeva che fosse il caso spo. In Cono. 8, 5 Socrate non aveva
affatto parlato del suo Sxtgtìvwv o non no parla neppure in seguito.
Antistuno, però, gli fa il rimprovero, come se egli se no servisse per
trarsi d'impiccio. 5 39 BOLLETTINO
DI FILOLOGIA CLASSICA È evidente che, se non avessimo lo
rispettivo, opere platoniche, il ixigiviov di Socrate sarebbe rimasto per
sompro un fenomeno inespli¬ cabile. D'altra parte però le comunicazioni
di Senofonte sono di grande valore, in (pianto che fanno vedere il modo
in cui in Atene si giudi¬ cava questo fonomono, ivi assai
conosciuto. Dall' Apologia ili Piatone apprendiamo che Socrate
disse nel suo primo discorso (Apoi. 31 c-d), che egli non si era occupato
di altari politici, perchè succedeva qualche cosa di divino o di demonico
(Dstov r. -/.od Sxqidvtov) in lui, che dai tompi della sua fanciullezza
(è-/. r.x'.Sif) vi era stata in lui una corta voce (qxov^ vi?) la quale,
ogni volta che gli so¬ pravveniva, l’aveva trattenuto da qualche cosa, ma
che non l’aveva mai spinto a qualsiasi azione. Nel terzo discorso (40
a-c) Socrate spiega, come la solita divinazione (r, siioSHtà poi prmxi))
l’avesse nel passato sovento fermato, trattandosi anche di coso molto
piccole (jiàvu érti opi- xpotg), ma che il segno di Dio (vi r.ù 9-soO
a^pstov) non gli era soprav¬ venuto durante tutto il giorno c neppure
durante tutto il suo parlare, mentre durante altri discorsi l'aveva
spesso frenato. Dice ancoraché la morte non poteva essere un male per
lui, perché nel caso contrario il solito segno (vò e!i»9-ò; a^pAv/J
l'avrebbe cortamente trattenuto nel parlare. Alla fine di questo
discoi-so (41 <1) ripeto che il morire doveva ora essere per lui la
miglior cosa, perché altrimenti il segno (vo oij- pstov) l'avrebbe
avvertito. Gli altri scritti di, Platone, dei quali dobbiamo tener
conto, non pos¬ sono naturalmente iù avere il valore storico, elio
abbiamo attribuito all’Apologià, ma siccome i rispettivi passi, corno fu
già detto, non sono menomamente in contraddizione con quolli dell'
Apologia, essi hanno certamente un fondamento storico. In ogni modo
illustrano, come Pla¬ tone vuole che il Sxwdvwv di Socrate venga
inteso. Nell'Atò/drtde I (103 a) l’autore si servo del fenomeno per
iniziare il dialogo. Socrate dice ad Alcibiade di non meravigliarsi, se
da tanti anni non gli avesse più parlato, perchè un ostacolo di natura
non umana, ma demonica (oùx ivD-piójiswv, àX/.i vi Sxipdviov ivawttopx)
gliene aveva impedito. ììo\VEulifrone (3 b) questo domanda a
Socrate, su che cosa Meleto abbisi l'ondato la sua accusa. Socrate dico
che Meleto gli rimprovera di introdurre nuovi dei c di non credere negli
antichi. E Eutifrono gli risponde di aver capito ora, che è perchè
Socrate parla sempre del suo Sxtpóviov. Noi Teetelo (150
c-151 a) Socrate parla della sua maieutica e dico che molti discepoli
l'avevano abbandonato, perchè, non comprendendo la sua arto, lo tenevano
in poco conto. Egli aggiunge che, se tali giovi¬ netti tornavano da lui,
il ìoupóviov (ti yiyvò|ìevóv poi Sxqwviov) gli impe¬ diva di accoglierne
alcuni, mentre ad altri non era contrario e che questi facevano di nuovo
progressi. Nell 'Entidemo (272 o), un dialogo, in cui Platone fa
vedere tutto il vuoto ed il poricolo dell'arte solistica, Critono prega
Socrate di BOLLETTINO DI FILOLOGIA
CLASSICA 40 parlargli di duo solisti. Socrato
consento o dico clic il giorno innanzi ora stato seduto noi liceo od in
procinto di andarsene, quando gli ora sopravvenuto il solito sogno
demonico (tò siwà-ò: ay iuCcv tò ìaqiòvt'vv}. Poreiù ora rimasto seduto o
tosto quei duo, cioè Kutidemo e Dioniso- doro orano entrati.
Noi Fedro (241 a-d) Platone ha già oltrepassato di molto il
socialismo puro e semplice, come risulta dalla spiegazione elio dà
dell’anima o dello ideo. Dopo una meravigliosa descrizione del paesaggio
vediamo corno Socrato o Fodro si coricano sulla sponda dell’Ilisso
nell'omhra di un albero. Socrato ticno il discorso sul bel ragazzo che
aveva avuto molti amanti. Fedro vorrebbe clic continuasse su questo tema,
ma So¬ crate gli risponde che, in procinto di attravorsare il fiume, gli
era so¬ pravvenuto il solito segno demonico (tò ìxqiòvtòv t= usci tò
siiottòs aijgEìovl, gli era parso di sentire una corta voce (za{ tivx
cpiovijv iìi-a aòTò!M=v àzoùoai), elio lo impediva di andare via prima di
essersi purificato da un peccato commesso contro la divinità. Dice ancora
che egli deve essere veramente un divinatore, ma soltanto per ciò elio
riguarda lui stesso, e continuando rileva dm la sua divinazione
rassomiglia all'arte di quelli che leggono c scrivono male, perché anche
questi possono ser¬ virsene soltanto per i propri bisogni. Con ciò egli
passa man mano agli splendidi discorsi elio tutti conoscono. — Platone si
serve in que¬ st'opera con arte line del ìaqiòviov in modo similo a
quello in cui so n'è servito ncll’AHbiado e neU’Eutidcmo. Egli introduce
il fenomeno per rendere possibili i discorsi che seguono.
Nella Repubblica (VI, 496 c) Socrato dice elio il segno demonico
(tò ìaqiòviov ovjiietovJ non era stato concesso a nessuno prima di lui o
quasi a nessuno. So analizziamo più da vicino il problema,
vediamo che esso rac¬ chiudo in sé tre problemi clic dobbiamo risolvere
l’uno dopo l'altro. S’impone prima di tutto il quesito, corno mai Socrate
abbia potuto -chiamare il fenomeno in questione tò ìaqiòviov. A questo si
connette l’altro, cioè di sapere che cosa Socrate stesso abbia realmente
inteso per questo termine. In terzo luogo dobbiamo corcare, come la
psicologia empirica moderna possa spiogare questo fatto. II primo quesito
e, fino ad un certo punto, anemie il secondo fanno parte della psicologia
dei popoli, mentre il terzo appartiene esclusivamente alla psicologia
indi¬ viduale. I. Il significato del ìaqiòviov di Socrate dal
punto di vista della psi¬ cologia dei popoli. — 11 concetto del demone è
sorto da primitive ve¬ dute attorno all’anima. Esso ha avuto poi un lungo
sviluppo, duranto il quale, sotto l’influenza di rappresentazioni
magiche, subisce molte trasformazioni e acquista varie forme. All’epoca
in cui appare l’eroe, questi 'lue concetti si fondano man mano in una
rappresentazione to- talo, nella quale il concetto del demone perde il
suo carattere imper¬ sonale, mentre l’eroe acquista dolio qualità
sovrumane. Cosi nasce il panteismo. Importante è però in tutto questo
sviluppo, che la rappre- 53 BOLLETTINO L)1 FILOLOGIA
CLASSICA sontazione ilei demono non si perdo dopo la formazione
degli dei pa¬ gani o elio corto qualità ili questi ultimi vengono
attribuite anche ai demoni. Per ciò accado olio lu coscienza popolare non
distinguo sempre nettamente tra dei e demoni. Nella Grecia il concetto
del demone, sotto l'influenza della poesia e della filosofia, subisce poi
un’altra modifica¬ zione, in quanto i demoni vengono considerati come
esseri elio stanno tra gli dei o gli uomini. Si confronti a questo
proposito la descrizione deH'origino dell'Eros nel Convito di Platone
(802 dj, come pure il primo discorso di Socrate nel .['Apologià platonica
(27 c). Dal punto di vista della psicologia dei popoli si può diro
elio col «aipóviov di Socrate il concetto del demono torni nell'anima
umana, nella quale, per motivi psicologici e per processi di
oggettivazione, è nato, vi ritorna filosoficamente trasformato ed
eticamente purificato (1). E caratteristico per tutto questo sviluppo
elio Socrate nel Convito di Senofonte chiama l'anima umana un santuario
dell’Eros (Vili, 1). , 2. Come intende Soci'de il suo 8*i|lòviov ?
— Prendo le mosse da un punto ilei primo discorso AoW Apologia di Platone
e precisamente dal punto, ove Socrate invita Meleto a spiegare esattamente,
se egli nella sua accusa intenda di diro clic Socrate non creda negli dei
dello Stato, o so egli voglia addirittura accusarlo di ateismo. Quando
Meleto an¬ nuisco a questNiltima interpretazione, l’accusato corea di far
vedere l'assurdità dell'assorziono, dimostrando dapprima che, chi crede
in qual¬ che cosa di demonico, devo necessariamente riconoscere
l'esistenza ili demoni. E quando Meleto devo nuovamente ammettere che i
demoni sono figli di doi, la partila è ila Scorato quasi vinta. Comesi
può ere- dorè all’esistenza di tigli dogli dei, egli conclude, senza
credere con ciò anche a quella degli dei stessi ? Difatti, i giudici elio
lo ritenevano colpevole, erano in piccola maggioranza. Se
prendiamo questo passo insieme con quanto Socrate dice ancora ilei suo
2xi|ióvtov o del suo concetto della divinità, abbiamo in mano la chiave
per la sua concezione del fenomeno. Faccio qui ancora notare che intendo
il termini vó ìzciivtov nelle opere di Platone, secondo l'os- sorvaziono
dello Schlcierinacher (2), nel senso di un aggettivo. Dico questo per
respingere l'opinione che Sperate abbia creduto in uno spe¬ ciale spirito
custode. Socrate scoglio il termine iò Saupòviov in conformità alla
fedo popo¬ lare. Come i demoni, secondo questa, stanno tra dei o uomini e
ven- .,gono detti persino ilei, perchè da dei generati, cosi anche il
demonico in lui è generato dalla divinità. Per questo lo chiama anche tó
3-iCov, il divino. Il nesso psicologico mi sembra qui evidente. Abbiamo
qual¬ cosa di s'inilo nella designazione del suo metodo, il quale egli
credeva puro impostogli dalla divinità (Teeteto 150, o). Come a baso di
tutte (1) Clr. W. Wu.ndt, m/terpsi/eholOjfie li, 2, p, 3iìS. 19 ni;
Clemente der VSt/cerpsi/chol., p. 313. 1912. (21 Op. cd., p.
309. — Cfr. puro B. E. Uaonaiihtks, The Ctnssical Retitelo, XXVIII, ri,
p. 185. 1911. — 8 — BOLLETTINO DI
FILOLOGIA CLASSICA 54 lo azioni di Socrate sta il
bisogno etico della cortezza(1), cosi egli è assolutamente certo che in
casi, in cui la propria ragione lo lascia in asso, una volontà divina lo
trattiene in ogni circostanza, piccola o grande, dolla vita, quando è in
pericolo di non agire giustamente, cioè di non compiere la sua missione.
In questa cortezza, che forma una parte della sua fedo religiosa, sta la
giustificazione otica dolla ironia, colla quale egli lancia l'accusa
indietro sull’avversario. Ma oltre ad essere qualche cosa di divino, il
demonico in Socrate è poi anche qualche cosa di umano, perché si produce
nell’anima umana o diventa sua pro¬ prietà, cioè un oracolo interiore.
Per ciò il demonico stava veramente, come il demone della mitologia, in
mezzo tra il divino e l'umano. Si aggiunga elio Socrate ora in fondo
persuaso che prima di lui questo dono non era stato posseduto da nessun
altro mortale. Ecco ciò che vi ha di nuovo nella concezione socratica
della divinazione, di fronte a quella della fede popolare. Como dalla
Repubblica di Piatone, questo fatto risulta anche dalle superbe parole,
colle quali Socrate si esprime sul suo valore davanti ai suoi giudici
(Apoi. 31 a-38c). Tali parole può pronunciare un ammalato di mente, che
si deve compatire, ma quando escono dalla bocca di un Socrate, sono
l'espressione di una pro¬ fonda convinzione religiosa, che deve scuotere
chiunque miri a tini etici. Importante è per la fede di Socrate che egli
non cerca di scol¬ parsi in quanto al non credere negli dei dello Stato,
ma solo in quanto al sospetto di avere delle convinzioni ateistiche
(Apoi. 35d). Por quanto concorno la teologia socratica, elio al
pari della sua etica doveva rimanere ili carattere pratico, anziché
sistematico (2), è importante ricordare che Socrate trovò nella sua
naz.iono il poli¬ teismo ellenico, corno Cristo trovò nella sua il
monoteismo giudaico. Socrate era, come ogni essere umauo, un tiglio del
suo tempo. Educato in (inolia religione ogli si riteneva, come Cristo,
esteriormente legato allo prescrizioni religioso in vigore. Come prendeva
sul serio la mas¬ sima di Delfo: conosci le stesso, cosi rispettava
l'altra di ubbidire alle leggi. L’ultima parola del filosofo morente era
la raccomandazione di non dimenticare il sacrificio dovuto ad Esculapio
(Fedone. 118), e poco prima aveva domandata all'uomo, elio gli portava il
calice fatale, se ora permesso di farne una libazione. In questo modo
Socrate non rag¬ giunse l'altezza dolla dottrina del Nazareno, ma si
avvicina ad essa, perchè sulla*larga base della religione popolare si
eleva, quale sintesi della sua conoscenza, la fedo in un Dio unico, al
quale si deve ubbi¬ dire più che non agli uomini (Apoi. 29 d) c di cui
egli si credeva un apostolo (Apoi. 31 a). Socrate è tolcrautc verso la
fede della moltitu¬ dine, ma il suo Dio è l’intelletto che governa
l’universo e per il quale non trova neppure un nome, un Dio onnisciente
ed onnipresente, che (1) A. Labriola, Socrate. Nuova edizione a
cura di B. Croce, p. 5, 35, 76, 80 seg., 86 seg., 88 sei;., 150 si>g.,
176, 274 seg. 1909. (2) Cfr. A. Labriola, op. cit., p. 151, 155, 179
segg., 250 segg., 271 segg. 55
BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA si cura ilei Leno di tutti gli
nomini (Sonof., Meni. I, 4). Tutte le sue pratiche religioso sono in
fondo rivolto n quest'unico Dio senza nomo, clic si rivela agli uomini in
molti modi. Con una espressione di ledo in questo Dio onnisciente, si
chiudo ì'Apntoi/ia platonica(l). Tenendosi presente questo concetto della
divinità, si comprendo la sua incrolla¬ bile fede nel S»tpóvtov come in
una rivelazione della medesima. Il l'atto che il plurale oi '.Hol
si trova in Platono come in Senofonte accanto al sì neolaro 6 tei?
potrebbe destare il sospotto elio Sorrato accanto all'intelletto
universale abbia ammesso ancora dolio altro forme divino. Ma ciò è escluso.
Egli sceglie il plurale in modo simile come, per es., nella Genesi il
plurale Eloliim sta por il singolare della di¬ vinità. Non è qui il luogo
ili entrare in altri particolari. Ricordo sol¬ tanto elio troviamo
precedenti in Senofane e che audio Anassagora aveva già riconosciuto un
unico principio immateriale che tutto or¬ dina secondo lini. Cho Socrate
abbia conosciuta l'opera di Anassagora, apprendiamo direttamente da
Platone (Fedone. U7). Non ho bisogno di rilevare che, con quanto fu
esposto, sono sen¬ z’altro respinte le opinioni di Lèi ut o di altri, cho
considerano Socrate come un ammalato di mente, come pure il parere di Dii
l’rel, che mette il Sxqidvtov di Socrate in relazione collo proprio
teorie mistiche (2). 3. // 8r.pó/tov di Sacrale dal punto di vista
detta psicologia empirica moderna. — So teniamo conto di tutti i fatti
che Platone ci presenta, è evidente che nel «atpivtov di Socrate si
tratti ili un processo che ap¬ partiene al campo delle inibizioni
psichiche. Naturalmente non può trattarsi qui di una inibizione nel senso
della dottrina intcllcttuuli- tstica di Horbart. Ciò che nel nostro caso
è inibitorio, non appartiene all'atto al contenuto oggettivabile della
coscienza umana, ma si trova piuttosto dalla parte puramente soggettiva
di essa, cioè da quella dei sentimenti. Da questo punto di vista dobbiamo
cercare di risolvere il problema. L’inibizione procede da un sentimento
totale, che si forma in base ad un numero più o meno grande di intensivi
sentimenti par¬ ziali, legati ad clementi rappresentativi che rimangono
al limito della coscienza e che non giungono all’appercezione. Con questo
è inteso, che non può trattarsi nel caso di Socrate, come è stalo
ripetutamento affermato, di processi allucinatoci (3). Nel fatto che
l’inibizione parte da un sentimento, al quale non corrisponde un
contenuto oggettivo, sta la ragione, perchè Socrato non può fare alcuna
indicazione precisa (l) Cfr. pure (I. /Cuccanti:, op. cit., pirte
IV, c«p. XIII. tX) F. I.ÉIX'T, L)it itóiiion de Si,croie ni. 1 4556. — C.
Du Prel, Ine Ma¬ stiti d. alt. (ìrieclien, p. 121 seg. 1.333. E
caratteristico che Du Prel l'accia uso ilei Teapele , benché riconosca
che questo non sia un'opera di Platone. d) Cile Platone colla frase
nel Fedro “ xxt -iva ipiovijv £So;a xùxcàsv ày.ofkJx: „ non vuol alludere
ad una allucinazione, dimostra con molta chiarezza anche lo Cuccante (op.
cit., p. 372). Si aggiunga che. se il Szqicvtcv di Socrate avesse tale
origine, questo si rileverebbe in tutti i rispettivi racconti platonici, ciò
che non è assolutamente il caso. - 10 —
BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA 56 intorno al
fenomeno, ma (leve in casi, in cui non lo chiama semplice¬ mente il
demonico o il divino, contentarsi di termini metaforici. Parla, ad es.,
di una voce, come oggi si usa il termine “ voce della coscienza,,. Questo
sentimento, sorto dapprima per via associativa, viene poi atti¬ vamente
appercopito e, riferito alla divinità, acquista il carattere di un motivo
imperativo che, coll'intensità di una forza morale, lo co¬ stringe ad
abbandonare un'intenzione presa. Dal fatto cho l’inibizione viene da
Socrate creduta un segno divino, si comprendo elio in lui non possono mai
nascere dei dubbi, come accadrebbe con altro persone. Non vi è mai in un
tal caso una lotta tra motivi in lui, mai alcun conflitto tra doveri.
Appena egli s'accorge dell’inibizione, è assoluta¬ mente sicuro di aver
avuto trasmesso un divino “No,.. Cosi la rifles¬ sione o la fedo nel suo
Sztjióv»/diventano i principi fondamentali, che lo guidano nella sua
intera attività filosòfica ed etica. In ultima analisi si tratta
qui di un fatto psichico clic si verifica in ogni coscienza normale più o
meno frequentemente, benché molte per¬ sone non lo osservino o non si
lascino da esso frenare. Di James Stuart Mill ci viene riferito elio egli
osservò il fenomeno in se stesso molto intensamente (1). A me molte
persone hanno dotto di aver notato in sè tali inibizioni sentimentali.
Siccome Socrate ci informa che egli aveva osservato il fenomeno spesso in
sè dai tempi della sua fanciul¬ lezza, non è escluso che vi sia stata in
lui por lo sviluppo di esso una certa disposizione. Ma d'altra parto si
devo ricordare (dio egli per tempo si abituò a fare molto sul serio
l'esame di se stesso o cho il fenomeno era una parte integrale della sua
fede religiosa. Dal momento cho egli era corto cho il sentimento
inibitorio era una rivelazione divina, questa convinzione doveva dominare
tutta l’anima sua. Dato questo continuo autoesame in connessione collo
sviluppo (lolla sua convinzione teolo¬ gica, si comprendo, come dovesse
entrare in giuoco un principio che governa ogni vita psichica, cioè
quello dell’esercizio. L’ininterrotto esercizio doveva renderlo capaco di
riconoscere l'inibizione di ogni grado appena sorta e di afferrarla
coll'attenzione. Si aggiunga (die la coscienziosità colla quale cercò
continuamente di compiere la sua mis¬ sione, e colla quale mirava sempre
ai medesimi lini, doveva renderlo straordinariamente sensibile o
facilitare la formazione di tali senti¬ menti. Cosi si spiega il
frequente ripetersi del fenomeno in tutto lo sue azioni. Io credo clic,
con quanto fu esposto, siano trovati i punti principali «he debbono
guidarci nella spiegazione psicologica del Sacgóviov di Socrate. Tornerò
sull’argomento in un lavoro più esteso, ed in questo sarà tenuto conto
delle opinioni di altri autori più di quanto mi è stato possibile di fare
in questa breve comunicazione. (1) G. Zuccante, op. cit., p. 378.
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2016 https://archive.org/details/b24876057
5 SOCRATE
ET VoAmour Grec ♦
SOCRATE ET IPAmour Grec ( Socrates sanctus
naiSepaatrjs ) D1SSERT ATlON DE Jean-Matthias
GESNER Traduite en Francais pour la premiere fois Texte Latin
en regard Par Alcide BONNEAU PARIS
Isidore LISEUX , Editeur Rue Bonaparte, n° 2 I 877
^ Qt-FA-TE: f <rv / /hio nT .• T'pn iA /^ /
( / a_) AVANT-PROPOS jegg^arean-Matthias
Gesner, 1’auteurde «JgE cette curieuse dissertation, est I S&fe
l un erudit Allemand du xvm e sie- cle, dont les travaux ne sont pas
tres- connus en France. On lui doit d’excel- lentes etudes sur les
Scriptores rei rus- ticce , une Chrestomathie de Ciceron, une
Chrestomathie Grecque , des Lexi- ques, une traduction Latine des
ceu- vres de Lucien, des editions de Pline le jeune, de
Claudien, de Quintilien, de Rutilius Lupus et autres anciens
a VI AVANT-PROPOS rheteurs, toutcs
enrichies de notes sa- vantes et de longs prolegomenes; plus, un
nombre formidable de dissertations sur toutes sortes de sujets, Opuscula
di- versi argumenti (Breslau, 1743-45, 8 vol, in-8°), parmi
lesquelles son Socrates sanctus pce der asta tire forcement l’oeil
par la bizarrerie de son titre. Cette bizarrerie a valu au livre sa
no- toriete, et en meme temps lui a fait grand tort. Beaucoup de
gens, entre autres Voltaire, malheureusement pour 1 ’erudit
Tudesque, n’ont pas ete au dela, et iis ont construit sur cette minee
donnee un ouvrage tout entier de leur fantaisie, a 1 ’extreme
desavantage du pauvre Gesner. D’autres ont cru Voltaire sur parole
et sont arrives au meme resultat. C’est Larcher, THelleniste,
qui le pre- mier chez nous mit en lumiere cet opus- cule, dans son
Supplemenl & THistoire universelle de labbe Bapn (1767, in-8°),
en le citant parmi les ouvragcs a con- AVANT-PROPOS
VII sulter sur le proces de Socrate ; il se contenta d’en
faire mention, sans meme traduire ni expliquer le titre, ne s’ima-
ginant pas qu’on put s’y meprendre, et qu’un homme tel que Gesner fut
suppose capable d’une indecente apologie. Vol- taire, dont le vif et
alerte esprit se plai- sait a effleurer les surfaces, sans presque
jamais approfondir, ne connaissait sans doute pas Gesner et certainement
n’avait pas lu son Socrates. Le Supplement a VHistoire nniverselle
n’etait d 7 ailleurs qu une refutation tres-savante, quoique un peu
lourde, de son Introduction a 1'Essai sur les maeurs , publiee d^abord
a part et sous le pseudonyme de 1’abbe Bazin; quelques critiques
justes qu’on y rencontre le mirent de mauvaise humeur , et, battu
sur divers points d’erudition, il chercha une occasion de dauber
Larcher, a cote du sujet, selon son habitude. Il crut la trouver
dans le livre etrange qu’il supposa, d’aprcs le titre cite qu’il
inter- VIII AVANT-PROPOS pretait mal,
s’indigna de ce qu’on osait donner comme faisantautoritedesimons-
trueuses elucubrations (le monstrueux n’etait que dans ce qu’il
imaginait), et tantot sous le pseudonyme d’Orbilius, tantot sous
celui de M Ilc Bazin ( Defense de mon oncle, un de ses pamphlets), il
ne cessa de poursuivre la-dessus de ses bro- cards son inoflensif
adversaire. Tres- content d’avoir leve ce lievre, il a meme
reproduit son assertion plus que hasardee dans le plus populaire de ses
ouvrages ; on la trouve en note de 1’article Amour socratique , du
Dictionnaire philosophi- que. « Un ecrivain moderne, nomme Larcher,
repetiteur de college, dans un libelle rempli d’erreurs en tout genre
et de la critique la plus grossiere, ose citer je ne sais quel
bouquin dans lequel on appelle Socrate Sanctus pcderastes ; So-
crate saint b ! Il n’a pas ete suivi dans ces horrcurs par 1’abbe
Foucher. » Larcher avait trop beau jeu pour ne
AVANT-PROPOS IX pas repliquer. II le fit dans sa
Repons e . la Defense de mon oncle (1767, in-8°), opuscule rare,
reimprime a la suite du Supplement a 1’Histoire universelle : «
Vous m’attribuez , dit-il a Voltaire, votre infame et infidele traduction
du titre d’une dissertation de feu M. Gesnera Je n’ai point traduit
le titre de cette dis- sertation ; il ne pouvait se prendre que
dans un sens tres-honnete, mais il etait reserve a M lle Bazin et a
Orbilius de lui en donner un infame. Cela ne vous suf- fisait-il
pas? Fallait-il encore me 1 ’im- puter? » Pour qui avait suivi
toutes les phases de la discussion, Larcher et Gesner etaient
innocentes; Voltaire restait convaincu d’avoir note dfinfamie un livre
sans le connaitre. Mais ces temps sont loin ; per- sonne
aujourd’hui ne lit Larcher pour son plaisir, et le Dictionnaire philoso-
phique est dans toutes les mains. Voila pourquoi on croit generalement
que Ges~ X AVANT-PROPOS ner a developpe
le plus scabreux des pa- radoxes et fait une apologie en regie d’un
vice honteux. Nous pourrions citer au moins un de ceux qui, se fiant a
Voltaire, ont propage 1’erreur mise par lui en cir- culation, et
affirme que cette dissertation n’est qu’un tissu d’invectives ; mais
nous ne voulons faire de la peine a personne. Gesner,
ecrivain des plus doctes et plus estime encore pour son caractere
que pour son savoir, professeur de Belles- Lettres a TUniversite de
Goettingue, puis bibliothecaire de cette universite, ne pou- vait
ecrire qu’une defense de Socrate, une refutation des calomnies dont on
a obscurci sa memoire, et que la langue a attachees a son nora
d’une maniere en quelque sorte indelebile par les mots de
socratisme et d 'amour socratique. Inquiet et tourmente, comme il
1’assure, de voir peser sur le pere de la Philosophie de si
indignes soup9ons, il a voulu remonter aux sources, compulser tout le
dossier AVANT-PROPOS XI et reviser le
proces sur les pieces memes. II l'a fait d’une facon non moins
inge- nieuse que savante dans cette disserta- tion lue a 1
’Academie de Goettingue en fevrier 1752, recueillie dans les Memoires
de cette academie (t. II, p. 1), dans les Opuscula diversi argumenti de 1
’auteur et tiree a part en 1769 (Utrecht, in-8°). C’est cette
derniere edition que nous avons suivie pour la reimprimer et la
tra- duire, ce qui n’avait jamais ete fait en Francais, ni
probablement dans aucune autre langue. Gesner a-t-il reussi a dis-
culper entierement Socrate? Nous l’es- perons; mais nous etions de son
avis avant d 7 avoir lu son livre, et, ccmme per- sonne ne 1’ignore,
c’est surtout chez ceux qui pensent comme lui qu’un auteur, si bon
dialecticien qu’il soit, porte la con- viction. Les esprits mal faits qui
incli- nent a 1’opinion contraire, et ceux-la seront toujours
difficiles a persuader, persisteront peut-etre a trouver singulier
XII AVANT-PROPOS que Platon, interprete de
Socrate, ait si souvent parle de 1’amour; qu’il ait con- sacre
trois de ses plus beaux dialogues, le Lysis , le Phedre et le Banquet , a
cette brulante passion; qu’il l’ait tant de fois soumise aux
analyses les plus delicates, expliquee par les conceptions les plus
sublimes, les mythes les plus poetiques, et que jamais, sauf un moment,
dans l’admirable episode de Diotime du Ban- quet , il ne soit
question de la femme. Alcide Bonneau. UEDITEUR
AU LECTEUR [TIRE DE l’eDITION D’UTRECHT, 1 768] es
hommes illustres, ceux qui sont regardes comme tels non-seulement
par la posterite, mais par leurs contemporains, ceux surtout dont
le plus grand eclat consiste precisement dans leur vertu, sont
souvent accuses, sur les plus legers indices, de quelques travers,
sinon de defauts plus graves; et c’est la un travers
EDITOR L. S. iros illustres, et non a posteris solis
sed coaevis tales habitos , eos maxime quorum praecipua laus
virtutis est , vitii alicujus nedum criminis gravioris suspicari levibus
ar- gumentis, vitium id quidem non leve : reos agere et condemnare
crimen et piaculum ; in Christiano homine, in homine , in barbaro.
Quanta istorum ignominia, tanta est gloria piorum virornm qui
versantur in probrosis his XIV l’editeur
qui Iui-meme ne manque pas de gravite. Se faire a la fois
1’accusateur et le juge, c’est une chose criminelle, un sacrilege,
qu’il s’agisse d’un Chretien, ou seulement d’un homme, meme d’un
paien. L’ignominie de ceux-la rehausse d’autant la gloire des
hommes pieux qui s’appli- quent a repousser ces odieuses attaques.
On peut le dire de Gesner, ce savant illus- tre, du petit nombre de ceux
qui depas- sant par la science tous leurs contempo- rains, font
encore plus estimer en eux les qualites du coeur que celles de 1’esprit
; c’est un honneur pour lui d’avoir pris en main la cause de
Socrate, et un plus grand peut-etre pour Socrate d’avoir dte le
Client de Gesner. II nous a paru bon de recueillir dans
une edition nouvelle cet ouvrage de faible conatibus coercendis.
Gesnero, illustri nomini , e numero paucorum illorum qui cum
eruditione coaevos possint excellere, animi dotibus quam ingenii
celebrari malunt, incertum an honori sit caussam Socratis egisse, magis
quam Socrati Gesnerum habuisse patronum. Visum fuit ,
memoriam brevis operae sed auro contra noti carae nova editione colere.
Docuit vir praeclarus , scripto quidem, quam inani co- natu virtus
summi hominis sollicitata fuerit ab obscuris obtrectatoribus , qui non
solent deesse virtuti. Docuit autem exemplo, pertinere ad AU
LECTEUR XV dimension, mais qui ne serait pas
trop cher paye au poids de For. Son excellent auteur nous y montre,
la plume a la main, 1’inanite des efforts diriges contre un sage
par ces obscurs detracteurs qui ne man- quent jamais a lavertu; il nous
fait voir aussi, par son exemple, qu’il appartient a tout honnete
homme de defendre la cause des gens de bien. II nous enseigne
surtout avec quel soin et avec quelle erudition il est besoin
d’ecrire dans de telles matieres, ou l’on ne doit rien avancer qu’apres
un examen scrupuleux. Profite donc, lecteur, de ce travail,
plus utile qu’il ne le semblerait au premier abord; et si, par ignorance
ou par trop forte credulite, tu as rejetd loin de toi les ecrits
Socratiques, reprends-les maintenant et garde-les avec amour. Il nous
sera per- bonos omnes bonorum virorum caussam : tum et
illud, in primis, ubi ejus modi res agitur, accu- rate et docte
scribendum esse, nec arripi quid- piam absque subtili examine, et
benevolo illo , debere. Fruere, Lector , labore utiliori quam
decet : et si imprudentius forte abjeceris Socraticas char- tas
nimium credulus, abi continuo et in sinu eas reconde. Integrum erit
culpare qui Socratem citant, tibi convenisset laudari Davidem et
Sa- lomonem : sed patiamur , bonum et pauperem Socratem . , placide
subridentem , sereno vultu , xvi l’editeur au lecteur mis
a notre tour de mettre en accusation ceux qui font un crime a Socrate de
ce qu'ils trouveraient admirable s’il s’agissait de David et de
Salomon ; mais laissons le bon et pauvre Philosophe s’interposer
dou- cement avec son placide sourire, son tran- quille visage, et
s’ecrier : Moi aussi, Vertu, je t’ai honoree, Deesse ! Quant
a ceux qui blameront cette apolo- gie, non comme excessive, grands
dieux, car que pourrait-on dire de trop sur So- crate ? mais comme
inconvenante et depla- cee, qirils prennent garde de tomber dans Todieux
de cette populace Portugaise tou- jours prete, sinon a lapider ou a
bruler, du moins a exorciser a force de signes de croix traces d’un
doigt tremblant, le teme- raire qui oserait croire que la Bienheu-
reuse Vierge Marie etait une Juive. leniter interponere, Et ego
te, Virtus ! colui Deam, Quibus fastidium movent elogia,
justa Di boni! quid enim de Socrate dici nimium potest? sed quce
magis opportune forsatn collocari potuis- sent, videant ne in odium id
evadat, quale est plebis Lusitanae, si non rogum parantis aut la-
pides, saltim tremente digito averruncas cruces describentis, si quis
auserit credere, B. Virginem Judaeam fuisse.
SOCRATE ET UaAmour Grec IO. MATTHI.
GESNERI V. C. Socrates SANCTUS T/E D E T{A STA
t nihil tam alte vel natura , vel virtus , vel fortuna constituit,
in quo non vel deprehendatur ali- quid labis et vitii , vel vires
suas experia- tur maledica invidia , cujus vocibus boni etiam viri
abripi se ad suspicandum certe non nunquam patiuntur : ita mirum
non est , neque excelsam Socratis gloriam
Socrate ET L’qAMOU% g%ec 1 n’est rien de
place si haut par la nature, la vertu ou la fortune, qui n’ait ses
taches ou ses inv perfections, ou que 1’envie ne s’efforce
d’atteindre, cette medisante envie dont les clameurs poussent 1’homme de
bien lui-meme a soupconner le mal : c’est pourquoi nous nc devons
point nous 4 SOCRATE obtrectatoribus suis carnis
se. Ac de Anyti Melitique criminibus, quibus op- pressus est vir
innocens , et, si forte vani- tatis aut nugarum et cavillationum
pos- tulatus, et Scurrae nomine traductus est (i), in prcesenti non
erimus soliciti. Unum crimen est, quod, varie jactatum, et plus
semel non sine specie in scenam reduc- tum scepe me solicitum habuit,
Fuerit ne impuro ac detestabili puerorum amori deditus? Hoc enim si
verum sit, actum est profecto de virtute viri, indignus est cujus
cum honore nomen usurpetur. 2. Postulatum esse hujus turpitudinis,
negari non potest. Mittimus , quae de adolescentia viri ad libidinem
proclivi (i) Factum id esse a Zenone Epicureo, prodidit Cic.
de Nat. Deor. i, C. 34, ubi vid. Davis. ET L’AMOUR GREC
5 etonner que lagloire si haute de Socrate ait eu,
elle aussi, ses detracteurs. Tou- tefois nous ne voulons ni parier ici
des accusations d’Anytus et de Melitus sous lesquelles succomba son
innocence, ni nous inquieter de savoir si ce grand homine a ete
incrimine de vanite, de mensonge et de sophisme, affuble du surnom
de Bouffon[i). Une seule accu- sation m’a souvent tourmente ; c’est
celle qui, sans cesse discutee, a toujours ete remise en avant, non sans
apparence de justesse: Socrate etait-il adonne d l’impur et
detestable amour des jeanes gargons ? Si cela est vrai, c’en est fait
des- ormais de la vertu de cet homme ; c’est un indigne, lui dont
on ne prononce le nom qu’avec respect. 2. Qu’il ait ete
accuse de cette turpi- tude, le fait est certain. Negligeons ce que
Porphyre, d’apres Theodoret [De la (i) Comme le fait PEpicurien
Zenon, au dire de Ci- c6ron {De Natura Deorum , i) ; consuit,
la-dessus J. Davies. i . 6
SOCRATE Porphyrius apud Theodoretum [Graecar, affect. cur.
ser. 4 pr.) memorat : nam ibidem additur , illum c-ojo^ xat oioayrj
xouxou? a^aviaat xou; xurcous, impressas ve- luti notas libidinum studio
ac doctrina abolevisse (1). Neque valde huc faciunt , quce ex eodem
Porphyrio , qui Aristo- xeno auctore usus sit, idem Theodore- tus
(Serm. 12 p. iy5, 8) memorat, par- tim quod ad adolescendam primam
viri, de qua nobis sermo non est, pertinent , partim quod Archelaus
Anaxagorae dis- cipulus, honestus amator (spaax 7 ]$) ipsius fuit.
Ejusdem generis est, quod Cyrillus (contra Julia. 6, p. 186, D) ex eodem
Porphyrio (in Historia Philosopha , libro olim deperdito) refert ,
Socratem -po; xr ( v twv aopootatwv yp7jatv acpo Spdxspov p.sv
sivac, aoizov os p.rj -poasTvat. t\ yap xaT;Ya[j.sxaT;, vj xat?
•/.oivat; y prjaQat fj-ovat?. Fuisse ad res venereas aliquantum
vehementem, sed injuriam abfuisse, qui vel uxoribus solis, vel
(1) Conf. quae in fra de mali equi Socratici notis dicentur. §
18. et l’amour grec 7 cure des prejuges des Grecs ,
Disc. iv), raconte de sa jeunesse, laquelle aurait ete encline au
libertinage ; 1’auteur ajoute, en effet, au meme endroit qu’il
parvint a effacer en lui, par Venergie de sa volonte \ jusqu’aux traces
meme des passions (i). Ne nous occupons pas non plus de ce que le
meme Theodoret (Discours xn) emprunte encore a Por- phyre, qui
lui-meme suivait Aristoxene, c’est-a-dire de ce qui se rapporte a
la premiere jeunesse de Socrate (elle n’est pas en cause), et a ce
disciple d’Anaxa- goras, Archelaus, qui aurait ete, en tout bien
tout honneur, un ami fervent (!pa<j-r]s) du philosophe. A la meme
cate- gorie appartient ce que S. Cyrille [Contre Jidien, 6) a
extrait de YHistoire philosophi que de Porphyre, livre aujour-
d’hui perdu : a savoir que Socrate et ait violemment pousse aux choscs de
ia- mour, mais qiiil s’abstint de faire tort a (i) Voyez ce
que l’on dit plus bas des marques du « mauvais cheval Socratique. »
8 SOCRATE (quam diu caelebs esset)
communibus uteretur. Nondum quidquam ex Por- phyrio vel Aristoxeno,
quem ille aucto- rem sequitur, allatum est de horribili scelere,
Pcederastia : quod praetermissu- rus non erat, qui satis hic in
Philosophice parentem iniquus est, Cyrillus. Decla- mat igitur
praeter rem Socrates alter (Hist. Eccles. 3, 23, p. i gj, D), cum ita
de Porphyrio narrat, IIopcpupio; xou xopu^aio- xaxoa xoiv
<piXoao<ptov, Scoxpaxous, xov [3''ov oietu- psv £v ifi
YsypaixpiEvr] auxai <piA oaoow toxopta, xai xoiauxa Tuept auxou
ypa^a;xaxdXi7TEv, oia av p.7]xs MeTaxo;, p.r[x£ v Avuxo; oi jpa^aixsvoi
Swxpaxrjv ItTictv e-zyjiprjGxv, ita traductum, ait, a Porphyrio
Socratem, talia de viro scripta, quae neque accusatores ipsius Anytus
et Melitus dicere in ipsum ausi sint. Acci- pimus, quod negat
objectam in judicio turpitudinem talem Socrati, quo nempe argumento
constet, famam viri hac tum macula caruisse. Sed nec a Porphyrio
plura aut turpiora his memorata, quae jam vidimus, satis illud argumento
est , quod iniqui Socratis glorice homines, 9
ET L’AMOUR GREC personne, en riusant jamais que de ses
propres femmes ou , durant son celibat, des femmes qui apparticnnent a
tout le monde. Nulle part, soit chez Porphyre, soit chez Aristoxene
que Porphyre co- piait, il n'est rien allegue de cet horrible crime
: Pederastie ! II ne Paurait point passe sous silence, ce Cyrille si
injuste envers lepore de la Philosophie. IPautre Socrate ( Histoire
ecclesiastique, m, 23 ) avance donc une insigne faussete lors-
qu’il dit : « Porphyre a compose la vie de Socrate, le coryphee des
philosophes, d’apres les histoires ecrites sur lui ; et il nous a
transmis, d Vaide de ces docu- ments, des choses si monstrueuses que
les accusateurs de Socrate, Anytus et Meli - tus, n’ont pas meme
ose' les lui reprocher. » Retenons seulement de ceci Taveu qu’on
n’en fit pas un grief a Socrate, lors du jugement public, ce qui ressort
de la phrase elle-meme, et que cette tache fut alors epargneeT a sa
renommee. Mais Porphyre n’a pas rapporte autre chose ou des choses
plus monstrueuses que ce IO SOCRATE
Cyrillus ac Theodoretus, non plura pro- tulere, quibus fuerant haud dubie
cau- sam suam , si res facultatem dedisset, ornaturi.
3. Nempe nec Aristophanes , qui cor- ruptce ad impietatem et calumniandi
ar- tem juventutis accusat in Nubibus Socra- tem . hujus criminis
ullam mentionem facit , non omissurus profecto , si illud
adhaerescere posse putasset. Nec forte quisquam est ex omni antiquitate
remo- tiore illa, et temporibus Philosophi pro- pinqua . , serius
et severus accusator hujus criminis. Lusit inter posteriores, pro
petulanti illo ingenio suo, Lucianus (de CEco, ita enim potius dicendus
erat ille libellus quam de Domo, c. 4 , T. 3, p. ig 2 , 83) cum
accusat Socratem, qui non erubuerit advocare Musas, virgines,
cuvsaojjiva; ia -aiBepaama, ut audirent illos de puerorum amore sermones.
At- qui illi sermones, uti mox videbimus. ET l/AMOUR GREC 1
I que nous venons de dire ; nous en trou- vons la preuve en
ce que S. Cyrille et Theodoret, deux detracteurs de Socrate, n’en
ont souffle mot, et qu’ils n’auraient pas manque d’en orner leurs
diatribes si la chose eut ete possible. 3 . En second lieu,
Aristophane qui, dans ses Nuees , represente Socrate comme un
corrupteur de la jeunesse, comme faisant de 1’imposture un
enseignement, n’a pas davantage mentionne cette accu- sation;
l’aurait-il omise, si elle eut pu s’appliquer a Thomme qu’il bafouait?
II n’y a enfin personne, si l’on prend des temoins dans cette
antiquite reculee ou dans les temps voisins du Philosophe, qui se
presente comme un accusateur serieux et digne de foi. Plus tard
seule- ment Lucien, entraine par sa verve moqueuse (dans 1’opuscule
que l’on tra- duit ordinairement De Domo et qu’il vaudrait mieux
traduire De CEco , chap. iv), reprocha a Socrate de n’avoir pas
rougi d ; invoquer les Muses, des 12 SOCRATE
reprehendant vehementer amorem : re- spicit enim ad Phcedrum
Platonis (p. 340 , G) de quo dedita opera dicendum erit. Qua ? in
Amoribus (c. 24. To. 2. p. 424 , go) in Socraticum amorem
Platonicum- que vel a Luciano, vel quicunque auctor est, jocose et
per calumniam dicuntur, ea ad ipsum illum locum diluisse me
arbitror . 4. Sed veterum criminationes Maxi- mus Tyrius (
Dissertat . 2S. 26. et 27 al. g. 10. 11) refutavit, ut non videatur
opus esse aliquid addi : cum praesertim tanto magis et agnoscant
innocentiam Socratis, et illud crimen ab illo depel- lant ut hujus,
ita paullo superioris aitatis homines, quo magis virum ex aequalium
ac paullo juniorum de illo scriptis ut cognoscere possent, cuique
contigit. Quin ne consultum quidem judicarem veterem litem
resuscitare , nisi viderem, nuper et l’amour grec i3
vierges, pour leur faire dcouter ces fa- mcnx discours sur Vamour
des jeunes gargons. Mais ces discours, comme nous allons le voir,
blament fortement cette sorte d’amour; Lucien fait, en effet,
allusion au Phedre de Platon dont nous aurons a nous occuper. Ce que Fon
dit debamourSocratiqueet Platonique dans les Amonrs , que ces
dialogues soient de Lucien ou de tout autre, n’est qu’une
plaisanterie ou une mechancete, comme je\ l’ai demontre en temps et lieu
(i). 4. Maxime de Tyr ( Dissertations 25 , 26 et 27) a
d’ailleurs refute toutes les ac- cusations portees a ce sujet par les
an- ciens, etilserait inutile d’y rien ajouter. Le meilleur argument,
c’est que ceux qui ont le mieux reconnu Tinnocence de Socrate et
repousse loin de lui avec le plus de force 1’accusation infame,
sont les hommes de la generation qui a imme- (1) Dans ses
notes sur Lucien, dont il a fait une edition et une traduction Latine
tres-estimees. (Note du Traducteur.) H
SOCRATE fuisse, et esse hodie homines eruditos, et bonos
viros, qui pravam de patre illo Philosophia ? opinionem conceperint,
quo- rum non pono nomina, quia mihi non cum ullo homine certamen
esse volo, sed cum opinione ea, quam praeterquam quod falsam puto,
etiam virtuti noxiam , praeter consilium quidem bonorum viro- rum,
humanitati certe adversam esse, arbitror. 5. Qui autem fieri
potuit, ut homines neque indocti neque maligni in sinistram
falsamque de Socrate opinionem incide- rint? ut apologia vir sanctus opus
habeat? Praeter naturalem illam -/.axor{0£tav nos- tram, quae imis
velut medullis fixa , et superbiae illius nostrae nixa radicibus.
et l’amour grec i5 diatement suivi la sienne. Or, ce
sont les contemporains et leurs successeurs immediats qui peuvent
le mieux juger un homme, en pleine connaissance de tout ce qu’on
aecrit sur lui. Je n’aurais donc pas songe a ressusciter cette vieille
que- relle si je n’avais vu naguere, et tout recemment encore, des
hommes instruits, vertueux, concevoir la plus mauvaise opinion de
ce pere de la Philosophie ; je ne dirai pas leurs noms, ne voulant
me prendre corps a corps avec personne, mais seulement avec une
opinion que je considere comme sans fondement, nuisible a la vertu,
et, contrairemcnt a 1’avis de ces gens de bien, defavorable a
1’humanite tout entiere. 5. Comment donc a-t-il pu se faire
que des personnages qui ne p£chent ni par ignorance ni par mechancete,
aient concu de Socrate une opinion si facheuse et si fausse?
Pourquoi cet homme veri- tablement saint a-t-il besoin d’etre de-
fendu? En dehors de cette maligni te i6 SOCRATE
inter ultima vitia eradicatur, ceterasque ex genere morum rationes,
conveniunt hic alia qucedam , quce facilem errandi occasionem
praebent. Magna pars docto- rum etiam hominum legendi laborem
fugit, legendi uno tenore, continuata attentione , totos veterum
scriptorum libros; sed satis habet decerpere quce- dam, in quce
primum incurrere oculi, aut, quod deterius frequentius que idem,
repetere ab aliis excerpta, et e media nonnunquam sermonum velut
compage evulsa, de quorum sic sententia non facile sit judicare.
Platonis libri , unde pleraque Socratica peti hodie necesse est,
multos arcent ob Atticum illud sermonis genus, breve et acutum,
floridum praeterea, ac semipoeticum, ipsamque disserendi ratio- nem
subtiliorem scepe, quam ut mediocri attentione, non acutissimi homines illam
statim adsequantur. Nec licet , ut adhuc res est, ad interpretes
confugere ; qui quoties vel nihil dicant, vel alia omnia dicant,
vix sine invidia licet commemo- rare. Et tamen nisi attente legas, et
to- ET L.’AMOUR GREC '7 naturelle qui
reste fixee jusqu’au fond de nos moelles, qui se fortifie de notre
or- gueil et qui ne s’arrache qidavec les der- niers defauts, outre
encore diverses rai- sons tirees de nos mceurs, il a fallu pour
cela un concours de circonstances pro- pres a faciliter 1’erreur. La
plupart des gens instruits eux-memes evitent la fa- tigue de lire
dans leur entier, avec une attention soutenue, tous les livres
ecrits par les Anciens ; on a plus tot fait de choisir quelques
passages, les premiers qui tombent sous les yeux, ou, ce qui est bien
pire, de s'en tenir aux passages choisis par d’autres, a des fragments
de- taches de 1’ensemble et dont il est par consequent difficile
d’apprecier le sens veritable. C’est ce qui arrive des livres de
Platon, d’ou il nous faut aujourd’hui tirer toutc la doctrine Socratique
; iis embarrassent bon nornbre de lecteurs par leur style trop
Attique, raffine et aiguise, fleuri pourtant et semi-poetique, par
ces controverses si subtiles souvent que, si 1’attention se relache,
1’esprit le i8 SOCRATE tos legas
dialogos, et qua scripti sunt lingua legas, non est ut de sententia
illorum, h. e. quam tribuat Plato sen- tentiam Socrati, recte judices.
Quare mirum non est, si multi refugiant lectio- nem ita laboriosam
; et illis veluti spinis a familiari tractatione eorum librorum
deterreantur . 6. Denique si quid etiam tribuatur a Platone
Socrati, tamen, si illud Xeno- phontis narrationi repugnet, non
dubi- taverim equidem, fidem potius adhibere Grylli filio, memor
illius, quod narrat Laertius 3, 35, Socratem , cum Lysin Platonis
legisset, dixisse , to; tzoXKx uoj ET l/AMOUR GREC 19
plus eclaire n’cn suit pas aisemcnt le fil. Et il serait inutile,
dans le cas present, de recourir aux annotateurs ; ou iis ne disent
rien, ou iis disent tout autre chose que ce qu’il faudrait ; on ne
peut s’empecher de leur en faire un re- proche. Cependant, amoins de lire
avec un soin scrupuleux tous les dialogues de Platon et de les iire
dans la langue meme ou iis ont ete ecrits, il n’est pas possible de
juger saineinent de leur doctrine, c’est-a-dire de la doctrine que
Platon attribue a Socrate. Il n’est donc pas sur- prenant que
nombre de gens reculent devant une si laborieuse lecture et soient
rebutes, comme par des epines, du commerce familier de ces livres.
6. Enfin il faut dire que si Platon at- tribue a Socrate une
maniere de voir contredite par la narration de Xenophon, il n’y a
pas a hesiter : c’est a Xenophon qu’il faut se fier, si l’on se souvient
du mot rapporte par Diogene de Laerte (ui, 35). Socrate, apres
avoir lu le Lysis 20 SOCRATE xaxe^uBeO’
6 veavfoxo; ; Quam multa de me mentitur adolescens! Tanto magis hoc
memorabile est , quod ille Dialogus ita scriptus est, ut non modo tanquam
per- sona colloquens inducatur Socrates, sed tanquam, qui ipsum
illum dialogum scripserit. Ceterum quia hic sumus, hoc breviter
indicamus, amatorium quidem esse hunc libellum , sed nihil habere
pu- dendum ne Platoni quidem. Argumen- tum hoc est : Queritur
Lysidis amator Hippothales, ab illo se non amari ; So- crates
ostendit, si velit amari, non adu- landum esse puero, sic enim
futurum superbiorem ; sed illi potius ostenden- dum, quibus rebus
indigeat, et quam parum in ipso sit boni (i). Deinde dela- bitur in
disputationem, Quis proprie amicus sit vocandus? et, In quo insit
natura amicitia’ ? plenam illam quidem cavillationum , sed praeclararum
etiam de amicitia sententiarum. Ceterum tri- (i) Sic nempe
ipse solebat Socrates in potestatem quasi suam redigere adolescentulos,
de quo que- rentem audiemus Alcibiadem. § 3~. ET L’AMOUR
GREC 2 I de Platon, se serait ecrie : « Comme
ce jenne homme invente souvent ce qu’il me fait dire! » Le mot est
d’autant plus remarquable que, dans ce dialogue, So- crate
estpresente non comme un simple interlocuteur, mais comme s’il
avait ecrit lui-meme tout le morceau. Pen- dant quenous y sommes,
disons brieve- ment que cetouvrage roule sur 1’amour, mais qu’il
n’y a rien dont put rougir Platon lui-meme. Voici le sujet : Hip-
pothales, qui aime Lysis, se plaint de ne pas en etre aime; Socrate lui
demontre que s’il veut 1’etre, il ne faut pas qu’il fiatte ce jeune
homme, ce qui le rendrait plus orgueilleux encore ; il vaut mieux
qu’il lui represente tout ce qui lui man- que et le peu de bonnes
qualites quhl possede (i). On discute ensuite ces ques- tions : Qui
est digne d’etre appele un ve- ritable ami? et, Quelle est la nature
de Tamitie? Controverse pleine, il est vrai, (i) C’est ainsi
que Socrate avait en effet coutumc d’assujettir les jeunes gens & son
autorite, et nous voyons Alcibiade s’en plaindre. § 37.
22 SOCRATE bui a Platone colloquentibus, de
quibus ipsi non cogitarint, vetus observatio est , de qua vid.
Athenaeus Deipnos. i, i / ad fin. p. 5 o 5 . Qiio dialogorum more
se excusat, etiam Varroni in Academico- rum dedicatione Tullius.
Neque ausim Platonis ipsius, junioris praesertim, pa- trocinium
suscipere de mollioribus versi- culis, quos Apulejus servavit
(Apol. p. 279 sq.) et Laertius Diogenes ( 3 , 2g) : de quibus modo
in neutram partem dis- puto, causamque Platonis a Socratis causa
hac in re sejungo. 7. Quaecunque vero cum aliqua specie
testimonia Platonis contra Socratem pro- feruntur, ea cum ex Phaedro,
nescio quam bona semper fide, corrupte quidem et perverse non
nunquam, depromi vi- deam, propter ea pretium opera* putavi,
ET L’AMOUR GREC 23 de futilites, mais aussi de
remarquables definitions dePamitie. C ; est uneobserva- tion qui a
ete faite depuis longtemps, que Platon attribue a ses
interlocuteurs des idees qu’ils n’ont jamais eues : on peut
consulter la-dessus Athenee ( Dei - pnosophistes i, ii). Ciceron, qui
avait le meme defaut, s’en excuse sur le genre meme du dialogue ,
dans son envoi des Academiques a Varron. Je n’ose pas non plus
defendre Platon du reproche d’avoir commis, surtout dans sa jeunesse,
des vers badins tels que ceux que nous ont conserves Apulee (dans
son Apologie) et Diogene de Laerte (m, 29); vieux ou jeune, jen’ai
pas affaire a lui et je separe completement sa cause de celle de
So- crate. 7. Entrelesdiverstemoignages fournis par
lui, ceux que Ton peut alleguer con- tre Socrate avec quelque apparence
de justesse sont tires du Phedre ; pas tou- jours bien
scrupuleusement et quelque- fois a 1’aide d’alterations ou de
contre- 24 SOCRATE non semel totum illum
dialogum attento animo perlegere , et uno quidem tenore , et lingua
sua, ne quid eorum me falleret, qua • saepe fraudi esse viris doctis,
modo dicebam. Ac spero non ingratum fore aliis, quorum rationes non
ferunt tam longam solicitamque operam, si hic pos- sint brevi
studio cognoscere velut oecono- miam illius libri et argumentum,
inde- que de toto consilio vel Platonis vel Socratis arbitrari.
Concedamus enim, ne abuti videamur illa, quam modo propo- suimus
observatione, Socratis hic veram sententiam bona fide a Platone
proponi. 8 . Ac primo illud meminerimus, So- cratem hic (p.
340, E) introduci senem, tantum non decrepitum, quem facile ju-
venis Phaedrus viribus superet. Jam fingitur Phaedrus audisse Lysiam
dispu- tantem, magis obsequendum gratifican- dumque esse non
amanti, quam amanti : camque orationem Socrati prcelegere ET
L AM0UR GREC 25 sens. Cest ce qui m’a engage a
lire attentivement ce dialogue, et plutot deux fois qu’une, dans
son entier, et dans le Grec, afin d’echapper a ces chances d’er-
reur dont j’ai parle plus haut et qui font trebucher les plus doctes. II
sera peut-etre interessant, je 1’espere, pour ceux dont 1’esprit
repugnerai-t a une besogne si longue et si difficile, de connaitre
sans grande etude le sujet et pour ainsi dire 1’economie de ce
livre, et de pouvoir apprecier toute la theorie de Platon ou de
Socrate. Nous admettrons, pour ne pas abuser de la reserve faite par
nous plus haut, que la doctrine de Socrate a ete ici exposee de
bonne foi par Platon. 8. Rappelons d’abord que Socrate y est
presente comme un vieillard, non pas tout a fait tombe en
decrepitude, mais qu’un jeune homme, comme Phe- dre, peut maitriser
aisement. Phedre ra- conte qu’il a entendu Lysias discourir sur
cette question : Un jeune homme doit-il avoir plus de facilite et de
com- 3 SOCRATE 2b (a p. 338
, C. ad 33 g, G). Reprehendit hanc Lysiae orationem , cante quidem
et multa cum ironia Socrates , et meliora se audisse ait , quae
dicere illum amabilis- sime cogit Phcedrus. Incipit hic a Musa- rum
invocatione (p. 340 , G) quam calum- niatur, ut modo dicebamus 3 ),
Lu- cianus : cum sit nihil in ea oratione non virginum auribus
dignissimum. Orditur a definitione Amoris (p. 341, D) quem vocat
cupiditatem , quae incitate feratur ad voluptatem ■ pulchritudinis, et
inde, quam mala res, quam noxia sit, ostendit (ad p. 342, F) et claudit
hexametro : A'j-/.ol aova oi^ouV, ojq ~aToa epAouVjtv 1 r’ 1
! |Sf/aTra’.. Ut cordi agna lupo est, puerum sic ardet
amator. 9. Bene ista , et Musis faventibus. Sed subito, At
Amor tamen Deus est, inquit , et palinodiam parat , quae incipit (p. 3 43
. ET LAMOUR GREC 2 7 plaisance pour
celui qui ne 1’aime pasque pour celui qui Faime ardemment ? II lit
ensuite ce discours a Socrate. Celui-ci, avec beaucoup de finesse et
ddronie, trouve a blamer dans la composition oratoire de Lysias et
pretend qu'il a en- tendu dire la-dessus autrefois de bien plus
belles choses; Phedre le conjure de les lui rapporter. Socrate debute
alors par cette invocation aux Muses que Lu- cien a calomniee,
comme nous le disions plus haut, car il n’y a rien dans tout le
discours qui ne soit parfaitement digne des oreilles chastes. II commence
par la definition de 1’amour, qu’il appelle un desir violemment
entraine vers le plaisir que promet la beaute ; il enumere en-
suite les ecarts auxquels il peut pousser et conclut parcet hexametre
: Comme le loup aivic Vagneau , ainsi Vamoureux [cherit
le jeune garcon. 9. Voila qui est bien, grace aux Muses. Mais
aussitot : L’ Amonr est cependant un Dieu, s’ecrie-t-il ; et il
entrcprend une 28 SOCRATE F) ab eo, uti
dicat, non ideo amorem damnandum fuisse, quod sit furor ; esse enim
furorem etiam bonum aliquem : ipsam [jLavTixrjv 5. divinatoriam
facultatem esse a verbo [i-aiveaOai dictam , velut quan- dam
[j.avi/7]v s. furiosam. Talis furoris plura genera enarrat , in his etiam
ponit amorem, cumque (p. 344, C ) magnae felicitatis causa tum
amantis cum amati datum his esse divinitus, conatur osten- dere. Ad
eam demonstrationem sumit primo hanc propositionem. Omnem ani- mam
esse immortalem, quam inde pro- bat (quam bene vel male , nunc non
dis- putamus) quod principium motus sui in se habeat.
1 0 . Deinde similem ait animam no- stram, etiam antequam ea in corpus
ve- niat, bigae alatae cum suo auriga. Alte- rum hujus biga 3 equum
bonum ponit et tractabilem (ibid. E), malum alterum ac
refractarium. Sic coelestia spatia ingre- diuntur ista • cum suo auriga
bigce, et ET l’aMOUR GREC 2(J palinodic en declarant
tout d’abord que 1’amour n'est pas condamnable en soi, qu’il estun
delire, et que dans tout delire il y a quelque chose de bon ; que
fxavnxr], la divination, derive du mot (jiodveaGai, comme qui
dirait [xavtxr), c’est-a-dire folle. II compte diverses especes de
delires parmi lesquelles il place 1’amour, et il s’efforce de montrer que
c’est un present divin fait a bhomme pour le plus grand bonheur de
celu*i qui aime et de celui qui est aime. Sa demonstration s’appuie
sur cette proposition premiere: Tonte dme est immortelle, dont il tire
la preuve (bien ou mal, ce n’est pas notre affaire) de ce qu’elle a
en soi le principe de son mouvement. io. Il compare ensuite
notre ame, avant qu’elle ne vienne habiter un corps, a un attelage
aile, compose de deux chevaux et d’un cocher. L’un des chevaux est
excellent et docile ; 1’autre, d’un mauvais naturel et retif.
L’attelage parcourt ainsi les espaces celestes, avec 3
. 3o SOCRATE Deorum aliquem secutce
(Socratis anima Jovem , p. 846 , D) ea spatia permeant. In hoc
volatu et illa equorum dissimilium dissensione, alia; quidem anima;
retinent alas, et ad sublimia feruntur, contem- plantur que ea
etiam, qua; extra supre- mum coeli orbem sunt (p. 345 , B). Alia;,
qua; partim in altum elata; viderunt plu- ra, partim ab equo illo
refractario impe- dita; ac retractae, pauciora ; ruptisque per
illam equorum in diversa tendentium luctam pennis atque amissis, cadunt,
et in corpora humana veniunt. 1 1 . Harum, pro gradu
cognitionis illius et inspectionis rerum coelestium diverso, novem
classes constituit (ibid. F). Qua plurimum veritatis et rerum
coeles- tium vidit anima, ea inseritur semini, e quo nascatur
aliquis sapientias, pulchri, doctrinas, et amoris studiosus, st?
yovfjV et l’amour grec 3 I son cochcr, et s’elance a
la suite de l’un des douze dieux ( 1 ’ame de Socrate sui- vait
Jupiter). Dans cette course a travers les espaces et malgre la lutte des
deux chevaux, si dissemblables, quelques ames parviennent a garder
leurs ailes, voya- gent dans les regions etherees et con- templent
meme ce qui est au dela de la voute du ciel. Les autres, parfois
em- portees jusqu'aux plus hautes regions, parfois retenues et
embarrassees par le cheval retif, n’arrivent qu’a connaitre une
partie des mysteres ; dans cette lutte des chevaux qui tirent en sens
inverse, elles brisent et perdent leurs ailes ; ces ames tombent
alors sur terre et sont emprisonneesdans les corps des hommes.
1 1 . Suivant le degre de connaissance qu'elles ont atteint dans la
contempla- tion des essences, Socrate divise en neuf classes ces
ames dechues. Celle qui a per9u le plus de verite et de choses
sublimes, vient animer le germe d’ou naitra un homme tont entier consacre
au 32 SOCRATE avopo? ycV7]ao[j.c'vO’j ?
oiXoao^ou, 7) <pt\oxaXou, tj fi.ouaixou Ttvos, x at spamxoy. Secundi
fastigii anima animabit regem, legibus, bello, imperio, potentem :
tertiae classis anima civitatis familiaeque regendae et rei fa-
ciendae peritum : quartae, laboris aman- tem eundemque in exercendis
sanan- disve versantem corporibus : quinti ordinis animae vitam
habebunt in vati- cinando, aut in castimoniis initiisque
mysteriorum occupatam : sexti, poetas : septimi, geometras aut fabros :
octavi sophistas aut cum factione populares : noni denique
animabunt tyrannidis cu- pidos. Multa hic nec injucunda de hoc
ordine , de his vitee generibus, disputandi occasio : sed maneamus in
argumento nostro. 12 . Ha’ omnes anima?, cum morte
dis- cesserunt a corporibus, in locum vel pce- 33
ET L’AMOUR GREC culte de la sagesse, de la beaute , de
la Science et de Vamour ; Vdme du second degre vivra dans le corps
d’un roi juste , belliqueux et capable de commandere celle du
troisieme fonnera un homme habile a administrer sa famille, sa cite
ou la chose publique ; celle du quatrieme un athldte laborieux ou un
medecin, tous deux occupes soit d exercer le corps humain , soit d
le guerir ; les ames de la cinquibme classe passeront leur vie ,
soit d predire 1’avenir, soit d initier aux abstinences et aux mysteres
; celles de la sixieme former ont des poetes ; celles de la
septieme , des laboureurs ou des ou- vriers,- celles de la huitieme, des
sophistes ou des chefs de factions populaires ; celles de la
neuvidme, enfin, des tyrans. Ce serait peut-etre 1 ’occasion de
dispu- ter, et non sans agrement, des rangs assignes a ces ames et
de leur genre de vie : mais restons dans notre sujet. 1
2.Toutes ces ames,quandle trepas les a separees du corps, parviennent au
sejour SOCRATE 34 narum vel pr cerni orum
perveniunt, et mille exactis annis, accipiunt potesta- tem eligendi
sibi nova corpora , vitas novas, sive hominum sive bestiarum . Quce
anima ter sibi, exactis millenis illis annis, primam istam sedulo
philoso- phantis, sive pueros cum philosophia amantis, vitam
delegerit (p. 3g5, G) tou <ptXocrocprjaavto; aooXc. 05, r]
"atospaaxrJcjavTO; [j.£xa <ptXoao<p''a;, ea, absoluta ista ter
mille annorum periodo , pennas denuo accipit, quibus ut ante tolli,
deum aliquem sequi, contemplari coelestia , queat : cum reli-
quarum octo classium animae, non nisi decies mille annorum periodo
absoluta, in primam illam conditionem restituan- tur. Hoc ipsum
quod primam et felicis- simam classem Paederastarum philoso- phantium
constituit, quod tantum prae- mium illis, compendium septies mille
annorum, tribuit Mythi hujus s. Allego- ria ? auctor, sive Socrates fuit,
sive Pla- to ; hoc ipsum igitur jam satis monere nos poterat, non
posse hic sermonem esse de re ita turpi , quam fuisse illud, cujus
ET LaMOUR GREC 35 des peines et des recompenses, et
au bout de mille annees, recoivent la permission de choisir de
nouveaux corps, soitd’hom- mes soit de betes, et de vivre de nou-
velles vies. L’ame qui, durant trois revo- lutions de mille annees, trois
fois de suite a choisi Texistence d’un homme quicultive sincerement
la philosophie, ou qui aime les jeunes gens d'un amour
philosophique , a 1’expiration de cette triple periode, recouvre les
ailes qidelle possedait autrefois et peut, comme au- paravant,
suivre l’un des dieux et con- templer les essences celestes. Les
huit autres classes ne retournent a cette con- dition premiere
qu’apres une revolution de dix mille annees. Ainsi la premiere
classe et la plus heureuse est celle des philosophes amis des jeunes
gens, et l’in- venteur de ce mythe ou allegorie, que ce soit
Socrate ou Platon, la favorise d’une exemption de sept mille annees
: cela seul nous avertit assez qu’il ne peut etre question ici de ce
vice infame dont on accuse Socrate et que d’ailleurs les
36 SOCRATE postulatur Socrates, ipsis etiam
legibus Atticis, paullo post ostendemus : sed ma- gis hoc
apparebit, si quis ea, qu ce sequun- tur, apud Platonem paullo
attentius considerare mecum voluerit. i 3 . Intelligentia
hominum , ex pluribus rebus sensu perceptis collecta, nihil est
aliud, quam recordatio illorum, quae anima in illo volatu suo coelesti
viderat, quae sola verum illud ens sunt (t 6 ov-co; ov, p. 346, A).
Haec intelligentia maxima est in illa prima philo sophantium paede-
rastarum classe : haec ipsa est, ob quam alas soli recipiunt, quibus
volatum illum coelestem, deorumque comitatum tentant : prae qua
terrena hcec, et sensus externos ferientia, ita negligunt, ut male
sani aliis et furiosi videantur, icocpa -/.ivouvts?, quos commotos
s. commotce mentis vocat Horatius (Serm. 2, 3 , 2og et 278), cum re
vera divino quodam spiritu agi- tentur, svOouaux^oviss, qui illos semper
ad coelestem illam pulchritudinem revocet, quam in priore volatu
viderant. ET L AMOUR GREC 87 lois Athenicnnes
reprimaient, comme je le demontrerai tout a 1’heure ; cela de-
viendra plus evident encore pour qui voudra bien examiner
attentivement avec moi ce qui suit dans Platon. i3.
L’intelligence humaine est formce de la reunion des idees percues a
l’aide des sensations, et les idees ne sont rien autre chose que
les reminiscences de ce que 1’ame a vu anterieurement dans son vol
celeste, c’est-a-dire des essences veritables. Or 1’intelligence la plus
com- plete appartient a la premiere classe, a celle des philosophes
amis zeles des jeunes gens, et c’est pourquoi seuls iis recouvrent
les ailes a 1’aide desquelles iis pourront essayer de nouveau de
par- courir le ciel et suivre le cortege des dieux. Detaches des
soins terrestres et de tout ce qui frappe les organes, iis pas-
sent pour des insenses et des hommes en delire, -apa/ivoSvis?, de ceux
qu’Horace appelle des fren^tiqucs, des esprits trou- bles, tandis
que vraiment ce sont des en- 4 38
SOCRATE 14. Haec pulchritudo , qucc inest in sensu, <ppov
7 ]<m (p. 846, E), in mentis qua vult et intelligit prostantia, si ita
in oculos, ut alia quce videri his possunt, incideret , ad
mirabiles sui amores exci- tatura esset. Jam pulchritudo sola
corpo- rum, hanc (Aotpav habet, hoc velut fatum, et conditionem ,
uti subeat oculos, ut amo- rem moveat. Hinc ponamus ipsa verba , ut
existimare melius ac certius de tota re possint etiam, quibus ad manus non
est Plato ipse, vel magnum volumen de pluteo promere non lubet. c O
piv oOv pu] vsoxeXt];, ■Jj otscpQappivos, oux otjiiog evOevOs Exstas
©s'psxat 7ip6; auxo xo xaXXo;, Ostopisvo; a3xou xrjv xrjoE
smavupiiav. waxs ou as'6sxat 7rpoaopojv, aXX’ 7]3ov^ 7:apaoou;,
zBzpdtTzodog vo ptco (Batvstv S7Ct- y stpsT xat 7iat8oa7EOpstv. xal u6pst
x:poao|j.tXaiv, ou os'ootxsv ou 8’ ata/uvsxai IIAPA ‘I^TXIIN ( 1 )
(1) Notabile est, Platoni etiam de Ijcgib. r . ET LAMOUR
GREC 3y thousiastes, agites comme d’un transport divin, qui
les attire sans cesse vers cette beaute celeste precedemment
entrevue par eux dans leur vol. 14. Cette beaute, dont
Pessence reside dans un sens particulier, la sagesse, source de la
volonte et de 1’intelligence, s’il etait donne a l’oeil de 1’apercevoir,
comme toutes les autres choses visi - bles, elle nous exciterait a
d’admirables amours. Mais c’est seulement la beaute corporelle,
telle est sa necessite fatale et sa nature, qui frappe les yeux et nous
porte a 1’amour. Ici nous placerons le texte meme afin que ceux qui
n’ont point Pla- ton sous la main ou qui ne se soucient pas de
tirer du rayon un gros volume, puissent se faire une opinion en
toute p. 56g, E. hanc turpitudinem appsvwv np 6? appevag, Ij
OrjXsTwv xpog OrjXsix;, to ITAPA •bTSIN To'X[j.7)p.a appellari. Non
igitur Plato- nem , vel Socratem adeo, feriunt divina illa ful-
mina Pauli Rom. /, 26 . sq., ut neque ea, qua ? in idolatriam
vibrantur. 40 SOCRATE f,5ov7]v 0 -W.ojv.
'0 8e apttteXrj?, 6 twv xdxe TroXuGcapojv, oxav OsoEtSsg r.poaioTzov'
t07), -/.aX- Xo; eu [j.E[j.vr ( [x£vov rj uva ac;o$fj.axo ios'av —
oj? Geov a£'6sxai. Hcec ita verto, Hic ergo, qui non est nuper illis
mysteriis coeles- tibus in illo volatu animarum initiatus, aut,
initiatus cum esset, corruptus est, non celeriter, ut oportebat, hinc, ab
hac corporea, non vera, pulchritudine, illuc fertur ad ipsam veram,
coelestem pul- chritudinem, cujus hic videt nomen, umbram ,
similitudinem : itaque neque inter adspiciendum eam, divinum quid-
dam colit : sed libidini se tradens, qua- drupedis ritu inscendere
formosum co- natur, et genitale semen profundere, et cum contumelia
(vid. ad §. 18) congres- sus formoso corpori , non veretur, nec
erubescit PRXETER NATURAM libidi- nem persequi. At ille nuper
initiatus, qui multa eorum quae tum videbat , contemplatus est, ubi
vultum divino similem conspexit, qui pulchritudinem illam veram
bene imitetur, aut incor- poream quandam illius speciem, verbo ,
ET L’AMOUR GREC 41 certitudc. « L’homme qui n’a
pas un « souvenir recent de son initiation aux « mysteres, ou qui,
recemment initie, « s’est laisse depraver, ne s’eleve pas fa- «
cilement, comme il faudrait, de cette « beaute corporelle, qui n’est pas
la « vraie, a cette beaute celeste, absolue, « dont il ne rencontre
ici-bas que le nom, « 1’ombre, la ressemblance ; en 1’aper- «
cevant il n’y respecte rien de divin. « Entraine par la volupte, il se
precipite, « comme une brute, sur 1’objet de ses « desirs, ne
cherche qu’a genitale semen « profundere et, outrageant ce beau «
corps qu ? il etreint, il n’a pas honte, il « ne rougit pas de poursuivre
un plaisir « contre nature ( 1 ). Au contraire, l’hom- « me, encore
plein des saints mysteres « qu’il a longtemps contemples autrefois,
(1) 11 est remarquable que Platon, meme dans ses Lois, appelle
crime contre nature le commerce hon- teux marium cum maribus, et
feminarum cum fe- minis. Les foudres de Saint Paul ( Ep . aux Rom.
1. 26) n’atteignent donc ni Platon ni Socrate, pas plus que celles
qu’il lance contre 1’idolatrie. 42 SOCRATE
virtutem speciosam : — Dei instar colit. i5. Deinde
enarrat pheenomena quae- dam hujus sancti et philosophici amoris ,
similia, ex parte Venerei, et quomodo illa ' alce, quas amiserat anima ,
hinc de novo crescant, sub Allegoria perpetua describit, qua nihil
aliud tandem indicat , quam enthusiasmum quendam , et injec- tam
divinitus philosopho cupiditatem versandi cum pulchris, h. e. ingenio
vel forma potentibus, adolescentulis : quos nempe captabat
Socrates, qui sciret , cum facilius sit formare ad sapientiam et
virtutem hanc aetatem, tum hos esse, a quibus futura civitatis fortuna
pendeat. Hinc est quod se venari pulchros non dis- simulabat (vid.
Protagora > principium , frustra reprehensum Cyrillo contra
Julia, i, 6, p. i8j, A), quod Xenophon- tem baculo etiam transverso
objecto et l’amour grec q'3 « en presence d’un visage
presque divin « ou d’un corps dont les formes lui rap- it pellent
1’essence de la beaute, c’est-a- « dire 1’essence de la vertu, adore
comme « en presence de la divinite. » i5. Platon retrace
ensuite quelques- uns des phenornenes de ce saint et phi-
losophique amour, parfois peu different de l’autre; il montre aussi
comment re- poussent les ailes autrefois perdues par rame. C’est
une allegorie perpetuelle dont la conclusion est que le philosophe
con^oit, par une sorte de grace divine, le plus fervent desir de vivre au
milicu des beaux adolescents distingues par la perfection de leurs
formes ou par leurs dispositions naturelles. C’est ceux-la, en
effet, que Socrate ambitionnait de gagner , sachant qu’il est facile, a
cet age, de les tourner au bien et a la vertu, et que c’est d’eux
que dependent les futurs des- tins de la Republique. II appelait
cela prendre les beaux garcons dans ses filets (voyez la-dcssus le
commencement du. 44 SOCRATE velut
exceptum, sibi adjunxit (Diog. Laert. 2, 48). Ipsum illud hinc est , quod
gymnasia , conviviaque et deambulatio- nes, quoscunque denique juvenum
coetus, sequebatur, quod ludos et jocos non refu- giebat, quod se
plane communem illis faciebat , nec irrideri aut peti maledic- tis
refugiens. Ipsa illa ironia perpetua, quod doceri se velle simularet ,
certe dis- cendi causa disputare , ut accessum ad Sophistas illi
dabat , ita adolescentulo- rum super bulae de se opinioni et
praeci- pitantiae blandiri videbatur. Sed perga- mus Platonis
Mython enarrare. 16. Philosophi illi amatores pulchro- rum
non indiscretim omnes amant , sed (p. Sdy, C) quem quisque in illo
coelesti volatu Deum secutus est , ejus Dei si- milem sibi quaerit
amasium; qui Jovem , ut Socrates, Jovialem (Auvov x wa), Martia-
lem vero qui Martem, et sic Junonios. ET L AMOUR GREC
45 Protagoras , blame a tort par Saint Cy- rille), et il se
fit de la sorte un disciple de Xenophon qu’il arreta en lui barrant
le passage avec son baton. Voila pour- quoi aussi il frequentait les
gymnases, les banquets, les promenades, tous les lieux de reunion
des jeunes gens, ne fuyait ni les jeux ni les badinages, s’en-
tretenait avec tous et s’inquietait peu de preter a rire aux medisants.
Cette ironie perpetuelle grace a laquelle il feignait toujours de
vouloir apprendre, pour mieux enseigner, lui donnait acces au- pres
des Sophistes et flattait aussi la suf- fisance et la presomption de la
jeunesse. Mais achevons d’exposer le Mythe de Platon.
16. Ces philosophes amoureux des beaux garcons ne s’attachent pas
indis- tinctement a tous ; selon le dieu quhls accompagnaient dans
les espaces etheres, chacun d’eux choisit parmi les anciens
suivants du meme dieu celui qu’il doit aimcr. L’ame qui etait, comme
celle de SOCRATE 46 Bacchicos ,
Apollineos : et talem ubi in- ventum amare coeperint , faciunt omnia
, uti Deo illi, quem ipsi secuti sunt, et cu- jus jam similitudinem
quandam in ipso deprehenderunt, sibique adeo , reddant quam
similimum. Ita Socrates, Jovis in illo volatu satelles, quaerit Joviales,
ama- tores natura sapientiae, et natos ad im- perandum. Hactenus
ergo bene res ha- bet, sancti tales Paederaslce, J elices qui sic
amantur. / 7 . Sed nec dissimulanda sunt quae sequuntur apud
Platonem. Redit Socrates (p. 3 -lj, F) ad superiorem illum de Ani-
ma Mythum (’§. 10), quam triplicis na- turae ponit scilicet. Sunt vellit
equi duo, est auriga. Equorum alter bonus, sanus, verecundus,
gloria • amator , qui sine pla- gis, sola ratione auriga regitur :
pravus alter, qui multum ac temere una aufera- ET L AMOUR
GREC 47 Socrate, dans le cortegc de Jupiter, re-
cherche un suivant de Jupiter, et ainsi des autres qui avaient choisi
Mars, ou Junon, ou Bacchus ou Apollon. Des qu’ils Pont trouve, iis
s’efforcent de rendre celui qu’ils aiment semblable a ce dieu dont
iis retrouvent en eux-memes le caractere. Ainsi Socrate, satellite
de Jupiter, recherchait pour les cherir ceux qui avaient aussi
suivi ce dieu, c’est-a- dire ceux qui, par nature, etaient portes a
la sagesse et a la domination. Jusqu’ici tout va bien ; de tels
Pederastes sont de vrais saints, et bien heureux ceux qui sont
aimes de la sorte ! 17. Mais il ne faut pas dissimuler ce qui
vient apres dans Platon. Socrate re- tourne au precedent Mythe de
hame qu’il a coniparee aux triples forces reu- nies de deux chevaux
et d’un cocher. L’un des chevaux est bon, sam, plein de retenue et
d’emulation ; le cocher le di- rige, sans avoir besoin du fouet et
par la seule persuasion : 1’autre est mechant SOCRATE
48 tur , (impetu alieno potius feratur , smo judicio)
dura ac brevi cervice, simus, nigri coloris, glaucis oculis, suffusus
san- guine, petulantia contumeliaque gau- dens, hirsutus circa
aures, surdus, fla- gello ac stimulis vix tandem concedens. Operet
? pretium videtur mali equi notas etiam Gra } ce ponere : cxoXt 65, ~oXu;
eixrj a'j[j. 7 :scpopr]|j.^vo?, xpaTEpauyrjv, ( 3 payuipayrjXo?,
aipLOTCpoacoro;, [xsXayypa);, yAauxop.p.a“0?, oepat- [xo;, u6p ew; xal
aXa^oveiac staTpo?, zept coxa Xaaco; , xwipog , gaartyt p.S7a xdvxpwv
[xdy.; UTEclXOJV . r<S\ Apposui Graeca , ut facilius
judi- cari possit , probabilisne sit conjectura, in quam incidi ,
dum in hac equi mali de- scriptione versor. Nempe, aut vehemen- ter
fallor, aut memorat hic Socrates non tam equi mali proprie dicti signa,
quam sui corporis formam, quatenus vitiosum inde ingenium
colligebat physiognomon ille Zopyrus. Hic enim , ut est apud Ci-
ceronem (de Fato c. 5), Stupidum esse Socratem dixit et bardum, —
addidit ET L ; AMOUR GREC 49 et s’emporte facilement,
sans raison au- cune (c 7 est-a-dire qu’il semble dirige plu- tot
par une force exterieure que par son propre jugement); il a 1’encolure
courte et dure, les naseaux apiatis a la maniere du singe, le poil
noir, les yeux glauques le sang le tourmente et il est toujours en
rut et en querelles ; il a, de plus, les oreilles velues, il est
insensible a tout et n 7 obeit qu’a peine au fouet et a 1’aiguil-
lon. Il est necessaire de transcrire, dans le texte Grec, ces marques
particulieres du mauvais cheval. 18. J’ai cite le texte afin
qu’on puisse decider si la conjecture que me suggere cette
description du cheval retif a quel- que vraisemblance. Ou je me
trompe fort, ou Socrate ici retrace moins les ca- racteres d 7 un
cheval defectueux que son propre portrait, dans lequel le physio-
nomiste Zopyre trouvait les indices d’un naturel vicieux. Zopyre, au dire
de Ciceron (Du Destin , chap. v) pretendait en effet que Socrate
etait lourd et stu~ DO SOCRATE etiam
mulierosum. Illud de stupore con- venire cum Homzne xpaTepau/7)v et
(3payuxpa- mox declarabitur : quod muliero- sum dicebat, illud cum
G6psa Ixatpop con- gruit : novimus enim quos uSp-.sxa; tum dixerit
Graecia ( i ). Porro illud aipio-pd- aw-ov plane pertinet ad notationem
Socra- tis, in quo cum deridetur a Critobulo (2), tum ipse suaviter
sibi illudit, et in eo patulisque non modo deorsum sed in hori-
qontem naribus, non minus quam in ocu- lis ultra frontem eminentibus, et
labio- (1) Unum ponamus exemplum e libello, quipree manu est,
Aristotelis Physignom. c. ult. p. / 18 1, E. 01 (Jisya cpcnvotjvxs;
papuxovov, OSpiaxa^. Ava- tpspexat £~1 xoj; ovoj;. Physiognomones e
simili- tudine vocis asinina: argumentum ducunt ad libi- dinem
asininam. Conf. § 14, it. 32 . (2) Xenoph. Sympos. c. 4, § /p,
Socrates ad Critobulum, formee sua: jactatorem, x; xoDxo ; w? yap
/a! Ip.o 0 ' zaXXtcjjv wv xauxa v.oxt.xCv.c,, Quid istuc? quasi me quoque
pulchrior esses, ita gloriaris. Ad qua: Critobulus , Nrj Ata, rj Ttavxcov
SsiX7jvwv xmv sv aaxupixoh; alaytaxo; av eVtjv . Nisi te for-
mosior essem, ait, essem Sileuorum, qui in Satyri- cis fabulis in scenam
veniunt, turpissimus. ET L t AMOUR GREC 5i
pide; il aurait ajoute : adonrtd anx plai- sirs veneriens. Pource
qui est dela lour- deur, cela concorde avec 1’encolure courte et
dure ; adonne anx plaisirs ve- neriens, repond a &'6peto; ItaTpo;.
Nous savons, en effet, quels etaient ceux que les Grecs appelaient
uSpiatat' (i). Quant a la face simiesque, cette designation s’ap-
plique parfaitement au portrait de So- crate ; il y a fait lui-meme
agreablement allusion en repondant aux moqueries de Critobule ( 2
). Il avoue que toute sa beaute consiste en un nez epate et me- nafant
le ciel, en des yeux saillants et (1) Contentons-nous d’un seul
exemple tird du livre que nous avons sous la main , le De Physiognomia
, d’Aristote : Ceux qui ont la voix forte et grave sont
&6picrcai, par similitude avec Vane. De ce que la voix £tait bruyante
comme celle de l’ane, les phy- sionomistes conci uaient qu’on devait
avoir le tempe- rament lascif de cet animal. (2) Xenophon
(Banquet, ch. IV, 19). Socrate dit il Critobule, qui vante sa propre
beautd : « Quoi donc ? Tu crois etre plus beau que moi ? » Critobule lui
repond : « Si je n’etais plus beau que toi,je serais le plus affreux de
ces Silenes que Von voit paraitre dans les drames salyriques. »
5 2 SOCRATE rum tumore molli , pulchritudinem
suam prcedicat (Xenoph. Sympos? c. 5) sicut in Platonis Convivio
(vid. §. 35) Sileni s. Satyri formam Alcibiades illi tribuit : et
in Tlieceteti Platonici principio Theo- dorus negat pulchrum esse
Thecetetum, cum sit Socrati similis, tQ te cijxo-rjta xat to s£w
twv o[j.[j.aTtov, naso simo et eminen- tibus oculis, licet minus quam
Socrates utraque re sit notabilis. Nempe hcec si- gna cum
haberentur, et naturales quae- dam notce, hominis libidinosi,
iracundi et stupidi, non negabat illud Socrates, verum eo majoris
faciendam esse Philo- sophiam ostendebat, quee tantum contra
vitiosam naturam valeret. iy. Quoniam hic sumus, non
injucun- dum forte fuerit lectoribus nostris in rem quasi
preesentem ire, et ex artis, qualis tum erat, praeceptis, Zopyri
judi- cium defendere. Vix autem opus est admoneri lectores, non hoc
agi, Num veri aliquid sit in ea arte? Num ipso ET L ? AMOUR
GREC 53 des levres gonflees comme un abces ; de
meme dans le Banquet de Platon, Alci- biade compare son masque a celui
de Silene ou d’un satyre, et au commence- ment du Theatdte , l’un
des interlocu- teurs, Theodore, refuse toute grace a Theatete en
disant qu’il ressemble a So- crate, qu’il est camard et que les
yeux lui sortent de la tete ; que pour etre chez lui moins
apparents que chez le maitre, ces defauts n’ensontpas moins
sensibles. Socrate ne niait pas d’ailleurs que ces particularites
physiques n’indiquassent un homme lascif, violent et d’un esprit
paresseux ; il en concluait seulement en faveur de la Philosophie qui parvient
a dompter un si vicieux naturel. 19. Pendant que nous y
sommes, il ne deplaira peut-etre pas au lecteur d’aller plus au
fond sur ce chapitre et de de- fendre les idees de Zopyre, idees
basees sur des regles alors acceptees. Il nes’agit pas de savoir si
cette Science est sure ; est-ce que 1 ’excmplc meme de Socrate
SOCRATE 54 etiam Socratis exemplo ea
refellatur, et vanitatis convincatur? sed hoc modo , quod dixi,
Utrum Zopyrus ex arte, et ut oportebat, judicium de illo tulerit?
Exstat in operibus Aristotelis libellus, <J>uaioyvoj[juxa
inscriptus, quo superiorum hujus artis consultorum collegisse prae-
cepta videtur . Hinc ea, quee ad formam Socratis, qua ? ad equi hujus
mythici na- turam pertinent , huc transferamus. 2 0 . Igitur
(c. 3, p. 1 1 j3, B) inter ’Avai- c07j- ou hoc est stupidi , et sensu
communi pene carentis signa sunt ~'x nepl tov auysv a aap'/.oj07)
7.ocl G'j[j.7ZB7zXsj[isva x a\ auvo£ 0 £|j.£va, Ea quas adjacent collo
carnosa, com- plexa et colligata, itemque cervix crassa, XGxytjkoq
-ayjj;. Et (c. 6. p. I Ij8, C) Oi? Ta "£p\ ta; xXeTBoc;
aug~£pi~£cppaY(x£va £<ruv, avodaQiyroL. Nonne totidem fere
verbis Ciceronianus Zopyrus? Stupidum esse Socratem, et bardum quod
jugula con- cava non haberet, obstructas eas partes et obturatas.
Alia adhuc mala signifeat ista conformatio. Olc xpd.yrj.oc r.ayyc
xai 55 ET L’AMOUR GREC ne temoigne pas du
contraire ? Mais Zopyre en a-t-il tire, en ce qui concerne notre
Philosophe, un pronostic judi- cieux ? II y a dans les oeuvres d’Aristote
un opuscule intitule Physionomiques ou ce philosophe parait avoir
recueilli les regles admises avant lui par les habiles. Nous
transcrirons celles qui se rappor- tent au portrait de Socrate et au
carac- tere de son cheval mythique. 20. D ? apres Aristote
(chap. m), les in- dices d’un esprit lourd et presque prive du sens
commun sont le gonflement des chairs qui avoisinent le cou, leur
engor- gement et leur replelion- ce qu’il con- firme en disant au
chapitre vi : « C’cst un signe de betise que d’ avoir 1 ’cncolure
epaisse. » Zopyre, dans Ciceron, n’ex- prime-t-il pas la meme idee?
Socrate, dit-il, etait lourd et stupide, parce quii navait pas le
cou bien degage, que ces parties etaient cheq lui comme engorgees
et obstruees. Cette conformation indi- que cncore bien d’autrcs dcfauts :
la 56 SOCRATE TzlioK, 0 o 1 uo£i 8 e!'s,
Crassa et plena cervix iracundos signat, exemplo taurorum : Ol? 8s
[Bpayjj; ayav, irdfi ouXoi, Brevis nimium quibus est, ii sunt homines
insidiosi, lu- porum instar. Talem modo vidimus illum malum equum,
xpaxepauyeva et [Bpa- yuxpayjiXov. Talem nisi fallor se indicat
Socrates, aut potius talem significat Plato Socratem, a natura
fuisse. 21. Videamus reliqua. Equus malus Socratis est — sp\
xa wxa ).asto;, hirsutus circa aures. Libidinosi, Xayvou, apud
Aristotelem ( c . 3 extr. p. 1174, C) o t xpdxoupot oaa$T?, densa pilis
i. e. hirsuta tempora. Deinde (c. 6. p. 1174, C) oi xa yecXrj “aysa
eyovxe; puopoi — avacpdpexai £7ii xou; ovou;. Physiognomones
crassa labia stultitiae characterem faciunt, ob simili- tudinem
asinorum. Quid de se Socrates (Xenoph. 1. c.) in ludicra cum
pulchro Critobulo contentione? Ata 76 r.ayla. syeiv xa ylCkt], oux
otst xa\ [xaXaxaSxspdv oou 'iyv.v xo csfX7]p.a; Propter labia crassa suum
putat osculum mollius. Et, v Eotxa syw xaxa xov et l’amour
grec 5 7 nuque epaisse et charnue denote un homme violent,
par similitudo avec le taure au ; ceux qui l’ont trop courte sont
ruses, par similitude avec le loup. Or, cette indication, 1’encolure
epaisse et courte, figure parmi les marques du mauvais cheval. Si
je ne me trompe Socrate avoue qu’il etait bati de la sorte, ou
plutot c’est ainsi que le depeint Platon. 21 . Voyons le reste. Le
mauvais che- val Socratique a les oreilles velues : Aris- tote
designe comme libertins ceux qui ont du poil jusques sur les tempes.
De plus, les physionomistes notent les grosses levres comme un
indice de betise, par similitude avec 1’ane. Or que lisons- nons
dans la plaisante discussion (Xeno- phon, 1 ) de Socrate avec Critobule?
— « A cause de ses l&vres charnues il pense que son baiser est
plus sensuel », et plus loin : « Je te par ais avoir, 6 Critobule,
une bouche plus difforme que celle de Vane, avec ces bourrelets qui me
tienncnt lieu de levres. » 58 SOCRATE
aov Xoyov x at Ttov Ovojv aiayiov to GTOu.a lysiv, turpius os quam
habent asini illum mollem labiorum tumorem habere tibi, o Critobule
, videor. 22 . Simus fuit, ut vidimus, Socrates : at|jio-po'ato7:o;
est malus equus. Quid Phy- siognomones, atque adeo Zopyrus ? Si
fides Aristoteli (c. 6. p. iiyg, B.) 01 G'|j.7jV Eyovts; piva, Xayvor
avacpspezai i~\ tou; iXa^ou;, Simi sunt libidinosi, exemplo
cervorum. Patulas quoque versus nares suas, qu£e possint odores
undecunque oblatos excipere, laudat sipojv Socrates Xenophonteus ,
pra ? Critobuli naribus humo obversis. Ot ;xev yao ao\ (xuxT7jpE;
ei; yrjv opcSat, ol 8’ eijloi ava“£"tavTat, wgte tx; T:av~o0£v
oGua; izpoa ov/yOou. At Physio- gnomones ( I . C.), 0:; o! p.uxT7jp£$
ava"E^"a- pL^vot, OupiojoEi;, Iracundi sunt, quorum
patula? nares, quod in ira diffundi so- lent. Iracundum valde a natura
fuisse Socratem, non soli credamus Cy r rillo, quamvis Porphyrium
auctorem laudat , qui ab Aristoxeno se illud dicat acce - ET
LAMOUR GREC 59 22. Socrate, nous le savons, etait
ca- mard ; son mauvais cheval a les naseaux ecrases du singe. Quel
indice en tirent les physionomistes et Zopyre ? Aristote dit : «
Les camards sont lascifs, par simi - litude avec le cerf ». Socrate
declare quii a les narines lar gement ouvertes , comme pour
subodorer de toutes parts les parfums. Jaime mieux cela, dit-il,
que d’avoir, comme Critobule , un ne^ penche vers le sol. Mais d’apres
les phy- sionomistes, c’est 1’indice d’un tempera- ment porte a la
colere. Que Socrate ait etedun naturel violent, nous ne nous en
rapporterons pas la-dessus seulement a Saint Cyrille, quoique son
temoignage soit corrobore de ceux de Porphyre etd’A- ristoxene et
qu’il dise en propres termes : « Socrate etait devenu si irritable
qu’il ne pouvait moderer ni ses paroles ni ses 6o
SOCRATE pisse, ’'Ote <pXe-/0e't7] utzo zou TrdOou;
toutou [de ira sermo est) ostvrjv etvat xr ( v aayr][jLO(Hjvr)v •
ouoevo; yap ouxe ovopiato; azoa^saOat oSxe -payjj.ato;, Eo importunitatis
progressum , ut nullo neque verbo neque opere absti- neret : sed
ipsi de se credamus Socrati, qui tam gravi ac molesto sibi, quam
fuit Xanthippe, patientia ? et mansuetudinis gymnasio opus fuisse,
fassus sit apud Xenophontem [Sympos. 2, 10 ) BouXo'|ievo;,
dv0pco7tot; y prjoOat jcat opuXe Tv, Tauxrjv x&ttj- ptat, sii eloco;,
oxt, et lauxrjv 'j"Otaco, PAAIQS TOIS TE AAAOIS 'AIIASIN, avOptfaoic
auveaouat, Quam ferre si posset, facilis esset cum aliis omnibus
conversatio. 23 . Unum superest : e^^OaXpto; erat Socrates.
Itaque ita jocabundus disputat cum pulchro Critobulo, ut cum primo
convenisset, Pulchras esse res , quatenus respondeant consilio, propter
quod ha- bentur ; roget eum , Cujus rei gratia ha- beamus oculos?
eoque, ut necesse erat , respondente, Ad videndum, inferat , Suos
ergo pulchriores esse, qui Sta zo ET CaMOUR GREC
6i actions ». Croyons-en Socrate lui-meme; dans le Banquet
de Xenophon , il avoue que le caractere acariatre de Xanthippe fut
pour lui la meilleure ecole de pa- tience et de douceur; que par la suite
il lui fut plus facile de supporter la con- tradici ion.
23 . Il ne reste plus qu’une chose : So- crate avait les yeux
saillants. Il dispute la-dessus agreablement avee le beau Cri-
tobule, et le fait convenir d’abord que toute chose est belle pourvu
qu’elle re- ponde au but en vue duquel elle existe. Il lui demande
alors : Pourquoi faire avons-nous des yeux ? — Pour voir, re- pond
naturellement Critobule. — E/i bien alors , dit Socrate, mes yeux sont
les plus beaux de tous, car iis me sortent de la 62
SOCRATE £7it-oXatot sivat, quod emineant, non ea
modo, quas exadversum sint videant, sed etiam quae a latere. Et cum
diceretur , secundum hmc pulcherrime oculatum (euo^OaXjj-GTa-ov : )
animal esse cancrum, id ipsum affirmat. Jam Physiognomon
Aristoteles (c. 6. p. i ijg, D) "Oaoi i£6z>- OaXjjiot, inquit ,
aS&vepoi, Fatui sunt, quibus oculi eminent : rationem petit ab
judicio quodam decoris et convenientia ■ naturali , et ab
similitudine asinorum. Male de horum gente meritus est Stagirita :
quce videtur ex hoc prcesertim libello contraxisse infamiam illam , qua
ab eo inde tempore, et Platonis quibusdam dictis, onerata est :
honestum superiori cetate animal, cujus majestatem, ut Var- roniano
verbo utamur, (de R. R. 2, 5, 4) adhuc agnoscebat Homerus. De hac
re adjicietur potius huic disputationi quoddam corollarium, quam ut longius
digrediamur a Socrate. ET L’AMOUR GREC 63
tete, si bien que je puis voir non-seule- ment devant moi, mais
& droite et d gaiiche. Son interlocuteur lui repond qu’a ce
compte les crabes ont de tres- beaux yeux, et Socrate affirme que
c’est parfaitement vrai. Or, d’apres Aristote, les yeux saillants
sont 1’indice de la sot- tise; il tire ce pronostic de certains
rap- ports naturels de convenance, de syme- trie, et de la
ressemblance que ces yeux offrent avec ceux des anes. Le philosophe
de Stagyre a par la bien mal merite de cette race inoffensive, et ce doit
etre a partir de ce petit traite qu’il acquit le mauvais renoni
confirme depuis par Platon lui-meme. L’ane, cet honnete animal,
etait mieux apprecie des genera- tions precedentes, et Homere se plaisait,
suivant le mot de Varron, a lui recon- naitre de la majeste. Nous ferons
de cela un corollaire a cette dissertation pour ne pas trop nous
eloigner presentement de Socrate (i). (i) Gesner a «Jcrit un
appendice intitulc De antiqua SOCRATE 64
24. Nempe tempus est, ut videamus, quorsum evadat ille de bono et
malo equo Myihus. Ad conspectum pulchri (p. 34 j, F) bonus ille
quidem aurigee obsequitur, contineri se patitur, malo alteri ,
quantum potest reluctatur. Simile certamen est in pulchro, qui amatur
: repugnat malo isti equo bonus illius jugalis, hic enim est (p.
348 , G) 6 [xo'£u£, et ipse auriga adeo repugnat [aet’ dtSous xat
Xdyou, cum pudore et recta ratione. Si ergo ita vincant meliora, et ad
vitam ordinatam, quae eadem philosophia est, ducant illum currum,
beatam et concor- dem hic vitam agunt continentes se, et decus suum
tuentes, syxpatcTs auroiv xat xdajjuot ovtss, in servitutem redacto
illo equo, cui vitiositas animae inerat; in li- bertatem asserto
eo, cui virtus. Tandem vero alati ac leves denuo facti, sic de tri-
bus illis certaminibus (de quibus §. 12) asinorum honestate,
imprime i la suite du Socrates sanctus pcederasta ; il ne nous a pas
sembl£ otfrir assez d’interet pour Ctre traduit. (Note Ju Traduc-
teur.) ET L’AMOUR GREC 65 24. II est
temps de voir ou il veut en venir avec son Mythe du bon et du mau-
vais cheval. A Taspect de la beaute, ie coursier docile obeit au cocher
et se laisse contenir; il resiste de toutes ses forces a son mauvais
compagnon. L/objet aime est lui-meme en proie aunesemblablelutte ;
son bon cheval se defend contre les ten- tatives de son mauvais compagnon
d’at- telage, que de plus le cocher s’efforce de contenir par la
pudeur et la raison. Si les meilleurs instincts remportent la
victoire et conduisent le char dans les chemins de la vie rangee,
cest-d-dire de la philoso- phie, les deux amant s vivent dans le
bon- heur et bunion, maitres d’ eux-memes et regles dans leurs
mceurs : iis ont dompte le mauvais cheval, qui repre- sente le
vice, et affranchi 1’autre qui re- presente la vertu. Recouvrant enfin
leurs t ailes et leur legbrete primitives , iis sor- tent
vainqueurs de ces trois luttes vrai- ment Olympiques dont nous avons
parle plus haut. Socrate peut donc dire*sans hesitation que ccux
qui se prescrvcnt. 66 SOCkATE vere
Olympicis, unum vicerunt. Absque hcesitatione igitur beatissimos esse
dicit, qui se puros et castos ab amore Venereo servaverint.
25. At nunc sequitur apud Platonem, in quo defendere illum ,
Platonem, in- quam, nam Socratis causam hic segre- gandum putamus
(vid. 6) paullo diffi- cilius est; tacuisset enim forte sapientius
: sed non iniquum (i) excusare. Nempe his, quee modo prolata sunt,
subjungit, quee non scripta equidem malim : sed pono, ne quid
dissimulasse videar, ne parum bona fide egisse. Quam vero caute,
quam suspensa velut manu illud ulcus tractet, videre opera? pretium est.
Eav’ os 8tatT7) <popzi7Ui)~ipx ~z xat A<I>IAO— cptXoTtjxu)
8s yprfacjvzx'., -i/' av ~oj ev uiOat; sitivi a)xA7) dasXsta Tci>
axoXaTCto ajTOtv Gno- JXiytco XaSovTE, xa\ tjrjya; xopojpo-j;
aovaya- yovTE et; toeutov, tf ( v u ~6 :wv -oXX oiv [xaxaot-
fi) Multum certe facilior causa Platonis, quam alicujus Beneventani Episcopi
: aut aliorum, quos vrxterco sciens. ET L'AMOUR GREC
67 purs et chastes, de 1’amour Venerien, jouissent de la plus
grande beatitude. 25. Ce qui suit, chez Platon, est un peu
plus difficile a expliquer; chez Pla- ton, disons-nous, car ici nous
croyons devoir separer sa cause de celle de So- crate; evidemment
il aurait mieux fait de se taire , mais il n’cst pas impossible de
l’excuser (i). A ces choses sublimes que nous venons de transcrire, il
en ajoute d’autres que j’aimerais mieux lui voir passer sous
silence; je les exposerai cependant, de peur de paraitre rien
dissi- muler et manquer un peu de bonne foi. Il faut ici donner le
texte pour qu’on ( 1 ) Son cas est en effet moins grave que celui
de certain eveque de Bdnevent et de quelques autres que je ne veux
pas nommer. — (L’auteur fait ici allusion a 1’archeveque Giovanni .delia
Casa et a son fameux Capitolo dei forno ; mais il ne 1’avait
probablement pas lu, et il se meprend, comme bien d’autres, surle
sens de ce celebre petit poeme. — Note du Traduc- te ur.)
68 SOCRATE cTr;v atpeotv £tXcTr ( v ~t /ai
Ste^pa^avxo x x X. Si vero vitam vivant LICENTIOREM et A
PHILOSOPHIA ALIENAM, ean- demque ambitiosam, forte aliqua in
ebrietate aut qua alia negligentia depre- hensas INCAUTAS animas equi
illi uiriusque amatoris indomiti, eodem con- ducant, et sic illam
quce beata vulgo vi- detur electionem faciant, et (turpe illud
facimts) peragant : eoque peracto per re- liquum tempus utantur quidem
(illa voluptate ) sed raro, quippe qui non omnino deliberata mente
(sed deprehensi velut incauti ) hoc agant — etiam hi praemium non
parvum amatorii illius furoris (non Venerei, de quo modo dic- tum,
sed philosophi , de quo §. i3) aufe- runt : in tenebras enim illas et
illud sub terram iter non veniunt, etc. ET L'AMOUR GREC
69 voie avec quelle prudence et sans ap- puyer la main, il
decouvre cet ulcere de la civilisation Grecque. — « S’ils embr as-
sent , dit-il, nn genre de vie moins austdre, etrangbre a la Philosophie
et livree aux passions desordonnees , il arrivera quau milieu de
Vivresse ou de quelque autre etourderie les coursiers indomptes
sur- prendront leurs ames et les meneront l’un et l’ autre au meme
but,' iis prendront alors le parti de faire ce en quoi , selon le
vul- gaire , consiste le supreme bonheur et (c’est la le crime
infame) satisferont leurs desirs. Dans la suite , iis
renouvelleront leurs jouissances , mais rarement, parce qxCelles ne
sont pas approuvdes de l’dme entiSre et qu’ils agissent comme par
sur- prise et sans defense. C’est pourquoi ce qu’il y a encore
d’excellent dans leur amour (le pur amour pliilosophique et non le
desir Venerien) recevra plus tard sa recompcnse ; iis niront pas, aprds
leur mort, dans ces tenebres et par ces routcs souterraines,..,
etc. » yo SOCRATE 26. Apertum est his,
qui et sermonem Platonis intelligunt, et non ultro qucerunt
crimina, non illum prcemium constituere pceder astice turpi, non
Philosophice genus facere flagitiosum puerorum amorem : sed summam
c.ulpce esse hanc , quod di- cat, si qui coelestis illius
pulchritudinis, quam in volatu illo suo viderint, deside- rio icti,
etiam pulchros amant, et dum arctius eos complectantur, liberius cum
iis versentur, etiam ad turpe facinus ab ebrietate, certe ex improviso,
incauti, proster deliberatam voluntatem, abri- piantur, id quod
ipsis contingat ob genus vivendi licentius atque a Philosophia
alie- num, iis tamen prodesse primum illud7'io- biliusque
philosophandi propositum, ut non cum reliquis ad inferos mittantur,
et ad poenarum locum (vid. §. 12) non cogantur post ternas millenorum
anno- rum periodos , septem alias subire ete sed facilius alas ut
recipiant, quibus evo- lare ad coelestia, deum aliquem sequi du- cem
possint. Hactenus reprehendat Pla- tonem, si quis volet, non ut
laudatorem et l’amour grec 7 1 26. II est bien clair,
pour qui veut comprendre Platon et ne cherche pas de griefs de son
plein gre, qu J il n’assigne pas cette recompense aux fauteurs du
vice honteux, qu’il ne fait pas de 1’igno- minieux amour masculin un
attribut special des Philosophes. On voit, au con- traire, combicn
il blame ceux qui, les yeux encore eblouis de cette beaute ce-
leste entrevue par eux dans leur vol an- terieur, con^oivent des desirs
pour la beaute terrestre, recherchent les jeunes garcons, et a
force de les embrasser etroi- tement, devivre familierement avec
eux, se trouvent entraines a 1 ’improviste, au milieu de livresse,
par surprise et sans que leur volonte y ait part, a conimettre
l’acte immonde; cela leur arrive, parce qu’ils ont adopte un genre de vie
trop libre et qu’ils negligent la Philosophie. Iis tirent cependant
ce profit, de s’etre d’abord propose pour but cette noble Science,
qu’ils ne sont pas relegues aux enfers avec tous les autres hommes ;
apres une revolution de trois mille annees, iis
SOCRATE 7 2 Pcederastice, sed ut clementem nimis
, lentumque adeo castigatorem : qui prae- sertim in aliis peccatis
severum satis ac durum se praebuerit (1 ). 27 . Sed , si
cequi esse volumus, si de nostris religionum doctoribus ecquos ex-
periri judices, videamus etiam , quid dici pro ratione illa Platonis
possit , quid pro Socrate, quatenus et ipse non horribili flagello
sectari vitia id genus solebat. Distinguamus legislatoris personam
et Philosophi. Legibus Atheniensium primo antiquissimis illis a
Cecrope , sanctitas (1) Bona pars libri De re publica decimi in
eo consumitur, ut a"apat~r]Tou?, a^apa[xu0rjTOU?, implacabiles
sacrificiis Deos, ostendant. Vid. pras. a p. 6 72 extr. et conf. qua:
collegit Davis. ad Gic. de Legib. 2. c. j 6 . p. i 3 j ET
L’AMOUR GREC 78 n’ont pas a en su.bir sept mille autres; iis
recouvrent plus vite leurs ailes et peu- vent s’elancer vers les spheres
celestes, a la suite d’un des douze dieux. Que l’on reproche donc a
Platon, si l’on veut, non pas de s’etre fait 1’apologiste de la
Pede- rastie, mais d’avoir ete trop clement, de ne pas chatier
assez ferme, lui surtout qui pour de moindres fautes se montre si
dur et si severe (i), 27. Mais soyons equitables; prenons
d’honnetes gens pour juges de nos Phi- losophes, voyons ce que l’on peut
dire en faveur de Platon ou de Socrate, et jusqu’a quel point ce
dernier a vraiment neglige de flageller le vice en question. II
faut distinguer le legislateur du Phi- losophe. Les plus anciennes lois
Athe- niennes, celles de Cecrops, proclamaient la saintete du
mariage. La loi de Dracon ( 1 ) II emploie la majeure partie du X®
livre de sa Republique a montrer que les dieux sont insatiables de
sacrifices. Comparez avec ce qu’a <5crit Davies sur le Tr ciite des
lois , de Cicerrr.i. 7 74 SOCRATE
matrimoniorum constituta : Draconis lex capite plectebat adulteros
: Solon li- beram faciebat marito potestatem sta- tuendi in
adulterum in facto deprehen- sum , quidquid liberet. Itaque mirum
fuerit si masculam libidinem non punis- sent. 28. Sed bene
habet : supersunt monu- menta Solonis hac etiam de re legum,
diligenter collecta a Sam. Petito (de Le- gibus Att. 6, 5 et in
Commentario p. 468 sqq.) prcesertim ex vEschinis in Timarchum (a p.
186 edit. Aurei. Al- lobr. 1607. /•) et Demosthenis contra
Androtionem (a p. 421) orationibus : unde hoc constat, qui vi vel persuasione
ingenuum corrupisset, produxissetve, gravissima poena (quce ad ultimum
sup- plicium corruptoris et productoris, in- terdum etiam corrupti,
poterat progre- di) affectum esse. Qui illam patiendi pro mercede
turpitudinem admisisset, si effugisset poenam aliam, illi neque
lice- bat inter novem Archontas esse, neque ET LAMOUR GREC 7
5 punissait de mort les adulteres; Solon laissait la faculte
au mari, dans le cas de flagrant delit, de se faire justice comme
il 1’entendrait. II serait bien surprenant que ces deux legislateurs
fussent muets a l’egard de Tamour masculin. 28. Mais nous
avons mieux ; il reste des lois portees par Solon sur la matiere
divers fragments precieusement recueillis par Samuel Petit (voy. ses Lois
attiques et le Commentaire dont il a accompagne cet ouvrage); ii
les a surtout tires du Discours contre Timarque, d’Eschine, et du
Discours contre Androtion, de Demos- thene. Il y est dit : Quiconque,
memesans violence, aura debauche ou prostitue un homme de condition
libre sera passible de la peine la plus rigoureuse. — (Le cha-
timent pouvait etre la mort, dans l’un comme dans Tautre cas, et pour le
liber- tin, comme pour savictime.) — C elui qui se sera prostitue
pour de l’argent, s’il echappe a toute autre peine, ne pourra ni
SOCRATE 76 fungi sacerdotio, neque syndicum
creari, neque ullum magistratum vel intra vel extra urbem, neque
sortito neque suf- fragiis, capere, neque pro Praecone s. oratore
mitti usquam, neque sententiam dicere unquam, neque in templa
publica intrare, neque in pompa coronata et ip- sum coronari, neque
intra sacros fori cancellos (evto; twv t rj; ayopa? TteptppavTT]-
P’'wv) ingredi. Si quis vero damnatus im- pudicitiae quidquam horum fecisset,
ca- pital erat. 0avato> r7)[j.'oua0w sunt verba legis ab As
schine recitata. Plura huc transferri opus non est , cum rarum esse
Petiti opus desierit. Summa capita habet etiam in Themide Attica ( 1 , 6)
Meur- sius. 2 q. Utrum seynpcr valuerint istce le-
ges? annon eas perruperit interdum au- ET L AMOUR GREC
77 etre l’un des neu f archontes , ni remplir aucune
fonction sacerdotale , ni etre nomme delegue d’une ville ; il lui est
interdii d’exercer aucune magistrature, soit en dedans , soit en
dehors de la cite , quii ait et e designe par le sort ou par les
suffrages de ses concitoyens ; d’etre en- voyd nulle part comme Herault,
ou comme orateur ; de prononcer aucune sentence ; de penetrer dans
les temples publics; de faire partie des processions et d’y porter
une couronne sur la tetc; de franchir ienceinte sacree de l’Agora.
Qiiiconque, deja condamne pour fait de prostitutiori , fera ou
acceptera de faire une de ces choses sera puni de mort. Puni de
mort, tel est le texte meme de la loi lue par Eschine. II est
inutile d’en transcrire ici davantage, car Touvrage de Samuel Petit
est loin d’etre rare ; Meursius en a meme donne, dans sa Themis Attique,
les cha- pitres importants. 29. Ces prescriptions
eurent-elles tou- jours force de loi? Ne purent-elles etre
SOCRATE 7 8 dacia , astus subterfugerit ,
eluserint rhetores? annon ipsa poenarum gravitas impunitati
occasionem non nunquam de- derit? an non professce impudicitiae ho-
minis utriusque sexus, libidinum publica- rum victimce, toleratce sint?
An denique poetce non multa saepe impudenter scrip- serint,
fecerint? jam non quceritur. Uti- nam non avxtxatrjyopia quadam
repellere possent veteres Attici cujuscunque vel sec- tae vel
cetatis homines, si qui acerbius ex- probrare iis velint, quce de
Comicorum pe- tulantia sublegerunt illi apud Athenaeum (i3, 8 p.
601 ) Deipnosophistce, et quae colligere ex illa parentum cura apud
Platonem (Conviv. p. 3ig, E), Pceda- gogos constituentium suis filiis,
qui ne quidem colloqui suis cum amatoribus (turpibus nimirum et
flagitiosis) eos pa- tiantur : e. i. g. a. 3o. Ceterum
severitate legum eo ma- gis opus erat, quod obtentum fiagitiis
et l’amour grec 79 enfreintes par les audacicux,
adroitemcnt tournees par les gens ruses, eludees par les avocats ?
La rigueur du chatiment ne favorisa-t-elle pas elle-meme Timpunite
? Est-ce qu’on ne tolera pas des prostitues de profession, victimes
de 1’incontinence publique et remplissant le role de l’un et
1’autre sexe ? Les poetes n’ont-ils pas ef- frontement deerit ces
turpitudes, ne les ont-ils pas mises en action sur la scene ? Cela
ne fait aucun doute. Plut au ciel que les Atheniens de nfimporte
quelle secte et de quelle epoque ne pussent re- tourner Taccusation
a ceux qui leur re- procheraient trop vertement ces horreurs
etalees par les poetes comiques et recueil- lies par les Deipnosophistes
d’Athenee, ou ce qu’on peut induire de 1’inquietude des peres de
famille confiant leurs fils, d’apres Platon, a des precepteurs severes,
pour les empecher de s’entretenir avec leurs amis, — des amis
infames et detestables. 3o. Les lois devaient etre d’autant
plus severes, que les coutumes de la Grece 8o
SOCRATE non nunquam praeberet (ut nempe res sancta ? prope
omnes , ut ipsce populorum sceculorumque pene omnium religiones ,
atque ceremonice) ille puerorum amor , castus , legitimus, sanctus, quo
tanquam potentissimo virtutis cum bellicce tum civilis incitamento
utebantur qucedam Grcecorum respublicce : quarum legisla- tores,
cum viderent, ignava fere esse virtutis prcecepta, firmis licet nixa
de- monstrationibus, nisi ea affectu quodam et tanquam spiritu
animentur, nisi ev0ou- aiaajxou quoddam genus accedat, quo acti
homines et commoda sua , et jacturas, et salutem, et pericula et tormenta
contem- nerent. Hinc excogitata et in usum civitatis recepta sunt
splendida ista et efficacissima remedia, Religio, Pudor, Amor
patrice, Gloria, res quondam po- tentissimce, quod ex illarum effectibus
judicare pronum est: nunc prceclara quo- rundam, qui sibi Philosophi
videntur, opera fere ad inanium vocabulorum stre- pitus relata, et,
dum relata sunt, etiam redacta. ET l’aM0UR GREC
8i ( comme toutes les choses saintes, comme les cultes et
les ceremonies religieuses de presque tous les peuples et de tous
les temps) donnaient plus de facilite a la depravation. La fervente
amitie entre jeunes gens, Tamitie chaste, legitime, sa- cree, etait
favorisee, dans les republiques de la Grece, comme le plus energique
stimulant du courage militaire et des ver- tus civiles. Leurs
legislateurs savaient bien que ni la vertu ni le courage ne s'in-
culquent a 1’aide de demonstrations, si bonnes qu’elles soient ; que
1’homme est naturellement faible a moins qu’il ne soit pousse par
la passion et par 1’orgueil ou entraine par cette espece
d’enthousiasme qui lui fait mepriser les aises de la vie, la
fortune, la vie elle-meme, et affronter les perils et les supplices.
C’est pourquoi l’on mettait en jeu, dans Torganisme de la cite, ces
heroiques et sublimes mobiles, la Re- ligion, 1’Honneur, 1’Amour de la
patrie, la Gloire, mobiles autrefois bien puis- sants, comme nous
pouvonsen juger par ce qu’ils firent accomplir; aujourd’hui,
82 SOCRATE 3 i . In illis igitur rei publicce bene
ge- renda? incitamentis, an instrumentis? erat Amor ille
adolescentulorum tum in- ter se, tum inter ipsos et natu majores :
inde illa sacra Amantium cohors The- bis, et Cretensium. Quanta illius
vis esset, et quam metuendus esset miles amator, svOouatwv, et ab
Amore simul atque a Marte bacchans, occurenti in prcelio hosti, ita
enarrat 2E liantis (H. V. 3 , g) ut IvOo-jatav et furere ipse prope
videatur. Idem (c. io et 12) Laconica qucedam circa eam disciplina? publica?
partem instituta commemorat : V. G. ab illis multatum esse virum
alioquin bonum, ea de causa , quod nullum ha- bere juniorem, quem
amando sui si- milem, et per hunc forte etiam alios, redderet :
itemque peccantis adoles- centuli virum amatorem punitum , cui
83 ET l/AMOUR GREC grace a de certains
Philosophes, ou soi- disant tels, ces grandes choses ne sont plus
que de vains mots, creux et vides, dont le sens s’affaiblit a mesure
qu’on en abuse. 3 1 . Ainsi, 1’Amour des jeunes gens, soit
entre eux-raemes, soit entre eux et leurs ames , etait favorise partout
en Grece , pour le bien de la chose publique ; voila ce qui donna
naissance a la cohorte sa- cree des Amants , chez les Thebains et
chez les Cretois. Quel etait le courage de ces sortes de soldats, quelle
etait la ter- reur qu’ils inspiraient, lorsqu’ils rencon- traient
Tennemi, ivres a la fois d’amour et de sang : c’est ce que Elien nous a
fait connaitre, en partageant, pour nous les mieux depeindre, leur
impetuosite et leur fureur. II nous indique aussi qu’il y avait
quelque chose de semblable dans les institutions de Sparte ; un
Lacede- monien fut mis a 1’amende , quoique excellent citoyen, pour
avoir neglige d’ai- mer quelque compagnon plus jeune que lui, a qui
il aurait inculque ses vertus et SOCRATE 84
nempe illius imputari vitia posse cen serent. 32 .
Etiam illud Laconicum narrat , so- litos ibi adolescentulos petere ab
ama- toribus , viris nempe bonis ac fortibus , stareveTv auTot ?,
ut se adflarent. Interpreta- tur illud verbum , Laconibus proprium,
sElianus per epav, amare : idem factum ab Hesychio V. sp.-v£ Tjj-ou, et
epa, eia7cver. Multa similia ad utrumque Hesychii locum viri docti
, post Meursium (Mis- cell. Lac. 3 , 6 ) sed nihil, unde ratio ap-
pellationis queat intelligi. Nec satisfacit, quod refert, non probat
Eustathius (ad Odyss. A, 36 1 p. 1743 et ad E, 478 p. 240, 38 )
EtarevElxai yap tpaat, t 7j? pLOp^? ti /at x i); wpa;, inspirari aliquid
fornice et pulchritudinis. Hcec enim Laconicce se- veritati parum
conveniunt, si fides anti- quis, ipsique adeo JEliano in ipso illo,
de quo agimus , loco. Srap-ctaTT)? epio; ata- ET LAMOUR GREC
85 qui eut ete capable, a son tour, de les
transmettre a d’autres. Lorsqu’un jeune homme commettait une faute, les
Spar- tiates punissaientson intime ami, comme responsable des
vices qu’il lui tolerait. / 32. Elien rapporte encore
cette autre coutume de Sparte, que les jeunes gens exigeaient de
ceux dont iis etaient aimes, toujours choisis parmi les meilleurs et
les plus braves, ut se adflarent. II explique le verbe ekjttvs Tv (
adflare ), propre aux La- coniens, par cet autre : spav (aimer), et
He- sychius de meme aux mots EpjcvEtgou, ipS et eiu7iveT. Divers
savants ont accueilli cette interpretation, a 1’exemple de
Meursius; mais je n’ai rien compris aux raisons qu’ils en donnent.
Je ne suis pas davan- tage satisfait de Tassertion emise, sans
preuve, par Eustathe, dans son commen- taire des chants IV e et V e de
YOdyssee : a Les inspires (i) sont guides dans leur (i) On
appelait indifTeremment ItaKVETxat, ii a- 7UvrjXa' (inspires) ou spacjiat
(amants) ces couples 8 86 SOCRATE
ypov oux otosv x. t. X. Spartanus amor turpe nihil quidquam novit.
Sive enim ausus fuerit adolescentulus pati turpia (upo-v uzoaeivat)
sive amator facere (£»|Bp6 oat) neutri quidem Spartee manere pro-
fuerit : aut enim patria privarentur, aut vita ipsa. Quare illud ela-vetv
s. s[j.7ivsTv, illos £ta7iVTjXa;, quos eosdem aixa? vocat
Eustathius (Hesych. afcav, s-aTpov) ab in- spirando s. adspirando divino
quodam spiritu, dictos arbitror , unde afflati, ut
7rveuu.atocpo'poi quidam et svOouaiwvTsc, divi- no quodam furore perciti
, ruerent. Hic est ille furor, quem supra i3) tetigi- mus, et de
quo plura sunt in Platonis Phcedro (p. 344, A. 346, A. 352, E).
Nempe spiritum 7iveSp.a quum dicebant an- tiqui, non rem illi tantum
cogitantem in- dicabant, sed rem subtilem, magna ean- dem movendi
et agendi vi praeditam, etc. de friires d’armes , si terribles dans
les batailles. 'Etcnvelv (ad/lare) peut se traduire positivement
par meter les souffles ou metaphoriquement par avoir des aspirations
communes. ( Note du Tra- ducteur.) ET l’aMOUR GREC 87
choix par la beaute et 1’elegance corpo- relle. » Cela me parait
peu convenir a cette severite Laconienne dont temoi- gnent tous les
anciens et Elien lui-meme, a Tendroit en question : « On ignorait a
Sparte ce que detait que les impures amours. Si quelque jeune homme eut
ose se prostituer , ou prendre 1’autre role, il lui eut mal reussi
de rester d Sparte; il y allait pour lui de Vexilou de la mort. »
C’est ce qui me fait croire que ces inspires , designes aussi sous les
noms de compa- gnons, freres d’armes, par Eustathe et par
Hesychius, etaient ainsi appeles du souffle ou de Tesprit en quelque
sorte divin qui les animait, lorsqu’ilsse ruaient sur l’ennemi
comme transportes d’une fureur plus qu’humaine. Nous avons deja parle
de cette espece de delire, dont il est si souvent question dans le Phedre
de Platon. Il convient en effet de remarquer que les anciens
n’entendaient pas comme nous par esprit une faculte intellectuelle,
mais une essence subtile, douee d’une grande forcc de mouvement et d’action.
88 SOCRATE 33. Non vagatur hcec extra oleas
ora- tio. Cum enim fuerit , quod, adhuc proba- tum est, in Grcecia
r.aiozptxizv.a. quaedam honestissima, et sancta adeo , qua ad
virtu- tem, bellicam praesertim , et quidquid pul- chrum est, incitari
homines crederentur, cum nomina spojvuo?, Ipaaxou, raioapaaxou,
itemque spwuivoy, -atot/.wv, et similia tur- pitudinem nondum haberent :
cum illud raiSspaaxsTv res esset adeo honesta, ut quem ad modum
capital Romae erat servo, si militarat, ita Solonis lege multaretur
quinquaginta plagis publice, qui servus eXsuOspou 7ra'oo; spav, amare
liberum pue- rum, auderet : haec ita se cum haberent omnia, nemo
jam debet mirari, adoles- centulorum esse amorem professum So-
cratem, fecisse illum, quae ante (§. i5) dicta sunt, eaque scripsisse
tanquam So- cratis dicta Platonem, quae ex Phaedro commemoravimus .
Quod mitior est vel Plato, vel ipse adeo Socrates, (si quis ei
tribuat, non satis ille quidem aequa ratio- ne, quidquid apud Platonem ex
ipsius persona dictum ponitur) in hos etiam quos ET L’AMOUR
GREC 89 33. Cette digression ne nous a pas eloigne de notre
sujet. Puisqu’il existait en Grece , comme nous venons de le
prouver, une jcatBspao-rfta tres-honnete , sainte, on peut dire, et
reputee propre a pousser les hommes au bien et a la vertu, surtout
a la vertu guerriere; puisque les mots d’amants, d’amis, de
7tad>epa<jTcu et de 7:aioi7.wv n’avaient rien de honteux ;
puisqu’il etait meme si honorable de se livrer a cette zcaSspaardtix, que
la loi de Solon punissait de cinquante coups de fouet, subis en
pleine place publique, tout esclave qui aurait ose aimer un jeune
homme de condition libre; puisque tout cela est irrefutable, personne ne
doit s’e- tonner que Socrate ait professe 1’amour des j eunes gens,
qu’il ait lui-meme eprouve cet amour et agi en consequence; que
Platon nous ait transmis, comme l’ex- pression des doctrines de Socrate,
ce que nous avons cite du Phedre. Sans doute Platon ou, si l’on
veut, Socrate, quoiqu’il ne soit pas equitable de lui attribuer
tout ce que son disciple lui fait dire, se montre
SOCRATE 90 mala libido ad turpitudinem
transversos abripuit 25 . 26) illud primo hanc rationem , ut
innuimus , habuit , quod nec legislatorem hic, neque publicum
accusa- torem ageret ; sed Philosophum , sed amatorem, amicum certe
quidem, qui non metu pcence deterrere a turpitudine homines, sed
virtutis amore revocare a peccato vellet. Deinde erant forte,
quibus parcendum erat, juvenes a vitiis ejus- modi non plane puri,
Alcibiades , Critias , alii, 9[Xox''[j.o) illi quidem sed eadem
«popti- ■/Mxipcc et dcfikoaofM otattr) yprjaajxsvoi (vid. §. 25 )
quos abscisse nimis ab omni fructu Philosophice, ab omni ad virtutem
reditu excludere velle, et sic plane a se et a virtute segregare,
non erat consilii. Non instituam hic comparationes, quce invi- diam
habere possunt : sed illud addam unum, si forte aliquid veri sit ineo,
quod de liberiori Socratis adolescentia dictum est /'§. 2) : si non
mendax historia , e qua refert Origenes contra Celsum , qui su-
periorem vitee conditionem primis Chris- ti discipulis objecerat (l. 1.
p. 5 o. pr.) ET L AMOUR GREC 9 1 beaucoup
trop clement envers ceux qu’un infame desir pousse a Tacte honteux.
Son excuse, nous Tavons deja dit, c’est que ce n’est pas ici un
accusateur public ou un legislateur qui parle, c’est un Philosophe,
un ami, un amant, et il essaye non de detourner les hommes du vice en les
ef- frayant par la menaee des chatiments, rnais de les dissuader
d’une faute en leur inculquant Tamour de la vertu. II y avait
d’ailleurs peut-etre autour de lui des jeunes gens qui n’etaient pas
irreprocha- bles et envers lesquels il ne fallait pas se
montrertrop dur, un Alcibiade, un Cri- tias, d’autres encore, pleins de
fougue, adonnes a une vielicencieuse et etrangere a la sagesse; les
priver de quelques-uns des benefices de la philosophie, c’eut ete
leur fermer toute voie de retour au bien, les eloigner de la personne du
maitre et par consequent de la vertu. Je ne cherche pas a faire des
comparaisons qui pour- raient sembler malseantes; je veux ce-
pendant rapporter un fait, vrai ou faux, qui a traita la jeunesse un tant
soit peu SOCRATE 9 2 Phcedonem e lupanari
traductum ad Philosophiam a Socrate : quid facere illum oportebat
in hac disputatione? 34. Nihil igitur est in Phcedro , quod
urgeat Socratem : si quid incautius dic- tum sit , illa Platonis culpa
fuerit : quam- quam si universam circumstantiam , ut a nobis
ostensa est , quis consideret , etiam hunc accusare , vel non excusare,
ini- quum videtur. De Convivio Platonis jam non opus est multis
disputare. Distin- guat mihi aliquis personas loquentes : ad
universam libelli descriptionem, quam vocamus CEconomian, ad
Allegorian denique ab amore Venereo ductam , ac translatam ad
animos, quorum lenonem se et obstetricem ferebat Socrates : ad
hcec, inquam , mihi attendat aliquis, et et l’amour grec q3
dereglee de Socrate. C'est Origene qui le raconte dans son traite
contre Celse. Celse reprochait aux premiers disciples du Christ
d’avoir ete tires de conditions abjectes; Origene repondit que
Socrate avait bien tire Phedon d’un mauvais lieu pour le convertir
a la Philosophie. J e vous demande un peu ce que ce Phedon venait
faire dans la discussion. 34. On ne rencontre donc rien dans
le Phedre qui puisse incriminer Socrate; s’il y a ca et la quelques
paroles imprudentes, c’est la faute de Platon. Encore, si l’on
examine bien toutes les circonstances, comme nous 1’avons fait, il serait
injuste, tout en blamant Platon, de ne pas lui trouver d’excuse.
Nous ne nous etendrons pas longuernent sur son Banquet. Que l’on
distingue bien les uns des autres les interlocuteurs, que Fon fasse
attention a 1’ensemble du dialogue, a ce que nous appelons
1’economie de 1’ouvrage, que Fon analyse enfin cette allegorie
tirce de 1’amour physique, puis appliquee aux 94
SOCRATE mirabor, si quid ibi sit , unde Jiagitio ipsi
praesidium, vel crimini in Socratem jactato firmamentum peti possit. Sed
est in illo libro, quod maxime ad defenden- dum a Socrate fagitium
pertinet, quod ut magis pateat, tota ultimee partis, et velut actus
postremi fabulae illius convi- valis, CEconomia proponenda est, e qua
ipsa appareat, velle pro veris haberi Pla- tonem, qua ’ in Alcibiadis
personam con- jecta de Socrate dicuntur. 35. Ebrius nempe
Alcibiades ad eum finem, ut neque pedes officium faciant,
comissator supervenit potantibus apud Agathonem Socrati ceterisque. Hic,
ex lege compotationis , dextrum sibi accum- bentem Socratem laudare
jussus, obse- quitur cum professione ebrietatis, ut tamen (p. 332,
G) vera se dicturum con- firmet et redargui petat , si quid mentia-
tur. Ac primo sub imagine quadam lau- et i/amour grec 9 5
idees, dont Socrate se donnait comme l’entremetteur et Taccoucheur,
et je serai bien surpris si 1’on y decouvre quoi que ce soit en
faveur du vice infame ou a 1’appui de 1’accusation portee contre
So- crate. On pourra y puiser, au contraire, les meilleurs
arguments pour l’en defen- dre ; mais il est necessaire d’exposer
ici toute 1’ordonnance de la derniere partie, ou plutot du dernier
acte de ce dialogue, ou il est clair que Platon veut nous faire
tenir comme vrai ce qu’il a place, tou- chant Socrate, dans la bouche
d’Alci- biade. 35. Alcibiade arrive a la fin du festin
dans un tel etat d’ivresse que ses pieds refusent de le porter; il veut
prendre sa part de plaisir avec Socrate et les autres, en train de
boire chez Agathon. La, par suite d’une convention adoptee entre
les convives, il est force de faire 1’eloge de Socrate, assis a sa
droite, et demande de 1’indulgence, en se fondant sur ce qu’il est
ivre ; il affirme pourtant qu’il ne SOCRATE 96
daturus Socratem , cum Sileno aliquo (Conf. §. 18 J nominatim cum
Satyro Marsya , tibicine , illum comparat, cujus figura, ex ligno,
edolata ruditer atque deformi, utebantur artifices pro theca, quce
intus haberet pulcherrimum aliquem Mercuriolum (p. 333, F) : scilicet
in corpore deformi habitare animam pul- cherrimam demonstrat : et
esse tibicini Marsyce similem Socratem, ob illam vim demulcendi
animos, cui resisti non posset. 36. Deinde narrat, cum eundem
pul- chrorum sectatorem quendam ct capta- torem videret, se, qui
fiduciam fornice haberet, sperasse, si pellicere virum ad amorem
sui (venereum nempe) posset, eique se prceberet obsequiosum,
impetra- turum se ab illo admirabilem illam ar- tem, et ablaturum,
quce Socrates sciret, omnia. Hinc narrat verbis quidem ho- nestis
modestisque , ct tamen venia ante ET LAMOUR GREC
97 dira que la verite et exige, s’il se trompe, qu’on lui
donne un dementi. II com- mence, pour louer Socrate, par le com-
parer a ces grossieres figures de bois representant Silene ou le satyre
Mar- t syas, le joueur de flute, sculptees sans travail et sans
art, dont les statuaires se servaient comme de gaines, et qui rece-
laient a 1’interieur quelque joli petit Mer- cure ; ainsi, dit-il, dans
un corps difforme peut habiter une belle ame; de plus, So- crate
ressemble au joueur de flute Mar- syas en ce qu’il a, pour charmer, une
force a laquelle nui n’est en etat de resister. 36. II
raconte ensuite que le voyant s’attacher a la poursuite des beaux
ado- lescents et s’efforcer de les prendre dans ses filets, plein
de confiance en sa beaute parfaite, il avait essaye de lui inspirer
de 1’amour, comptant bien qu’avec un peu de complaisance pour ses
desirs il obtien- drait de lui qu’il lui communiquat son admirable
science, et qu'il gagnerait a cela tous les talents de Socrate.
Alcibiade 9 SOCRATE 98
exorata ebrietati , et pro? fatus (p. 334 , C) uti servi aliique
profani aures obtu- rent (zuXa<; 7: avo [xEyaXai xot; walv £7ri0E<?0s)
quam varie, et quibus veluti gradibus, frustra continentiam Socratis,
temperan- tiamquefrecte fortitudinis hic nomen adji- cit) tentarit.
Summam facit hanc, (p. 334 , G) ut Deos Deasque testes faciat, se
cum totam noctem sub eadem veste cum Socrate jacuisset, non aliter
ab illo, quam ut filium a patre, aut a fratre majori frater
deberet, surrexisse. Itaque se frustratum spei esse in homine, quem
hac sola forte parte capi posse putasset. 3y. Enumeratis deinde
aliis Socratis virtutibus, bellica prcesertim , qua sibi etiam
vitam servarit, addit, non se tan- tum contumelia tali ab eo affectum ,
sed Charmiden etiam , Euthydemum et et l’amour grec gg
place ici , mais en termes honnetes et mesures, quoiqu’il se soit
excuse sur son ivresse et qu'il ait recommande aux es- claves et
aux profanes de se boucher les oreilles, le recit des gradations
savantes et de tous les stratagemes vainement mis en oeuvre par lui
pour induire en tenta- tion la continence, la temperance ou plu-
tot, comme il le dit fort justement, l’he- roique fermete de Socrate. II
conclut en disant : Je prends les dieux et les deesses d temoin
quapres avoir repose toute une nuit d cote de Socrate, et sous le
meme m ante au , je me levai d'aupres de lui tel que je serais
sorti du lit de mon pere ou de mon frere aine. Ainsi, le seul point
par lequel il croyait que cet homme fut accessible avait tout a fait
trompe ses esperances. 37. Apres avoir ensuite enumere
les autres vertus de Socrate et appuye sur sa valeur guerriere, a
laquelle il etait lui- meme redevable de la vie, il ajoute qu’il
n’est pas le seul, du reste, a qui Socrate 100
SOCRATE alios multos, quos ille amoris simulatione deceptos
in potestatem suam redegerit , ou? oiito; s^aTCatojv w; IpaartT)?,
Tuatoty.a piaXXov autos -/.aOiaTa-ai avi’ epaotou. Nempe adu-
labantur vulgo amatores , certe qui turpe quid spectarent , pueris
aetatula sua et illa ipsa adulatione superbientibus. Alia ratio
Socratica , quae etiam supra (§. 6) in Lysidis argumento declarata est.
Sua- vissima sunt reliqua in Symposio Plato- nis : eo autem
referuntur omnia , ut in- telligamus Socratis hanc fuisse consue-
tudinem . , pulchrorum amorem uti prae se ferret , cum illis suaviter et
amice ut versaretur, ut virtutis illos amore im- pleret , reliqua
omnia non tanti esse os- tenderet , in quibus valde sibi elaboran-
dum vir sapiens existimaret. 38. Sanctus ergo Paederasta Socrates
, et foedissimi , si quod usquam est , crimi- ET L AMOUR
GREC 101 ait fait un tel affront; que pareille chose est
arrivee a Charmis, a Euthydeme et a bien d’autres qu’il avait feint
d’aimer tendrement, pour mieux les asservir et les diriger. Les
amis vulgaires, ceux sur- tout qui esperaient de honteuses com-
plaisances, se faisaient les flatteurs des jeunes garcons, et ceux-ci
n’en etaient que plus fiers de leur beaute. Autre etait la methode
Socratique, comme nous l’a- vons montre plus haut en exposant le
sujet du Lysis. Ce qui suit, dans le Ban- quet de Platon, est charmant ;
tout aboutit a nous montrer que telle etait la coutume de Socrate
de rechercher les bonnes gra- ces des jeunes gens que distinguait
un exteneur gracieux, et de vivre avec eux dans une douce et
agreable intimite, afin de leur faire aimer la vertu; ce point
obtenu, il jugeait facile de leur donner les autres qualites qu’un sage
doit s'ap- pliquer a acquerir. 38. Ainsi, Socrate n’avait
pour la jeu- nesse qu’un amour chaste ; il etait pur du 9
- I 02 SOCRATE nis expers : a quo etiam
alios avocare studuit , quod Critice exemplo docet Xenophon, ejus,
qui post in triginta tyrannis fuit , quem Euthydemi pudori
insidiari cum sentiret , utxov ti Tiaay eiv dixit, suillo more prurire,
eaque re ini- micitias hominis factiosi et potentis sibi contraxit;
quibus carere poterat , nisi potius fuisset officium. 3g.
Sed admonet me Xenophon de crimine alterius illo quidem generis, et
multo, ut in malis, tolerabiliore : quod tamen ipsum etiam in illo
adhaerescere, quantum in me est, non patiar. Accusa- tur, ut
naturalis quidem , sed malce ta- men libidinis suasor et leno
quidam, propter ea quce referuntur in Xenophon- tis Convivio (c. 7
et g). Sed nec ibi quid- quam est, cujus bonum Socratem, aut illius
amicos pudere debeat. Spectacula exhibentur convivis mirabilia ,
partim ET LAMOUR GREC io3 vice infame
entre tous. Bien mieux, il s’efiforcad’en detourner lesautres,
comme Xenophon nous 1’apprend par 1’exemple de Critias. Ce disciple
de Socrate, devenu par la suite l'un des Trente tyrans, avait voulu
attenter a la pudeur d’Euthydeme ; lorsque son ancien maitre Bapprit : II
a le prurit du porc{ i), s’ecria-t-il ; paroles qui lui attir£rent
1’animosite d’un homme puissant et redoutable, ce qu’il lui eut ete
facile d’eviter, s’il n’avait mieux aime faire son devoir.
3g. Mais Xenophon me fait songer a une autre accusation qui a ete
egalement portee contre Socrate ; quoique moins grave, elle n’en
est pas moins facheuse, et je l’en disculperai de toutes mes
forces. On lui reproche, a 1’occasion d’un inci- dent rapporte par
Xenophon, dans son Banquet , d’avoir excite ses disciples a la
debauche, ce qui serait pernicieux encore, (i) Concupiscit ad
Euthydemum se affricare quemadmodum porcelli solent ad saxa (Xeno-
phon, Memorabilia). 1 04 SOCRATE etiam
periculosa , et horrorem quendam spectantibus moventia , inter
districtos gladios corpora saltu jactantium , aut in figuli rota
circumacta scribentium le- gentiumque. Non placent ea Socrati, qui
aptius convivio spectaculum putat ipyjln- Gat r.poc, tov auXov
T/rJijiaTa, Iv oi; Xapixe; ts •/.a't Qpat, xa\ Niifxcpat ypstaovtai, ad
tibiam edi motus et saltationes, eo habitu, quo Gratiae, Horae,
Nymphae a pictoribus exhibentur. Forte suspectum alicui fuit
hoc quod Gratice nuda; pingi solent. Sed huic sus- picioni repugnat
, quod dicitur Ariadne illa saltatrix w; vop-sr, xcy.ocju.rjU.svr,,
sponsce autem profecto apud Grcecos nudce esse ET L AMOUR GREC
105 bien qu’i.1 s’agisse ici de plaisirs confor- mes au vceu
de la nature, et de s’etre fait, en quelque sorte, entremetteur. II n’y
a rien, dans ce passage, dont doivent rougir 1’honnete Socrate et
ses amis. Des mimes viennent d’executer devant les convives toutes
sortes d’exercices extraordinaires, quelques-uns tres-dangereux et
propres a donner le frisson aux spectateurs; on a vu les uns
presenter leurs poitrines, en sautant, a des pointes d’epees rangees
en file ; d’autres lire ou ecrire enfermes dans une roue de potier
mise en mouvement. Ces exercices deplaisent a Socrate ; il pense
qu’il serait plus convenable, au milieu d’un festin, de voir des
danseuses executer des poses, au son de la Jlute, sous le costume
que les pcintres pretent d’ ordinaire aux Graces, aux Heures et aux
Nymphes. Cela a pu paraitre suspect parce qu’on a coutume de
representer les Graces toutes nues. Mais ce soupcon ne repose sur
rien, car la danseuse qui parut alors, habillee en nymphe, representait
SOCRATE I Ob non solebant : nymphae in insectis
ab eo ipso dicta?, quod involuta? sunt. Gra- tias decenter vestitas
contemplari licet in Grcecis monimentis apud Montfauc. Ant. Expl.
To. i Tab. iog ad p. ij6. Movit forte eum, qui primus crimen hinc
excerpsit Socrati, a/r^a-coiv appel- latio, qua? inter alia ad turpes
figu- ras refertur , quales olim Philcenidis et Elephantidis
commendatas libellis fuisse constat (i), ut hic ejusmodi impudens
spectaculum suspicaretur . Sed tum inter- jecta de amore disputatio ( 2 )
(c. 8) tum ipsa perfectio exsecutioque consilii (c. g) suspicionem
illam eximunt. Aguntur Ariadnes et Bacchi nuptice,sed illa ut in
scenam nihil veniat, pra?ter oscula et (1) De quibus Spanhem. de
usu et Praest. numism. Diss. i 3 . p. 522 . sq. Hic ay 7 jfi a est
omnis gestus saltantium blandus, minax, derisor. Vid. Lucia. de Saltat,
c. 18. T. 2 p. 278 in primis c, 36 . extr. (2) Apertior,
simpliciorque , et incautior adeo Xenophontis de his rebus oratio , quam
Plato- nica : sed cujus summa eodem pertineat, uti ab impura
libidine ad sanctam animorum conjunc- tionem homines revocentur.
F.T L^AMOUR GREC IO7 Ariadne, et les Grecs ne
permettaient pas le nu dans les roles de femmes mariees.
D’ailleurs, certains insectes imparfaits sont appeles nymphes pre-
cisement parce qu’ils sont enveloppes. On peut voir aussi, dans
YAntiquite' ex- pliquee de Montfaucon, que les Grecs, meme sur
leurs monuments, figuraient les Graces decemment vetues. Celui qui
le premier a lance contre Socrate cette accusation s’est peut-etre
effarouche du mot pose, qui, entre autres, est applique a des
images obscenes, du genre de celles qu’on rencontrait dans les livres de
Phi- laenis et d’Elephantis (i); il a soupfonne Socrate d’avoir reclame
un spectacle lu- brique. Or, ladiscussion surTarnour qui intervient
alors ( 2 ), 1’execution et l’ache- (1) Spanheim (De prostantia et
usu numisma- tum antiquorum) parle de tout cela. On appelait poses
toute esp6ce de geste lascif, provocant ou railleur, des mimes. ('Comparez
Lucien, De la Danse, ch. XVIII.) (2) Le dialogue de Xenophon
est bien plus franc, bien plus simple et bien moins circonspCct que
celui de Platon ; tous les deux d’ail!eurs vont au meme
io8 SOCRATE amplexus , cetera reservantur postsce-
niis (i). but, qui est de detourner les hommes des plaisirs
les plus impurs et de les rapprocher dans une sainte communion des
ames. (r) Tales saltationes s. repraesentationes etiam pars
sacrorum erant. Apud Lucia. in Pseudom. c. 38 . To. 2 p. 244 xsXsx7]'v
xtva cuvtaxaxat Alexander , xai SaStyta?, xat tepocpavxta; — In his
mysteriis et sacris etiam est KoptoviSo? yapto; cum Apolline — item
riooaXstpiOU xai pLTjTpo; AXs^avSpou yauo; — denique SsXrJvr^ xai
AXs^avBpou spto? — Alexander ut Endymion alter xaOsuSwv exsixo sv xw
piato — cptXrjtxaxa xs eytyvovxo xat ~£pt~Xoxa\, st 8s ar t r.
oXXat iqaav at 8a8ss, xay’ av xt xat xwv utco xoXtcou sjxpaxxsxo.
Apposui locum , quia hic etiam 7t$pt7tXoxa'i, et tamen nihil
obscenum. ET l’aMOUR GREC IO9 vernent immediat du
divertissement qu’il avait demande, enlevent toute force a cette
conjecture. Les mimes representent les noces d’Ariadne et de Bacchus :
mais on ne voit rien de plus sur la scene que des baisers et des
etreintes amoureuses ; le reste se passe derriere le rideau (i).
( 1 ) Ces sortes de danses et de reprdsentations faisaient partie
des Myst6res. Dans lM lexander seu Pseudomantis, de Lucien, on voit
Alexandre, in- troduit comme nouvel initii, passer par les 6preuves
du dadouque et de l’hi<5rophante. Parmi les scenes religieuses
auxquelles cette initiation donne lieu figurent : les noces d’Apollon et
de Coronis, celles de Podalirius et de la mere dAlexandre, enfin
les amours d’Alexandre et de la Lune. « Alexandre, comme un autre
Endymion, etait couchd au milieu du theatre; on dchangeait des caresses
et des bai- sers. S’il n’y avait pas eu D des torches en quan-
tite, peut-etre bien qu’il se fut laiss6 entrainer a faire qucedam earum
quce sub veste Jieri solent. » Cest un peu ldger ; cependant il n’y a
rien la de bien obscene. — Gesner aurait du citer Lucien plus
complete- ment ; ce passage du Pseudomantis offre un tableau de
genre exquis : « Alexandre, comme un autre Endymion, etait couche au
milieu du thdatre, faisant semblant de dormir. II tombait de la voute,
comme du ciel, une certaine Rutilia, tr£s-jolie, qui jouait le role
de la Lune et qui dtait la femme d’un intendant de 1'einpereur. Elie
aimait vraiment Alexandre et 10 I IO
SOCRATE 40 . Finem et effectum negotii ita indi- cat
Xenophon : teXo; 0 i ol <jup.7ioToci ’.oovte; T:ept6e6Xr]xdT:a; ts
aXXrjXou c xai oj; et; euvrjv aTr-.ovTa:, 01 (j.r,v ayauoi yaixetv
£zw[xvuaav, 01 oe ysyap-rixoTec, ava 6 xvc£; Ijci xou; ? 3 C 7 COUS, a-rj-
Xauvov Tipo; xa; lauxujv yuvaTxa;, otim; xojxojv xuy otsv . Tandem post
blanditias quasdam , verecundas, maritales, complexi se invi- cem
sponsus et sponsa , i. e. manibus implexis, vel brachiis mutuo cervici
im- positis, vel tergo circumjectis , velut cubitum discedunt : ab
hoc spectaculo incalescentes , et ut paullo ante dicebat,
av£7iTEpo)|jiivoi (vid. no. ad §. i5) convivae caelibes dejerant, se
ducturos esse uxo- res ; mariti autem equis conscensis domos festinant,
ut simili voluptate et ipsi fruantur. Utinam vero e spectaculis et
theatris hodie ita discederetur ! utinam Socratis hac parte disciplinam
sequeren- tur publicarum Voluptatum Tribuni. Talia spectacula edere
debebant Romani eu 6tait aimee. Sous les yeux de son propre mari,
iis echangeaient des caresses et des baisers » (Note du
Traducteur.) ET L’AMOUR GREC l I I 40.
Xenophon indique de la maniere suivante la fin et les resultats de
l’his- toire. Apres toutes sortes de caresses honnetes et
maritales, les deux epoux se tenant embrasses, c’est-a-dire, je
pense, les mains entrelacees ou les bras pas- ses mutuellement soit
autour du cou, soit autour de la taille, s’eloignerent comme pour
aller se coucher. Echauffes par ce spectacle et se sentant de
furieu- ses demangeaisons, comme s’il leur pous- sait des ailes ,
les convives encore celiba- taires /irent le serment de ne pas
tarder a prendre femme ; les maris monthrent a cheval et se
haterent de regagner le lo- gis, pour gouter d leur tour de sem-
blables voluptes. Plut au ciel qu’aujour- d’hui on quittat les spectacles
et les theatres dans de si bonnes intentions ! plut au ciel que
cette partie de la disci- pline Socratique fut pratiquee par les
ediles preposes aux plaisirs publics ! Ce sont de tels divertissements
qu’auraient du decreter les empereurs Romains, sou- cieux d’exciter
toutes les classes au ma- I 1 2 SOCRATE
principes , cum de maritandis ordinibus , et sobole Romana augenda soliciti
erant : talia conveniebant nuper Lutetia ? et Gal- lice adeo
universae, quum Ducis Burgtin- dice natalem nuptiis mille puellarum
celebrarent : talia magnam Britanniam , si quid veri habent quorundam
qucerelce, Swiftiance praesertim , quas eo loco protu- lit , ubi de
abrogando clero disputat : aut eorum , qui hodie peregrinos invitandos
, supplendi populi causa . et civitate donan- dos , censent.
41. Nempe incidit aetas Socratis in ea tempora, ubi civium
paucitate laborabat exhausta bellis Persicis et Peloponnesia- cis
Attica , cui etiam lege matrimoniali obviam ire, et afferre remedium ,
conati esse dicuntur. Debemus notitiam hujus legis ipsi Socrati,
quatenus nulla forte illius mentio extaret hodie, nisi de dua- bus
Philosophi uxoribus jam olim dispu- tatum esset. Res cum queestioni. de
qua et l’amour GREC 1 I 3 riage ct d’accroitre la
posterite de Re- mus : iis auraient convenu naguere a la ville de
Paris et a la France entiere lorsqu’on feta la naissance du duc de
Bourgogne en mariant un millier de jeunes falles; iis auraient bien fait
Faf- faire de la Grande-Bretagne, s'il y a quelque chose de vrai
dans ces plaintes dont Swift surtout s’est fait l’e'cho et qui
reclamaient 1’abolition du celibat despre- tres; iis conviendraient encore
a ces pays ou l’on attire les etrangers en leur conferant les
droits civiques pour sup- pleer au petit nombre d'habitants.
41. Socrate vivait a une epoque ou 1 ’Attique, epuisee par les
guerres des Perses et du Peloponese, souffrait de ne plus avoir
qu'une population clair-se- mee ; on dit menae que les Atheniens
s’ef- forcerent de remedier a cet etat de choses par une nouvelle
loi touchant lesmaria- ges. Nousdevons 1’unique renseignement que
l’on ait sur cette loi a Socrate , car il n’en subsisterait aujourd’hui
aucune IO. >4 SOCRATE
agimus conjuncta sit , illam , quam brevi- ter jieri potest , expediemus.
Duas So- crati uxores vulgo tribui videmus, Xan- thippen e qua
Lamproclem susceperit, et Myrto , Sophronisci atque Menexeni
matrem. In hoc conveniunt Cyrillus ( contra Julia. I. 6. p. 186, D) et
Theo- doretus (Grcecar. Affect. curat, ser. 6 p. ij4, 40) ac
Diogenes Laertius (2, 26). Porro de Xanthippe Cyrillus ex Por-
phyrio, 7tspi7tXa-/.asav XaQstv, clanculum in ipsius amplexus venisse ;
quod plane repugnat Platoni et Xenophonti, qui nullius conjugis
prceter Xanthippen , jus- tam uxorem , mentionem faciunt : tum
Theodoreto, qui tamen ipse quoque sua debere ait Porphyrio, sed non
tantum pro TCspiTt^axetaav XaOsTv habet 7:po<j-XaxeTcjav Xa6sTv,
induxisse priori uxori, ut pereat illa secreti , et furti amatorii notio
: sed etiam addit, solitas esse eas mulieres in- ter se depugnare,
deinde pace facta con- junctim impetum facere in Socratem ideo ,
quod is bella illarum non dirime- ret : hunc vero utrumque genus pugna:
• et l’amour GREC I I b mention sans la controverse
autrefois agitee au sujet de ses deux femmes. Comme cette question
tient a notre su- jet, nous la discuterons bridvement. On donne
communcment a Socrate deux femmes : Xantippe, dont il eut un de ses
fils, Lamprocles, et Myrto, la mere de Sophronisque et de Menexene. S.
Cy- rille, Theodoret et Diogene de Laerte sont tous les trois
d’accord la-dessus. Mais S. Cyrille, empruntant ce detail a
Porphyre, dit de Xantippe que son ma- riage avec Socrate fut clandestin,
qu’elle se cachait pour 1’embrasser, ce qui con- tredit absolument
Xenophon et Platon, puisqu’ils ne parient d’aucune autre femme que
de Xantippe, epouse legitime de Socrate. Theodoret, qui lui aussi
dit tenir de Porphyre ses renseignements, change 7iepi7tXoaEiaav
XaOsTv en npovnXxxsT- aav XafleTv et declare ainsi que Socrate
introduisit Xantippe chez sa premi^re femme, ce qui ruine toute cette
histoire de mariage secret, et de furtifs baisers ; bien mieux, il
ajoutc que ces deux me- SOCRATE 1 16 cum
risu speci are consuevisse. Utri fi dem habebimus? 42. Sed
nondum est finis discordia- rum. Theodoretum si audimus , induxit
Xanthippen suce jam Myrto Socrates : sed Laertius negat convenire inter
auc- tores , utram prius duxerit. Idem ait , simul ambas habuisse
Socratem , a qui- busdam esse traditum. In hac sententia etiam fuit
auctor Dialogi Halcyon , qui inter primos Lucianeos editur , in cujus
fine Socrates dicat , se Halcyonis amo- rem in maritum suis conjugibus
Xan- thippee et Myrto prcedicaturum esse. Antiqua porro esse illa
relatio memora- tur Callisthenis , Demetri Phalerei , Sa- tyri
Peripatetici , Aristoxeni Musici , ET L’AMOUR GREC I I 7
geres se battaient continuellement, puis la paix faite, tombaient a
poings fermes sur le pauvre Philosophe, en lui repro- chant de ne
les avoir pas separees: pour lui, il restait simple spectateur du
com- bat et voyait donner ou recevait lui- meme les coups en
souriant. A qui faut- il s’en rapporter, de S. Cyrille ou de
Theodoret? 42. Et nous ne sommes pas au bout de la querelle.
Dapres Theodoret, So- crate epousa Xantippe, dtant deja marie a
Myrto; mais Diogene de Laerte af- firme que les auteurs ne sont pas d’ac-
cord et qu’on ne sait qui des deux il epousa la premiere. Il dit aussi
qu’il les eut toutes les deux ensemble, et sur quelles autorites
repose cette assertion. Elie a ete accueillie par 1’auteur du dia-
logue intitule Alcyon, imprime en tete de ceux de Lucien; on y voit
Socrate proposer en exemple a ses deux femmes, Xantippe et Myrto,
1’amour d’Alcyon pour son mari. Plutarque (Vie d’Aris-
ii8 SOCRATE Hieronymi Rhodii, apud Plutarchum
(vita Aristid. extr.) qui ceteris narrandi auctorem fuisse ait
Aristotelem in libro de nobilitate, (rapi s-jyevsia;) qui tamen
liber an sit Aristotelis, Plutarchus dubi- tat : narrant autem ita,
Aristidis neptim Myrto, vidua cum esset et paupercula, domum ductam
a Socrate, eique cohabi- tasse, licet aliam uxorem habenti .
43. At non licebat a Cecrope inde Athenis plure s una habere uxores.
Qui sit igitur, ut neque Comici exprobrarint, neque Accusatores
objecerint digamian Socrati ? Hic nobis narrant Athenaeus et
Laertius legem, latam supplenda 1 multi- tudinis civium causa. Exstabat
Athenceo prodente ipsum decretum a Rhodio Hie- ronymo conservatum,
wax' si-eivat xai ouo ET 1/aMOUR GREC I i q tide)
rapporte que cettc opinion etait ancienne, et qu ; elle fut partagee
par Callisthene, Demetrius de Phalere, Sa- tyrus le peripateticien,
Aristoxene le musicien et Hieronyme de Rhodes; Athenee dit de son
cote qu’ils Tavaient tous puisee dans le Traite de la No- blesse d
Aristote, livre dont cependant Plutarque doute qu’Aristote soit l’au-
teur. Tous racontent que- Myrto, pe- tite-fille d Aristide, etant veuve
et se trouvant dans une extreme pauvrete, fut recueillie par
Socrate dans sa maison et qu’il cohabita avec elle, quoiquhl fut
deja marie. 4 J - Les vieilles lois de Cecrops inter-
disaient cependant a Athenes les doubles unions. Pourquoi donc ni les
poetes co- miques, ni les accusateurs de Socrate ne lui ont-ils
reproche ou oppose ce cas de bigamie ? Cest a ce propos qu’A.thenee
et Diogene de Laerte nous parient de cette loi nouvelle_, edictee,
disent-ils, dans le but d’accroitre le nombre des citoyens.
120 SOCRATE 'systv yuvatxa; tov [3o'jaojj.£vov.
Secundum haec male accusaretur Socrates, qui et legi paruerit de
augenda sobole Attica , et Aristidis progeniem viduitate et pauper-
tate extrema liberaverit. V 44. Verum enim vero totum
hoc de duabus Socratis uxoribus , quin de lege maritali etiam
falsum esse , prcesertim ex dissensu commemorato , itemque ex
Platonis et Xenophontis silentio arguit Bentleius (1). Et habet , quantum
est de monogamia Socratis, magnum auctorem Pancetium, quem laudat
Plutarchus, qui cum retulisset eam quce modo proposita est de Myrto
narrationem, satis illam refutatam ait a Panaetio : cujus si opus
hodie extaret, facilior forte hodie esset causa Socratis, quem tamen a
turpi pue- (/) In Dissertat, de Phalaridis et exteror.
Epistolis, § / 3 , p. /06 5 9 9. ET l’aMOUR GREC 12 1
Athenee s’avance jusqida dire qu’il y avait un decret, conserve par
Hieronyme de Rhodes, et ainsi concu : « 11 est per- mis d’avoir
jusqua deux femmes. » Si cela est vrai, on accuserait mal a propos
Socrate, qui n’aurait fait qu’obeir a la loi portee en vue de repeupler
1’Attique, et qui de plus aurait sauve du veuvage et de la mis&re
la petite-fille d’Aristide. 44. Mais vraiment Phistoire des
deux femmes, tout aussi bien que celle de la loi matrimoniale,
paraissent en- tachees de faussete a Bentley (1); il se fonde
surtout sur le desaccord que nous avons signale et tire une grande
preuve du silence de Platon et de Xenophon. Nous avons, pour ce qui
est de la mono- gamie de Socrate, une excellente auto- rite,
Pantetius, dont Plutarque fait le plus bel eloge; apres avoir rapporte
ce que nous avons dit de Myrto, il ajoute que cettefable a ete
suffisamment refutee ( 1 ) Dissertation sur les Epitres de Phalaris
, Themistocle, Sacrale et Euripide (1697, iu-8"). I
22 SOCRATE rorum amore, et a lenocinio turpi , et
a libidinosa digamia, vel sic satis libera- tum esse confido.
123 ET L AMOUR GREC par Panaetius. Si
nous possedions son livre, la cause de Socrate serait aujour- d’hui
plus facile a defendre; je pense cependant avoir prouve qu’il ne fut ni
un corrupteur de la jeunesse, ni un provocateur a la debauche, ni un
bi- game libertin. TABLE DES MATIERES
Alcibiade; ses avances repouss^es par Socrate, p. 97-99.
Ame, comparde par Pla- ton a un attelage ai!6, p. 29, 47-65 ;
— clas- sification des ames suivant le degrd de connaissances
acquises avant la vie, p. 3 1 - 3 5 . Amour
philosophique, p. 35 , 43; — raisons qui dirigent les choix
dans cette sorte d’a- mour, p. 45-47; — les impuretes ou il
peut s’egarer, p. 69. Analyse du Lysis, dialo- gue de
Platon, p. 21; — du Phedre, p. 23 - 29; — du Banquet, p. 95
et suiv. Beaute morale et Beaute physique, p. 39-41.
Bigamie; Socrate eut-il deux femmes? p. 1 1 3 et suiv.; — la
bigamie etait-elle autorisde en Grece ? p. 1 19.
Cohorte sacree des amants, a Thebes et en Crete, p. 83
. Inspires; couples d’amis, p. 85 - 87 - Minies ;
leurs exercices et poses plastiques, p. io 5 . riaiospaatsta,
le mot et la chose pouvaient etre pris en bonne part,
chez les Grecs, p. 89. Peines portees par les Grecs contre
les infa- mes, p. 75. Pronostics tirds par les
physionomistes de la voix forte et grave, p. 5 1 ; — de
lencolure courte, p. 55 ; — des oreilles velues, p. 57 ;
— des grosses levres, p. 5 q; — du nez ca- mard, p. 59; —
des yeux saillants, p. 61. Representations mytho-
logiques et divertisse- ments dans les festius, p. 105-109 ; — dans
les mysteres, p. 109 (note); — effets singuliers pro-
duits parfois sur les convives par ces re- pr^sentations, p.
m. Socrate; motifs ordi- naires des accusations portees
contre lui, p. 1 5 — 1 7 ; — pourquoi il recherchait les
beaux garcons, p. 43 ; — son portrait physique, p. 49 et
suiv. Socrate l’ Ecclesiasti- que ; comment il a ac-
cuse, sans preuves, So- crate le Philosophe, p. 9. Sparte ;
coutume rappor- t6e par Elien, p. 85 ; — les amours impures y
etaient ignorees, p. 8.7. Paris. — Imp. Motteroz, 3 i, rue du
Dragon. Gabriele Giannantoni. Giannantoni. Keywords: la dialettica,
dialettica, Epicuro a Roma, Calogero, il principio dialogo, Lucrezio, Cicerone.
-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giannantoni” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758022139/in/dateposted-public/
Grice e Giannetti – corpuscolarismo – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Albiano di
Magra). Filosofo. Grice: “I like Giannetti; for one, he is the only philosopher
I know whose first name is ‘Pascasio.’ He taught at Pisa, but not in the tower
– Oddly, while he is from Tuscany, there is a street (‘via’) in La Spezia named
after him!” – Grice: “His logic was considered heretic, at least by the duke,
who diligently expelled him from any obligation of teaching!” – Insegna a Pisa.
Quando lascio la cattedra, gli successe Grandi.
Di formazione galileiana, fu un acceso nemico dei Gesuiti. Sollecitato da Grandi,
che lo aveva anche introdotto a Newton, cura Galilei (Firenze). Rimosso da Pisa
da Cosimo III de' Medici, vi fece rientro alla morte di quest'ultimo. NC. Preti, Dizionario Biografico degli
Italiani, Memorie storiche d'illustri scrittori e di uomini insigni dell'antica
e moderna Lunigiana, Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 54, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. PASCASIO GIANNETTI Essendo Pascasio
Giannetti tra'maestri più singolari di filosofia e di medicina dell' Universi
tàdiPisa,quantoonoreaquelloStudio recasse non si può dire. Costui ebbea quelle
scienze pro clive natura, e tanta forza e vivacità d'ingegno > che a
sermonare e discorrere di materie mediche efilosofichepareanatoaposta.Fu
e'diAlbiano di Lunigiana, e divenne lettore in detta Univer sità nel 1682 ; e
così bene in cattedra sue dottri ne tratto, che per lo più savio discepolo del
M a r chetti e del Bellini, cattedranti nobilissimi, tutti lo conoscevano.
Nulla ignoto eragli di quanto G a lileo e Gassendo aveansi
ritrovato, e sostenitore acerrimo fu della filosofia corpusculare. Per ques
stoguerra eterna pareva intimata avesse a tutti li Peripatetici e Scolastici
ostinati; che ligii si di chiaravano agli antichi sistemi, quali adesso ricor
dansi appenanelle scu ole de'monasteri. Per lo che il Giannetti futenuto per
uno de'più arditi e co raggiosisostenitori degli insegnamenti novelli e assai
molesto riuscì a'superstiziosifilosofanti, ma in particolar modo ai Gesuiti i
quali, potendo al loramoltissimopressoCosmo IIIde'Medici,fece ro in grave
sospetto cadere di errori di religione il Giannetti non solo, ma quasi tutta la
Pisana Università. Per tale cagione , sendo state forti let tere scritte e minaccevoli
ai professori con ordi nare,chenon volevasifilosofiademocratica,ilGian netti,
cui sapea benissimo delle persecuzioni altrui schermirsi e rintuzzare le
dicerie degli imperiti con la dotta e mordace sua lingua, difese con trion fo
la causa per iscrittura,nè mai digua proposta sentenza cesso. Finalmente
costretto nel 1706 di mutarcattedraedileggeremedicina,non ostan te filosofava
su i nuovi sistemi anche interpretan do gliaforismid'Ippocrate e di Galeno,e
men tre con eloquio squisito e con pompa di erudizio ne le materie mediche
spiegavà,senza punto de nigrare alla gravità della scienza e del loco ; l' al
trui cabale e leggerezze con vaghi scherzi e argu ti motti derideva. Moltissimo
ancora si adoperò in fisiciani sperimenti e nelle savie cure di Michela gnolo
Tilli per ogni maniera di lode famoso : nè mezzanamente sidistinse insieme con
lo Zambes cari di Pontremoli suo collega a sperienze fare nti lissime su le
terme del territorio Pisano e Luriena se,che servirono ad ambeduni di grande
merito. Intra le altre fece minute prove su l'acqua salsa di Monzone di
Lunigiana, e trovolla più efficace di quella del Tettuccio di Valdi Nievole, e
poteró 183 Viri Paschasii Giannelli Albianeusis Philosoph. et
Medicin, in Pisau. Acudem . Professoris logeniiacumine eloquen.et ingenua
philosoph. libert. Quam difficillimis temporib, fere solus inter Acadlem.
retinuit ConcesseratAun.S. MDCCXXXXII. Thomas Perelliuspraecept.et Amico DI
PIER CARLO VASOLI Io non posso tacere di aver molte cose rica vato diquesto
librodalle fạtiche e dagli scritti di questo Pier Carlo Vasoli di Fivizzano, il
quale sembra avesse in mente d'illustrare sua patria , e però non deggio
scordarmi di retribuirlo di grata inemoria, tanto più che molto distinto riuscì
nel la medicina e buon coltivatore della poesia. Q u e
stouomoerudito,comeraccontaincertosuoEr bariolo Lunense m . s., avendo studiato
prima a Bolognae poiaPisaallascuoladelcelebreMar cello Malpighi, dove si
dottorò verso la fine del 184 si estrarre il sale catartico a guisa di
quel d' In ghilterra , se non venisse incautamente adulterata. Benespesso
Pascasio dilettavasi d'investigare le azioni è i consigři degli uomini più che
i segreti dellanatura,equasi Epicuro con aspreparoleab batteva i vizi ele
inezie altrui. Mente profonda mostrò in tutto, ma poca industria: e vivendosi
fino alla vecchiezza, dopo 57 anni di lettura in quella Università, nel 1742
morì in una villetta che avea a Capannoli su quel di Pisa, e sepolto
nellachiesadiquellaterra,fugliperTommaso Pe relli suo scolare messo questo
marmo sopra il se polcro, riferito ancora da inonsignor Fabroni in sua stor.
dell'Univ. Pis. tom . 3. dove parla del Giannetti: = Pijs Manibus et Memoriae
aeternae Cum paucisaetatis suae comparandi Obiit Octuagenario major in proxima
Villula In quam post impetratam a docendo vacationem D. S. O. M. P. GIANNETTI,
Pascasio. - Nacque, da Polidoro, ad Albiano Magra di Aulla in Lunigiana, il 2
ag. 1661. Avviato agli studi filosofici, li coltivò, insieme con quelli
medici, presso l'Università di Pisa, dove era ben viva la tradizione galileiana
e, in fisica e in medicina, era ben rappresentata la corrente
meccanico-corpuscolarista. Fu il gruppo di docenti formatisi alla scuola di
G.A. Borelli a istradarlo verso questa tradizione concettuale; soprattutto A.
Marchetti, L. Bellini e D. Zerilli lo introdussero allo studio delle opere,
oltre che di Galilei, di Gassendi e del Borelli. Parallelamente, il G. attinse
da G. Del Papa gli stimoli di un diverso indirizzo, anch'esso presente
nell'ateneo pisano, teso a far convivere, soprattutto in campo medico, il
galileismo con esigenze di ordine pratico. Laureatosi il 30 maggio 1682
in filosofia e medicina (promotore fu il Del Papa), il G. ottenne nello stesso
anno la lettura di logica, che conservò fino al 1686, per passare poi a quella
di filosofia naturale. Il suo magistero, argutamente antiaristotelico e
apertamente atomistico, dovette risultare piuttosto efficace. Quando, verso il
1690, si delineò una reazione generale della Chiesa contro quelle
interpretazioni dello sperimentalismo considerate arbitrarie e potenzialmente
eversive dell'ortodossia religiosa, a causa dei possibili esiti
materialistico-libertini, il G. fu direttamente coinvolto. Nell'ottobre 1691,
insieme con altri sei lettori pisani, si vide intimare dall'auditore F.M.
Sergrifi di non insegnare la filosofia atomistica. Per nulla intimidito, a
detta di A. Fabroni, il G. alimentò le polemiche che seguirono con un libello,
oggi perduto, in difesa dei lettori ammoniti. Poca sorpresa dovette quindi destare
tra i contemporanei il provvedimento, preso dal governo di Cosimo III nel 1706,
di trasferire il G. alla lettura di medicina teorica, mitigato dal permesso di
tenere lezioni domiciliari di filosofia. Come lettore di questa
disciplina medica, il G. mostrò di voler tenere aperti spiragli per un discorso
"moderno". Lesse gli Aforismid'Ippocrate, proclamandosi così seguace
dell'indirizzo che privilegiava la pratica clinica sulle questioni di teoria
medica, ma nel commentarli continuò a seguire i novatori. In particolare,
a quanto sembra, già in questa fase i motivi galileiano-gassendiani si erano
venuti in lui incrociando con motivi della dottrina newtoniana. Da questa aveva
recepito la tesi della struttura porosa della materia, che, attraverso
l'ipotesi dei diversi ordini di combinazione dei corpuscoli, è assunta come
matrice delle qualità macroscopiche dei corpi. È probabile che una delle fonti
attraverso le quali il G. venne a conoscenza della teoria newtoniana sia stata
il padre camaldolese G. Grandi, suo buon amico (Ortes ci riferisce che il
Grandi "solea frequentemente conversare" nella casa del G.), ma, a
differenza del Grandi, il G. non dovette essere pienamente in grado di
coglierne l'impalcatura matematica, tanto da ritenerla conciliabile con la distinzione
gassendiana tra punto matematico e punto fisico. All'inizio del secondo
decennio del XVIII secolo il G., insieme con B. Bresciani, G. Averani e altri,
fu coinvolto dal Grandi nella preparazione della seconda edizione delle Opere
di Galilei (Firenze 1718). Più tardi, alla metà degli anni Venti, il suo nome
venne fatto in alternativa a quello del Grandi quale autore di un libretto
pseudonimo (Q. Lucii Alphei Diacrisis in secundam editionem Philosophiae
novo-antiquae r.p. Thomae Cevae cum notis Ianii Valerii Pansii, Augustoduni
1724), che segnò una nuova occasione di scontro tra i novatori pisani e i
gesuiti del collegio di Firenze. Il libretto, nato come replica alla
prefazione del gesuita M. Dalla Briga al poemetto Philosophia nova-antiqua (Florentiae
1723), del confratello T. Ceva, fornisce una descrizione caricaturale delle
forme di opposizione allo sperimentalismo che, a detta dell'autore, circolavano
nel collegio fiorentino. Non è chiaro se sia da collegarsi a questa
polemica il basso profilo assunto dal G. nel quarto decennio del secolo. La
relazione sullo stato dello Studio che G. Cerati presentò ai nuovi governanti
nel maggio 1738, ci informa che "già da alcuni anni" il G., pur
retribuito, aveva interrotto le lezioni pubbliche e si limitava a dare
privatamente lezioni di filosofia. Il Cerati attribuiva ciò a non meglio
precisate "indisposizioni del corpo", ma l'Ortes attesta che il G.
godette per tutta la vita di ottima salute. Priva di riscontri è la notizia di
una sua adesione alla loggia massonica fondata a Firenze nel 1733, loggia che
però sicuramente accolse un buon numero di suoi allievi. Il G. morì a
Capannoli, presso Pisa, il 28 giugno 1742. Quelle che sembrano essere le
sue uniche opere a noi giunte si trovano a Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. 3098
(Tractatus phisici iuxta recentiorum opinionem conscripti a Paschasio
Giannetto) e a Pisa, Bibl. universitaria, ms. 177 (Philosophiae tractatus,
datato 1714). Fonti e Bibl.: Per la collaborazione del G. all'edizione
fiorentina del 1718 delle Opere del Galilei vedi le lettere di T. Buonaventuri
a G. Grandi, Pisa, Bibl. universitaria, Carteggio Grandi, 85, passim; sei
lettere del G. al Grandi e alcune note di argomento fisico ibid., 92, cc.
19r-28v; Acta graduum Academiae Pisanae, II, a cura di G. Volpi, Pisa 1979, p.
549; G. Ortes, Vita del padre Guido Grandi, Venezia 1744, pp. 111-113, 133,
157; G.A. De Soria, Raccolta di opere inedite, Livorno 1773, pp. 190-192; A.
Fabroni, Historiae Academiae Pisanae, III, Pisis 1795, pp. 410-413; F. Sbigoli,
Tommaso Crudeli e i primi framassoni in Firenze, Milano 1884, p. 71; N.
Carranza, Monsignor Gaspare Cerati provveditore dell'Università di Pisa nel
Settecento delle riforme, Pisa 1974, pp. 85, 338, 362; Storia dell'Università
di Pisa, Pisa 1993, pp. 143, 153 s., 520; M.A. Morelli, Per una storia di
Andrea Bonducci, Roma 1996, pp. 14 s., 166 s., 230; Id., A Livorno nel
Settecento, Livorno 1997, pp. 23, 62, 79.Pascasio Giannetti. Gianetti.
Keywords: corpuscolarismo, implicature corpuscolare, Isaaco Newton, Galilei,
Grandi, Giannetti -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giannetti: implicatura
corpuscolare – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757992274/in/dateposted-public/
Giannetta search – another time?
Grice e
Giannone – la terza Roma – e l’implicatura ligure – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Ischitella). Filosofo. Grice: “Giannone is an interesting
philosopher. He philosophised on the ‘citta terrena,’ which is a back-fromation
from ‘celestial city,’ and by which he meant Rome! – Then he compared men – in
their collectivity, to apes, even if ingenious ones!” “Non solo i corpi, ma, quel che è più, anche
le anime, i cuori e gli spiriti de' sudditi si sottoposero a' suoi piedi e
strinse fra ceppi e catene.” Esponente di spicco dell'Illuinismo italiano, discendente
da una famiglia di avvocati (anche se il padre era uno speziale), lasciò il
paese natale per intraprendere gli studi a Napoli. Si laurea entrando ben
presto in contatto con filosofi vicini a Vico. Fu praticante presso Argento,
che disponeva di una vasta biblioteca, la frequentazione della quale fu essenziale
per la sua formazione. I suoi interessi non si limitarono soltanto al
diritto ed alla filosofia, appassionandosi anche agli studi storici e
dedicandosi alla stesura della sua opera storica più conosciuta Dell'istoria
civile del regno di Napoli, che gli causò tuttavia numerosi problemi con la
Chiesa per il suo contenuto. Costretto a riparare a Vienna, ottenne
protezione e sovvenzioni da Carlo VI, il che gli permise di proseguire
indisturbato i suoi studi filosofici. Il suo tentativo di rientrare in patria
fu ostacolato dalla Chiesa, nonostante i buoni uffici dell'arcivescovo di
Napoli recatosi a Vienna per convincerlo a tornare a Napoli. Fu costretto a
trasferirsi a Venezia dove, apprezzatissimo dall'ambiente culturale della città,
rifiutò sia la cattedra a Padova, sia un posto di consulente giuridico presso
la Serenissima. Il governo della Repubblica lo espulse, dopo averlo
sottoposto a stretti controlli spionistici, per questioni inerenti alle sue
idee sul diritto marittimo e nonostante la sua autodifesa con il trattato
Lettera intorno al dominio del Mare Adriatico. Dopo aver vagato per
l'Italia (Ferrara, Modena, Milano e Torino), giunse a Ginevra, dove compose un
altro lavoro dal forte sapore anticlericale “Il Triregno: il regno terreno, il
regno celeste, e il regno papale, che gli costò nuovamente la persecuzione
delle alte sfere ecclesiastiche culminate con la sua cattura in un villaggio
della Savoia, ove fu attirato con un tranello. Rimasto nelle prigioni
sabaude, fu costretto a firmare un atto di abiura che non gli valse tuttavia la
libertà. Fu tenuto prigioniero nella fortezza di Ceva, dove scrisse alcuni dei
suoi componimenti più famosi. Trasferito alla prigione del mastio della
Cittadella di Torino. +“Dell'istoria civile del regno di Napoli” ebbe enorme
fortuna mentre la Chiesa ne avversò le tesi ponendola all'Indice dei libri
proibiti, comminando al filosofo una scomunica la quale obbligava Giannone a
riparare all'estero. I temi trattati nell'Istoria, sviluppati su precisi
riferimenti giuridici, forniscono una lucida descrizione dello stato di degrado
civile del Regno di Napoli, attribuendone le cause all'influenza preponderante
della Curia romana. Auspica in primis con quest'opera, «il rischiaramento delle
nostre leggi patrie e dei nostri propri istituti e costumi». Nel
Triregno, opera aspramente avversata anch'essa dagli ambienti ecclesiastici, presenta
la religione secondo un prospetto evolutivo: la Chiesa, col suo "regno
papale", si contrappone al "regno terreno" degli Ebrei ma anche
a quello "celeste" idealizzato dal Cristianesimo e il superamento del
male, che lo Stato Pontificio così incarna, si realizzerà soltanto attraverso
un cambiamento di rotta deciso, mediante ulteriore consapevolezza individuale
raggiunta dall'uomo nel corso della sua vicenda Storica. Indi teorizza uno
Stato laico capace di sottomettere l'istituzione papale, anche mediante
un'espropriazione dei beni materiali del clero. La Chiesa porta avanti una
forma di negazione di quella libertà individuale che deve essere posta come
fondamento giuridico e sociale. Al filosofo sono intestati vari istituti
scolastici, tra cui lo storico Liceo classico Pietro Giannone di Caserta,
quello di Benevento, quello di Foggia, e quello di San Marco in Lamis. Nel Capitolo settimo della Storia della
colonna infame, Manzoni dedica al Giannone ampio spazio elencandone i
numerosissimi plagi e gli errori che anche Voltaire gli rimprovera. Inizia
paragonandolo a Muratori e indicandolo come "scrittore più rinomato di
lui", poi aggiunge un lungo elenco (e raffronto) delle opere plagiate e
degli autori, tra cui Nani, Sarpi, Parrino, Bufferio, Costanzo e Summonte:
"...e chissà quali altri furti non osservati di costui potrebbe scoprire
chi ne facesse ricerca". E conclude che se non si sa se fosse "pigrizia
o sterilità di mente", fu certo "raro il coraggio". Altre
opera: Autobiografia: i suoi tempi, la sua prigionia, appendici, note e
documenti inediti, Augusto Pierantoni, Roma, E. Perino, I discorsi storici
sopra gli Annali di Tito Livio, Apologia dei teologi scolastici Istoria del
pontificato di Gregorio Magno, “L'Ape ingegnosa” “Istoria civile del Regno di
Napoli. 1, Napoli, Giovanni Gravier); Pietro Giannone, Istoria civile del Regno
di Napoli. 2, Napoli, Giovanni Gravier, Pietro Giannone, Istoria civile del
Regno di Napoli. 3, Napoli, Giovanni Gravier, Pietro Giannone, Istoria civile
del Regno di Napoli. 4, Napoli, Giovanni Gravier, Pietro Giannone, Istoria
civile del Regno di Napoli. 5, Napoli, Giovanni Gravier, aprile. Note
Pietro Giannone, Istoria civile del regno di Napoli, Capolago,
Tipografia Elvetica, l Ibidem, note da 80 a 89 Fausto Nicolini, La fortuna di Pietro
Giannone: ricerche bibliografiche, Bari, Laterza, Marini, Il giannonismo (Bari,
Laterza). Vigezzi, PGiannone riformatore e storico. Milano, Feltrinelli, 1Giannoniana:
autografi, manoscritti e documenti della fortuna di Giannone, Sergio Bertelli,
Milano-Napoli, Ricciardi, Giuseppe Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa
di Giannone., Milano-Napoli, Ricciardi, Mannarino, Le mille favole degli
antichi. Ebraismo e cultura europea nel pensiero religioso di Giannone,
Firenze, Le Lettere, Giuseppe Ricuperati, La città terrena di Pietro Giannone:
un itinerario tra crisi della coscienza europea e illuminismo radicale,
Firenze, Olschki, TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Vita scritta da lui medesimo, Feltrinelli, testo in versione digitale
della Biblioteca Italiana, 2003.//filosofico.net/giannone.htm. De'Liguri
duri e forti:loro estensioneinItalia;e come sopra tutti gli altri popoli
tenesseró esercitati i Romani nella disciplinamilitare,sicchèfosserogliultimiad
essersog. giogati. Livio in più occasioni parlando de'liguri,confessa che niuna
provincia esercitò cotanto i romani nella virtù e disciplina m i litare, quanto
la Liguria, poichè dura nelle armi , bellicosa amica di fatiche e di travagli,
e di riposo impazienle , nelle sueguerrenon
tostoerada’romanivintachesorgevapiùani mosaefortediprima:ishostis,velutnatus ad
continendam inter magnorum intervalla bellorum romanis militarem discipli nam ,
erat : nec alia provincia militem magis ad virtutem acue
bat(1).Nonabitavanoiliguri(eciòanche contribuivaalla loro bellicosa indole) in
luoghi piani ed ameni e sotto tempe r a t o e m o l l e c l i m a , il q u a l
e a v e s s e p o t u t o r e n d e r e s i m i l i a s è gli abitatori ; m a
all'incontro occupando essi quella occidental parte d'Italiache ha per confine
laGalliaNarbonense,vivendo in regioni montuose aspre ed inaccessibili, e per le
angustie delle vie acconce a tendere aguali ed insidie; non temevano di
numerosi eserciti, nè d'istromenti bellici , nè di macchine o d'altri apparati
militari, difendendoli il suolo e l'arduità de'loro siti.E perciò essi
militavano senza molto apparecchio mi cidiale:nihil,dice Livio,præter arma
etviros,omnem spem inarmis habentes,erat, Gli antichi liguri erano divisi di
qua e di là delle alpi e d e l l ' a p p e n n i n o in m o l t i p o p o l i o
s i e n o c o m u n i t à , n o n a l t r i m e n t i di ciòche si èdeltodegli
antichi etruschi, ed occupavano va stissime regioni. Le alpimarittime e gran
parte delle medi terraneeeranodaessipopolate.Dilà dellealpiipiù celebri furono
i liguri salii, i deceali e gli oxibi ; di qua furono i
vedianzi,ivagienni,glistatielli,imagelli,gli eburiati, (1)Dec.
IV,lib.9,inprinc. 265 > 266 i veliati , i tigulii,
gl'ingauni , i salassi , i libici, i lau riniedaltri.Livio,oltrequestipopolida
Pliniorapportati fa menzione di altri liguri posti di qua dell'appennino chia
mati Apuani, i quali vinsero i romani e debellarono un eser cito consolare
sotto Q. Marzin console , e nota che il luogo della sconfitta fino a'suoi tempi
chiamavasi perciò il campo Marziano:famemoriaancora dialtriliguridilàdell'appen
nino ch'egli chiama ligurifrisinati. Questi popoli aveano più città o vichi,
dove dimoravano ciascuno nel proprio distretto ; e fra le città son da
considerarsi alcune antiche ed illustri le quali, secondo la divisione
dell'Italia fatta poi da Augusto in undici regioni, formavan parte della XI.
Nella Liguria rivoltaal mare inferiorediquà delfiume Varo, che divide l'Italia
dalla Gallia Narbonense , la prima città marit timaches'incontravaerade'ligurivedianzi
chiamata Cime lion. Prossima a questa i massiliesi edificarono Nicea , oggi
detta Nizza, alle radici delle alpi marittime, non lontana dalle foci del fiume
Varo, che poi crebbe dalle ruine di Cimelio , cittàantichissima,la quale ebbe
vescovi prima che da Costan tino Magno fosse stata la religione cristiana fatta
ricevere nel l'imperio. Rimangono ancora le vestigia de'suoi ruderi ed il nome
di Cimelio: l'anticasua cattedra fu unita a quella di Nicea, la quale non si
appartiene già al la Gallia Narbonense , siccomealcunicredeltero,ma
secondoPlinio,Tolomeoedaltri geografi antichi, alla nostra Italia, c o m e
quella che è costrutta di qua del fiume Varo.Antipoli fondata pure
da'massiliesi si appartienealla GalliaNarbonense,perchèerettadilàdelfiume: essa
lungo tempo fu sotto i massiliesi loro fondatori, ed ora sotto ire di Francia è
chiamata Antibo. Appresso Nicea nel mar li gustico siegue Monaco detta dagli
antichi Porto di Ercole, indi AlbioInlemelio,Albingauno,Savona,Genua,Porto
Delfino Tigulia, e più in dentro Segesta città de'liguri tigulii. Chiude questo
confine il fiume Macra che da questa parte divide la Liguria
dall'Etruria. 9 > > ? Dall'altra parte mediterranea ove si erge
l'appennino ,ampio monte il quale con gioghi perpetui e continuali fino allo
stretto Siciliano divide l'Italia per mezzo , avevano i liguri di qua e di l à
d e l m o n t e m e d e s i m o 'n o b i l i s s i m e c i t t à ; e s p e c i
a l m e n t e d a u n > lalo del Po Libarna , Dertona , Iria ,
Barderate , Industria , Polentia, Potentia, Valentia,ed Augusta de'liguri
vagienni. Quest'ultima città posta alle radici delle Alpi Cozie , non molto
lontana dal monte Vesulo d'onde ilPo ha sua origine, fu dappoi resa colonia
de'romani. Non ci rimane ora di essa alcun ve stigio, ma insua vece surse al
luogo stesso ne'secoli da noi men lontani la città di Saluzzo sede un tempo di
principi e capo del famoso 'marchesato di Saluzzo , la quale in fine da
GiulioImeritòesserdecoratadelladignitàepiscopale.Ma sopra queste s'innalzarono
nella Liguria tre città non meno antiche che illustri,Alba Pompeia,Asta,ed Aqui
cittàde'liguristatielli. Alba posta nella Liguria montuosa presso l'Appennino
nellarivadelfiume Tanarofudagliantichigeografichiamata Pompeia, e per
distinguerla da Alba degli Elvii posta nella Gallia Narbonense, e per aver
quella G. Pompeo rifatta e la sciati ivi vestigi di sua memoria e beneficenza.
Ebbe vescovi antichissimi,poichè rapportasi ilprimo tra questi essere stato
nell'anno 350 S. Dionigi discepolo di S. Eusebio, poi innal zato alla cattedra
di Milano. E ne'secoli men remoti vi se dettero due uomini insigni che
laillustrarono, uno per la pru denza civile,e fu Lazarino Fieschi de'Conti di
Lavagna , al quale la regina di Napoli Giovanna contessa di Provenza nel 1350
commiseilgovernodelPiemonte,daluiquindiammi nistratoconsomma
lodeecommendazione;l'altropersapienza é somma dottrina ed erudizione, qual fu
il famoso Girolamo Vida,quelchiarissimopoetalatinochecilasciò l'incompara
bilesuaCristeideedisuoidottidialoghiDe Republica. Acqui posta alla riva della
Bormida in quella parte del Piemonte di là del Tanaro ,la quale Monferrato oggi
si ap pella, fa edificatada’liguri statielli popoli potentissimi della
267 > Asla posta nella Liguria mediterranea non lontana dal Tanaro
furesacoloniade'romani,edun tempofuseded’unodeglian tichi duchi longobardi.
Ebbe anch'essa antichissimi vescovi,i quali quando l'imperio di Occidente passò
a'germani , furono dagli imperatori molto favoriti ed a sommi onori innalzati;
e non poco splendore recò a quella città aver seduto nella sua cat tedra
vescovileilfamoso Panigarola,chiaroalmondo eloquenza e per tanti monumenti che
lasciò di sua dottrina. > per lasua montuosa Liguria. Fu detta
Acqui dalle acque calde che quivi scaturiscono assai salutifere , siccome oltre
la testimonianza diPlinio,l'istessaesperienza dimostra:efuchiamataAcqui
de'liguri statielli, per distinguerla dalla Acqui sestia de' Salii posta nella
provincia Narbonense . Fu anche sede di uno de'Duchi longobardi; ma la sua
cattedra non è cotanto an tica quanto le due precedenti come quella che prende
sua ori gine da'longobardi che furonoi primi ad erigerla. I liguri si
stendevano anche di là del Po , é molte città le
qualisecondoladivisioned'ItaliafattadaAugusto sono col locate nella XI regione
alle radici delle Alpi , anche da'liguri traggon l'origine. Le prime che
s'incontrano sono Vibiforo e Secusia, oggi detta Susa , le quali furon poi
mutate in due colonie romane.Anche Torino Plinio fa derivare dall'antica
stirpede’liguri;antiquaLigurum stirpe,egliscrisse(1)edisse il vero, poichè
coloro che la fan derivare da'massiliesi , sica come Nicea ed Antipoli, vengono
a togliere a questa città molto della sua antichità. Non è dubbio che i liguri
sieno popoli d'Italiatantoantichi,chediessinon sisal'origine,onde sicredono
indigeni del paese, nè mischiati con altrefore stiere nazioni , non altrimenti
che Tacito credette de' ger mani : all'incontro de'massiliesi si sa l'origine
ed il tempo nel quale profughi dalla Focide navigando nel mare inferiore e
cercando nuove sedi,si fermarorro ne'lidi della Gallia Nar bonense innanzi
detta Bracata. Ciò avvenne , secondo la te stimonianza di Livio (2), mentre in
Roma regnava Tarquinio Prisco,quando laprima voltaigallipassaronoleAlpi,iquali
dopo aver soccorso i massiliesi contro i salii che impedivano loro lo sbarco,
se ne calaron pe' monti Taurini dalle Alpi Giulie nell'Insubria ,
discacciandone gli etruschi. Livio stesso ri ferisce che a'medesimi tempi i
salluvii avendo passate le Alpi , si posarono intorno al fiume Ticino vicino a
’ liguri levi , anticagenteed indigenadique'luoghi.Salluvii, e'dice,qui, præter
antiquam gentem Levos ligures, incolentes citra Ticinum amnem , expulere. Se
dunque i liguri, chiamati da Livio gente antiea, quando i massiliesi poser
piede nella Gallia Narbo (1)Lib.III,cap.17. (2 ) D e c , 1, lib . 5 .
> > > 268 > nense tenevano questi luoghi ; più antica
sarà l'origine di T o rino derivandola da’liguriche da'massiliesi,iqualisiccome
molti e molti anni dappoi che furono stabiliti in Massiglia fon darono Antipoli
e Nicea , molto maggior tempo appresso avreb ber dovuto fondare Torino più
lungi che quelle.Si aggiunge che quando Anoibale calò per le Alpi in Italia ,
secondo rapporta Livio (1),Torino eragià metropoli degli antichi popoli
Taurini,i quali reggendosi per se slessi aveano allora mossa guerra agl’in
subri,ericusaronol'amiciziadiAnnibalecontrastandogli corag giosamente il passo,
che egli sforzò a gran fatica.Inoltre Livio stesso rende testimonianza che la
prima volta in cui i romani ? mosser guerra a’liguri fu per occasione che
questi depredavano i campi di Nicea e di Antipoli , ciltà de'massiliesi soci
de’ro mani ,e non già i campi di Torino, la qual città perciò non era
de'massiliesi, ma abitata da’ liguri taurini. Furono questi popoli chiamati
Tauriniche dieder nome alla città, siccome i monti a piè de'quali essa è posta
furono anche detti Taurini, a cagione che dagli antichi i gioghi de *monti
erano chiamati Tauri per la figura che sogliono avere simili a'dorsi o alle schiene
di tori, ond'è che quel celebre monte che divide la Siria dal rimanente
dell'Asia fu chiamato Tauro sic come alcuni altri popoli presso Plinio ed altri
antichi geografi son chiamati anch'essi Taurini specialmente nella Scizia, per
chè abitano presso i monti anticamente appellati Tauri. Ri dottipoiquesti
popoliliguri sottolasoggezionede'romani, Augusto ingrandi la città, che perciò
venne poi detta Augusta Taurinorum , non altrimenti che Lutetia Parisiorum
da'parisii popoli della Gallia Lugdunense che l'abitavano. Ebbero i liguri
salassi anche in questa XI regione un'altra città, chiamata da Strabone ,
Plinio, Tolomeo ed Antonino Augusta Prætoria (ora detta Aosta) per distinguerla
dall'altra Augusla de'liguri vagienni già menzionata : è posta frà le due facce
delle Alpi Graie e Pennine . Furon le prime dette da' greci Graie per lo
passaggio di Ercole (nisi de Hercule fabulis
crederelibet,comesaviamentedicePlinio),eleseconde (sic c o m e v o l g a r m e
n t e si c r e d e v a ) d a l p a s s a g g i o d i A n n i b a l e c o ' s u
o i 269 ! > (1)Dec. III,lib.1.
cartaginesifuronchiamatePoenine,secondoavvisòanchePlinio, benchèLivione
dubiti.Checchèsiadiciò,èda osservarsi che da questa Augusta Prætoria , essendo
per la sua situazione laprima cittàd'Italia,gliantichigeometriprendevanlamisura
della lunghezza di questo nostro paese , tirando una linea per Capua fino a
Reggio, ultima città sullo stretto siciliano (1). Fu dessa ancora città famosa
ed illustre a'tempi de're longo bardi, quando questi tennero il regno
d'Italia.Ad Eporedia , città posta nella stessa regione all'imbocco della Valle
Augustana edalleradicidelleAlpi,oggi dellaIvrea,Pliniodà,senon così
anticaorigine,nulladimenounaassaipiù illustre,scrivendo che fu da”romani
fondata per impulso degli dei, secondo che
da'librisibillinierastatolormostrato:Oppidum Eporediam,
e'dice,SybillinislibrisaPopuloRomano condijussum(2).Fu antica colonia romana ,e
perciò cotanto memorata da Cicerone, Strabone, Tacilo e da altri romani
scrittori. Vercelli anche secondo Plinio dee riconoscere la sua origine
da'liguri sallii poichè egli scrive: Vercelle Libicorum ex Salliis ortæ. E se
dobbiamo prestar fede al vecchio Catone, Novara anche da’li guri ebbe origine,
quantunque in ciò Plinio discordi, facendola derivare da' vocontii popoli della
Gallia Narbonense. Questa era l'aptica Liguria che occupava tutta quella gran
parte d'Italia occidentale, la quale poscia dal tempo che cangia emuta
inomi,ilinguaggi,icostumi,iconfinietutto,sorti altre divisioni e nuovi domini .
Furon poi queste regioni chia
mateLanga,Monferrato,l'Astegiana,Piemontesuperiore,Mar chesato di Saluzzo,
Piemonte inferiore ovvero tratto Torinese, Canavese,ValleAugustana,Vercellese e
Biellese.Molti tra vagli i romani sopportarono per sottoporre tanti popoli
liguri, poichè questi duri nelle armi e difesi da'luoghi inaccessibili si
mantenner liberi, nè prima degli ultimi tempi della romana repubblica furono ad
essa soltomessi. I romani cominciarono a sperimenlarli nelle armi dopo che si
erangiàresiformidabili inItaliaedaltrove,dopocheebbervinto Pirro re di Epiro e
lui costretto a ritirarsi nel suo regno , e dopo che nella prima guerra punica
il console C. Lutazio diede > ! (1) Plin., Hist. nat.lib. II , cap. 5.
(2)Plin.lib.I,cap.17. 270 a'cartaginesi quella terribile rotta
nelle isole agale, per la quale costoro furono forzati a chieder pace a'romani.
Allora , finita questaguerra,ivincitoricominciaronoamuovere learmicontro i
liguri intorno alla metà del sesto secolo di Roma . Livio , n e l l a s e c o n
d a s u a d e c a , s e g u e n d o il s u o c o s t u m e , n e a v r e b b e
certamentefattoconoscereleminute circostanze,ma questa deca interamente ci
manca .L. Floro nell’Epitome ne rammenta ilprincipio dicendo: Adversus
ligurestuncprimum exercitus promotus est. Ma da altri scrittori romani e da ciò
che Livio stesso scrisse nella III e IV deca,lequali per buona sorte ciri
mangono , è facile il conoscere che fin qui i romani non profittarono niente
sopra i liguri, poichè è anche fuor di dubbio che nel principio della seconda
guerra punica quando Anni bale passòleAlpi,iliguri gli
prestaronoaiutocontroiromani; e Livio nel primo libro della III deca parra, che
col loro fa. vore prese Annibale per insidie due questori romani con due
tribuni de'soldati e cinque figliuoli de'sanniti dell'ordine eque stre.Nè dopo
scacciatoAnnibaled'Italiasiperderonodianimo, sicchè non tenessero continuamente
esercitati i romani nelle a r m i . D e c l i n a n d o il s e s t o s e c o l
o d i R o m a , a m b i d u e i c o n s o l i C. Flaminio contro i liguri
frisinati ed apuani (i quali scor r e v a n o f i n o n e ' c a m p i P i s a n
i e B o l o g n e s i ), e M . E m i l i o c o n t r o glialtriliguridiqua
dell'Appennino, furono destinati con due eserciti consolari a soggiogarli: e
sebbene ciò avessero i consoli menato ad esecuzione, non mancaron quelli di
risorger poi più animosi e forti che prima , sicchè fu d'uopo nel s e
guenteannoa'successoriconsoliQ. MarzioePostumio,dopoche questi sispacciarono
dalle inquisizioni de'baccanali, riprender la guerra , la quale a Q. Marzio
riusci pur troppo infelice , poichè colto ilsuo esercito da'liguri
apuanifraluoghistreltie
dificili,fudissipatoinguisache,siccomescriveLivio(1),qua
tuormilliamilitumamissa,etlegiunissecundæsignatria,undecim vexilla sociorum ac
Latini nominis in potestatem hostium venerunt, et arma multa,quæ quia
impedimento fugientibusper silvestres semitas erant, passim jactabantur: prius
sequendi Ligures finem quam fugæ Romani fecerunt. Marzio fuggi dunque col
residuo (1)Dec.IV,lib.9. - 271
delsuoesercito:nonlamen,soggiunge Livio,obliterarefa mam
reimalegestepotuit;nam saltus,undeeumLiguresfu gaverant,Martiusestappellatus.Nè
minorifuronoglisforzi ne'seguenti anni de'consoli successori, Sempronio che
pugnò contro iliguri apuani ed Ap.Claudio controiliguriingauni.
Inbreve,diceLivio(1),eragiàridottoincostume"non de
cretarsia'consolialtraprovinciasenon quellade'ligurionde erano quelli spesso
intenti a formare nuove legioni per poter abbattere sì valorosi inimici;laqual
cosa non ebbe effetto se non sotto L. Emilio Paolo il quale (essendogli stata
proro gata la consolare potestà) con potente esercito spedito contro i liguri
ingauni ottenne su questi piena viltoria, siccome più tardi M. Bebio l'ottenne
su’liguri apuani .E finalmente soltanto verso la fine del secolo, insieme con
gl'istri, co' galli cisalpini e con le genti alpine, furono i liguri sottomessi
a'romani (2): de’liguri in fatti primieramente trionfo C. Claudio console
l'apno 578 , e ne'posteriori anni furono quelli poscia del tutto debellati(3).Di
questa costanzaedabitode'liguriallefatiche della milizia ed a soffrire
patimenti e disagi, ben si accorse A n n i b a l e , il q u a l e p a s s a t e
l e A l p i , n e l l e s u e p r i m e p u g n e c o n tro i romani, più che
in altro popolo e più che ne'cartaginesi stessi,poseogni
fiduciane'liguride'quali sivalse.E quando profugo da Cartagine ricovrossisotto
Antioco re della Siria, il q u a l e a l l o r a a v e a g u e r r a c o ’ r o
m a n i , il p i ù s a n o c o n s i g l i o c h e a quel principe pole dare,
siccome Livio scrisse (4), fu che dovesse attaccare in due parti i romani
dividendo in due classi lanumerosasuaarmata,eduna,dellaqualefossestato An tioco
stesso il comandante e l'ammiraglio, diriger nella Grecia per discacciarne i romani
, l'altra, dellả quale egli stesso A n nibale sarebbe stato il capitano supremo
, dopo avere stretta lega co'cartaginesi, con le navi di questi inviare nel mar
li gustico; poichè pensava che sbarcata la sua gente nella Li guria, egli
fidando mollo nel coraggio e valore de'liguri osti nati difensori della loro
libertà contro i romani , bene avrebbe . 272 (1)Dec. IV,lib.10,inprinc.
(2)Dec. IV,lib.10,et Dec. V, lib.2. (3)Florus Epit.,lib.7,Dec. V. (4)Dec. IV.
> 273 . potuto unendo le armi liguri alle sue portar nuova
formidabil guerra in Italia e porre nuovo assedio fino alle mura di Roma
istessa ; m a quello stolto e vano re non appigliandosi a questo sano consiglio
e volendo piuttosto seguire leadulazionide'suoi
propricapitani,die'cagionealletantesue perditeesconfitte ed alla sua totale
rovina. Ma riguardandosia'secolipiùanoivicini,non dovrà ta cersi un pregio che
rese la ligure provincia assai più gloriosa di quante mai possano vantarsi di
essere state avventurose madri di eroi e di semidei. Si celebrano cotanto
presso i greci e le nazioni tutte del mondo Alcide , Bacco ed Ulisse per le
lunghe loro peregrinazioni, per aver debellato i mostri ,
verteignoteterreescorsiincognitimari.Ma Ercolestesso Chi fu colui che rese
isegni diErcolefavolavile a'naviganti industri? Chi fu colui che rese
navigabili quelli che prima erano inaccessibili ed ignoti mari, e fece palesi
ai noi regni non meno sconosciuli che vasti ? Chi fu colui che spiegando le
fortunate sue antenne ad un nuovo polo , oscurò la fama di Alcide e di Bacco ,
se non il ligure Colombo ? Quanto ben gli si adattano, e con quanta maggiore
proprietà e ragione con vengono à lui quelle lodi che Lucrezio diede al suo
Epicuro , e che dal nostro incomparabile Torquato assai più acconcia mente
furono attribuite al coraggio ed alla grandezza d'animo del Colombo, quando di
lui canto : Unuom dellaLiguriaavràardimento All'incognito corso esporsi in
prima: Nè ilminaccevol fremito del vento, Nè l'inospitomar,nèildubbioclima, Nè
s'altro di periglio o di spavento Più grave e formidabile or si stima, Faran
che il generoso entro a'divieti D'Abila angusti l'alta mente accheti (1).
(1)Ger.lib.c.XV. GIANNONE, Pietro. - Nacque il 7 maggio 1676 a Ischitella
(Foggia), piccolo centro del Gargano, da Scipione (1646-1725), speziale, e
Lucrezia Micaglia (1653-1709). Ebbe quattro fratelli: Francesca (n. 1680),
Vittoria (1685-1735), Carlo (1688-1755) e Teresa (n. 1691). Dopo aver
compiuto i primi studi sotto la guida dell'arciprete del paese, Gaetano Serra,
dal 1691 il G. studiò per due anni filosofia con un frate francescano. Fu
inizialmente destinato allo stato ecclesiastico, ma la famiglia mutò parere e
ai primi di marzo del 1694 il G. si trasferì a Napoli, dove, grazie all'aiuto
del prozio materno, Carlo Sabatelli, iniziò a studiare diritto presso il
procuratore Giovan Battista Comparelli. Nel 1696 divenne allievo di Domenico
Aulisio, sotto la cui guida studiò diritto civile e canonico; iniziò poi gli
studi storici nella Biblioteca Brancacciana e in quella del cardinale Gerolamo
Seripando. Negli stessi anni il poeta leccese Filippo De Angelis lo introdusse
alla filosofia di P. Gassendi e ai classici latini, greci e italiani.
Laureatosi il 4 sett. 1698 all'Università di Napoli, dallo stesso anno il G.
iniziò a frequentare (anche se marginalmente) l'Accademia di Medinacoeli, in
cui conobbe alcune delle maggiori figure della cultura napoletana, fra cui il
giurista e poeta Nicola Capasso, il medico Luca Antonio Porzio, il filosofo
Gregorio Caloprese e il medico Nicola Cirillo sotto il cui influsso abbandonò
la filosofia gassendiana per abbracciare quella di Cartesio. Morto
improvvisamente il Sabatelli nel 1700, il G. iniziò l'attività d'avvocato,
conducendo il suo apprendistato presso Giovanni Musto, ma, insoddisfatto della
sistemazione, si trasferì (su consiglio di don Giovanni Spinelli, che già lo
aveva presentato all'Aulisio) presso Gaetano Argento. Per la formazione
culturale del G. l'incontro con Argento si rivelò fondamentale, poiché a casa
di questo, dal 1702, iniziò a riunirsi l'Accademia de' Saggi, che, proseguendo
l'esperienza della Medinacoeli, riuniva un gruppo di giovani giuristi destinati
a divenire il nerbo del governo napoletano durante il viceregno austriaco. Fu
in quell'Accademia che maturò il progetto d'una nuova storia del Regno, cui il
G. diede il suo contributo iniziando a lavorare all'Istoria civile del Regno di
Napoli. Grazie alla sua attività di avvocato, il G. si garantì un agiato
tenore di vita che gli permise di chiamare a Napoli il fratello minore Carlo e
l'ormai anziano padre. Il G. aveva nel frattempo iniziato una relazione con la
popolana Elisabetta Angela Castelli, da cui ebbe due figli: Giovanni (1715) e
Carmina Fortunata (1721). Anno decisivo per la sua carriera forense fu il 1715,
quando divenne avvocato dei cittadini di San Pietro in Lama in una causa
intentata contro il vescovo di Lecce Fabrizio Pignatelli intorno alla questione
delle decime. In risposta a due allegazioni di Nicola D'Afflitto, avvocato del
vescovo, il G. pubblicò la scrittura Per li possessori degli oliveti nel feudo
di San Pietro in Lama contro monsignor vescovo di Lecce barone di quel feudo
intorno all'esazione delle decime dell'olive, cui seguì, l'anno successivo, il
Ristretto delle ragioni de' possessori degli oliveti. Tali testi, per la
marcata e aperta adesione alle più avanzate tematiche giurisdizionaliste e per
gli ampi riferimenti che il G. faceva alla storia del Regno, provocarono una
forte e vivace discussione e possono considerarsi i suoi primi importanti
lavori. Molto scalpore suscitò nel 1719 la causa in difesa del nipote
dell'Aulisio, Nicolò Ferrara, arrestato due anni prima con l'accusa di avere
avvelenato lo zio. Vinta la causa, come compenso il G. ottenne dal suo
assistito i manoscritti dell'Aulisio, di alcuni dei quali avrebbe poi curato
l'edizione. Nel 1718 a Napoli il G. aveva pubblicato intanto, sotto lo
pseudonimo di Giano Perontino (anagramma del nome del G.), la Lettera scritta
da Giano Perontino ad un suo amico che lo richiedea onde avvenisse che nelle
due cime del Vesuvio in quella che butta fiamme ed è più bassa la neve
lungamente si conservi e nell'altra ch'è alquanto più alta e intera non duri
che pochi giorni. Il breve scritto era frutto degli interessi scientifici che
il G. aveva coltivato sin dal suo arrivo a Napoli (riscontrabili in tutte le
opere sino a quelle del carcere) e dai quali, come avrebbe affermato
nell'autobiografia, s'era dovuto allontanare perché assorbito dagli studi
giuridici e storici. Infatti il G., pur impiegando gran parte del suo
tempo nell'attività forense, lavorava alacremente all'Istoria civile. Fu
proprio per potervi attendere con più tranquillità che, nel 1718, comprò e
restaurò una villa presso Posillipo, detta Dueporte perché si riteneva fosse
appartenuta ai fratelli Giovan Battista e Niccolò Della Porta. Nei cinque anni
successivi la stesura dell'Istoria lo assorbì sempre di più, tanto che i suoi
continui ritiri a Dueporte gli valsero l'ironico soprannome di "solitario
Piero". Alla fine del 1720, l'Istoria civile era ormai pressoché
completata; il G. fece allora trasferire la tipografia di Nicolò Naso nella
villa che il suo amico Ottavio Vitagliano aveva a Posillipo, vicino a Dueporte,
e all'inizio del 1721 cominciò la stampa. Poiché, nonostante l'istruzione
ricevuta, era più avvezzo al linguaggio giuridico (e al dialetto napoletano)
che non all'italiano letterario, il G. chiese allora all'amico Francesco Mela
di rileggere l'opera, volgendola, ove necessario, in buon italiano. Nel marzo
1723 l'Istoria civile del Regno di Napoli vedeva finalmente la luce, in
un'edizione di 1100 esemplari (1000 in carta ordinaria e 100 in carta
reale). Scritta con lo scopo principale di difendere i diritti e le
prerogative dello Stato contro la Curia romana, l'Istoria civile non intendeva
tanto apportare nuovi contributi documentari alla storia del Regno, quanto
offrirne una nuova interpretazione, esaminandone l'evoluzione dalla
disgregazione dell'Impero romano sino al Viceregno austriaco. Il G. non
raccolse (se non per i primi libri) la documentazione direttamente dalle fonti,
ma organizzò quella reperibile in altre opere, in particolare nell'Istoria del
Regno di Napoli di A. Di Costanzo (L'Aquila, Cacchi, 1581), nell'Historia della
città e Regno di Napoli di G.A. Summonte (Napoli 1601-43), nella Historia della
Repubblica veneta di B. Nani (Venezia 1662) e nel Teatro eroico e politico de'
governi de' viceré del Regno di Napoli di D. Parrino (Napoli 1692-94). Il
procedimento gli causò, in seguito, l'accusa di plagio da parte di A. Manzoni
nel capitolo VII della Storia della colonna infame, e poi da tutta la
storiografia neoguelfa, rappresentata, tra gli altri, da G. Bonacci e C.
Caristia. Il giudizio non coglieva l'importanza dell'Istoria civile, che non
stava nella ricostruzione erudita degli eventi del Regno, ma nell'affermazione
del principio dell'autonomia dello Stato. In effetti, se dagli storici
napoletani il G. traeva le notizie necessarie, i modelli storiografici erano
però altri, italiani ed europei. Fra i primi Guicciardini, Sarpi e, soprattutto,
il Machiavelli delle Istorie fiorentine: come quest'ultimo aveva attribuito
alla Chiesa la responsabilità di avere impedito ai Longobardi la realizzazione
in Italia di un forte regno nazionale, così il G. accusava Roma di avere
troncato lo sviluppo dello Stato napoletano, distruggendo l'esperienza
normanno-sveva con la chiamata di Carlo d'Angiò. L'avversione nei confronti
degli Angioini è uno dei temi ricorrenti dell'Istoria civile: alla dinastia
francese il G. imputava di avere diminuito il potere regio, accresciuto quello
baronale, ma soprattutto di aver riconosciuto giuridicamente il Regno come
feudo della Chiesa. A causa di tale acquiescenza verso il Papato, il Meridione
avrebbe consumato il proprio distacco dal resto d'Italia, dove invece le dinastie
regnanti contrastavano apertamente le pretese di Roma. Fra i modelli stranieri
che avevano ispirato il G. erano J.-A. de Thou e U. Grozio, da cui il G.
riprendeva la rivalutazione dei barbari, e in particolare dei Longobardi, visti
come signori nazionali, nemici di Roma e di Bisanzio. Tanto il G. era avverso
agli Angioini quanto mostrava simpatia per gli Aragonesi, i quali, pur fra
incertezze e contraddizioni, avevano tentato di restituire al Regno l'autonomia
dell'epoca normanno-sveva. Con il dominio spagnolo si era concluso tale
tentativo e per questo il G. era fortemente critico verso Madrid,
sottolineandone la politica di sfruttamento nei confronti del Regno. L'Istoria
civile si concludeva con le pagine dedicate al dominio austriaco, nel quale il
ceto civile riponeva le proprie speranze. L'Istoria era dunque un'opera
collettiva, non perché scritta a più mani - come malignamente sostenevano i
nemici del G. -, ma in quanto "opera che raccoglieva e organizzava le
esigenze del ceto civile" (Ricuperati, 1970, p. 163). Con l'Istoria civile
il G. si era proposto di analizzare le ragioni del potere della Chiesa
nell'Italia meridionale e in vista di ciò aveva dedicato ampio spazio all'epoca
longobarda (l'unica per cui il G. ricorresse direttamente alle fonti). Per
dimostrare soprusi e sopraffazioni della Chiesa sul Regno, il G. ricostruiva
l'evoluzione politica del Papato, respingendone implicitamente l'origine
divina; questo atteggiamento verso la religione, interpretata in chiave
esclusivamente politica, rendeva l'Istoriaun'opera del tutto nuova nel panorama
storiografico europeo ma motivava anche l'ostilità di Roma verso il
Giannone. Il 17 marzo 1723 il Consiglio municipale di Napoli (gli Eletti)
concesse al G. una regalia di 195 ducati e lo nominò avvocato generale della
città. Mentre copie dell'Istoria erano inviate a Vienna, a Napoli divampavano
le polemiche. Le autorità ecclesiastiche protestarono perché l'opera non aveva
ottenuto la licenza del tribunale vescovile (il G., in effetti, non l'aveva
chiesta, ritenendola superflua poiché riteneva che l'opera non trattasse
argomenti di giurisdizione ecclesiastica) e alcuni religiosi iniziarono a
tenere prediche contro il Giannone. In seguito a ciò, il potere civile mutò
atteggiamento: il viceré austriaco Friedrich Michael von Althann, che alla fine
del 1722 aveva concesso al G. la licenza necessaria per la pubblicazione
dell'opera, il 12 aprile, in una riunione del Consiglio del Collaterale,
biasimò apertamente gli Eletti, i quali, peraltro, sin dal 7 aprile avevano
congelato i provvedimenti a favore del G., nominando una commissione per
valutare l'opera. Nello stesso tempo, il Collaterale ordinò la sospensione
delle prediche contro il G. e la vendita dell'Istoria. La situazione
volse al peggio al momento del rito di s. Gennaro: poiché il sangue tardava a
sciogliersi, il clero napoletano cominciò a sostenere che il santo fosse
adirato con i Napoletani per la pubblicazione dell'Istoria civile. Contro il G.
si diffusero allora in tutta la città poesie e libelli (diversi dei quali sono
oggi conservati in un codice della Biblioteca nazionale di Napoli), mentre la
curia arcivescovile si preparava a scomunicare l'opera. Ormai era a rischio la
stessa vita del G., il quale, spinto anche dagli amici, decise di recarsi a Vienna
per chiedere la protezione dell'imperatore Carlo VI. Dopo alcune esitazioni, il
1° maggio il G. lasciò Napoli per quella che sperava una breve assenza e che,
invece, sarebbe stata una partenza senza ritorno. Raggiunta in incognito
Manfredonia, da lì si trasferì a Barletta, riparando per alcuni giorni in una
villa del fratello di Niccolò Fraggianni; nel frattempo a Napoli il sangue di
s. Gennaro si scioglieva. Trovata una nave su cui imbarcarsi, il 25 maggio 1723
era a Trieste, il 27 a Lubiana e ai primi di giugno giungeva a Vienna. In
questa città il G. prese subito contatto con alcuni esponenti della numerosa
comunità italiana, fra cui Alessandro Riccardi, Niccolò Forlosia e il medico e
bibliotecario di corte Pio Niccolò Garelli, che portò una copia dell'Istoria
all'imperatore Carlo VI. Nel frattempo, venuto a conoscenza della scomunica
lanciatagli dalla curia arcivescovile di Napoli e della messa all'Indice
dell'Istoria civile (1° luglio), il G. ricominciò a scrivere. Dapprima ritornò
sul trattato Del concubinato de' Romani ritenuto nell'Impero dopo la
conversione alla fede di Cristo, già iniziato a Napoli, poi scrisse due nuovi
trattati: De' rimedi contro le proposizioni de' libri che si decretano in Roma
e della potestà de' principi in non farle valere ne' loro Stati e De' rimedi
contro le scommuniche invalide e delle potestà de' principi intorno a' modi di
farle cassare ed abolire (che confluì nell'Apologia dell'Istoria civile). Negli
ultimi mesi dell'anno la posizione del G. sembrò migliorare. Il 22 ottobre, in
seguito alle pressioni viennesi, la scomunica fu revocata e in dicembre il G.
ottenne udienza da Carlo VI, che l'anno seguente gli concesse una pensione
annuale "sopra i diritti della Secreteria di Sicilia". Egli non
riuscì, però, a ottenere un incarico ufficiale che, come aveva sperato, gli
permettesse di tornare a Napoli in una posizione sicura. Decise quindi di
fermarsi a Vienna e nel 1726 si stabilì nel palazzo della baronessa Therese
Leichsenhoffen von Linzwal, con la sorella minore della quale, Ernestine, aveva
stretto una forte amicizia. Nel frattempo, in Italia apparivano diverse
confutazioni dell'Istoria civile. Nel 1724 fu pubblicata a Roma l'Apologia di
quanto l'arcivescovo di Sorrento ha praticato cogli economi de' beni ecclesiastici
della sua diocesidell'arcivescovo Filippo Anastasio. In risposta Ottavio
Ignazio Vitagliano pubblicò a Napoli, nel 1727, una Difesa della real
giurisdizione intorno a' regi diritti su la chiesa collegiata appellata di S.
Maria della Cattolica della città di Reggio, in cui, pur volendo difendere il
G., finiva invece con il criticarlo. Il G. fu allora costretto a reagire con un
proprio testo, diffuso a Napoli in forma manoscritta. Nel 1728 apparvero a Roma
le Riflessioni morali e teologiche sopra l'Istoria civile del Regno di
Napolidel gesuita Giuseppe Sanfelice: rispetto all'opera dell'Anastasio si
trattava di un lavoro ben più articolato e problematico, tanto che il G. in un
primo tempo aveva deciso di non replicare, ma durante la villeggiatura a
Perchtoldsdorf (nei dintorni di Vienna) scrisse la Professione di fede. L'opera
conobbe una vasta fortuna, testimoniata da un'imponente circolazione
manoscritta, e segnò la definitiva rottura con la Chiesa cattolica. Un'altra
Risposta del G. fece seguito alla pubblicazione delle Annotazioni critiche
sopra il nono libro dell'Istoria civile di Napoli(Napoli 1732) del padre
Sebastiano Paoli, scritte con l'aiuto dell'erudito e antiquario Matteo Egizio,
esponente della parte più moderata del giurisdizionalismo napoletano, non
disposta a seguire la lezione del Giannone. Fallite le speranze di
ottenere un incarico a Vienna, il G. riprese l'attività forense; oltre a
diverse allegazioni per clienti viennesi e napoletani, nel 1725 scrisse il
Ragionamento per il signor don Leopoldo Pilati, in cui difendeva i diritti di
quest'ultimo alla nomina (poi non avvenuta) a vescovo di Trento dopo la morte
di Giovanni Benedetto Gentilotti e, nell'autunno del 1727, il trattato De' veri
e legittimi titoli delle reali preminenze che i re di Sicilia esercitano nel
Tribunale detto della Monarchia, sulla complessa questione del Tribunale della
Monarchia di Sicilia. Al 1731 risalgono due lavori di rilievo: la Breve
relazione de' Consigli e dicasteri della città di Vienna, commissionatagli dal
reggente Domenico Castelli, e le Ragioni per le quali si dimostra che
l'arcivescovado beneventano… sia… sottoposto al regio exequatur, come tutti gli
altri arcivescovadi del Regno, opera scritta su incarico della Città di
Napoli. Nel frattempo, con l'apparizione della traduzione inglese
dell'Istoria civile (The civil history of the Kingdom of Naples, London
1729-31) iniziava la fortuna europea del G. e dell'Istoria. Sin dal 1728 il G.
aveva cominciato a corrispondere regolarmente con gli eruditi tedeschi Siegmund
Liebe e Johann Burckard Mencke, e con il figlio di questo, Friedrich Otto,
iniziando la collaborazione agli Acta eruditorum Lipsensium. Nel 1729 scrisse
la Dissertazione intorno il vero senso della iscrizione "Perdam Babillonis
nomen" posta in una moneta di Lodovico XII re di Francia, da alcuni
creduta coniata in Napoli l'anno 1502, che, tradotta in latino, uscì a Londra
nel 1733 in un'edizione degli Historiarum sui temporis libri XXIV di J.-A. de
Thou. All'inizio degli anni Trenta, il G. era ormai un intellettuale inserito
nel contesto europeo, per i rapporti di collaborazione stretti con esponenti
della cultura inglese e tedesca e per la sua conoscenza, maturata in quel
periodo, delle opere che meglio rappresentavano quelle culture. In tal senso,
un ruolo fondamentale aveva avuto la frequentazione con il principe Eugenio di
Savoia, nella cui ricchissima biblioteca il G. aveva letto i più importanti
testi del pensiero libertino e radicale europeo. Da queste sue fertili
frequentazioni nei primi anni dell'esilio viennese derivò il progetto della sua
opera principale, il Triregno, iniziata nell'estate del 1731, durante una
villeggiatura a Medeling, e le cui prime due parti erano quasi terminate due
anni più tardi, nel 1733. Il Triregno si articola in tre parti: nella
prima, il Regno terreno, il G. studia la religione ebraica e sottolinea come in
essa non si conoscesse un aldilà, in quanto al popolo ebraico si prometteva
esclusivamente il dominio sugli altri popoli senza alcun riferimento a mondi
ultraterreni. Quello che Dio aveva promesso all'uomo nella Genesi era, dunque,
esclusivamente un regno terreno. Nel successivo Regno celeste l'attenzione del
G. si sposta al cristianesimo delle origini: studiando i testi neotestamentari,
mette in evidenza come fosse stato il cristianesimo a introdurre l'idea di un
mondo ultraterreno cui i fedeli erano destinati dopo essere stati giudicati
sulla base delle loro azioni mondane. Il Regno papale, l'ultima parte, riprende
il discorso iniziato nell'Istoria civile sulle origini del potere del Papato:
dopo i primi secoli vissuti in conformità con l'insegnamento evangelico, i
pontefici, approfittando della decadenza del potere imperiale dopo Costantino,
costituirono il loro Regno sul principio della superiorità rispetto agli Stati
mondani. Nella composizione del Triregnoconcorrevano diverse tradizioni:
la fondamentale esperienza del libertinismo erudito, con cui il G. era entrato
in contatto negli anni della sua prima formazione napoletana, per influenza
dell'Aulisio, dal quale il G. comprese l'importanza della storia ebraica. Molti
temi delle Scuole sacre - l'opera di Aulisio uscita postuma nel 1723, pochi
mesi dopo l'Istoria civile - ricomparivano, infatti, nel Triregno, filtrati
dalle conoscenze acquisite a Vienna: la storiografia protestante tedesca
(particolarmente evidente nel Regno celeste, dove forte è l'influenza delle
Origines, sive Antiquitates ecclesiasticae di Joseph Bingham e delle
Observationes sacrae di Salomon Deyling) e, soprattutto, il deismo europeo
postspinoziano. In questo senso importante era stato il rapporto con gli
scritti di John Toland (in particolare le Lettere a Serena, Origines Iudaicae e
Nazarenus), dai quali il G. trasse la tesi secondo cui gli ebrei credevano
nella mortalità dell'anima e non avevano idea di un mondo ultraterreno, e con
la storiografia che con questi si era misurata criticamente (come le Vindiciae
antiquae Christianorum disciplinae del luterano Johann Laurenz Mosheim).
Il Triregno non era, peraltro, del tutto slegato dall'Istoria civile. La
matrice giurisdizionalista era evidente soprattutto nell'incompiuto Regno
papale, dove il G. riprendeva il problema delle origini del potere
ecclesiastico, affrontandolo, però, con gli strumenti della storiografia
protestante: non più "istoria civile" del Regno di Napoli, ma di
tutto l'Occidente cristiano. Di qui la persecuzione che la Curia romana mosse
contro di lui, riuscendo, infine, non solo a farlo arrestare, ma a entrare
anche in possesso dell'autografo del Triregno. Si impedì così la pubblicazione
dell'opera, ma non ne fu, tuttavia, impedita completamente la diffusione, che
avvenne grazie a un apografo (probabilmente uscito dagli archivi romani in cui
l'originale era custodito). Nel secondo Settecento diversi codici del
Triregnocircolarono in Italia e in Europa, e negli anni Sessanta sembrò
addirittura imminente una sua pubblicazione, poi non avvenuta, ad
Amsterdam. La conquista del Regno di Napoli a opera di Carlo di Borbone
determinò la dispersione della comunità napoletana di Vienna. Ritenendo, con
ragione, che fosse in pericolo la sua pensione, basata su rendite siciliane,
anche il G. decise, allora, di partire. Lasciò Vienna il 28 ag. 1734, e giunse
a Venezia il 14 settembre. Doveva essere solo un punto di passaggio sulla via
per Napoli, ma le autorità borboniche gli rifiutarono il passaporto, temendo
che un suo ritorno avrebbe compromesso le trattative per il riconoscimento
papale del nuovo sovrano. L'ambiente culturale veneziano si rivelò, comunque,
ricco di stimoli per il G., che strinse amicizia con il senatore Angelo Pisani,
con il principe milanese Alessandro Teodoro Trivulzio, con l'abate Antonio
Conti, con l'avvocato Giuseppe Terzi e con il libraio Francesco Pitteri. Con
quest'ultimo, in particolare, si accordò per una nuova edizione dell'Istoria
civile, per la quale approntò, come quinto tomo, quell'Apologia dell'Istoria
civile cui lavorava da tempo e in cui confluirono i tre trattati composti a
Vienna. In realtà, anche a Venezia il G. non mancava certo di nemici. Poco dopo
il suo arrivo, Domenico Pasqualigo gli aveva offerto la cattedra di diritto
civile all'Università di Padova, ma la Curia romana era riuscita a fare
sospendere l'offerta. Nello stesso tempo, il nunzio a Venezia, Iacopo Oddi,
faceva pressioni sul governo della Serenissima perché il G. fosse cacciato e
consegnato alle autorità pontificie. Per screditare il G. venne diffusa la voce
che egli avesse criticato la Repubblica veneziana in alcune pagine dell'Istoria
civile, obbligandolo così a difendersi: la Risposta a tale accusa confluì
anch'essa nell'Apologiadell'Istoria civile. Alla fine del marzo 1735 il G. si
stabilì nell'abitazione del Pisani e un mese più tardi fu raggiunto a Venezia
dal figlio Giovanni, che aveva lasciato a Napoli dodici anni prima. Riprese,
allora, la stesura del Triregno, discutendone con i suoi amici veneziani. Fu
nella villa del Pisani a Rovere di Crè (presso Rovigo) che, nel luglio 1735, il
G. scrisse la Prefazione al Triregno. Anche questa volta, tuttavia, la
tranquillità doveva rivelarsi effimera. Dopo oltre un anno di complesse
manovre sotterranee, il nunzio ottenne il risultato sperato: la notte del 13
sett. 1735, poco dopo aver lasciato, insieme con l'abate Conti, la casa
dell'avvocato Terzi, il G. fu catturato da agenti del S. Uffizio, caricato a
forza su un'imbarcazione e abbandonato nel Ferrarese, in territorio pontificio.
Riuscì quindi fortunosamente a raggiungere Modena e vi restò nascosto per circa
un mese, sotto il falso nome di Antonio Rinaldi, protetto, fra gli altri, anche
da L.A. Muratori. Iniziò, allora, la stesura del Ragguaglio dell'improvviso e
violento ratto praticato in Venezia ad istigazione de' gesuiti e della corte di
Roma. Raggiunto, infine, dal figlio, il G. si recò a Milano, allora occupata
dalle truppe sabaude, dove sperava nell'aiuto della famiglia del principe
Trivulzio. Il 16 nov. 1735 fu ricevuto dal marchese Giorgio Olivazzi, gran
cancelliere, il quale gli consigliò di scrivere a Carlo Vincenzo Ferrero
marchese d'Ormea, ministro di Carlo Emanuele III di Savoia, per offrirsi come
storico di corte. Quel che Olivazzi non poteva sapere era che l'Ormea s'era già
accordato con il cardinale Alessandro Albani, offrendogli l'arresto del G. come
contropartita per la concessione di un concordato favorevole allo Stato sabaudo
al fine di chiudere lo scontro - aperto un ventennio prima da Vittorio Amedeo
II - fra Torino e Roma. Da Torino partì quindi l'ordine di arresto del G., che
però nel frattempo aveva già lasciato Milano per la capitale sabauda. Non
considerando più gli Stati italiani un rifugio sicuro dopo l'esperienza
veneziana, il G. aveva deciso di andare a Ginevra, dove era in contatto con
l'editore Marc-Michel Bousquet (che sin dal 1729 aveva annunciato la sua
intenzione di pubblicare una traduzione francese dell'Istoria civile). Mentre
dava l'ordine di arrestarlo a Milano, l'Ormea non poteva immaginare che il G.
fosse proprio a Torino, dove si fermò il 27 e il 28 nov. 1735. Giunse a Ginevra
il 5 dicembre, dove, pur rifiutando di convertirsi al calvinismo, strinse amicizia
con i teologi protestanti Jean-Alphonse Turretini e Jacob Vernet. A
causa delle sue precarie condizioni economiche, decise di pubblicare la
traduzione francese dell'Istoria civile, per la quale s'era accordato già da
tempo con il Bousquet. Questi, però, aveva sciolto proprio allora la sua
società con lo stampatore J.-A. Pellissari, e si era trasferito in Olanda. Fu
solo grazie all'aiuto di Vernet che il G. poté trovare un nuovo finanziatore
nel libraio Jacques Barillot, ma, quando, all'inizio del marzo 1736, tutto era
pronto per la nuova edizione dell'Istoria, il G. fu attirato fraudolentemente
in territorio sabaudo e arrestato. Sin dal 10 dic. 1735 il marchese
d'Ormea aveva dato disposizioni per l'arresto al governatore della Savoia,
conte Giuseppe Piccon della Perosa. La trama del rapimento è stata raccontata
dal G. stesso, nella sua autobiografia, in pagine esemplari per chiarezza e
drammaticità. A Ginevra egli aveva preso alloggio presso il sarto Charles
Chénevé, da tempo amico di un doganiere sabaudo, tale Giuseppe Gastaldi, il cui
fratello era aiutante di campo del conte Piccon. Dapprima Gastaldi si guadagnò
la simpatia di Giovanni, il figlio del G., invitandolo spesso a Vésenaz (il
piccolo centro savoiardo di fronte a Ginevra, dov'era la dogana) insieme con
Chénevé. In questo modo egli venne a conoscenza dei movimenti del G. a Ginevra,
informandone Piccon. Dopo aver rifiutato gli inviti del Gastaldi per tutto
l'inverno, il G. accettò di assistere alla messa della domenica delle Palme
nella chiesa di Vésenaz. Sabato 24 marzo 1736 si trasferì con il figlio a casa
di Gastaldi. Questi, presi con sé alcuni soldati, irruppe di notte nella stanza
del G. e arrestò lui e il figlio; il giorno dopo, Gastaldi si mise in marcia
verso Chambéry. Il G. racconta la gioia del doganiere il quale, tenendo in mano
un suo ritratto (probabilmente una copia dell'incisione fatta a Vienna da Jacob
Sedelmayer) andava di paese in paese urlando di aver catturato "un
grand'uomo". Giunto a Chambéry la sera del 26 marzo 1736, Gastaldi
consegnò i prigionieri al conte Piccon, il quale, il 7 aprile, ne dispose il
trasferimento nella fortezza di Miolans, tradizionalmente deputata ad
accogliere i prigionieri di Stato (quarant'anni dopo vi sarebbe stato rinchiuso
anche il marchese de Sade). Ricevuta notizia dell'arresto, l'Ormea ne informò
il cardinale Albani, al quale riferì anche l'intenzione di Carlo Emanuele III
di non inviare il G. a Roma, ma di impegnarsi a tenerlo in carcere
"perpetuamente". Per quanto la corte di Roma avrebbe preferito
giudicare direttamente il G., il 5 maggio Clemente XII ringraziò il sovrano
sabaudo per l'arresto del "sedizioso". Ormea e Albani si accordavano,
intanto, perché il G. fosse processato dal S. Uffizio piemontese e costretto ad
abiurare. Durante la sua prigionia a Miolans (aprile 1736 - settembre
1737) il G. scrisse l'autobiografia (Vita di Pietro Giannone scritta da lui
medesimo) e iniziò, aiutato dal figlio, una prima versione dei Discorsi sopra
gli Annali di Tito Livio, un'opera che intendeva offrire a Carlo Emanuele III
per l'educazione del principe di Piemonte, il futuro Vittorio Amedeo III. Nello
stesso periodo l'Ormea riuscì, grazie al conte Piccon e ad altri agenti
sabaudi, a entrare in possesso dei manoscritti delle opere del G. (compreso quello
del Triregno), che, dopo esser stati esaminati da Giovanni Antonio Palazzi,
abate di Selve, bibliotecario e storico di corte, furono inviati a Roma. Il 15
sett. 1737 il G., separato dal figlio Giovanni (che fece ritorno a Napoli), fu
trasferito a Torino (nelle carceri di Porta Po, prima, e nella cittadella,
poi). Qui fu affidato alla cura spirituale del padre filippino Giovan Battista
Prever. Nel marzo del 1738 prestò formale abiura dei suoi errori di fronte al
vicario inquisitoriale, Alfieri di Magliano. Il testo dell'abiura non era
quello che la Curia romana si attendeva, tanto che - contrariamente alla prima
intenzione - si decise di non renderlo pubblico. A convincere il G. ad abiurare
era stata la speranza di poter tornare presto in libertà, ma il 15 giugno 1738
fu trasferito al forte di Ceva, dove sarebbe rimasto sei anni. Le istruzioni
impartite al conte Giuseppe Amedeo De Magistris, governatore del forte, erano
per la migliore sistemazione possibile nel castello (il G. fu rinchiuso nella
prigione detta "la speranza": due stanze e un anticamera interamente
rivestite in legno e chiuse da una porta di pietra). Gli era permessa qualche
ora d'aria al giorno (purché non parlasse con nessuno, tranne il governatore e
il confessore del forte) e poteva leggere e scrivere (purché le sue opere non
uscissero da Ceva se non per Torino). Nei sei anni di prigionia cebana il
G. terminò i Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio (conclusi nel maggio 1738)
e scrisse altre tre opere: l'Apologia de' teologi scolastici (1739-41),
l'Istoria del pontificato di s. Gregorio Magno(1741-42) e L'ape ingegnosa
(1743-44). In esse riaffioravano molti temi del Triregno, soprattutto
nell'Apologia de' teologi scolastici - dove l'autorità dei Padri della Chiesa
era sottoposta a una vera e propria demolizione -, e nell'Istoria del
pontificato di s. Gregorio Magno. Quest'ultima, inizialmente concepita come
conclusione dell'Apologia, era una vera e propria prosecuzione del Triregno,
nel cui Regno papale una vasta parte doveva essere dedicata a tale pontefice.
Temi tipici degli autori libertini, in particolare del Toland, grazie a un
sapiente uso della Naturalis historiadi Plinio il Vecchio, tornavano anche
nelle pagine dell'Ape ingegnosa, vasto e complesso zibaldone, come recita il
titolo, di "varie osservazioni sopra le opere di natura e dell'arte",
denso di spunti autobiografici. Nonostante la prigionia, la fortuna
europea del G. continuava: nel 1738 ad Amsterdam era apparsa la traduzione
francese dei libri sulla "politia ecclesiastica" (Anecdotes
ecclésiastiques contenant la police et la discipline de l'Église chrétienne
depuis son établissement jusqu'au XIe siècle), nel 1742 l'intera Istoria civile
era stata tradotta in francese da C.-G. Loys de Bochat e G. Bentivoglio e
pubblicata a Ginevra (ma con la falsa indicazione dell'Aja). Mentre a Torino la
diffusione delle opere giannoniane preoccupava le autorità ecclesiastiche, a
Ceva il G. entrava in contatto con esponenti della nobiltà locale, che lo
incaricarono della stesura di alcune allegazioni forensi. Nell'estate del
1744, a causa dell'avanzata delle truppe franco-spagnole, allora impegnate
contro il Piemonte nella Guerra di successione austriaca, il G. fu trasferito a
Torino, dove giunse il 3 settembre. In un primo tempo le condizioni della
prigionia nella cittadella si rivelarono assai più dure: il governatore Ercole
Tomaso Roero di Cortanze non aveva avuto, come invece il De Magistris, ordini
particolari per il prigioniero, il cui trattamento non fu inizialmente
dissimile a quello riservato ai molti prigionieri che affluivano nella capitale
da tutto il Piemonte. La situazione fu aggravata dalla morte del marchese
d'Ormea (maggio 1745), tanto che il 14 maggio 1746 il G. inviò al sovrano un
lungo e disperato memoriale sul proprio stato e sulle angherie cui lo
sottoponeva il maggiore della cittadella, il conte Giovan Battista Caramelli.
Da allora le condizioni della sua detenzione migliorarono sensibilmente. Il suo
ritorno a Torino non era passato inosservato; in pochi mesi il G. entrò in
relazione con personaggi della corte e della cultura, come i bibliotecari
dell'Università Paolo Ricolvi e Antonio Rivautella, e, soprattutto, con il
residente inglese, Arthur Villettes, il quale gli fece avere diversi libri
della propria biblioteca, grazie ai quali, oltre a quelli avuti dalla
Biblioteca reale tramite Roero di Cortanze, il G. poté aggiungere nuovi
capitoli all'Apologia de' teologi scolastici e iniziare una nuova versione,
rimasta incompiuta, dei Discorsi. Il nuovo interesse destato dal G. suscitò la
reazione delle autorità ecclesiastiche: il nunzio a Torino, mons. Ludovico
Merlini, protestò presso il sovrano, il quale gli assicurò che le condizioni
del prigioniero sarebbero divenute più severe. In realtà il G.
continuò a scrivere e a ricevere libri da Villettes e da Roero di Cortanze sino
alla morte, sopraggiunta il 17 marzo 1748. Il desiderio del G., formulato
in una lettera all'Ormea nel marzo 1741, che sulla sua tomba fosse posta
un'iscrizione da lui appositamente composta non fu esaudito: il suo corpo fu
sepolto nella fossa comune dei prigionieri della chiesa di S. Barbara,
all'interno della cittadella. La chiesa fu distrutta intorno al 1860.
Opere: Opere di Pietro Giannone, a cura di S. Bertelli - G. Ricuperati,
Milano-Napoli 1971 (con un'accuratissima bibliografia), in cui sono comprese la
Vitascritta da se medesimo, pagine scelte dell'Istoria civile, del Triregno,
del Ragguaglio del ratto, delle altre opere del carcere e alcune lettere;
Istoria civile, a cura di A. Marongiu, Milano 1970; Triregno, a cura di A.
Parente, Bari 1940; Dopo la "Giannoniana": problemi di edizione,
nuovi reperimenti di fonti e l'introduzione perduta del "Triregno", a
cura di G. Ricuperati, in L'Europa fra Illuminismo e Restaurazione.Studi in
onore di Furio Diaz, a cura di P. Alatri, Roma 1993, pp. 43-88; un manoscritto
del Ragguaglio del ratto è stato pubblicato in Un testo inedito di P. G., a
cura di A. Denis, in Archivio storico italiano, CLIII (1995), 4, pp. 709-761.
Delle altre opere del carcere l'unica sinora pubblicata in edizione critica è
L'ape ingegnosa, overo Raccolta di varie osservazioni sopra le opere di natura
e dell'arte, a cura di A. Merlotti, Roma 1993 (con bibliografia dal 1971, pp.
CXVII-CXXI). Per le lettere: P. Giannone, Epistolario, a cura di P. Minervino,
Fasano 1983; Lettere autografe, a cura di P. Minervino, ibid. 1990 (in entrambi
i casi l'edizione non è del tutto affidabile, cfr. la rec. di G. Di Rienzo, in
Bollettino storico-bibliogr. subalpino, XCI [1993], 1, pp. 317-322). Fonti
e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Biblioteca antica, Manoscritti di
Giannone(inventario a cura di G. Ricuperati, Le carte torinesi di P. G., in
Memorie dell'Acc. delle scienze di Torino, classe di scienze morali, storiche e
filologiche, s. 4, IV [1962]): nel 1992 il fondo è stato arricchito da
documenti autografi del G., in gran parte relativi ai periodi austriaco e
veneziano; F. Nicolini, Gli scritti e la fortuna di P. Giannone. Ricerche
bibliografiche, Bari 1913; L. Marini, P. G. e il giannonismo a Napoli nel
Settecento, Bari 1950; B. Vigezzi, P. G. riformatore e storico, Milano 1961; S.
Bertelli, Giannoniana. Autografi, manoscritti e documenti della fortuna di P.
G., Napoli 1968; G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di P. G.,
Milano-Napoli 1970; G. e il suo tempo, a cura di R. Ajello, Napoli 1980; A.
Merlotti, Settecento e "Risorgimento ghibellino": Giuseppe Ferrari
lettore di P. G., in Annali della Fondazione Einaudi, XXVIII (1993), pp.
301-358; Id., Negli archivi del Re. La lettura negata delle opere di G. nel
Piemonte sabaudo (1748-1848), in Riv. stor. italiana, CVII (1995), 2, pp.
332-386; G. Ricuperati, P. G.: an itinerary in European free-thinking, in
Transactions of the Ninth International Congress on the Enlightenment, Oxford
1996, pp. 242-245; H. Trevor-Roper, P. G. and Great Britain, in The Historical
Journal, XXXIX (1996), 3, pp. 657-675; A. Hook, La "Storia civile del
Regno di Napoli" di P. G., il giacobitismo e l'Illuminismo scozzese, in
Ricerche storiche, XXVIII (1998), pp. 391-402; L. Mannarino, Le mille favole
degli antichi. Ebraismo e cultura europea nel pensiero religioso di P. G.,
Firenze 1999.Grice: “One good thing about the Roman Church (you know, there’s a
Jewish Church, too) is Giannone – he was rendered an ‘impious’ by the Church
and imprisoned to death. This allowed him to philosophise on the Liguri – and
he did!” Pietro Giannone. Giannone. Keywords: la terza Roma, autobiografia,
ego-grafia – Vico, Giannone, Genovesi – Liguria – commento su Livio – regno
terreno, regno celeste, regno papale --. Storia di roma antica -- giannonismo.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giannone” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690283554/in/photolist-2mKGdrq
Grice e
Gioberti – del bello – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino).
Filosofo. Grice: “I like Gioberti; he published ‘Del bene, del bello,’
suggesting they are etymologically connected, and they are: BONUS alternates
with BENE in Roman, and the dimintuvie, BENETULUS, gives ‘bellus’ – So the
Roman implicature is that the ‘bello’ is a ‘little’ ‘bene’ – or gracious,
comfortable, and proportionate, rather than having to do with ‘bene’ itself. –
“like bene” – and affectionate diminutive, one hopes!” – Laureato, e parzialmente
influenzato da Mazzini, lo scopo principale della sua vita divenne
l'unificazione dell'Italia sotto un unico regime: la sua emancipazione, non
solo dai signori stranieri, ma anche da concetti reputati alieni al suo genio e
sprezzanti del primato morale e civile degli italiani. Questo primato era
associato alla supremazia del Papa, anche se inteso in un modo più letterario
che politico. Carlo Alberto di Savoia lo nomina suo cappellano. La sua
popolarità e l'influenza in campo privato, tuttavia, erano ragioni sufficienti
per il partito della corona per costringerlo all'esilio; non era uno di loro e
non poteva dipendervi. Sapendo questo, si ritirò dal suo incarico ma fu arrestato
con l'accusa di complotto e bandito dal Regno sabaudo senza processo. Andò a
Parigi e Bruxelles per insegnare filosofia. Nonostante ciò, trovò il tempo per
filosofare con particolare riferimento al suo paese e alla sua posizione.
Essendo stata dichiarata un'amnistia da Carlo Alberto, divenne libero di tornare in patria. Al suo
ritorno a Torino, fu ricevuto con il più grande entusiasmo. Rifiutò la dignità
di senatore che Carlo Alberto gli aveva offerto, preferendo rappresentare la
sua città natale nella Camera dei deputati, della quale fu presto eletto presidente.
Cadde il governo. Il re nominò Gioberti nuovo presidente del Consiglio. Il suo
governo terminò. Con la salita al trono di Vittorio Emanuele II lla sua vita
politica giunse alla fine. Ebbe un posto nel consiglio dei ministri, anche se
senza portafoglio, ma un diverbio irriconciliabile non tardò a maturare. Fu
allontanato da Torino con l'affidamento di una missione diplomatica a Parigi,
da cui non fece più ritorno. Rifiutò la pensione che gli era stata offerta e
ogni promozione ecclesiastica, visse in povertà e passò il resto dei suoi
giorni a Bruxelles, dove si trasferì dedicandosi agli studi filosofici. I primi
due licei istituiti a Torino celebrarono uno l'opera diplomatica di Cavour (il
Liceo classico Cavour) e l'altro il pensiero, anche politico, di Gioberti (il
Liceo classico Vincenzo Gioberti). Gli scritti sono più importanti della
sua carriera politica; come le speculazioni di Rosmini-Serbati, contro cui
scrisse, sono state definite l'ultima propaggine del pensiero medievale. Anche
il sistema di Gioberti, conosciuto come “ontologismo”, più nello specifico
nelle sue più importanti opere iniziali, non è connesso con le moderne scuole
di pensiero. Mostra un'armonia con la fede che spinse Victor Cousin a sostenere
che la filosofia italiana era ancora fra i lacci della teologia e che Gioberti
non e un filosofo. Il metodo per lui è uno strumento sintetico,
soggettivo e psicologico. Ricostruisce, come afferma, l'ontologia e comincia
con la formula ideale, per cui l'Ens crea l'esistente ex nihilo. Dio è l'unico
ente Ens. Tutto il resto sono pure esistenze. Dio è l'origine di tutta la
conoscenza umana (le idee), che è una e diciamo che si rispecchia in Dio
stesso. È intuita direttamente dalla ragione, ma per essere utile vi si deve
riflettere, e questo avviene tramite i mezzi del linguaggio. Una conoscenza
dell'ente e delle esistenze (concrete, non astratte) e le loro relazioni
reciproche, sono necessarie per l'inizio della filosofia. Gioberti è, da
un certo punto di vista, un platonico. Identifica la religione con la civiltà e
nel suo trattato Del primato morale e civile degli Italiani giunge alla
conclusione che la chiesa è l'asse su cui il benessere della vita umana si fonda.
In questo afferma che l'idea della supremazia dell'Italia, apportata dalla
restaurazione del papato come dominio morale, è fondata sulla religione e
sull'opinione pubblica. Tale opera e la base teorica del neoguelfismo. In
“Rinnovamento e Protologia” si dice che abbia spostato il suo campo
sull'influenza degli eventi. La sua prima opera aveva una ragione
personale per la sua esistenza. Un amico, avendo molti dubbi e sfortune per la
realtà della rivelazione e della vita futura, lo ispirò alla stesura de “La teorica
del sovrannaturale”. Dopo questa, sono
passati in rapida successione dei trattati filosofici. La “Teorica” è seguita
dalla “Filosofia”, dove afferma le ragioni per richiedere un nuovo metodo e una
nuova terminologia. Qui riporta la dottrina per cui la religione è la diretta
espressione dell'idea in questa vita ed è un unicum con la vera civiltà nella
storia. La Civiltà è una tendenza alla perfezione mediata e condizionata, alla
quale la religione è il completamento finale se portato a termine. È la fine
del secondo ciclo espresso dalla seconda formula, l'ente redime gli
esistenti. I saggi “Del bello” e “Del buono hanno” seguito
l'introduzione. Del primato morale e civile degl'Italiani e Prolegomeni sulla
stessa e a breve trionfante esposizione dei Gesuiti, Il Gesuita moderno,
pubblicato clandestinamente a Losanna da Bonamici, ha senza dubbio accelerato
il trasferimento di ruolo dalle mani religiose a quelle civili. È stata la
popolarità di queste opere semi-politiche, aumentata da altri articoli politici
occasionali e dal suo Rinnovamento civile d'Italia, che lo ha portato ad essere
acclamato con entusiasmo al ritorno nel suo paese natio. Tutte queste opere
sono state perfettamente ortodosse e hanno contribuito ad attirare l'attenzione
del clero liberale nel movimento che è sfociato, sin dai suoi tempi,
nell'unificazione italiana. I Gesuiti, tuttavia, si sono raduttorno al Papa più
fermamente dopo il suo ritorno a Roma e alla fine gli scritti di Gioberti
furono messi all'indice. I resti delle sue opere, specialmente “La filosofia
della rivelazione” e la Prolologia espongono i suoi punti di vista maturi in
molte parti. Tutti gli scritti giobertiani, tra cui quelli lasciati nei
manoscritti, sono stati pubblicati daMassari (Torino). Il Ministero dei beni culturali
ha affidato la redazione dell'edizione nazionale all'Istituto di Studi
Filosofici "Enrico Castelli", presso l'Università La Sapienza di
Roma. Altre opera: Prolegomeni del Primato morale e civile degli italiani,
Enrico Castelli; Primato morale e civile degli italiani, Ugo Redanò; Introduzione
allo studio della filosofia, Alessandro Cortese; Teorica del sovrannaturale,
Alessandro Cortese; Del rinnovamento civile d'Italia; Vincenzo Gioberti, Del
rinnovamento civile d'Italia, Del rinnovamento civile d'Italia, Scrittori
d'Italia Bari, Laterza. Cfr. lettera di V. Gioberti a G. Leopardi in Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi
dalle carte napoletane, Firenze, Successori Le Monnier. Gioberti visse in Rue
des marais S. Germain, hotel du Pont des Arts n° 3. In lingua latina: "dal nulla", vedi
anche la locuzione Ex nihilo nihil fit di Lucrezio. Antonio, su Sistema
Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Istituto Castelli-Roma
in. Anteprima disponibile su Anteprima della II edizione disponibile su
books.google. Giuseppe Massari, Vita di
Gioberti, Firenze, Antonio Rosmini Serbati, Gioberti e il panteismo, Milano, Spaventa,
La Filosofia di Gioberti, Napoli, Achille Mauri, Della vita e delle opere di
Gioberti, Genova, Giuseppe Prisco, Gioberti e l'ontologismo, Napoli, Pietro
Luciani, Gioberti e la filosofia nuova italiana, Napoli, Domenico Berti,
Di Gioberti, Firenze, Giorgio Rumi, Gioberti,
Bologna, Il mulino, Mario Sancipriano, Gioberti: progetti etico-politici nel Risorgimento,
Roma, Studium, Francesco Traniello, Da
Gioberti a Moro: percorsi di una cultura politica, Milano, Angeli, Gianluca
Cuozzo, Rivelazione ed ermeneutica. Un'interpretazione di Gioberti, Milano,
Mursia, Mustè, La scienza ideale. Filosofia e politica in Gioberti, Soveria
Mannelli, Rubbettino, Mustè, Il governo federativo, Roma, Gangemi, Alessio
Leggiero, Il Gioberti Frainteso. Sulle tracce della condanna, Roma, Aracne, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Il
contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Gioberti attuale – Il Popolo d’Italia -- Non
bisogna cedere alla facile tentazione erudita di dare troppi precursori al
fascismo, come si è fatto da taluno in questi ultimi tempi. Il fascismo ha
molti precursori e e non ne ha nessuno. Non ne ha nessuno se alla parola «
precursore » si dà un significato strettissimo o letterale, ne ha molti se la
stessa parola viene interpretata in un senso più lato. ln quest'ultima
categorià può esser posto Vincenzo Gioberti. Ecco un autore che appare oggi «
attuale » più di quanto non fosse fra il 1840 e il 1850 o anche semplicemente
venti anni fa. Ci sono nelle pagine dei suoi libri notazioni, istruzioni, moniti,
previsioni che il tempo ha confermato. Si vuole oggi, dal fascismo, una
gioventù studiosa, che sia forte nel corpo come nello spirito. Or ecco come il
Gioberti, a proposito della necessità dell'educazione fisica giovanile, si
esprimeva nel suo Primato: « I giovani indurino il corpo avvezzandolo al sole,
allenandolo alla corsa e ai ginnici esercizì, rompendolo alle operose veglie e
alle utili fatiche, costringendolo a nutrirsi di cibi frugali, a posare su dura
coltrice e assoggettandolo in ogni cosa allo imperio dell'animo, il quale col
domare i sensi; si rende libero e franco e si dispone ai nobili affetti, ai
vasti e magnifici pensieri ». Il fascismo ha battuto sempre in breccia certi
persistenti snobismi linguaioli, che sono ormai superstiti soltanto in piccoli
gruppi. Vedete come Gioberti flagellava gli esotismi del tempo che facevano
preferire le lingue straniere all'italiana, l'abietto « forestierume », come,
con parola di scherno supremo, diceva il Gioberti: « Riscuotano dunque se
stessi da ogni ombra di forestierume, non solo nelle cose gravi ma anco nelle
leggere, perché queste concorrono a informare il costume, che in opera di
mutazioni morali è la somma del tutto. E non lieve faccenda, ma gravissima e
importantissima è la lingua nazionale così per la stretta ed intima congiuntura
dei pensieri con le voci, onde gli uni tanto valgono quanto l'espressione che
li veste (dal che segue che le parole non sono pur parole, ma eziandio cose)
come perché essendo ·la favella lo specchio più compito e più vivo delle
specialità morali e intellettive di un popolo, chi la trascura e disprezza non
può essere veramente libero, né aver cara l'indipendenza e la libertà della
patria. Perciò indizio grave di servilità e di declinazione civile e prova non
dubbia di poco amore verso il luogo natìo, è il trasandare la propria loquela e
il vezzo di parlare o di scrivere senza bisogno di lingua forestiera. Tale
indegno costume è altresì basso e vile! ». Pochi scrittori hanno, più del
grande pensatore torinese, posto in rilievo la somma importanza della lingua
nella vita di un popolo e i pericoli insiti nel trascurarla o avvilirla.
L'ostracismo che il regime ha dato agli eccessivi dialçttismi e ai tentativi di
creare su basi regionali delle letterature dialettali, trova la sua più alta
giustificazione in questo superbo brano ,di prosa giobertiana. E da ricordare
che il Gioberti definisce la italiana come « la più bella delle lingue vive ».
« Lo stile, dice Giorgio Buffon, è l'uomo; lo stile e la lingua, dico io, sono
il cittadino. La lingua e la nazionalità procedono di pari passo, perché quella
è uno dei principi fattivi e dei caratteri principali di questa, anzi il più
intimo e fondamentale di tutti, come il più spirituale, quando la
consanguineità e la coabitanza poco servirebbero ad unire i popoli unigeneri e
compaesani, senza il vincolo morale della comune favella. E però il Giordani
insegna che "la vita interiore e la pubblica di un popolo si sentono nella
sua lingua", la quale "è l'effige vera e viva, il ritratto di tutte
le mutazioni successive, la più chiara e indubitata storia dei costumi di
qualunque nazione e quasi un amplissimo specchio in cui mira ciascuno
l'immagine ·della mente di tutto e tutti di ciascuno". E il Leopardi non
dubitò di affermare che "la lingua e l'uomo e le nazioni per poco non sono
la stessa cosa" ». Parole queste che non saranno mai abbastanza meditate.
Quanto alla missione di Roma nella storia italiana e in quella europea e
universale, ecco alcune citazioni di Gioberti che hanno un sapore attualissimo.
« Il genio orientale affine a quello dell'Italia, se non altro perché Roma fu
una volta e sarà forse di nuovo un giorno, se posso così esprimermi, l'oriente
dell'Oriente ». « Roma in effetto, nel bene come nel male, nei tempi antichi
come nei moderni, è arbitra suprema e norma delle genti italiche ». La figura
di Gioberti, quale filosofo e patriota, ci è giunta un poco deformata dalle
polemiche del tempo. Ma bastano le citazioni di cui sopra per far vedere che la
portata educatrice del pensiero giobertiano, non è diminuita con le vicende del
tempo. Gioberti è « attuale », anche e soprattutto oggi, nell'Italia del
Littorio. The next day in “Il Popolo d’Italia” by Scrittore Fascista. Ancora
Gioberti (Pubblicato in « Il Popolo d'Italia », 11 febbraio 1934) di Scrittore fascista La prosa giobectiana è ricca di parole
asprigne, saporose e di neologismi indovinati. Si incontrano parole come
queste: schifiltà, infemminire nell'ozio, forestierume, perennare, sfasciume,
smanceroso, attillature, disviticchiare, mollizie, delicature, uomini
faticanti, laicocrazia, fogliettisti, ecc. Ma più importanti sono sempre i
pensieri del filosofo torinese. In tutte le questioni egli ha un punto di
vista, che rappresentando le verità fondamentali, vale, oggi, come nel 1850.
Ecco con quali termini il Gioberti stabilisce i compiti e i doveri di
un'aristocrazia degna di questo nome. Si tratta dell'educazione da impartire ai
figli degli aristocratici. « Imprimano in essi la semplicità dei modi, la
grandezza dell'animo, l'austerità del costume, la tolleranza nelle fatiche, la
fermezza nelle risoluzioni, J'intrepidità nei pericoli, la generosità nei
travagli; li assuefacciano a contentarsi del poco, a fuggire gli agi e le
pompe, a tenersi per depositari anziché padroni della loro ampia fortuna, come
di un tesoro da dispensarsi in opere di beneficenza e in imprese di utilità
pubblica ». Nel Gioberti si trova l'incentivo e la giustificazione delle opere
di ripristino archeologico, alle quali il regime si è particolarmente consacrato,
non soltanto a Roma, ma in ogni parte d'Italia. Se Vincenzo Gioberti potesse
vedere lo spettacolo meraviglioso della Roma di oggi, dovrebbe fare
constatazioni diverse da quelle del suo tempo. Gli scavi, la esumazione e la
restaurazione degli antichi monumenti, non giovano soltanto a documentare al
mondo la nostra gloriosa storia trimillenaria, ma sono anche fonti di
ricchezza, per il richiamo che essi esercitano su tutte le ·genti del mondo
civile. Le poche decine di milioni spese per creare quei capolavori che sono la
via dell'Impero, la via dei Trionfi, la via del Mare, sono già stati recuperati
almeno cento volte, attraverso l'affluire ìnces.sante degli stranieri. Ma
Gioberti insisteva sul lato educativo e morale delle ricerche archeologiche
così esprimendosi: « Egli è doloroso a pensare che così pochi siano al dl
d'oggi gli italiani solleciti di conoscere e studiare le patrie rovine e che
tale inchiesta si abbandoni, come inutile, all'ozio erudito di qualche
antiquario. L'archeologia non meno della filologia, ben !ungi dall'essere una
scienza sterile e morta, è viva e fecondissima, perché oltre a rinnovare il
passato, giova a preparare l'avvenire delle nazioni. Imperocché la risurre2ione
erudita dei monumenti nazionali porta seco il ristauro delle idee patrie,
congiunge le età trascorse colle future, serve di tessera esterna e di taglia
ricordatrice ai popoli risorgituri, destandone ed alimentandone le speranze
colla voglia e con l'esca delle memorie ». Tutta la storia d'Italia passa in
rapide sintesi potenti nelle meditazioni di Gioberti. I periodi di grandezza e
di miseria, gli alti e bassi del nostro popolo, trovano nel Gioberti un
indagatore e un illustratore vigoroso e penetrante. Egli « sente » la storia e
come s'inorgoglisce parlando dei periodi di splendore, è amaro e violento
quando trae a descrivere le epoche di decadenza. Nella citazione che segue sono
condensati tre secoli della nostra storia, i quali dal punto di vista politico
sono stati oscuri, perché furono secoli di divisione e di servitù. « Le ultime
faville di virtù e di carità patria perirono in Italia colla repubblica di
Firenze; spenta la quale dalla truce e schifosa progenie dei secondi Medici,
l'ingegno secolaresco, costretto a menar vita privata ed umbratile, non ebbe
più altro campo dove esercitarsi che quello degli studi: in cui rifulsero
ancora tre sommi laici, il Tasso, il Galilei, il Vico, che nel culto della
sapienza poetica, naturale, filosofica, andarono innanzi a tutti, e risposero
in un certo modo alla triade clericale e monachile del Bruno, del Campanella e
del Sarpi. Ma il rinnovamento del ceto civile nella penisola e la creazione
dell'Italia laicale è dovuta a Vittorio Alfieri, che, nuovo Dante, fu il vero
secolarizzatore del genio italico nell'età più vicina e diede agli spiriti quel
forte impulso che ancora dura e porterà quando che sia i suoi frutti ». Questa
profezia del Primato si è avverata. L'impulso dato da Alfieri diede i suoi
frutti col Risorgimento. Dopo una eclissi, tale impulso è lo stesso che scatenò
il maggio radioso del '15 e la marcia di ottobre del '22. È l'impulso che fece
vincere la guerra e trionfare la rivoluzione. Non ancora un secolo è passato e
già queste parole del Primato giobertiano fiammeggiano nei cuori delle
generazioni littorie. « Italiani - diceva Gioberti - qualunque siano le vostre
miserie, ricordatevi che siete nati principi e destinati a regnare moralmente
sul mondo! ». GIOBERTI, Vincenzo. - Nacque a Torino il 5 apr. 1801 da Giuseppe,
impiegato, e da Marianna Capra. Un dissesto finanziario del padre, morto
prematuramente, rese molto precarie le condizioni economiche della famiglia.
Formatosi nelle scuole dei padri oratoriani, rivelò precoci interessi per la
letteratura e per gli studi filosofici e teologici, e annoverò tra i suoi
maestri e guide spirituali G.G. Sineo, poi ricordato come "il solo vero
prete moderno" che avesse incontrato. Tuttavia il G. fu essenzialmente un
autodidatta, che, nonostante la malferma salute, si dedicò con inaudita
intensità alle più disparate letture, toccando anche il settore linguistico,
storico, naturalistico, geografico, politico (con una precoce passione per N.
Machiavelli), e lasciandone traccia in una congerie sterminata di appunti e di
pensieri: in uno dei quali rivelava di essere stato "reso anti-monarchico
dalla lettura dell'Alfieri, irreligioso, ma per poco, da Rousseau, pirronista
dagli altri filosofi" (Meditazionifilosofiche inedite, p. 45). Tali
frammenti provano come il giovanissimo G. accumulasse una rilevante cultura
filosofica, in parte di tipo manualistico, ma in parte notevole ricavata da
letture di prima mano (sebbene non sempre nella lingua originale) concernenti
in special modo le opere di Platone, s. Agostino, F. Bacon, J.-B. Bossuet, G.
Vico, G.W. von Leibniz, N. de Malebranche, G.S. Gerdil, J.-J. Rousseau e I.
Kant. Quest'ultimo, unitamente alla "scuola scozzese" di Th. Reid,
appariva al G. il filosofo che aveva riportato "nel campo
dell'osservazione quel principio pensante, che molti aveano a tal segno obliato
da confonderlo coi sensi e colla materia" (ibid., p. 167). Alla linea di
pensiero che il G. definiva allora idealistica si affiancò il confronto
ravvicinato, ma costellato di dissensi, con il tradizionalismo cattolico di J.
de Maistre, L.-G.-A. de Bonald, F.-A.-R. de Chateaubriand, P.-S. Ballanche e
delle prime opere di F.-R. de La Mennais. È da osservare che il G. conosceva
bene il francese, appreso dalla madre, e, ovviamente, il latino, ma non il
greco, mentre nel 1821 aveva iniziato, senza però approfondirlo, lo studio
dell'ebraico e del tedesco. In linea generale, prevalse nel giovane
G. un orientamento eclettico, considerato peculiare dei "cristiani
filosofi" e apertamente professato in opposizione allo "spirito
esclusivo" dei sistemi, pur in un quadro teorico segnato dalla polemica
antisensistica e dalla ricerca, non priva di momenti laceranti, di un punto di
equilibrio tra una persistente venatura scettica e l'ancoraggio, punteggiato
peraltro da corrosivi spunti anticlericali, alla religione cattolica, assunta
come deposito di verità oggettive, attingibili per via razionale solo in
maniera parziale e frammentaria. Oltre che sul piano teoretico, la necessità
della rivelazione cristiana s'imponeva per il giovane G. sul piano pratico e
politico, essendo "una religione rivelata e positiva l'organo
indispensabile della morale nella società", ovvero anche
"un'obbligazione sociale", chiamata a integrare "il mantenimento
e l'accrescimento dei diritti", indicati come fine della politica. La
ragionevolezza dell'adesione alle verità dogmatiche della fede cattolica,
tenute distinte da quanto nella società religiosa vi è di accidentale e di
transeunte, sostituiva, nel giovane G., l'idea di religione naturale d'impronta
deistica, facendo salvi, da un lato, il principio di una rivelazione soprannaturale
depositata nella Chiesa cattolica e, dall'altro, il concetto di un suo
progressivo dispiegamento nella storia umana. Membro dell'accademia
ecclesiastica fondata dal Sineo e di quella dall'abate L. Solaro, il G. risentì
dell'impronta - probabiliorista in campo morale e cautamente giurisdizionalista
in campo ecclesiastico - della facoltà teologica torinese, da cui trasse
alimento il suo vivace antigesuitismo. Addottorato in teologia il 9 genn. 1823,
fu aggregato alla facoltà teologica l'11 ag. 1825, con la discussione di tre
tesi: De Deo et naturali religione, notevole per la padronanza della relativa
letteratura sei-settecentesca, De antiquo foedere, De christiana religione et
theologicis virtutibus, la cui edizione accademica restò per quattordici anni
l'unica opera del G. data alle stampe. Poco prima, il 19 marzo 1825, era stato
ordinato sacerdote, dopo che la curia torinese e forse lo stesso arcivescovo C.
Chiaverotti erano intervenuti per vincere la sua ritrosia all'ordinazione. Nel
gennaio 1826 fu nominato cappellano di corte con uno stipendio annuo di 480
lire. Notevoli zone d'ombra caratterizzano la fase successiva della sua
biografia. La stessa renitenza del G. a tradurre in pubblicazioni l'immenso
materiale accumulato, nonostante la notorietà acquisita negli ambienti colti e
l'attività svolta in alcuni circoli filosofici e letterari, appare indicativa
sia di una persistente fluidità del suo pensiero, sia della percezione di un
sempre più chiuso clima intellettuale e politico, che il G. tendeva ad
attribuire, sul fronte ecclesiastico, alle mene dei gesuiti e della
"frateria" - da lui personalmente contrastati in occasione della
vicenda che aveva coinvolto il teologo G.M. Dettori, allontanato dalla cattedra
universitaria nel 1829 con l'accusa di giansenismo - e, sul versante politico,
all'involuzione autoritaria del governo sabaudo. Tra il 1826 e il 1833 la
riflessione del G. sui rapporti tra religione e filosofia e tra religione e
vita sociale seguì un percorso non lineare. Ne sono documento eloquente le
lettere indirizzate a G. Leopardi (personalmente conosciuto nel 1828 a Firenze,
durante un viaggio per l'Italia in cui il G. ebbe modo di incontrare anche A.
Manzoni), le lettere al giovane amico e discepolo C. Verga e una lettura
accademica sull'accordo della religione cattolica coi progressi della società
civile (Ricordi biografici e carteggio, a cura di G. Massari, I, pp.
116-126). Scrivendo al Leopardi da Torino il 2 apr. 1830, il G.
confessava di aver professato nel passato "un puro teismo", e di aver
mutato idea in seguito a nuove indagini sulla "verità del Cristianesimo (e
quindi del Cattolicismo che è la sola forma invariabile di quello) come sistema
dottrinale e come fatto storico", e di essere approdato a una
"adesione intima, schietta, profonda alla religione cattolica", che
gli aveva consentito di vincere "i fastidi, le amaritudini, i terrori, la
malinconia" che fin allora lo avevano tormentato (Epistolario, I, pp.
41-44). Due anni dopo, reduce dall'aver "letto a furia" Le mie
prigioni di S. Pellico, scriveva al Verga una lettera in cui, opposto "il
cristianesimo di Silvio" a quello dei gesuiti, dei "nemici della
filosofia e della civiltà", rivelava di essere divenuto assertore di una
religione filosofica: cioè di una religione "immedesimata" e non solo
conciliata con la filosofia, fondamento di una morale austera,
"ispiratrice di azioni grandi e generose, e dell'oblio di se medesimo per
intendere unicamente al bene della patria" (ibid., pp. 131-133). Nei
primi anni Trenta, anche in seguito alla lettura del Nuovo saggio sull'origine
delle idee di A. Rosmini Serbati, il G. enunciò in modo più stringente e
sistematico l'idea di una diretta connessione tra risorgimento filosofico e
risorgimento nazionale, appellandosi a una tradizione filosofica autoctona,
dispiegata genealogicamente da Pitagora al Rosmini, attraverso la scuola
eleatica, la patristica latina, l'umanesimo e G. Vico (lettera a C. Verga, 23
dic. 1831, ibid., pp. 69-73). Dichiarandosi continuatore di questa linea
ideale, il G. manifestò una speciale consonanza con il pensiero di Giordano
Bruno, facendo a più riprese, in parallelo con l'evoluzione delle proprie idee
politiche, professione di panteismo. Tale collegamento è attestato da una
lunga lettera, scritta probabilmente nella primavera-estate del 1833 ai
compilatori della Giovine Italia e ivi pubblicata sotto lo pseudonimo di
Demofilo nel 1834. Il G. vi esaltava il panteismo come la sola filosofia
"destinata a fiorire un giorno col voto unanime dei buoni ingegni", affermando
di avvertire nelle dottrine politiche professate dai mazziniani
"un'applicazione di questi dettati" (ibid., II, pp. 5-25; cfr. anche
lettera al Verga del 9 apr. 1833, ibid., I, pp. 167-172). La lettera,
ripubblicata con intenti antigiobertiani nel 1849 non da G. Mazzini, come a
lungo si credette, ma probabilmente da C. Cattaneo, col titolo Della repubblica
e del cristianesimo, era rivelatrice di una radicalizzazione delle convinzioni
del G., coinvolto in una serie di vicende destinate a mutare il corso della sua
esistenza: vi si proclamava la necessità di una religione civile finalizzata
alla liberazione dei popoli, ma, contemporaneamente, l'impossibilità di dar
vita a "una religione veramente nuova […], tanto che i filosofi, e gli
uomini universalmente cominciano a persuadersi, che fuori del Cristianesimo non
v'ha religione"; e vi si accennava a una lettura escatologica, ma non solo
ultraterrena, dell'idea cristiana di salvezza e di redenzione, implicante una
sua dilatazione dalla sfera individuale a quella sociale, prefigurata nella
promessa di un regno "da aspettarsi eziandio in questo mondo".
Nell'accezione giobertiana, ispirata ora a un messianismo politico-sociale in
vesti cristiane cui non erano estranei gli echi delle dottrine sansimoniane, il
motto mazziniano "Dio e il popolo" diventava così il presupposto di
una "cristianità novella", l'annunzio di un'epoca imminente in cui
"Iddio sarà umanato non nel figliuolo dell'uomo, ma nel popolo", e
destinato non alla croce, ma a un "regno stabile, a una pace perpetua,
all'immortalità e alla gloria". L'abito di prudenza e di
riservatezza adottato dal G. non impedì che le sue idee destassero diffusi
sospetti di ateismo anche presso i suoi superiori. Ciò lo indusse il 9 maggio
1833 a lasciare la carica di cappellano e a rinunciare al relativo stipendio.
Nel frattempo si era affiliato a una società segreta, detta dei Circoli, e poi
ad altra associazione patriottica di dubbia identificazione, forse i Veri
Italiani; non sembra che mai entrasse nella Giovine Italia, sebbene coltivasse
intimi rapporti con alcuni suoi affiliati, come l'abate P. Pallia. In seguito a
delazione, fu quindi coinvolto nella repressione prodotta in Piemonte dalla
scoperta della congiura mazziniana del 1833, arrestato con pesantissime accuse
il 31 maggio e tenuto in carcere, senza processo, fino al settembre. Qui lo
raggiunse un provvedimento immediatamente esecutivo che lo esiliava senza
permettergli di incontrare alcuno dei suoi amici. Per poco più di un
anno, dall'ottobre 1833 alla fine del 1834, il G. visse a Parigi in una
situazione assai precaria, che lo induceva ad autorappresentarsi nei panni di
uno "sdottorato" e uno "spretato" (era privo di celebret
per la messa), di uno che aveva "perduto tutto". Nonostante le
relazioni intrecciate con i molti italiani insediati stabilmente o
temporaneamente nella capitale francese, come il matematico G. Libri, A.
Peyron, T. Mamiani, C. Botta, e con esponenti di primo piano del mondo
accademico francese, come V. Cousin e J.-J. Champollion, visse in relativo
isolamento, in una città che considerava il "microcosmo d'Europa" ma
non amava, ascoltando le lezioni accademiche di C. Fauriel e di Th.-S.
Jouffroy, impartendo per vivere lezioni private d'italiano e progettando, senza
realizzarli, lavori di argomento filosofico o di polemica politica sulla
sanguinosa repressione seguita alla congiura del 1833 e al tentativo mazziniano
del 1834. Nella febbrile atmosfera intellettuale della monarchia di luglio il
G. avvertì come sintomi di una crisi epocale, ma senza condividerne appieno i
contenuti, i messaggi di rinnovamento sociale espressi dalla tarda scuola
sansimoniana, da Ph.-J.-B. Buchez, dalle Paroles d'un croyant di F.-R. de La
Mennais. Lo scenario parigino, che gli appariva connotato dalla totale
estinzione del culto e della pratica cattolica, fornì nuovo alimento alla
venatura apocalittica del suo pensiero, che gli faceva presagire come prossima
la "fine del mondo; ma del mondo antico, donde sorgerà il nuovo", nel
quale "gli ordini morali di Cristo" sarebbero diventati "gli
ordini civili delle nazioni", compenetrando lo Stato sino a produrre
"una società di uomini, retta da sé medesima, sotto la legge universale,
una, libera, fiorente, morigerata, santa, ed esprimente la concordia del cielo
colla terra" (lettera all'abate P. Unia, 14 maggio 1834, ibid., I, pp.
134-139). Per altro verso, si approfondiva sino a divenire inconciliabile il
dissenso del G. nei riguardi della linea mazziniana e verso i movimenti
insurrezionali, cui attribuiva la responsabilità di aver "impedita o
spenta una metà almeno di quel civile progresso che altrimenti or sarebbe in
Italia". Ne discendeva un caldo invito, rivolto ai suoi numerosi
corrispondenti piemontesi, all'accorta prudenza e a un lavoro di lunga lena
finalizzato a un apostolato politico basato sull'aperta propaganda delle idee
patriottiche. Dall'insieme delle posizioni giobertiane dell'esilio parigino
trasparivano una sostanziale sfiducia nel grado di maturazione raggiunto dalla
coscienza nazionale del popolo italiano, "languido, diviso e inerte",
un'attenuazione delle antecedenti pregiudiziali repubblicane e l'abbandono
delle convinzioni panteistiche. Sul piano politico, il G. inquadrava ora la
questione nazionale nella riapertura, ritenuta certa, del ciclo rivoluzionario
in Francia e nella susseguente esplosione di una guerra europea, condizioni
determinanti della liberazione dell'Italia dall'Austria e della cacciata
definitiva dei "nostri tiranni". Nel dicembre 1834 accettò,
anche per ragioni economiche, l'offerta di assumere l'insegnamento di storia e
filosofia nel collegio fondato a Bruxelles da P. Gaggia (un ex sacerdote
italiano convertitosi al protestantesimo), che ospitava un centinaio di giovani
cattolici ed evangelici. Forse anche in relazione alla più pacata atmosfera
politica del Belgio, dove i cattolici erano parte attiva del sistema
costituzionale sortito dalla rivoluzione del 1830, il G. proseguì nella
revisione ideologica già profilatasi nel periodo parigino, prospettando più
lucidamente che nel passato un'esigenza di conciliazione, che non implicasse
identificazione, tra dogmatica religiosa e idee filosofiche e tra ordine
soprannaturale e ordine civile. Dichiarava in proposito che, mentre in
precedenza aveva immedesimato i dogmi cristiani colle idee, ora li disgiungeva,
evitando di ridurre il cristianesimo a una simbolica filosofia, ma
considerandolo invece "il compimento della filosofia medesima" (a
P.D. Pinelli, 15 apr. 1835, ibid., II, pp. 239-243). Ne conseguì la decisione
di produrre finalmente delle opere a stampa. Ai primi del 1838 vide infatti la
luce a Bruxelles una sua "dissertazione religiosa" intitolata Teorica
del soprannaturale, o sia Discorso sulle convenienze della religione rivelata
colla mente umana e col progresso civile delle nazioni, composta in poco più di
un mese sul finire del 1837 e stampata a spese dell'autore; cui seguirono, in
rapida successione, l'Introduzione allo studio della filosofia (Bruxelles
1839-40), che ebbe una circolazione superiore a quella, inizialmente
limitatissima, della Teorica, sebbene di entrambe le opere venisse interdetta
l'introduzione nel Regno sardo; la Lettre sur les doctrines philosophiques et
politiques de m. de Lamennais (dapprima anonima, nel Supplement à la Gazette de
France dell'8 genn. 1841, poi con firma e con titolo leggermente mutato a
Parigi-Lovanio, 1841); il saggio Del bello, composto come voce
dell'Enciclopedia italiana e dizionario della conversazione (Venezia) diretta
da A.F. Falconetti, e pubblicato anche come volume a sé nell'autunno del 1841,
prima opera del G. edita in Italia, che doveva essere seguita da un altro testo
destinato alla stessa sede, Del buono, uscito invece in forma autonoma a
Bruxelles nel 1843; e le dieci lettere Degli errori filosofici di Antonio
Rosmini (Bruxelles 1841; la seconda edizione, del 1843-44, portava a 12 il
numero delle lettere e comprendeva altri scritti giobertiani). Nella
Teorica il G. faceva i conti con il proprio antecedente itinerario
intellettuale e con le tendenze filosofico-religiose del suo tempo. L'opera,
imperniata sull'analisi delle relazioni tra ordine religioso e ordine civile
osservate sotto un'angolatura gnoseologica, etica e storica, aveva come
principale obiettivo polemico la riduzione monistica della sfera religiosa a
quella civile o viceversa, operata, secondo il G., dalle teorie razionalistiche
e panteistiche, dal "cristianesimo politico" dei sansimoniani alla
Buchez, dal tradizionalismo antimoderno di Maistre, Bonald e del primo La
Mennais. Dalle dottrine tradizionalistiche, tuttavia, il G. prendeva,
rielaborandola, l'idea di una rivelazione primitiva cui veniva fatta risalire
sia l'attivazione (mediante il dono soprannaturale del linguaggio) della
facoltà di conoscere e di volere e quindi l'origine della civiltà, sia
l'infusione nella mente umana di verità sovraintellegibili, percepite come
misteri, analizzabili razionalmente solo per via analogica, e fondanti l'ordine
religioso. Ne discendeva una storia parallela, basata sul principio di
distinzione e di interrelazione, della civiltà e della rivelazione religiosa,
anch'essa rappresentata come progressiva, fino al suo compimento nella
rivelazione cristiana, custodita integralmente e infallibilmente dalla Chiesa
cattolica. Il tracciato di questo duplice cammino era per il G. contrassegnato
dal progressivo incremento del ruolo della religione come "causa e
stromento" di civiltà, e dal graduale accostamento degli ordini politici
al modello di società organizzata costituito dalla Chiesa (visibile tra l'altro
nell'applicazione alla sfera politica del sistema elettivo proprio degli ordini
ecclesiastici). Emergevano pertanto dalle pagine della Teorica i lineamenti di
una rilettura cattolica della genesi della civiltà moderna, in opposizione alla
tesi delle sue origini protestanti, e una riaffermazione del primato della
religione sulla civiltà e della Chiesa sullo Stato, che si traduceva nella
confutazione dei sistemi politici, assoluti o democratici che fossero, i quali
implicassero una subordinazione della religione alla volontà del sovrano. Si
trattava, in definitiva, di un'apologia del cattolicesimo in senso civile, che
nello scorcio conclusivo dell'opera assumeva una marcata impronta
nazionale. Tale impronta era ancora più forte nell'Introduzione allo
studio della filosofia. L'opera era infatti imperniata sull'idea che toccasse
all'Italia, dopo un lungo periodo di oscuramento della sua tradizione
filosofica determinato dalla perdita dell'"indipendenza civile",
promuovere la restaurazione della "vera filosofia", scomparsa
dall'orizzonte europeo in seguito all'espulsione dell'"idea di Dio dallo
scibile umano", e porre rimedio agli effetti devastanti prodotti sul piano
politico dalla diffusione di falsi principî filosofici, generatori delle due
contrapposte tirannidi prevalenti nel mondo moderno, quella dei despoti e
quella del popoli, dipendenti "dallo stesso principio, e aventi uno scopo
unico, cioè il predominio della forza sul diritto". L'Introduzione
intendeva porre le basi di un organico sistema filosofico (inteso in senso
molto estensivo), in grado di contrapporsi alle deviazioni psicologistiche,
soggettivistiche o panteistiche della filosofia moderna generate
principalmente, sul piano speculativo, dal pensiero e dal metodo analitico di
Cartesio e, su quello religioso, dalla Riforma: un sistema imperniato
sull'Idea, intesa, a suo dire, in un'accezione totalmente diversa da quella
utilizzata dai sensisti, dagli idéologues e dai panteisti moderni (tra cui
G.W.F. Hegel), e analoga invece a quella platonica e malebranchiana. Il
riferimento all'Idea, intuita dalla mente umana come oggetto reale e in atto
che esiste indipendentemente dal soggetto, cioè come Ente o principio
ontologico e non solo gnoseologico, si realizza nel giudizio sintetico a priori
o formula ideale "l'Ente crea l'esistente", che pone nell'atto
creativo l'origine del mondo, e da cui scaturisce, in ragione dell'identica
matrice della realtà generata e del pensiero, l'intera enciclopedia filosofica
sul piano speculativo. Il principio contenuto nella formula ideale si esplica
infatti in un secondo ciclo creativo che procede, a differenza del primo,
dall'esistente all'Ente, e del quale è partecipe, come causa seconda, l'azione
dell'uomo in quanto dotato di intelligenza e di libero arbitrio, che lo rende
"in un certo modo creatore" e simile a Dio. Mentre il primo ciclo è
il principale oggetto dell'ontologia, scienza dei principî, il secondo ciclo,
nel quale si esplica la "vita attiva", è l'oggetto dell'etica,
scienza dei fini. Tra le molteplici applicazioni della formula ideale abbozzate
nell'Introduzione assumevano un rilievo particolare quella concernente il
rapporto tra religione e civiltà secondo lo schema relazionale già profilato
nella Teorica, e quella riguardante la sfera della sovranità. In argomento il
G., ponendo nell'Idea l'origine della sovranità, ne confutava sia il fondamento
contrattualistico (visto come prodotto delle deviazioni soggettivistiche e
sensistiche della filosofia moderna), sia l'identificazione con il potere
assoluto di un principe. Definendo la sovranità come un processo discendente
dall'Idea, ma nello stesso tempo partecipativo, il G. perveniva alla
enunciazione di una formula politica (modellata sulla formula ideale), per la
quale "il sovrano fa il popolo" ma "il popolo diventa
sovrano", mediante "la trasformazione lenta, graduata e sicura del
Demo in patriziato". Ciò si traduceva in un'apologia della monarchia
civile o rappresentativa generata dal cristianesimo e già prefigurata negli
ordinamenti medievali, vista come sintesi tra un potere tradizionale e un'"aristocrazia
elettiva" chiamata a estendersi col progredire dell'incivilimento.
Inoltre, distinguendo il diritto sovrano dal diritto del principe, il G. finiva
per recuperare come "unico giure assoluto, essenziale, irrepugnabile"
l'idea di sovranità nazionale, trasferendo alla nazione (una volta istituita
come corpo politico) il carattere di primazia che i fautori dell'assolutismo
attribuivano al principe: sino a proclamare non solo il diritto di resistenza
nei confronti del principe assoluto, ma financo, in casi estremi, la
legittimità della rivoluzione. Il progetto di cui la Teorica e
l'Introduzionecostituivano una prima cornice speculativa era sintetizzato in
una lettera a T. Mamiani del 15 ott. 1840 (Epistolario, III, pp. 66-69), dove
il G. esprimeva la convinzione che il solo modo di giovare all'Italia fosse
quello di "creare una scuola di libertà temperata, morale, religiosa,
italiana, una scuola di civiltà tanto aliena dal sentire dei demagoghi quanto
da quello dei despoti"; indicava l'obiettivo di far della religione
"una insegna nazionale" immedesimandola "col genio dell'Italia,
come nazione", facendone "una di quelle idee madri che seggono in
cima al pensiero degli uomini e signoreggiano ogni parte del vivere
civile". Con l'aggiunta che, distinguendo "nella religione cattolica
la credenza dall'istituzione" e insistendo sulla seconda, non sarebbe
stato difficile convincere gli increduli che "il cattolicesimo, anche
umanamente considerato, sia il migliore degli istituti religiosi
possibili". Un programma di così ambiziosa portata prefigurava un
disegno in qualche misura egemonico sul piano culturale e induceva il G. non
solo a entrare in diretta polemica con le opere di autorevoli esponenti del
coevo pensiero europeo, come Cousin (in uno scritto concepito come appendice
dell'Introduzione, ma pubblicato inizialmente a parte, a Bruxelles nel 1840, le
Considerazioni sopra le dottrine religiose di Vittorio Cousin), e come
Lamennais (in un opuscolo duramente critico verso le sue ultime opere
filosofiche e politiche), ma soprattutto a competere con l'altro pensatore
italiano, Rosmini, che aveva intrapreso a propria volta, con intenti non meno
ambiziosi, un programma di edificazione di una filosofia cristiana capace di
misurarsi con il pensiero moderno. Il dissenso nei suoi confronti si era già
manifestato nell'Introduzione, dove alla dottrina rosminiana dell'Essere ideale
era mossa la critica di perdurante e invalicabile psicologismo e perciò di
soggettivismo e finanche di sensismo mascherato. Tale iniziale dissenso si tradusse
in acre e prolungata polemica, specialmente in ragione dei successivi
interventi dei seguaci del Rosmini, come M. Tarditi, l'abate L. Gastaldi,
futuro arcivescovo di Torino, G. di Cavour, secondo i quali le tesi giobertiane
menavano dritto al panteismo. Il G. ribatté colpo su colpo, incominciando dalla
già citata alluvionale opera Degli errori filosofici di A. Rosmini, importante
soprattutto per il fatto che l'autore vi tracciava il processo teorico
attraverso cui era pervenuto alla formula ideale. Nella polemica il G. fu
affiancato e sostenuto dai suoi amici e seguaci, come P. De Rossi di Santarosa,
mentre risultò vano l'intervento pacificatore di N. Tommaseo. Nella
primavera del 1843, sempre a Bruxelles, il G. diede alle stampe l'opera che doveva
dargli la celebrità, Del primato morale e civile degli Italiani, tirato nella
prima edizione in 1500 esemplari. Concepito inizialmente come "un'operetta
di non molte pagine", "un discorsetto non solo sul Papa ma
sull'Italia", il Primato divenne strada facendo un ponderoso lavoro in due
grossi volumi, la cui scrittura, iniziata nel 1842, procedette in parallelo con
la stampa fino al maggio dell'anno successivo. L'opera, dalla struttura
sovrabbondante e magmatica, colma di formule apodittiche e di scarti lessicali,
aveva tuttavia un suo asse portante nel tentativo di definire i caratteri
originali e permanenti della nazionalità italiana sintetizzati in quello che il
G. chiamava "genio nazionale". Plasmato da fattori naturali, come il
sito geografico e la feconda mescolanza di stirpi pelasgiche ed etrusche,
connotato dalla preminenza di elementi sacerdotali e aristocratici, dotato di
un suo particolare "genio federativo" espresso dalla "società di
popoli" realizzata dalla repubblica romana (poi tralignata in signoria
imperiale), riflesso culturalmente da un'ininterrotta tradizione filosofica
autoctona, il genio italico aveva trovato, secondo il G., una sua
configurazione effettivamente nazionale per opera del Papato, che lungo il
Medioevo gli aveva dato stabile forma avviando la traduzione in "ordini
civili" dei dettati religiosi e morali del cristianesimo. Il tratto
costitutivo della nazione italiana veniva così reperito in un principio ideale,
convalidato tuttavia da fattori naturali di tipo etnico e confermato dalla
storia: nell'essere l'Italia "nazione religiosa per eccellenza",
dotata di un primato religioso determinato dal trapianto in Roma dell'Evangelo
e dall'elezione provvidenziale della sede romana a sede apostolica, che si
riverberava in un primato dell'Italia nell'ordine morale e civile, da cui
traeva il carattere di "creatrice, conservatrice e redentrice" della
civiltà europea. Il ruolo o la missione religioso-civile, che faceva degli
Italiani "il nuovo Israele" e dell'Italia una "nazione
sacerdotale", veniva perciò raffigurato dal G. come indivisibile da quello
del Papato: il quale, mediante l'esercizio della potestà civile connaturata
alla sua primazia religiosa, non solo aveva costituito la nazionalità italiana,
ma le aveva altresì impresso i tratti suoi propri di nazione guelfa. Per
converso, il declino della potestà civile dei pontefici, iniziato nel tardo
Medioevo e culminato nell'Età moderna, si era tradotto nella decadenza,
nell'asservimento politico, nella subordinazione culturale dell'Italia e nella
frammentazione politico-religiosa dell'Europa. Il risorgimento italiano,
concepito dal G. sullo sfondo di una riunificazione religiosa europea, veniva
dunque a raccordarsi strettamente con la restaurazione della "scaduta
potestà civile del Papa in modo conforme e proporzionato all'indole e ai
bisogni del secolo". Tale formula conteneva il nocciolo della tesi
centrale del Primato: posto che, secondo il G., l'esercizio della potestà
civile pontificia, perno della più ampia potestà civile della Chiesa, era per
sua natura suscettibile di assumere modalità variabili in relazione al cammino
della civiltà in senso secolare, essa era chiamata a evolversi in maniera
vieppiù adeguata alla propria originaria legittimazione religiosa e alla
progressiva acquisizione di "indipendenza civile" e di "capacità
nazionale" da parte dei popoli, assumendo le forme preminenti della forza
morale, della persuasione, dell'influenza pacifica e pacificatrice.
L'itinerario della potestà civile pontificia tracciato dal G. procedeva dunque
dalla "dittatura", consona alle età barbariche, verso un "potere
arbitrale", delimitato dal fatto di non "avere alcun effetto civile
che non sia consentito alla libera [cioè liberamente] dalle parti gareggianti e
deliberanti". Si realizzava così la saldatura tra la restaurazione-riforma
del potere civile del Papato e il Risorgimento italiano: nel senso che la
ridefinizione del primo avrebbe reso possibile l'esercizio effettivo da parte
del pontefice del ruolo, mai assunto nel passato, di capo civile della nazione
sotto forma presidenziale (o dogale) - un ruolo, dunque, istituzionale, analogo
ma più forte di quello arbitrale -, e la contemporanea trasformazione in unità
"nazionale e politica" della preesistente, ma virtuale, unità
italiana senza che ne venissero toccati i legittimi poteri dei sovrani.
Quest'ultimo aspetto costituiva un altro snodo del Primato, che consentiva al
G. di tracciare una via consensuale, pacifica e aliena da fratture
rivoluzionarie per la costruzione dello Stato nazionale. Scartate come estranee
alla natura e alla storia del genio italico le forme del dispotismo e della
democrazia "demagogica" fondata sull'idea della sovranità popolare, e
assumendo come punto di riferimento il riformismo settecentesco, in specie di
Pietro Leopoldo e di Benedetto XIV, il G. raffigurava l'erigenda entità
politica nazionale come una confederazione dei maggiori Stati italiani, retti a
monarchia "consultiva" sotto la presidenza moderatrice del pontefice
elettivo. La formula della monarchia consultativa veniva preferita a quella
della monarchia rappresentativa per il fatto di non frammentare la sovranità, e
di permettere ugualmente ai sovrani di governare secondo il voto della nazione,
raccolto e filtrato da un corpo vitalizio di "veri ottimati" tratto
da un'aristocrazia selezionata dal merito e dall'ingegno più che dal sangue
nobiliare, agente come canale di collegamento con l'opinione pubblica.
Un'attenzione particolare era dedicata dal Primato al potere dell'opinione
negli Stati moderni, alle condizioni necessarie del suo sviluppo, al ruolo che
il clero era chiamato a esercitarvi nel rispetto del "principio sacrosanto
della libertà delle coscienze", alla funzione modernizzatrice delle
élitesintellettuali. L'utopia della confederazione italiana (tale la definiva
lo stesso G.) si traduceva in una forma politica composita, che richiamava in
certa misura l'ordinamento ecclesiastico, caratterizzata dalla presidenza
conciliatrice del pontefice, da un insieme di "aristocrazie civili e
consultative, ciascuna sotto un capo ereditario investito del supremo
comando", e finalizzata all'unione, all'indipendenza e alla realizzazione
della libertà civile, tenuta distinta da quella politica, cioè
costituzionale. Scritto come libro "moderatissimo" per non
"irritare gli animi" e consentirgli di circolare per tutta la
penisola (il che accadde, nonostante gli interdetti dell'Austria e il divieto
di smercio nello Stato pontificio), con l'esplicita intenzione di raccogliere i
più ampi consensi, il Primato lasciava deliberatamente da parte argomenti di
più immediata rilevanza politica, che pure il G. affermava di aver
originariamente previsto, quali il predominio dell'Austria o la laicizzazione
del governo dello Stato pontificio. Il Primatosegnava inoltre un ripiegamento
rispetto ad alcune delle tesi sviluppate nell'Introduzioneallo studio della
filosofia e conteneva positivi apprezzamenti nei riguardi della Compagnia di
Gesù. Accolto con favore in ambienti laici ed ecclesiastici, compresi quelli
gesuitici, ma stroncato da G. Ferrari nel quadro della polemica antigiobertiana
che percorreva il suo saggio La philosophie catholique en Italie (uscito in due
puntate sulla Revue des deux mondes nel marzo-maggio 1844, cui il G. rispose
con una lettera pubblicata in appendice alla seconda edizione di Degli errori
filosofici di A. Rosmini), il libro contribuì in modo rilevante alla formazione
dell'opinione nazionale, pur a prezzo o forse in ragione delle sue reticenze e
dissimulazioni, trovando una naturale collocazione nel contesto del riformismo
moderato degli anni Quaranta, specialmente in Piemonte, grazie anche
all'apologia, presente in certe sue pagine, della missione nazionale riservata
allo Stato sabaudo sotto il profilo militare, e all'esaltazione del riformismo
carloalbertino: temi subito ripresi e sviluppati, in senso più marcatamente
sabaudista ma anche meno proclive all'idea del primato italiano, nelle Speranze
degli Italiani di C. Balbo (che sul finire del 1844 ebbe parte principale nella
nomina del G. a socio nazionale non residente dell'Accademia delle scienze di
Torino). Di segno opposto furono le accoglienze riservate al Primato da G.
Mazzini e dai neoghibellini. La prima edizione del Primato - la cui lettura era
resa ancora più ardua dalla mancanza di un indice analitico - andò rapidamente
esaurita, e il G. provvide tra il 1844 e il 1845 ad allestirne una seconda
corretta, stampata dallo stesso tipografo belga, e comprendente un lungo testo
introduttivo, che venne tirato a parte in 2000 copie col titolo di Prolegomeni
del Primato. Qui il G. abbandonava alcune delle originarie cautele, con un
pronunciamento a favore della monarchia rappresentativa e con un'acre denuncia
degli orientamenti settari attivi nella Chiesa e identificati in particolare
nell'Ordine gesuitico o, per meglio dire, nel "gesuitismo" inteso
come categoria morale contrapposta al "cattolicismo" e incompatibile
con la civiltà moderna e i suoi valori nazionali. Ciò innescava un'aspra
controversia, destinata ad aggravarsi e a prolungarsi nel tempo, con eminenti scrittori
della Compagnia, segnatamente con F. Pellico, fratello di Silvio, e C.M. Curci,
non senza il sostegno e l'incoraggiamento del padre generale J. Roothaan.
I Prolegomeni segnavano una prima sterzata rispetto alle tonalità ecumeniche
del Primato, e il riaffiorare nel G. di una virulenta vena polemica che trovò
un successivo sfogo nella pubblicazione del Gesuita moderno, apparso a Losanna
nel 1846-47. Una parte non trascurabile nella vicenda ebbe il passaggio del G.
da Bruxelles a Parigi (1845), reso possibile dall'autonomia finanziaria
assicuratagli dalla buona riuscita della sottoscrizione promossa a Torino da
P.D. Pinelli per una nuova edizione delle sue opere complete. A Parigi, ove
rinsaldò l'amicizia con G. Massari (divenuto nel frattempo suo discepolo e
ammiratore), il G. si trovò nel pieno dello scontro sulle scuole delle
congregazioni e nel cuore delle controversie sulla Compagnia di Gesù innescate
dai corsi tenuti al Collège de France da E. Quinet e da J. Michelet.
Soprattutto, suscitò grande eco nell'animo del G., che ne avrebbe tratto a più
riprese corrosivi spunti antigesuitici, il coinvolgimento della Compagnia nei
coevi conflitti politico-religiosi della Svizzera, sfociati poi nella guerra
del Sonderbund. Impostato come una replica alle critiche dei padri
Pellico e Curci, Il gesuita moderno si trasformò strada facendo in un
farraginoso lavoro in cinque volumi (l'ultimo dei quali di documenti) scritto
dal G. in uno stato di tensione e di inquietudine che lo induceva a sospettare
di una sistematica opera di spionaggio messo in atto da emissari della
Compagnia nei suoi confronti. L'opera era un concentrato di argomenti
antigesuitici ricavati dalla storia e collegati dall'idea dominante già
abbozzata nei Prolegomeni: la radicale e irrimediabile ostilità dello spirito
gesuitico, in quanto pervaso da misticismo, lassismo morale e autoritarismo, a
un cattolicesimo civile, ispiratore del movimento nazionale. Nel rappresentare
il gesuitismo come il principale e più subdolo nemico del Risorgimento, il G.
prendeva anche in considerazione, in un'appendice al quinto volume, le tesi
enunciate dal p. L. Taparelli d'Azeglio nel saggio Della nazionalità (1846),
dove si affermava non essere l'indipendenza politica un attributo necessario
della nazionalità, e veniva definito inammissibile il perseguimento di uno
Stato nazionale se in conflitto con i diritti dei sovrani. Il G. vi
contrapponeva un'idea di nazionalità come "creatrice di diritti",
fattore sostanziale e incoercibile di identità di un popolo, in tal modo
proclamando non solo l'incomponibile divaricazione tra due idee di nazionalità,
ma anche prendendo definitivo congedo dalle sfumature legittimistiche del
Primato. Gli eccessi polemici del Gesuita moderno, singolarmente
contrastanti con la moderazione del Primato, gli valsero un'accoglienza
controversa e suscitarono non poche critiche anche da parte di cattolici
liberali come Balbo, Rosmini e Tommaseo; ma assicurarono ulteriore udienza e
popolarità all'autore e un'ampia circolazione, superiore a quella del Primato,
all'opera, che non era stata interdetta dalla censura ecclesiastica ed era
venuta a cadere in una fase in cui il vento antigesuitico spirava forte negli
Stati europei (la seconda edizione, del 1847, fu tirata in 12.000 copie).
I cambiamenti avvenuti nella Chiesa e nella situazione italiana con l'elezione
di Pio IX e l'accelerazione del movimento riformatore, gli atteggiamenti assai
cauti, se non riguardosi, del nuovo papa, già lettore del Primato, nei
confronti del G., e, viceversa, il moltiplicarsi delle critiche al Gesuita
modernoin Italia e più ancora in Francia, specialmente per mano dell'archeologo
Ch. Lenormant, indussero il G., sul finire del 1847, a porre mano a un nuovo
lavoro, l'Apologia del libro intitolato "Il gesuita moderno", con
alcune considerazioni intorno al Risorgimento italiano (Bruxelles e Livorno
1848). Qui la rinnovata battaglia contro il gesuitismo, estesa ora al partito
francese dei "laici ipercattolici" capeggiato da Ch. de Montalembert,
veniva a connettersi più direttamente con i progressi compiuti nel frattempo
dal movimento nazionale e interpretati dal G. come una totale convalida delle
proprie tesi. Sennonché, tra l'inizio della stesura e della stampa, progredita
assai lentamente, e la conclusione del lavoro, compiuto nell'aprile 1848, erano
intervenuti il sovvertimento della scena politica europea con la rivoluzione
parigina del febbraio (direttamente osservata e idealmente difesa dal G.), la
concessione degli statuti da parte dei maggiori sovrani italiani, la rivoluzione
di Vienna e la crisi dell'Impero austriaco, l'insurrezione milanese, l'avvio
della guerra in Italia. Inoltre la Compagnia di Gesù era stata espulsa da molti
Stati, tra cui quello sabaudo, tanto da far pensare al G. che i gesuiti, dei
quali aveva auspicato in lettere private l'espulsione, fossero "morti
politicamente", pur continuando a sopravvivere "i loro spiriti".
Tutto questo impose un rifacimento del capitolo finale dell'opera, più legato
all'attualità, e la stesura di un lungo proemio, datato Parigi 8 apr. 1848, in
cui i fatti italiani, a partire dalla rivoluzione siciliana del gennaio,
entravano prepotentemente nella sua analisi, rendendo il libro ancor più
eterogeneo nei suoi contenuti e il suo titolo ancor più inadeguato, ma
accrescendone pure di molto l'interesse. L'opera vide finalmente la luce, in
quattro edizioni quasi contemporanee, quando il G. era ormai ritornato a
Torino. Molteplici elementi imprimevano all'Apologiail tono di un
manifesto programmatico, in linea con i numerosi interventi avviati dal G. su
alcuni giornali liberali come la Patria di Firenze, l'Italia di Pisa, il
Risorgimento e soprattutto la Concordia di Torino, diretta da L. Valerio: in
primo luogo, l'esaltazione, condotta con toni volutamente forzati, dell'azione
riformatrice di Pio IX, nel quale il G. indicava l'incarnazione provvidenziale
del pontefice da lui stesso preconizzato, guida del Risorgimento nazionale
interpretato come "un evento religioso, europeo, universale",
promotore di "una rivoluzione fondamentale negli ordini umani del
cattolicesimo" e di una metamorfosi del Papato da "aristocratico e
monarcale" a "popolano e democratico come nelle sue origini"; in
secondo luogo, la perorazione per la sollecita creazione di un regno costituzionale
dell'Alta Italia sotto la dinastia dei Savoia, accompagnata dalla confutazione
dei programmi municipalisti e repubblicani. Per altro verso, l'Apologia portò
allo scoperto, sotto la sollecitazione degli eventi, venature del pensiero
giobertiano in precedenza tenute in ombra, riflettendone gli approdi più
recenti. Il libro era tutto attraversato dal tema della democrazia, non tanto
intesa come ordinamento politico, ma quale prorompente e benefica
"rivoluzione, che per la mole, l'estensione, la natura, l'importanza, la
durata, non si può comparare a niuna di quelle che la precedettero, la quale
avrà per ultimo esito di conferire al popolo la piena signoria delle cose
umane"; rivalutava, rifacendosi alle opere di A. de Lamartine e di J.
Michelet, l'opera dei giacobini nella Rivoluzione francese; assegnava a meta
conclusiva del movimento nazionale, dopo la necessaria fase federativa, la
costituzione di uno Stato unitario, accennando a una sua futura trasformazione
in senso repubblicano; individuava il solo modo di perpetuare la monarchia
pontificia in una riforma costituzionale dello Stato della Chiesa, che
consentisse al papa, in quanto principe temporale, di regnare senza governare e
di realizzare la "separazione assoluta del governo spirituale dal
temporale". Quando rientrò a Torino, il 29 apr. 1848, dopo oltre
quattordici anni di esilio e accolto da entusiastiche manifestazioni, il G. era
reduce da una prima cocente delusione politica, determinata dall'annuncio
confidenziale, pervenutogli a Parigi e seguito da immediata smentita, della sua
nomina a ministro dell'Istruzione nel gabinetto Balbo, fatta cadere dal veto di
Carlo Alberto, che gli era e gli restò ostilissimo. In compenso, in un collegio
torinese e in uno genovese era appena stato eletto a sua insaputa alla Camera
subalpina, che alla metà di maggio lo proclamò proprio presidente. Fino alla
fine di luglio, tuttavia, il G. non mise piede in Parlamento, perché ai primi
di maggio, accompagnato da don G. Baracco, già era partito per una lunga
peregrinazione politica, che lo avrebbe portato a Milano (dove ebbe un incontro
col Mazzini), al quartier generale piemontese di Sommacampagna (dove fu
ricevuto da Carlo Alberto), poi, attraverso la Lombardia e l'Emilia, a Genova,
a Livorno, a Roma (dove soggiornò due settimane e fu ricevuto in tre diverse
udienze da Pio IX), e infine, per l'Umbria e le Marche, a Bologna e a Firenze,
donde rientrò, via Genova, nella capitale sabauda. Il viaggio per l'Italia,
avvenuto in una fase in cui la guerra federale contro l'Austria aveva ricevuto
un colpo letale dall'allocuzione di Pio IX il 29 aprile - il cui significato il
G. tentò invano di minimizzare - e dalla reazione borbonica di maggio, fu tanto
indicativo dei vertici raggiunti dalla popolarità del G., ovunque fatto oggetto
di accoglienze trionfali e talora deliranti, e tanto ricco d'incontri con i più
vari circoli politici, quanto povero di durevoli risultati. Nel corso di tale
viaggio, affrontato con lena missionaria, il G. propagandò fervidamente alcune
idee-guida: in nome della concordia nazionale combatté a spada tratta le
ipotesi repubblicane di ogni genere, i movimenti da lui tacciati di
municipalismo, i progetti per un'assemblea costituente, che finì tuttavia per
ritenere inevitabile e non pericolosa a certe condizioni; invocò il pronto accoglimento
dei voti di unione al Regno sabaudo del Lombardo-Veneto e la proclamazione di
un forte regno dell'Italia settentrionale; tentò con la medesima energia di
rilanciare la soluzione federale, contro i riaffioranti particolarismi statali
e dinastici, non esclusi quelli del Piemonte; si adoperò per un consolidamento
del sistema costituzionale a Roma, utilizzando anche i propri rapporti di
amicizia con il ministro T. Mamiani. Analoghi programmi il G. sostenne
durante la breve vita del gabinetto Casati, al quale fu aggregato dal 29
luglio, giusto all'indomani del disastro di Custoza, in qualità di ministro
senza portafoglio e poi dell'Istruzione, facendosi personalmente promotore
della missione del Rosmini presso Pio IX, finalizzata alla stipulazione di un
trattato confederale e di un nuovo concordato. Ma la firma dell'armistizio
Salasco (9 ag. 1848) e l'interruzione della guerra con l'Austria lo colsero di
sorpresa. Di fronte alla svolta che portò alle dimissioni del governo Casati,
il G. abbracciò posizioni assai impopolari presso i moderati, dapprima
avversando e poi perorando una richiesta di aiuto militare alla Repubblica
francese, combattendo a spada tratta la richiesta di una mediazione diplomatica
franco-inglese, schierandosi per una ripresa della guerra in una cornice
federativa quanto mai inattuale. Le ombrosità e le ambizioni del G., che
aspirava alla presidenza del Consiglio, ebbero modo di tradursi in aperto
dissenso politico in occasione della formazione del governo presieduto da C.
Alfieri di Sostegno (poi da E. Perrone di San Martino), che pure includeva tre
amici del G. come il Pinelli, in posizione preminente, F. Merlo e Santarosa. Al
nuovo ministero il G. dichiarò guerra aperta con un opuscolo dai toni
aggressivi, I due programmi del ministero Sostegno (Torino 1848). Accusato il
nuovo governo di spirito municipalista, cioè di disinteresse per le sorti degli
altri Stati italiani, il G., che aveva lasciato il seggio parlamentare in
occasione della sua nomina ministeriale, tentò, facendo appello all'opinione
pubblica nazionale, di promuovere una politica alternativa basata sull'idea di
una Costituente federativa con mandato limitato, da contrapporre sia
all'inerzia del governo piemontese in carica, sia ai programmi di Costituente
agitati dai gruppi democratici radicali. Fu quindi coinvolto nella fondazione
della Società nazionale per la confederazione italiana, che tenne in ottobre a
Torino il suo primo e unico congresso. Preceduto da un suo infiammato indirizzo
"ai popoli italici" (dov'erano tra l'altro adombrati gli irreparabili
guasti religiosi di un eventuale "funesto scisma d'Italia e di Roma")
e aperto da un discorso introduttivo in cui il G. denunciò le colpe dei
"repubblicani pratici" e le "disorbitanze dei democratici
schietti e dei comunisti", il congresso si concluse con la faticosa
elaborazione di un progetto di Costituente federativa e con la proclamazione
del carattere irrevocabile della fusione delle regioni settentrionali nel Regno
dell'Alta Italia. Rieletto alla Camera nella tornata suppletiva del 30
settembre e nuovamente asceso alla presidenza dell'Assemblea, dopo le
dimissioni del governo da lui accanitamente avversato il G. ebbe a metà
dicembre l'incarico di presiedere il nuovo ministero, in cui assunse anche il
dicastero degli Esteri. Salito alla presidenza del Consiglio non più come
simbolo di unità e di concordia ma come esponente di maggior spicco
dell'opposizione, nel discorso programmatico del 16 dicembre definì il proprio
ministero con l'appellativo di democratico, cioè, come disse, volto a innalzare
la plebe "a dignità di popolo", a serbare rigidamente l'uguaglianza
dei cittadini di fronte alla legge comune, a provvedere agli interessi delle
province, con implicito riferimento alla difficile situazione genovese, a
"corredare il principato d'istituzioni popolane, accordando con gli
spiriti di queste i civili provvedimenti"; manifestò inoltre l'intenzione
di riprendere la guerra interrotta, di promuovere una Costituente federativa
italiana, e proclamò il diritto degli Stati italiani - di fatto, il diritto
dello Stato sabaudo, cui attribuiva apertamente una funzione egemonica - di
intervenire negli altri Stati della penisola per evitare sommovimenti
rivoluzionari o interventi militari stranieri. Il G. s'inoltrò pertanto in una
politica nazionale alquanto avventurosa, seppur coerente con il principio,
carico di valore ideale ma povero di forza normativa e da lui ribadito in
documenti ufficiali, per il quale egli affermava la sussistenza di un diritto
della nazionalità, preminente sulle vigenti istituzioni politiche e imperativo
nelle relazioni tra gli Stati italiani. Venne così progettando invii di truppe
sarde nei punti critici della penisola e si propose come indesiderato mediatore
tra i sovrani italiani e i loro popoli. Del tutto vani si rivelarono i suoi
insistiti tentativi di intermediazione tra Pio IX, rifugiatosi a Gaeta, e la
commissione provvisoria di governo di Roma, intesi a ricondurre il pontefice
nel suo Stato con l'appoggio di truppe piemontesi subordinato al mantenimento
degli ordini costituzionali; e volti nel contempo a impedire l'ingresso del
Mazzini in Roma e la convocazione della Costituente italiana. Sul finire
dell'anno il G. chiese e ottenne dal sovrano lo scioglimento della Camera e
l'indizione per il 22 genn. 1849 di nuove elezioni, che videro il suo personale
successo in dieci collegi del Regno, ma produssero un'Assemblea decisamente
sbilanciata sulla Sinistra democratica. Poco attento agli equilibri
parlamentari, che considerava con un certo disdegno, abbandonate le velleità di
convincere Ferdinando di Borbone e gli indipendentisti siciliani ad affidare
alla Costituente federativa la composizione del loro prolungato conflitto,
s'addentrò in un'avventura militare che doveva riuscirgli fatale. Dopo aver lungamente
tentato, grazie anche ai suoi buoni rapporti con G. Montanelli, di indurre il
governo democratico toscano a più moderati consigli circa i ventilati progetti
di Assemblea costituente, posto di fronte alla traduzione di tali progetti in
legge operativa e alla successiva fuga di Leopoldo II, il G. predispose in gran
segretezza un intervento armato piemontese in Toscana, per riportare il
granduca sul trono preservando il sistema costituzionale. La conoscenza del
disegno, rivolto contro un governo di orientamento marcatamente democratico, e
degli atti compiuti per realizzarlo, provocò la sollevazione del Parlamento
sardo, una frattura profonda nella compagine ministeriale e le dimissioni del
presidente del Consiglio, accolte di buon grado il 21 febbraio dal sovrano,
pronto a sostituirlo con il generale A. Chiodo. Per sostenere le ragioni della
propria politica, invisa ormai alla maggioranza dei gruppi parlamentari di ogni
orientamento, il G. dette vita, in marzo, a un giornale politico, il
Saggiatore, sul quale intervenne il 17 marzo per invocare l'unità degli spiriti
in occasione della ripresa della guerra con l'Austria, da lui perorata ma ora
altamente disapprovata per i modi in cui era avvenuta. Dopo Novara
l'abdicazione di Carlo Alberto e l'ascesa al trono di Vittorio Emanuele II, il
G., su invito del Pinelli, accettò di entrare come ministro senza portafoglio
nel nuovo gabinetto presieduto da G. De Launay, nonostante il solco profondo
che lo divideva dal primo ministro e dai suoi orientamenti conservatori, e di
assumere l'incarico di inviato straordinario del Regno sardo a Parigi.
L'indeterminatezza del compito affidatogli e gli atti poco amichevoli compiuti
dal governo piemontese nei suoi confron ti non appena giunto a
destinazione, indicavano che il vero significato della missione era quello di
togliere di mezzo l'incomodo personaggio, anche per favorire le trattative di
pace con l'Austria. Il G., che aveva preso a tessere relazioni con vari
personaggi della vita politica francese e inglese, tra cui A. de Tocqueville,
reagì con la consueta irruenza, troncò ogni rapporto ufficiale con il Regno
sardo dimettendosi da deputato, da ministro e da inviato straordinario,
manifestò a chiare lettere il suo pessimismo sulla situazione italiana,
espresse il suo distacco dal Piemonte anche con la decisione di restituire le
somme pervenutegli per l'edizione delle sue opere, e si ritirò in un secondo,
volontario esilio. Si aprì per il G. un altro periodo operosissimo sul
piano intellettuale e di riflessione, non certo distaccata, sugli eventi di cui
era stato protagonista. Nella corrispondenza privata, tutta intessuta di
riferimenti alla situazione italiana, francese ed europea, ebbe modo di
reagire, con sarcasmo misto ad amarezza, alla condanna comminata il 30 maggio 1849
dalla congregazione dell'Indice al suo Gesuita moderno, adottando pubblicamente
la linea del silenzio anziché quella della sottomissione. Sul piano politico
espresse a più riprese la convinzione che le idee repubblicane, colorate di
socialismo, fossero in fase di inarrestabile ascesa, affermando, in una lettera
del 1851, di vedere all'opera una Provvidenza tinta di rosso "perché
ordina tutto al trionfo vicino o lontano di questo colore". Si dichiarava
altresì fautore di un ordinamento scolastico saldamente nelle mani dello Stato,
in quanto promotore e responsabile dell'"educazione nazionale", della
gratuità dell'istruzione primaria, dell'assistenza pubblica ai vecchi, agli
ammalati e "alla povertà che non trova da lavorare". Mentre
nella primavera del 1851 usciva a Capolago, per iniziativa e con
un'introduzione del Massari, una raccolta di lettere, interventi e discorsi
dalla fine del 1847 all'inizio del 1849, con il titolo di Operette politiche,
il G. riprese in mano i propri lavori di argomento filosofico e religioso,
editi e inediti, ma soprattutto si dedicò alacremente alla stesura di una nuova
opera di ampio respiro che volle si stampasse a Parigi sotto la sua
sorveglianza, pur affidandone la pubblicazione all'editore torinese Bocca: era
Del rinnovamento civile d'Italia, che vide la luce nel novembre del 1851, in
due volumi, il secondo dei quali contenente anche una nutrita parte
documentaria. Il Rinnovamento si presentava come una riflessione politica
che, prendendo spunto dalla ricostruzione critica e storica degli eventi del
'48, affrontava il tema generale delle mutate condizioni interne e
internazionali in cui l'unificazione nazionale avrebbe ripreso il suo cammino.
Il libro proclamava la fine della fase del Risorgimento e l'inizio della fase
del rinnovamento, concepito come parte integrante "di un moto comune a
quasi tutta l'Europa": il primo si era mosso nella logica di una
trasformazione graduale delle cose, il secondo avrebbe assunto "aspetto e
qualità di rivoluzione"; il primo era stato movimento autonomo, governato
dalle condizioni dell'Italia, il secondo sarebbe dipeso "in gran parte dai
fatti esterni"; il primo aveva dovuto limitarsi all'obiettivo di un
sistema federale "perché non ve n'era altro possibile", il secondo non
poteva escludere una possibile, e benefica, accelerazione storica verso
l'unificazione politica. Su questa falsariga il G. affrontava dettagliatamente,
traendo lezione dagli errori che a suo giudizio erano stati commessi da tutte
le forze nazionali, una serie di argomenti di grande impegno: l'insostenibilità
del potere temporale dei papi, "la maggiore anticaglia superstite dell'età
nostra", dannoso all'Italia, all'Europa e soprattutto al cattolicesimo
come causa di subordinazione del Papato alle forze della reazione interne ed
esterne; il posto e la natura del partito conservatore e del partito
democratico nella "politica nazionale"; le condizioni alle quali il
Piemonte, "il paese più scarso di spiriti italici", dominato da una
classe politica di patrizi e di avvocati "inclinati al
municipalismo", guidato da una dinastia "stata finora impropizia
all'ingegno, aristocratica e municipale", e nondimeno l'unico ad aver
preservato gli ordinamenti costituzionali, poteva svolgere quel ruolo egemonico
su scala nazionale che solo avrebbe salvato la monarchia sabauda da un fatale
declino. Un argomento che l'autore adduceva a convalida delle proprie tesi, e
che, diversamente dal Primato, implicava l'attribuzione al Regno sardo di un
ruolo anche morale (pur rimanendo una futura "Roma laicale e civile […] il
principio ideale della risurrezione italica"), era la politica
ecclesiastica inaugurata dalle leggi Siccardi: un passo verso la
"separazione assoluta tra le due giurisdizioni", la temporale e la
spirituale, costituente "la prima base della libertà religiosa, che tanto
è cara ai popoli civili", cornice necessaria alla formazione di un clero
"liberale e sapiente", capace di purgare la religione "dagli
errori e dagli abusi che la guastano". Ma il Rinnovamento era pure
un discorso di "scienza civile", secondo la definizione giobertiana,
intessuto di riferimenti a Machiavelli, ma condotto sulla base dei
"bisogni principali dell'età nostra, il predominio del pensiero,
l'autonomia delle nazioni e il riscatto della plebe": a soddisfare i quali
il G. poneva come condizioni l'esistenza di governi liberi, la costituzione di
Stati a misura nazionale, il funzionamento di ordini civili atti a promuovere
l'innalzamento della plebe a popolo. Per tale aspetto una funzione determinante
veniva attribuita, da un lato, all'"ingegno", cioè alle élites
intellettuali, chiamate a imprimere unità e coesione alla "sciolta
moltitudine", e a impedire che sotto il simulacro della democrazia
trionfasse invece la demagogia dei numeri e delle masse; dall'altro lato, alle
riforme economiche, "unico riparo al comunismo politico", se volte a
ripartire e a regolare le ricchezze (anche con l'imposta progressiva) e non a
inaridire le sue fonti. Il Rinnovamento, percorso tra l'altro da fremiti
antiborghesi, rifletteva una visione del movimento nazionale quale luogo
d'incontro e d'interazione tra le "aristocrazie dell'ingegno", tratte
dal popolo e da questo riconosciute, e le plebi anelanti al proprio riscatto
sociale, garantite da una monarchia non solo costituzionale, ma anche schiettamente
popolare. Nel pubblicare il Rinnovamento il G. era convinto che l'opera
sarebbe incorsa nell'interdetto della Chiesa; quando apprese che il S. Uffizio,
con decreto del 14 genn. 1852, aveva condannato tutte le sue opere, in
qualunque lingua pubblicate, si consolò col rilevare che, "involgendo
nella proscrizione anche quegli scritti che furono conosciuti da tutti per
irreprensibili", si erano meglio manifestati il puntiglio di Pio IX e la
vendetta dei gesuiti. I pesanti giudizi su figure eminenti della classe
politica subalpina di cui il Rinnovamentoera cosparso, provocarono una tempesta
di polemiche, cui il G. rispose con due opuscoli del 1852, il primo dei quali
conteneva una risposta (che non cambiava, ma semmai aggravava la sostanza di
quei giudizi) alle risentite reazioni di U. Rattazzi, di F.A. Gualterio e del
generale G. Dabormida; il secondo intitolato Ultima replica ai municipali,
aveva soprattutto di mira il Pinelli e C. Bon Compagni, schieratosi a difesa
del vecchio amico del G. e ormai divenuto uno dei suoi bersagli preferiti, il
quale si era ammalato gravemente nel bel mezzo della diatriba. La morte del
Pinelli, sopravvenuta quando già l'opuscolo era stampato, creò grande imbarazzo
al G., che stese a tamburo battente un Preambolo in cui rendeva giustizia sul
piano personale alla figura del defunto, decidendo in seguito, dopo vari
tentennamenti, di far distruggere le oltre 1200 copie già stampate dell'Ultima
replica - di cui restò un solo esemplare - e di mettere in circolazione
esclusivamente il Preambolo (Parigi e Torino 1852). Fu l'ultima opera
edita lui vivente: in assoluta solitudine il G. morì infatti improvvisamente,
nel suo modesto appartamento di Parigi, il 26 ott. 1852. Tra le sue carte
rimase una mole imponente di frammenti manoscritti e di opere incompiute e
inedite, costituenti nel loro insieme una specie di continente sommerso, non
meno rilevante, per la conoscenza del suo pensiero, degli scritti da lui dati
alle stampe. Questo materiale manoscritto fu in parte pubblicato postumo, con
scarso rigore, dal Massari che, nel quadro di un'edizione delle opere inedite
giobertiane, di cui uscirono a Torino 10 volumi, diede alle stampe nel 1856 i
frammenti Della riforma cattolica della Chiesa e la Filosofia della
Rivelazione, seguiti nel 1857 dalla Protologia, forse la maggior opera
filosofica del G. maturo, che ne aveva incominciato la stesura negli anni
Quaranta. Nel 1910, a cura di E. Solmi, furono editi, con criteri non meno
discutibili, i frammenti della Libertà cattolica e della Teorica della mente
umana, insieme con il dialogo Rosmini e i rosminiani. In seguito La riforma
cattolica e La libertà cattolica furono ripubblicate, in modo più corretto, da
G. Balsamo Crivelli nel 1924, e da G. Bonafede, insieme con la Filosofia della
Rivelazione, nel 1977 e, lo stesso anno, nell'edizione nazionale delle opere,
da C. Vasale. Appartenenti per la maggior parte alla produzione che il G. aveva
definito "acroamatica", le opere postume, pur nel loro stato di
incompiutezza, rivelano un G. che si confrontava in maniera più diretta con la
critica della religione sviluppata dalla cultura primo-ottocentesca, anche
nelle sue espressioni radicali. L'obiettivo di questi lavori era la
dimostrazione dell'adeguatezza del cattolicesimo, liberato dalle sue deformazioni
temporalistiche, autoritarie e "iper-mistiche", nel rispondere ai
bisogni intellettuali e morali dell'uomo moderno. A questo fine il G. assumeva
come fondamento del suo rinnovato discorso religioso-filosofico la nozione
cattolica di tradizione, facendone il criterio ermeneutico dell'evoluzione
storica delle forme religiose e dello sviluppo del cristianesimo in senso
secolare. Ne derivava un'interpretazione molto audace per la sua epoca del
rapporto tra libertà e autorità in materia religiosa e, in generale, della
dogmatica cattolica. Tali opere dimostrano che il pensiero giobertiano in
materia religiosa si era vieppiù spostato dall'asse della riforma ecclesiastica
o politica a quella della riforma religiosa. Ciò spiega anche la riscoperta del
G. in epoca modernistica; senza trascurare tuttavia che una parte molto
consistente della cultura dell'Ottocento e del Novecento si è misurata con
l'eredità giobertiana, dall'idealismo al federalismo (specialmente
meridionale), dal gentilianesimo al nazionalismo e quindi al fascismo, dal
popolarismo di L. Sturzo alla cultura democratico-cristiana. Fonti e
Bibl.: La principale raccolta di manoscritti giobertiani è quella giunta dopo
varie vicende in possesso della Bibl. civica di Torino, che li conserva in 55 voll.,
54 dei quali rilegati nel 1912 in maniera alquanto arbitraria e classificati in
un indice sommario: si tratta di carte che il G. aveva con sé al momento della
morte, riguardanti i frammenti miscellanei giovanili, appunti ed estratti di
lavoro, e gli autografi delle opere più tardive, pubblicate postume. Alla
stessa biblioteca sono anche pervenute una parte della biblioteca personale del
G. (il cui principale nucleo fu peraltro venduto all'incanto dopo la sua
morte), poche decine di sue lettere autografe e circa 2500 lettere di
corrispondenti, il cui indice è stato pubblicato nel 1928 col titolo Le carte
giobertiane della Bibl. civica di Torino da G. Balsamo Crivelli, al quale
risale anche La fortuna postuma delle carte e dei manoscritti di V. G. ora depositati
nella Bibl. civica di Torino, in Il Risorgimento italiano, IX (1916), pp.
665-694; cfr. anche P.A. Menzio, Cenni sulle carte e sui manoscritti
giobertiani, in Atti della R. Accad. delle scienze di Torino, LI (1915-16), pp.
659-675. Manoscritti autografi riguardanti Il Rinnovamento sono conservati
nella Bibl. nazionale di Napoli e presso l'Istituto per la storia del
Risorgimento italiano di Roma, quasi integralmente pubblicati a cura di L.
Quattrocchi nel III volume (Inediti) del Rinnovamento, ed. nazionale, Roma
1969. L'Epistolario, a cura di G. Gentile - G. Balsamo Crivelli, I-XI,
Firenze 1927-37, è lungi dall'essere esaustivo; le lettere sono riprese, salvo
rari casi, da precedenti edizioni a stampa come: V. Gioberti, Ricordi
biografici e carteggio, a cura di G. Massari, I-III, Torino 1860-63; Il
Piemonte nel 1850-51-52. Lettere di V. Gioberti e G. Pallavicino, a cura di
B.E. Maineri, Milano 1875; D. Berti, Di V. G. riformatore politico e ministro
con sue lettere inedite a P. Riberi e G. Baracco, Firenze 1881; Lettere inedite
di V. Gioberti e saggio di una bibliografia dell'epistolario, a cura di G.
Gentile, Palermo 1910; Lettere di V. Gioberti a P.D. Pinelli, a cura di V.
Cian, Torino 1913; G. - Massari. Carteggio (1838-52), a cura di G. Balsamo Crivelli,
Torino 1920; Carteggio Lambruschini - Gioberti, a cura di A. Gambaro, in
Levana, III (1924), pp. 277-409. Un numero cospicuo di lettere al G. fu
pubblicato col titolo di Carteggio di V. Gioberti, I-VI, Roma 1935-38, in
un'edizione che comprende lettere di P.D. Pinelli (a cura di V. Cian), di I.
Petitti di Roreto (a cura di A. Colombo), di G. Baracco (a cura di L. Madaro),
di G. Bertinatti (a cura di A. Colombo), di "illustri italiani" e di
"illustri stranieri", a cura di L. Madaro. L'Edizione nazionale delle
opere edite e inedite, avviata nel 1938 con la riedizione dei Prolegomeni del
Primato, a cura di E. Castelli e affidata nel tempo a tre editori diversi, è
giunta al vol. XXXVIII, con il secondo tomo dei Pensieri numerati, a cura di G.
Bonafede, Padova 1995: comprende ormai tutte le principali opere del G.,
pubblicate con criteri non omogenei. Materiale giobertiano continua peraltro a
venire alla luce: per es., Appunti inediti di V. Gioberti su R. Cartesio. La
storia della filosofia, a cura di E. Bocca - G. Tognon, Firenze 1981. Le
principali bibliografie giobertiane sono quelle di A. Bruers, G., Roma 1924,
che comprende circa 1400 titoli, fino al 1923, e di G. Talamo, in Bibliografia
dell'età del Risorgimentoin onore di A.M. Ghisalberti, I, Roma 1971, pp.
168-172. Tra le voci enciclopediche: G., V., di G. Saitta, in Enc. Italiana,
XVII; di L. Stefanini, in Enc. Cattolica, VI; di C. Mazzantini, in Enc.
Filosofica, III; di F. Traniello, in Dict. d'hist. et de géogr.
ecclésiastiques, XX. Per una sintesi delle interpretazioni: G. Bonafede, G. e
la critica, Palermo 1950. Tra le opere più recenti: E. Passerin d'Entrèves,
Ideologie del Risorgimento, in Storia della letteratura italiana (Garzanti),
VII, L'Ottocento, Milano 1969, pp. 333-364; A. Del Noce, Gentile e la poligonia
giobertiana, in Giornale critico della filosofia italiana, IL (1969), pp.
222-285; G. Derossi, La teorica giobertiana del linguaggio come dono divino e
il suo significato storico e speculativo, Milano 1970; F. Traniello,
Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminiana
lombardo-piemontese (1825-1870), Milano 1970, pp. 31-51 e passim; E. Pignoloni,
G. e il pensiero moderno, in Rivista rosminiana, LXIV (1970), pp. 155-175,
231-247; LXV (1971), pp. 4-23; Id., Le postume giobertiane nel giudizio della
critica, ibid., LXV (1971), pp. 167-186; G. Martina, Pio IX (1846-1850), Roma
1974, pp. 64-70, 180-189 e passim; C. Vasale, L'ultimo G. fra politica e
filosofia. Appunti sulle origini ottocentesche dell'ideologia in Italia, in
Storia e politica, XV (1976), pp. 201-261; R. Romeo, Cavour e il suo tempo, II,
Roma-Bari 1977, pp. 238-245, 338-341, 362-368 e passim; A. Galimberti, G.,
Gentile, Rosmini, in Giornale critico della filosofia italiana, LVIII (1978),
pp. 172-187; C. Vasale, Riforma e rivoluzione nel G. postumo, in Storia e
politica, XVIII (1979), pp. 395-441, 621-665; A. Rigobello, V. G., in
Christliche Philosophie im katholischen Denken des 19. und 20. Jahrhunderts, a
cura di E. Coreth, I, Graz-Wien-Köln 1987, pp. 619-642; S. La Salvia, Il
moderatismo in Italia, in Istituzioni e ideologie in Italia e in Germania tra
le rivoluzioni, a cura di U. Corsini - R. Lill, Bologna 1987, pp. 169-310; F.
Traniello, La polemica G. - Taparelli sull'idea di nazione e sul rapporto tra
religione e nazionalità, in Id., Da G. a Moro. Percorsi di una cultura
politica, Milano 1990, pp. 43-62; Id., Il cattolicesimo riformato di V. G., in
Storia illustrata di Torino, a cura di V. Castronovo, Milano 1992, IV, pp.
1101-1120; G.P. Romagnani, V. G., A. Chiodo, G. De Launay, M. d'Azeglio, Roma
1992; C. Vasale, Il significato del federalismo giobertiano nella storia
d'Italia, in Stato unitario e federalismo nel pensiero cattolico del
Risorgimento, a cura di G. Pellegrino, Stresa-Milazzo 1994, pp. 215-245; L.
Pesce, Peyron e i suoi corrispondenti. Da un carteggio inedito, Treviso 1997,
pp. 457-471 e passim; G. Rumi, G., Bologna 1999; G. Cuozzo, Rivelazione ed
ermeneutica. Un'interpretazione del pensiero filosofico di V. G. alla luce
delle opere postume, Milano 1999. INDICE LIBRO PRIMO. INTRODUZIONE. Cap.
5. La sovrintelligenza Sezione seconda.ConceTTO,METODO E DIVISIONE DELLA
FILOSOFIA (Dommatismo) Sezione prima .COSTRUZIONE DEL PRIMO TERMINE DELLA
FORMOLA (l'Ente ). CAP. 1. Definizione del Primo.Distinzione del Primo
psicologi c o e d e l P r i m o o n t o l o g i c o . Il P r i m o f i l o s o
f i c o CAP. 2. Il Primo filosofico S I.Caratteristica del Primo filosofico
Giobertiano.Po l e m i c a c o n t r o R o s m i n i . p a g . 1 3 2 - 1 5 8 -
) . II . Il P r i moèl'Entereale.Cosasialarealtà.Giob.nonar riva a dirlo
chiaramente. Difello e pregio del suo concello della reallà (del concreto:unità
del positi 55-72 72-99 vo e del negativo).pag.158-164. CAP. 3. Deduzione della
realià dell'Ente dal concetto dell'Ente. 164-185 D. I. Dal giudizio l'Ente è
non si deduce la realtà del. 126-185 1 2 6 - 1 3 1 131-16% 3 1 CAP. 1.
L'intuito . pag . 1-99 . O ľ Ente. Sicontradiceall'ontologismo.- Sicon 100-119
Sezionc prima.LA CONOSCENZA CAP . 2. La riflessione psicologica CAP. 3. La
riflessione ontologica Cap.4.Laparola. . 3-14 14-20 21-55 LIBRO
SECONDO.COSTRUZIONE DELLA FORMOLA IDEALE
fondelarealtàcolpuroesserepag.165-170.- .II. Personificazione dell'Ente
pag. 170-178.- S .III. Abbozzo della vera via di dedurre la realtà dell'Ente.
Realtàosussistenza= intelligibilitàoidealità.Giob. non
adempiequestaesigenza.pag.179-184.-Con . . 186-264 Cap.1.RelazionetraEnte
edEsistente.Processoaprioriea posteriori.(Causa ed Effetto) . II.Prova
dell'intuito (Identità dei due ordini ,onlo logico e psicologico.Verità
dell'atto creativo).pag. 206-246. - S.III. L'intuito come prova dell'atto
creativo.Dommatismo.Gioberti,Platone,Schelling ed Hegel.pag. 216-220. CAP. 3.
Prove indirelte dell'intuito 248-253.- $. I. Lo spirito è produzione di sè
stesso.pag. 253-260. – S. III.Intuito dell'intuito.
$.II.Falsoconcellodellalibertàenecessilàdel pen 242-247 CAP. 4.
Conseguenze della dottrina dell'intuito. 540 . 198-220
S.1.OntologismoePsicologismo.pag.200-206.- S. S.I.Epilogo:mancanza didialettica.pag.272-274-
o 272-282 CAP. 2. L'intuito come conoscenza dell'atto creativo . .248-264 $.I.
L'intuito immediato è la conoscenza empirica.pag. CAP.1.Epilogo.Confusione
del(primo)pensabile edel(pri mo )conoscibile. . 266-272 Cap. 2. Falso concello
del pensiero speculativo 189-198 265-311 . . 220-247 S. I. Duplice ordine
psicologico: intuitivo e riflessivo. chiusione di tutta questa Sezione
pag.184-185. Sezione seconda.COSTRUZIONE DEL SECONDO E TERZO TERMINE DELLA
FORMOLA . Gioberti e Rosmini.Insussistenza delle ragioni re c a t e d a G i o b
e r t i p e r d i f e n d e r e il p r i m o o r d i n e c o m e condizione del
secondo : il concetto dell'infinito condizione del concelto del finito
(concello dell'Ente condizione del concetto dell'esistente).La relazione ei
suoi termini. L'ordine intuitivo come cognizione nonèchelascienza.pag.220-234.-
S.I.Nuova instanza di Gioberti: concello del Necessario e del contingente.
pag.235-241.- $.III,L'intuito del l'atto creativo è lo stesso processo a
posteriori pag. pag.260-264. Sezione ( il N o o ) . terza,L'INTUITOSPECULATIVO
O IL PENSIERO PURO $.I.Prima prova delloSpinozismogiobertiano.pag.
Cap. 5. Epilogo sulla identità e differenza tra Spinoza e Gio berti. Sezione
terza,L'INTELLIGIBILITA'. $ . I.Identilà di crcazione e illustrazione.La vera i
m m a 372-381 381-390 397-415 324 349 . 541 LIBRO TERZO.CONTENUTO DELLA
FORMOLA 324-333.- $.II.Seconda S. III.Si considera di nuovo
l'intuilo.Caralleristica. (Contenutodell'altocreativo)(Dio-Quantilà). 350-390 CAP.
I. Caralleri dello Spinozismo:loro contradizione.Concello
generaledelladifferenzatraSpinozaeGioberti. 350-356 Cap.2.
Anticipazionedelconcello diDiocomerelazioneasso lula.Confradizione. Doppio
concello dell'esislenic (ediDio) CAP . 3. Dio Quantità. Lo spirito :
contradizione. La vera dili 356-364 collà . Cap. 4. Soluzione: Dio come
Sviluppo. (Prima di Kant e dopo 364-372 Kant) nenza.Difetto
delloSpinozismo.Doppia intelligibi. lità delle cose.pag.398-402.-
S.II.Difficoltà con tro la immanenza nel sensibile.Paragone della co "
gnizione colla visione.Meccanismo nello spirito.Con cello dello spirito (del
conoscere ).Kant; l'empirismo. prova. pag. 333-344. - 306-311
siero.pag.274-279. S.III.Confusionedell'lilea CAP.1.
FalsoSpinozismo(Diosemplicesostanza,noncausa).317-323 CAP. 2. Vero Spinozismo
(Diosostanza causa). 317-349 e della rappresentazione.pag.279-282. CAP. 3.
Relazione del pensiero puro coll'esperienza . 283-300
CAP.4.IlNoopassivoèilsenso 301-306 CAP, 5. L'Innatismo . IDELAE (Spinozismo).
Sezioneprima.SPINOZISMO(forma dell'alto creali vo:meccanismo) pag.344-349.
Sezione secondo.DIFFERENZA TRA GIOBERTI E SPINOZA. . .[ CAP. 1. Intelligibile
assoluto CAP.2. Intelligibile relativo.Fondamento dellasoluzionedel problema
391-415 391-397 Gioberti riunisce idue difetti.pag.403-411.- S.III.
Rispostaalla difficoltàprecedente,everoconcetto
dell'intelligibilerelativo.pag.411-415. LIBRO QUARTO .COGNIZIONE DELLA REALTÀ
DE CORPI, E ORIGINE DELLE IDEE, COME PROVE INDIRETTE DELLA FORMOLA .PASSAGGIO
AL MISTICISMO. Sezioneprima.COGNIZIONEDELLAREALTA'DE'CORPI. .420-467 Cap. 1.
Gioberti non ammette la prova,ma l'inluito della realtà dei corpi . .
426-429.S.II.Ragioni del realismopag.429.- S. III.Necessità di un principio
superiore: cos'è. Galluppi:criticatodaGioberti.pag.430-437– ). IV.Certezza e
verità.Fede e Scienza.Certezza e ve denza metafisica,efisica.Critica.
pag.456-467. Sezione seconda.Origine delle idee.pag.
precedenti,especialmentediRosmini.La generazio 483-489.S II.La dipendenza
logica.a )Distinzione delSovrintelligibile edell'Intelligibile.Significato
econseguenzadiquestadistinzione.b)Ragionee So C a p . 2 . I d e a l i s m
o e R e a l i s m o ( i m p e r f e t t i ): i d e a l i s m o a s s o l u t o
; certezzaedevidenza .. . . . 420-425 .425-443 9. Ragioni dell'idealismo;e suo
difello.Rosmini.pag. . . . 468-538 Cap. 1. Significato generale della
quistione.Critica de'filosofi . .479-526 S. I. Distinzione de'concelli in
assoluti e relativi.pag. . .468-479 ritàdelmondo pag.437-443. CAP. 3. Dottrina
propria di Gioberti sulla cognizione de'corpi; 542 e certezza ed evidenza di
questa cognizione ..444-467 . 1. 1. Significato e difficoltà del problema . 2.
solu zione:l'Individuazione (creazione:creareèindivi d u a r e ) . G i o b . p
o n e b e n e il p r o b l e m a , m a n o n l o r i
solve.Anzifaimpossibileogni soluzione;incono scibilità dell'alto creativo nella
sua essenza.Perples silàdiGioberti3.Critica.pag.444-456– $.II. Certezza
dellacognizione de'corpi.1. Distinzione della certezza in fisica e metafisica.
2. L'evidenza come fondamento della certezza in generale.3. Evi ne ideale
(analisi e sintesi )pag. CAP. 2. La produzione ideale giobertiana : attività
sintetica ori ginaria. Critica di questa dottrina vraragione ( Ente
cd Essenza ); dipendenza logica e generazione.Contradizioni.Doppio
sovrintelligibile: Unità delle delerminazioni razionali , e Trinilà divi
na.c)L'ldea come pura ragione o unilà delle deter minazioni razionali.
Moltiplicilà astralla e unilà a stratla ( pura sintesi o dipendenza logica,e
pura a nalisi ).Vera unità: unità della sintesi e dell'analisi;
lamoltiplicitàcome momento dell'unità;unità- pro cessoassoluto.pag.489-509.
-S.Ill.Larelazione del concello relativo coll'Ente ( creazione ). a ) D u e
ipotesi:generazione,e creazione.Risultato ;assur dilà dell'allo creativo come
punto di passaggio tra l'Ente e l'esistente.La creazione è l'aulogenesi dello
spirito. b).La creazione è in sè generazione. Conse guenze di questa
dolirina pag.509-526. C A P . 3. Risultato generale deila doitrina di Gioberti
sulla p r o duzioneideale.— PassaggioalMisticismo Elenco di Opere di
Vincenzo Gioberti possedute dalla Biblioteca Nazionale di Torino (*) De Deo et
naturali religione, de antiquo foedere, etc. Taurini, Bianco, 1825, in-8°.
Teoricadelsovrannaturale.Brusselle,Hayez,1838,in-8°. La stessa. Torino, Ferrerò
e Franco, 1849, in-8°. La stessa. Accresciuta d’un discorso preliminare e
inedito intorno alle calunnie di un nuovo critico. Capolago, Tip. Elvetica,
1850, 2 tomi in 1 voi., in-8°. Degli errori filosofici di Antonio Rosmini.
Brusselle, Hayez, 1841, in-8°. La stessa. Brusselle, Meline, 1843, 3 voi.
in-8°. La stessa. Capolago, Tip. Elvetica, 1846, 3 voi. in-8°. Del primato
morale e civile degli Italiani. Brusselle, Meline, 1843, 2 voi. in-8°. (i)
Elenco favorito con gentile premura al Comitato Editore dal Prefetto della
Biblioteca Nazionale Cav. Avv. Francesco Carta. 284 La stessa.
Capolago, Tip. Elvetica, 1846, 5 voi. in-16°. Prolegomeni del primato morale e
civile degli Italiani. Brusselle, Meline, 1846, in-12°. Introduzioneallostudiodellafilosofia.Brusselle,Hayez,
1840, 2 tomi in 3 voi., in-8°. Lastessa.Secondaediz.,Brusselle,Meline,1844,4vo¬
lumi in-8° Considerazioni sopra le dottrine religiose di Vittorio Cousin.
Brusselle, Meline, 1844, in-8°. Il Gesuita moderno. Losanna, Bonamici, 1846, 5
vo¬ lumi in-8°. Lastessa. Torino, Fontana, 1848, 5 tomi in 3 voi., in-8°.
Lastessa.Capolago,Tip.Elvetica,1847,7voi.in-16\ Apologia del libro intitolato «
Il Gesuita moderno », con alcune considerazioni intorno al risorgimento italiano.
Parteprima.Parigi,Renouard,1848,in-8\ DelBuono.Brusselle, Meline,1843,in-8°: La
stessa. Capolago, Tip. Elvetica, 1845, in-16°. Essai sur le Beau, ou éléments
de philosophie esthétique, traduìtde l’italien par Joseph Bertinatti.
Brusselle, Meline, 1843, in-8°. Del Bello. Firenze, Bucci, 1845, in-8°.
Allocuzione di un filosofo cattolico a Pio IX. Torino, 1847, in-12°.
285 Discorso pronunziato nell’adunanza generale per l’aper¬ tura del
Congresso nazionale federativo la sera del 15 ot¬ tobre1848nelTeatroNazionale.Torino,
G.PombaeC., 1848, in-8°. IdueprogrammidelMinisteroSostegno.Torino,Fontana,
1848, in-8°. Antiprimato papale e l’automatismo romano distrutto dal
VangeloedaiSantiPadri.Torino,1850,in-16°. Lettre sur les doctrines
philosophiques et Politiques de Lamennais.Capolago,Tip.Elvetica,1850,in-8°.
Delrinnovamentociviled’Italia.Parigi, Crapelet,1851, 2 voi. in-8°. Operette
politiche. In « Documenti della guerra santa d’Italia », voi. VII. Capolago,
Tip. Elvetica, 1851. Preambolo dell’ultima replica ai Municipali. Parigi, Mar-
tinet, 1852, in-8°. Risposta a Urbano Rattazzi. Sopra alcune avvertenze di
Filippo Gualterio. Al Generale Dabormida. Torino, Ferrerò e Franco, 1852,
in-8°. Della filosofia e della rivelazione, pubblicata per cura di
GiuseppeMassari.Torino,ErediBotta,1856,in-8°. Pensieri e giudizi sulla
letteratura italiana e straniera, raccolti ed ordinati da Filippo Ugolini.
Firenze, Barbèra, 1856, in-12°. Della protologia, pubblicata per cura di G.
Massari. Torino, Eredi Botta, 1857, 2 voi. in~8°. 286 Profezie
politiche intorno agli odierni avvenimenti d'Italia. Torino, 1859, in~l2°.
Pensieri, Miscellanee. Torino, Eredi Botta, 1859, 2 voi. in-8°. Ricordi
biografici e carteggio, raccolti per cura di Giu¬ seppe Massari. Torino, Eredi
Botta, 1860-62, 2 vo- lumi, in-8°. Studi filologici desunti da manoscritti di
lui autografi ed mediti fatti di pubblica ragione per cura dell’avvo¬
catoDomenicoFissore.Torino,Tip.Torinese,1867, in-8u gr. Una lettera a Terenzio
Mamiani in data del 28 maggio 1834, pubblicatadaVincenzoDiGiovanni.Roma,Tip.delle
Terme, di a. Balbi, 1894, in-8°. Lettera sugli errori politico-religiosi di
Lamennais. Vincenzo Gioberti e Giordano Bruno. Due lettere inedite,
pubblicatedaG.0.Molineri.Torino, L.Kourt:eC. 1889, in-8°. Vincenzo Gioberti e
Giorgio Paìlavicino. Lettere per cura di B. K. Maineri. (Piemonte (II) negli
anni 1850-51-52). Milano,FratelliRechiedei,1875,in-l&'. METAFISICA
PREAMBOLO. ONTOLOGIA PARAGRAFO 1. Dell'Enle, come concreto e reale. PARAGRAFO
2. Dell'Ente, come astratto ed ideale, CATEGORIA I. 86 CATEGORIA 4 . 104
PARAGRAPO . I. Dell'atto creativo. TEOLOGIA RAZIONALE-PARTE GENERALE. PARTE
SPECIALE : 143 velazione e della Civiltà colla Reli . 161 'ART. 3. D. Primo
Storico CATEGORIA 2. 91 100 CATEGORIA 6 . PARAGRAFO. 2. Del tempo e dello
spazio. C A P . II. Delle convenienze della ragione colla R i COSMOLOGIA PARTE
GENERALE, 3& 120 ivi LOGICA fato,della fortuna e del
destino,dell'ac cidente e della necessità. PARTE SPECIALE Della
sovrintelligenza e del desiderio PARTE GENERALE. PARTE SPECIALE Della
diffinizione e della divisione. 269 271 ART. 5. Del metodo. PARTE
SPECIALE 284 , 253 pag. 193 • 204 221 227 234 gressisti , 110230 * 233
ART. 1. ART,2. PARAGRAFO 2. Della volontà umana . 212 218 PSICOLOGIA PARTE
GENERALE. CAP. II. Dellefacoltàdellospiritoumano. ART. 4. Det raziocinio e
delle sue forme esteriori. 273 A r t . 6 . Dell'arte critica. 9 C A P . I. Del
1. Ciclo generativo e Cosmogonico ART. 3, della forzacosmica.. 216 • 26 278 266
ART . i. Della proprietà delle parole. . C A P , I. Delle proprietà dell'uomo .
ART. 1 Art. 2. ART. 2. 280 ART. 3. Dei giudiziie delleproposizioni. FINE
DELL'INDICE.E SOMMARIO ITRE ULTIMI ANNI DI VITA,E LE OPERE POSTUME Prima di
esporre la filosofia acroamatica si compie il ritratto della vita dell'autore-
Giobertisiritiranellavitaprivata- come eiparla disè stesso
cercadirompereognilegamenonpurecolGoverno, macogliuomini-comesostienelavita–
lapovertàdiluidàoccasione adunattogenerosodelRosmini—
pertenersiprontoastampareal cuna opera utile all'Italia non vuole dettare un
Discorso sull'Alfie ri- qualieranoicasiimprovisichepoteanoindurloastampare—
perchè opinava più probabile che la repubblica francese non ca desse — concetto
che egli avea di Luigi Napoleone - i n che fu fal laceilsuo giudiziosullaFrancia—
nellametà del51 pone inlucc il Rinnovamenlo – intento di questo libro : sua
convenienza e diffe renzacolPrimato– censuratuttietuttocoll'intendimentochefae
cia pro nell'avvenire - - -rottura col Pinelli e coi municipali - pole
micaconesi— mortedelPinelli--sibrucianolecopiedel'opu
scoloUltimareplicaaimunicipali— l'autorelascialapoliticaeri volge il suo animo
tutto al le opere nuove da pubblicare — forse la
troppatensionedimenteglinocque- morteimprovisaedoloreuni versale—
quantodannofuallascienzaeallareligione– vocazione
diGiobertinonmancataperlamorteintempestiva— leoperepostu me– quando furono
scritteprimaodopoil48?- ilconcettoeil titolo di esse furon suggerito dalle
circostanze o ne sono indipen denti?–
Tuttociòcheoraèstampatoappartenevaadessesecondo l'intendimento dell'autore ? -
- c quale fu quest intendimento ? - gli scritti postumi sono solo l'apparecchio
e imateriali delle opere che volevadarealaluce-
ildisegnoperòv'apparisce:qual'èdesso?- CAPITOLO PRIMO ragioni
che rendono difficile a cogliere la connessione e la verita della dottrina
contenuta nei detti scritti---apparente antinomia di cssa dottrina -come ho
proceduto io per afferrarne l'unità e la germanaintenzione
inqualformamisonrisolutodiesporla-fu benecheilMassaricurasselapubblicazionediessiscritti–
pote vanoperòesseremeglioordinatidariuscirepiùintelligibili– ladot trina del
Gioberti è più difficile di quella dell'Hegel. CAPITOLO SECONDO PRELIMINARI La
filosofia acroamatica non è contraddittoria all'essoterica , ma solo tanto
diversa - nesso tra l'una e l'altra — differenze della cognizione
direttaospontaneadelRosmini,edelCousindalpensiero imma nentedelGioberti
Doppiostatodelpensieroumano caratteri dellostatoriflessivoedellostatoimmanente–
l'intuitodell'ente differisce da quello dell'esistente — in che consiste la
strellezza spe cialedell'enteintelligibilecolpensieroimmanente -comel'attività
dello spirito coesiste coll'Ente senza che questo sia subbiettivato condizioni
proprie dello stato immanente - si rimuove una obbiezio nc-dell'attivitàumana
-suodoppiostatoedifferenzedell'unostato dal l'altro- - della personalità — l a
penetrazione del pensiero nello slalo immanente è diversa dalla compenetrazione
dello stato successivo triplice proprietà del pensiero immanente analoga a tre
momenti dell'ente- lospiritosebbeneunapersonanelpensieroimmanente non
subbicttivizza la cognizione - l'ordine psicologico è proprio della
riflessione:suofondamentoontologico– anchepropriodellarifles sione è l'ordine
cronologico - che fa il tempo -- onde nasce il ripie gamento della intuizione
sovra se stessa— falso modo d'intendere la visioneideale
cheèlavitaanterioredescrittadaPlatonenelFe d r o - d i f f i c o l t à d i c o
g l i e r e il p e n s i e r o i m m a n e n t e - - - l a d i s t i n z i o n
e b e n nelladellaintuizionedallariflessionecorreggeladottrinaplatonica-
obiezione del Grote - come vi si risponde - - dei giudizii – doppio giul.
dizioobiettivo- lospiritoescedallostatoimmanente coll'affermare
eglil'Ente-comesiafferrailpensicroimmanente- delmodocome 502 3.42
possediamo le idee - le quali nascono per via didisgregazione, non di
generazione— deigiudiziianaliticiesintetici- sichiarisceundub bio-delraziocinio
dellafilosofia:suadefinizione--filosofiaprima qual'è;sua
distinzionedall'ontologia-obiezione contro laProtologia: risposta
-dellacircuminsessionedeiveri:suaradice -criteriodelve ro - onde nasce
l'evidenza e la certezza scientifica— che è un siste m a scientifico - in che
senso i principii dipendono e sono illustrati dalle conseguenze — le une non
sono affatto eguali in valore agli al
tri--dell'ipotesi,deipostulati,edegliassiomi- seiprincipiisono astratti , onde
si trae la concretezza , senza di che la scienza non avrebbevalore?-
IlPrimodellascienzaèlaFormola ideale-c0 me siprova che è ilPrimo -mutua collegazione
e dipendenza delle verità secondarie e primato relativo della formola --
l'unità scienti fica deve salire e fondamentarsi nell'unità ideale trasparente
all'in tuito - il processo non fa la scienza perfetta - questa risulta dalla in
tima unionedellacognizioneriflessivacollaintuitiva--dell'Ultimo della scienza –
la parola è il passaggio dal pensiero inimanente al s u c cessivo - onde si
cava la necessità della parola per l'uso del pensiero riflesso - origine del
linguaggio : tre opinioni - - -sentenza dell'aulo re-
comepuòdirsicheilsegnodellinguaggioèunitoal'Idea unità della dottrina di
Gioberti su questa materia . CAPITOLO TERZO DOTTRINA DELL'ENTE C o m e l'unità
e semplicità di Dio si accorda colla moltiplicità degli a l tributi -
dell'unione dei contraddittorii in Dio - - trasformazione dia
letticadeidiviniattributi— Hegelcontuttiipanteisticonfondeil
processopsicologicocol'ontologico-l'antropomorfismoéopera del
l'imaginazionenondellaragione dellafuturizionedivina-Iddioè insieme
sovrintelligibile e intelligibile- negatività di Dio- come co
nosciamol'Assoluto?— Dioèpersonale:obiezioni,risposte— Dio produttività
infinita-lapotenzialitàel'attualitàsonodiverseinDio enellecreature-
Dioèliberoenecessario- èbuono- l'esistenza di Dio è verità intuitiva pel pensiero
immanente , dimostrativa pel 503 43-94 504 DOTTRINA DELLA
CREAZIONE L'ideadicreazioneportasecoperduerispettil'ideadinulla—delcan
95-124 successivo- laprovadimostrativamiglioretraggesidallanozione
dell'infinito- processoprotologicoedesplicativodelleattribuzioni dell'Ente -
attribuzioni esterne ed interne- doppia eptate - dell'in
finito;onden'abbiamol'idea- èdeterminato;mas'intendenonsi comprendedella
presunzione divina dell'infinito potenziale nel suo atto — antinomie
rislessive:ipanteisti frantendono l'idea dell'infi nito - assurdità
dell'infinito nunerico - distinzione dell'infinito pos sibile o potenziale
dall'attuale - due infiniti: ilrelativo e l'assoluto dell'infinito
aritmeticomonadico. giamento-l'atlocreativoèunoinsè anchenell'estrinsecoéper fetto-puossiconsiderarepertrerispetticomeinfinito–
l'infinità potenziale del finitosuppone ilpossesso attuale,benchè finito, del
l'infinitàattuale-incheconsistesiffattopossesso— l'attocreativo
intervieneintutto— ècausachel'unitàdell'Ideasisparpagliain molteidee-
igenerisonovari-lavarietàspecificadellecosede riva dalla maggiore o minore
intensità dell'atto creativo CAPITOLO QUARTO zioneèdivisioneemoltiplicazione-
rispettoall'esistentel'attocrea tiyo è sintetico e analitico - differenza della
causalità finita dall'in finita-cheèilcronotopo--suaunità-
comedall'unitàdell'istante edelpuntosibiforcailtempoelospazio—
l'intervalloèuno-5e nesidelcronotopo- doppiovaloredelpuntoedell'istante-
dell'in ternitàedell'esternità- l'unitàdelcontinuosirappresentainordine lospazioeiltempohannouncentro
al discreto sotto tre aspetti— del passato , sintesi del continuo e del
discreto nei modi del tempo -- del presente e del futuro- l'eternità non cresce
— doppio continuo , attualeepotenziale -infinitazionedelcronotopo-inchesensoilmon
do è cterno - ogni epoca e stato mondiale è una palingenesia verso il p a s s a
t o , e u n a c r e a z i o n e v e r s o l ' a v v e n i r e - il c r o n o t
o p o e l ' u n i v e r soinfinitisonorealicomeintelligibili–
l'indivisibilitàdelcronotopo dal pensiero colto dal Kant- del pensiero divino e
umano-- interio la crea DOTTRINA DELL'ESISTENTE
debbonsidiresull'esistente- questosomigliaall'entepereffettodella creazione-
incheconsistel'improntadell'entecheportainsèl'esi stente diversosensodatodall'autoreallevocimetessiemimesi
quale è il senso che in quest'opera si dà alla prima -- distinzione
dellapotenzaedell'atto- metessipotenziale,intermedia,eattuale l a m i m e s i -
e s s e n z i a l e a l l e f o r z e c r e a t e è il c o n c r e a r e e il g
e n e r a r e : prove- carattere del primo momento dello sviluppo dinamico --
due 64 125-166 505 Difficoltà di esporre la materia-nesso delle cose
dette con quelle che ritàeesterioritàdelpensieroumano irrazionalitàdelvero
nella s u a c o n c r e t e z z a - c o m e il p e n s i e r o u m a n o c o n
o s c e il c o n t i n u o - l ' i m manenzadell'eternodatocidalpensiero—
l'estensioneeladurata esprimono ilimitidell'esistente —
Dialettica;ildiverso,ladualità,
lamoltiplicitàappartengonoall'essenzadellacreazione- incheversa
ladialetticaeondetraeilnome duedialettiche:realeeideale che forma il moto o
vita dialettica- la dialettica consta di due m o menti,sebbene sembra che
constidi tre- glieterogenei,cioè idi versi ed opposti,non sono
contraddittorii---differenza della eteroge neità dalla contraddizione –secondo
un certo rispetto l'eterogeneità
èinDio-l'opposizioneriguardailnegativodellecose- ilcontrap
postoèdiversodall'opposizione- glieterogeneiimportanogliomoge
neieviceversa-cheèilterzoarmonicoodialettico come mai il conflitto dialettico
pruduce l'armonia — uell'unione dell'omogeneo ed eterogeneo quale prevale— ciò
che è l'opposto in natura è l'antino mianellascienza–
dellaantinomiarealeedell'apparente– della guerra-
lapolemicaèlaguerranell'ordinedelpensiero- delloscet ticismo - lo scetticismo
obbiettivo non è sofistico -che sono l'errore e la colpa - due periodi distinti
della storia della filosofia - - -divisione
eriunioneèilprocessouniversaleedialettico- diversitàdiprocesso
delladialetticadell'Enteediquelladell'esistente dellaschemato logia - - -della
sofistica - - - il moltiplice e il conflitto son ridotto ad unità ed armonia
mediante la mediazione dell'infinito. CAPITOLO QUINTO 1
ciclidellavirtùconcreativadelleesistenze realtàd'unaintelli gibilitàrelativa-
ilsensibileèlafugadell'intelligibilerelativoda
sèstesso,lasuamoltiplicazione,diversificazioneerottura-prove causa
percuil'intelligibilecreatosimanifestacomesolosensibile negliordinideltempo
differenzadellanostradottrinadaquelladei sensisti — nozioni che racchiude
l'idea del sensibile- la successiva distruzioneerinnovazione delle forme
sensibilièilnisusdiessoa diventareintelligibili-
ilsensibileconsisteessenzialmentenelare lazione tra l'uomo intelligente e la
natura intelligibile - del sensibile interno ed esterno - se il sensibile può o
no conoscersi- si chiarisce ilsignificatodellaparolasensibile-
ilsensibileschiettononsipuò pensare- prova che la sensazione non è
lacognizione- qual'èl'og getto della cognizione del sensibile - - come si
risolve l’antinomia ap parenteditrovareinescogitabileilsensibileepurepoterlopensare
la dottrina nostra è la sintesi delle diverse dottrine precedenti
Galluppi,Rosmini,Platone- nelladottrinadiGiobertinonbisogna confondere
l'intelligibile assoluto,l'intelligibilerelativoeilsensi bile- la teorica
dell'intelligibile relativo non annienta ilsovrintelli gibile—
siviendivisandopiùparticolarmentelamimesi—mimesi
prevalente-esteriorità,apparenza,fenomeno,conflitto,passaggio, metamorfosi-la
gerarchiamimeticadeglienticonsistenellavarietà deigradiconativi-sinotanoiprincipali
dellaluce-lamaggiore intelligibilità nella natura corporea si manifesta
mediante la finalità , dell'uomo;ilcorpo,chiloforma
—delsonnoedeisogni—l'istinto l'anima e il corpo in parte diversi , in parte uni
- doppio stato del la vita;latenteeinanilesta—duevitedell'uomo-
dellepassioni:la gloria,lamalinconia,lanoia- facoltàdell'animo:ilsenso,l'imagi
nazione,lamemoria,laragione— lescoperteeitrovatiapparten gono allo sviluppo
metessico del Cosmo -- che cosa è la scienza- lo spirito creato è l'anima del
mondo , lo spirito uniano è l'anima della lerra-
gl'intelligibiliintelligentirelativinonsonogiàdellosteso generedue
speciedimentalità -cheèilpensiero- inchesifonda l'identitàdelmondo-
metessiprevalente:suadefinizione-doppia u n i t à , la d i v i n a d e l l ' a
t t o c r e a t i v o , e l ' u n i t à m e t e s s i c a e c o n c r e a t i v
a dellarelazione;essasovrastaaiterminichelacostituiscono- due relazioni--natura
speciale della relazione che corre tra l'Ente e l'esi 506
CAPITOLO SESTO DECORSO DELL'ESISTENTE Del progresso : che n'è il tipo e
il principio – il progresso considerato 167-250 507 stente— l'azione
finita è reciproca , quindi inseparabile dalla passio
no:l'unitàloroèlarelazione,larelazioneinfinitaè unamla rela zioneèilveraceassoluto
cherappresentalarelazione essaè l'appicco del finito coll'infinito - riscontro
del vero col mondo - le relazioni sono nelle cose,enon solo nello
spiritonostro,enella mente divina -- falsità della dottrina dell'Hegel che pone
l'assoluto e il concreto nelle sole relazioni - la specie non è un'astrattezza
la specie non è l'idea specifica-metessicamente non si distingue il tutto dalle
parti- come raffigurarci la concretezza della potenza -
dellecontagionimoraliemateriali- l'armoniadellamimesierumpe
sempreerisiedesostanzialmentenellametessiiniziale diversità della metessi
mimetica dalla finale -dell'implicazione e dell'inter nitàdellecose-
qual'èilprogressometessico- v'èunapermanenza metessica di ciò che passa
mimeticamente- Idea,metessie mimesi -
ilpassaggiodellamimesiècreazioneeannientamente- accordodi dueopinioniopposte-
trecondizionimondiali— vanitàdellecose umane inquantopassanoesiannullano-
delladottrinadiProtago ra- scienzamimeticaemetessica--Comemaiilrealepuòrassomi
gliarsiall'ideale?- Comemaiilfinito,ilrelativoecontingentepuò
rassomigliareilnecessario,l'assolutol'infinito? Comemailecose materiali possono
rassomigliare il pensiero ? in riguardo alla metessi iniziale, alla mimesi ,e
alla metessi linale lamimesièprogressivaneiparticolari,soloregressivanel genera
le- ilregressoèleggedelprogresso– l'andamentocosmicosial terna di progressi e
di regressi— la vita è la sintesi e il dialettismo del progresso e del
regressoma conferma di ciò si trova nell'esame
dell'uomo,dellareligione,dell'arteedellascienza- ilprogressoquan do è passato
diventa regresso - accordo dei progressisti e dei regres sisti-delaperiodicità–
ècircolareeregressivadisuanatura— ha luogo nelle parti dell'universo, non nel
tutto - la forza rallenta 508 tricenecessariaallasocietàcomeallanatura
seilprogressosia reale o apparente --- la periodicità perfetta è sola apparente
- corso migliorativodituttol'universo- ilprogresso nascedall'intreccio
deltempocollospazio- Individuoegenere--processoestrinseco dell'atto creativo-
l'evoluzione è nelle idee , nella metessi , non già
nell'Idea—checosaèlagenerazione- essenzialeallagenerazione è l'idea di specie,
la quale non è astratta soltanto- la generazione è l'estrinsecazione più viva
della metessi specifica delle cose,eap partieneallamimesi -dellasessualità—dov'èilprincipiogenerativo
se nello sperma o nell'uovo- della donna e dell'uomo - la sessualità
riscontratacolladialettica dellafemminilitàedellavirilità–del conjugio —
dell'individuo compiuto e in che consiste la sua essenza e valore -- l'individuo
e l'Idea sono nell'ordine attuale idue estre midellarealtà—
influenzadelpensieroneglieffettidellagenera zione la generazione e la
nutrizione sono le principali azioni tantodelcorpoquantodellospirito—
altreconsonanzetrailcorpo e l'anima - del psicologismo e dell'ontologismo -
come ci può essere concretamente insegnata l'attinenza del genere
coll'individuo -due classi d'individui- - se l'individuo è sparito dinanzi alle
masse - che cosaèlaplebe- relazionedell'ingegnocollamoltitudine -comepuò affermarsi
che nell'ingegno v’abbia qualcosa del divino - Dell'amo r e , d o v ' è il s u
o t i p o , e q u a l e n ' è l ' e s s e n z a - l ' a m o r e a s s o l u t o
e i n finito è l'identità --ch'è l'amore rispetto all'esistente nello stato m i
mctico dell'amoreattivoedelpassivo- delpuroe corrollo Ca gione dello scisma tra
l'amor del cuore e quello dei sensi — che è l'idealedell'amore--delmaritaggio-
deldivorzio– l'amorecorro
traidissimiliarmonici-universalitàdell'amore--parenteladell'amo
recolBelloecolBuono--delBelo--originedelmalc- duemorale, p a r t i c o l a r e
e u n i v e r s a l e – o t t i m i s m o r e l a t i v o n o n a s s o l u t o
- il m a l morale è impossibile nell'etica divina e universale - l'antinomia a
p parente della natura seco stessa si risolve mediante la necessità de gli
ordini --contraddizione della natura nello stato presente --dell'in felicità
umana--scopodellavitaterrestre--della virtùedellalibertà umana—
l'uomoèpotenzialmenteonnispecie,puòsalireescendere nella gerarchia cosmica - la
giustizia cosmica procede per ragione geometrica - dell'abito- è verso l'anima
ciò che l'accrescimento e > 509 la nutrizione verso il
corpo - la virtù è sforzo , è la trasformazione dellamimesiinmetessi-ed
ilsagrifiziodell'individuoalaspecie- La Società ha un fondamento metessico e
idealee logico-lapolizia è una metessi iniziale - la polizia dell'uomo comincia
coi primi prin cipii della sua vita— individualità e polizia principiano e
crescono di conserva--unitàdinamichedellanostraspecie– divisionedelgenere
umanoingenericheespecifiche– dellanazionalitànaturaleearti ficiale-
lamisuradell'ampliazionedell'unitàèiltermometrodella
civiltà-doppiaunificazionedeipopoli--autorità morale— ilpotere sovrano è
fontalmente l'Idea— formazione primordiale della socie tà-
unitàprogressivadeivaricetidellasocietà— dellaplebeedel l'ingegno - intento
della riforma politica moderna - nel mondo tutto
èordinatoallosvolgimentodelpensiero— ciòcheaccadeorainEu ropa è in certa guisa
una ripetizione di ciò che accadde in Grecia dellademagogia:dominiodellaRussia
—unitàsovrannazionale- unità intermediatralasovrannazionaleelanazionale-
l'egemoniamo dernadoverisiede-delPrimato,assolutoerelativo- alcunititoli del
primato italiano- il Cielo che rappresenta alla mente umana - della causa e dell'effetto
negli ordini finiti- attinenza della terra col c i e l o - i v a r i m o n d i
f a n n o u n s o l o u n i v e r s o - il m o n d o n o n è s o l o u n
aggregato, ma un aggregante - da che è prodotto l'individualità nei corpi-
gerarchiadegliesseri--dellaNuidità -ilprincipioeilfine si somigliano e
differiscono - della materia in astratto e in concreto --
lapotenzagenerativaessenzialeaogniforzacreata- dellapreesi
stenzadeigermi--dellaleggecentripetainorganogenia- ilcentri fugismo non è la
stessa cosa dell'ipotesi della preesistenza dei ger mi
—laforzaprimitivaquandoerumpenell'attocominciacolladualità
ocollamoltiplicità?-gradidellaforzacreatauniversalmente- dei cinque gran regni
della natura - della mutazione delle specie- sunto delladottrinadell'autore-
dueleggidell'esistente:leggedietero geneità,eleggediomogeneità— dellapolarità–
infinitonumerico solo possibile nello stato di metessi - due soluzioni di esso
- infinito aritmeticomonadico - l'infinitoèilsovrannaturale-due errorisul
mondodell'ottimismo— infinitàpotenzialedellacreatura -delfu infinito e del sarà
infinito. 251-349 510 mo 343-370 CAPITOLO SETTIMO
SECONDO CICLO CREATIVO Palingenesia Del secondo ciclo creativo ; ritorno
del'esistente al l'ente – è solo per approssimazione -- la creazione non ebbe
prima, perchè fu un Pri ilsecondociclocreativoèumanoedivino- comeilprincipio e
il fine sono finiti e infiniti -- che cosa è specificatamente la palia
genesia--come siamcerticheesiste– lapalingenesiaèobietiva
esubiettiva,cosmicaeindividuale— delprogressorelativoedel
progressoassolutodellecose comesideeintenderechelostato
palingenesiacosiamentalitàpura— dellamorte– dell'immortali
tà--l'esistenzaeinamissibile- lamorteèunsaltoegradosecondo
chesiguardaildiscretooilcontinuo— futuritàparticolaredel l'anima— la
palingenesia consiste nell'acquistare la coscienza che nonsiha-
èilcolmodellacoscienza– duepresunzionidel'infi nitopotenziale–
delliberoarbitrio- ilprocessopalingenesiacoè unprocessogenerativo- due
metamorfosi:mondaneeoltramonda ne– obiezionecontrolarealtàdellapalingenesia:risposta–
igno riamol'avvenire– haancheunabasenell'esperienza--nelapa
lingenesial'internitàsaràesternata- divarioerassomiglianzatrala
cosmogoniaelapalingenesia- inchesensolanegazionedell'im mortalità umana è vera
- unità dello stato palingenesiaco - comuni
cazionedell'intelligenzaedell'amorecoll'infinito dellafelicitàe
beatitudineassoluta-l'uomonellapalingenesiaopera- ideadelpro
gressopalingenesiaco– larivelazionepalingenesiacanonescluderà ogni elemento
misterioso. CAPITOLO OTTAVO RELAZIONE DELLA PROTOLOGIA COLLA RIVELAZIONE Il
Gioberti prima cercò verificare psicologicamente l'idea di mistero
poisiproposedimostrarlaontologicamente infineporgerneuna 511 prova
universaleeprotologica- lametessièilsovrannaturale- unione dialettica del
naturale e sovrannaturale nell'atto creatico - ilsovrannaturale
èuniversale;ènelprincipionelmezzo enel fiue- la natura senza la sovrannatura è
in contraddizione seco stessa- la dottrina del nostro autore toglie
l'opposizione tra il naturalismo e il sovrannaturalismoesagerati-
ilsovrannaturaledell'ordineattuale è la metessi anticipata nel seno della
mimesi -nel sovrannaturale e
nelsovrintelligibilev'haunelementonaturaleeintelligibile~-due spe
ciedisovrannaturale— differenzatrailsovrannaturaleel'oltrena turale--ideadellareligione-
religioneperfettaèlarivelata— ari velazione è l'apice della cognizione-
necessaria ad accordare la ri flessionecoll'intuito duerivelazioni-
larivelazioneimmanenteè virtuale— la potenza primitiva delle due rivelazioni è
l'intuito- la rivelazione sovrannaturale spiega le potenze dell'intuito rimase
in fecondepermancodiparolaacconcia- larivelazioneesterioredi vieneinteriore-
treconseguenzcimportanti- intentodelGioberti- nel suo sistema la ragione e la
fede entrano l'una nell'altra – l'idea d e l
l'infinitoèilvincolotrailsovrintelligibileel'intelligibile- essenzadel
mistero:misteriteologici,antropologici,e teoantropologici- imi
steririvelatinonsonoeffetto,ma principiodiragione-esempidella
feconditàrazionaledeimisteririvelati- ilmisteropertieneallara gione e la supera
ad un tempo — tre membri della formola, tre es
senze,tremisteri-veradottrinadelGioberti- nellavitaterrenail sovrintelligibile
non diventa mai intelligibile- il vero sovrintelligi bilenoniscema-
delmiracolo:sesipensa,èpossibile-checosa èilmiracolo-
ogniprodigioimportaunfattoobbiettivoeunfatto
subbiettivo--ilmiracoloeladisposizioneeattitudineacrederlo si
corrispondononell'unitàmetessica- ilfattomiracolosononènelco smo,ma
nellapalingenesia- imiracolidecrescono— lanatura(mi mesi ) e mito e simbolo del
sovrannaturale (metessi, palingenesia) il cristianesimo importa un nuovo atto
creativo, ciò come avviene ? - perchè si tralasciano di esporre partitamente i
dogmi religiosi attinenze della rivelazione colla scienza,e della religione colla
filo sofia 371-399 CAPITOLO NONO CONCLUSIONE DELL'OPERA Perchè mi
son risoluto a tessere questa conclusione-- il lettore non ri - 512
cordando più le cose lette negli altri volumi non avrebbe potuto giudi care
quest'ultimo - m'è piaciuto altresi di dare uno sguardo su tutto
ciòdamepensatoescritto— occasionedell'opera- caratteredela
maggiorpartedegliegeliani—come èdeltatoillibrodelprof.Spa
ventasullafilosofiadiGioberti- lemieConsiderazioni— suiaspra menteripreso-
soliloquio- neiprimivolumimostraiunpo'diri sentimento - l'esposizione della
seconda parte si fa con modi dice voliallascienza-
checosamihafattoperseverarelungamentein questa opera , perchè l'idea di essa
non si era prima incarnata l'Italia al la stregua della filosofia dominante
oltrealpi - perchè era nomala terra dei morti— lotta interiore del pensiero di
Gioberti ragione del suo tardi stampare— la lotta cessa nel 1835 : creazione
d'unanuovadottrina--lacuipellegrinitàstanelnessodellareligione collafilosofia
-perquattroannisecostessoesaminalabontàeve rità del nuovo sistema - tre stadi
del suo processo intellettuale- le
nazionicoesistonoinsiemecsigiovanoscambievolmente- lanuova
vitad'Italianecessariaalprogressoumano- ciòchehannocompiuto nel mondo i
Francesi e i Tedeschi — difetto della civiltà da essi pro dotta—
scopodellarinascenzaitalica— caratteredellavitaitaliana dall'AlfieriaGioberti
nelqualeciòcheeravirtualeeastratto divieneconcretoeeffettivo—
chiudeunepocaenecominciaun'al tra - medesimezza dell'idea individuale che
costituisce l'eccellenza di Gioberti coll'idea sostanziale che costituisce
ilgenio nuovo na zionale - rifà in sè tutto il processo anteriore dello spirito
u m a n o quando acquistò il suo spirito intera coscienza di se medesimo - sti
mò che iconcetti natigli in mente erano stati indirizzali ad un alto
linedallaProvvidenza– siapparecchiaadeseguireildisegnodivi no- moto
dall'individuo alla nazione e alla specie- come nel divul gare la sua dottrina
e farla fruttare si mostrasse tradizionale e n o vatore ad un tempo
--procedette per l'antagonismo degli estremi per 1 l 513 meglio far
spiccare l'armonia del mezzo—dissimulò una parte del suo pensiero -- la
filosofia la religione e la nazionalità italica sono unite e connesse
subbiettivamente e obbiettivamente mosse dal l'idea al fatto, dai
principi al metodo di esposizione -carattere delle
opereessotericheedelleacroamatiche- Giobertipossedevauna dottrina ben divisata
e armonica , di cui avea piena consapevolezza – ciòsinegadaicritici-
sidiscutelalorosentenza -sigiungeaduna conclusionc lutta opposto alla loro con
solo l'esame dei fat ti -- si cerca allrcsi la dottrina intrinsecamente e
logicamente e si ha lo stessorisultamento, perchéquasituttiicriticihanfranteso
trinadiGioberti- ilmedesimo ladot è accaduto al Prof. Spaventa - qua l'èilconcellonuovoch'ioneporgo-
essoèstatoignotofin'ora; nelle scuole d'Italia s'è insegnato solo la parte
essoterica- di questa ècontrappostol'Hegelianismo- venutoiltempochesistudiaecol
liva la parte acroamatica che contenendo la sintesi ed armonia di questoediquella,delpresenteedelpassato
apre la via alla spe culazioneavvenire-
nellacontroversiaintornoaGiobertibisogna separarelatesistorica,dallafilosofica—
caratterichedistinguono, la dottrina di Gioberti da quella di Hegel , e il moto
civile d'Italia daquellodiGermania- solol'Italiahaoggiunaveramissionestori
ca,ilcuidelineamento trovasidegliscrittideltorinese—riscontri tra le parti in
cui fu divisa la dottrina c i vari periodi del rinnova - mentonazionale–
comel'egemoniapiemontesehaprodottoisuoi frutti, così li produrrà il Primato –
il primato è tutt'uno colla riu novazione del pensiero italiano- ogni nazione
ha da natura un sito intellettivo- - che dee cavare dal suo l'Italia- oggello
della scienza sulural'idealitàinfinita– riformareligiosacnuovavitadelcattoli cismo
- senza una filosofia e leologia infinitesimale ogni ristorazione
religiosaèindarno-provailrecentemotodiGermania- ilDöllin ger non ha ragione di
biasimare gli italiani- i vecchi cattolici sono oppostosofisticodeiGesuiti–
quindicontinuanolasofisticareli giosa che travaglia la nostra età-diseltano
d'una teologia veramente nuova e proporzionata al bisogno- mentre coi loro
ciechi colpi con tro il papismo gesuitico ne han mostrato più che mai la
necessità— senza di quella non si può distinguere l'essenziale dall'accessorio
nella religione, nè accordare ildivino coll'umano-carattere della 63
nuovateologia- modocomedeeprocederelariformacattolica- l'entratura di
essa appartiene al laicato,e in ispezieltà all'italiano così lagerarchia non
sarà annientata,nè scossa,ma condotta a ri formarsidasè—
ilmoloitalicoristabiliràperfezionatal'unitàmora le e civile d'Europa – esso
perciò è indirizzato ad una meta più alta diquellaacuiègiuntalaGermania—
iforestierimalintendonoe mal giudicano l'Italia ; in parte ne han colpa i
fautori della coltura tedesca
-ragionedell'imitazionetedescatranoi--devecessareedar luogo alla produzione
paesana nell'ordine dei pensieri ,dei senti menti e delle azioni.La teorica
della conoscenza nel Gioberti . Esposizione e critica.
In uno degli ultimi scritti, — certo V ultimo scritto filosofico, —
pubblicato pochi mesi prima di chiudere la sua lunga e intensa operosità,
Antonio Rosmini, discorrendo della necessità speculativa di tener
distinta nell' essere la forma ideale dalla reale, usciva in queste
solenni parole: ' L'esperienza tuttavia e la storia della fi- losofìa
dimostrano, che e' è una somma diMcoltà a distinguere e mantenere
costantenftnte distinta nella mente la forma ideale ed obbiettiva
dell'essere, dalla forma reale, e me ne somministrò non ha guati la prova
quel facondo e immaginoso scrittore che diede a me biasimo e mala voce
d'aver proposta e stabilita una tale distinzione, dettando tre volumi col
titolo de' miei errori. Laonde con tutto lo zelo e la fidanza egli si pose
di contro a me, quasi abbarrandomi il passo, e si dichiarò perfetto
realista: incolpando gli stessi scolastici realisti, di non essere stati
tali abbastanza, ec- cetto alcuni pochi. Ma pace a quell'anima ardente: e
torniamo alla storia *) ,. Si sa che gli avvenimenti politici
del quarant' otto avevano rav- vicinato i due grandi avversar], smorzato
perfin le ire implacate e sospettose del torinese, che faceva pubblica
ammenda della vivacità frequente delle sue polemiche, dichiarando che,
appena conosciuto di persona il Rosmini, aveva cominciato anche lui
" a venerare ') RoiKiNi, Ariat. esposto ed esaminato,
Torino, 1857, pre&z. p. 36. La prefazione di quest'opera postuma era
Btnta pubblicata dal Bosmìnì Hteeao nella Riviìta contemporanea di
Torino, au, ir, voi. II, fase. 17» e 18', decembre 1854 egenoaio 1855;
riprodotta poi nella Poliantea Caffo^ca di Hilauo, an. IV, 1855.
Digitizcdby Google Rosmini e CHoberH 247
con tutta Italia tanta sapienza e tanta virtù , ^). — Quanto al Ko-
smini, benché l' animo suo non si fosse mai inasprito, i fatti del ' 48
lo conciliarono di più col Gioberti, e non è questo il luogo dì ricordare
le belle prove da lui date de' suoi sentimenti verso il filosofo esule
per la seconda volta '), e poi quando fa morto, e quando prima, nel ' 49,
ebbe a G-aeta a difenderne calorosamente la fama a l' ing^no contro le
insinuazioni e le malignazioni d' un gran gesuita ^). Ebbene,
tutto ciò e il tempo corso in mezzo e il cammino in- tanto fatto nella
scienza, non lo rimossero fino al termine, come s' è visto dall' ultimo
suo scritto dianzi citato, dalla posizione già tenuta di contro al
Gioberti. E questi, dal canto suo, ìn quel di- scorso che premise alla
seconda edizione della sua Teorica del sovrannaturale, e che si può
considerare come Y ultima sua scrit- tura di genere puramente filosofico,
rimaneva anche lui al suo posto, nonostante l' om^gio quivi reso alle
virtù e alla sapienza dell' av-_ versarlo; poiché scrìveva: *U Rosmini ed
io siamo d'accordo nel recare alla riflessione la possibilità
dell'errore, e il suo rimedio all'intuito che la precede. Ma dissentiamo
intorno al contenuto di tale intuito ; il quale al parere dell' illustre
Roveretano, non ci poi^e che un ente astratto, iniziale, destituito di
sussistenza ; laddove, al ')■ Discorso preliminare tìiU 2'
Bàìz.ifiìla Teorica del sovran7iaturide(i850] I, ^ n. Vedi pure ciò ohe,
quasi nel tempo atesBo, ne scriveva nobìlmeate nel Rinnovamento àvUs,
lib. I, cap. XIII; ediz. Napoli, Morano, 1864, 1, 285 e aegg. !)
Vedi quel che HCTisae Q. Uassuii, nella bua Bitiista pdiHca del 15 luglio
1855 nel Cimento di Torino (voi. VL B. 3", p. 86) commemoiando il
Ro- smini. Sono due pagine dimenticate, e che hanno tuttavia molta
importansa per le opinioni politiche e per la biografia del Rosmini; T.
pure Tommaseo, A. Ro- smini, (in Rimala Contemporanea dal 1855, voi. IV)
§. 28, ') H Liberatore. — Chi fu presente al colloquio e ne
scriveva poi a Baff. De Ceaare.attesta che le parole «eloquenti dette
dalBosmini in quella occasione lìaHciiono il più autorevole e più
meraviglioso elogio del Gtiobeiti >. Tedi Db CssAaB, Dopo la wndanna
del S. Uffi,ziOt in N. Antologìa, 16 luglio 1888, p. 205.
.dbyGoosle 348 G. Gentile mio, ci dà un concreto
effettivo, che nel primo de' suoi termini è assoluto e apodittico. Or
qual'è il miglior fondamento del vero? ^ l'astratto o il concreto?
T insusaistente o il reale? l'incoato o l'as- l soluto?, ').
I due filosofi, adunque, compiono la loro carriera filosofica con
opposta sentenza intomo al principio della loro dottrina, nonostante la
polemica vigorosa per dottrina e dialettica che s' era in propo- sito
dibattuta; talché si direbbe che essa non abbia avuta nessuna efficacia
sulle dottrine de' due filosofi. Questo però è appunto quello che ci
rimane ancor da vedere. f~^ Come il Rosmini abbia introdotto V.
Gioberti nel campo della ' moderna filosofia, cioè della filosofia
kantiana, l'abhiam veduto e dimostrato nel terzo capitolo della prima
parte del presente studio; coachiudendo, che già nella Teorica del
sovrannaturale egli ci ap- parisce sì un rosminiano, ma un rosminiano il
quale vuole andare avanti al Rosmini. Neil' opera che seguì
immediatamente dopo, V Introduzione aUo studio della Filosofia, si
delinea ben nettamente la nuova posizione speculativa del Gioberti ; e si
vede quali essen- ziali modificazioni, secondo lui, debbono subire le
dottrine del filo- sofo roveretano. Ma prima di studiare cotali
modificazioni, vediamo come si muove in questa nuova opera il pensiero
dell'autore. / La concezione della storia filosofica qui è l'es^erazloae
di quella donde sì rifa nel Nuovo Saggio il Rosmini; ma certamente è
mo- dellata sovra di essa. Pel Rosmini, come s'è notato, v'ha sistemi
che peccano per eccesso e sistemi che peccano per difetto di apriori
nella spiegazione del fatto del conoscere : da una parte falsi idea-
*) Op. cit, I, 2K. Cfr. Errori filoaqfiei di A. Bosmini, II,
126-134. — L'ultima parola venunente à nel Rmnovat>ieato civile, dove
al lib. n, oap. 7*, (voi. II, pag. 191), è detto ancora uoa volta « Cosi,
per cagion d'esempio, il divorzio introdotto da un chiaro nostro
psicologo tra il reale e l'ideale, non si puA comporre stando nei termini
della psicologia sola; e se si muove da questo dato pei salir più alto,
si riesce di necessità al panteismo dell'Hegel e de' suoi seguaci
>. DigitizcdbyGOOgle Jtosmitii e
Gioberti 249 iiami, e dall'altra falsi empirismi. Ma
nell'idealismo, oltre l'errore di ammettere più elementi a priori che non
ne siano richiesti a quella spiegazione (Platone, Aristotele, Leibniz)
può esservi un più grave difetto : quello di far soggettivo, come avviene
in Kant, Va priori ricercato in seno alla conoscenza, la quale, se vuol
essere vera e certa, dev'essere invece oggettiva. Onde pel Rosmini Ì
sistemi sbagliati si riducono al postutto al sensismo o all'idealismo
sog- gettivo, cfae è una specie di scetticismo mascherato ; dacché il
pla- tonismo, a parte l'eccesso dell' a priori che va corretto, trova
grazia appo lui per l'assoluta separazione posta fra cotesto a priori e
il soggetto umano che conosce. E contro il sensismo e l' idealismo
soggettivo e si può dire (poiché pel Rosmini il senso era la fa- coltà
soggettiva per eccellenza) in genere, contro il soggettivismo ei si
proponeva di scendere in campo col Numo Saggio. Contro questo
soggettivismo insorge parimenti la filoso&a del Gioberti; il quale
raddoppiando d'ardore per le dottrine platoniche riconosciute pure in
fondo al contenuto filosofico delle dottrine cristiane, tutti gli opposti
sistemi involge in una comune condanna con quel sensismo, che ormai,
quando usciva il suo libro, era già morto e sepolto cosi in Italia come
in Francia; talché dimostrare sensistica una teorica, era lo stesso che
averla giudicata senza appello. E sensistica, a parere del
Gioberti, è tutta la filosofia moderna in Europa; a cominciare da Renato
Cartesio; il quale, del resto, non fece se non applicare alla filosofia
il metodo che aveva già fatto ben trista prova con Lutero, nella
Protesta, proclamando la j intimità autonoma della fede religiosa. .
-J Cartesio sensista? " Parrà strano, scrive il Gioberti, a
dire che il sensismo sia conforme ai principii cartesiani, e che il
Locke, il Condillac, il Diderot, con tutta la loro numerosa ed infelice
pro- genie, siano figliuoli legittimi del Descartes; quando questi
pre- tese nlle sue dottrine un teismo purissimo al sembiante, e
volle stabilire sopra uua salda base la spiritualità degli animi
umani. Ma il teismo del Descartes é puerilmente paralogistico. Il suo
dubbio .dbyGoosle 250 Q. OmHk
metodico e assoluto, e il riporre eh' egli fa nel fatto del senso
in- timo la base di tutto lo scibile, conducono necessariamente
alla negazione di ogni realtà materiale e sensibile , *). E che altro
è il sensismo? ' Spogliato dalle contraddizioni de' suoi partigiani,
e ridotto al suo vero essere dalla logica severa di Davide Hume,
riuscendo a un giuoco aubbiettivo dello spirito, che, rimossa ogni
realtà, è costretto s trastullarsi colle apparenze, è propriamente
scettico e si manifesta come l' ultimo esito di ogni dottrina, che
_, metta nel sentimeuto dell'animo proprio i princlpii del sapere . *).
1 II Descartes, adunque, è uu sensista, e a lui si deve tutta la
serie di errori di cui è iutessuta la storia della filosofia moderna
; egli è l'iniziatore, purtroppo, fortunato del moderno sensismo
psi- cologico, poiché pone come principio della filosofia un fatto, che
come tale non può essere se non un sensibile ^). Insomma il Locke e
il Gondillac sono cartesiani. " Né rileva che i successori di Locke
facciano caso della sensazione sola, e non del sentimento interiore,
imperocché questo e quello convengono nell'essere forme sensitive,
destituite di obbiettività assoluta , *). \ Il Gioberti, insomma,
intendeva parlare di soggettivismo, e di- COTa sensismo, che è pure una
direzione speculativa molto diversa. La colpa bensì non è propriamente
sua, perchè risale al Galluppi ; il quale nella sua teoria della
sensazione (che qui il Gioberti ripete) aveva con essa confusa la
percezione o rappresentazione e la coscienza, introducendo nel seno
stesso di quella le distinzioni che sorgono ') Introdwi.,
lìb. 1, c&p. l" (ediE. di Firenze, Poligrafia italiana, 1846)
I, m. ») Ibid., p. m-12. 3) «... E certameiite la
seoteiiEa ; io penso, dunqm sono, equivale a questa: io sento di oaeere
pensante ... e più concisamente : io sento, dunque sono . . . n pensiero
conosciuto per via della liflesaione, ò un meco fatto della coscienia,
cbe appartiene al senso interiore; onde il Cartesianismo che muove da
quella, colloca in un fenomeno della facoltà sensitiva la base della
scienza >. Tntrod., lib. I, oap. 3" (n, T7 e segg.).
*) Op. àt., n, 78. n DiBiiizMb,
Google Rosmini e Qioberti 2&1 invece per
cotesti fatti ulteriori della psiche '). Del resto, il Gio- berti risente
presto l' iDcooTeuiente che deriva dal fare un sensista delio stesso
Cartesio, pel quale il fatto della coscienza, invece che un sensibile
(donde, secondo il Gioberti, stesso non può derivarsi mai l'essere) era
una cosa stessa con l'essere, e quindi noD un semplice principio
psicologico '), ma una inscindibile unità del prin- cipio psicologico e
dell' ontol<^Ìco, che se fosse stata fecondata, avrebbe già fatto
procedere di molto la filosofia moderna. Infatti, quando ai accinge a
classificare tutte le scuole filosofiche figliate dal sensismo
cartesiano, comprendendo nella seconda categoria i se- guaci del
lochiamo, egli è costretto a porre &a i caratteri di questo * il
ripudio della ontologia cartesiana, come ripugnante ai principii e al
metodo del Descartes, e troppo simile all'antica, dichiarata dal francese
filosofo insuMciente e buttata fra le ciarpe ; e l'ommis- sione e lo
sfratto implicito e tacito di ogni ontologia , '). E già da questa
medesima classificazione de' sistemi resulta cbiaro che il nemico preso
di mira è precisamente quello stesso del Rosmini: cioè il soggettivismo,
il falso so^ettìvismo, che ri- pete le sue origini da Cartesio, anzi {ed
ecco l'intreccio significan- tissimo della filosofia eterodossa con la
falsa filosofia!) da Lutero. Nelle cinque categorie, in cui dovrebbesi,
secondo il Gioberti, par- tire tutta la storia della filosofia moderna,
così vengono distribuiti i vai^ indirizzi: nella 1" Cartesio e la
sua scuola: nella 2' Locke; nella 3' Spinoza, i panteisti tedeschi e in
parte Giorgio Berheley^; ') Eppure il Gioberti stesao aveva
combattuta questa teorica galluppiaaa, nella n. 3* della Teorica (II, 319
e segg.) imputando al filosofo di Tropea < di Bveie considerato come
semplice e indivisibile ciù che è ancora composto, Bocomunando per tal
modo elsmenti svariatisaimi con una sola voce >. *) < Il
paicologiamo ed il BcnHÌaino sono identici : l' uno è il Henstsma ap-
plicato al metodo, l'altro è il psicologismo adattato ai principii »- —
Introd., I. 30 (il, 83 e eegg.)- Gtt- p. 83 e segg. e 3^ e segg. Ha <
Cartesio è sen- sista nei principii e nel metodo * p. 83. 3)
Op. cit., voi. Sf p. 85. .dbyGoosle 252
a. Gentile nella i* Kant e i sensisti francesi dal Condillac in poi
*) ; ' infine nell'ultima classe si debbono collocare gli scettici
assoluti, che giunsero al dubbio universale, mediante i principii del
sensismo, aiutati da una logica s^^ce ed inesorabile; ... il cui principe
è Davide Hume , *). CapOTolgimenti, come si vede, ce n'è piti
d' uno; e come va che il Gioberti confonde il fenomenismo del Berkeley
con l'idealismo assoluto di Fichte, dì Schelling e di Hegel, e
l'idealismo trascenden- tale di Kant col sensismo di CondillacPEcco:
secondo lui, " l'asso- luto dei filosofi tedeschi non è l'idea
schietta, ma bensì l'idea mista di elementi sensitivi, e per dir meglio
un concetto, un astratto, un fantasma, frammescolato di elementi ideali ,
(p. 85); insomma è un assoluto fantasticato dalla mente umana ; e cosi il
Kant con- verrebbe coi sensisti ' nel dare alla cognizione la proprietà
del senso, facendone una facoltà aubbiettiva, e quindi considerando
il vero, come relativo , (p, 86). — È chiaro che la causa della
con- fosione nel primo e nel secondo caso è la medesima; per
Gioberti, r a priori di Kant e de' suoi successori è falso perchè
contraddit- torio: è posto come a priori, perchè necessario ed
universale; e intanto lo si fa subbiettivo, e quindi particolare
all'individuo che conosce, e come esso contingente. Questa
falsa maniera d' intendere il nuovo soggettivismo, che cominciava con la
teoria della sintesi a priori dal negare definiti- vamente quello
scetticismo, cui fin allora il so^ettivismo era sempre stato come
equivalente, — è un'eredità che il Gioberti raccoglie dal Rosmini, e
rivolge subito, come or ora vedremo, contro di lui. E già si può
dire, che l'avesse raccolta nella Teorica del so- vrannaturale, quando, a
proposito dell'eclettismo francese, aveva ') E petcbè
esclndecne ì materìaliati del aec. XVIII, le cui open, come ricorda
opportunamente il Imnge, precedettero i libri e le dottrine del Con-
dillao? ') Op. dt, p. 86. .dbyGoosle
Bosmim e Oioberti 253 parlato dì un * razionalismo
imperfetto , che consente col sensismo ' nel so^ettivare interamente e
parzialmente la conoscenza „ ^), e meglio altrove, discorrendo dell'
egoismo psicologicor cui avreb- bero appartenuto Cartesio, Reid e Kant, e
del quale * l'egoismo ontologico metafisico di un celebre filosofo
tedesco, che im sima r ente stesso coll'esistenza individuale, sarebbe la
nect conseguenza , *). I! Gioberti, invero, come il Rosmini,
non conosce altn gettìvismo che il falso antropometrismo
individualistico goreo, il soggettivismo, che il Rosmini combatteva in
Em. Pel soggettivismo, a parer del Oioberti, tot capita, tot senti
donde, secondo il principio di Lutero, tanti cristianesimi cristàani, e '
tante filosofìe quanti sono i filosofanti, se et Descartes, rinnovatore
della verità subbiettiva, immaginata di già e da Protagora , ^. Di guisa
che è un errore, dice Ìl I^ paragonare la riforma cartesiana a quella
socratica ; avendo 8 presentito la teorica delle idee assolute, che venne
poscia es] da Platone, e dovendosi quindi interpetrare il suo vvia^i
• quasi — contempla e studia te stesso nella idea divina. In
breve: la salvezza della scienza è nel platonismo, nella razione
dell'idea dal soggetto, nella oggettività della conos E si deve anche far
forza alla storia e in Socrate trovare PI se in Socrate si vuol trovare
un principio di sana filosofia, menti del maestro di Platone non si fa che
una ripetizione d tagora, come sono Cartesio e Kant, — il famoso "
sofista i nisberga , ! Questa falsa interpetrazione della
storia, in gran parte fondamentalmente rosminiana, non pone del resto, il
Oioberti bene egli sei creda, fuori del criticismo kantiano, come non
ne escluso il Rosmini. Ed è davvero curioso a vedere il gran
') NotaXH; n, 329. *) Nota XVn i n. 338. ») Introd., I, 3»;
H, 76. .dbyGoosle 354 Q. Gentik
glìere invano che tutti i filosofi italiani della prima metà del
secolo fanno tra loro, accusandosi TicendeTolmente di kantismo e di
so^ettivismo, intanto che ognun d'essi, senza accoi^erseae, vi rimane
impigliato. Galluppì accusa Rosmini; Testa, Galluppi e Rosmini; De
Grazia, Galluppi e Rosmini egualmente; Gioberti e Mamiani, Rosmini; e
questi, il Gioberti. — Così, il Rosmini era persuaso che tutta la sua
attività filosofica fosse una guerra con- tinua contro il sensismo e il
soggettivismo. Ebbene, vien fuori Ìl Gioberti a proclamare che ancora il
sensismo è la dottrina filo- sofica predominante in Europa; dacché non
tutti i razionalisti si potesser dire immuni dal comun vizio, avendosi a
distinguere uu razionalismo ontologico e un razionalismo psicologico; ìl
secondo de' quali separa bensì, come non fa il sensismo, l' intelligenza
dal senso, ma a quella non dà altro fondamento che il soggetto, lo
stesso fondamento, in fine, del senso, senza perciò poter conferire alla
cognizione veruna certezza oggettiva. E in questo razionalismo psicologico
o psicologismo, che vogliasi dire, con Kant e Reid e Stewart, va, secondo
il Gioberti, annoverato anche il Rosmini, non correndo alcun mezzo
possibile Ira Io psicologismo e l'ontologi- smo, che anche lui, il
roveretano, rifiuta; sebbene né il filosofo italiano né i due Scozzesi
possano propriamente rientrare nel quadro della quÌntnplÌG«
classificazione del sensismo cartesiano, ossia della moderna
filosofia. '"~ Oi certo il falso criterio onde il Rosmini aveva
delineato una storia della filosofia, passato al Gioberti, era agevole
rivolgerlo contro lo stesso Rosmini. Sennonché, quel che importa rilevare
è l'esigenza che l'uno e l'altro afiFermavano, ribellandosi a quel
cotale soggettivismo, in cerca di uno stabile e certo oggettivismo. Il
Rosmini, come s' è veduto, vuole introdurre nella cognizione un elemento
necessario ed universale, che sia veramente tale, e dì cui ammette un
intuito costitutivo dell'intelletto, un intuito che, secondo una critica
n^ionevole, devesì interpetrare come una sem- plice aflfermazìone della
universalità e necessità (trascendenza, e quindi — pare — opposizione
all'individuo contingente) AeWa^Hori Digitizcdby
Google Rosmini e Gioberti 255 della cognìzioDe.
E il Gioberti prende la stessa posizione di contro all'empirismo, pur
senza ripetere una critica che era stata fatta, ma accettandone benal il
resultato. ' Oggi si tiene per certo, egli scrive nell'
Introduzione, che il Toler derivare con Locke i concetti razionali dalla
sensazione e dalla riflessione, ovvero col Condillac e co' suoi seguaci,
dalla sen- sazione sola, è un assunto d'impossibile riuscimento; e che,
sì come il necessario non può nascere dal contingente, né l' oggetto'
dal soggetto (ecco l'unica concezione rosminiana d'oc/petto e
soggetto: oggetto = necessario: soggetto = contìngente), così i sensibili
od este- riori non possono partorire l'intelligibile , •). — Pel Gioberti
la questione stessa dell'origine dell' intelligibile, di cotesta idea,
in- volge una repugnanza; giacché, essendo essa oggetto immediato
ed eterno, come necessario ed universale della cognizione, non ha nn
principio né una genesi. Potevasi senza dubbio osservare al- l' autore,
che appunto la definizione stessa che egli dà della idea, inchìnde il teorema,
che gli avversarj volevan dimostrato. Comunque ciò sìa, egli
ammette bensì un' altra questione, che è la vera questione della
ideologia rosminiana ; la quale è volta a indiare " se derivando la
cognizione dell'Idea da una facoltà spe- ciale, che dicesi mente o intelletto
o ragione, ella è acquisita od in- genita; cioè, se l'uomo può su^atere,
eziandio pure un piccolissimo spazio di tempo, come spirito pensante, ed
esercitare la facoltà cogi- tativa, senz'avere l'Idea presente; e quindi
ne va in cerca e se la procaccia; ovvero, se ella gli apparisce
simultaneamente col primo esercizio della mente, tantoché il menomo atto
pensatìvo e l'Idea siano inseparabili , *). E tal quistione, che
brevemente si può espri- mere, se l'Idea sia o no innata (nel senso
kantiano di forma si- multanea alla esperienza) ei la risolve
affermativamente, come il Rosmini, dichiarando che a suo avviso ( * per
rispetto nostro , ) non si può assegnare altra origine all'Idea, che
l'origine medesima dell' esercizio intellettivo.
«)Iiib. I, oap. 3»j n, 6. *) le .dbyGoosle
■m 266 O. Gentile Questa
apparizione dell'Idea simultanea al primo esercizio della mente
corrisponde per l'appunto a quello che il Rosmini avrebbe detto
propriamente nozione ■■) dell'idea dell'essere. Anche pel Gio- berti
cotesta nozione è la stessa intelligibilità, la evidenza stessa; anche
per lui " non arguisce nulla di subbiettivo, oè risulta dalla
struttura dello spirito umano, secondo i canoni della filosofia cri- tica
, *) ; anche per lui è " l' ometto della cognizione razionale in se
stesso, aggiuntovi però una relazione al nostro conoscimento , *).
L' intuito di cotesta idea è dal Gioberti stabilito con breve di-
samina del procedimento del conoscere, e benché egli non se ne rimetta al
Rosmini, è chiaro che psicologicamente la lacuna, che egli stesso poi
riconobbe in questa parte della sua teorica, devesi alla grande efficacia
esercitata sulla sua mente dallo studio di Ro- smini ; talché, scrivendo
quasi di getto, come fece, l' Introduzione, non avrà pensato che ci
volesse molta discussione a solidare già muorevasi la
mente iegazione del conoscere. nella esposizione,
del Ione fece il Massari nel un'ipotesi, la
quale, per l' indirizzo per cui ^ sua, era assolutamente necessaria alla
spie Si accorse di poi del mancamento ; e lo v resto tanto
piaciutali, che AeW Introdtizio Progresso di I^apoli, quando già l'
intrapresa polemica col Rosmini cominciava a fargli guardare più
attentamente ogni parte della costruzione filosofica, cui aveva posto
mano. B al Massari, ai 17 giugno del 42, scriveva: "Ho riletto quel
poco che ho detto del- l'intuito iLviW Introduzione e l'ho trovato ancor
più scarso che non credevo; tanto che la critica che vi ho fatta di non
esservi steso davvantaggio e con nu^giore precisione su questo punto
manca affatto di fondamento , *) ; e a' 20 lugho tornava a scrivergli : *
Non ') < Nozione io chiamo un'idea considerata sotto
questa relazione, in quanto doè ella mi serve, a rendermi note le cose >;
Bosuini, Prindpj di acietua mo- rale, in Optre, ed. Bstelli, TX, 2
n. ») Inirod., I. 3"; II, 8. ') Ibid., p. 5.
*) Cart, n, 375. Il MAasÀBi aveva fatto una analisi dell' Introduzione (
la 1* ohe ne faue fatta in Italia) in tie puntate del Frogreeso del
i841. Digitizcdby Google Bosmmi e
Gioberti 257 è come vi ho detto che uDa iBcuoa, proreniente dal mio
testo del- l' Introduzione; ODde può parere che l'intuito sia una facoltà
mi- steriosa conforme all'inspirazione dei mistici; laddove no la
cognizioae umana e ordinaria, spogliata però del repli riflessivo. L'ho
definito, credo, nel libro degli i/rrori , '). - questa definizione
dell'intuito corrisponde evidentemente i trina già esposta del Rosmini,
che l'intuito dell'idea si rit un lavorio riflessivo sulla cognizione
ordinaria, mediante cesso d' astrazione. Nel Gioberti non s'
incontra una teoria compiuta del f noscitivo, come si trova nel Bosmini.
Ma qualche accennc qua e là, basta a dimostrarci che, sebbene l'autore
sia de che la psicologia, per dirla con la parola sua, non debb
fondamento né propedeutica alla ontologìa, della quale egli trattare
specialmente, tuttavia l' ideologia rosminiana giace alla sua dottrina.
Egli ammette un' ' attività intima e s< sima, che rampolla dall'unità
sostanziale deWanimo, e con primo raggia intorno a sé le molteplici
potenze, donde na varie modificazioni di esso animo , *); ripetizione,
anzi de d'un punto del rosminianismo, da noi già messo in rilii
L'intelletto, la facoltà dell'intuito secondo il Rosmini, presso il
Gioberti una " energia contemplativa „ che venir meno, ossia non può
cessar d' intuire il suo termine, se durre,in grazia di quell'unità
sostanziale dello spirito, la ce simultanea dell'esercizio deliamente^);
come nel Rosmii •) Cart, n, 381 e aegg.
^Infrod., I, 2° (1, 135). Animo dice il Gioberti; per castigatezz
tuna di lingua, lovece di anima, spirito. ') < Tutte le potenze
dell' aaimo amano esseDdo collegate inBieme dosi a vicenda, è
inverosimile il aupporre che l'energia contemplat ▼eoir meno, «enza che
le altre facoltà a proporzione se ne riaentan cap. 5° (1, 138). Altrove
dice che t l'intelletto è ti mezzo, con cui I prende la manifestazione
naturale del verbo ■; 1, 2° (1, 196). Ma egli no a questo propoailo, una
terminologia costante. .dbyGoosle 258 G.
Gentile dell'intelletto vedemmo esser necessario non solo alla
costituzione dell'intelletto, ma anche, per l'unità del soggetto, a tutta
la fun- zione del conoscere. Né pel Gioberti l' intuito ha un
valore diverso da quello indi- cato nella teoria del filosofo roveretano;
come sarà agevole accor- gersene esaminando con la brevità necessaria la
teoria giobertìana della riflessione. L'iatuito rosminiano
vedemmo essere non vera e propria cogni- rjone, ma condizione di ogni
conoscenza, e però un vero a priori kantiano, una pura forma dell'
intelletto, che come tale distruggeva l'antica concezione di oggetto
opposto e separato dal soggetto, — avendo dimostrato che il nuovo oggetto
non esisteva per sé, fuor della sintesi, essenzialmente soggettiva, co'
dati offerti dal senso ed elaborati nel soggetto. E il Gioberti scrive:
'Egli è vero che l'in- tuito diretto della mente non basta a fare la
scienza, ma ci vuol di pili quella ridessione che ho denominata
ontologica dall'obbietto in cui ella si adopera. La quale arreca nel suo
oggetto quella di- stinzione, chiarezza e delineazione mentale, che senza
alterarne r intima natura, lo fanno scendere, per così dire, dalla sua
altezza inaccessibile, e accomodarsi all'umana apprensiva... Se
l'intuito fosse solo, l'uomo assorbito dall'idea non potrebbe
conoscerla, perchè ogni conoscenza importa la compenetrazione del
proprio intuito, e la coscienza di noi medesimi , ; vale a dire la
coscienza dell'intuito e la coscienza del soggetto, che in fondo sono una
me- desima coscienza; dacché, anche pel Gioberti, l'intuito è
costitutivo del soggetto, e non v'ha soggetto senza l'intuizione
immanente dell'Idea. Sicché l' intuito giobertiano neanch'esso fornisce
una ef- fettiva conoscenza, ne è bensì anch'esso la pura condizione, la
pura forma a priori, la quale ha bisogno, come qui dice l' autore,
della riflessione *). Orbene, che è questa riflessione, e
qual'è l'ufficio suo? Essa *) «La riflesBione pertanto dee
accompagnue l'intuito primitivo >; I, 30, (H 107).
DigiiizMb, Google 'l, Bosmim e
Gioberti 259 è come un intuito secODdario, cioè un replicamento
cosciente del- l'atto coatemplativo della Idea; ma, appuoto perchè cosciente,
non è più puro intuito, non è più condizione, ma atto di coscienza: essa
è già coscienza. — La riflessione importa quindi una determinazione
soggettiva e però una modificazione pur soggettiva; poiché l'intuito è
vago e indeterminato, mentre ogni atto di conoscenza è essen- zialmente
determinazione ed unità; elementi che all'intuito non possono essere
aggiunti dall'oggetto suo, che non ha in sé né de- terminazione, . né
principio veruno di determinazione. ' Nel primo intuito la cognizione è
vaga, indeterminata, confusa, si disperge, si sparpaglia in varie parti,
senza che lo spirito possa fermarla, appropriarsela veramente, e averne
distinta coscienza... L'intuito secondario, cioè la rimessione,
chiarifica l'Idea, determinandola; e la determina, unificandola, cioè
comunicandole quella unità finita, che è propria, non già di essa Idea,
ma dello spirito creato , *). La riflessione, adunque, si deve
considerare come una funzione determinatrìce dell'intuito, o vogliam dire
dell'» priori; funzione fondata sull' unità del soggetto, di
quell'attività intima e sempli- cissima, che dianzi rilevammo. — Ma in
che modo avviene la de- terminazione? " Ciò succede, mediante
l'uniOne mirabile dell'Idea colla parola. La parola ferma e circoscrive
l'Idea , ^); unione mira- bile e ' misteriosa ,, donde s'inizia la
conoscenza, come lo era quella percezione intellettiva, per la quale
Rosmini faceva sviluppare l'atto del conoscere; ma unione necessaria,
unione, come s'è visto, senza la quale non v'ha umana conoscenza^).
E alla percezione intellettiva l'atto prodotto per la riflessione
si riconnette anche per la natura della parola, che si sostituisce in
esso alla sensazione rosminiana. Il Gioberti infatti, definendo la
») Introd., I, 3°, (II, 11). «) Op. cit, l. e. 3)
iLa parola, easendo il priocipio determinativo dell'Idea à altreai una
condizione neoeBjacia della esistenza e della certezza rlfleasiva» I, 3°;
n, 12. >dby Google jm^-
2d0 0. Gentile parola, come ogni segno, per un
sensibile, osserva: * Se adunque ella BÌ richiede per ripensare l'Idea,
ne segue che il sensibile è neces- sario per poter riflettere e conoscere
distintamente l'intelligibile •). II cbe consuona con la doppia natura
dell'uomo composto di corpo e d'animo, e annulla quel falso
spiritualismo, che vorrebbe con- siderar gli organi e i sensi, come un
accessorio e un accidente della nostra natura „ . Sulle quali parole è
bene cbe meditino quanti sono che l'intuito giobertiano sogliono appaiare
con quello del Malebranche. Anche il Gioberti, come il Rosmini fa ricorso
al sen- sibile e Io ritiene necessario alla formazione dell'Idea; e il
senso anche lui fa costitutivo dell' oi^anismo unico dello spirito.
Sennonché, sulla natura di questo nuovo sensibile proposto dal
Gioberti solvono varie difficoltà, sulle quali non è pcasibile sor-
volare, volendo fornire una idea non troppo manchevole della sua teorica
della cognizione. Vedemmo altrove (part. I, cap. 3") come già
fin nelle Miscel- lanee, che sono sì prezioso documento della formazione
della mente del Gioberti, si accettasse e si lodasse la teoria bonaldiana
del lin- ' S^^SS^°- ^^^ 1"' nsll^ Introduzione è detto: ' Parecchi
scrittori mo- derni assai noti, fra' quali il Bonald merita un luogo particolare,
hanno avvertita la necessità del linguaggio per l'esercizio del pen-
siero , *}. Ed è senza dubbio dal Bonald eh' egli ha mutuato la sua
dottrina, che ha, pel modo come sorse, una grave ragione storica. È
noto che l' empirismo inglese e il sensismo francese sì pro- ponevano di
spiegare il linguaggio umano, come una invenzione dell'uomo, Tommaso Reid
per primo, (poiché le profonde intui- zioni del Vico passarono
inosservate), nelle sue Ricerche stdl' in- tendimento (1763), dimostrò
che il linguaggio nel suo più ampio ') Cfr. Teor. Sovr-, II,
35 < Senaa la contezia di qualche aenaibile, le idee non aorebbeia
acceBsibili alla mente nostra*. Teoria che bÌ conferma e ai de- fiaiace
meglio nella Protoloffia, per la qaale cfr. i Inoghi dUti dallo
Spàtbhti., nella FUoa. di Oiob., p. 53 n. *j Introd., nota S'
del voi. II, p. 213. Digitizcdby Google
Bosmini e Qioberti 261 significato è naturale prima che
artificiale. Definiva egli Ìl lin- guaggio, — definizione, ai badi,
espressamente citata e accolta dal nostro Gioberti, '■) — ' tutti i segni
onde gli uomini fanno uso per comunicarsi reciprocamente i loro pensieri,
le loro conoscenze, le loro intenzioni, i loro disegni e i loro desiderj
, *}. Pel Reid v' ba due specie di lingu^gio : un linguaggio naturale,
formato da quei vocaboli, che non hanno un significato convenzionale, ma
ne hanno uno che tutti intendono naturalmente e per istinto; e un
linguaggio artificiale, costituito dei vocaboli non aventi altra
significazione se non quella attribuita loro convenzionalmente dagli
uomini. Che vi sia un lii^uaggio naturale è innegabile: e l'attestala
sopravvi- venza stessa di esso al linguaggio artificiale: le modulazioni
della voce, ì gesti, i tratti del viso o la fisonomia, — mezzi tutti
onde l'uomo esprime naturalmente i pensieri, — sono per l'appunto le
tre classi alle quali riduce il Reid tutti gli elementi di cotesto
lin- guaggio. Ora è ovvio dedurre, siccome fa appunto il
filosofo scozzese, che il linguaggio artificiale presuppone ÌI naturale,
senza di cui gli uomini non avrebbero potuto intendersi per convenire nei
signi- ficati di quei vocaboli onde resulta Ìl loro linguaggio
artificiale. Di modo che se, come vuole l'empirismo, il linguaggio fosse
dovuto solver per un'invenzione umana, come la scrittura o la
stampa, tutte le nazioni, dice il Beid, sarebbero ancora mute, come i
bruti. Né meno stringente è la critica dal Bonald opposta alla
teo- rica del Gondillac ') nelle sue Eicerche filosofiche. Secondo il
Bonald il linguaggio ci è dato primitivamente con la prima
conoscenza; a causa della necessaria simultaneità della idea con la sua
espras- *) < Le parole sono i segni principkli, ma non i soli
Bagni, come sa oiaaouuo; tntti i sentimeati sodo veri segni deUe cose,
secondo la bella e profonda dottrina di Tommaso Eeid >; Introd., nota
l' al voi. II, p. 211. *) Rech. sur V entendemenf humain, trad.
Jouffro;, oliap. IV, sect. 2 in OtMvres (Paria 1828), H, 88.
') Combatte la teoria com'era stata formulata da) CoDdiUac; ma tiene
por conto delld OBservazioni di Hobbe» di Locke e di tutti i
Bensisti. Digitizcdby Google aione
(espressione, si noti, anche semplicemente * mentale « )■ S contro i
sostenitori dell'opposta sentenza, osserva che essi comin- ciano dal
supporre, contro ogni autorità ed ogni ragione, l'uomo in uno stato
primitivo bruto e insociale, e a tal grado di barbarie, da essere perfino
privato della facoltà di conoscere e comunicare i proprj pensieri, per attribuirgli
nello stesso stato i pensieri, i sen- timenti, le affezioni, le
intenzioni, i bisogni, Io spirito d' invenzione e d'industria dell'uomo
sociale e civilizzato , '). Lo critica del Bonald è in fondo
identica a quella del Reid. Si presuppone nell'uomo sfornito tuttavia del
linguaggio, cbe gli tocca inventare, qualità o attitudini necessarie
all'invenzione; le quali non possono non equivalere al possesso del
linguaggio che vien negato, comecché in una forma primordiale e
naturalmente rozza. E questa ingenua teoria del vecchio empirismo che
fon- dava la società io un contratto, la religione su un arbitrio
dì legislatori, e Ìl linguaggio in una invenzione convenzionale, è
stata anche in quest' ultimo campo, sconfitta dalla moderna scienza della
linguistica comparata; la quale se tra Max MuUer e il Witney discorda
intorno alia necessità delle relazioni che intercedono fra il pensiero e
la parola, ha però definitivamente e concordemente stabilito che il
linguaggio è un fatto speciale, primitivo e naturale dell'uomo, non
essendovi alcuna società, per quanto barbara e selvaggia, che non ne sia
fornita; del pari che la sociologia e la scienza delle religioni
comparate hanno provato l' originarietà, cioè l'apriorismo, del fatto
sociale e del religioso. Ed è appunto merito della scuola teologica
francese, come osserva giustamente il Janet ^), di aver dimostrato contro
i filo- sofi francesi del sec. XVTII la vanità delle teorie intorno
all'o- rigine fattizia e riflessa di tutti i fatti i più importanti
dell'uomo sociale. Al Bonald poi spetta particolarmente la lode per quel
che è del linguaf^io; e a lui specialmente volgeremo l'attenzione,
giacché ') lUeherches phiioaophiquea, ohap. Il, in Oeuvres (
Paria 1858 ) p. 107. *) La ph&os. de LamtnnaU, p. 18.
Digitizcdby Google Bosmini e Oioberii 263
egli connette questa teorìa con quella della rivelazione neceasaria
per l'umana conoscenza, siccome fece tra noi il Oiobeiii. II
Bonald, con l' Histoire comparée del Degerando alla mano, rileva che la filosofia
non è riuscita peranco a fissare un punto fermo, un criterio sicuro di
certezza e di verità, anzi per tutti i sistemi è finita nello scetticismo
e nel soggettivismo; e si chiede quindi se non fosse possibile "
trovare nei fatti sociali un fonda- mento alle dottrine filosofiche piìl
solido di quello che s' è cercato fin qui nelle opinioni personali , ') ;
e questo fondamento gli pare appunto di trovarlo nel linguaggio, che,
dimostrato non potersi in- ventare dagli uomini, deve (non essendovi,
secondo lui, altra via) essere stato comunicato da Dio alla società
umana, e in questa appresa via via dagli individui. Si
direbbe che il criterio del Bonald riesce sottosopra a quello altrove
rilevato dal Lamennais; che questa parola, che possiamo accettare come
saldo fondamento di certezza, data da Dio all'umano consorzio, è
precisamente la rivelazione. Ma quel che v'ha di ori- ginale nel Bonald,
e prova che il Gioberti ne dipende io modo spe- ciale, è la teoria della
parola coma atto o strumento necessario del pensiero; vale a dire che,
dato che il linguaggio, tutto il linguaggio aia rivelazione divina, il
pensiero dì cui il Bonald dice che la parola è il corpo, è esso stesso
tutto una rivelazione, cioè ha tutto per se stesso un fondamento di
certezza obbiettiva o sovrumana, nel senso di universale. La quale è
appunto la teoria del Gioberti, che ammette bensì una conservazione, ma
anche una alterazione della forraola ( = contenuto della rivelazione,
coni' è contenuto dell' intuito) ; e fa che il pensiero che rimane, anche
al- teratasi la rivelazione, possa tuttavia cogliere il vero. Di
guisa che la rivelazione (l'elemento sensibile della conoscenza) non è
ac- cidentale ed esterno al pensiero, ma necesaario e quindi costitutivo
di esso ; sicché, essendo il pensiero un fatto, cotesto elemento sen-
sibile, ne dipende e gli è strettamente connesso. *) BecA., p.
42.- .dbyGoosle 264 O. Gentile
Questa rivelazione, adunque, ha ud valore tutto speciale, in quanto
è qualcosa d' intrìnseco al pensiero stesso, tale perciò che il
ricorrervi non sia per quello un esautorarsi o uà apprendere dal di
fuori, ma bensì uno sviluppare se stesso; laddove, presso il Ijameanais
del Saggio suW Indifferenza, il pensiero infermo per se medesimo e
incapace d' attingere il vero, si dee abbandonare, quasi per chiederle
conforto, alla rivelazione esteriore. Pel Gioberti la rivelazione va
cercata nella vita stessa del pensiero, equivalendo alla parola, che è
tale a sua volta, che senza di essa, come aveva osservato il Bonald, il
pensiero non esisterebbe. Chi rigetta la rivelazione, viene a rigettare
secondo il Gioberti, la parola, ossia lo strumento necessario alla
cognizione riflessiva dell'Idea; epperò non può attinger questa, senza la
quale — lo vedemmo già eoi Kosmini — il pensiero cessa di essere '■). La
necessità dì questo è pertanto la stessa necessità della rivelazione,
considerata unica- mente per rispetto a quell' ufììcio che dee compiere
nel fatto della conoscenza. Sennonché, cosi considerata, a
che si riduce la rivelazione? Essa ci deve offrire la parola, ossia i
segni delle cose, Ìl dato sensibile che circoscrive l'idea dell'essere e
le dà attuale esistenza di cono- scere; e, come dice l'autore, ' una
successione di sensibili, per cui essa Idea rivela se medesima all'
intuito riflessivo dello spirito umano, e compie l'intuito diretto, che
li porge da sé *). Non è del nostro tema trattare ampiamente di
questo punto della filosofia del Gioberti, che richiederebbe una troppo
lunga di- samina. E bisognerebbe sovrattutto discuterla, — come in
parte ha fatto, da quel gran maestro che era, lo Spaventa — nelle
opere postume, una delle quali è appunto dedicata alla filosofia
della ') B il QiOBBBTi dice: «Il ripudio assoluto della
tradizione religiosa e Bcientifica si trae dietro neceasariacoente quello
della parola. Ora, siccome l'aiuto della parola è neceaaarìo per
conoscere riflessivamente l'Idea, chi lo rifiuta dee eziandio dismetteie
e gittar da sé ogni cognizione ideale. Ha tolta l' Idea, che rimane?
Nulla ».-- /«(roA, I. 3»; II, 51. ») Op. «(., I, 3"; n,
107. .dbyGoosle Sosmini e Gioberti
265 rivelazione. Ma esse furono tutte scritte dopo la polemica col
Elo- amÌDÌ, e sarebbe perciò inopportuno il prenderle come un punto
di partenza, volendo discorrer di quella. Gì basta notare,
che nella stessa Introduzione la teoria della parola va messa in
relazione con le dottrine del Reid e del Bonald, dalle quali deriva, e
co' principj rosminiani già adottati nella Teo- rica del soEiannaturale ;
che deve intendersi {secondo la distinzione di parola naturale e
artificiale, ripetuta dallo stesso Gioberti) '), come parola naturale,
cioè come segno della cosa, o sua rappre- senlanions, il che corrisponde
appuntino alla teoria rosminiana della sensazione, per la quale si
determina e circoscrive l'ente indeter- minato. Infatti, secondo il
Gioberti, la parola artificiale non può esprimere se non le idee già
espresse, e presuppone quindi la pa- rola naturale, la rappresentazione
*). Ora, se anche pel Gioberti ogni concetto si forma per una
de- terminazione che si fa per la parola dell' essere indeterminato
del- l'intuito, ciò avviene, come s'è visto, per opera della
riflessione; la quale richiamerebbe perciò, secondo s'è pur notato, la
percezione intellettiva del Rosmini. — Ma il Gioberti, come ha mutato la
parola, ha mutato anche, o crede d'aver mutato, il concetto. Alla sua
fìlo- 'J 4 La potenza dell'intuito per attuarsi ha d'uopo della
parola, cioè del sensibile! La parola è di due specie: naturale e
artificiale. Questo è il lin- guaggio elle non può eaprimere che le idee
già espresse. Il linguaggio del- l'arte è sempre una traduzione del
linguaggio della natura; è verso di esso db che la scrittura verso In
parola artificiale >. Kioi d. Rivela):., Toriao, Botta, i8o6, p.
89. ') Meglio potremmo solidare questa interpetrazione discutendo
le difficoltà che fa insorgere la teoria della parola cori com' è esposta
uell' Introduzùtne, o prima facie par che quivi debba intendersi,
esaminando la critica fattane dal Tbsta nelle sue Considerazioni aopra l'
InlrodtiziorK aUo st. ddla JHo*. di V. Q., Piacenza, Del Majno, 1845,
part. n, p. 32 e segg. Ma non ist htc locus. Con la critica del Testa
consuona in alcuni punti quella di V. Db Gbaziì, ne' suoi Discorsi au la
logica di Hegel e su la Filos. speculativa { Napoli, Tip. de' Gemelli,
1350) 2' rass.; e mutuata dal Testa pare l'obbiezione che il critico
calabrese muove all'ipotesi dell'intuito (iTÌ,p. 100) nel Gioberti.
.dbyGoosle ^^T1 aee O.
Gentile sofìa, che per la spi^azìone della conosceoza ha bisogno
del fatto della rivelazione egli coutrappone la filosofla eterodossa, la
quale, rifìutaodo lo strumento della rivelazione, non può ammettere
una riflessione che rifaccia T intuito e conduca perciò al possesso
del- l'Idea; e deve quindi rinunciare alla Idea, appigliandosi alla
per- cezione del sensibile, il quale può essere l'oggetto del senso
esterno, come dell'interno, ossìa materiale ed estrinseco, o spirituale
ed intrinsepo. Donde, doppia eterodossia, sensismo da una parte e
psi- cologismo dall'altra; e in ambo i casi ' la sostituzione del
sensi- bile all'intelligibile, come principio, onde muove la filosofia ,
'); ossia un metodo il quale, come vedemmo, conduce direttamente al
soggettivismo, allo scetticismo, al nullismo, dacché è vano lo sforzo dei
sensisti e de' psicologisti, di trarre dal sensibile l'in-
telligibile. La filosolia eterodossa, dunque, ammette bensì anch' essa
la riflessione; ma la sua rifiessione si differenzia essenzialmente
dalla riflessione della filosofìa ortodossa, in quanto, non servendosi
di quel mezzo che solo mette in grado di tornare, dopo il primo in-
tuito, fìno al termine di questo, si deve necessariamente fermare al
fatto della mente (per parlare dello psicologismo che c'inte- ressa) e
rimaner quindi semplice riflessione psicologica, in luogo di pervenire
all'Ente intuito immediatamente e farsi, come dovrebbe, ontologica.
' Lo strumento, onde lo spirito umano si vale in psicologia, è la
riflessione psicologica, per cui il pensiero si ripiega sovra se stessO;
e afferma, non già la propria sostanza, ma le proprie ope- razioni
solamente. All'incontro nell'ontologia lo strumento è la contemplazione,
la quale si divide in due parti, cioè in uu intuito primitivo, diretto,
immediato, e in un intuito riflesso, che chiamar si può riflessione
contemplativa e ontologica , >). Cosicché la ri- flessione psicologica
è una operazione semplice ; l' ontologica una ') Introd., I,
3"; II, Bi e segg. *) Introd., I, 3»; II, 104 e aegg.
DigitizcdbyGOOgle Boamini e Gioberti 267
operaziooe duplice; quella si esercita sopra il prodotto soggettivo
di una precedente operazione (l'intuito)-; questa sopra l'oggetto stesso
della operazione precedente, che rifa maturandola. Si potrebbe dire
perciò, che la riflessione ontologica sia la stessa riflessione
psicologica aggiuntavi la ripetizione dell'intuito. Infatti * nell'ontologia
lo spirito, ripensando, si rifa sull'oggetto imme- diato dell'intuito
stesso.. . Ma, egli è vero che nella riflessione contemplativa •}, la
mente rivolgendosi all'oggetto ideale, si ripiega pure di necessità sull'
intuito proprio, che lo apprende direttamente ; onde il tenor psicologico
del rìpensare accompagna sempre l'altro modo di riflettere; tuttavia
queste due operazioni, benché simul- tanee, sono distinte, perchè hanno
il loro termine in uu oggetto di- verso , *). Una critica non
molto difficile qui può sorgere conti'o questa dottrina della riflessione
ontologica. Se l'intuito lascia uno stato speciale nella mente, un fatto,
tal che sia possibile coglierlo con la riflessione psicologica, due casi
si posson dare: o in esso v'ha uno specchio fedele dell'oggetto proprio
dell'intuito, e allora la riflessione psicologica è fondamento di una
conoscenza oggettiva per eccellenza, e non soggettiva, come pretende il
Gioberti; o non si riflette affatto (ovvero, che è lo stesso, non si
riflette fedelmente) il termine dell' intuito, e in tal caso questo primo
intuito è per- fettamente inutile. Il dilemma ci pare senza
uscita. La riflessione ontologica del Gioberti sarebbe davvero un secondo
intuito, se potesse traspor- tare la determinazione sopravvenuta con la
parola (dato sensìbile) dall'interno del soggetto, dove interviene, nello
stesso oggetto; il che è impossibile, perchè secondo la sua teoria la
parola è un sen- sibile. E perchè dovrebbe potervela
trasportare, cotesta determina- *) Cobi è par detta dal
Oìobei-ti la riflesBione ontologica; mentre la psico- logica è pur detta
osservaHva (p. 105). «) latroduz.. l, 3", II, 104.
.dbyGoosle 868 G. Qmiile zionep Perchè,
avvenendo la determinazione nella riflessione, es- sendo questa ontologica,
il sensibile, principio della determinazione, dovrebbe ripensarsi coli'
intelligibile, e come questo (poiché si tratta di un secondo intuito),
fuori del soggetto; il che, ripetiamo, è im- possibile. Di
certo la riflessione ontologica è l' espressione, benché non esatta,
d'una giusta esigenza del pensiero, come or ora vedremo; ma contrapposta,
com'è dal Gioberti, a una riflessione psicologica, fallisce al suo scopo,
non potendo sfuggire alle conseguenze dello accennato dilemma. Sennonché,
il Gioberti ci dice: ' La rifles- sione psicologica non ha per termine
diretto il pensiero, come pen- siero, ma il pensiero come sensibile
intemo, cioè come atto dello spirito, e quindi non riguarda direttamente
l'Intelligibile, che si congiunge col pensiero e lo illustra. Egli è vero
che la riflessione del psicologo si connette per indiretto coli'
Intelligibile ; ma cì6 non prova nulla in favore dei psicologisti;
imperocché non ne partecipa, se non mediante quell'intuito mentale, che,
al parer mio, è il vero e necessario strumento dell' ontologo , •}•
L'equivoco qui è evidente: la riflessione psicologica non coglie il
pensiero come pensiero, cioè in quanto intuisce l'Idea^, ma lo coglie,
secondo Gioberti, come un sensibile intemo ; dunque la riflessione
ontologica non fa altro che cogliere il pensiero come pensiero.
Ora, se la riflessione psicologica presuppone anch'essa un intuito,
e (poiché, parlando contro il psicologismo, il Gioberti si riferisce
specialmente al Rosmini) un intuito, che, come vedemmo nella esposizione
della teorica rosminiana, è costitutivo del pensiero, é ») Introi.,
I, 3» i U, 109. ') Nella FUoB. iella Uivdaz., il Qioberti scrive :
< Una meate aeiiEa idee, e in igtato di tavola rasa perfetta è una
contraddizione. La facoltà con cui la meate creata afferra questa
rivelaiione [la riveUsioae imuaQente, virtuale, che diventerà attuala pei
opera della riflessione; v. ivi, p. 87] che fa, la sua assensa, è
l'intuito»; p. 88 Né pia uè raeao di ci6 che dell'intuito aveva detto il
Rosmini! DigitizcdbyGOOgle ■^ ■»-
-w'- Rosmini e QvAerii 369 la sua propria
essenza, — come può fare a ritornare sovra un pensiero ehe non siasi già
appropriato l'Intelligibile, e Io abbia ancora fiiori di sé, e sia ancora
in atto d'intuirlo? Insomma sì può concepire un intuito immediato
dell'Intelligibile come essenza del pensiero, che pur lasci il pensiero
sempre al puro stato di tcAida rasa, sempre in atto di guardare
l'Intelligibile, senza mai vederìo? Il pensiero pel Rosmini intanto è
pensiero, in quanto ha un intelletto costituito dall'intuito
dell'intelligibile; non può quindi riflettersi su se stesso, senza
trovare in sé non già Ìl semplice atto astratto dell'intuito, ma sì
l'atto concreto, ossia l'atto terminante nell'Intelligibile: la forma, in
una parola, dell'intelletto. E l'equi- voco propriamente consiste in ciò
: nel concepire l' intuito imme- diato come una pura dualità; dove, al
pari della visione corporea, da cui immaginosamente è desunta, non può
essere se non un'unità sintetica, di soggetto ed oggetto. L' intuito ond'
è fornito l' intel- letto è una nozione, in cui Ìl soggetto e l'oggetto,
come nel pro- dotto della sensazione, sono affatto indistinti. Ora se la
nozione è qualcosa di perfettamente uno, ripiegandosi sovra di essa, lo
spi- rito non può non coglierne il contenuto, che è per l'appunto
l'Intel- ligibile. — SI' equivoco si fa manifesto quando l' autore
soggiunge che questo scambiamento di metodi (psicologico ed ontologico)
gli ' riesce un trovato cosi bello, come l'assunto di chi adoperasse
le dita e le orecchie, per apprender la luce e distinguere ì colori
in essa racchiusi „ (p. 105). Qui sì immaginano la luce e ì colori
come oggetti o segni esterni e indipendenti dell'organismo sensi- tivo,
in che si rappresentano; per modo che a noi, sapendoli lì ad aspettare di
esser da noi sentiti, sia dato scegliere lo strumento più acconcio alla
bisogna. Laddove fìa dal 1834, quando fu pub- blicato il celebre Manuale
di fisiologia di Giovanni Mailer, si sa da tutti che non v'ha nulla di
più falso. Quello che not sentiamo e diciamo luce e colori, non è se non
per la nostra sensazione e nella nostra sensazione. Ma il Oioberti
ignorava questo concetto della soggettività della sensazione, comecché
avesse già appreso dagli scozzesi quella teoria della percezione
esteriore, per la quale ve- .dbyGoosle
270 ^ 0. Oentile nivano per sempre seppellite le vecchie idee
imniagiiii, che solo la leggerezza filosofica di Ippolito Taine doveva più
tardi esumare nella sua haldanzosa quanto vana guerriglia contro la
filosofia classica francese in genere, e per questo punto contro il
Royer- Collard >). Or, come è uno shaglio credere che il
colore che diciamo di vedere con l'occhio, sia fuori dell'occhio, talché
se si avesse modo di riflettere sulla visione, si rifletterebbe sul
semplice atto del ve- derlo, ma non propriamente sul colore; così
soltanto un equivoco può far pensare che nella nozione rosminiana fornita
dall' intuito dell'Intelligibile, non siavi altroché l'atto dell'intuire;
di guisa che la riflessione sovra di essa pervenga soltanto
indirettamente all'oggetto, sul quale cotesto atto si esercita. L'oggetto
qui è una cosa stessa con l' atto, siccome vedemmo altrove discorrendo
dell'intuito; oggetto ed atto sono una cosa sola nell'intuito in-
tellettivo, che è atto insieme e forma dì esso, secondo la teoria del
Rosmini. E questa è la vera ragione che il Tarditi avrebbe dovuto
op- porre al Gioberti, per dimostrargli infondata, come tentò di
fare nella prima e nella seconda delle sue famose lettere, la
distinzione fra le due riflessioni psicologica ed ontologica *). Le quali
si po- ') Convengo pienamente nella controcritica oppostagli dal
Janet nel primo de' suoi scrìtti en La crke phUoaopMques, Paris, 1865, p.
26 e segg. Li teoria scczzcBe toRlienda l'inutile intermediario
dell'immagine tra l'oggetto sensibile e il soggetto sensitivo, fece di
certo un primo passo verso quell'unità del tatto della sensazione, che
non poteva d'altronde concepirai senza i nuovi prin- cipj del kantismo,
di cui giustamente la psicologia genetica tedesca si con- sidera come un
fedele compimento. — Vedi in proposito gli scritti del TabÌktino in Giom
Napdet. di FUob. e Lett. del 1880 e 81 e del Cm*p- PELLi, ivi. QnelH del
primo bqu pure raccolti nei Saggi fUoeofici, Napoli, Morano, 1885, pp.
37-128. — Dopo la pubblicazione di quwto votame il Chiappelli tornò
sull'argomento nella Filosofiti delle Scude Italiane, voi. XXSI (1885),
in un art. sulle Attinenze fra il criticiamo kantiano e la pri- coloffia
inglese e tedesca. ') « Siccome, osservava il Tarditi, noi non
possiamo riflettere su ne»aa DigitizcdbyGOOgle
Rosmini e Gioberti 271 trebberò ira loro distinguere
solamente pel dÌTerso oggetto (e a questo soltanto s'è appellato come a
ragion distintiva in un passo deìV Introduzione già citato il Gioberti);
talché se l'una noa ha, né può avere un oggetto diverao dall' altra, è
chiaro che la distin- zione non possa più farsi. n Gioberti,
veramente, negava più tardi che la distinzione si desuma soltanto dall'
oggetto ; e voleva che si fondi anche sul metodo {Errori, I, 151 e
segg.); e dava sulla voce al Tarditi, che ciò non aveva saputo vedere •).
Ma come sosteneva la sua sen- tenza ? ' La diversità dei
metodi in ogni ordine di ricerche consiste . . . in quella del veicolo,
che si dee scegliere per conseguire l'oggetto ricercato; e la natura del
veicolo è determinata da quella dell'og- getto medesimo, considerata non
in sé semplicemente, ma nelle sue attinenze con le facoltà e le
condizioni del cercatore , *). E più in là: ' Il punto, a cui si vuol
giungere, determina l'indirizzo che si dee tenere; l'intervallo che s'ha
da correre, insegna le ope- razioni da farsi, per superare gli ostacoli e
toccare la mèta , '). Ora^ senza dire dei caratteri differenziali
che il Gioberti poi indica nei due processi che vuol distinti, basta
notare che la sua deduzione avrebbe un valore soltanto nel caso eh' ei
avesse dimo- strato essere realmente distinti i due pretesi oggetti di
riflessione, poiché, a confessione dello stesso Gioberti, la natura del
metodo oggetto se Doa quanto da noi o intuito se ideale, o
percepito se reftle; pad la riflesBÌoDe passare egualmente dall' oggetto
atl' intuito, e dn questo a quello; anzi ta rìfleasioue sull'intuito non
puA essero completa, imparziale, quale s'ad- dice al filosofa, se non
coasidera l'intuito, e nel soggetto di cui è atto, e nel- V oggetto in
cui termina, e dal quale Sformalo*; Leti, d'un Sosminiano, Z\ p. 38 ; e
si riferisce alla teorìa della rytesiione filosofica del Rosmini ; cfr.
p. S e segg. Or se si distìngue e separa, come fa il Tarditi, atta da
oggetto, il Gioberti ha cagione. H vero è ohe essi non sono afiatto distinti.
') Leti, eit, I, 19-20. •) Errori. I, 153. 3) Op.
eit., I, .158. .dbyGoosle 272 G.
Omtile è determinata dalla natura dell' oggetto. Contro il Tarditi
che ammetteva un atto di intuire distinto attualmente da un oggetto
intuito, egli aveva ragione; perchè se vi sono due termini di di- versa
natura, noi non possiamo giungere a ciascuno di essi con un medesimo
processo. Ma conviene prima provare quella distin- zione di atto e di
oggetto nell'intuito; la quale è, pift che altro, presupposta dal nostro
autore. E peccando il suo ragionamento di una siffatta petizion
di principio, né potendosi altrimenti che per astrazione
distinguere r atto dall' oggetto, il Gioberti non può dire nemmeno che la
re- plicazione dell'intuito, cioè la riflessione, si differenzi! per
l'oggetto e pel metodo; poiché il metodo potrebbe esser diverso solo
allof che fosse differente l' ometto. E se il metodo trae i suoi
caratteri specifici dall'oggetto, e se l'oggetto è uno e inscindibile, come
si può distinguere una riflessione psicologica e una riflessione onto-
logica? Il pensiero non si può riflettere se non sopra di sé, come
pensiero; e siccome è costituito tale dall'intuito dell'essere, che gli
dà l'idea dì questo, la riflessione non può non comprendere
direttamente questa idea dell' essere, che è oggetto dell' intuito.
Che se l'intuito si considera nel suo intimo e profondo signi-
ficato, secondo la critica da noi fattane, cioè io quanto esprime
l'oggettività vera (non la falsa oggettività fantasticata, con la im-
maginaria opposizione, a risolver la quale # ricercato l'intuito), e però
la vera soggettività, vedasi quanta ragione più si abbia di volere una
riflessione che, a differenza della riflessione suU' intuito, faccia
riflettere lo spirito sullo stesso oggetto dell'intuito. — E a questo
punto noi volevamo arrivare. — Perchè Gioberti distingue una riflessione
ontologica dalla riflessione dei psicologisti ? Qnesta, egli dice, si
ferma a un fatto dello spirito ; quella ci conduce fino allo stesso
oggetto ; e quella è però da preferirsi, se si vuole evitare il
soggettivismo. Or si veda che fedele rosminiano è fin nell'afferma- zione
di questa esigenza il Gioberti ! La critica sbagliata Fatta dal Kosmini
delle forme kantiane, ecco che egli la rivolge una seconda
DigitizcdbyGOOglc Jìosmini 6 QwberH 27
Tolta contro il Rosmini medesimo. Gioberti, infatti, si accorge (
l'intuito rosminiano è una pura e semplice forma dell'intellet ne più né
meno delle forme di Kant; se ne accorge e gli pare, dìei l'insegnamento
del Itosmini, di vedersi risorgere innanzi il fosco fs tasma del
soggettivismo. Quindi non gli basta un intuito, coi bastava al Iio3mÌDÌ,
onde salvare l'oggettività, cioèl'universal e la necessità della scienza,
e gliene vogliono due, un doppio ìntu intuito riflesso o secondario, o
veramente una riflessione oni logica. Bisogna davvero che questa Idea
stia fuori del soggel umano, stia da sé, e bisogna cbe si vada sempre
fino a lei, ti per un semplice intuito (potenza o virtualità di
conoscere), vi per un intuito riflesso, reale ed effettivo
conoscere. Ma il guajo è che se l'intuito, l'intuito scempio, sul
quale esercita la " riflessione eunuca , ^) del Rosmini, è un
semplice s< sibilo interno, o meglio, un semplice dato soggettivo (che
pel G: berti quel termine ha questo significato) — opperò
individuali contingente, — non c'è modo di provare che non sia un
sempl dato soggettivo anche lo stesso intuito doppio, che gli si vuol
( stituire. À rigor di logica, infatti, la critica stessa che il
Qiobe muove al Rosmini, si può muovere a lui, e si può continuare
l'infinito contro chi intenda l'oggettività, cioè l'universalitì
necessità delle forme di cognizione, come opposizione al sogge conoscitore.
Giacché l' intuito è sempre la stessa operazione, ed i plica sempre la
medesima relazione tra soggetto ed oggetto, che si eserciti una sola
volta, sia che si eserciti due volte, riflessione ontologica rifa
l'intuito circoscrìvendone l'oggetto dato sensibile, offerto dalla
parola. Ora, se il prìmo^intuito i era bastato a cogliere
l'intelligibile, perchè e come deve potè cogliere il secondo ? — L'aveva
evolto, dirà il Gioberti; ma appui perciò bisogna ripeterlo, quando si
vuol predicare del dato sensil quella intelligibilità, e formare il
concetto. — Ma anche a v' ha risposta; cioè, l'intuito non è, come s' è
visto un precedei *) Errori, I, 144.
.dbyGoosle -^?5^" 274 G.
Gentile cronologico della percezione intellettiva, dell'atto (che
il Gioberti dice riflessione) della determinazione dell'Idea, del
differenzia- mento della primitiva identità. E se non precede
cronologicamente, come non deve, né può, poiché non v'ha l'identico senza
la diffe- renza, né l'universale fuori del particolare, né l'uno fuori
del vario, é falso i! concetto d'un replìcamento dell'intuito nella
percezione intellettiva o nella riflessione; perchè il replicaraento
presuppor- rebbe l'intuito come un precedente anche cronologico, oltre
che logico ; con che si tornerebbe al vecchio concetto dell' a
priori. La riflessione ontologica, adunque, non può intendersi come
in- tuito riflesso, cioè come doppio intuito, nonostante l' esigenza
che r Intelligibile aia intuito nell' occasione stessa della percezione
sen- sitiva, oltre che solo; per la semplice ragione che da solo non è
mai intuito, se non come presupposto logico, come un quid
trascendente il fatto della conoscenza. D'altronde, il secondo intuito
che si com- prende in cotesta riflessione ontologica, non è né più né
meno che una ripetizione del primo ; talché, insuMciente il primo, non
pub non essere, e il Gioberti non dice perchè né come non debba es-
sere insufficiente il secondo, E perciò, rifiutato il primo, egli non
aveva nessuna ragione di tenersi contento al secondo, come aveva avuto
torto, a fil di logica, il Rosmini, rifiutando le forme kan- tiane, a
contentarsi di quel suo primo intuito. Ma come l'errore del Rosmini
risguardava la sua interpetrazione di Kant, ma non, ci pare, la sua
teorica, ed anzi era prova, come s' è più volte notato, delia buona
esigenza da lui avvertita di una perfetta universalità e necessità nel
conoscere; così, con la sua teoria della riflessione ontologica, il
Gioberti, se crede a torto di correggere il "Rosmini e con esso
anche il Kant, dimostra anche lui di avere avuto il giusto concetto dei
bisogni essenziali della scienza. E v' ha di più nel Gioberti.
Questi sente più forte una esigenza, che non si può dire sia stata
trascurata dal Rosmini, comecché in lui non sembrasse pienamente
soddisfatta ; vale a dire l' esigenza dell' unità non pure come
compimento della dualità della sintesi, ma altresì come sua base,
fondamento ed inìzio. Digitizcdby Google
Rosmmi e Oioberti 275 Infatti, con la riflessione ontologica
8Ì ritrae la differenza nel seno stesso delU identità; perchè la parola,
principio determina- tivo, aiceome è una rivelazione dell'Idea, così è
strumento di quella riflessione, che risale fino all'Idea stessa, a guisa
d'un quadro, in cui s' incornicia la vaga Idea sconfinata, tanto per
lasciarsi vedere dal finito spìrito umano. Ma quadro e Idea sono una
medesima cosa; tanto che la parola è detta rivelazione dell'Idea, ed è
propria- mente parola dell' Idea medesima. Sicché la differenza qui scatu-
risce dal fondo stesso dell'identità, dall'Idea; e la funzione dello
spirito, per cui si apprende insieme l' identico e il diverso, è pre-
cisamente la riflessione ontologica, che si rifa dal centro stesso dell'
identico ; laddove, secondo il Gioberti, la riflessione psicologica non
si rifaceva se non dall' atto stesso dell'intuito di cotesto iden- tico,
cioè da un fatto sensibile, epperò da un diverso; il quale, d'al- tronde,
se pure era un identico relativamente all' ordine dei cono- scibili, non
conteneva però in sé il principio della differenza. Il Gioberti,
adunque, senza riuscire a dimostrare l' insufficienza della riflessione
rosminiana, con la critica di questa e col volervi sostituire una
riflessione più compiuta, mirava a porre su più solido fondamento la
oggettività del conoscere, e a giustificare più sicu- ramente quella vera
sintesi a priori che per questa via accettava, attraverso il Rosmini, da
Em. Kant; fondandola su quell'unità indis- solubile di identico e di
diverso, di uno e di moltepUce, di uni- versale e di particolare, di
necessario e di contingente, nella quale è la vita e la spiegazione del
pensiero e del mondo ; unità, del resto, di cui sentì pure il bisogno
Rosmini, come in parte s'è visto e meglio si vedrà nel capitolo ohe
s^ue. E per conchiudere intanto su questo punto, diremo che la
ri- flessione ontologica non è una operazione differente dalla
riflessione psicologica, che il Gioberti attribuisce al Rosmini; non
potendone differire pel metodo, poiché non ne differisce per l'oggetto, e
non potendo per questo differirne, poiché non esiste quella duplicità
di c^getto, che è presupposta dal Gioberti, e che ne sarebbe condi-
zione necessaria e sufficiente. L'immediatezza dell'intuito, come
.dbyGoosle 378 0. OmHle forma del
conosoere, esclude essa appunto ogni distinzione tra atto d'intuire e
oggetto intuito, siccome distrugge l'opposizione, che pur presuppone col
suo letterale significato, fra soggetto ed oggetto. Della proprietà delle
parole. 1: La parola , prima che fosse scrilla,è parlata : la parola parlata fu
inventata da Dio,come abbiamo detto di sopra,elascritlurafuun
trovatodell'uomo,einspeciedel sacerdozio , secondo l'opinione del Gioberti, La
parola artificiale, come espressione dell'Idea, non è già ilVerbo ereatore, m a
l'immagine del Verbo, cioè il vero Verbo dellamente umana;e
quindiilveromedialoreidealetra lo spirito e l'Idea.Se adunque lo spirito
contempla l'Idea a traverso della parola, egli è chiaro, che la parola dee
yelare appena e non coprire l'Idea,come terso cristallo corpi sottostanti ;
quindi ella dee essere trasparente, e in ciò consiste la sua semplicità e
perfezione, Dalla sempli cilà dellaparola nasce la proprietàdellevoci,lapuritàe
l'eleganza dei vocaboli ; le quali doli della parola si tra yasano nelle
frasi,che esprimono l'unione armonica delle yuci mediante i concetti ; e per
via delle frasiriverberano quindi nello stile, e generano la bellezza del
discorso. I m perocchè il discorso è bello allora quando le voci,le frasi, e
quindi lo stile che ne deriva, sono semplici,proprie, pure ed eleganti. Infatti
la parola è semplice, quando vela a p pena ilconcetto,e non lo copre dinanzi
all'occhio della mente, nel qual caso la parola è per l'opposto materialé, e
oscura.L a parola è propria , se è un ritratto fedele del concetto che esprime
; ed è sempre tale , ogniqualvolta 266 linguaggio ; della precisione dei
concetti mediante le dif finizioni ,e della loro partizione mediante le
divisioni dell'organismo dei concelti mediante i giudizii ; delle pruove delle
verità seconde mediante i raziocinii';.e in fine del processo della mente
secondo il lenore obbieltivo delle idee mediante ilmetodo. Ma poichè in
tuttequeste operazioni della mente si può cadere inerrore,ogni qual volta non
si fa buon uso dei canoni logici e dellaloro applicazione , quindi entra
innanzi la critica a giudicar dell'uso che si è fatto dei canoni logicali ,
mediante il giudicatorio supremo dei principii che sovraslano alle stes.
seleggi.Diche noidividiamoluttalamateriadiquesto capitolo in tanti distinti
articoli . ART. 1. conserva la suasemplicità. Quando la parola è
propria mantiene a capello la corrispondenza perfetta tra l'Idea e il suo segno
sensibile, se ella siguilica l' Idea increata, cioè l'Ente ;'e se ella esprime
l'idea creata,cioè l'esistente è anche propria , oġniqualvolta conserva la
corrispon. denza tra lamimesi e lametessi.Quindi è,che la lingua primitiva, la
quale ebbe due parti, l'una divina,e l'altra umana, fu eminentemente propria ;
imperocchè la parte divina di quella lingua consisiente nella rivelazione dei
verbi originali manteóne,perchè divina,la corrispondenza tra l'Idea e il
segno,e la parte umana,consistente nel l'invenzione dei nomi primilivi,mantenne
ancora la cor rispondenza tra la mimesi e la metessi , perchè A d a m o
pernominare isensibilicoiloroproprii nomi, lidedusse dagl' intelligibili, cioè
dalla loro radice melessica. Quindi è,ancora , che nelladivisione delle lingue
avvenuta pel fatto diBabelen,on re,che non abbia più o meno perdule e guaste
molte pri. milive sue forme ; che non costi di n o m i e verbi anomali,
eteroclili, difettivi, e di molte altre irregolarità di linguag gio , sicchè
ogni lingua compare una rovinadel primitivo idioma. Quindi è finalmente,che gli
scrillori autichiper che erano studiosissimi della proprietà delle voci c dello
stile (onde le loro distinzioni dei varii generi di stile,te nué, mezzano,
sublime ) perciò sono appellati classici, e sono isoli che abbianobuona
scuola,cioè ispirano e pro ducono altri scrittorigrandi. 267 2. Abbiamo
detto che dalla proprietà nasce la purità l'cleganza e la bellezza della lingua
e dello stile;e quindi del discorso.E infattilavoce proprio nella lingua
italiana importa il concelto di identità, cioè della medesimezza di una cosa
con seco stessa:importa pureilpossessoche una cosa ha di sè medesima,perchè la
cosaposseduta èquasi parte è in certo modo faltura eziandio del possidente.
Quindi il vocabolo proprietà è spesso sinonimo di m e desimezia ;cosìl' amor
proprio è l'amor di sè; è desso an, cora sinonimo di possessione ; così gli
attributi specifici di una cosa,iqualine sono leproprietà,sono la cosa stessa,
perchè le qualià e i modi degli esseri sono la sostanza m o
dificata,valquantodirelamimesidella metessi.Adunque laproprietàdelparlarealtronon
èchelacorrispondenza della mimesi colla melessi del discorso; la quale
corrispoc 3. M a se la proprietà del linguaggio è la fonte di tulti
i pregi del parlare e dello scrivere, la improprielà del parlare poi è una delle
cause principali degli errori ontologici e logici, che producono la
declinazionedellafilosofia,como avvertimino nella prima parte di questo corso.
L'errore in generale altro non è che lo sviamento dell'intelletto nella
cognizione della verità ; e come tale si distingue dall'igno, ranza , la quale
non importa la cognizione alterata del vero,ma bensìla privazione assolutadella
cognizione,E poichè al vero si oppone il falso; perciò siccome il vero si
gnisica, in quanto è desso l'essere, così il falso n o n si goifica, secondo la
bella espressione del Tasso, perchè € desso ilnon essere 268 denza
costituisce la dialettica del linguaggio, e quindi la improprietà ne è la
sofistica. Ora la purità delparlare i m porta la sua pulitezza, la quale è una
speciedi proprietà; imperocchè la pulitezza,mostrando la cosa nella sua forma
nativa, fa che la cosa sia identica a se stessa, yalquantodire che l'apparenza
risponda allasostanza"; ilche importa in altri termini che la cosa abbia
possesso di sè medesima. E poichè la politezza importa la scelta di ciò che
costiluisce l'orpamento degli oggelti maleriali; cosi nella lingua l'ele ganza
è inseparabile dalla purità delle voei.E siccome alla pulitezza si oppone
l'immondezza, che illaidisce edeforma gli oggetti, così all'eleganza si oppone
la vanità che li al. teraedeformacome sefosseunamaschera straniera:al.
treltanto succede nella lingua e nello stile.Dalla stessa fonte della proprietà
e semplicità del linguaggio scaturisce la bellezza dello stile e del
discorso.Imperocchè quando il lin guaggio vela appena e non appanna l'idea o il
concetto, se ne rende allora ilritratto fedele, come abbiamo detto di sopra ;
nel quale caso l'idea increata o creata manifesta n a turalmente e senza
ostacolo la sua luce diretta o riflessa n e l l a p a r o l a . O r a il b e l
l o e s s e n d o l o s p l e n d o r e d e l l ' i n t e l l i . gibile, sia
assoluto,sia relativo, che sirivela a trayerso il sensibile, cosi quando la
parola è semplice e propria, è a n cora bella necessariamente ; e quindi la bellezza
del di scorso in sè raccoglie tulle le qualilà della parola e dello stile, cioè
la semplicila e la propriela , la purità e l'ele ganza. > c i o è il n u l l
a c h e n o n h a , n è p u ò a . vere virtù di significare. Ora le cause degli
errori sirie ducono a due principali, onde le altre derivano, cioè ally
269 l i m i t a z i o n e d e l l ' u o m o , e q u i n d i d e l l e s u
e f a c o l t à , e a l l' a l terazione della parola,come espressione
dell'Idea;ben'in leso però, che anche questa seconda dipende dalla prima ,
siccome dicemmo nella prima parte di questa Istituzione. Dalla limitazione
dell'uomo e delle sue facoltà nacque lo sviamento del libero arbitrio in ordine
alla legge, e quindi l'esistenza del male morale ; il quale fu cagione delmale
intelletsuale, inquanto fucagione del predominio del sen
sibilesuil'intelligibilee dellepassioni sullaragione,onde deriva l'alterazione
dell' Idea, e quindi l'esistenza del'l e r rore.Ma
qualunquesia,diceilGioberti,lacausadellacor ruzione egli è indubitalo, che in
origine l'alterarsi dell'Idea è congiunto equasi coetaneo a
quellodellaparola;laddove in appresso,e nelcommercio tradizionale,ildisordine
tra passa nei pensieri dai segni ; sicchè l'improprietà della parola è la
causa, e l'errore èl'effetto. Imperocchè,quando Ja parola è impropria , siccome
ella non mantiene più la perfettacorrispondenzatra l'Ideaeilsegnochelaesprime,
cosi i concetti ideali sono travisati dai concetti sensibili in. chiusi nella
parola, e l'Idea viene adulterala dalla metafora o dalla etimologia . Nel quale
caso i concelti ideali si c o r rompono proporzionatamente,se giả , come
avvertimmo altrove,una nuovarivelazione, o un magisterioesteriore, organato
dall'Idea istessa , ñón impedisce tali corruzioni della parola, serbando
incorrolta quellagenuina e originale corrispondenza fral'Ideà eilsuo segno
esteriore.Idea gtnerale dell'opera, e tua diritieue in due libri. — La tloria
delle religioni appar- tiene a snella della Blotofia. — Si ritolrono alcune
obbieiioni in contrario. — Perpe- tuità della Blotofia. — Del metodo critico
aegailo dall’ autore nelle rirerebe aloriebe. — Si liepolide ai nemici delle
eonpilatìoni. — Del metodo dottrinale, oaaerralo dall' auto- re; perebd egli
anteponga la. linloti all’ analisi. — Cenni sopra nn’ opera precedente.—
Prorotsione cattolica dell’ autore. — RUpoala a ehi te aoeuta di eiaer troppo
ratlolico. •— La moderazione' nelle dottrine non è oggi di moda. — Via {utile e
compendiosa, per giungere alla gloria. <—In che senso l’ antere sìa sago del
progresso. —Sua pro- trata, intorno alle persone generalmente; agli scritlori
risi ed ai morti, in itpeeio. — Di Giorgio Byron. — Dei sentimenti , che
mosiero l' auloro a scrirere. — Contro la sella degP Italogalli. — Funesti
influssi della Francia. — Della eterodosna moderna in generale, e della
filosofia germanica in particolare. — Gl’Italiani debbono filosofare da sé. —
Dello stile filosofico. — Importanza della lingua in ordine alle cose. — {.odi
ifi An- tonio Cesari. — Contro i cattisi amatori d’idee. — Dei parolai. —
Contro la barbarie dello scrirere, che domina in Italia. — Della cbiaretxa,
bresild, semplicità, precisione, c purezza del dettalo. — Esempi italiani di
elocuzione filosofica perfette. — Del modo, con cui si può inoorar nella
lingua. — Scusa dell' autore , intorno alla lingua e allo alile da lui
adoperato. — Eaorlazioue ai giorani italiani. — L’Iililà della sera filosofia.
— Elsa non dee sparenlare i buoni goreroi, né i buoni principi. — Sua
opportunità, Gioberti Inlrud. Voi. I. 21 Digitized by Google r lG-2
per ristorare la religione. — La Gloa^fia dee cucre collìfaU specialmente dai
cbicrici. — Lodi del chiericato italiano. - Del sacerdoiio frnncese ; sua
antica dottrina, e suo virtù io ogni tempo. — Del modo, eoo <ui li coltivano
le lettere da oleum chierìci franoesi. ~Della parlecipasìonc dei chierici olla
vita sociulo» —Della liberti cattolica nel culto delle dottrine. » Che il clero
catiolico dee essere emìnenle anche nelle scìen* se profun<’, per sortire
picnamt nte rt-netlo del suo o>ini^te/io. — Di certe sette politi* che, che
nocciono alla religione. ~ Dei ti elogi laici, che ioondcAO la Francia: loro
tracotanza. ^ Al'eanza della filosofia colla religione. La dottrina cattolica é
la sola dottrina religiosa, che abbia un valore acientifico. — Come la novità
si accordi coli*anti« chità nello cose filosoticlic. — Si concbiude, esortando
gl* lioliaui a I. barare le sc cuse ipecuialve dai nuovi barbari. LIBRO PRIMO.
DELLE DOTTBLNE C.4P1T0L0 PU1.M0 Della dcelinaztone delle scienze spcculalive in
generale. Cunirapposlo fra- lo sla o fìorcnle delle matetnatiche e fi*ichr, e
lo s(|uallure della fihtsofìa ai ili nostri. » Sue cagioni gencr-chc. —
Cobsidenuioui a <ju sia propos to sul'o stalo delia filosofia nelle varie
parli d'Europa. —D.vario, che corre Ira le duii'ine fiancesi o U’de.-che, nato
dalle loro diverse attinenze colla religione. — Di Renalo Descartes. ^ 1
semi'li moderni sono suoi d’srepoli assai piu legiilmi del Malebranche, e di
altri antichi cartisiani. Dd panteismo germanico; temperalo dalle tr iduioni
religiosa: l*idea «i è oscurata, non eslin a del tutto. ^ Di Emanuele Kant.
Perelié t Tedeschi prot<‘Slanti furono io filosofia più a ioni dall'
eaipielà, che i Francesi rallo(ici. ^ Dtver* sita d«‘ir ingegno spcculat vo,
presso i Francesi e i Tedeschi. — Se ne cerca la causa nella storia, e nelle
origÌr>i di queste due nazirni. — Delia tilosofia inglese : sue difie* n’nte
dalla francese, e dalli germanica. — Dei fìloSvfi ftaìiaiii del secolo
quiiidcciao, c del seguente. — Di Glambaitisla Vico : sue lodi. ~ Epiio{:o d.-I
quadro. CAPITOLO SECONDO. Della dedinazione degli eludi specidatici, in ordine
al soggetto. lufeiiurilà speculaliia e rnoralo dei popoli modcToi, verso gli
antichi. — La no-a speciale dciruoQio moJeroo è Ir frivoUzza. — La cagione di
questo vizio è la debolezza della faiol.à volihva. — Inlluruza dtl voli re
nella cogoiziouv, e oelf ingegno delP uomo. — La modioiriià letteraria dui
moderni nasce dalle hggcrizza dei loto animi. — Esempi S 2»S * Digitized by
Googic es»e bi chiude il capitolo. . - Note. Aula prima. Siti diltflanti
tpleoJ Jì c Itiili, elle h fanno Ja m.eilri. 71 1 1 ptincipii dal Ufi 2^ 3. V
5. 6. T. 8. 9^ 10. 11. 12. 13. 11. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. Clw il
inftoilo El<w>fict> »i J>e di durre dai principi!, e non I metodo.
Il ig. Coiaio «.elude la «tiri» delle religioni da quella dtlU Bloiplia. Del
cullo reciproco de’ moderni Rfillofi ff.nceii. Di una iKioea Enciclopedia.
Sopr. OD* «poitigi. recefllo di Giorgio Djroa. 117 l'i. 1 lit 125 125 129 i6.
13t) 131 132 ii, i6. IM ii, Ai nemici delle wItiglieMf. Sullo lingua e luU'
eluguenia francese. Sul primato della Fraocia. L'.terodomia modarna non i fono
ancora al «uo fine. Della periiia di Paolo Luigi Cuarier nella lingua a negli
icrillori italiani, Paw dal Letiinj; mila lobrielA « ammauralega degli antichi
tceitlofi. Sull'uli-iU dei buoni giiirnali «ccletiailici. Pmm del Leibnu «olla
libertà cattolica dcKii «eritteri, Querela del tig. Cousin eoutro il clero
ffauceee. P«Mu del Leibnii contro i dùaipatori delle antiche dotUine. Sull'
apoilaiia lU alconi prelati ruwù Delle cagioni della H>rorma. Che la
tinceritA di Renato Denartei nel proretiani cattolico è per lo meno dubbia.- Il
Malebranche non è earleeiano intorno al primo principio dellalua filoaoCa. 143 Clia
il «ig. Coutin ha ao concetto mollo ineaatio dello Spinci.Mio. 144 Pawo del
Courier tuH'iitiulo aotTilo dei moderni. 1^ ^ ; iò 5, 163 rcceoli e
ìuliani di una Tolontà forte : Napoleooet e Vittorio Alfieri. — Lodi deli’
Al> fieli. — La fursa della volontà dipende in gran parte dall* educasioae.
^ Cbe co a sia r educatione. — Saa oeceuilA. — Delle varie forme, che prese 1’
educazione, tecoodo il ccM’to dei tempi e la varieii di'! popoli. — Po pubblica
presso gli antichi ; qoasi pub- bloa nei basti tempi. » OelP opera dei chierici
nell' iostitusione dei giovani. —> L’cdu* catione diveone pnvate, piesso i
moderni. —Cagioni di ciò: false teorirlie in politica e IO pedagogia, inglesi e
francesi. — Di G angiacomo Rousseau. — Errori del suo Emito. — Delle doUrìne poi
tieba snlla liberti dell' ednratione. — Falsili loro. L’e* ducaaioQ^ manca
quasi alTatto nello stato presente di Europa. » Difetti dei metodi vi* genti
dell* insegnare. L’ias«gnameoto pubblico dee < ssere uno, forte, e
dipendente dal* lo stalo. — Frivolezza dell' insegoamenlo cattedratico, quale
si usa oggidì nei paesi più civili. » Dei giornali. — Diretti, e danni dei
giornali, come per lo piò si scrìvono in Francia. *— Nuocono al'e lettere e al
e sciente dalia parte di chi scrive, e di chi leg* ge. — Necessità dell’
iniìtiiuzione pubblica, e di un supremo poto<e educativo. — Quella non
lìpugna ai costumi, oè questa alla libertà politica dei moderni. —> Che M»sa
sia r iagfgiiu spccuUtivu. — D<2 tla setta dei sofisti moderni, e deg'ì
artefici di parole. ^ Quàlìià loto. — Si chiamano a rtssrgoa le prìneipai diti
diU’ ingegno sfeeulativo, e con Digìtized by Google 23. 24. 25. 26.
27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. Pano d«l Leibnii tull’abbierion» morale JcrU onioi
moderni. Sulla patria di Napoleone. Pano dfl tig. Cuusin mila balta«lia di
Waterloo. Pel gioiliiio, che il tilt. Villeoiain ha recato mll' AlCeii. Sugli
errori della pueriiia. ^ Sull* uUbU di tre clasii di gioroali. Soll’aliBio Jei
generali. Lodi di alcuni illmiri eruditi fraaceii. Pano del Malebraoche augi’
iugegni friToli. In che modo il genio naiionale poeta imprimere la ma forma
nelle icieate «peculatiee. Sull' indola morale, e lugli ulUnii UUmli del
Goèlhc. Itt 143 . 149 1^ 152 132 138TAVOLA. E SOMMARIO Diuu.
Pag- SCDU bill' iCTOKI. Le lodi d'ililia nim
sana oggi pericolose per la sua modcslio. — Sano opportune, e perchè. —
Scopo del preienle dilcorsa. — L'aifluiui di CMO non t per ilcaa Ter»
iiigiiiriUD agli tlnnieri. — L* doUriiu del primalo itili IBO è
necetMtfai per rÙHltun- ziuie delle sci une flloMBclie neita
pcniioli. PASTE nanu. Dell' Hlonooiia uwlnUi e rdtlin
In genere. — Di qidia cbe con. peti (He uDoni in paiticoUrc — Lt isdice
dell' tiatononùi è neDi virtù creatrice, — L'Italia è anlmMina peraccdiema;
rau- lonomia i la boM della mi* nMggionma. — DeOnitionE del pri-
mato italiano in noiTerale,— La petùxria per It ina poitora è il centro
monte del nondo civile. — Convenienu geogniGehe dell' lUUa coir India e
colla HeMpoUmia. -^-La religione b flprtndpal / S)ndimeiito.del
primato italiano. — II principio calttdieo è Ime- panbile dal genio
narionile d'Italia. — Opinione dei ghibellini e del flloioll nominali a
questo propoaiUi, e aun falsiln. — Del Hachiavelli , del Sarpi e <li
Amalitii ih ìlmcm. — Ln xt» iIiiL- Irina naiionnle d'Italia i quella dei
rufIIì e dei realisti. — ì!,s\iii- cattolicismo e dall' Italia. —
L'Italia è la nniiuuc creatrice: Suo ing^DO inventivo, c sul) liuiilà
delle sue opere. - Essa c pure la naiione redentrice degli altri popoli,
e non puA essere redenta 440 T1V0L& E
SOnARIO per open loro. —I papi non (nrono !■ caoM della
divisione iT ita- lia, and lì mottnrono benemeriti In ogni tempo ddroniU
iu- liana ed enropea. — ObUeiionl e liipoile. — .Dei don nemici
perpetui dellt penisela. — Fati perpelui e glorie di Roma in ósni tempo.
— L'Italia non dee invidiare alle altre Milani la gran- dena e la potenia
disgiunte dalla gìnitliia. — Vino a qual segno i coiHiuisU e II dominio
temporale dell' antieo imperio romano ' sinno stati legitUini.— Gmdeiie
supcnliti della modema BÓma. — Della PMpapnda c ddle mitiioni. — Puagone
del SiTerlo e dd Boonaparte.— L^Iialia/itaempTB la più co9inopoK(Ìca
delle nanoni. — li auo principato si Tonda Mrratlutto nella religione,
j la quale di sua natura suvrasla a ogui cosa umnoa. — L' Italia tal '
in si lultc le cuii<ii£i<iiii ilei ^un nai limale c politica
risorgimento, \ sema ricorrere «Ilo somniossc iiilcsthie, alle imitaiioai
e inva- j sioni Farcsilere. — Dell' umane ÌUliaoa. — Essa non può
uUenersi colio rivoluiioiii, — [l principio dcU' unità il.iliani è il
Pajia; il quale jiiiii unilìenrc h penisola, mediante una
confeclemiinne ilc'suui principi, — Vanlnggi di una lega ilaliana. — Il
governo folemlivo è connalurale all' llalia, e il pili imturale ili lutti
i goterni. — Danni della centralità cccessita. — La sicoreiia e la
prosperità d'iLalia non sì possono conseguire altrimenti che con un'
alleaniB italica. — 1 lUrcslieri non possono impedire i]uett' alleanza, e
non che opporvisì , debbono deiideratlo. — Semi dell' autore se entra a
iliscorrcrc ili caie dì stato. — L'opinione nasce Ida pìccoli
principii , ma dee essere edncato dai senno della ni- liane, — Dna
province (oprattutlo debbom cooperare a ^TOfjr l'opim'aue Hi-iriiiatì"imieiiVTlnnii
« ti Piwnnnl>. _ ^Bìj^^ )jj \f Itoma pei popoli, e sua imparzialità
fra i pedali ed i prindpi. — I L'onilA italica sareblie di grande utilità
■iWti religione cattolica , . loro'genio. — Deli.i (]d.s;i ili S^ii.iia
e luili. — .l[lincnzc c cor- risponderne delle famiglie regnatrid tugl'
incrementi civili dei popoli. — itrfi^ nnn^^ ^pip rtr il Piemonte, n
delle sorti c he le Mno^reDiral|e ^\]f Ptnuy^fjm. — Delta concordia
fra T'popoli 0 i principi italiani. — D difetto di osa ta la cauta
TAVOLA E SOMMARIO principale del
c)iM:atlinicnla d' Italia. — Errore ili chi .illribuÌKe tal decadi nHMi
lo nib qualità della stirpe o alla religione. — ti'in- ■ forlunia ilcgl'
llaliaiii aiiehe pur quvsta parte iiarque dai fores- tieri. — Frincipii
di risurgiiiienlo nel secalo passala , e rili^nu cìtIIì (alte dai
ptiaeipi ooslrali. — Inlerratte dgfla rivolaiioiKi rranceM , ora è il
tempo opporUum di ripigiUrte. — Necessitai di ordinare la pubblici
opìaione. — Dne modi con cni quesla ai ap- I>alc9a ; lit parola dei
tmi e la alampa. — Della monarehia con- ■ullatiia, e del Consiglio
civile. — La Btarapa non dee essere MTva , iiv liceniiusa. — La sala via
per evitare amenduc gli ccccs^ , ilà neir affidarne l'iodlriuo a un caniiglio
censorio". — nella iniportwii* della iiuapa per la civUU. — UtlliU
della signoria indivlH p« riRmnata gli siali. — Si esortai» I
prineipi ilaliani a toDdare l'amona d' Italia.— Del dirello delle
rìibnne nriii lane a leniate in Italia , dorante il secolo scorso. —
Decli- ii.ii e siitcessiva del genio iiaiiunale della penisola. —
Iliscre- iiiiiiii: 111 uiieslo genio da quello dei Francesi. —
Critica del galli- canìsmo. — Di Benigna Bassuel : censura riverente
dell' ing^u e itelle opere di qncslo gran teologo. —1 II sacardoiia
primflivo eUw dna poteri, l'ODO reHgloM e l'alln drile. — Pormola
so- ciale : La («roonui* erta MÌl gli ordini civili, — U ncerdoiio
è il Primo politico. — Ciisto rinnovA a compimenlo il sacerdoiio
primigenio. — Necessità del potere civile nel sacerdoiio cria- liiino. —
( Lode dei Gesuiti del Paiaguai. — Il polerc civile della Chiesa non
toglie la dislùuione, che corre rra lo «lato civile e il lacerdoiio. —
Dea toma, par mi pam il poleniàTile dal Mce^ doxio, cioè la dillaliaa e
failiitralo, canispondenli ai due cfcU civili delle nazioni. —
Legittimiti della dittatura ejerdiala dai Poniclici del medio evo. — Il
ciclo dittatorio Gniscc quando c |jerioilo della dtilti'i lefulare
il'lulia <■ crKiirops, — Dell'arbì- tr.ilo, iraliiiso ilal sacerdoitn.
— Il l'.ipa c l'unico [iiiocip io dell' guerra. — La dittatura
pontiScale non lurna inulìle in alcun TAVOLA E
SOMMARIO Icinpo ; MU applicaiiane presenle e foUin. — 11
I^pa è U prin- cipio dell' anioDe d' lUlia. — Il polcn civile del Mnrdouo
non è contrario ali* ipirìlualiU e HnUU dclb rai indole e del suo
■nìtuslerìD. -I Del (HtiiHiiùnm. — Crilict de'snoi prÌDcipii in- tono tU*
cotUluiiom della Cb'ma e al dogma caUolico. — Dei doveri delle varie
ciani dei dUadini, in ordine all'aoioDe d'IU' lia, -/Danni cbe nascono
dalle dottrine esagerate di libertii. — Esortaiioneagli esuli ilalìaiii.
—- Del dcbilo che linririu gl'llnliani gli adalatoridei pririi'ipi.
— l>i^i wihili, -- M ji.il ri/Min i' i!i[licil- menle srilabilc nelle
soeiclà civili. — Due specie iJi palriilalo; fendala t civile. — U primo
è im^nevole, Oioesto e vitupe- ralo. — 0 secondo pnì euer lodevole e
ntik, quando venga ac- compagnalo da eerte condiuoni. — I cattivi nobili
tono la rovina delle nontrcbie. — Dei chierici secolari. — In che modo
essi pouano partecipare alle cose politiche. — I^i del chicrieala
Italiano. — Perch6 l' episcopato dì alcune province cattoliche sia stalo
Ulvolla per l'addielro men ragguardevole degli altri ordini derieali.
—(Del frati. — Apologia del m(MMchÌ«no. — Suoi benefiri rÌq)«llo alla
drilU etirqiei. — Quando traligna ai miri rìfonnare, non abolire. — Dd
moMchlinwwientalee delPocci- dcntale. — Como ijueila si poiH rendere
fmtluoio al nodro inri- vilimento. — Danni che nascono dai diìoiirì
degeneri. — In cbs modo irrati possano influire salutarmeate nella
politica ecotqM rare ai progresai civili. — Essi debbono mettere ndl'
opinione il precipuo fondamento della loro vHa. — D colto ddle iciauie
e dèlie lettere in generale, ma i^edalinenie della aiosoBa, ddia
po- litica e dell'istoria si addice al loro minislerìo. — La
scienia ideale i inoiiaslìca [ter ecccllcnia. — Esurlaiionc ai
venerandi alunni dei chiu;lru ilaliaiio. — Della digniu'i clericale. — Gli
ec- ctcsiaslici debbunu guardarsi cautamenle dall' impicciolire o
avvi- lire le co» della rclìgiuiic. — Si uLbiclla che Ì popoli
moderni sono men grandi degli antichi. — Risposta. — Ddla lollerann
cristiana. — Perche nei tempi addietro violala In alcuni paeii- — Tali
viotaiioDÌ non si possono imputare alla Cbieta cattolica. —
TAVOLA E tìOMMAniO Delk àoleeiia, |)ru(1enia e
risi:rva clericali: nel dtspularr a nei conversare. — Si rancluitc
moslrando che il risorgimento d'ilalia I non pai iver luogo , sa non ri
rimetlono in onora gl'ingegni pri- I vileglati, e non «i soUrae rindiiiuo
delle cose ri TOlgo degli j nomini oiediocrì. nn HL
TONO PIIMO. S&SlOSS La riflessione ontologica
ferma, circoscrive, determina , chia- rifica l’Idea, cioè Dio: ma nella parola
si rannicchia, s'incarna, si compie l’ Idea : la parola porge l’idea cosi
rannicchiata ed incorni- ciata ed incarnata e compiuta alla riflessione. Qui
covano , pare , molte contraddizioni. Se la riflessione, che chiarifica e ferma
l'Idea; qual bisogno ch’essa Idea si rannicchi c si restringa nella parola?
qual bisogno che la parola compia l’Idea, se la riflessione arreca distinzione,
chiarezza, delineazione nella medesima? Se quel che fa la parola, fa la
riflessione altresì, una delle due è superflua: am- metter l’una c l'altra, è
metter luna in contraddizione dell’altra : supporre cioè che l’una non basti,
senza l'altra, a ciò a che basta veramente. Mavia: prendiamol’una e l’altra
perdelerminalricidel- l'Idea, cioè di Dio. 11 Gioberti diceva che nell'intuito
l’uomo è as- sorbito dall’Idea, non la conosce neppure. Siccome dall'altra
parte diceva eziandio, che « lo spirito trova se stesso in Dio e il mon- do in
se medesimo »; ne viene che anche la riflessione è in Dio as- sorbita collo
spirito : che il mondo lo è pure: e col mondo la pa- rola, parte di esso. In
cotale assorbimento dell'uomo, della rifles- sione, della parola ; assorbimento
che toglie ogni cognizione , non è assurdo c contraddittorio il dire che la
riflessione e la parola , o tulle due insieme, servano a svegliare lo spirito
assopito , esse assopite; servano a chiarire e determinare, esse confuse e
indeter- minate nella universale confusione ed indeterminazione del Ciclo e
della terra, del Creatore c delle creature ? n) Inlrod. li. p. 136-137. b) lìti
pillilo rhe li'ga. e) Errori l. p. 201. Digitized by Google ) 55
Cosa sarebbe l'intuito Gioberliano ? a) la visione -di I)io crean- te; cioè
della natura divina, dell’atto creativo, de’ termini di code- sto atto. Cos'è
la parola? un segno creato b). L’intuito dunque do- vrebbe pure vedere la
parola: la parola sarebbe parte della formu- la, intuita per natura da tutti
gli uomini; chi* l'Ente creante non può essere veduto senza gli effetti del suo
operare. Ma se nell’og- getto dell’intuito è la parola, è la riflessione
altresì, come cosa creata anch’essa; se l’Idea col creare illustra c), e quindi
deter- mina; illustra la parola altresì e la riflessione. Ecco nuova contrad-
dizione e circolo nel dire che la riflessione e la parola servono a delincare
all’intuito ciò ch’egli ha ad oggetto delincalo dalla natu- ra: illustrare ciò
onde vengono esse illustrate. La quale contraddizione o circolo risulta da
molte altre sen- tenze del Giebcrli applicabili al proposito presente. Sentenza
sua è. di frequente, che i sensibili sono per sè inconoscibili; e solo per
l’intelligibile, cioè per l’Idea, siano conosciuti. « L’apprensione sen- si
sitiva non è un elemento intellettivo » </). 11 sensibile non può « essere
pensalo altrimenti, che nell’intelligibile » r) « L’intelli- « gibile rischiara
appunto i sensibili, perché li produce, come l’En- « te e i sensibili sono
illustrali dall' Intelligibile, perché ne deri- « vano, come esistenze » Avca
detto prima « l’Eute è altresì « l’Intelligibile, c le esistenze sono i
sensibili ». Le creature so- no per sè inintelligibili, nè s’intendono che « in
virtù dcU’intcl- g Errori i. p. 56. h) Errori li. p. 141. v) Ivi p. 163. l) Ivi
p. 159-160. m) lntrod. ii. p. 14. n) Errori n. p. 45. un vero sensibile >.
Errori i. p. 257. g) « Il sensibile è subbiedivo è inconosci- f). « ligibililà
assoluta » n bile di sua natura » A): « è per se stesso inconoscibile e sub- ii
bieltivo, non intellettuale, nè obbiettivo,. è rispetto alla nostra co- se
gnizione un pretto nulla » i). « L'intelligibile (l’Idea, l’Ente) ii inonda lo
spirito di un continuo chiarore, e gli rende conosci- li bili tutte le cose »
l). Ora « La parola come ogni segno, è un , <i sensibile » m). Dunque per sé
inconoscibile-, inintelligibile. Solo l’Idea, l’Intelligibile la rischiara, la
illustra, la Ja intelligibile all’uomo. « Tanto è lungi, che la parola provi
l'Idea razionale, che anzi que- ll sta dimostra l'autorità di quella. » n). «
Questa (la parola) e la a) Dico sarebbe, perché il Gioberti stesso Io distrugge
in mille maniere, come vedemmo, e vediamo rontimitinenle. t) Siccome it
sensibile appartiene alla categoria delle esistenze, e queste pro- cedono
dall'atto creativo, la parola b di tua natura un effetto della c reazione.
L’idea -« crea «I segno che l’esprime . Primato, il. p. 15. e) Errori li. p.
352-353. ri) lntrod. n. p, 165. e) Ivi p. 166. f) Ivi p. 562. Qui de» esserci
corso errore di stampa, o nella sostituzione deila voce Iati ad esistenti; o
nella punteggiatura. Perche l'Eulc non deriva dall'Intelligi- bile come
esistenza. Dovrà leggersi, crrdo, il periodo: « I.’ Intelligibile rischiara ap-
« punto i sensibili, perché li produce, come l’Ènte; e i sensibili ccc. »
Digitized by Google 56 « riflessione stessa ripugnano, se non sono
antivenute o guidate da « un lume intellettivo, da cui, (e non dalla parola che
per se stcs- « sa 6 un mero sensibile) l’evidenza e la certezza provengono »
a). Come pertanto può dirsi che la parola « si richiede per ripensare « l’Idea
»; che « il sensibile è necessario per poter riflettere, e « conoscere
distintamente l'intelligibile »? b). Una cosa inconosci- bile per sé, non
conoscibile che per l’Idea; come potrà servire ad illustrare, a chinrirc
l’Idea, da cui riceve lutto il chiarore che pos- siede? L'idea illumina la parola;
la parola illumina l’Idea? Non v’ha circolo qui c contraddizione? Che se amiamo
trarne Inora qualciin'aitra, il modo non man- ca. Il Gioberti scrive talora,
che « l’idea, incarnandosi in una for- * ma sensata, scade sempre dalla propria
altezza » c). L’idea dun- que, se s'incarnasse nella parola, veramente
scadrebbe secondo quel testo; perderebbe di sua perfezione. Come può stare
pertanto che la parola, determini, illustri l'Idea, la compia, cioè la
perfezioni? come può stare che l’Idea per compiersi c perfezionarsi s'incarni
in un sensibile, che la guasta e la rende imperfetta ? La parola ch’è detta in
un luogo dal Gioberti « un sensibile in « cui s'incarna Vintelligihile »;
diventa in un altro « una copia mon- « diale, contingente e linita del modello
divino, necessario e infi- « nilo, c un individuamenlo dell’idea eterna » d).
Siccome questo modello c idea eterna è l'Intelligibile stesso, Dio; quindi la
parola è una copia, un individuamenlo di Dio nel quale s’incarna Dio. E notate,
che « tante sorti di parole create si trovano, quante sono « le specie della
esistenza »; una parola matematica meccanica ed idraulica, che sono i numeri ,
le figure, i movimenti; una parola fisica, cioè i fenomeni di natura; una
parola estetica c sono i ti- pi fantastici; una parola storica, c sono i fatti
transitori o perma- nenti degli uomini, gli eventi ed i monumenti; una parola
sovran- naturale, e sono gli avvenimenti ffrodigiosi e sensibili; una parola
liturgica « ordita di emblemi e simboli; c infine una parola grani- li
malicale, parlata c scritta, ma per se stessa arbitraria , c però « diversa
dalle specie anteriori, che sono tutte naturali e) la (piale « serve ad
esprimere i concetti dell’animo e quindi a tradurre ogni « altro genere di
favella » /). Di tutte pertanto le cose create dee dirsi ciò che della parola
grammaticale: sono sensibili in cui s'in- carna Iddio; sono altrettanti
individuamenti di lui; che lo compio- no, lo determinano, lo fermano, lo
circoscrivono, lo illustrano: quan- tunque siffatta incarnazione lo umilii
veramente , sconci. a) Errori i. p. 208. b) Inlvofl. u. ii. li. e) Ges. Moti,
tv: p. li. d) Prima!-» li. p. 10. e) Anche la parola sovrtwnnfurtile ? fi Ivi.
lo abbassi , lo r Digitized by Google 57 Nasce però curiosità di
sapere, perchè mai nella parola s’in» carni l'Intelligibile; ina nou « in
quanto rispleude aU’intuilo ><: *ib- bene « in quanto riverbera (cioè
ridette) sulla riflessione » in quel punto famoso di contatto che lega Dio
coll’uomo ? La riflessione, si è detto, che mediante la parola circoscriveva ,
compiva l’idea o) ; quindi la parola preceder dovrebbe la riflessione. Ma se la
parola contiene l’Idea in quanto riflette mila riflessione dell'uomo ; la ri-
flessione sarà preceduta alla parola: così la riflessione va innanzi alla
parola; e la parola va innauzi alla riflessione nella stesso tem- po. Eccoci di
nuovo ucU’uno via uno. Se la dottrina della riflessione determinatrice e
illustratrice deU'iuluito fosse vera, dovrebbe dirsi che la riflessione guida
per mano l'intuito, lo signoreggia. Or bene di ciò fa le risa il Gio- berti
contro i psicologisti: « lo aveva credulo finora che la cecità « sia la causa
principale per cui non si scorgouo gli oggetti: ora « siccome l'intuito, non
che esser cieco, è la fonte della risiane, e v la riflessione non cede, se non
in quanto partecipa alla luce intui- « tira, dovremmo dire, alla stregua dei
psicologisti, che tocca al « cieco il guidar per mano, non mica gli altri
ciechi, (il che sa- « rebbe già degno di considerazione), ma chi 6 veggente in
mo- ie do perfetto; cosa per vero singolarissima ». h) Bene slà. Ma quel- li
l’Ontologo, che pone per una parte l'intuito del Sole stesso Eter- no Divino; e
immagina dall’altra una riflessione e un inondo di pa- role che sono necessarie
a determinare, fermare, ed illustrare il so- le, da che sono esse creale ed
illustrate; quegli è che s'introniBtte di far guidare i veggenti
perfettissimamcnle da’ ciechi; che si pensa di accendere il sole di mezzogiorno
colle tenebre della mezzanotte. 11 Gioberti consuona al Rosmini nel riconoscere
la necessità della parola per la riflessione. Differisce però dal medesimo nel-
l’asscgnarne la ragione : per dir meglio: il Rosmini ne dà ragione,
('impossibilità di spiegar altrimenti la formazione delle idee astrai- le: il Gioberti
non ne porge nessuna, c). Imperocché non sembra- mi prova quel dire che « il
punto indivisibile , di cui abbiamo « discorso di sopra, » (il punto che lega
Dio e l’uomo combacian- tisi), « non può esser termine del ripiegamento
riflessivo, se non ve- « stendo una forma sensibile. E siccome non è sensibile
per se stes- ti so, siccome versa in una mera relazione intelligibile, l’unico
mo- ti ilo, con cui possa rendersi sensato, consiste nell'incorporazione «
mentale d) di un segno, cioè della parola » e). Ma perchè quel o) I.a rbiama
perciò . un semplice insinimentn necessario per mettere la ri- flessione in
commercio colf intuito »; Errori i. p. 200, « Strumento riflessilo * p. 215. «
Semplice segno insidine male » p. 2t9. » stimolo per mi rumineia «I al- «
luorsi (l'iiniiiio umano), e il polline ette lo feconda »; Primato, II. p. 15:
« occs- • sione, cagione, inslrnnirntale del lero ». Necessità della parola.
Bello p. 137. 6) Introd. il. p. 134. e) Rosmini, S. Saggio, sezione V. p. 2. e.
4. a. I. Filo». Polii. Voi. p. 151-153. d) Incorporazione spirituale. c) Errori
i. p. 201. Digitized by Google 58 punto, rhY' puro relaziono
intelligibile, ohe anzi è la cagnizinne, ro- llio vedemmo , perché « non può
esser termine del ripiegamento « riflessivo, se non vestendo una forma
sensibile, se non renden- ti dosi sensato, se non incorporandosi in un segno »?
Il Gioberti noi dice. Altri osserverà nondimeno che non solo noi dice ma nem-
meno può dirlo nel suo sistema: che perciò é impossibile al Gio- berti di provare
la necessità della parola. Egli afferma, che « l’uo- « ino nou può meglio nel
suo stalo attuale riflettere senza parola, « che favellar senza lingua, vedere
senz’occhi, c pensare senza cor- « vello. Senza il linguaggio l'uomo ha
ragione; ma non uso di ra- ti gione, ha la riflessione in potenza, non in atto
» a). Il che dice essere « applicazione speciale ili una legge generale dello
spirito. La qual legge si è, che la riflessione universalmente non si può cser-
« citare, se non mediante il concorso del sensibile coirintelligibile » l). Ora
di quale dell»* due riflessioni, già distinte da lui, parla il no- stro autore?
Dell’ontologica: perchè dell’altra confessa che « il sen- sibile è l’oggetto
medesimo dell'alto riflesso, onde la parola non en- ti Ira necessariamente nel
suo esercizio, se non in quanto tal ri- ti flessione si connette colla
riflessione ontologica; imperocché il sen- " sibilo per essere pensato non
ha d’uopo di un altro sensibile, che « lo vesta e lo rappresenti » c). lo nè
ammetto nè ripudio tale ra- gione: ma l'ammette il Gioberti certamente. Dunque
a sola la ri- flessione ontologica è la parola necessaria. Perché? perchè « in
os- ti sa il sensibile non è somministrato daH'oggello dell’operazione « il
quale è il stdo intelligibile i d). Sla codesto e falso: è falso che oggetto
dell’ ontologica riflessione sia il solo intelligibile, se- condo il Gioberti.
Non ci ha egli appreso che « la riflessione on- « tologica, tramezzando fra le
due altre operazioni (intuito e rides- ti sione psicologica), abbraccia
congiuntamente il soggetto e l 'oggetto « c li contempla con un allo unico? »
c); che nella riflessione Oli- ti tologica lo spirito si ripiega sovra di sé in
quel punto indivisi- « bile, in cui il soggetto tocca l’oggetto , c abbraccia
quindi l’og- « getto medesimo , come intuito dal soggetto? » f). Dunque non è
l'intelligibile solo, l’oggetto della riflessione ontologica; ma è il soggetto
eziandio, cioè il sensibile, oggetto della psicologica. Ma se questo non ha ili
bisogno di sensibile, di parola, per essere ripen- salo; se non n'ha bisogno l’
intelligibile, Dio, intelligibile per se stes- so: come n'avrà bisogno il punto
in che si congiungono si legano si toccano si combaciano Dio e l’uomo ? l’nione
di due termini, l’uno intelligibile per sé, l’altro per l'intelligibile, unione
di' è relazione intelligibile', perchè avrà d'uopo di sensibili, di segni, ad
esser og- getto di riflessione ? n’ Krrnri i. p. '20 fi. JThi|I. 201). r\ hi p.
ini. di Iti. e Krrori t. p. 136, [) Iti p. 201. ,. Digitized by
Google 59 Che se « prima di credere alla parola, bisogna intenderla
» a); la parola a nulla servirà se non in quanto sia già in quel punto, unione,
unità, eh e la cognizione. £ se altronde la cognizione dovrà esser vestila
della parola , per diventar riflessione ; la veste dovrà insieme essere il
vestito, perché riflessione si ottenga, cioè cogni- zione vera , come la chiama
il Gioberti. Questa è una di quelle « soluzioni ed avvertenze » di cui non v’
ha « il menomo vesti- li gio » in altri sistemi prima del Giobcrliano li). Il
che niuno vorrà negareDella unicertalilà ecientifica dellafarmolu ideale.
Aimcoio punto. Prtamiolo. — L* formolo roiionale dee contenere I* organismo
degli eie- menti ideali.—Per conoscere questa organizzazione, bisogna riscontrare
essa forinola 1 coll albero enciclopedico.^-L’enciclopedia si compone di tre
parti , filosofia, fisica e matematica, cko corrispondono alle tre membra della
iormola.—Della filosofia in ispe- cicr si stende per tutta la formolo.—Dell*
ontologia, psicologia , logica, etica e ma- tematica ; come si connettano coi
rari termini di quella. — Tavola rappresentativa deiralbero enciclopedico,
conforme alC organismo ideale.—Spiegazione generica del- la tavola. —Dello
scienza ideale. —Della teologia rivelata e della filosofia.—Princi- pato
universale della prima.—Maggioranza della seconda sulle altre scienze. —
Primato dell'ontologia fra le varie discipline filosofiche ; necessario, acciò
queste siano in fio- re. —Della teologia universale. . 7 Digitized by Google
Articolo secondo. Delia matematica. — La matematica tiene un lnogo
mezzano tra la fi- losofìa e |a fìsica —Insufficienza della filosofia moderna,
per dare una teorica soddi- sfacente del tempo c dello spazio. — Dichiarazione
di queste due idee, c dell* oggetto loro, mediante la forinola ideale. 14
Articolo terzo. Della logica e (Iella morale. —Queste due scienze hanno ciò di
comu- ne, che appartengono al termine medio della formolo. —Della logica in
particolare, c delle varie sue parti — Dell* etica in ispccicr. — Dei due cicli
creativi, e dei loro riscontri. — Convenienze, che corrono fra loro. — Della
legge morale. — Dell* impe- rativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre
momenti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal fisico, che ne conseguita.
—Della pena eterna. 17 Articolo quarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo
membro della formolo. — Dei duo cicli generativi. —- Varie sintesi, di Cui si
compongono. — Dell' ordine dell* universo. — Del concetto teleologico. — L*
idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 26 Articolo quinto.
DelCestetica. —Del sublime e del bello, t-Delle varie loro specie, e del modo
in cui si connettono colla formolo. —Del inaraviglioso. 29 Articolo sesto.
Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesia- no. —
Quindi i suoi tizi. — Gli stateti odierni, non hanno veri principii, perché
man- cano della cognizione ideale. — 1 difetti della teorica hanno luogo del
pari nella pratica. —La civiltà moderna dee fondarsi su quella dei bassi tempi.
—Dell* apof- tegma del Machiavelli, che le instituzioni si debbono filirare
veto i loro principii. —In che senso sia vero..—Benefici influssi del Papato
nella civiltà delle nazioni.— Di Cesare, institufore della tirannide imperiale.
— Connessila della licenza colle dottrine di Lutero e del Descartes. — Della
idealità delle nazioni. — L* Idea é fonte del diritto. —Attinenze del dovere
col diritto, c delle varie specie loro. —Della sovranità. — La sovranità
assoluta è 1* Idea. — Della sovranità relativa c ministeriale. — Non si trova
in separato nel governo o nel popolo. —La società non è d’ instituzione umana,
ma divina. —Cosi anche il potere sovrano. —Due doti essenziali di questo potere
, intorno al modo, con cui si tramanda e perpetua di generazione in generazione.
— For- inola della politica. —Assurdità del suffragio universale. —La capacità
dee,accompa- gnare il potere sovrano; ma non basta a costituirlo. — Il potere
sovrano dee essere indi- pendente dai sudditi. —La perfezione della sovranità
consisto nell* unioqe del potere tradizionale colla sufficienza elettiva. — Il
sovrano non può mai farsi da sé in nessun ca- so. — Ogni potere sovrano è
divino. — Inviolabilità del potere sovrano. — Delle rivolu- zioni, e dello
con’rarivoluzioni: che cosa si debba intendere sotto questi nomi. —Laverà
rivoluzione, essendo 1* attentato contro una sovranità legittima, è sempre,
illecita. — Lo stato politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini
primitivi c anticati. —La mo- narchia é necessaria al di d* oggi alla libortà
europea. — L' investitura della sovranità in una famiglia é inviolabile, corno
il dominio privato. — Il potere ereditario, c la capacità elettiva importano
del pari alla civiltà dei popoli. — Conformità della nostra sentenza colla
dottrina cattolica intorno all* inviolabilità del potere sovrano. —1 fautori
del- la licenza invertono la formula politica. 31 Asticolo settimo. Epilogo.
—L* idea divina ó la suprema forinola enciclopedica'. — Universalità dell’ idea
divina. — L* ontologismo non é un metodo ipotetico, corno quello dei
psicologisti. — Iddio è 1* Intelligibile: é 1* alfa e 1* omega della scienza.
—Si termina, riandando il primato dell’ idea divina nelle varie parti della
filosofìa. Si Digitized by Google CAPITOLO SESTO. Dtll'a conservazione
dellaforinola ideale. La conservazione della forinola è opera della
rivelazione. — Definizione di questa. — Suoi diversi periodi. — La confusione
della filosofia colla religione nocquc in ogni tempo ab- la scienza ideale.
—Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi —Del razionali- amo teologico
fiorente al di d’oggi. — Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La cri- tica
storica dei ra/ionalisti pecca per difetto di canonica. —Il razionalismo
confondo insieme i rari ordini di fatti e di veri. — Sua vecchiezza. — Dei
Doceti. — Il raziona- lismo è un vero naturalismo, i— Del sovrannaturale : sua
definizione. — Necessità di esso, per l’ integrità dell’ Idea. — Possibilità e
convenienza morale del miracolo. — Universalità dell’ ordino sovrannaturale. —
L’Idea cristiana è universale, come l'Idea della ragione. — Nullità sintetica o
filosofica dei moderni razionalisti. — Il Cristianesi- mo é la religione
universale. — Non si può mettere in ischicra cogli altri culti. — Sua
singolarità. —Le false religioni non distruggono l’ universalità del
Cristianesimo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di ogni tempo. -—Si
confuta una sentenza del- lo Strausse. — Le false religioni sono lo sole, che
debbano temere dei progressi civili. — Il Cristianesimo sovrasta, e non
Sottostà alla coltura più squisita. — La civiltà moder- na, che lo combatte, è
una barbarie attillata Delle prove interne della .rivelazione. — Sua
medesimezza coll’ Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. —
La divinità della Bibbia risulta dalla perfezione dell' Idea, chfe vi è
rappresentata. — O- scurità della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile
semplicità, e sua differenza dai la- vori sincrctici dell' ingegno umano. —
Concorso c predominio delle prove esterne od interne della rivelazione, secondo
le varie ragioni. — Della inspirazione dei libri sacri. — Sua definizione,
natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni dei razionali- sti. — L’
ermeneutica di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela-
zione. — Della predestinazione degl’ individuile dei popoli. — Eccellenza delle
nazioni e delle lingue semitiche. Dei popoli giapctici : loro divario dai
Semiti. — Delle na- zioni madri. — Degl’Israeliti; conservatori dell’Idea
perfetta, prima di Cristo. — Dei fati -del popolo ebreo. — Della scienza
acroamatica ed essoterica. — Fondamento natu- rale, o universalità di questa
distinzione. — Della ordinazione civile e religiosa degl' Israe- liti. — Oltre
la dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica c tra-
dizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa 'distinzione presso il popolo
eletto. — Il Cristianesimo rese essoterica la scienza acroamatica degl'
Israeliti. — L’alternativa dcl- racroaraatismo c dclf essoterismo èia sola
variazione, che si trovi nella storia dell' Idea rivelata. — Perchè Mosé non
abbia insegnata espressamente i’ immortalità degli animi umani. — Gli Ebrei non
tolsero dagli stranieri la loro angelologia e il dogma della ri- surrezione. —
Del sensismo proprio dei razionalisti.’— Falsità del loro metodo nel cer- care
1’ origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina
esso- terica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl'
Israeliti c i Gentili. — Del fìguralismo ebraico. — Non è un trovato recente
degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle
iustituzioni mosaichc. — La furinola idea- le e il telegramma , erano il nesso
della scienza acroamatica ed essoterica presso gl* Israeliti. Gl • 203
Digitized by Google CAPITOLO SETTIMO. Dell' alterazione dellaformolo
ideale. La barbarie non fu lo stato primitivo dogli uomini.*—La storia delle
religioni tion comincia dal sensismo, — Per quali cagioni diminuisse, o si
spegnesse presso molti popoli la cultura primitiva. —Vicende civili delle
nazioni. —Del patriarcato. —- Dello stato castale : sua origine. — Del
predominio dei sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società
costituite sotto 1’ imperio ieratico. —'I sacerdoti autori principali della
civiltà risorgente. —Effetti salutari della loro influenza nelle colonie
antiche e moderne. —Il sacerdozio conservò le reliquie dell’ antica dottrina
acroamatica ; fondò 1* essoterica. — In che modo la mitologia .é la simbolica
potessero esser- opera della moltitudine. — La riforma ieratica dell’
acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari indirizzi della fi- losofìa
gentilesca.—Riscontri . dell’antico c del nuovo paganesimo. —Vari gradi, per
cui passò l' alterazione della forinola ideale', oscurità, confusione, dimezzamento
e disorga- nazione.— Cagioni dell’ alteramente : predominio del senso e della
fantasia; influenza del linguaggio sull’idea, e dell’ essoterismo sull’
acroamatismo ; dispersione dei popoli, perdita dell’unità universale. — Del
culto dei fetissi. Di un doppio moto contrario, re- gressivo e progressivo,
delle instituzioni religiose.—Esempi.—Quattro epoche della co- gnizione ideale:
intuitiva, immaginativa, sensitiva e oslrattiva.-»-Se nel vario e succes- sivo
alterarsi della forinola, si mantengano i suoi tre membri, e come? Tavola delle
trasformazioniontologichedellafòrmolaideale, corrispondentiaivaristatipsicolo-
gici dello spirito umano. —Dichiarazione della tavola. —Dell’ epoca intuitiva;
corno 1' uomo ne sia scaduto. —Il mal morale consisto nella negazione del
secondo ciclo crea- tivo.— Dei mezzi sovrannaturali per conservare lo stato
intuitivo. —L'essoterismo fu l’oc- casione della perdita di esso. — Dell’ epoca
immaginativa. — Del naturalismo fanta- stico c dell’ cinanatismo propri di
questa epoca. — Indole poco scientifica dell’ ema- natismo. — Sua forinola. —w
Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli
cmanatisti. — Della loro dualità primordiale, e delle dualità successive. —
Dell’ androginismo , e delle dee madri ; loro connessione coll’ emanati- smo. I
fautori di questo sistema confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del
Kincrctisino emanatistico. — Dei due cicli di tal dottrina: 1’ emanazione. *—
Del ciclo remanativo: sua natura. —Corrompe la morale, c introduce il
pessimismo. —Delle varie età cosmiche, secondo i miti di molti popoli Gentili.
— come 1’ ottimismo c il pessimismo si accozzino insieme nel sistema degli
em&ftatisti. —Degli aratori, della teofanie o logofanie permanenti e
successive, e delle apoteosi. —Come il sovrintelli- gibile si trovi alterato
fra queste favole. —Del politeismo; nato dall’ emanatismo. Sua indole, e sue
varie forine. —Tutti i popoli politeisti conservano una reminiscen- za della
unità ideale. — Dell’ idolatria : sua natura. — Del panteismo: ò una riforma
ieratica dell’ emanatismo. —Il panteismo scientifico non potè essere il primo
sistema nella via dell’ errore. — 1/ emanatismo e il panteismo sono
sostanzialmente una mede- sima dottrina, l’uno sotto una forma fantastica e poetica,
l’altro sotto una forma scientifica. —Proprietà speciali del panteismo.
—Universalità del panteismo nel re* gnu dell’ errore. —Tutti i falsi sistemi vi
si riferiscono. —Qual sorta di progresso possa avero Terrore. —Varie forme del
panteismo* —Della condizione del sacerdozio i —— 201 Digitized by
Google dopo la rovina dello stato castale. —Dei Misteri, da cui
uscì la filosofia laicale.— Dell’ateismo. —Questo sistema non potò essere
anteriore al secondo periodo della fi- losofia secolaresca. —Si rigetta l!
opinione di un ateismo indico antichissimo —Del sovrintelligibile. —Serbato in
parte dai sacerdoti, o perduto affatto da' laici filosofan- ti, salvoclié dalle
tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia e della Grecia. —Dei tentati- vi
antichi c moderni, per riedificare umanamente il sovrintelligibile. —Si
conchiude, accomando brevemente il tenia del secondo libro NOTE. IQS Nota
prima. Sulle denominazioni moderne dell* Io e del Me. 159 , 160 16.1 164
I6l> & Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti
umani. 166 Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. IL IL ÌL L IL
Del tempo e dello spazio, secondo il processo ontologico. Passi del Leibniz e
del Malebranche sul tempo e sullo spazio. Della importanza, che la religione dà
alla vita temporale. Degli attributi divini ontologicamente considerati. 7j IL
£. liL LL 14. 15. Ifii 12. 18. liL 11L 2Qi 2 1 . 22. 23. 24. 25. 26. 22. 21L
Influenza della colpa primitiva in tutte le parti del pensiero e dell'aziono
umana. 172. Dei vari sistemi sulla natura delle esistenze. IL Sull*infinità del
mondo. 173 Sugli assiomi di finalità o di causalità. 174 Se l'abolizione della
schiavitù e del servaggio si debba attribuire al Cristia- nesimo? Sull’origine
della sovranità in alcuni casi particolari. Dell'orgoglio civile. Sui diversi
modi, con cui si può dimostrare l’esistenza di Dio. L'idea di Dio non è
solamente negativa. I7(i 112 178 179 IL 180 18J bit. Sulla voce rivelazione. Di
varie spezie del razionalismo teologico. Dei miracoli posteriori allo stabilimento
del Cristianesimo. Passo del Malebranche sull’idealità del Cristianesimo. Passo
del Leibniz sulla rivelazione. . Sulla credenza antichissima dei Samaritani
nella risurrezione dei morti. Si esamina la dottrina filosofica dello
Schleiermacher c dello Strausse sull’ esi- stenza degli angeli. I razionalisti
confondono la dottrina acroamatica colla essoterica. Sul fatto di Babele. . Del
sincretismo dei falsi culli, doma, mito e simbolo zendico, ISci culti barbari
l’ Idea è esclusa dalla religione, c non dalla scienza umana. 19^ Gioberti.
Iniroduz. Voi. III. ‘Hi * « IL 1112 IL IL * 182 184- Jb. 18J Digitized by
Google 206 29. 30. 31. 32. 33. 1/antropomorfismo e il psicologismo
essoterico. 194 Del panteismo di Ulrico Zuinglio. 195 Passi dello Spinoza conformi
alle dottrine del razionalismo teologico. 19ti Sul psicologismo degli eretici.
Ib. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col psicologismo e col
fa- talismo.DELLA DECLIAAZIOSE DAGLI SITUI SPECl'LATIV I, I* OHUISE ALL'
UGGETTO. Della Idea. — È primitiva, indimostrabile, evidente, e certa per sé
stessa. — Necessità della parola . per determinare c ripensare l'Idea. — 1
progressi della cognizione ideale rispondono alla per- fezione dello strumento,
con cui si lavora, cioè della parola. — Il linguaggio fu inventato dall' Idea,
clic parlò sè stessa. — 1/ evi- denza c la certezza riflessiva abbisognano
della parola. — Il sen- sibile è necessario per poter ripensare
l’intelligibile. — L'Idea è l’unità organica, la forza motrice, e la legge governatriec
del genere umano. — L'Idea è l’anima delle anime, l'anima della società
universale. — Ella può oscurarsi, ma non ispegnersi affatto. — Del suo primo
oscuramento, e degli effetti, clic ne seguirono. — Perdita dell’ unità ideale ,
c morte morale del genere umano. — Diversità delle stirpi. — Dell’
instaurazione sovrannaturale dell’ unità primitiva. — Del genere umano secondo
l'elezione, sostituito al genere umano, secondo la natura. — La Chiesa è la
riordinazionc elettiva c successiva del genere umano. — Vicende storiche della
Chiesa. — Colla perdita dell’ unità ideale venne meno al genere umano la sua
infallibilità,chepassònellaChiesa.—Quandoil genereumano riacquisterà questo
privilegio. — Chi è fuori della Chiesa, è fuori del genere umano. — Composizione
organica della Chiesa. — La , Digitized by Google 474 TAVOLA E
SOMMARIO. Chiesa c conservatrice e propagalrice dell’ Idea : unisce il prin-
cipio della quiete a quello del molo. — Delle forinole definitive della Chiesa.
— Della scienza ideale, razionale e rivelata. — Attinenze reciproche di queste
due parti. — La scienza razio- nale, o sia la filosofia, si distingue in due
grandi epoche, ciascuna delle quali corrisponde a una rivelazione. — Il nesso
fra la rivelazione e la filosofia è la tradizione. — I.’ alteramente della
tradizione, e quindi della verità, fu nella sua origine una confusione delle
lingue. — L* effetto di questa confusione fu il gentilesimo. — L’organizzazione
ecclesiastica è la sola via, con cui si possa conservare intatta la tradizione.
— Della Chiesa giudaica, c della sua diversità dalla cristiana. — La filosofia
gentilesca avea colla rivelazione primitiva una relazione diversa da quella,
che corre tra la filosofia cristiana c la rivelazione evan- gelica. — Due
tradizioni, religiosa c scientifica. — Due classi di sistemi filosofici; gli
uni tradizionali e ortodossi; gli altri anli- tradizionali ed eterodossi. — I
primi suddividonsi in progressivi, cregressivi.—Qualitàprincipali,percuii
sistemieterodossisi distinguono dagli ortodossi. — La filosofia ortodossa è
perpetua. — Vari modi, con cui i sistemi eterodossi possono rompere il filo
della tradizione. —Tre.età della filosofia cristiana. —Dell’età
moderna.—Delpsicologismo: definizionediesso,edell'onto- logismo, che gli è
contrario. — Il psicologismo è l'eterodos- sia moderna delle scienze
filosofiche. — Renato Descartes è il suo fondatore ; gran matematico ,
meschinissimo filosofo. — Paralogismi puerili del suo metodo. — Presunzione
intollerabile del suo assunto e delle sue promesse. — Cagioni, per cui il Car-
tesianismo invalse, ed ebbe una certa voga. — Due dottrine c due letterature in
cospetto P una dell’altra, tra il secolo decimoquiuto c il sedicesimo. — Abusi
e disordini, che allora regnavano. — Necessità di una riforma’ cattolica. — Tre
riforme eterodosse ; due religiose, la terza filosofica. — Il tedesco Lutero, e
l'italiano ocino, autori delle due prime; il francese Descartes, della terza. —
Vizi della Scolastica, che prepararono gli errori più moderni. — Analogia del
metodo protestante col metodo cartesiano. — Il Descartes non liberò la
filosofìa, come oggi si crede, ma la ridusse Digitized by Google TAVOLA E
SOMMARIO. WS in scrvilu. —Contraddizioni ridicole della sua dottrina. —Il
Descartes non somiglia a Socrate pel metodo, ne a Platone per la
teoricadelleideeinnate.—Vizidelpronunziatocartesiano: io pento, dunque tono. —
Il sensismo nc è la conseguenza. — Assur- dità del sensismo. — Il predominio
del sensismo ha impicciolita — la filosofia moderna. — Danni recati da esso agli
studi storici. — La religione è la chiave della storia. — La filosofia nata dal
('.ar- tesianismo si divide in cinque scuole. — Del razionalismo psico- logico
diverso dall’ ontologico. — Due classi di filosofi francesi. — Di alcuni
eclettici francesi in particolare. — Si annoverano i diversi vizi e
inconvenienti dell' eclettismo, e quelli del psicolo- gismo. — Obbiezioni dei
psicologisti : risposta. — Del senso ontologico. — L'ontologismo è conforme
all’ indole e al processo del Cristianesimo. — llicpilogazioue delle cose dette
in questo capitolo. CAPITOLO QUARTO. (IELLA FOIJIOLA IDEALI. I Che cosa
s’intende per forinola ideale. — Metodo, che l’autore si propone di tenere in
questa ricerca. — Del Primo psicologico ontologico c filosofico. Il Primo
filosofico abbraccia i due altri. — Varie dottrine sul Primo psicologico e
ontologico. — Teorica di Antonio Rosmini intorno al concetto dell’ente
consideralo, come Primo psicologico : si riduce a quattro capi. — Critica del
sistema rosminiano : il Primo filosofico è l’Ente reale. — L'Ente reale è
astratto e concreto, generale e particolare, individuale e universale nello
stesso tempo. — La filosofia moderna erra spesso, mutando il concreto in
astratto. — Vari generi di astrazione c di compo- — sizione. — Il Primo filosofico
contiene un giudizio. — Doti spe- ciali di questo giudizio : 1° consta di un
solo concetto, che si replica su se stesso ; 2° è obbiettivo, autonomo e
divino, vale a dire, che il giudicante è identico al giudicalo. — Il giudizio
di- ,- 476 TAVOLA E SOMMARIO, vino essendo il primo anello della
filosofia, questa è una scienza divina e non umana nel suo principio. — Il
giudizio divino, con- tenuto nel Primo filosofico , non basta a costituire la
forinola ideale. — Ricerca di un altro concetto per compiere la formola. —
Della nozione di esistenza : analisi del concetto e della parola. — Egli è
impossibile il salire logicamente dal concetto dell’ esis- tenza a quello dell'
Ente. — Bisogna adunque discendere dal con- cetto dell' Ente a quello di esistenza.—
Necessità di un concetto in- termedio per effettuar questo transito nel
processo discensivo. — L’idea di creazione è il legame tra le due altre. —
Obbiezioni controdiessa: risposta.—IIprocessopsicologicocorrispondeall’
^ontologico. — Lo spirito umano è spettatore continuo, diretto e immediato
della creazione. — L'idea di creazione contiene un fatto primitivo c divino,
che è il primo anello delle scienze fisiche e psicologiche; quindi tutta l’
umana enciclopedia è divina nel suo principio. — Compimento della formola
ideale. —- Altro giudizio contenuto in essa formola. — Distinzione c
inseparabilità psico- logica dell’Ente e dell’esistente. — Del vero ideale e
del fatto ideale.—Obbiezionecontroil nostroprocessoideale:risposta. — Dell’
organismo ideale. — Problemi metafisici, che non si pos- sono risolvere , se
non colla nostra formola , e ne confermano la verità. — 1° Del necessario c del
contingente. — 2“ Dell’ intelli- gibile. — 3° Dell’ esistenza dei corpi. —
Cattivo metodo di molti filosofi nel combattere l’idealismo. — 1° Dell’
individuazione. — !i° Dell’ evidenza c della certezza. — Possibilità del
miracolo provata a priori. — Nuove obbiezioni contro la formula ideale :
risposta. — 6° Dell’ origine delle idee. — Vari sistemi dei filosofi su questo
punto. — Critica della dottrina rosiniuiana, che tulle le idee nascano da
quella dell’Ente, per via di generazione. Esposizione sommaria della nostra
dottrina sull’origine delle idee : si riduce a tre capi. — Convenienza della
nostra dottrina con un pronunzialo del Vico. — 7° Dei giudizi analitici c
sinte- tici. — Esposizione della nostra dottrina sulle varie classi di giu-
dizi sintetici. — 8° Della natura del raziocinio. — Cenni su altre quislioni,
che si attengono alla nostra formola. — L’aver dis- messa o trascurata l’idea
di creazione è la causa principale degli ^ — Digitized by Google
TAVOLA E SOMMARIO. 477 orrori filosofici. — Vane promesse ilei moderni
eclettici, c flebo- — lezza della filosofia presente. — Per ristorarla, bisogna
abolire il psicologismo. — Il Cristianesimo rinnovò la forinola ideale. — Ili
santo Agostino : sue lodi : fondò la scienza ideale. — Della scienza ideale
cattolica : sue prerogative. — Degli Scolastici : loro difetti. — Del
nominalismo e sua influenza sinistra nel rea- lismo. — In che consista il
perfetto realismo. — Si critica il principio fondamentale di Cartesio colla
scorta della formola ideale. — Di Benedetto Spinoza. — Tre epoche della
filosofia te- desca. — L’ontologismo dei panteisti tedeschi è solo apparente. —
Critica del loro sistema. — Vizi del panteismo in generale. — Convenienze del
panteismo coll' eterodossia religiosa, e in ispecie colle opinioni ilei
protestanti, c con quelle degli Ebrei, dopo la divina abrogazione del loro
culto. 1 44» prima.. II. 4. 9. 0. 7. 8. 9. 10. 11 . 12. 13. 11 . 19. 10. Le
sensazioni sono segni delle cose. Passo del Leibniz sul nesso del pensiero
colla parola. 279 Sulla base ontologica della veracità. 281 Indivisibilità
morale ilei Papa c della Chiesa. 282 Sullamutabilitàdelvero,secondoi panteisti.
283 Sulla universalità logica dell’errore. 285 Passo dello Spinoza sull’
ontologismo. 283 Passo del sig. Cousin sul psicologismo del Descartes. 28(1
Giudizio del Leibniz su Cartesio c sulla sua dottrina. 287 Del valore del
Descartes nelle scienze fisiche. 28S Parere di Cartesio sulla speculativa dei
matematici. 292 Passo del Mcujot su Cartesio. Ih. Dei furti letterari del
Descartes. 293 Esame dello scetticismo cartesiano. 293 Passo dell' Aucillon
sullo stile del Descartes. 29!) Della presunzione e dell’ arroganza del
Descartes. 300 NOTE. 277 Digitized by Google 478 17. 18. 19. 20.
21. 22. 23. 24. 23. 26. 27- 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 33. 36. 37. 38. 39. 40.
41. TAVOLA E SOMMARIO. ^ Sopra una sentenza del Vico. .706 A che e (Trito i
capi della Riforma scemassero il sovrin- telligibile rivelalo. 307 Che
gl’italiani hanno l’ingegno scultorio. Ib. Divario tra i Sociniani e i moderni
razionalisti. Ib. Esamedell’opinionediCartesiointornoalsuorogito. 308 Sul IVo
di Lutero. 328 Sul circolo vizioso del Descartes. 329 Esame dell’opinione
cartesiana, che Iddio possa mu- tare le essenze delle cose. 333 Vera idea della
filosofia socratica c platonica. 314 Sulle idee innate del Descartes. 343 Sopra
una sentenza del Thomas. 316 Passo del Leibniz sul Cogito di Cartesio. 317 Il
secolo attuale continua il precedente. Ib. Passo dello Stewart sulle
sciocchezze dei filosofi. 348 Passo del sig. Cousin sugli studi forti. Ib.
Sulla religione di Napoleone. 349 Critica di due opinioni del sig. Jouffroy.
331 Il sig. Cousin non conosce il sistema del Malebranche. 361 Quando nacque la
filosofia moderna , secondo il sig. Cousin. 366 Dell’ ontologismo cristiano.
367 Vari passi del Malebranche sulla visione ideale. 369 Si esamina la dottrina
del Rosmini sulla visione ideale. 377 Capitolo primo. L’ente ideale del Rosmini
è insussis- tente, benché non sia subbiellivo. Capitolo secondo. L’ente ideale
del Rosmini è obbiet- tivo c assoluto, benché si distingua da Dio. Tassi di san
Bonaventura c di Gersonc sulla visione ideale. 444 Medesimezza del concreto c
dell’astratto, dell'indivi- dualeedelgeneralenell’ordinedellecoseassolute. 132
Passi del Malebranche e ilei Leibniz sull’ eloquio ideale. •* 433 Digitized by
Google TAVOLA E SOMMARIO. 479 42. Sulla confusione dell’ essere
coll’ esistere. 4556 13. / l’asso del Vico sul divario, che corre fra le voci
44. 43. 16. 47. 48. 49. 30. 31. 32. 33. I I essere ed esistere, e sull’ uso
improprio, che ne fa il Descartes. tb. Passi del Descartes, in cui questo
filosofo sinonimo l ’ essere coll’ esistere. 437 Sulla voce esistenze adoperata
nella formula. 439 Sulle nozioni del necessario, del possibile, del con-
tingente, e sui principii, che ne derivano. Ib. Della dualità ideale. 462 Passo
del Malebranche sulla impossibilità di di- mostrare l’esistenza dei corpi. 463
Sulle convenienze del sistema cartesiano collo Spi- nozisrno. 464 Passo del
Leibniz sullo stesso proposito. 468 Sopra due obbiezioni del Paulus contro il
sistema dello Spinoza. Ib. Cenno sulle tradizioni panteistiche dei Rabbini. 471
Di una opinione dell' Hegel tolta dal Leibniz.DELIA LNIAERSALITA SCIENTIFICA
DELI A FORMULA IDEALE. Articolo primo. Preambolo. — La forinola razionale dee
contenere l'organismo degli clementi ideali. — l’er conoscere questa orga-
nizzazione, bisogna riscontrare essa forinola coll'albero enciclo- pedico. —
L'enciclopedia si compone di tre parti, filosofìa, fìsica e matematica, che
corrispondono alle tre membra della forinola. — Della filosofia in ispecie : si
stende per tutta la forinola. — Dell’ ontologia, psicologia, logica, elica c
inaleinatica ; coinè si connettano coi vari termini di quella. — Tarala
rappresenlalira dell’ albero enciclopedico, confórme all’ organismo ideale. —
Spiegazione generica della tavola. — Della scienza ideale. — Della teologia rivelata
e della filosofia. — Principato universale della prima. — Maggioranza della
seconda sulle altre scienze. — Pri- mato dell’ontologia fra le varie discipline
fìlusoGchc; necessario, acciò queste siano in fiore. — Della teologia
universale. I Articolo secondo. Della malemalica. — La inatcmalica tiene un
luogo mezzano tra la filosofia c la fisica.— Insufficienza della filo- sofia
moderna, per dare una teorica soddisfacente del tempo e dello spazio. —
Dichiarazione di queste due idee, c dell’ oggetto loro, mediante la furinola
ideale. 17 Articolo terzo. Della logica c della morale. — Queste due scienze
hannociòdicomune,cheappartengonoal terminemediodella Digifeed by Google
400 TAVOLA E SOMMARIO. forinola. — Della logica in particolare, e delle
varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei due cicli creativi, e dei loro
riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra loro. — Della legge morale. — Dell’
imperativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre mo- menti dell’ imperativo.
— Del mal morale, e del mal lisico, che ne conseguita. — Della pena eterna. 23
Articolo qlarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo membro della forinola. —
Dei due cicli generativi. — Varie sintesi, di cui si compongono. — Dell’ordine
dell’ universo — Del concetto te- leologico. — L’ idea di fine ci è
somministrata dal ciclo creativo. 43 Articolo qlirto. Dell' estetica. — Del
sublime e del bello. — Delle varie loro specie, c del modo, in cui si
connettono colla for- inola. — Del maraviglioso. 32 Articolo sesto. Della
politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesiano. —Quindi i
suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri principii, perchè mancano della
cogni- zione ideale. — I difetti della teorica hanno luogo del pari nella
pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato dal Cristia- nesimo;
vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi dilibertàpolitica:
l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del sistema ortodosso.
— La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine recenti c sorelle. —
Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La civiltà moderna dee
fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del Ma-
chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In che
senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni. —
Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della
tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine
di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte
del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. —
Della sovranità. — La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e
ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La
società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere
sovrano. Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si
tramanda Digitized by Google TAVOLA E SOMMARIO. 461 c perpetua di
generazione in generazione. — Forinola della poli- tica. — l.a Immissione della
sovranità dee essere proporzionala alla partecipazione della scienza ideale. —
Se tutti i cittadini pos- sano partecipare ai diritti politici? Assurdità del
suffragio uni- versale. — l.a capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma
non basta a costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indipen- dente dai
sudditi. — l.a perfezione della sovranità consiste nell' unione del potere
tradizionale colla sufficienza elettiva. —Dei due cicli generativi della politica.
— 11 sovrano non può inai farsi da se in nessun caso. — Della distribuzione
della sovranità fra i cittadini. — Ogni potere sovrano è divino. — Nello stato
primitivo delle nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno
opochissimiindividui,nèpareggialafratullii cittadini.—In- violabilità del
potere sovrano. — Delle rivoluzioni, e delle con- trarivoluzioni:
checosasidebbaintenderesottoquestinomi.— La vera rivoluzione, essendo
l’attentato contro una sovranità le- gittima, è sempre illecita. — La vera contrarivoluzione
c onesta, se non è violenta c tumultuaria. — Lo stato politico di un popolo dee
corrispondere a’ suoi ordini primitivi e anticali. — La mo- narchia è
necessaria al dì d'oggi alla libertà europea. — L'inves- titura della sovranità
in una famiglia è subordinata alla salute pubblica. — È inviolabile, come il
dominio privato. — Il potere ereditario, e la capacità elettiva importano del
pari alla civiltà dei popoli. — Delle corti. — Conformità della nostra sentenza
colla dottrina cattolica intorno all’ inviolabilità del potere sovrano. — 1
fautori della licenza c del dispotismo invertono le due forinole politiche
corrispondenti ai due cicli ideali. !56 Articolo settimo. Epilogo. — L’idea
divina è la suprema forinola enciclopedica. — Universalità dell’ idea divina. —
L’ontologismo non è un metodo ipotetico, come quello dei psicologisti. — Iddio
è l'Intelligibile : è l’alfa e l’omega della scienza. —Si termina, riandando il
primato dell’ idea divina nelle varie parti della filo- sofia. 144 Digitized by
Google r 402 TAVOLA E SOMMARIO. CAPITOLO SESTO. de.i.la
ccmsEavAziosz deli,a rutmm.A ideale. La conservazione della forinola è opera
della rivelazione. — Defini- zione di questa. — Suoi diversi periodi. — La
confusione della filosofia colla religione nocque in ogni tempo alla scienza
ideale. — Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi. — Del razio- nalismo
teologico fiorente al di d’oggi. —Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La
critica storica dei razionalisti pecca per di- fetto di canonica. — Il
razionalismo confonde insieme i vari or- dini di fatti e di veri. — Sua
vecchiezza. — Dei Doceti. — Il
razionalismoèunveronaturalismo.—Delsovrannaturale: sua definizione. — Necessità
di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Pos- sibilità e convenienza morale del
miracolo. — Universalità dell’ ordine sovrannaturale. — L’Idea cristiana è
universale, come l’Idea della ragione. — Nullità sintetica c filosofica dei
moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è la religione universale. — Non si
può mettere in ischiera cogli altri culti. — Sua singolarità. — Le false
religioni non distruggono l’universalità del Cristiane- simo. — Accordo di
questo colla civiltà crescente di ogni tempo. — Si confuta una sentenza dello
Strausse. — Le false religioni sono le sole, che debbano temere dei progressi
civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non sottoslà alla coltura più
squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è una barbarie attillata. —
Delle prove interne della rivelazione. — Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. —
La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della Bibbia risulta
dalla perfezione deli’ Idea, che vi è rappresentata. — Oscurità della Bibbia in
alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai lavori smerdici
dell’ in- gegno umano. — Concorso c predominio delle prove esterne od interne
della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspi- razione dei libri
sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni
dei razionalisti. — L’ ermeneutica Digitized by Google TAVOLA E
SOMMARIO. 463 di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela-
zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei popoli. — Eccellenza delle
nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli giapetici : loro divario dai
Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ; conservatori dell' Idea
perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo. — Della scienza
acroamatica ed esso- terica. — Fondamento naturale, e universalità di questa
distin- zione.—Della ordinazione civile e religiosa degl’ Israeliti. — Oltre la
dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica e
tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa distinzione presso il popolo
eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la scienza acroamatica degl’
Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e dell' essoterismo è la sola
variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea rivelata. — Perchè Mosè non
abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità degli animi umani.—Gli Ebrei non
tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e il dogma della ri- surrezione. —
Del sensismo proprio dei razionalisti. — Falsità del loro metodo nel cercare
l’origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina
essoterica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti
e i Gentili. — Del figuralismo ebraico. — Non è un trovato recente degl’
Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle institu-
zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il letragramma, erano il nesso della
scienza acroamatica ed essoterica presso gl’ Israeliti. 1ì>5 CAPITOLO
SETTIMO. OEll’ ALTERAZIONE (IELLA EOREOLA IDEALE. lai barbarie non fu lo stato
primitivo degli uomini. — La storia delle religioni non comincia dal sensismo.
— Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la cultura
primi- tiva. — Vicende civili delle nazioni. — Cinque forme successive di stato
e di reggimento politico. — Anomalie storiche nell’ effet- Digitìzed by
Google 404 TAVOLA E SOMMARIO. luazione di esse. — Del patriarcato. —
Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei sacerdoti : sua
legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto l'imperio
ieratico. — I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. — Effetti
salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. — Il sacerdozio
conservò le reliquie dell’antica dottrina acroamatica fondò l’essoterica. — In
che modo la mitologia e la simbolica po- tessero esser opera della moltitudine.
— La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari
indirizzi della filoso- fìa gentilesca. — Riscontri dell' antico e del nuovo
paganesimo. — Vari gradi, per cui passò l’alterazione della formola ideale :
oscurità , confusione , dimezzamento e disorganazione. — Ca- gioni dell'
alteramente : predominio del senso e della fantasia ; influenza del linguaggio
sull’idea, c dell’ essoterismo sull' acroa- matismo ; dispersione dei popoli, e
perdita dell’ unità universale. — Del culto dei felissi. — Di un doppio moto
contrario, regres- sivo e progressivo, delle instituzioni religiose. —Esempi. —
Quattroepochedellacognizioneideale: intuitiva,immaginativa, sensitiva e
astrattiva. — Se nel vario e successivo alterarsi della formola, si mantengano
i suoi tre membri, c come?— Tavola delle trasformazioni ontologiche della
formolo ideale, corfispondenti ai rari stati psicologici dello spirito umano. —
Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca intuitiva; come l’uomo ne sia sca-
duto. — Il mal morale consiste nella negazione del secondo ciclo creativo. —
Dei mezzi sovrannaturali per conservare Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo
fu l’occasione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del
naturalismo fantastico c dell’ emanatismo propri di questa epoca. —Indole poco
scientifica dell’ emanatismo. — Sua formola. — Due sorti d’ emanatismo :
psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli emanatisti. — Della loro
dualità primordiale, c delle dualità successive. — Dell’ androginismo, e delle
dee madri ; loro connessione coll’ ema- natismo. — I fautori di questo sistema
confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei
due cicliditaldottrina: l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. —
Corrompe la morale, e introduce il pessimismo. — ; Digitized by
Google TAVOLA F. SOMMARIO. 16S Pelle varie età cosmiche, secondo i
inili di molti popoli Gentili. — Come l’ ottimismo e il pessimismo si accozzino
insieme nel sistema degli emanalisti. —Degli «talari, delle teofanie o logo-
fanie permanenti e successive, e delle apoteosi. — Come il sovrin - telligibile
si trovi alterato fra queste favole. — Del politeismo; nato dall'emanatismo. —
Sua indole, e sue varie forme. — Tutti i
popolipoliteisticonservanounareminiscenzadellaunitàideale. — Dell' idolatria :
sua natura. — Pel panteismo : è una riforma ieratica dell’ einanatismo. — Il
panteismo scientifico non poli- essere il primo sistema nella via dell’ errore.
— L’emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno
sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. —
Proprietà speciali del panteismo. — Universalità del panteismo nel regno
dell’errore. — Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di
progresso possa avere Terrore, — Varie forme del panteismo. — Della condizione
del sacerdozio dopo la rovina dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci
la filosofia laicale. — Dell’ ateismo. — Questo sistema non potè es- sere
anteriore al secondo periodo della filosofia secolaresca. — Si rigetta l’
opinione di un ateismo indico antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. —
Serbato in parte dai sacerdoti, c perduto affatto da' laici filosofanti,
salvocliè dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei
tentativi antichi c moderni, per rie- dificare umanamente il sovrintelligibile.
— Si conchiude, accen - nando brevemente il tema del secondo libro. 239 NOTE.
Nota prima. Sulle denominazioni moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del
tempo c dello spazio, secondo il processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e
del Malebranche sul tempo e sullo spazio. 30 380 Digitized by Google
ICO 4. 8. G. 7. 8. 9. 10. 11. 13. 13. 14. 18. 16. r* i* p £ 2L. 22. 23.
24. 28. 2G. 37. 28. TAVOLA E SOMMARIO. Della importanza, che la religione dà
alla vita tempo- rale. .188 Degli attributi divini ontologicamente considerati.
190 Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. .191
Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. 393 influenza della colpa
primitiva in tutte le parti del pensiero e dell’ azione umana. 405 Dei vari
sistemi sulla natura delle esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406 Sugli
assiomi di finalità e di causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli Stali
Uniti. 412 Se l’ abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire
al Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi particolari.
410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può dimostrare
l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih. Sulla voce
ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424 miracoli
posteriori Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del Malehranchc
sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla rivelazione. 430
Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri- surrezione dei morti. 431
Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’
esistenza degli angeli. Ib. 1 razionalisti confondono la dottrina acroamaliea
colla essoterica. 444 Sul fatto di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti,
-toma, mito e simbolo zcndico. 445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla
religione, e non Digitized by Google TAVOLA E SOMMARIO. 467
L’antropomorfismo è il psicologismo essoterico. 446 Del panteismo ili Ulrico
Zuinglio. Ih. Passi dello Spinoza conformi alle dottrine del raziona- lismo
teologico. Sul psicologismo degli eretici. Convenienze della dottrina pclagiana
col sensismo, col psicologismo e col fatalismo. 4SI 4SS AMDELIA LNIAERSALITA
SCIENTIFICA DELI A FORMULA IDEALE. Articolo primo. Preambolo. — La forinola
razionale dee contenere l'organismo degli clementi ideali. — l’er conoscere
questa orga- nizzazione, bisogna riscontrare essa forinola coll'albero enciclo-
pedico. — L'enciclopedia si compone di tre parti, filosofìa, fìsica e
matematica, che corrispondono alle tre membra della forinola. — Della filosofia
in ispecie : si stende per tutta la forinola. — Dell’ ontologia, psicologia,
logica, elica c inaleinatica ; coinè si connettano coi vari termini di quella.
— Tarala rappresenlalira dell’ albero enciclopedico, confórme all’ organismo
ideale. — Spiegazione generica della tavola. — Della scienza ideale. — Della
teologia rivelata e della filosofia. — Principato universale della prima. —
Maggioranza della seconda sulle altre scienze. — Pri- mato dell’ontologia fra
le varie discipline fìlusoGchc; necessario, acciò queste siano in fiore. —
Della teologia universale. I Articolo secondo. Della malemalica. — La
inatcmalica tiene un luogo mezzano tra la filosofia c la fisica.— Insufficienza
della filo- sofia moderna, per dare una teorica soddisfacente del tempo e dello
spazio. — Dichiarazione di queste due idee, c dell’ oggetto loro, mediante la
furinola ideale. 17 Articolo terzo. Della logica c della morale. — Queste due
scienze hannociòdicomune,cheappartengonoal terminemediodella Digifeed by
Google 400 TAVOLA E SOMMARIO. forinola. — Della logica in
particolare, e delle varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei due cicli
creativi, e dei loro riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra loro. — Della
legge morale. — Dell’ imperativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre mo-
menti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal lisico, che ne conseguita.
— Della pena eterna. 23 Articolo qlarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo
membro della forinola. — Dei due cicli generativi. — Varie sintesi, di cui si
compongono. — Dell’ordine dell’ universo — Del concetto te- leologico. — L’
idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 43 Articolo qlirto. Dell'
estetica. — Del sublime e del bello. — Delle varie loro specie, c del modo, in
cui si connettono colla for- inola. — Del maraviglioso. 32 Articolo sesto.
Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesiano.
—Quindi i suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri principii, perchè
mancano della cogni- zione ideale. — I difetti della teorica hanno luogo del
pari nella pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato dal Cristia-
nesimo; vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi
dilibertàpolitica: l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del
sistema ortodosso. — La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine
recenti c sorelle. — Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La
civiltà moderna dee fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del
Ma- chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In
che senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni.
— Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della
tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine
di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte
del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. —
Della sovranità. — La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e
ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La
società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere sovrano.
Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si tramanda
Digitized by Google TAVOLA E SOMMARIO. 461 c perpetua di
generazione in generazione. — Forinola della poli- tica. — l.a Immissione della
sovranità dee essere proporzionala alla partecipazione della scienza ideale. —
Se tutti i cittadini pos- sano partecipare ai diritti politici? Assurdità del
suffragio uni- versale. — l.a capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma
non basta a costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indipen- dente dai
sudditi. — l.a perfezione della sovranità consiste nell' unione del potere
tradizionale colla sufficienza elettiva. —Dei due cicli generativi della
politica. — 11 sovrano non può inai farsi da se in nessun caso. — Della
distribuzione della sovranità fra i cittadini. — Ogni potere sovrano è divino.
— Nello stato primitivo delle nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno
opochissimiindividui,nèpareggialafratullii cittadini.—In- violabilità del
potere sovrano. — Delle rivoluzioni, e delle con- trarivoluzioni:
checosasidebbaintenderesottoquestinomi.— La vera rivoluzione, essendo
l’attentato contro una sovranità le- gittima, è sempre illecita. — La vera
contrarivoluzione c onesta, se non è violenta c tumultuaria. — Lo stato
politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini primitivi e anticali. —
La mo- narchia è necessaria al dì d'oggi alla libertà europea. — L'inves-
titura della sovranità in una famiglia è subordinata alla salute pubblica. — È
inviolabile, come il dominio privato. — Il potere ereditario, e la capacità
elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli. — Delle corti. —
Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica intorno all’
inviolabilità del potere sovrano. — 1 fautori della licenza c del dispotismo
invertono le due forinole politiche corrispondenti ai due cicli ideali. !56
Articolo settimo. Epilogo. — L’idea divina è la suprema forinola enciclopedica.
— Universalità dell’ idea divina. — L’ontologismo non è un metodo ipotetico,
come quello dei psicologisti. — Iddio è l'Intelligibile : è l’alfa e l’omega
della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea divina nelle varie
parti della filo- sofia. 144 Digitized by Google r 402 TAVOLA E
SOMMARIO. CAPITOLO SESTO. de.i.la ccmsEavAziosz deli,a rutmm.A ideale. La
conservazione della forinola è opera della rivelazione. — Defini- zione di
questa. — Suoi diversi periodi. — La confusione della filosofia colla religione
nocque in ogni tempo alla scienza ideale. — Analogia dei moderni razionalisti
cogli antichi. — Del razio- nalismo teologico fiorente al di d’oggi. —Si divide
in due parti. — Suoi fondatori. La critica storica dei razionalisti pecca per
di- fetto di canonica. — Il razionalismo confonde insieme i vari or- dini di
fatti e di veri. — Sua vecchiezza. — Dei Doceti. — Il
razionalismoèunveronaturalismo.—Delsovrannaturale: sua definizione. — Necessità
di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Pos- sibilità e convenienza morale del
miracolo. — Universalità dell’ ordine sovrannaturale. — L’Idea cristiana è
universale, come l’Idea della ragione. — Nullità sintetica c filosofica dei
moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è la religione universale. — Non si
può mettere in ischiera cogli altri culti. — Sua singolarità. — Le false
religioni non distruggono l’universalità del Cristiane- simo. — Accordo di
questo colla civiltà crescente di ogni tempo. — Si confuta una sentenza dello
Strausse. — Le false religioni sono le sole, che debbano temere dei progressi
civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non sottoslà alla coltura più
squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è una barbarie attillata. —
Delle prove interne della rivelazione. — Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. —
La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della Bibbia risulta dalla
perfezione deli’ Idea, che vi è rappresentata. — Oscurità della Bibbia in
alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai lavori smerdici
dell’ in- gegno umano. — Concorso c predominio delle prove esterne od interne
della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspi- razione dei libri
sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni
dei razionalisti. — L’ ermeneutica Digitized by Google TAVOLA E
SOMMARIO. 463 di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela-
zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei popoli. — Eccellenza delle
nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli giapetici : loro divario dai
Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ; conservatori dell' Idea
perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo. — Della scienza
acroamatica ed esso- terica. — Fondamento naturale, e universalità di questa
distin- zione.—Della ordinazione civile e religiosa degl’ Israeliti. — Oltre la
dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica e
tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa distinzione presso il popolo
eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la scienza acroamatica degl’
Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e dell' essoterismo è la sola
variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea rivelata. — Perchè Mosè non
abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità degli animi umani.—Gli Ebrei non
tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e il dogma della ri- surrezione. —
Del sensismo proprio dei razionalisti. — Falsità del loro metodo nel cercare
l’origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina
essoterica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti
e i Gentili. — Del figuralismo ebraico. — Non è un trovato recente degl’
Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle institu-
zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il letragramma, erano il nesso della
scienza acroamatica ed essoterica presso gl’ Israeliti. 1ì>5 CAPITOLO
SETTIMO. OEll’ ALTERAZIONE (IELLA EOREOLA IDEALE. lai barbarie non fu lo stato
primitivo degli uomini. — La storia delle religioni non comincia dal sensismo.
— Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la cultura
primi- tiva. — Vicende civili delle nazioni. — Cinque forme successive di stato
e di reggimento politico. — Anomalie storiche nell’ effet- Digitìzed by
Google 404 TAVOLA E SOMMARIO. luazione di esse. — Del patriarcato. —
Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei sacerdoti : sua
legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto l'imperio
ieratico. — I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. — Effetti
salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. — Il sacerdozio
conservò le reliquie dell’antica dottrina acroamatica fondò l’essoterica. — In
che modo la mitologia e la simbolica po- tessero esser opera della moltitudine.
— La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari
indirizzi della filoso- fìa gentilesca. — Riscontri dell' antico e del nuovo
paganesimo. — Vari gradi, per cui passò l’alterazione della formola ideale :
oscurità , confusione , dimezzamento e disorganazione. — Ca- gioni dell'
alteramente : predominio del senso e della fantasia ; influenza del linguaggio
sull’idea, c dell’ essoterismo sull' acroa- matismo ; dispersione dei popoli, e
perdita dell’ unità universale. — Del culto dei felissi. — Di un doppio moto
contrario, regres- sivo e progressivo, delle instituzioni religiose. —Esempi. —
Quattroepochedellacognizioneideale: intuitiva,immaginativa, sensitiva e
astrattiva. — Se nel vario e successivo alterarsi della formola, si mantengano
i suoi tre membri, c come?— Tavola delle trasformazioni ontologiche della
formolo ideale, corfispondenti ai rari stati psicologici dello spirito umano. —
Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca intuitiva; come l’uomo ne sia sca-
duto. — Il mal morale consiste nella negazione del secondo ciclo creativo. —
Dei mezzi sovrannaturali per conservare Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo
fu l’occasione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del
naturalismo fantastico c dell’ emanatismo propri di questa epoca. —Indole poco
scientifica dell’ emanatismo. — Sua formola. — Due sorti d’ emanatismo :
psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli emanatisti. — Della loro
dualità primordiale, c delle dualità successive. — Dell’ androginismo, e delle
dee madri ; loro connessione coll’ ema- natismo. — I fautori di questo sistema
confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei
due cicliditaldottrina: l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. —
Corrompe la morale, e introduce il pessimismo. — ; Digitized by
Google TAVOLA F. SOMMARIO. 16S Pelle varie età cosmiche, secondo i
inili di molti popoli Gentili. — Come l’ ottimismo e il pessimismo si accozzino
insieme nel sistema degli emanalisti. —Degli «talari, delle teofanie o logo-
fanie permanenti e successive, e delle apoteosi. — Come il sovrin - telligibile
si trovi alterato fra queste favole. — Del politeismo; nato dall'emanatismo. —
Sua indole, e sue varie forme. — Tutti i
popolipoliteisticonservanounareminiscenzadellaunitàideale. — Dell' idolatria :
sua natura. — Pel panteismo : è una riforma ieratica dell’ einanatismo. — Il
panteismo scientifico non poli- essere il primo sistema nella via dell’ errore.
— L’emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno
sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. —
Proprietà speciali del panteismo. — Universalità del panteismo nel regno
dell’errore. — Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di
progresso possa avere Terrore, — Varie forme del panteismo. — Della condizione
del sacerdozio dopo la rovina dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci
la filosofia laicale. — Dell’ ateismo. — Questo sistema non potè es- sere
anteriore al secondo periodo della filosofia secolaresca. — Si rigetta l’
opinione di un ateismo indico antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. —
Serbato in parte dai sacerdoti, c perduto affatto da' laici filosofanti,
salvocliè dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei
tentativi antichi c moderni, per rie- dificare umanamente il sovrintelligibile.
— Si conchiude, accen - nando brevemente il tema del secondo libro. 239 NOTE.
Nota prima. Sulle denominazioni moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del
tempo c dello spazio, secondo il processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e
del Malebranche sul tempo e sullo spazio. 30 380 Digitized by Google
ICO 4. 8. G. 7. 8. 9. 10. 11. 13. 13. 14. 18. 16. r* i* p £ 2L. 22. 23.
24. 28. 2G. 37. 28. TAVOLA E SOMMARIO. Della importanza, che la religione dà
alla vita tempo- rale. .188 Degli attributi divini ontologicamente considerati.
190 Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. .191
Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. 393 influenza della colpa
primitiva in tutte le parti del pensiero e dell’ azione umana. 405 Dei vari
sistemi sulla natura delle esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406 Sugli
assiomi di finalità e di causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli Stali
Uniti. 412 Se l’ abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire
al Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi particolari.
410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può dimostrare
l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih. Sulla voce
ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424 miracoli
posteriori Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del Malehranchc
sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla rivelazione. 430
Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri- surrezione dei morti. 431
Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’
esistenza degli angeli. Ib. 1 razionalisti confondono la dottrina acroamaliea
colla essoterica. 444 Sul fatto di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti,
-toma, mito e simbolo zcndico. 445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla
religione, e non Digitized by Google TAVOLA E SOMMARIO. 467
L’antropomorfismo è il psicologismo essoterico. 446 Del panteismo ili Ulrico
Zuinglio. Ih. Passi dello Spinoza conformi alle dottrine del raziona- lismo
teologico. Sul psicologismo degli eretici. Convenienze della dottrina pclagiana
col sensismo, col psicologismo e col fatalismo. 4SI 4SS AMDELIA LNIAERSALITA
SCIENTIFICA DELI A FORMULA IDEALE. Articolo primo. Preambolo. — La forinola
razionale dee contenere l'organismo degli clementi ideali. — l’er conoscere
questa orga- nizzazione, bisogna riscontrare essa forinola coll'albero enciclo-
pedico. — L'enciclopedia si compone di tre parti, filosofìa, fìsica e
matematica, che corrispondono alle tre membra della forinola. — Della filosofia
in ispecie : si stende per tutta la forinola. — Dell’ ontologia, psicologia,
logica, elica c inaleinatica ; coinè si connettano coi vari termini di quella.
— Tarala rappresenlalira dell’ albero enciclopedico, confórme all’ organismo
ideale. — Spiegazione generica della tavola. — Della scienza ideale. — Della
teologia rivelata e della filosofia. — Principato universale della prima. —
Maggioranza della seconda sulle altre scienze. — Pri- mato dell’ontologia fra
le varie discipline fìlusoGchc; necessario, acciò queste siano in fiore. —
Della teologia universale. I Articolo secondo. Della malemalica. — La
inatcmalica tiene un luogo mezzano tra la filosofia c la fisica.— Insufficienza
della filo- sofia moderna, per dare una teorica soddisfacente del tempo e dello
spazio. — Dichiarazione di queste due idee, c dell’ oggetto loro, mediante la
furinola ideale. 17 Articolo terzo. Della logica c della morale. — Queste due
scienze hannociòdicomune,cheappartengonoal terminemediodella Digifeed by
Google 400 TAVOLA E SOMMARIO. forinola. — Della logica in
particolare, e delle varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei due cicli
creativi, e dei loro riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra loro. — Della
legge morale. — Dell’ imperativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre mo-
menti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal lisico, che ne conseguita.
— Della pena eterna. 23 Articolo qlarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo
membro della forinola. — Dei due cicli generativi. — Varie sintesi, di cui si
compongono. — Dell’ordine dell’ universo — Del concetto te- leologico. — L’
idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 43 Articolo qlirto. Dell'
estetica. — Del sublime e del bello. — Delle varie loro specie, c del modo, in
cui si connettono colla for- inola. — Del maraviglioso. 32 Articolo sesto.
Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesiano.
—Quindi i suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri principii, perchè
mancano della cogni- zione ideale. — I difetti della teorica hanno luogo del
pari nella pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato dal Cristia-
nesimo; vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi
dilibertàpolitica: l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del
sistema ortodosso. — La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine
recenti c sorelle. — Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La
civiltà moderna dee fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del
Ma- chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In
che senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni.
— Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della
tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine
di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte
del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. —
Della sovranità. — La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e
ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La
società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere
sovrano. Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si tramanda
Digitized by Google TAVOLA E SOMMARIO. 461 c perpetua di
generazione in generazione. — Forinola della poli- tica. — l.a Immissione della
sovranità dee essere proporzionala alla partecipazione della scienza ideale. —
Se tutti i cittadini pos- sano partecipare ai diritti politici? Assurdità del
suffragio uni- versale. — l.a capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma
non basta a costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indipen- dente dai
sudditi. — l.a perfezione della sovranità consiste nell' unione del potere
tradizionale colla sufficienza elettiva. —Dei due cicli generativi della
politica. — 11 sovrano non può inai farsi da se in nessun caso. — Della
distribuzione della sovranità fra i cittadini. — Ogni potere sovrano è divino.
— Nello stato primitivo delle nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno
opochissimiindividui,nèpareggialafratullii cittadini.—In- violabilità del
potere sovrano. — Delle rivoluzioni, e delle con- trarivoluzioni:
checosasidebbaintenderesottoquestinomi.— La vera rivoluzione, essendo
l’attentato contro una sovranità le- gittima, è sempre illecita. — La vera
contrarivoluzione c onesta, se non è violenta c tumultuaria. — Lo stato
politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini primitivi e anticali. —
La mo- narchia è necessaria al dì d'oggi alla libertà europea. — L'inves-
titura della sovranità in una famiglia è subordinata alla salute pubblica. — È
inviolabile, come il dominio privato. — Il potere ereditario, e la capacità
elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli. — Delle corti. —
Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica intorno all’
inviolabilità del potere sovrano. — 1 fautori della licenza c del dispotismo
invertono le due forinole politiche corrispondenti ai due cicli ideali. !56 Articolo
settimo. Epilogo. — L’idea divina è la suprema forinola enciclopedica. —
Universalità dell’ idea divina. — L’ontologismo non è un metodo ipotetico, come
quello dei psicologisti. — Iddio è l'Intelligibile : è l’alfa e l’omega della
scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea divina nelle varie parti
della filo- sofia. 144 Digitized by Google r 402 TAVOLA E SOMMARIO.
CAPITOLO SESTO. de.i.la ccmsEavAziosz deli,a rutmm.A ideale. La conservazione
della forinola è opera della rivelazione. — Defini- zione di questa. — Suoi
diversi periodi. — La confusione della filosofia colla religione nocque in ogni
tempo alla scienza ideale. — Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi. —
Del razio- nalismo teologico fiorente al di d’oggi. —Si divide in due parti. —
Suoi fondatori. La critica storica dei razionalisti pecca per di- fetto di
canonica. — Il razionalismo confonde insieme i vari or- dini di fatti e di
veri. — Sua vecchiezza. — Dei Doceti. — Il
razionalismoèunveronaturalismo.—Delsovrannaturale: sua definizione. — Necessità
di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Pos- sibilità e convenienza morale del
miracolo. — Universalità dell’ ordine sovrannaturale. — L’Idea cristiana è
universale, come l’Idea della ragione. — Nullità sintetica c filosofica dei
moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è la religione universale. — Non si
può mettere in ischiera cogli altri culti. — Sua singolarità. — Le false
religioni non distruggono l’universalità del Cristiane- simo. — Accordo di
questo colla civiltà crescente di ogni tempo. — Si confuta una sentenza dello
Strausse. — Le false religioni sono le sole, che debbano temere dei progressi
civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non sottoslà alla coltura più
squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è una barbarie attillata. —
Delle prove interne della rivelazione. — Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. —
La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della Bibbia risulta
dalla perfezione deli’ Idea, che vi è rappresentata. — Oscurità della Bibbia in
alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai lavori smerdici
dell’ in- gegno umano. — Concorso c predominio delle prove esterne od interne
della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspi- razione dei libri
sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni
dei razionalisti. — L’ ermeneutica Digitized by Google TAVOLA E
SOMMARIO. 463 di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela-
zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei popoli. — Eccellenza delle
nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli giapetici : loro divario dai
Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ; conservatori dell' Idea
perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo. — Della scienza acroamatica
ed esso- terica. — Fondamento naturale, e universalità di questa distin-
zione.—Della ordinazione civile e religiosa degl’ Israeliti. — Oltre la
dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica e
tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa distinzione presso il popolo
eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la scienza acroamatica degl’
Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e dell' essoterismo è la sola
variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea rivelata. — Perchè Mosè non
abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità degli animi umani.—Gli Ebrei non
tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e il dogma della ri- surrezione. —
Del sensismo proprio dei razionalisti. — Falsità del loro metodo nel cercare
l’origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina
essoterica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti
e i Gentili. — Del figuralismo ebraico. — Non è un trovato recente degl’
Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle institu-
zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il letragramma, erano il nesso della
scienza acroamatica ed essoterica presso gl’ Israeliti. 1ì>5 CAPITOLO
SETTIMO. OEll’ ALTERAZIONE (IELLA EOREOLA IDEALE. lai barbarie non fu lo stato
primitivo degli uomini. — La storia delle religioni non comincia dal sensismo.
— Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la cultura
primi- tiva. — Vicende civili delle nazioni. — Cinque forme successive di stato
e di reggimento politico. — Anomalie storiche nell’ effet- Digitìzed by
Google 404 TAVOLA E SOMMARIO. luazione di esse. — Del patriarcato. —
Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei sacerdoti : sua
legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto l'imperio
ieratico. — I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. — Effetti
salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. — Il sacerdozio
conservò le reliquie dell’antica dottrina acroamatica fondò l’essoterica. — In
che modo la mitologia e la simbolica po- tessero esser opera della moltitudine.
— La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari
indirizzi della filoso- fìa gentilesca. — Riscontri dell' antico e del nuovo
paganesimo. — Vari gradi, per cui passò l’alterazione della formola ideale :
oscurità , confusione , dimezzamento e disorganazione. — Ca- gioni dell'
alteramente : predominio del senso e della fantasia ; influenza del linguaggio
sull’idea, c dell’ essoterismo sull' acroa- matismo ; dispersione dei popoli, e
perdita dell’ unità universale. — Del culto dei felissi. — Di un doppio moto
contrario, regres- sivo e progressivo, delle instituzioni religiose. —Esempi. —
Quattroepochedellacognizioneideale: intuitiva,immaginativa, sensitiva e
astrattiva. — Se nel vario e successivo alterarsi della formola, si mantengano
i suoi tre membri, c come?— Tavola delle trasformazioni ontologiche della
formolo ideale, corfispondenti ai rari stati psicologici dello spirito umano. —
Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca intuitiva; come l’uomo ne sia sca-
duto. — Il mal morale consiste nella negazione del secondo ciclo creativo. —
Dei mezzi sovrannaturali per conservare Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo
fu l’occasione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del
naturalismo fantastico c dell’ emanatismo propri di questa epoca. —Indole poco
scientifica dell’ emanatismo. — Sua formola. — Due sorti d’ emanatismo :
psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli emanatisti. — Della loro dualità
primordiale, c delle dualità successive. — Dell’ androginismo, e delle dee
madri ; loro connessione coll’ ema- natismo. — I fautori di questo sistema
confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei
due cicliditaldottrina: l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. —
Corrompe la morale, e introduce il pessimismo. — ; Digitized by
Google TAVOLA F. SOMMARIO. 16S Pelle varie età cosmiche, secondo i
inili di molti popoli Gentili. — Come l’ ottimismo e il pessimismo si accozzino
insieme nel sistema degli emanalisti. —Degli «talari, delle teofanie o logo-
fanie permanenti e successive, e delle apoteosi. — Come il sovrin - telligibile
si trovi alterato fra queste favole. — Del politeismo; nato dall'emanatismo. —
Sua indole, e sue varie forme. — Tutti i
popolipoliteisticonservanounareminiscenzadellaunitàideale. — Dell' idolatria :
sua natura. — Pel panteismo : è una riforma ieratica dell’ einanatismo. — Il
panteismo scientifico non poli- essere il primo sistema nella via dell’ errore.
— L’emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno
sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. —
Proprietà speciali del panteismo. — Universalità del panteismo nel regno
dell’errore. — Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di
progresso possa avere Terrore, — Varie forme del panteismo. — Della condizione
del sacerdozio dopo la rovina dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci
la filosofia laicale. — Dell’ ateismo. — Questo sistema non potè es- sere
anteriore al secondo periodo della filosofia secolaresca. — Si rigetta l’
opinione di un ateismo indico antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. —
Serbato in parte dai sacerdoti, c perduto affatto da' laici filosofanti, salvocliè
dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei tentativi
antichi c moderni, per rie- dificare umanamente il sovrintelligibile. — Si
conchiude, accen - nando brevemente il tema del secondo libro. 239 NOTE. Nota
prima. Sulle denominazioni moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del tempo
c dello spazio, secondo il processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e del
Malebranche sul tempo e sullo spazio. 30 380 Digitized by Google
ICO 4. 8. G. 7. 8. 9. 10. 11. 13. 13. 14. 18. 16. r* i* p £ 2L. 22. 23.
24. 28. 2G. 37. 28. TAVOLA E SOMMARIO. Della importanza, che la religione dà
alla vita tempo- rale. .188 Degli attributi divini ontologicamente considerati.
190 Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. .191 Errori
di un giornalista francese sull’ amor di Dio. 393 influenza della colpa
primitiva in tutte le parti del pensiero e dell’ azione umana. 405 Dei vari
sistemi sulla natura delle esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406 Sugli
assiomi di finalità e di causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli Stali
Uniti. 412 Se l’ abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire
al Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi particolari.
410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può dimostrare
l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih. Sulla voce
ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424 miracoli
posteriori Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del Malehranchc
sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla rivelazione. 430
Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri- surrezione dei morti. 431
Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’
esistenza degli angeli. Ib. 1 razionalisti confondono la dottrina acroamaliea
colla essoterica. 444 Sul fatto di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti,
-toma, mito e simbolo zcndico. 445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla
religione, e non Digitized by Google TAVOLA E SOMMARIO. 467
L’antropomorfismo è il psicologismo essoterico. 446 Del panteismo ili Ulrico
Zuinglio. Ih. Passi dello Spinoza conformi alle dottrine del raziona- lismo
teologico. Sul psicologismo degli eretici. Convenienze della dottrina pclagiana
col sensismo, col psicologismo e col fatalismo. 4SI 4SS AMDELLE CONVENIENZE
DELLA FORIOLA IDEALE COLLA RELIGIONE RIVELATA. Scusa dell’ autore. — Il
sovrintelligibile e il sovrannaturale sono i due perni della religione. —
Analisi del primo. — Si escludono le false origini, che si possono assegnare al
concetto, che Io rap- presenta. — Della sovrintelligenza. — In che consista la
natura speciale di questa facolti. — Sua analogia coll’istinto. — Del sen-
timento, che l’uomo ha delle sue potenze non esplicate. — Defi- nizione delia
sovrintelligenza. — Come il concetto negativo del sovrintelligibile nasca da
questa facoltà. — Obbiettività del so- vrintelligibile ; adombrata dalla
filosofia orientale. — Analogia del sovrintelligibile col numeno di Emanuele Kant
: sbaglio del criticismo. — Dei sovrintelligibili naturali. — Attinenze del so-
vrintelligibile cogl’ intelligibili. — Come il sovrintelligibile debba essere
riconosciuto e rispettato dalla filosofia. — Dei sovrintelli- gibili rivelati.
— Loro importanza, e armonia coi dogmi razio- nali. — I sovrintelligibili della
rivelazione hanno un margine indeterminato. — Del sovrannaturale. — In che
consista, e sue attinenze colla formula. — Connessione del suo concetto colla
magia dei popoli pagani. — Varie spezie di sovrannaturale. — Necessità dell’
idea di sovrannaturale per la filosofia della storia : sua importanza per la
filosofia in genere. — Il sovrannaturale appartiene al secondo ciclo creativo :
sue relazioni con esso. — Dimostrazione a priori della realtà dell' ordine
sovrannaturale. — L’ alterazione di quest' ordine costituisce il regresso. —
Della 484 TAVOLA E SOMMARIO. forinola sovrannaturale : sua
corrispondenza colla razionale. — Del ciclo cristiano : sua risoluzione. —
Della Chiesa ; com' ella sia il perno dell’ incivilimento. — Del sincretismo
delle sette cris- tiane eterodosse, e della idolatria rinnovala per opera loro.
— Confutazione di un passo del sig. Guizot sull’ unità religiosa. — Della
superstizione : in che consista. — Del processo a priori della fede cattolica.
— Due cicli rivelativi corrispondenti ai due cicli creativi. — Necessità della
fede per ben filosofare. — La fede sola colloca l’uomo nel suo stato naturale.
—Ragionevolezza della disciplina cattolica. — L’ educazione ideale è impossibile
fuori di essa. — Lo scetticismo esclude la vera grandezza, anche umana, dell’
ingegno. — La fede è libera, e in ciò consiste il suo
merito.—Tredotidellafedecattolica, utilissimeall'uomoeal filosofo. — Efficacia
di questa virtù, per avvalorare l' ingegno on- tologico. — Quanto all’ abito
ontologico conferisca la credenza del sovrannaturale. — Tutte le virtù
teologali influiscono profit- tevolmente nell’ uomo pensante e operatore. —
Della vera misti- cità, e sue differenze dalla falsa. — Empietà dell’ autonomia
razionale. — Necessità della fede per la conservazione dei princi- pii ideali.
— L’ incredulità moderna è la cagione precipua della debolezza degli animi c
degl’ingegni. — Utilità dei misteri in genere per l’abito filosofico. — Si
considerano, per questo ris- petto, alcuni misteri in particolare. — Della
predestinazione, e della eternità delle pene. — Della inviolabilità scientifica
della teologia. — Di certi novellini teologi, e della temerità loro. —
L’invenzione nelle cose ideali è impossibile. — Della giovinezza perpetua del
Cristianesimo cattolico. — Di una certa classe di gementi, che credono morta o
moriente la religione : si combat- tono i loro timori. — Della larghezza dell’
Idea cattolica : sua utilità per le scienze in generale. — Necessità della
filosofia per far fiorire la teologia, come scienza — La teologia e la
filosofia hanno bisogno l’una dell’altra. — Delle cagioni, per cui la teo-
logia cattolica c scaduta dal suo antico splendore. — Il clero cat- tolico dee
essere un concilio di sapienti. — Dee coltivare special- mente le scienze
filosofiche. — Dell’ acroamatismo ieratico, ch'egli si dee proporre. — I laici,
che coltivano la filosofia, debbono Digitized by Google TAVOLA E
SOMMARIO. 435 incominciare una nuova era razionale, sotto la sovranità
intellet- tiva della Chiesa. — La filosofia eterodossa, che regnò finora, è
morta per sempre. — Si concbiude il capitolo e il primo libro, esortando gl'
Italiani a intraprendere l’ instaurazione delle scienze speculative. 2. 5. 4.
5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 1S. 13. Sulla voce essenza. 15I Del sovrintelligibile
presso i filosofi eterodossi. 161 Attinenze del sovrannaturale col
sovrintelligibile. 16£ Del sovrannaturale iniziale c finale del Cristianesimo.
16i Del sovrannaturale transitorio o continuo. 1615 Su alcuni passi del sig.
Guizot. 166 Sopra un cenno teologico del sig. Nisard. 175 Sul fatto morale
della giustificazione. 174 Sulle varie epoche filosofiche della storia. 176
Delle idee pure. 178 Sul valore teologico dei razionalisti tedeschi. 179 Il
decadimento della filosofia prova la verità del cat- tolicismo.Grice: “Italians
find it harder than the Germans to conceal their nationalism. Hegel is studied
everywhere, but Gioberti is felt to be TOO Italian, and he is. There are not
two sentences in Gioberti that do not mention Italy! Hegel could philosophise
on being (the absolute being is the King of Prussia) – but philosophers
elsewhere took his remarks in a generalized way, not a German way. Unlike with
Gioberti, who cannot hide his ‘italianita’. The fact that Mussolini wrote on
him did not help. And that, along with Gentile, and the Italian mainstream
intelligentsia, the Italian risorgimento is only a stone’s throw away from
Fascism!” Grice: “Lorenzo Giusso, whom I like, wrote a bio of Gioberti which I
thought the best, it’s in Vita e Pensiero, and in the series, “UOMINI DEL
RISORGIMENTO” Gives him sense!” -- Vincenzo Gioberti. Gioberti. Keywords: del
bello, estetico, il bello, metessi, implicatura metessica – mimesi – Plato on
mimesis and metexis, protologia, ontologismo, statua all’aperto, Milano – nella
serie uomini del risorgimento, bruno, gentile. -- Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Gioberti," per Il
Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757919514/in/datetaken/
Grice e
Gioia – filosofia ad uso de’ giovanetti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Piacenza).
Filosofo. Grice: “I joked with the maxim, ‘be polite’ – surely it’s difficult
to make that universalisable into the conversational categoric imperative (‘be
helpful conversationally) – but apparently Italians are less Kantian than I
thought!” -- Grice: “I love Gioia; he is like me, an economist when it comes to
pragmatics – see my principle of ECONOMY of rational effort; I studied
thoroughly his fascinating account about the origin of language, before I
ventured with my pritological progressions!” Dopo gli studi nel Collegio
Alberoni veste l'abito talare, mantenendo tuttavia un orientamento di pensiero
tutt'altro che ortodosso tanto in filosofia, per l'influenza dell'utilitarismo
di JBentham, dell'empirismo di Locke e
del sensismo di Condillac, quanto in teologia per l'influenza del pensiero
di Giansenio. Il suo interesse si rivolge ben presto anche alle questioni
politiche. Vince il concorso bandito dalla Società di Pubblica Istruzione di
Milano sul tema "Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità
d'Italia", alla quale partecipano 52 concorrenti. La sua dissertazione, in
cui sostiene la tesi di un'Italia libera, repubblicana, retta da istituzioni
democratiche e basata su comuni elementi geografici, linguistici, storici e
culturali, prefigura, come la maggioranza di quelle presentate, l'unità
italiana, benché questa tesi non sia gradita ai francesi che in quel periodo
occupano il nord Italia. La notizia del premio ricevuto gli giunge però in
carcere. Nel frattempo è stato arrestato con l'accusa di aver celebrato a scopo
di lucro più di una messa al giorno, anche se sono in realtà le sue idee
politiche giacobine a renderlo inviso all'autorità. Viene scarcerato grazie,
forse, alle pressioni di Bonaparte, e ripara a Milano. Il Trattato di
Campoformio, con la cessione di Venezia ad Austria da parte della Francia in
cambio del riconoscimento austriaco della Repubblica Cisalpina, lo spinge però
ben presto a diventare oppositore della Francia. Dopo aver rinunciato al
sacerdozio, si impegna nella professione giornalistica fonda "Il Giornale
filosofico politico", stroncato dalla rigida censura austriaca per le
posizioni sempre più apertamente patriottiche che Gioja vi sostiene. Dalle
colonne del "Giornale Filosofico Politico" scrive una lettera aperta
al duca Ferdinando d'Asburgo-Este, in cui denuncia i danni patiti in carcere.
Bonaparte viene sconfitto dalle truppe austriache nella Battaglia di Novi
Ligure e Gioia viene arrestato nuovamente dagli austriaci, per essere
scarcerato in seguito alla vittoria francese a Marengo. Viene nominato
storiografo della Repubblica Cisalpina: l'anno successivo pubblica "Sul
commercio de' commestibili e caro prezzo del vitto", ispirato dai tumulti
per il rincaro del pane, e "Il Nuovo Galateo". Viene rimosso dalla
carica per le polemiche seguite alla pubblicazione e alla difesa del suo
trattato "Teoria civile e penale del divorzio, ossia necessità, cause,
nuova maniera d'organizzarla" L'apprezzamento per i suoi solidi e
realistici studi di economia e di statistica, ai quali sono prevalentemente
rivolti il suo interesse e la sua attività, gli valgono però la nomina alla
direzione del nascente Ufficio di Statistica: in questa veste inizia una
febbrile attività fatta di studi corredati da tabelle, quadri sinottici,
raffronti demografici, causa di nuove ed accese polemiche e della rimozione
dall'incarico. Tale attività gli rese uno dei primi studiosi ad applicare i
concetti di Statistica alla gestione economica dei conti pubblici (ad esempio
per le tasse, gabelle, e così via). Grazie alle sue conoscenze statistiche
ed economiche elabora concetti fortemente innovativi per l’epoca che ne fanno
il precursore del moderno dibattito giuridico in materia di risarcimento del
danno alla persona con una concezione che supera la questione
patrimoniale. Notissima in medicina legale la sua regola del calzolaio,
che anticipa il concetto di riduzione della capacità lavorativa
specifica: "...un calzolaio, per esempio, eseguisce due scarpe e un
quarto al giorno; voi avete indebolito la sua mano che non riesce più che a
fare una scarpa; voi gli dovete dare il valore di una fattura di una scarpa e
un quarto moltiplicato per il numero dei giorni che gli restano di vita, meno i
giorni festivi..". E ancora, seppur meno noti, concetti
come: "Ne' casi d'indebolimento o distruzione di forze industri,
considerando il soddisfacimento come uguale al lucro giornaliero diminuito
o distrutto, moltiplicato per la rimanente vita utile dell'offeso, noi restiamo
molto al di sotto del valore reale, giacché una forza umana può essere
riguardata come Mezzo di sussistenza Mezzo di godimento Mezzo di bellezza Mezzo
di difesa Filosofia della Statistica (libro originale) “Rendendo
paralitico, per es., l'altrui braccio destro o la mano, voi togliete al musico
il mezzo con cui si procura il vitto divertendo gli altri, al proprietario il
mezzo con cui si sottrae alla noia divertendo se stesso, alla donna il mezzo
con cui gestisce e porge con grazia, a chiunque il mezzo con cui si
schernisce da mali eventuali difendendosi". Si tratta di principi
rivoluzionari per l’epoca, forse frutto di quel particolare mix di cultura che
deriva dalla sua formazione che inizia da sacerdote e approda a concezioni
rivoluzionarie; è il primo che riesce a prefigurare nell’uomo non solo una
sorta di macchina che produce reddito, ma anche un soggetto che attraverso
il lavoro realizza la propria personalità. In Italia oltre un secolo e
mezzo dopo, negli anni ’80 del novecento, in sede giuridica inizierà il
dibattito sul superamento del risarcimento del mero danno patrimoniale per
tener conto degli aspetti relazionali e dinamici della persona riassunti nel
concetto di danno biologico. Sul filone di queste tematiche gli veniva
intestata a Pisa un'ssociazione scientifica medico giuridica che raccoglie
giuristi, medici legali e assicuratori. Il "Nuovo Galateo" Testo
fondamentale nella storia dei Galatei, il "Nuovo Galateo" di Gioja fu
scritto per contribuire alla civilizzazione del popolo della Repubblica
Cisalpina. Il testo conosce ben tre edizioni. La prima si sofferma in
particolar modo sulla definizione laica di "pulitezza" – cf. Grice,
‘be polite’ -- intesa come ramo della civilizzazione, arte di modellare la
persona e le azioni, i sentimenti, i discorsi in modo da rendere gli altri
contenti di noi e di loro stessi. È divisa in tre parti: "Pulitezza
dell'uomo privato", "Pulitezza dell'uomo cittadino",
"Pulitezza dell'uomo di mondo". Nella seconda edizione, Gioja
ridimensiona il concetto di "pulitezza" come l'arte di modellare la
persona, le azioni, i sentimenti, i discorsi in modo da procurarsi l'altrui
stima ed affezione. La vecchia ripartizione è sostituita da: "Pulitezza
Generale", "Pulitezza Particolare", "Pulitezza
Speciale". Nella terza edizione risale, a differenza dell'edizioni
precedenti, enfatizza l'importanza del concetto di "ragione sociale",
considerato dall'autore il fondamento etico del galateo che avrebbe portato
felicità e pace sociale mediante le buone maniere. Fu membro della Loggia
massonica "Reale Amalia Agusta" di Brescia, che prese il nome dalla
moglie del principe Eugenio di Beauharnais, primo Gran Maestro del Grande
Oriente d'Italia. A lui è intestata la loggia N. 1114 di Piacenza
all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia. Crollato il dominio napoleonica,
Gioja produce le sue opere maggiori: il "Nuovo prospetto delle scienze
economiche”; il trattato "Del Merito e delle Ricompense"; "Sulle
manifatture nazionali"; "L'ideologia". Gli ultimi tre libri
vengono messi all'Indice e il suo fecondo lavoro è interrotto da un nuovo
arresto per aver cospirato contro l'Austria partecipando alla setta carbonara
dei "Federati". Dopo quest'ultima peripezia, nonostante i
sospetti da parte del governo austriaco, ha finalmente davanti a sé qualche
anno di serenità e compone la sua ultima opera, "La filosofia della
statistica.” Nel cimitero della Mojazza fra tante ossa ignorate dormono senza
fasto di mausoleo le ceneri di Melchiorre Gioia. Prende il suo nome il Liceo
Classico di Piacenza. Rosmini, suo avversario in politica come in
religione, lo accusò di pretendere di proporre un codice morale, fondato su
principi palesemente opportunistici, mentre con disinvoltura richiedeva sussidi
e regali dai titolari del potere politico per elogiarne le benemerenze nelle
proprie pubblicazioni periodiche, e lo dichiara pubblicamente un
"ciarlatano". Altre opera: Del merito e delle ricompense, 2, Filadelfia, s.n., Riflessioni sulla
rivoluzione. Scritti politici, Nuovo Galateo, Il Nuovo prospetto delle scienze
economiche, Distribuzione delle ricchezze, Milano, presso Gio. Pirotta in santa
Radegonda, Melchiorre Gioia, Produzione delle ricchezze, 2, Milano, presso Gio. Pirotta in santa
Radegonda, Consumo delle ricchezze, Milano, presso Gio. Pirotta in santa
Radegonda, Melchiorre Gioia, Azione governativa sulla produzione,
distribuzione, consumo delle ricchezze,
2, Milano, presso Gio. Pirotta in santa Radegonda, Sulle manifatture
nazionali, Dell'ingiuria, dei danni, del
soddisfacimento e relative basi di stima avanti i tribunali civili.
L’Ideologia. Filosofia della statistica. Note: Francesca Sofia nel Dizionario
Biografico degli Italiani. Ettore Rota
nella Enciclopedia Italiana, Cfr. Solmi, L'idea dell'unità italiana nell'età di
Napoleone in Rassegna storica del Risorgimento, Fonte: Francesca Sofia,
Dizionario Biografico degli Italiani, rTreccani L'Enciclopedia Italiana,
riferimenti in. Vittorio Gnocchini,
L'Italia dei Liberi Muratori,Mimesis-Erasmo, Milano-Roma, Ignazio Cantù,
Milano, nei tempi antico, di mezzo e moderno: Studiato nelle sue vie;
passeggiate storiche, Antonio Saltini, Maria Teresa Salomoni, Stefano Rossi,
Via Emilia. Percorsi inusuali fra i comuni dell'antica strada consolare, Il
Sole, Barucci, Il pensiero economico di Gioia, Milano, Giuffre, Manlio
Paganella, Alle origini dell'unità d'Italia: il progetto
politico-costituzionale di Gioia, Milano, Ares,Dizionario Biografico degli
Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Nicola Pionetti,
Melchiorre Gioia: il progetto politico per un'Italia unita e repubblicana,
Piacenza, EdizioniLir,. Luisa Tasca, Galatei. Buone maniere e cultura borghese
nell'Italia dell'Ottocento, Firenze, Le Lettere, Gioia (metropolitana di
Milano). Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. MEnciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Melchiorre Gioia, in Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. fare alcun
cangiamentosenza indebolirla. Egli previene così i suoi lettori contro ogni
idea di riforma, e svolge nel loro avimo un timor macchinale cootro ogoi
innovazione delle leggi. In generale tutte le metafore, i paragoni, le parziali
analogie,lesomiglianze superficiali non possono far breccia che nell'animo del
volgo;agli occhi del filosofo i paragoni non sono ragioni; essi possono
schiarire una proposizione , provarla mai. CAPO VII. Parlare. Abbiamo veduto
che le macchine sono utili e necessarie al chimico, i telescopiall'astronomo, i
disegni al meccanico, le figure al geometra. Le parole sono forse egualmente
utili, egualmente necessarie all'esercizio del pensiero? Tre oggetti simili mi
si presentano facilmente allo spi rito, dice Condillac; se passo al quarto,
sono obbligato, per maggior facilità, d'immaginare due oggetti da una parte,
due dall'altra ; se voglio fissarne sei, fa duopo che li distribuisca due a
due, o tre a tre; crescendo questi oggetti, la mia vista si confonde, io non
posso più numerarli.Al contrario, se dopo d'averne considerato uno gli unisco
un altro, e a questa unione appongo il nome due; se a questi aggiungo un
terzo,ed allanuova unione appongo ilnome tre,ecosi di seguito, caratterizzando
con parole distinte ogni aumento progressivo d'unità, arriverò ad annoverare
moltissimi oggetti facilmente. Alla stessa maniera,se ogoi volta che voglio
pensare ad una persona,sono costretto a richiamarmi ad una ad una tutte le sue
qualità, onde non confonderla con un'altra , Le note tracciate sulle
carte di musica rappresentano i suoni che si eseguiscono daglistrumenti; le
parole pronun ciate o scritte rappresentano le idee che si piagono bel l'animo.
1 mi troverò nel massimo imbarazzo.Siano,a cagione d'esem pio,come
segue,lequalitàd'una persona: Fisiche= Sessomaschile,anni20,capellibiondi,
fronte alta, cigli biondi, occhi neri, naso lungo, bocca grande, meoto
prominente,marca nera sulla guancia destra, mano sinistra storpia,piede destro
zoppo,linguaggio balbettante, accento francese. Morali=
Melanconia,dissolutezza,mancanzaallepro messe, viltà,abitudine alla menzogoa,
jocostanza .... Civili= Patria,Rodez inFrancia,condizione,awmo gliato,
professione, possidente... Se la mia attenzione deve afferrare tutte queste
idee alla volta, si troverà insufficiente al bisogno; molto maggiore si farà la
difficoltà, se per pensare nel tempo stesso ad altra persona , sono costretto a
schierarmi avanti alla mente con egual melodo tutte le qualità che la
caratterizzano. Se al contrario chiamo la prima Pietro, la seconda Paolo ,
potrò facilmente richiamarmi l'una e l'altra, distinguerle tra di loro,
paragonar!e insieme.... Queste parole sono poi ancora più necessarie,allorchè
si vogliono esprimere le qualità comuni a molti oggetti, a cagiode d'esempio,
le qualità che si trovano in tutti gli u o miniod
intuttiglianimali,ilchecostituisceleideeastratte, come
sidissedisopra,ovveroallorchèsivoglionoesprimere gli oggetti creati dalla nostra
mente, come le idee di gloria, d'iofamia , di virtù, di vizio ... Sebbene
quando pronuncio le parole uomo , animale. non mi si schiarino alla mente tutte
le idee elementari che bo unito a queste parole , cionnonostante ne veggo
il 140 TEORIA DELLA SENSAZIONE porto, ne seolo le differenze, ne scorgo
le somiglianze, alla stessa'maniera che sebbene pronunciando i numeri 100,000 e
10,000 non vegga le unità che li compongono , so però che l'uoo sta all'altro
come 100 a 10, ovvero come to a 1, e conoscendo la maniera con cui questi
dumeri sono stati formali,posso,ogni voltache voglio,separarne lemaggiori masse
, scendere alle minori , per arrivare alle minime e fi. palmente agli
elementi.Supponete che per isbaglio qualcuno invece di dire che 1000 è decuplo di100
,dica che 100 ė decuplo di 1000 ; ben tosto l'abitudine chenoi abbiamo
acquistata d'attribuire a queste parole certe relazioni tra di esse,agisce
sulloro suono, e cifa scorgere all'istante l'as surdità dell'accennata
proposizione. Il linguaggio si è per rap 141 noi come quelle
traccie che il piede del viaggiatore imprime sull'arena di un vasto deserto, le
quali lo guidano, quand'egli voglia,al punto doode parti. Le parole che nella
loro origine eranonomi propri, diveonero insensibimente nomi appellativi. Può
in conse guenza accadere in forza delle associazioni ideali e sentimen taliche
uo nome generalerichiami uno degli individui ai quali s'applica. Ma lungi che
ciò sia necessario alla forza del raziocinio, è sempre una circostanza che
tende ad illu derci.Si può paragonare uno spirito che ragiooa ad un giu d i c e
c h e d e v e d e c i d e r e t r a c o n t e n d e n t i. S e i l g i u d i c
e n o n conosce se non le loro relazioni al processo,s' egli ignora i loro pomi
, s'egli li designa per lettere dell'alfabeto o pe’no mi
fittizidiTizio,Cajo,Sempronio,eglièquasinecessaria mente imparziale.Cosi in una
serie di ragiopanenti noi cor riamo medo rischio diviolare le regole della
logica,allorchè la nostra attenzione si fissa sui semplici segni,e quando l'im
maginazione, presentandoci oggetti individuali, non esercita sulnostro giudizio
la sua influenza e non viene a sedurci con accidentali associaziooi. Le parole
facilitano vie maggiormente l'esercizio del pen siero, 1.° Quando il loro suono
imita il suono della cosa espressa , come sono le parole belato,
cigolio,scricchiolare. Anche le parole tracotante, orgoglioso, baldanzoso ....
colle vocali piese rinfiancate dalle acconce consonanti,e colla moltiplicità
delle sillabe spirano una cerla audacia di suono analoga all'indole
dell'oggelto che esprimono ; 2.° Quando accennano l'uso o la proprietà della
cosa indicata; cosi Fieberrinde o scorza della febbre nel linguag gio tedesco,
che accenna l'uso e laproprielà di questo ve getabile , é preferibile alla
parola Quin-quina. Per la stessa r a g i o n e l e p a r o l e c u i il n u o v
o s t i l e i n d i c a v a i m e s i n e l l ' a n n o , avevano più pregi che
quelle dell'antico: fiorile ossia il mese d e ' f i o r i, v e n d e m m i a t
o r e o s s i a il m e s e d e l l a v e n d e m m i a , e r a n o nomi ben più
espressivi che maggio e oltobre.... ATTENZIONE ERAZIOCINIO. Al contrario,
allorchè si dà il nome di Pino del Nord al'alberoprezioso
chetuttelenazionimarittimeriguardano come migliore per le alberature , si fa
supporre che questi bei pininon possono crescere s e donne'climi glaciali,
mentre trovansi nella Lituania,in altre provincie più meri dionali, in quelle
stesse i cui fiumi corrono verso il Mar Nero. La parola Gallo
d'India rammentando che questo ani male è natio d'America, fu ignolo ai Romani
, venne uel l'Europa oel 16.° secolo, è per più titoli preferibile all'insi
gnificante parola pollo. Coquetterie infrancese(civetteria)rappresentaalvivo
ilcarattere d'una donna galante, che tiene a bada mille amanti,a guisa d’no
gallo che vezzeggia cento galline ad un tempo (1). Al contrario allorchè gli
antichi chimici ci parlavano del fegalo di zolfo, del butirro d antimonio dei
fiori di zinco .... spingevano il pensiero sopra immagini non applicabili agli
oggettiche volevano iudicare; 3.° Quando le parole serbano tra di esse un cerlo
rap porto costante,come leparole quaranta,cinquanta, sessan
ta,sellanta,Ollanta,novanta,ciascuna dellequaliavendo la stessa desinenza , è
formata dalla moltiplicazione del fat. comune dieci, ne'numeri naturali
quattro, cinque, sei....dello stesso ordine progressivo de numeri nalurali.
Siano i nomi delle nuove misure Myriametro uoilà di Kilometro unità di
Ectometro unità di (2) L'influenza del linguaggio sulle operazioni del pensiero
si scorge sulla nazione chinese ; la quale , a fronte delle altre
incivilite, 142 TEORIA DELLA SENSAZIONE 0.01 di metro Centimetro unità di
0.001 di metro Si vede che dalla massima alla minima misura v'è una pro.
gressione decrescente che segue la stessa legge, di modo che essendo data una
di esse, si possooo ritrovare le prece deotie
lesusseguenti.Alcontrarioleantichemisuredipo
sla,lega,lesa,pertica,passogeometrico,passo ordinario,
braccio,auna,piede,pollice,linea,punto....non es sendocrescentio decrescentinellastessaproporzione,D00
aveodo tra di esse rapportocomune, confondono la m e m o ria ( V. p. 80 , 81 ),
e colla notizia d'una di esse non si può giungere alla cognizione
d'alcun'altra;dicasi lo stesso dellealtremisure ede'pesi puovi ed antichi,calcolati
iprimi in ragione decupla e costante, i secondi senza nessuna ra gione graduata
e regolare (2). (1) Cesarolti. tore Decimetro unità di 0.1 di metro Metro upità
di 10 metri 10,000 metri 1,000 metri Decametro 100 metri unità di
ATTENZIONE E RAZIOCINIO. 143 diritla,ne avrò ildoppio in questa.Dimando
qual è il u nunero de'gettoni che avevo da principio in ciascuoa 6 mano? « Qui
si banno due condizioni note, o , per parlare « come i malematici, due dati;
l'uno, che se fo passare 6 un gellone dalla diritta alla sinistra , ne avrò
egual o u u mero in ambe le mani ; l'altro che se lo fo passare dalla «
sinistra alla diritta, ne avrò il doppio in questa. Ora roi
«vedete,che,s'eglièpossibiletrovareilnumero ch'iovi u dimando , ciò non può
farsi, se non osservando le rela « zioni che haono i dati fra loro; e
comprendete che tali « relazioni saranno più o meno sensibili, secondo che i
dali « saranno espressi in un modo più o meno semplice. quan u do le si toglie
un gellone , è eguale a quello che avete u nella sinistra, quando a lei se ne
aggiunge uno , esprime « reste il primo dato con molte parole. Dite dunque più
ubrevemente:ilnumero dellavostradestra,scemalod'una unità,è uguale a quello
della sinistrapiù un'unilà;ov « vero:ilnumero della destra meno un'unità è
uguale a si può dire quasi barbara, sottomessa ai pregiudizi più assurdi, sta
zionaria da più secoli,altesa l'imperfezione della sua lingua.Mentre le nostre
liogue d'occidente e le più belle d'oriente riproducono lulle leparole con un
solo numero di lettere diversamente combinate , nella lingua chinese, quasi
ciascuna parola ha il suo segno partico lare; lo studio della scrittura esige
quindi un tempo infinito. L'in certezza e l'indeterminazione del senso delle
parole passando a vi cenda dal linguaggio orale alla scrittura,dalla scrittura
al linguaggio orale, producono una confusione da cui i più dotii possono appena
schermirsi colla più grande fatica.Egli è evidente che siffattalingua non è
buona che a perpetuare l'infanzia d'un popolo , desaligando seoza 'frutto le
forze degli spiriti più distinti, ed offuscando nella loro sorgente ipriini
Jampi della ragione. Gioja. Elein, di filosofia. « Se voi diceste : il numero
che avete nella destra 4. Acciò il discorso faciliti l'esempio del
pensiero,è necessario che sia minimo il numero delle parole,invariabile
l'oggetto indicato,precisata, ovunque è possibile, la quantità · trarrò
l'esempio da Condillac: isAvendode'gelloninellemiemani,senefo passar « uno
dalla mano dirilla alla sinistra, ne avrò tanti nell'una « quanti nell'altra; e
se nefo passar uno dalla sinistra alla « Non si tratta d’indovinare codesto
qumero , facendo « delle supposizioni ; bisogna trovarlo ragionando e passando
« dal cognito all'incognito per uoa serie di giudizi. 11 quello della
sinistra più un'unità ; o infine ancor più bre «vemevle:ladestraweno
unoegualeallasinistrapiùuno. pio in questa. Dunque il numero della mia sinistra
sce malo d'una unità è la metà di quello della destra accre « sciuto d'una
unità; e per conseguenza esprimerete il se « condo dato dicendo : il numero
della vostra mano diritta « accresciuto d'una unità è uguale a due volte quello
della 6 vostra sioistra scemato d'una unità. « Tradurrete questa espressione in
un'altra più sem “ plice , se direte : la destra accresciuta d'un'unità è
uguale « a due sinistre scemate ciascuna d'uu’unità ; e giungerele “ a questa
espressione la più semplice di tutte : la dirilla « più uno uguale a due
sinistre meno due. Ecco dunque le « espressioni, alle quali abbiamo ridotti i
dati : u Questa sorta d'espressioni chiamasi equazioni in m a «tematica.Sono
compostediduemembriuguali.Ladirilla u m e n o u n o è il p r i m o m e m b r o
d e l l a p r i m a e q u a z i o n e : l a « sinistra più uno, il secondo. «
Le quantità incognite sono inescolate alle cognite in 6 ciascuno di questi
membri. Le cogoite sono meno uno più uno , meno due : le incognite sono la
diritla e la sini “ sira, coo cui espriaiete idue numeri che andate cercando. «
Finchè le cognite e le incognite sono cosi mescolate w in ogni membro delle
equazioni,non è possibile risolvere u ilproblema.Ma nou v'è bisogno d'un grande
sforzo du « riflessione per osservare, che se vba un mezzo di traspor “ tare
lequantità d'un membro all'altro, senza alterare « l'eguaglianza che passa tra
loro, possiano , bon lasciando « in un membro che una sola delle due incogaite;
sepa “ l'arla dalle cognite, colle quali è mescolala. Questo mezzo si preseula
da sè stesso; perchè se la « diritlameno uno è uguale alla sinistra più uno,
duoque 144 TEORIA DELLA SENSAZIONE « Per tal guisa di traduzione in
traduzione arriviamo « alla più semplice espressione del primo dato. Ora quanto
« più abbreviarete il vostro discorso, più si ravvicioeranno « le vostre idee,e
quanto più saraono vicine, più vi sarà « facile di conoscere tutte le loro
relazioni. Ci resla a tral * tare il secondo dato come il primo , e bisogna
tradurlo u nella più semplice espressione. « Per la seconda condizione del
problema, s’io fo pas “ sare un geltone dalla sioistra alla diritta, ne avrò il
dop « La diritta meno uno uguale alla sinistra più uno. « La dirilta più uno
uguale a due sioislre meno due. ATTENZIONE E 'RAZIOCINIO. 145 « La
diritta uguale alla sinistra più due. « La diritta uguale a due sinistre meno
tre. « li primo membro di queste due equazioni è laslessa quantità; la dirilta;
e vedete che conoscerete questa quan lità, quando conoscerete il valore del
secondo membro e dell'altra equazione. Ma ilsecoodo membro « della prima è
uguale al secondo della seconda , poiché « sono uguali l'uno é o altro alla
stessa quantità espressa “ dalla dritta; duoque potete formare questa terza
equa u ziove: « La sinistra più due uguale a due sinistre meno tre. « Due più
tre uguale a due sinistre meno una sinistra. « Due più treuguale ad una
sinistra. “ Cinque ugualead una sinistra. « Il problema è sciolto. Avete
scoperto che il numero de'geltooi che ho nella mano sinistraè cioque.Nelle equa
u zioni , la diritta uguale alla sinistra più due , la diritla uguale a due
sinistre meno tre, troverete che sette è il nu 6 Inero chc ho vella diritta.
Ora questi due numeri cioque 6 e sette,soddisfanno alle coodizioni del
problema. quando un problema è così facile,come quello scioltopur 6 ora, essa
ne abbisogna maggiormeote, quando iproblemi 66 65 56 dell'una « la diritla
jolera sarà uguale alla sinistra più due: e se la “dirittapiùunoèugualeadue
sinistremeno due,dun « que la diritta sola sarà uguale a due sinistre meno tre:
« Sostituirete dunque alle due prime le due seguenti equa zioni. 6.Allora non
vi resta che una incognita, la sinistra, e a ne conoscerele il valore , quando
l'avrete separata, vale a » dire,falte passare tutte lecogoite dalla stessa
parte. Di - rete dunque Voi vedete sensibilmente in queslo esempio come la
asemplicitàdelle espressionifacilitailraciocinio,ecom ú prevdele che se
l'analisi ha bisogno di tal linguaggio sono complicati. Così il vantaggio
dell'analisi nelle male 6 m a t i c h e n a s c e u n i c a m e n t e d a l p a
r l a r e s s e il l i n g u a g g i o p i ù “ semplice.Una leggiera idea
dell'algebra basterà per farlo 6 ipleadere » (1). (1) « In questa lingua non si
ha bisogno di parole. Il più si «esprimecolseguoto,ilmeno cou--;iuguaglianzacon
« siindicaou le quantitá con lellere o citre:Ý , per es.,sarà ilnu 6 mero
de'geltoni che ho nella destra, e Y quello della sinistra. e Non
sarà fuoridi proposito l'osservare che non alla sola semplicità del linguaggio,
come pretende Coodillac , sonodebitricidellaloroperfezionelematematiche,ma
anche 1.o alla prudenza de'loro seguaci, la quale consiste nel rite nersi nei
limiti delle sensazioni e loro rapporti; 2. all'inva
riabilitàde’rapportitraglioggettidaessichiamatiad esa m e ; 3.o alla
possibilità di sottomettere le loro conclusioni alle verificazioni de'sepsi e
degli strumenti. Cominciamo dal 1.°:esistono degli oggetti estesi;ecco la
sensazione: glioggetti estesi possono misurarsi gli uni per gli altri; ecco
l'osservazione che produce la geometria. L'es. senza dell'estensione, gli
elementi che la compongono, s o n o indagini che i matematici abbandonano agli
oziosi metafisici, e quindi non si espongono ai loro errori. Dite lo stesso
delle altre quantità esaminate dai matematici. a « Cosi X – 1 = Y to 1,
significa che il numero de'gettoni che ho « nella destra, scemato d'un'unità è
uguale a quelloche ho nella asinistra,accresciutod'un'unità,e X41 =2Y
-2,significache « ilnumero della mia destra accresciuto d'un'unità è uguale due
volte a quello della mia sinistra diminuito di due vuità.Ï due dati « del
nostro ploblema sono dunque rinchiusi in queste equazioni: 5Y •FinalmentedaX =
Y+ 2,caviamoX = 5 to 2= X = 2 Y - capiamo egnalıneote X = 10 146 TEORIA
DELLA SENSAZIONE 2. « X fo 1 = 2 Y - 2 che diventano, separando l'incogoitadel
primo membro “Y +2= 2Y - 3 a che diventano successivamente 9 6X uX 2.Y -3 «
De'due ultimi menibri di queste equazioni facciamo 662 2Y "2*3=2Y-Y “2of3=
Y lamatematicanonvisonocircolipiùomeno ro tondi, linee più o meno
perpendicolari,superficie più o meno quadrate , la misura di tutti i triangoli
è uguale alla base moltiplicata per la metà dell'altezza....E quando un
rapporto come quello del diametro alla circonferenza,
cagiond'esempio,nonpuòessereespressoconesattezza i matematici continuano ad
essereesatii,additando la quan tità relativa all'uso che se ne debbe fare, e
che i seosi più 6X – 1 = Y to 1 66 Y+2 0 7;cda 3 ATTENZIONE E
RAZIOCINIO. 147 fini non potrebbero additare con precisione maggiore.I m a
tematici non dicono,ilcircolo sirassomiglia al triangolo come un oratore dirà,
l'uomo si rassomiglia al lione, e sarà costretto a lunga circonlocuzione per
fissare la specie di ras somiglianza ch'egli annunzia, CAPO VIII.
Allasorpresadeve succedereinciascunolapersuasione divedereun
essereinteramentesimilealui,essendosimili le forme e i moti esteriori (pag. 25
, 26 ). Infatti meolre it selvaggio A,acagioned'esempio,staccaun frattodalvi
cino albero, il selvaggio B , che si ricorda d'avere fatto più
vollelostesso,spintodallafame,conchiudecheA èmosso (1) I tre antecedenti
riflessi dimostrano falsal'asserzionedi Con dillac, cioè che « le matematiche
non bando sulle altre scienze altro «'vantaggio che di possedere una migliore
lingua,e che si procure “ rebbe a queste uguale simplicità e certezza , se si
sapesse dar loro « de'segnisimili».Languedu Calcul,pag 7,8,218.
Continuazione dello stesso argomento. 3.° Le ideematematiche possono essere
rese esteriori, cioè visibili, palpabili, misurabili, in una parola sono suscel
tibilid'esseregiudicatedai sensiedaglistrumenti.Coll'ajuto delle cifre e delle
figure tracciale sulla tavolta,o rappre sentate da corpi solidi,iconcetti
matematici compariscono rivestiti di forme visibili per chi ha gli occhi ,
tangibili per chi ne è privo. L'espressione dei rapporti di quantità è sol
tomessa ad una verificazione sensibile, facile, immediata ; n i s s u n o h a f
i n o r a o s a t o r i g e t t a r e il g i u d i z i o d ' u n a b i l a n c
i a , o sospettare l'imparzialità d'una tesa, o la veracità del gra fomeiro ...
(1). 9 1. Cenno sull'origine delle lingue. Colla scorta de'principii esposti
nell'antecedente sezione, ci sarà agevole cosa il seguire i filosofi nelle
congetture con cui spiegarono l'origine delle lingue. Si suppongano due
selvaggi A e B che s'incontrano la prima volta. Il primo sentimento che si
svolgerà oel loro animo,sarà lasorpresa sempre figliadella novilà. !
Queste conclusioni si rinforzano in ragione de'movimenti e delle azioni
che ciascuno eseguisce, perchè a queste azioni sono associate idee e sentimenti
uguali. B inteude dunque le azioni di A , leggeodo nel proprio animo e consultando
la propria memoria. A intende le azioni di B per gli stessi motivi ; si può
dire che l'uno è specchio all'altro. B accorgendosi che comprende le azioni di
A ,conchiude che A comprende le sue. B compresii sentimenti di A ,vedeodogli
eseguire certe azioni;eglicercherà di far comprendere isuoi,ripetendo le
azionistesse:ecco illinguaggio de'gesti. I sentimenti da comunicarsi o
riguardano oggetti esterni presenti o lontani, ovvero riguardano gli interni
sensi del l'animo. Allorchè l'oggetto è presente, gli occhi direlti verso di
esso,ildito che loaccenna,labacchettachelolocca,il corpo che si slancia verso
di esso o se ne allontana , for mano tutto ildizionario della lingua:questi
segni possono essere chiamati indicatori. Allorchè si tratta d'oggetti lontani ,
per esempio , d'un animale che si riuscì ad uccidere, o d'un altro da cui si fu
morsi,ilselvaggio ne ripete l'accento,l'urlo,ilgrido,e ne esprime cogli
atteggiamenti delle mani, delle braccia, della testa le forme piùrimarchevoli.
Questi segni possono essere chiamati imitatori. Il rumore prodotto da un
torrente che precipita, da un monte che scoscende, dal vento che fischia,
148 TEORIA DELLA SENSAZIONE da uguale sentimento. A porta alla bocca il frutto
e lo m a stica; B rammentando ilpiacere che provò mangiandolo, con chiude che A
lo prova ugualmente. Ad improvviso rumore A sospende l'operazione del mangiare,
alza il capo immota col guardo fisso dal lato donde proviene il romore ed in
attodi chi tende l'orecchio; B colpilo dallo stesso rumore e dagli atti di A ,
sente sorpresa e timore , e conchiude che A è sorpreso e intimorito.Cessato il
rumore, A riprende tranquillamente l'operazione del mangiare; la calma che suc
cede nell'animo di B gli dice che A si è calinato. Dopo questa scoperta il
bisogno reciproco di comuni. carsi a vicenda i propri sentimenti sembra
naturale , perchè è naturale la reciproca debolezza e comuni i pericoli. I due
selvaggi intendendosi reciprocamente, possono sperareun ajuto ne'loro bisogni,
un sollievo de loro dolori, una difesa contro gli assalti delle beslie
feroci, ATTENZIONE E RAZIOCINIO. 149 I segni indicatori, imitatori,
figurati, divengono triplice canale dicomunicazione pe'sentimenti e leidee in
forza delle leggi d'associazione. Classificando gli elementi di questo linguaggio
secondo la natura de materiali che servono a formarlo, se ne distin gueranno
tre specie, i gesti, le parole, la scrittura sim bolica. (1) La storia antica
ricorda spesso l'uso de'simboli anche presso nazioni già uscite dalla barbarie
e sopratutto pressole nazioni orien tali. Dario essendosi inoltrato nel
territorio della Scizia colla sua ar mata,ricevettedalredegliSciti un messo
che,senza parlare,gli daltuonochescoppia. ilcantodegliuccelli,gliaccenti
delle passioni sono altretanti suoni che il selvaggio ripete per farneiolendere
l'oggetlo ad ogni momento di bisogno,ac compagnandoliperlopiùcoigesti. Se91
Allorché sitratta di esprimere i propri bisogni, i pro pri timori,in somma le
affezioni che von simostrano ai sensi, il selvaggio ripete dapprima quelle
attitudini del corpo c h e le a c c o m p a g n a n o ; p e r e s e m p i o , B
v e d e o d o il l u o g o o v e rimase spaventato , ripeterà i gridi e i moti
dello spavento , accidA nonsiespoogaaldaonocuifuespostoeglistesso. Un sordo e
muto volendo indicarci,che fu calpestato da un cavallo, esprime dapprima con
ambe le mani,il moto preci pitoso de'piedi del cavallo, quindi accenna
ilproprio corpo c h e c a d e s u l s u o l o ; p o s c i a r i p e t e il m o
t o d e l c a v a l l o , e s c o r r e colle mani le varie parti del corpo
nelle quali fu calpestato. Dopo i segni esterni che accompaguano gli affetti,
il sel vaggio,aguisade'sordie muti,coglielasomiglianzache scorge tra i
sentimeoti dell'animo e le qualità de'corpi esterni, e si serve di queste per indicare
quelli; per es., le passioni vive s'assomigliano alla fiamma, il loro contrasto
allatempesta,la loro calma a cielo sereno,l'animo dubbioso a due mani che
pesano due corpi...; ecco i gesti simbo lici e figurati. La prima specie
comprende le azioni e le attitudini del corpo impiegate per imitare le forme e
i moti degli oggetti esteriori;la seconda , gli accenti della voce con cui si
ripe tono i gridi degli animali, e i suoni che accompagnano il moto degli
esseri inanimati ; la terza, la pittura che si farà soventi sulla sabbia ,
sulla corteccia degli alberi, od altro , sia degli oggetti che si vuole
indicare ,sia delle azioni che vi si riferiscono (1). I suoni della
voce altrondee le articolazioni che gli ac compagnano , possono, sia per sè
stessi, sia per la loro c o m binazione, presentare colleidee molteanalogie che
non col piscono a prima vista, ma che sono facilmente sentite ed avidamente
accolte dalle società che si pregiano di dire molte cose nel ininimo tempo, e
colla minima fatica possi bile. Il linguaggio articolato dovette dunque
arricchirsi di giorno in giorno. L'invenzione delle parole indicatrici de
generi e delle specie,impossibile aspiegarsi agiudizio di Rousseau, sem bra
facilissima, giacchè se un albero particolare A in dato luogoe tempo fu
iodicato colla parola albero, è cosa natu. rale che la stessa parola venisse
applicata ad un albero sia m i l e , q u i n d i a d u n t e r z o , a d u n q
u a r t o . . . . C o s i c c h è si per mancanza d'altra parola che io forza
della legge d'aoa. logia (pag. 24 e 25)il nome proprio dovette divenire no me
appellativo. Si giunse finalmente a far uso di segoi affatto arbitrari e vi si
giunse in due maniere; dapprima per la degenera zione successiva del linguaggio
primitivo e imitatore, poscia per convenzioni espresse. dodicipezziilcadavere,e
glispedi alle dodici tribù di I s r a e l e , i n t e n d e n d o c o s i d i r
e n d e r e c o m u n e a d e s s e il s u o d o l o r e , e chiamarle alla
vendetta. Il suo linguaggio fu inteso e il suo desiderio soddisfatto:la tribù
di Beniamino fu sterminata. 150 TEORIA DELLA SENSAZIONR De'gesti non si
può fare grande uso nelle tenebre de con persone alquanto distavti;la scritlura
simbolica,benchè più perfetta de'gesti e permanente, soggiace agli stessi in convenienti,
oltre di essere più difficile: al contrario gli accentidella
voce,pronti,facili,variabiliintuttelemaniere, pon tolgono dall'occupazione chi
ne fa uso, e lasciano il potere di parlare e diagire; queste ragioni fecero
prevalere i suoni articolati. De'dotti laboriosi hanno spiegato come la lingua
pri mitiva alterata dal tempo, dallamischianza del popolo, e da diverse altre
cause, si trasformò nelle nostre liogue moderne ; presentóun uccello, un
sorcio, una rana e cinque freccie; col quale simbolo il re voleva dire che se i
Persiani non fuggivano come gli
uccelli,nonsinascondevanointerracomeisorci,nonsisommer. gevano nell'acqua come
lerane,cadrebberovittimedellefrecciedegli Scili Il Levila d'Efraim volendo
vendicare la morte della sua sposa , ne fece ATTENZIONE E
RAZIOCINIO. 151 e come questa alterazione seguendo un corso differente nei
differenti paesi, rese le lingue sì dissimili tra di loro. Quanto alle
convenzioni che furono fatte,non è neces sario molto schiarimento. Si osservò
che le parole non erano segni d'idee e di sentimenti, se non perchè gli uomini
ac consentivano a prestar loro lo stesso senso. Allorchè dunque conveone
esprimere delle idee nuove, pulla si trovò di più semplice che d'intendersi per
scerre loro una parola. Questa convenzione, formata dapprima tra di quelli che
avevano più pressante bisogno di designare questa idea, divenne in seguito
comune agli altri. Ciascuna arte, ciascuna scieoza presentò le sue parole alla
società , e lingue particolari. I segni arbitrari dovettero laloro
forzasolamente alla doppia abitudine di quelli che gli impiegano e di quelli a
cui si dirigono. S 2. Cause de'diversi sensi associati alle stesse parole. II
Queste azioni,questi segni esteriori,che il ragazzo imita, sono uniti (nella
mente di quelli che gli servono di m o dello)a deisentimenti;questi
sentimentilosonoadalcune idee ; i sentimenti e le idee a suoni articolati. Il
ragazzo imita dapprima i movimenti, ripete poscia i suoniarticolatio
leparole,acagione d'esempio,padre, madre, vizio, virtù, religione, demonio
.... Il ragazzo non ha bisogno d'inventare i segni artificiali delle
idee; egli gli impara soltanto; ciò che per gli antichi fu un lungo sforzodi
genio, non è per lui che un esercizio meccanico della memoria . Bentosto il
ragazzo deve provare un principio disenti mento , ridendo all'altrui riso,
piangendo all'altrui pianto, fremendo all'altrui fremilo ... benchè ne igoori
la causa. Ma l'idea,s'ellaesiste,essendosemprelapiùdiffi cile, la più lontana,
la meno interessante a conoscersi, il ragazzo èimitatore come lascimia
(pag.41).Gli a l t r u i m o t i , i g e s t i , l ' a c c e n t o , P a r i a
, il t o n o , t u t t i g l i a t t esteriori lo colpiscono nei primi anni
della sua vita e d o c cupano la sua attenzione;egli è spinto ad imitare ed
arió petere tutto ciò che vede, ed isuoi organi mobili cootrag.
gonol'abitudinedimolte azioni,priache ilpensierosia capace di penetrarne lo
scopo e d'osservarne ilmotivo (ins ginocchiarsi,fareilsegnodella
croce,piegarela fronte, giungere le mani , levarsi il cappello, fuggire nelle
tenebre, baciar l'altrui mano , fare inchini.... ) La ripetizione
frequente diquesti suoni,gesti,sentimenti gli unisce con stretti nodi e taliche
quando i suoni vengono a colpirel'orecchio o sipresentano alla memoria,spingono
gli organi motori ai gestirelativi, e il sistema sensibile agli associati
sentimenti.Questa è la cagione per cui esempi ripe tuti, antiche abitudini
forzano la maggior parte degli uomini ad ammirare , fremere, tremare,sdegnarsi,
passionarsi in tutti imodi al suono delleparole le più insignificanti,le più va
ghe , le più vuote d'idee, e che appunto per la violenza dei sentimenti
associati si sottraggono alla apalisi. Conviene a n che osservare che più le
parole sono confuse ed oscure, più piacciono e soddisfanno il gusto degli
ignoranti (1). Queste ragioni ci spiegano il motivo per cui le stesse cose
fanno impressioni diverse, secondo che sono pronunciate in una lingua o in
un'altra. Si osservò , dice Rayoal , che i Giudei stabiliti in gran numero alla
Giamaica si facevano giuoco d'ingannare itribunali di giustizia.Un magstrato so
spettò che tale disordine potesse provenire d a ciò che la B i b
bia,su'dicuidovevanogiurare,eratradottainidioma in glese;fu quindi decretato
che per l'avenire iGiudeigiure. rebbero sul testo ebraico.Dopo
questaprecauzione glisper giuri divendero infinitamente più rari.Per simile
motivo A u gustolasciòsussislereeademmagistratuum vocabula,acciò ilpopolo
conchiudesse che sussisteva ancora la repubblica, s u s s i s t e n d o i n o m
i d e l l e s u e m a g i s t r a t u r e , e il r i s p e t t o m a c chioale
eccitato neglianimi popolari dalle parole si,fis sasse sulle nuove cariche che
ritenevano le antiche denomi nazioni. (1) Nel 1666 trovandosi Leibnizio a
Nuremberg seppe che ri era in quella città,una compagnia di chimici , che col
più profondo se greto travagliavano alla ricerca
dellapietrafilosofica.'Ildesideriod'en t r a r v i, g l i s u g g e r i o y ' i
d e a c h e p r o d u s s e l ' e f f e t t o b r a m a t o ; e g l i e s t r a
s s e dagli antichi alchimisti una serie di frasi oscure , la cui unione for
mava una lettera più oscura ancora e non intesada luistesso.Questa lettera
divenne un titolo peressere accolto: Leibnizio, tanto più a m mirato quanto
meno inteso, fu riconosciuto addetto esegretariodella società.Bailly, Éloge de
Leibnitz. 152 TEORIA DELLA SENSAZIONE ragazzo o non la verifica che
tardi, come l'idea di padre, o non la verifica che in parte, come quella di
vizio, o,non la verifica mai nè può verificarla, come l'idea di demonio ,
magia,angelo,fortuna esimili. Per eguale ragione, allorchè le idee
più belle e più su blimi vengono tradotte in lingua usuale,bassa, plebea, per
dono parte di quel pregio che conservano in una lingua an tica o straniera.
Quella specie di spregio che si attacca agli usi volgari e quella specie di
rispetto che va unito alle lin gue morte od estere, sembra comunicarsi all'idea
e degra darla a'nostri occhi o sublimarla. L'indeterminazione del linguaggio
più in morale e legi slazione ha luogo,cbe nelle arti e nella storia
naturale:gli oggetti di queste sono verificabili e misurabili coi sepsie cogli
strumenti , quindi le stesse parole risvegliano in tutti presso a poco lestesse
idee:al contrario gli oggetti morali non essendo verificabili con eguale
precisione, restano nella nebbia della fantasia; le parole, da cui vengono
indicati, partecipano della loro oscurità ed incostanza,eper lopiù risvegliano
idee diverse nelle diverse teste in ragione delle circostanze in cui
furonoapprese (V.pag.27-29).Pre tendere che le slesse parole ( principalmente
se trattasi di cose morali)risveglinointuttele stesseidee,eglièpre tendere che
quando è mezzo giorno a Milano sia mezzo giorno dappertutto. Nei giardini
d'Epicuro la parola virtù risvegliava idee ridenti e piacevoli; sotto i portici
di Zenone, idee fosche e melanconiche. Legge significava la volontà di lutti
per un Greco , la volontà d'un solo per un Persiano. le indicava per l'addietro
un despota sciolto da ogni legge, attualmente quest'idea è più limitata , ed ha
diversi signifi, cati a L o n d r a , A m s t e r d a m , C o p e n h a g u e.
Libertà nella m e n t e del filosofo indica la somma delle azioni non vincolate
dalla Jegge;nellamentedel volgo,lafacoltàd'invadereibeni de'ricchi e di far
nulla. Il massimo danno dall'indetermina zione delle parole si fa sentire
ne'trattati tra,le nazioni, in cui la loro ambiguità diviene,causa o pretesto
di guerre, nei codici criminali in cui l'oscurità d'una frase estende Barbi.
trio del giudice a danno dell'innocente ( ),ne?contratti, nei codici civili,
nelle tariffe daziarie, in cui l'incertezza d'un'e spressiooe è fonte di mille
liti tra i cittadini, e vessazioni al (1) Havvi alla China noa legge che
condanna a morte quegli che non mostra sufficiente rispetto alsovrano. Comparve
un giorno nella gazzetta della Corte un aneddoto non raccontato con perfetta
esaltezza : il redattore fu arrestato, e i tribunali décisero'che mentire nelle
gaz zelte della corte era non mostrare sufficiente rispetto al sovrano , quindi
il redattore fu messo a morte, ATTENZIONE E AAZIOCINIO.“ 153
commercio. La divisione uniforme del regno in dipartimenti, distretti,
cantoni,comuni, l'uniformità de'pesi, inisure, monete , gli stessi libri nelle
università , la stessa educazione ne'licei.... lendono a dare alle parole la
stessa significa zione, a diminuire le dispute, e quindi una somma noo de.
finibile di coilisioni sociali. Oltre l'indeterminazione del linguaggio
proveniente dal modo con cui l'impariamo e dalla natura dell'oggello che esprime,bisogna
dire che in ogni lingua non v'baquasi una parola che rappreseoti sola una idea
chiaro-distinla da se stessa;lutte prendono sensidiversi dal posto che occupano
nel discorso,dalle parole che le seguono o le precedono, dall'accento, dal
gesto, dagli atti che le accompagnano. La medesima parola unita ad alcune ti
mostra un dato espelto d'idee,uo altro,sesicollegaconaltre;piùavanti,piùin
dietro le ne farà vedere dei diversi; detta con un tuono as severante, ha un
senso; con un tuono di meraviglia, un allro; con irrisione, un terzo; con
inlerrogazione, un quar to. ..cosicchèsipotrebbeassomigliareleparoleaicolori
delle peone d'un colombo, che variano secondo ilmoto del s o l e , d e l c o l
o m b o , 'd e l l ' o s s e r v a l o r e . Sono quindi quovi,footi d'errori i
diversi sensi che le stesse parole esprimono passando da un ordine di cose ad
un altro. Un oratore, dopo avere esaltato i nomi di molti personaggi illustri
dell'antichità, si dirige così a'suoi udi iori:ingrati chenoisiamo!noi cilngniamo
della brevita della vita, mentreiè innostro polere di renderci immortali. Egli
è evidente che questa argomentazione confonde due m a niere di vivere che sono
distiolissime e diverse. : Lo stesso difetto sifa vedere nella seguente massima
di Rousseau :.... se la natura ci ha destinati ad essere sani, l'uomo che
medita è un'animale depravato. Perchè questa sentenza fosse'vera,converrebbe
provare che il primo ed unico destino dell'uomo è di essere sano ; che la virtù
consiste nella sanità, e che la meditazione è in compatibile coi buoni costumi.
Allora un dollo sarà un es sere depravato come ilsoldato che espone la sua
sanità e la sua vita in difesa della patria : si potrà dire che ogni a m malato
è uno scellerato,un mostro; che un monco è un 154 TEORIA DELLA SENSAZIONE
Sano è qui'addiettivo del corpo,e significa uno stato fisico; depravalo è
addiettivo dell'auimo,e significa uno stalo morale. ATTENZIONE
ERAZIOCINIO. 157 animale depravalo, avendoci la natura destinati ad essere sani
come ci ha destinati ad avere due braccia ... Aliro esempio. Bernardin de Saint
Pierre vuole che as. solutamente sibandisca l'emulazione dallescuolepubbliche;
e per provarech'ella è inutile,argomenta così: Analizziamo questo argomento:
l'emulazione per im parare la lezione, per fare dei temi, per studiare le
scienze è inutile ugualmente che per giocare, bere, mangiare. L'e mulazione è
dunque da una parte e dell'altra la ripetizione della stessa inutilità, e per
conseguenza si devono ritrovare pelll'un caso e nell'altro le medesime cause di
questa dop pia inutilità. Le funzioni dell'animo non son esse egualmente natu r
a l i, e g u a l m e n t e a g g r a d e v o l i c h e q u e l l e d e l c o r
p o ? - - E g u a l mente naturali? lo rispondo di no , se per naturali inten
desi necessarie ed imperiose. Egualmente aggradevoli ? Q u e stoèpossibile,ma
lacausasirifondenelpiacered'essere applaudito, ammirato, ricompensato; quindi
l'autore non s'accorge che coi buoni effetti dell'emulazione lepla di pro varne
l'inutilità. Finalmente l'interesse, la mala fede, le passioni lulle a b u s a
n o d e l l e p a r o l e , p e r c i ò , a l d i r e d i P a r i n i , il m e
r c a n t e è « Pronto inventor di lusinghicre fole 6 E liberal di forastieri
nomi 6'A merci che non mnaivarcaro imonti. уоро campagna,come sono
necessarie talvolta per farli stu diare? Questa piccolapopolazione ha forse
immaginato delle astuzie, e inventati degli artifizi per allungare gli studi, e
per ottenere un tema più difficile? 1 Ho io avulo bisogno nell'infanzia di sorpassare
i miei compagni nel bere, mangiare, passeggiare, e per corvi pia cere?E
perchèèeglislatonecessariocheimparassiasor
passarline'mieistudi,pertrovarcidilello?Non hoiopo. tulo instruirmi a parlare e
ragionare senza emulazioni ? Le funzioni dell'animo non son esse egualmente
naturali, «gual mente aggradevoli che quelle nel corpo? Ora l'emulazione è
inutile oel bere e nel mangiare , per che queste operazioni sono comandate dal
più pressante,dal più imperioso de'bisogoi,l'awore della vita;ma quantivi e
conciliano la santità e la grassezza coll'inerzia e l'ignoranza ? Gli scolari
temono forse tanto le ricreazioni quanto temono la dieta? Sono mai state
necessarie le mi nacce ed i castighi per condurli al refettorio o farli partire
per la Cromwel, per coprire le sue viste atobiziose col manto della
religione,aveva dato alla maggior parte de'suoi reg. gimentiinomi
deisantidelTestamentoVecchio.Cromwel, dice uno scrittoreanonimo di quel
tempo,ha ballulo illam buro in tutto ilVecchio Testamento; sipuò imparare la ge
nealogia del nostro Salvatore dai nomi de'suoi reggimenti. Il commissario di
guerra non aveva altra lista che ilprimo ca pitolo di S. Matteo. In tutti
itempi, in tutte le religioni,in tuttiipartili,ilfanatismo,ilquale non sipiccò
mai diequità, diede a quelli che voleva perdere, non i nowi che merita vano,ma
inoai che potevano loro nuocere.Socrate,che depurando le idee superstiziose, le
conduceva all'unità di D i o , r i c e v e t t e il t i t o l o d ' a l e o d a
i s a c e r d o t i d i C e r e r e : e m p i o chiamavasi presso gli Egiziani
chi von adorava un gatto,un bueourcoccodrillo;sidava daiCartaginesilostessoti
toloachiabborrivailsacrifiziodelleumane vittime.Ne'pri mi secoli della chiesa i
Pagani davano a lutti i Cristiani il nome di Giudei, sforzandosi direuderli
odiosi non potendo dimostrarlı irragionevoli. Alla China i nostri missionari
che diffondeodo lareligione di Cristo diminuiscono ilconcorso ai tempii
de'falsi idoli, e quindi i proventi de'sacerdoti, ven gono da questi dipinti
come ribelli ed accusati di congiura coutro loStato.Le espressioni odiose sono
uo'arma troppo favorevolealla calunnia perchè ella non s'affretti a farne uso.
Egli è sempre un vantaggio l'avere pronta una parola di sprezzo per
caralterizzare i torti che si riaproverano ai propri avversari. Con una di
queste parole si prova lutto, si risponde a tutto, si difende la propria
opinione, si distrugge l'altrui....APascal,che contantasagacitàsvelònellesue
lettere provinciali la corruzione della morale gesuitica, fu ri sposto ch'egli
era quattordici volte eretico. Gli uomini saggi si guarderaono sempre dalle
espressioni dipartito ed esclu sive, e che traggono seco idee accessorie
infinitamente varia bili e talvolta cootrarie. Essi dirapoo, a cagione
d'esempio, questa legge è conforme all'interesse pubblico,elo prove r'anno
svolgendo la somma de'beni di cui è feconda , ma non diranno , per es., questa
legge è conforme al principio della monarchia o della democrazia, giacchè se vi
sono delle persone nelle cui teste queste parole risvegliano idee d'appro
vazione, ve ne sono altre nelle quali succede tulto l'opposto ; quindi se i due
partiti si mettono alle prese, la disputa non finirà che colla stanchezza
de'combattenti, e per cominciare 156 TEORIA DELLA SENSAZIONE
ATTENZIONE E RAZIOCINIO. 157 CAPO IX. Combinare od inventare. La ninfa
della tignuola d'acqua che si trova ne'nostri fiumi, dice Darwin , e la quale
s’involge in cerle casucce di paglia, di sabbia, di gusci,s a ben far si che
questa sua abi lazione sia alla ad equilibrarsi coll'acqua ; e perciò quando
èsoverchiamentepesante,viaggiungeun bocconcellodipa 'gliaodilegno,equando
troppoleggiere,unpezzellodi grossa rena. il vero esame, converrà
rinunciare a queste parole appas sionate ed esclusive, per calcolare gli
effetti della legge in bene e in male. Osservano gli storici che nel corso
della guerra del P e loponneso successe taletrambusto nelleidee e ne'priocipii,
che le parole più usuali cambiarono di senso; si diede il nome
didabbenaggineallabuonafede,didestrezzaalladu plicità, di debolezza alla
prudenza, di pusillanimità alla m o derazione, mentre i tratti d'audacia e di
violenza passavano per slaoci d'animo forte e di zelo ardente per la causa pub.
blica. Una tale coofusione del linguaggio è forse uno de'sin tomi più caratteristicidella
depravazione d'un popolo.Jo altri tempi si può offendere lavirtù; ciò non
ostante se ne riconosceancoralasua autorità,quando lesiassegnano de'limiti; ma
quando si giunge sido a spogliarla del suo nome, ella perde i suoi diritti al
trono, e il vizio se ne im. padronisce e vi si asside tranquillamente. Per
capire ciò che succede allora in una nazione, basterà osservare ciò che succede
nelle società de'viziosi e scellerati. I ladri, gli ag. gressori , i monetari
falsi, i contrabandieri si formano un linguaggio o uo gergo tutto proprio che
confonde tutte le idee di vizio e di virtù. Uniti da sentimenti uniformi,
volendo vendicarsi dell'opinione pubblica che li rispioge da sè, si
compiacciono ad affrontarla; quindi nel loro dizionario sono escluse tutte le
impressioni del rossore, alterati i sentimenti del giusto e dell'ingiusto,
associate idee scherzevoli ad atti criminosi e nefandi. Una vespa, continua lo
stesso scrittore, aveva colla una mosca grossa quasi com'era ella medesima.
Posi le ginocchia a terraper meglio osservare,evidiche ellaseparòlacoda e la
tesla da quella parle del corpo a cui sono annesse le ale. Prese
ella quindinelle zampe questa porzione di mosca, e s'alzò con essa dal terreno
circa due piedi, ma un venti cello leggiere scuotendo le ale della mosca,fece
capovolgere l'animale nell'aria, ed egli scese ancora colla sua preda a lerra.
Osservai allora distintamenle che colla bocca letagliò primieramente un'ala, e
poi l'altra, e quindifuggi via non più molestata dal vento. Questi due animalelti,che
sanno disporre le cose in modo , ossia ritrovare mezzi tali da oltenere il fine
bramalo, ci danno le prime idee dell'arte di combinare o invenlare. Duhamel
osservò che il felore delle sale degli spedali cresceva, avvicinandosi al
soffitto; egli immaginò quindi uo ventilatore che facendo comunicarequesta
parte delle sale con l'aria esteriore, caccia laria guasta. La combinazione di
Dubamel oon suppone nella disposizione dei mezzi più
cognizionidiquelledellatigauolaedellavespa:ma ilfine ottenuto essendo molto
vantaggioso all'umanità, la combi nazione è più pregevole ; il pregio di questa
combinazione cresce, se siriflette ch'ella è applicabile ad altri oggetli, a
cagione d'esempio,ai vascelli in mare. lo fatti vi sono delle combinazioni
saggissime profondis, sime , e che suppongono infinita destrezza
nell'esecuzione; ma siccome non arrecano alcun vantaggio,non hanno alcun pregio
agli occhi del saggio. Boverick,meccanico d'uva de, strezza e d’upa
perseveranza prodigiosa, fabbricò una catena di duecento anelli che col suo
catenaccio e la sua chiave pesava circa un terzo di grano. Questa calena era
destinata ad iocatenare una pulce.Egli fece una carrozza che s'apriva e si
chiudeva a inolla, era tratla da sei cavalli, portava quattro persone e due lacchè,era
condolia da un cocchiere, ai piedi del quale stava assiso un cane, e il lutto
veniva strascioato da una pulce esercitata a questo travaglio.L'in. venzione e
l'esecuzione di questa macchina puerile fanno desiderare che Boverick avesse
impiegalo meglio i suoi la- lenti.Grice: “”Si suppongano due selvaggi” –
exactly my way of proceeding. Gioia has a lot of sense. An engraving’s caption
has it: ‘statistico e filosofo’ – And I like the fact that like Socrates he did
‘elementi di filosofia ad uso de’ giovanetti’!” -- Melchiorre Gioia, Melchiorre
Gioja. Gioia. Keywords: filosofia ad uso de’ giovanetti, galateo, pulitezza, Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Gioia” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758072475/in/dateposted-public/
Grice e
Giorello – il libertino – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Milano). Filosofo. – Grice: “I like
Giorello: he philosophises on evil and good – the devil wrestles with the angel
– but also on Mickey Mouse that he calls ‘topolino’ – “la filosofia del
topolino” – and perhaps ore exotically for us Oxonians, on ‘la filosofia di Tex,’
a ‘fiumetto’ of 1948!” –Si laurea a Milano sotto Geymonat). Insegna a Milano. Membro
de la Società Italiana di Logica” e de la Societa Italiana di Filosofia della
Scienza. Giorello divise i suoi interessi tra lo studio di critica e crescita
della conoscenza con particolare riferimento alle discipline fisico-matematiche
e l'analisi dei vari modelli di convivenza politica. Dalle sue prime ricerche
in filosofia e storia della matematica, i suoi interessi si erano poi ampliati
verso le tematiche del cambiamento scientifico e delle relazioni tra scienza,
etica e politica. La sua visione politica e di stampo liberal democratico e si
ispira, tra gli altri, a Mill. Si occupa anche di storia della scienza in
particolare le dispute novecentesche sul "metodo"e di storia delle
matematiche (“Lo spettro e il libertino”). Cura “Sulla libertà” di Mill. Ateo,
filosofa in “Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo.” Altre opere: Opere
Filosofia della matematica, Milano, L’nfinito, Milano, UNICOPLI, Lo spettro e
il libertino. Teologia, matematica, libero pensiero, Milano, A. Mondadori, Le ragioni della scienza, Roma-Bari, Laterza,Filosofia
della scienza, Milano, Jaca Book, Le stanze della ricerca, Milano, Mazzotta, Europa
universitas. sull'impresa scientifica europea, Milano, Feltrinelli, La filosofia
della scienza, Milano, R.C.S. libri & grandi opere, Quale Dio per la
sinistra? Note su democrazia e violenza, Milano, UNICOPLI, La filosofia della
scienza, Roma-Bari, Laterza, “Lo specchio del reame: riflessioni sulla
comunicazione: Longo, Epistemologia applicata. Percorsi filosofici, e Milano,
CUEM, I volti del tempo, e Milano, Bompiani,
Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del mito, Milano, Cortina, Di nessuna chiesa. La libertà del laico,
Milano, Cortina, Dove fede e ragione si incontrano?, con Bruno Forte, Cinisello
Balsamo, San Paolo, La libertà della vita, Milano, Cortina, Il decalogo. I dieci comandamenti commentati
dai filosofi, II, Non nominare il nome di Dio invano, Milano, Albo Versorio, Giulio
Giorello relatore al convegno internazionale "Science for Peace",
Milano, La scienza tra le nuvole. Da Pippo Newton a Mr Fantastic, Milano,
Cortina, Kos. Rivista di medicina, cultura e scienze umane, 4: Dio, Patria e Famiglia, Milano, Editrice
San Raffaele, Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, Milano, Bompiani,
Il peso politico della Chiesa, Cinisello
Balsamo, San Paolo, Viaggio intorno all'Evoluzione, Mascella, Zikkurat Edizioni
& Lab, Harsanyi visto da Giorello, Milano, Luiss University press, Lo
scimmione intelligente. Dio, natura e libertà, Milano, Rizzoli, Ricerca e
carità. Due voci a confronto su scienza e solidarietà, Milano, Editrice San
Raffaele, Introduzione a Apostolos
Doxiadis e Christos H. Papadimitriou, Logicomix, Parma, Guanda, Lussuria. La passione della conoscenza,
Bologna, Il Mulino,. Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo, Milano, Longanesi,.
Il tradimento. In politica, in amore e non solo, Milano, Longanesi,. Premio
Nazionale Rhegium Julii Saggistica. La filosofia di Topolino, Parma, Guanda,. Noi che abbiamo l'animo libero. Quando Amleto
incontra Cleopatra, Milano, Longanesi, TreccaniEnciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. CULTURAAddio
a Giulio Giorello, filosofo della scienza e difensore della libertàBy Vincenzo
VillarosaPosted on 16 Giugno 2020 È morto all’età di 75 anni il filosofo Giulio
Giorello, per le conseguenze dell’influenza da COVID-19, dopo aver trascorso
due mesi di degenza in ospedale ed essere stato dimesso alla metà di maggio.
Successore del maestro Ludovico Geymonat alla cattedra di Filosofia della
Scienza dell’Università Statale di Milano, il 12 giugno scorso il filosofo
aveva sposato la compagna Roberta Pelachin. Il Premier Giuseppe Conte lo ha
ricordato, in un messaggio sui social, come un pensatore che ha saputo
riflettere sui rapporti tra etica, politica e religione. Nato a Milano
nel 1945, Giorello si laureò in Filosofia alla fine degli anni Sessanta e in
Matematica, qualche anno dopo, seguendo la tradizione antifascista e marxista
del maestro Geymonat e il difficile tentativo di contrastare le divisioni tra
pensiero scientifico e umanistico. In seguito, fu docente di Meccanica
razionale all’Università di Pavia e poi alla Facoltà di Scienze presso
l’Università di Catania, a quella di Scienze naturali all’Università
dell’Insubria e, infine, al Politecnico di Milano. L’accademico milanese
fu presidente della SILFS (Società italiana di Logica e Filosofia della
scienza), ma i suoi studi spaziavano dalla mitologia all’antropologia e alla psicologia
evolutiva fino alla bioetica e alle neuroscienze. Uno tra i più bravi
epistemologi italiani, insomma, capace di unire il rigore per gli studi sul
metodo della scienza alle riflessioni sull’ambiente sociale e politico nel
quale si muove la ricerca scientifica. Accanto all’attenzione per le
discipline fisico-matematiche e all’accrescimento della conoscenza scientifica,
Giulio Giorello analizzava le modalità complesse e contraddittorie della
convivenza sociale e politica. Sulla scia del pensiero del filosofo John Stuart
Mill – di cui aveva curato l’edizione italiana dell’opera Sulla libertà, nel
1981 –, scrisse, in particolare, pagine illuminanti sulla natura, i limiti e la
possibile difesa della libertà umana. La sua instancabile attività di saggista
era basata su un’approfondita conoscenza della produzione saggistica e del
dibattito internazionale intorno al discorso scientifico. La testimonianza di
questa ricchezza culturale è rintracciabile nella preziosa direzione editoriale
della collana Scienza e idee per Raffaello Cortina Editore e nella capacità di
divulgazione espressa, tra l’altro, nella collaborazione alle pagine culturali
del giornale Corriere della Sera. Tra le opere di saggistica, ricordiamo
Filosofia della scienza (Jaca Book, 1992) e due contributi recenti di
divulgazione scientifica come La filosofia della scienza nel XX secolo (con
Donald Gillies, Laterza, 2010) e La matematica della natura (con Vincenzo
Barone, Il Mulino, 2016). Nelle opere Di nessuna chiesa. La libertà del laico (Cortina,
2005) e Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo (Longanesi, 2010), infine,
Giorello parlò del valore della laicità in maniera antidogmatica e rispettosa
della visione del mondo dei credenti. La curiosità intellettuale e la
personalità liberale del filosofo e matematico milanese si espresse anche
nell’interesse sul rapporto tra la cultura definita alta e quella popolare
presente, ad esempio, nel mondo dei fumetti. Il suo saggio pop su La filosofia
di Topolino (con Ilaria Cozzaglio, Guanda, 2013) ne è una divertente ma non
banale rappresentazione. La perdita di Giorello toglie alla scena
italiana e internazionale uno dei più attenti conoscitori dell’articolato
cammino della filosofia e del sapere scientifico e, allo stesso tempo, un
difensore delle libertà individuali e collettive, senza le quali non è
possibile alcun accrescimento e consolidamento del patrimonio culturale
dell’umanità. RELATED TOPICS:FILOSOFIA, LETTERATURA, PRIMA-PAGINA,
SOCIETÀIndice 0. Introduzione... p.7 1. Il paradigma dei sette vizi capitali
nel Medioevo... p.11 1.1. Il settenario... p.11 1.2. Il vizio della lussuria...
p.12 1.2.1. Origine e delineazione del vizio nel Medioevo... p.12 1.2.2. Vizio
del corpo... p.13 1.2.3. Vizio dell anima... p.15 1.2.4. I coniugati e la
lussuria. «Se non riescono a contenersi si sposino, meglio sposarsi che ardere
(I Cor. 7,9)»... p.17 2. La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno...
p.19 3. La lussuria come potere nel Canto V dell Inferno... p.31 4. La lussuria
come piacere e dolore nel Canto V dell Inferno... p.44 5. La lussuria come
filosofia nel Canto V dell Inferno... p.52 6. La lussuria come inganno e come
sovversione nel Canto V dell Inferno... p.61 7. La lussuria nel Canto V dell
Inferno: conclusione... p.66 Bibliografia... p.70 0. Introduzione Non v è
dubbio che fra gli insegnamenti che Dante può riservare agli uomini del terzo
millennio ci sia anche quello di puntare su un solo profondo amore al centro di
tutta un esistenza, persistente anche oltre la soglia della morte, capace di rinnovare
la vita di una persona, di orientarla al meglio. Come afferma Emilio Pasquini
nel suo libro Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, la
lettura della Divina Commedia dantesca si mostra rilevante anche nel terzo
millennio. Ovviamente, un opera di qualche secolo fa rischia di non essere più
adatta alle generazioni contemporanee. Ogni epoca conosce tendenze critiche
differenti per quanto riguarda la Commedia, ogni generazione [ ] legge il suo
Dante 2, e quindi, come lo pone Renzi, siamo prigionieri anche noi del nostro
tempo 3. Pasquini segnala che, di tutti gli episodi della Commedia, soprattutto
quello di Paolo e Francesca risulta molto interessante per i lettori di oggi 4.
L amore-passione che forma il nucleo della storia continua a intrigare.
Rappresenta una delle idee riguardanti l uomo tra cui Dante, in un modo
meraviglioso, stabilisce legami nei suoi versi. Quelle connessioni creano la
celebre feconda ricchezza di Dante, la quale fa sì che tanto all epoca (quando
si trattava della fede, della relazione tra Creatore e creatura) quanto oggi
(ormai importa la nostra coscienza etica) si scoprono delle idee sorprendenti e
chiarificatrici nell opera 5. Accanto a questo, la storia dei due lussuriosi
illustra pure la persuasione [di Dante] della presenza, nella vita di ognuno,
di un gesto decisivo che sanziona la sorte eterna dell uomo [ ]. Oggi,
asserisce Pasquini, una simile prospettiva riguarda (e riguarderà in futuro),
su un piano totalmente terreno, le scelte radicali che decidono il corso di un
esistenza, le svolte cruciali che imprimono alla vita di un individuo una
precisa e irreversibile direzione, decidendo del suo destino in terra 6. 2
Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia,
Paravia, Bruno Mondadori Editori, 2001, pp.257. 3 Lorenzo Renzi, Le conseguenze
di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.12. 4
Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, cit.,
pp.259. 5 Ibidem, pp.269. 6 Ibidem, pp.275. 7 Introduzione Si può
aggiungere che, in generale, la ricerca della sapientia mundis del giovane
Dante s inserisce perfettamente nella visione contemporanea del mondo, la quale
è completamente fissata sull acquisizione di nuove conoscenze e su uno sviluppo
personale completo. Parallelamente, si rivela adatto alla società di oggi l
avvertimento di Dante adulto che tale ricerca deve essere interrotta quando
rischia di condurre non alla magnanimità ma alla folia. 7 D altronde, Inglese
segnala che il carattere realistico del poema, dei suoi personaggi e delle sue
scene illustra che Dante utilizza il mondo terreno come una metafora dell
oltremondo, l altro mondo è reso sensibile e leggibile con le forme del nostro
mondo 8. Anche questo aspetto della Commedia fa sì che i lettori di oggi
possono capire abbastanza facilmente il mondo sotterraneo evocato dal poeta. La
conoscenza del mondo, inoltre, stabilisce il legame tra il commento di Pasquini
e quello del filosofo Giulio Giorello, la cui teoria riguardante la lussuria
non concorda con la visione cristiana del fenomeno, esposta nel primo capitolo
della presente tesi. Ne risulta che la lussuria, dal punto di vista cristiano,
si presenta come un fenomeno disprezzabile. Si tratta di una caratteristica
umana da combattere e da eliminare. Il filosofo, invece, adotta un punto di
vista molto differente nella sua recente monografia Lussuria. La passione della
conoscenza 9. Propone un analisi molto originale del vizio, mirata a provocare,
nel ventunesimo secolo, una sensazione di liberazione nel lettore della
letteratura d ispirazione cristiana sul soggetto. Giorello considera la
lussuria non solo come un peccato, ma anche, e in primo luogo, come una
libertà: E per ciò [la lussuria] può costituire il nucleo di una società aperta
e libertaria, insofferente di qualsiasi costellazione di dogmi stabiliti 10.
Anche se il concetto centrale della tesi vi è inquadrato in un contesto
quotidiano, universale e laico, non viene trascurato il significato cristiano
del termine. L autore approfondisce il concetto di lussuria descrivendo come il
desiderio lussurioso può manifestarsi in varie forme: parla della lussuria come
potere, come filosofia, come inganno Andando al fondo della nozione di
lussuria, stabilisce delle relazioni significative tra vari testi, autori e
concetti. 7 Ibidem, pp.271-273. 8 Giorgio Inglese, premessa, in Commedia.
Inferno di Dante Alighieri, Roma, Carocci editore, 2007, pp.9. 9 Giulio
Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, il Mulino, Bologna, 2010. 10
Ibidem, risvolto della sopraccoperta. 8 Introduzione A mio giudizio la
lettura del Canto V dell Inferno dantesco nell ottica proposta da Giorello può
offrirmi, e con me a tutti i lettori del capolavoro di Dante Alighieri, una
lettura fresca e interessante di questi versi già ampiamente commentati. Vorrei
dimostrare che le sue idee nuove permettono di attualizzare questa parte del
testo dantesco anzi, tutta la Commedia- e di agganciarlo alla società del
ventunesimo secolo (cf. Pasquini, cf. supra). Tutte le manifestazioni della
lussuria contemplate dal filosofo verranno applicate al Canto V, poiché i suoi
ragionamenti permettono di gettare nuova luce sul testo dantesco e di
presentarlo a una società diventata quasi completamente laica, nella quale la
religione cristiana è diventata un vago ricordo di altri tempi, un fenomeno
soltanto latente (cf. supra). Anche nel libro di Giorello l aspetto religioso
della lussuria non è quello più importante, ma è sempre presente in modo
velato. Ciò significa che predomina la ricchezza rappresentata dalle varie
manifestazioni del concetto denominato lussuria, a scapito della visione
cristiana del fenomeno, la quale predica la restrizione di questo vizio. Tutto
ciò spiega perché i concetti delimitati da Giorello, in combinazione con
commenti da parte di Pasquini, mi faranno da filo conduttore per redigere la
presente tesi. L accostamento evidenzierà paralleli e complementi interessanti.
Dato che il mio scopo è l elaborazione di una nuova analisi della lussuria nel
celebre Canto V prendendo come guide alcuni studiosi contemporanei, l aggiunta
di pensieri e di ragionamenti provenienti dal libro Le conseguenze di un bacio.
L episodio di Francesca nella Commedia di Dante di Lorenzo Renzi arricchirà
ancora l esposizione, tra l altro la parte nella quale si tratta della
colpevolezza o dell innocenza di Paolo e Francesca. Renzi, nel suo libro, vuole
reagire sia alla retrocessione di Francesca in generale, sia all interesse
privilegiato mostrato dai critici per la tirata lirica di Francesca 11. L
autore specifica che l episodio di Francesca forma, infatti, una metonimia
della Commedia, cioè la parte per il tutto: [ ] drammatizza e presenta in
exemplo la palinodia di Dante, il suo abbandono degli errori giovanili, del
mondo dell amore terreno e della sua poesia (lo Stil novo), per cominciare l
ascensione. Riferendosi a Paolo Valesio, afferma però anche che il personaggio
di Francesca si rivela tanto intrigante che la palinodia rischia di diventare
il suo contrario, una palinodia della 11 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un
bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.12. 9
Introduzione palinodia: una nuova esaltazione dell amore terreno 12. Accanto al
riferimento a Valesi il testo di Renzi offre ancora molte informazioni sorprendenti
riguardanti altri autori e commentatori. Giorgio Inglese, poi, è il quarto
critico principale che sarà evocato. Il suo commento all Inferno mi ha
procurato vari elementi chiarificatori, distinguendo, nella Commedia, una
struttura e una poesia, per esempio, o puntando sull importanza, nel Canto V,
di contrasti forti. Anche lui si mostra un difensore di una dantistica del
terzo millennio. La maturità della disciplina ( la quantità [dei studi] è ormai
misurabile solo con i mezzi dell elettronica ) non implica però stagnazione, e
lo dimostra bene, per quanto riguarda la Commedia, proprio la vitalità del
genere commento 13. In ogni capitolo della presente tesi, una nozione
filosofica evidenziata nel libro già citato di Giorello si trova alla base
delle idee sviluppate nel capitolo relativo. A quei ragionamenti s intrecciano
varie riflessioni dalla parte di Pasquini, Renzi, Inglese e alcuni altri
commentatori. 12 Ibidem, pp.7-8. 13 Giorgio Inglese, premessa, in Commedia.
Inferno di Dante A lighieri, cit., pp.12. 10 1. Il paradigma dei
sette vizi capitali nel Medioevo Come capitolo introduttivo presenterò un
resoconto generale del paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo, incluso
un attenzione particolare per la storia del vizio della lussuria. Baserò questa
visione d insieme sul volume I sette vizi capitali: storia dei peccati nel
Medioevo di Carla Casagrande e Silvana Vecchio, pubblicato dalle Edizioni
Einaudi nel 2000. 1.1. Il settenario Anzitutto si deve segnalare che il sistema
dei vizi capitali non è un invenzione di un individuo. Si tratta piuttosto di
una raccolta di idee che si è sviluppata attraverso secoli, continenti e
persone diversi; di un enorme enciclopedia nella quale si trova di tutto, un
efficace schema classificatorio per parlare [...] del mondo 14. Un topos, per
così dire. Una volta che il paradigma aveva ottenuto la sua forma definitiva,
ben circoscritta, ha avuto un successo immenso, tanto presso i chierici quanto
presso i laici. Si potrebbe dire che, per quanto riguarda l Occidente, la
storia medievale di questi sette vizi inizia con gli scritti di tre
ecclesiastici: Evagrio Pontico, Giovanni Cassiano e Gregorio Magno. Cassiano (V
secolo), avendo delineato nelle sue opere l insieme delle teorie del suo
maestro Pontico sui sette vizi capitali, ha scritto una delle opere più
significative per la cultura tanto religiosa quanto laica del Medioevo. Fino al
XV secolo, il settenario dei vizi capitali, al quale Cassiano ed Pontico
attraverso gli scritti del suo allievo- ha contribuito, ha avuto grande
successo. Dante, quindi, ha vissuto in un epoca che accordava molto importanza
all idea dei sette vizi capitali. Si deve specificare che tanto Pontico quanto
Cassiano distinguono otto vizi capitali, al posto di sette: gola, lussuria,
avarizia, tristezza, ira, accidia, vanagloria e superbia (elenco tratto dall
opera di Casagrande e Vecchio). Magno, nella sua opera Moralia in Job (fine VI
secolo), ne distingue sette; non menziona più l invidia come vizio capitale.
Anche Moralia in Job costituisce un opera di notevole importanza per la cultura
medievale: è molto più di un 14 C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi
capitali: storia dei peccati nel Medioevo, Torino, Einaudi, 2000, pp.xvi.
11 Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo commento: esegesi,
teologia, etica si mescolano a comporre un disegno di larghissimo respiro 15.
Il paradigma dei vizi capitali porta, naturalmente, l impronta dell ambito nel
quale è stato lavorato, cioè l impronta della società monastica non solo quella
occidentale. Infatti, Cassiano aveva apportato all Occidente conoscenze
orientali egiziane, siriane-, adottate dalla cultura monastica orientale,
raccolta nell Egitto. Anche il suo maestro, Pontico, aveva imparato molto sui
vizi capitali in quel crogiolo culturale che fu Alessandria d Egitto alla fine
del IV secolo 16, e nelle sue riflessioni, idee della filosofia occidentale si
sono confuse con questa sapienza proveniente dall Oriente. Di più, le idee
rappresentate dai sette vizi capitali risalgono, infatti, alle difficoltà
proprie alla vita nel monastero: Per i monaci essi rappresentano gli ostacoli
da superare lungo il cammino di perfezione al quale si sono votati, in una
continua battaglia contro se stessi e contro quel mondo che si sono lasciati
alle spalle 17. Detto questo, si può inquadrare la nascita e lo sviluppo del
settenario, almeno per quanto riguarda il Medioevo. In quello che segue
tratterò più in dettaglio la storia medievale di uno dei vizi capitali, cioè di
quello che costituisce il nucleo centrale della mia tesi: la lussuria. 1.2. Il
vizio della lussuria 1.2.1. Origine e delineazione del vizio nel Medioevo Non
solo il cristianesimo ha trattato il desiderio sessuale con diffidenza. Già
nella cultura pagana, gli individui si sfidavano da persone che riconoscevano
apertamente di sentire tali voglie. La religione cristiana si è adeguata molto
abilmente a queste preoccupazioni, riunendole in un vizio capitale chiamato
lussuria. Denominando così sentimenti vari e irrequieti, la fede calma, crea
ordine nel mondo, nella società, nella vita particolare di ogni persona che si
riallaccia alla tradizione cristiana. Diventa molto attraente in questo modo.
Lo sviluppo di paradigmi simili contribuisce alla popolarità di una concezione
di vita, tanto di visioni di tipo religioso come di concezioni pagani. 15
Ibidem, pp.xi. 16 Ibidem, pp.xii. 17 Ibidem, pp.xv. 12 Il paradigma dei
sette vizi capitali nel Medioevo Cassiano descrive la lussuria, situandola nell
ambito della natura propria agli uomini, come un vizio intrinseco, come un
aspetto essenziale della specie umana. Magno monaco e papa-, anzi, pone che
essa sarebbe un attività tutto naturale del corpo, che, per di più, sarebbe
intento da Dio. Da un punto di vista laico (nel senso di ateistico), si vede
apparire, in questo discorso, una concezione molto moderna della sessualità
umana. Rimanendo nel contesto cristiano, il papa, sviluppando una tale visione,
crea infatti un idea che spiana la via per la lussuria: se forma un desiderio
proprio all uomo tanto naturale quanto il bisogno di mangiare e di bere, non si
può evocare più niente per intimargli l alt. Ma, a dire il vero, la visione
della lussuria divisa in modo più ampio durante i secoli medievali è quella
ideata da Agostino. Secondo lui, l elemento chiave che trasforma la sessualità
dell uomo in un attività peccaminosa, sarebbe stato il peccato originale. Prima
della ribellione di Eva e Adamo contro Dio, i due primi esseri umani sarebbero
stati i padroni assoluti dei loro organi sessuali, presenti per rassicurare la
procreazione della specie umana. Dopo, invece, come punizione reciproca per la
loro disubbidienza a Dio, queste parti dei loro corpi diventano insubordinati,
non li possono più controllare. Anzi, sono quegli organi del corpo a poter
dominare l anima dell essere umano. Lì si ritrova il primo vero aspetto della
pena imposta ad Adamo ed Eva. La seconda è rappresentata da una conseguenza
irrimediabile del fatto che si sta parlando dell attività responsabile per la
generazione: l uomo trasmette quel peccato di padre in figlio, per l eternità.
Per forza, i figli nascono peccatori. Nonostante il fatto che la visione
agostiniana della lussuria era molto diffusa durante il Medioevo, si comincia
già a rivederla nel XII secolo. Si osserva infatti un processo di desessualizzazione
del peccato originale 18. Implica l accettazione della concupiscenza come una
delle conseguenze del peccato originale, non come l effetto principale di
questo. Tuttavia, la sessualità non viene tolta dall ambito peccaminoso nel
quale era stata introdotta: La natura era ormai inevitabilmente corrotta 19.
1.2.2. Vizio del corpo Cassiano attribuisce alla lussuria (denominata, in un
primo momento, la fornicazione), tutto come alla gola, lo statuto di vizio
carnale, un vizio cioè che implica 18 Ibidem, pp.151. 19 Ivi. 13 Il
paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo necessariamente la
partecipazione del corpo 20. Rivendica non solo la cooperazione degli organi
sessuali, ma pure quella di tutti gli organi legati alle esperienze sensoriali:
gli occhi, le orecchie, il naso, la bocca e le mani. La lussuria, infatti, si
presenta come il solo vizio capitale che coinvolge ognuno dei cinque sensi. Nel
Medioevo, la collaborazione tanto versatile del corpo umano alla fornicazione
approda all idea che questo corpo non solo partecipa allo svolgimento del
vizio, ma ne subisce anche le conseguenze. Quelle, naturalmente si tratta di
conseguenze di atti peccatori-, non appaiono sotto forme agrevoli: terribili
mali di testa che i medici non sanno come curare, progressiva perdita delle
forze, vita breve e, su tutto, l immonda malattia che attraverso piaghe
ripugnanti e maleodoranti consuma lentamente ma inesorabilmente il corpo, la
lebbra 21. Per di più, il debole corpo umano è inestricabilmente connesso con
il vizio della fornicazione: senza la presenza di un corpo, non si può
manifestare la lussuria. Il vizio rivendica la sussistenza della carne umana
per poter apparire. Si tratta quindi di un peccato intrinseco al fisico umano.
A dire il vero, la lussuria non tocca a qualsiasi corpo. Si ritrova
essenzialmente in fisici maschili. Questo aspetto della fisionomia della
fornicazione non deve sorprendere: si parla di un peccato il quale carattere ed
essenza sono stati messi a punto negli monasteri abitati da ecclesiastici
maschili (fra le altre i padri fondatori del settenario dei vizi 22 : Pontico,
Cassiano e Magno). A lungo, le donne non entravano nel discorso sulla
fornicazione, tranne come oggetti degli impulsi lussuriosi maschili. Non
vengono mai considerate capaci di intervenire come iniziatrici per quanto
riguarda questo peccato. La femmina, invece, ritenuta un essere più debole che
il maschio, era creduta molto suscettibile delle avance peccatori esibite dal
suo corrispondente maschile. Inoltre, l insieme di gioielli, profumi, tenute
ecc. (l ornatus, come scrivono Casagrande e Vecchio) che mette l accento sull
eleganza femminile si considerava un tutto che serviva essenzialmente a rendere
i corpi delle donne ancora più attraenti e, di conseguenza, più sensibili ai suggerimenti
lussuriosi dalla parte dei maschi. Peraldo descrive le donne che si vestono e
si truccano per andare a ballare tramite una metafora memorabile: [sono 20
Ibidem, pp.152. 21 Ibidem, pp.153. 22 Ibidem, pp.155. 14 Il paradigma dei
sette vizi capitali nel Medioevo come] un esercito di soldatesse del Diavolo
che si prepara a dare battaglia per strappare a Dio l anima degli uomini 23.
Quindi, nonostante il fatto che le donne non possono esibirsi come istigatrici
del vizio della lussuria, sono consapevoli degli effetti che hanno i loro
fisici sui loro complementi, si avvalgono di queste loro qualità, e così,
inconsapevolmente, incitano negli uomini gli impulsi che li portarono ad atti
lussuriosi. 1.2.3. Vizio dell anima Fin qui, la lussuria è stata dipinta come
un vizio essenzialmente corporale. A dire il vero, la sua origine non è
soltanto carnale, ma si trova nell interiorità più profonda dell anima umana.
Proprio i monaci abitanti dell ambito nel quale è cresciuta l idea del vizio
capitale abbordata- hanno (tra l altro) riconosciuto che il nucleo della
fornicazione sarebbe di natura spirituale. Nel vangelo secondo Matteo si può
leggere una frase che non lascia adito ad alcun dubbio: Chiunque guarda una
donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (Mt. 5,
28) 24. Ma questa idea non implica che il corpo non potesse essere lussurioso.
Inserisce piuttosto una fase intermedia nell insieme di fasi propri all azione
peccaminosa. In primo luogo nascono le idee lussuriose nell anima dell uomo; in
seguito si osserva che, da questi pensieri, sorge una specie di corpo virtuale
(questa costituisce quindi la tappa alla quale si riferisce nella sentenza
evangelica); infine l atto adultero si svolge per quanto riguarda il corpo
reale, di carne e ossa. A proposito della nozione di carne, si dovrebbe ancora
specificare la differenza, quanto al peccato della lussuria, tra carne e corpo,
vale a dire: quando l anima cessa di pensare, immaginare, ricordare,
assecondare, ascoltare, in una parola servire il corpo, il corpo cessa di
essere carne, oggetto e strumento di quel desiderio eccessivo e disordinato che
ha colpito l uomo dopo il peccato originale, per tornare a essere solo corpo,
un aggregato di materia che garantisce la vita dell individuo 25. 23 Ibidem,
pp.157. 24 Il nuovo testamento, a cura di Giuliano Vigini, revisione di Rinaldo
Fabris, Milano, Paoline Editoriale Libri, 2000, pp.47. 25 C. Casagrande, S.
Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, cit., pp.160.
15 Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo Si potrebbe dire,
dunque, che, riguardo alla fornicazione, non ci entra il corpo umano vero e
proprio, ma un suo equivalente virtuale, come l hanno formulato Casagrande e
Vecchio. In effetti, già nell ottica agostiniana della lussuria è inclusa l
idea che gli impulsi concupiscenti corporali, da soli, non costituiscono
sensazioni peccaminose. È precisamente la condiscendenza dell anima alle
pulsioni carnali che trasforma queste ultime in impulsi peccatori. In seguito,
si deve segnalare, in questo capitolo, il punto di vista piuttosto sorprendente
di Pietro Abelardo (XII secolo) sul vizio capitale della lussuria, soprattutto
per quanto riguarda la relazione tra anima e corpo. Abelardo sosteneva che
tanto la concupiscenza quanto l atto sessuale e i compiacimenti che lo
accompagnano avevano fatto parte della natura dell uomo a partire dal peccato
originale. Affermava che l elemento vizioso stava solamente nella transigenza
dell anima umana al corpo (carne, infatti) corrispondente. Con questa teoria,
Abelardo sviluppa, a dire il vero, una concezione molto moderna della
sessualità umana. Non per niente le sue asserzioni hanno provocato moltissime
reazioni alla sua epoca. La notevole importanza dell anima in quest ambito viene
confermata dalle conseguenze che ha il vizio della lussuria non solo per il
fisico dell uomo ma anche, e specialmente, per la sua anima immortale. La
fornicazione corrompe il corpo umano, lo rende impuro e infangato; ma è ancora
molto più dannosa all anima: una volta imbrattata da questo peccato, lo spirito
dell essere umano, debilitato e confuso, incoerente, è sull orlo della rovina.
Si tratta di un vizio talmente onnicomprensivo che abbraccia tutti i livelli e
strati dello spirito; si espande in tutti gli angoli della mente. Il
danneggiamento dell anima dalla lussuria si rivela incontestabilmente il più
grave nell indebolimento della ragione, componente più nobile e preziosa dello
spirito umano. Mina il potere della capacità più eccezionale dell uomo, cioè la
potenza di dominare tutti i suoi sentimenti, emozioni e impulsi facendo appello
alla ragione. In effetti, non solo la Chiesa si preoccupava dalla decadenza
della ragione sotto l influsso di attività sessuali. Prima della tradizione
cristiana, un ampia tradizione pagana aveva cercato di offrire uno sfogo a
simili preoccupazioni. In questo modo, ha potuto crescere, fra le altre prima
in ambito pagano, poi in contesto cristiano-, l idea che l intelligenza
concetto concepito come positivo- dovrebbe essere capace di mettere l uomo
nella 16 Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo possibilità di
controllare gli impulsi carnali concepiti come negativi. Dato che gli ultimi
avvicinavano l essere umano dall animale, il contrasto tra questi di una parte,
e la nobiltà incontestabile della ragione umana d altra parte, si rivelava
grandissimo. Se è vero che tale opposizione si presentava palesemente in
contesto scientifico, per dirlo così intellettuale, filosofico ecc.-, la sua
importanza per la vita quotidiana dell uomo medio è inequivocabile, visto la
funzione [della ragione] di garantire la misura, la compostezza, l equilibrio
nella vita di ciascun individuo 26. Trasposto in ambito letterario, il dualismo
fra la ragione e gli stimoli carnali, e, più in particolare, la follia nella
quale può sfociare la vittoria riportata dalla carne alla ragione, s
impadronisce dei protagonisti dei romanzi cortesi. Il fenomeno rappresenta il
culmine assoluto dell incostanza confusa che può essere provocata in varie misure
dalla lussuria. 1.2.4. I coniugati e la lussuria. Se non sanno vivere in
continenza, si sposino; è meglio sposarsi che ardere (I Cor. 7,9) 27 Tra tutte
le persone che non scelgono la castità come cura della lussuria, i coniugati
formano un gruppo speciale. Il matrimonio, in effetti, non elimina la lussuria,
ma nella misura in cui vieta tutti i rapporti extraconiugali e limita quelli
coniugali [a quelli che servono alla procreazione e quelli che sono necessari
per soddisfare le sensazioni concupiscenti dei coniughi ed evitare, in questo
modo, che commettono il peccato della fornicazione], la contiene e la riduce
28. La storia del concetto di matrimonio, per quanto riguarda il vizio della
lussuria, si rivela alquanto complicata. In primo luogo si deve segnalare che
la ragione per la quale certi cristiani propendevano per la castità e non per
il matrimonio consisteva nel fatto che il matrimonio limitava solamente la
lussuria; non poteva escluderla. Ma, allo stesso tempo, questo fatto veniva
anche rivendicato dai credenti che volevano proteggersi dalla lussuria: il
matrimonio, dopo tutto, delimitava la portata del vizio. Poi, Agostino aggiunge
che considera l unione coniugale un bene, certamente inferiore a quello della
castità, ma comunque un bene, e questo non solo per la procreazione dei figli
26 Ibidem, pp.167. 27 Il nuovo testamento, cit., pp.603. 28 C. Casagrande, S.
Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, cit., pp.172.
17 Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo ma anche per la
società naturale che l unione tra i due sessi comporta 29. Di più, pone che Dio
avrebbe previsto l unione carnale tra gli uomini e i loro complementi femminili
prima del peccato originale, visto che entrambi i sessi erano già dotati di
organi sessuali chiaramente visibili e differenti prima che Eva ed Adamo
disubbidivano a Dio. Il peccato non sta dunque nel coito [...] ma nell uso che
gli uomini [...] ne fanno. 30 Queste idee agostiniane sono state molto diffuse
durante tutto il Medioevo. Finalmente, si deve ancora segnalare che il legame
stabilito tra il vizio della lussuria e il matrimonio fa sì che il peccato si
estende dall essere umano individuale alla comunità intera. Può corrompere
tutta una società; non si tratta più di un vizio dannoso alla vita e all anima
di una singola persona, a tal punto che minaccia tutta la specie umana. Da
questo punto di vista, il peccato occupa una posizione particolare, anzi unica
nel settenario dei vizi capitali. 29 Ibidem, pp.173. 30 Ivi. 18 2. La
lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno Nella sua esposizione sulla
lussuria come potenza (o impotenza) Giorello asserisce che la lussuria [ ] è
mescolanza di tutte le cose del mondo, rotture d ordine, spezzatura 31. Nel
caso di Paolo e Francesca, di certo, la lussuria è stata responsabile di una
rottura dell ordine quotidiano, anzi, dell ordine del mondo come i due
innamorati lo conoscevano. La spezzatura della loro realtà viene causata
direttamente dalla potenza (cioè, dalla potenza nel senso filosofico della parola:
potenza come volontà) che costituisce una parte essenziale del desiderio
lussurioso che sperimentano. Dal momento in cui cedono alla loro volontà
lussuriosa, Francesca, consapevolmente, abbandona suo marito, pone fine al suo
matrimonio. Nel v. 107 Caìn attende chi a vita ci spense 32 il nome di
Gianciotto è taciuto per disprezzo, non certo per femminile riserbo 33. Neanche
Paolo può più tornare indietro; la relazione tra lui e suo fratello è
irrimediabilmente danneggiata. Il bacio dei due lussuriosi segna un passaggio
chiave nella loro storia lussuriosa. Dopo una fase di dubbi e di disperazione,
è arrivato il momento in cui decidono di rinunciare a tutto quello che è
familiare, e di perdersi in un avventura della quale sanno che gli porterà sia
la felicità assoluta sia la perdizione. La tragica combinazione di tenerezza e
di rovina è illustrata dal v. 106 Amor condusse noi ad una morte 34 : la prima
e l ultima parola del verso si rispondono fonicamente AMOR condusse noi ad una
MORte. Inglese chiarisce che, in questo modo, il verso s iscrive nella lunga
tradizione di una diffusa paretimologia (Federigo dall Ambra, son. Amor che
tutte cose: Amor da savi quasi A! mor si spone ). Per di più, la parola morte,
nel Canto V dell Inferno, conclude la serie di proposizioni principali il cui
soggetto è Amore 35. In questo senso, la lussuria si presenta come una
mescolanza di tutte le cose del mondo: ogni diritto ha il suo rovescio. Di
rado, la realtà nella quale vivono gli esseri umani offre una gioia senza che,
contemporaneamente, appaia anche qualcosa che tempera questo sentimento. È un
dato che si manifesta in modo particolarmente chiaro in situazioni 31 Giulio
Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.23. 32 Dante
Alighieri, Commedia. Inferno, revisione del testo e commento di Giorgio
Inglese, Roma, Carocci editore, 2007, pp.90. 33 Giorgio Inglese, commento al
testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, Roma, Carocci editore, 2007,
pp.90. 34 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.90. 35 Giorgio Inglese,
commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.90.
19 La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno lussuriose. Paolo e
Francesca propendono non solo per la felicità (lussuriosa) ma anche per l
aspetto penoso che essa implica. Da quanto appena enunciato risulta che la
dimensione della lussuria identificata come la volontà forma una caratteristica
fondamentale del fenomeno. Se manca una forte volontà, non si può parlare di
lussuria. È appunto dalla volontà umana che procede il desiderio di qualcosa.
Dal testo di Giorello emerge che il desiderio an sich deve, infatti,
considerarsi come essenzialmente lussurioso. Nel caso di Paolo e Francesca, si
tratta del desiderio dell altro. Dante presta molta attenzione all espressione
di tale potenza. È probabilmente una delle più belle manifestazioni dello
spirito umano: unica, forte, ma anche tragica. Forse la bellezza risiede,
appunto, nella tragicità. Quello che un essere umano può realizzare grazie alla
volontà commuove solo quando si mescola con altre caratteristiche come, in
questo caso, il tragico. Il desiderio umano, giudicato lussurioso per
definizione, è presente nel Canto V non solo nella decisione presa da Paolo e
Francesca. Ci troviamo nella prima parte dell Inferno, cioè all inizio del
viaggio sotterraneo di Dante personaggio. E siccome Dante parla, infatti, di
ognuno di noi, ci troviamo all inizio del viaggio che ogni peccatore potrebbe
desiderare, un giorno. Anche lui sperimenta un forte desiderio. Si trova sulla
via della perdizione, e vuole ritrovare la retta via. Vuole andare verso la
luce divina, è in cerca di una direzione nella sua vita. Questa aspirazione
predomina su tutto il suo essere, come il desiderio di Francesca domina su
Paolo e vice versa. Inoltre, Giorello pone che la laicizzazione è la lussuria
dell emancipazione dalla soggezione alla natura e/o alla divinità emancipazione
che costituisce la premessa di una società politica matura 36. Secondo me, l
autore suggerisce che l assunto che la laicizzazione sia un processo lussurioso
sarebbe ovviamente consono alla visione cristiana della lussuria che la
considera un vizio capitale. Classificare la laicizzazione tra le varie forme
in cui può manifestarsi la lussuria le conferirebbe lo statuto di un azione peccaminosa.
L idea principale che vuol esprimere il filosofo in questa frase, però, è che
il desiderio umano di venir liberati dall assoggettamento a un potere superiore
si rivela lussurioso, poiché si tratta di un desiderio. Dante personaggio,
tuttavia, desidera di esser assorbito completamente dalla luce divina del Dio
cristiano. E aspira alla stessa sorte per tutti i suoi contemporanei. L
opposizione 36 Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit.,
pp.26. 20 La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno tra la
volontà evocata da Giorello e quella di Dante personaggio illustra il punto di
vista del filosofo sulla lussuria. Che il carattere di un fenomeno sia o non
sia lussurioso non dipende dalla sua religiosità o laicità. Uno degli aspetti
essenziali della lussuria è la forza immensa della potenza umana che fa sì che
la lussuria può esistere. Oltre a ciò, l autore menziona che la lussuria
istituisce il nesso tra conoscenza e oblio 37. L aspetto della lussuria che è
analizzato e commentato in questo capitolo, la potenza, costituisce la forza
che spinge un essere umano ad avere curiosità e a cercare risposte alle proprie
domande. In questo senso, forma, infatti, l anello che lega l ignoranza e la
conoscenza. Dante personaggio vuole conoscere il mondo sotterraneo, e desidera
sapere se e come si può salvare. Dalla sua curiosità, quindi dalla sua volontà,
sorgerà la comprensione dei fenomeni che vuole capire. Si può pure trasformare
la conoscenza in oblio per il tramite della lussuria. Una volta che la
conoscenza è ottenuta, è possibile che essa provochi l oblio di altri fatti
conosciuti nell essere umano che la ottiene, com è illustrato dall epopea
mesopotamica la Saga di Gilgames alla quale si riferisce Giorello. Nel Canto V,
tuttavia, si osserva il contrario. Quello che era conosciuto nel passato non è
dimenticato, come pone appunto Francesca dopo che Dante le ha chiesto di
raccontare come lei e Paolo si sono rivelati i sentimenti amorosi reciproci: E
quella a me: Nessun maggior dolore/che ricordarsi del tempo felice/nella
miseria: e ciò sa l tuo dottore. Chiaramente, i due lussuriosi si ricordano
benissimo quello che sapevano prima del momento in cui la loro volontà di
conoscere li ha messi sulla via della perdizione, cioè, prima del momento in
cui si baciavano e s appropriavano la conoscenza dell altro. Anzi, in questo
passo, Dante autore utilizza letteralmente il verbo conoscere: Ma, s a conoscer
la prima radice/del nostro amor tu hai cotanto affetto/dirò come colui che
piange e dice 38. Ciò illustra l importanza ardente del significato del
termine. Per di più, Giorello pone che la potenza della dea [Venere] è
quotidiana [ ], non solo eccezionale 39. Si potrebbe sostenere, quindi, che la
caratteristica della lussuria rappresentata da questa volontà incredibilmente
potente non si manifesta unicamente in situazioni o momenti eccezionali.
Costituisce una forza sempre presente nell essere 37 Ibidem, pp.28. 38 Dante
Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.91-92. 39 Giulio Giorello, Lussuria. La
passione della conoscenza, cit., pp.35. 21 La lussuria come potenza nel
Canto V dell Inferno umano, gli appartiene. Non sarebbe capace di liberarsi da
essa, se lo volesse. Questo, però, gli è connaturale: si tratta di una parte
dello spirito umano troppo essenziale. Senza di essa non sarebbe più un uomo.
Per di più, rappresenta un impulso troppo gradevole. All uomo piace
infinitamente provare una tale energia dentro di se. Gli dà l idea che
potrebbe, infatti, realizzare il progetto che ha in mente, che potrebbe trovare
la risposta alla sua domanda. Gli dà il coraggio necessario per dare ascolto ai
sentimenti che lo sopraffanno e per arrischiarsi in una ricerca o una
situazione che possibilmente finirà male. È questo il momento in cui la volontà
lussuriosa, quotidiana, alleggiando, diventa eccezionale. Questo momento
speciale si osserva pure nella storia di Paolo e Francesca. Dopo un lungo tempo
di voler esser insieme (da solo), arriva quel punto in cui il desiderio di
Paolo di sapere come sarebbe di trovarsi nelle braccia della donna amata,
diventa troppo forte. La bacia. Un momento riempito in modo molto eccezionale
di volontà lussuriosa. Giorello menziona anche che la dea Venere (e quindi la
lussuria) può rivelarsi maestra di inganno 40. Certo, nel Canto V, si osservano
delle azioni ingannevoli: Francesca tradisce suo marito, Paolo suo fratello.
All aspetto ingannevole della lussuria, però, sarà dedicato un altro capitolo
della presente tesi. Ciò che colpisce nelle pagine sulla lussuria come potenza
in Lussuria. Passione della conoscenza, e che potrebbe dar luogo a una
riflessione interessante, è un idea che deduce da un testo di Agostino, Città
di Dio. Secondo Giorello si può capire da quest opera che, secondo Agostino, la
fiacchezza della nostra volontà (contrapposta alla forza di quella divina) sia
ben peggio [ ] di qualsiasi fisica impotentia coeundi 41 perché nell ordine
naturale l anima è anteposta al corpo. Agostino descrive la lotta della
passione [il corpo] e della volontà [l anima] parlando della lussuria,
affermando che esiste almeno l imperfezione della passione nei confronti della
pienezza della volontà 42. Ciò pone l accento sul valore più grande della forza
mentale che è la volontà dell uomo a paragone del suo corpo fisico. Rileva la
preziosità e la versatilità della potenza, la quale è valutata non solo dai
fedeli cristiani ma anche da laici. Si potrebbe sostenere, quindi, che si
tratta di un punto di vista comune e, di conseguenza, unificatore. L unione d
idee 40 Ibidem, pp.36. 41 Ibidem, pp.39-40. 42 Agostino, Città di Dio,
Introduzione, traduzione, note e apparati di Luigi Alici, Milano, Bompiani,
2001, pp.684-685. 22 La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno
cristiane e laiche (nel senso di provenienti dagli antichi) si ritrova, appunto,
nella Commedia dantesca. A mio giudizio questa fusione è una delle
caratteristiche più meravigliose dell opera. Si rivela in modo splendido nel
passo su Paolo e Francesca. La ricchezza del Canto V proviene, tra l altro,
dall enumerazione dei nomi di Semiramide, Cleopatra, Tristano, e di tutti gli
altri personaggi lussuriosi della mitologia classica menzionati dalla guida di
Dante, Virgilio. Inglese spiega che sono donne antiche e cavalieri (v. 71):
insomma, l intero mondo del romanzo epico-amoroso, che aveva, di fatto,
connesso in un ciclo unico Troianorum Romanorumque gesta et Arturi regis
ambages [ avventure ] pulcerrime (Dve I x 2) 43. La loro apparizione conferisce
un atmosfera unica all Inferno cristiano. Evocano la grandezza delle storie
antiche di alcune coppie famosissime. Risulta dai versi quanto sono care a
Dante, tutto come la sua fede. Il ricordo della disperazione, dell amore e
della perdizione caratteristico di queste storie si mescola, nel Canto V, ai
sentimenti (simili) di Paolo, Francesca e Dante. Per quanto riguarda quella
relazione emotiva triangolare tra Dante, Paolo e Francesca, si può segnalare
che la sua forza emozionale è ancora aumentata dal fatto che, per Francesca, la
visita del pellegrino forma un opportunità unica per confessarsi (dal punto di
vista dei colpevolisti di Renzi) o per comunicare e quindi rendere immortale la
sua tragica storia d amore (secondo la visione dei giustificazionisti di Renzi,
cf. infra). Inglese afferma che gli incontri fra il P. [Dante personaggio] e i
dannati si presentano come un momento affatto eccezionale nello svolgersi (che
non ha però vero svolgimento) della pena di questi ultimi [ ]: per un motivo
superiore ossia, per l edificazione del P. e poi dei viventi che leggeranno il
resoconto del viaggio la Provvidenza suscita in alcuni dannati un estremo atto
di personalità (v. 84) [ vegnon per l aere, dal voler portate 44 ]. Sul piano
poetico, ciò si traduce in una forte drammatizzazione degli episodi: Francesca,
per esempio, non avrà mai un altra occasione di confessarsi, di dare forma
verbale al proprio tormento 45. 43 Giorgio Inglese, commento al testo in
Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.87. 44 Dante Alighieri,
Commedia. Inferno, cit., pp.88. 45 Giorgio Inglese, commento al testo in
Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.89. 23 La lussuria come
potenza nel Canto V dell Inferno Da quello che precede, risulta che un estremo
atto di personalità implica una volontà potente, dato che la volontà
costituisce una parte essenziale dell essere umano. Si potrebbe dire che, con l
ultima frase, Inglese si presenta come un colpevolista, poiché dare forma
verbale al proprio tormento può significare dare forma verbale al suo peccato e
al modo in cui lo strazio della punizione infernale la tortura. La seconda
parte della frase di Inglese, però, potrebbe anche essere interpretata come
dare forma verbale al modo in cui entrambi il ricordo del tempo d i dolci
sospiri 46 e quello della fine tragica della sua storia d amore la tormentano.
Allora, per quanto riguarda Francesca, Inglese si presenterebbe non solo come
un colpevolista, ma anche come un giustificazionista. Ritornando alle donne
antiche e cavalieri, Renzi asserisce quanto segue: Se ci sarà ancora una
critica letteraria dedita a leggere con attenzione i testi, qualcuno noterà,
per esempio, che la pietà di Dante per Francesca, primo segno della sua
partecipazione emotiva alla storia di Francesca, seguita poi dallo svenimento,
era già cominciata al v. 72 e si riferiva alle donne antiche e cavalieri, dunque
a tutti quei fantasmi letterari che prima sono definiti peccator carnali.
Dunque Dante non solidarizza solo con Francesca. 47 Mentre Virgilio annovera
nome dopo nome, Dante personaggio sente come, nel suo cuore, cresce la
compassione. Ascoltando la sua guida, diventa sempre più commosso, triste e
silenzioso per tutto quell amore disperato, perso. Anche lui ha amato e perso
la persona amata. Pasquini pone che non si ha soltanto il dramma cruento dei
due giovani amanti riminesi; c è anche il dramma interiore di Dante che si
sente personalmente coinvolto in quella tragedia 48. Questo dramma interiore
che sperimenta il pellegrino di fronte alla tragedia romagnola si spiega,
secondo Pasquini, dall atto d accusa di Beatrice nel Purgatorio (cf. infra).
Qualcosa di Francesca ritorna in Dante e nel suo personale traviamento, sotto
la spinta del rigoroso atto d accusa cui lo sottopone Beatrice; il che spiega
con chiarezza, quasi completandolo, il suo turbamento che non è solo pietà di
fronte alla tragedia romagnola. 49 46 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit.,
pp.91. 47 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca
nella Commedia di Dante, cit., pp.11-12. 48 Emilio Pasquini, Dante e le figure
del vero. La fabbrica della Commedia, cit., pp.259. 49 Ibidem, pp.262. 24
La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno Secondo Pierre-Louis Ginguené
(1748-1815), autore di Histoire littéraire d Italie, non è stato il Dante
filosofo e teologo che si rivela in altri passi della Commedia che ha scritto l
episodio di Paolo e Francesca, ma è stato il Dante innamorato di Beatrice. 50
In questo senso, il Canto V parla da Enea e Didone, Tristano e Isotta, Paolo e
Francesca, e pure di Dante stesso. Di conseguenza, tratta anche di ognuno di
noi, poiché il passaggio di Dante personaggio attraverso l inferno, il
purgatorio e il paradiso celeste rappresenta il viaggio simbolico di ogni
peccatore che desidera ritrovare la retta via. Ginguené, per di più, non
evidenzia la pietà di Dante, ma nota che la pena in fondo, se non è mite, è la
più piccola fra tutte quelle previste dal poeta 51. Renzi spiega come questo
non sembra una grande osservazione, ma la riprenderanno, in genere senza
conoscersi l uno con l altro, molti critici, da Foscolo [Discorso sul testo
della Commedia 52 ] a Teodolinda Barolini [Dante and Cavalcanti (On Making
Distinctions in Matters of Love): Inferno V in Its Lyric Context 53 ]. E ci
aggiunge: Bruno Nardi [Filosofia dell amore nei rimatori italiani nel Duecento
e in altri 54 ], che era l unico che di queste cose se ne intendeva davvero, ha
notato che, tra i peccatori nella carne, Dante ha punito i golosi più
gravemente dei lussuriosi, invertendo l ordine di San Tommaso 55. Forma un
argomento che sostiene la tesi di Ginguené secondo la quale l unico vero autore
dell episodio di Francesca sarebbe stato il Dante amante di Beatrice, e
certamente non il Dante teologo. Anche per Francesco De Sanctis (in Francesca
da Rimini 56 ) e per Benedetto Croce (La poesia di Dante 57 ), segnala Renzi,
Dante, come teologo e come cristiano, disapprova i peccati dei lussuriosi.
Inglese definisce la pietà di Dante ( pietà mi giunse e fu quasi 50
Pierre-Louis Ginguené, Histoire littéraire d Italie, citato da Lorenzo Renzi in
Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante,
cit., pp.134. 51 Ibidem, pp.135. 52 Ugo Foscolo, Discorso sul testo della
Commedia, in Id., Studi su Dante, a cura di Giovanni Da Pozzo, Firenze, Le
Monnier, 1979, pp.175-573. 53 Teodolinda Barolini, Dante and Cavalcanti (On Making
Distinctions in Matters of Love): Inferno V in Its Lyric Context, in Dante
studies, 116, 1998, pp.31-63. 54 Bruno Nardi, Filosofia dell amore nei rimatori
italiani nel Duecento e in altri, in Id., Dante e la cultura medievale, Bari,
Laterza, 1929, pp.1-88, il passo che interessa con i riferimenti a san Tommaso
è alle pp.81-82. 55 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di
Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.135. 56 Francesco De Sanctis,
Francesca da Rimini, in Id., Lezioni e saggi su Dante, a cura di Sergio
Romagnoli, Torino, Einaudi, 1967, pp.633-652. 57 Benedetto Croce, La poesia di
Dante, Bari, Laterza, 1966, pp.73-75. 25 La lussuria come potenza nel
Canto V dell Inferno smarrito 58 ) un profondo turbamento in cui sono fusi l
orrore per il peccato e il dolore per l umanità peccatrice giustamente punita
59. Per De Sanctis e per Croce, da un punto di vista emozionale, invece, Dante
non condanna i lussuriosi. Croce sottolinea pure il potere estasiante che ha
avuto il libro narrando la storia di Lancillotto e Ginevra sui due peccatori.
Asserisce però che Dante, al contrario di altri poeti, riesce a rompere e a
superare l incantesimo dolce dell amore. Così, afferma Renzi, il critico
italiano è riuscito a ottenere un momento di sovrano equilibrio nella storia
della critica [della Commedia], e in particolare dello scontro tra colpevolisti
[quelli che considerano Francesca una peccatrice integralmente responsabile
delle vicende] e giustificazionisti [quelli che si fanno paladino della donna]
60. D altronde, per quanto riguarda la colpevolezza o l innocenza di Francesca,
Inglese segnala che la donna, affermando che Amor, ch al cor gentil ratto s
apprende 61, da un punto di vista psicologico si rivela sincera, ma che, nella
prospettiva etica del poema, [è] obiettivamente falsa poiché Amore [è] sempre
soggetto delle azioni determinanti [ prese costui della bella persona/che mi fu
tolta: e l modo ancor m offende./amor, ch a nullo amato amar perdona/mi prese
del costui piacer sì forte/che, come vedi, ancor non m abandona./amor condusse
noi ad una morte ] 62. Da quest angolatura, infatti, tutte le due ipotesi
(tanto quello della colpevolezza quanto quello dell innocenza di Francesca)
rientrano nelle possibilità. Si può considerare Amore come il vero colpevole, o
giudicare che la donna si è arresa a lui, caso in cui lei si rivela
responsabile per le vicende. Secondo Inglese, l aggettivo leggieri che si trova
nel v. 75 e paion sì al vento esser leggieri 63 farebbe parte di un idea
esclusivamente poetica (e quindi non strutturale) che vuole dimostrare, al
lettore, il peso carnale del peccato d amore. Tutto come questo formerebbe un
suggerimento puramente poetico, Francesca, nella poesia, vive come anima
tormentata dalla passione d amore, mentre dalla struttura è dannata per
adulterio incestuoso 64. Quindi, quello che De Sanctis e Croce attribuiscono a
Dante teologo e 58 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.87. 59 Giorgio
Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit.,
pp.87. 60 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca
nella Commedia di Dante, cit., pp.144. 61 Dante Alighieri, Commedia. Inferno,
cit., pp.89. 62 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di
Dante Alighieri, cit., pp.89. 63 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit.,
pp.87. 64 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante
Alighieri, cit., pp.87. 26La storia di Giulio Giorello In
Articoli04-08-2020di Marco Ciardi Dopo la scomparsa di Giulio Giorello, ho
letto molti ricordi a lui dedicati. Uno dei migliori è senz’altro quello di
Vincenzo Barone, che compare nelle pagine di questo numero di Query . Ringrazio
sentitamente Enzo per avere accettato di scriverlo. image Io vorrei
contribuire alla memoria del nostro grande studioso (e amico) sottolineando
soltanto uno tra i molti suoi meriti. Giulio era anche un ottimo storico della
scienza e delle idee. Tale merito gli è stato riconosciuto da uno
dei maestri del Novecento in questo settore, Paolo Rossi Monti (il cui nome
ricorre spesso in questa rubrica e al quale è stato dedicato il primo numero di
“Parastoria”, su Query n. 9, ormai otto anni fa). Recensendo uno dei tanti
bellissimi libri di Giorello, Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del Mito
(2004), Rossi scriveva: «Giorello è stato, da giovane, allievo di Ludovico
Geymonat. Insegna (e si è prevalentemente occupato di) filosofia della scienza.
Attualmente è anche Presidente della Società Italiana di logica e filosofia
delle scienze. Come il suo libro dimostra, non solo utilizza una grandissima
quantità e varietà di testi, ma anche conosce come pochi (e minutamente) la
storia e i luoghi dell’Inghilterra e, più ancora, dell’Irlanda. Giorello è del
tutto consapevole del fatto che il suo libro è una sorta di labirinto. Dentro
quel labirinto (che ha una struttura geometrica) egli conduce (a volte
trascina) il lettore. Le avventure di idee hanno la strana (per alcuni
insopportabile) caratteristica di essere un po’ avventurose: di portare molto
lontano dall’idea che la filosofia abbia il compito di mettere ordine nel
mondo, di trasformarlo (come diceva il mio antico maestro Antonio Banfi) in
“una linda casetta”. Una parte consistente della filosofia italiana sembra
impegnata a confrontare accuratamente fra loro i testi di cinque o sei
rispettabili filosofi di lingua inglese, a commentarli, a commentare i
risultati del confronto, a polemizzare con gli altri commentatori tentando, nel
più dei casi, arzigogolate mediazioni fra tesi contrapposte. Di una cosa non mi
pare lecito dubitare: Giulio Giorello non fa parte della vasta, soporifera e
innocua schiera degli oscuri e instancabili “roditori accademici”».[1]
L’espressione “roditori accademici” era un rimando a quanto scritto sul
tema da Paul K. Feyerabend,[2] un pensatore con cui Rossi ha spesso
polemizzato, ma per il quale nutriva profonda stima.[3] E che anche Giorello,
non a caso, come ha ricordato Barone, ben conosceva. Sua la prefazione
all’edizione italiana di Against method. Outline of an anarchistic theory of
knowledge, edito in originale nel 1975, e pubblicato da Feltrinelli nel
1979.[4] Rossi citava spesso, con orgoglio, che il suo libro che
compendiava decenni di ricerche sui rapporti tra scienza e magia, Il tempo dei
maghi. Rinascimento e modernità (2006), fosse uscito nella collana “Scienza e
idee” diretta da Giorello per Raffello Cortina.[5] Perché sapeva quanto Giulio
avesse chiaro cosa significasse fare storia della scienza, come ricordava
nell’analisi del libro di Enrico Bellone, Molte nature. Saggio sull’evoluzione
culturale (2008): «La parola chiave del processo storico – come nota Giulio
Giorello nella brillante prefazione che ha scritto per questo libro – è
imprevedibilità. Accade infatti spesso nel presente (ed è accaduto spesso nel
passato) che gli scienziati siano stati costretti a “vedere” cose diverse da
quelle che avrebbero invece dovuto scorgere sulla base delle proprie credenze
personali».[6] Come ci ha ricordato Barone, Giulio Giorello era
laureato sia in filosofia che in matematica. Per questo motivo, come aveva
presente Paolo Rossi, Giorello non ha mai pensato che il semplice fatto di
essere scienziati equivalga, per coloro che svolgono tale professione, ad una
autorizzazione «a parlare di testi che non hanno letto, a prendere posizioni su
questioni che non conoscono, ad esprimere opinioni su problemi che non hanno
mai avvicinato».[7] Del resto, già oltre un secolo fa il matematico Paul
Tannery, uno dei padri fondatori della storia della scienza come disciplina
specifica, affermava che «per essere un buono storico non basta essere
scienziato. Bisogna prima di tutto volersi dedicare alla storia, cioè averne il
gusto; bisogna sviluppare in sé il senso storico che è essenzialmente
differente da quello scientifico; bisogna infine acquisire una serie di
conoscenze particolari, di ausilio indispensabile per lo storico, che sono
invece del tutto inutili allo scienziato che si interessa solo al progresso
della scienza».[8] Anche per questo, Giorello era un fautore delle
collaborazioni. Come quella (tra le innumervoli) con il fisico Elio Sindoni,
che ha portato alla realizzazione dell’affascinante Un mondo di mondi. Alla
ricerca della vita intelligente nell’Universo(2016), dove Giulio, nella parte
storica di sua competenza, mostra (anche in questo caso) una conoscenza
approfondita e raffinata degli argomenti trattati. Mostrando, ad esempio, in
nome di quella “imprevedibilità” alla quale si accennava poco fa, come il
“romanziere” Jules Verne avesse, sul tema dell'abitabilità dei mondi, idee
molto più chiare e precise dello “scienziato” Camille Flammarion.[9]
Del rapporto tra “le due culture” Giorello ha sempre preso il meglio (non
dimentichiamo che il celebre testo di Charles P. Snow sull’argomento fu
introdotto in Italia dalla prefazione di Ludovico Geymonat). Ed era consapevole
del ruolo decisivo della scuola nello sviluppare un processo di apprendimento
diverso rispetto a quello tradizionale: «C’è soprattutto da vincere la
scommessa circa “l’avvenire delle nostre scuole”, come direbbe Friedrich Nietzsche.
Chi guarda attentamente alle grandi svolte del pensiero scientifico e alla
stessa innovazione tecnologica non può non constatare come gli aspetti più
creativi abbiano travolto qualsiasi steccato disciplinare. Valeva ieri per le
dottrine di Copernico o per quelle di Darwin, vale oggi per le frontiere della
cosmologia o per quelle della biologia, per non dire dell’informatica e
dell’alta tecnologia. Potremmo dilungarci su non pochi esempi di virtuose
contaminazioni nelle scienze come nelle lettere. Ma ci limitiamo qui a
ricordare che la separazione delle culture è l’effetto più deplorevole
dell’atteggiamento che concepisce le acquisizioni dell’avventura umana come
entità fisse, sospese nel cielo platonico delle idee.»[10] Perciò Giulio
(sempre utilizzando le parole di Paolo Rossi) provava «una invincibile
ripugnanza» per «gli elenchi di scoperte e di ritrovamenti tecnici, per le
sfilate di risultati eternamente veri e di errori eternamente falsi».[11]
Ancora Giorello: «Cosa c’è di meglio per qualsiasi creazione dello spirito
umano che venire utilizzata, contestata, magari stravolta in un dibattito (come
è appunto quello scientifico), in cui in linea di principio nessuna opinione è
immune da critica o revisione? L’ospitalità che la scienza offre a qualsiasi
“straniero” (ricordiamoci delle parole di Milton) è di questo tipo. Non c’è
miglior rispetto che quello che prende forma nelle modalità del conflitto».[12]
Grazie di tutto, Giulio Note 1) P. Rossi. 2018. A mio
non modesto parere. Le recensioni sul “Sole-24 ore”, a cura di R. Bondì e M.
Rossi Monti. Bologna: Il Mulino, pp. 224-225. 2) P.K. Feyerabend. 1981. La
scienza in una società libera. Feltrinelli: Milano, p. 213. 3) P. Rossi. 1999.
Paul K. Feyerabend: un ricordo e una riflessione, in Un altro presente. Saggi
sulla storia della filosofia.Bologna: Il Mulino, pp. 161-167. 4) P.K.
Feyerabend. 1979. Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della
conoscenza (1975). Prefazione di G. Giorello. Milano: Feltrinelli. 5) Cfr. ad
esempio, P. Rossi. 2018. A mio non modesto parere, cit., p. 259. 6) Ivi, p.
389. 7) P. Rossi. 1999. Ci sono molti Galilei?in Un altro presente, cit. p.
134. 8) P. Tannery. 1904. De l'histoire générale des sciences, in “Revue de
Synthèse”, 7, n. 12, p. 3. 9) G. Giorello. 2016. Flammarion, lo “scienziato”,
sconfitto da Verne, il romanziere, in Un mondo di mondi. Alla ricerca della
vita intelligente nell'Universo. Milano: Raffaello Cortina Editore, pp. 62-68.
10) G. Giorello. 2005. Per una Repubblica delle Scienze e delle Lettere, in Le
due culture, a cura di A. Lanni. Venezia: Marsilio, pp. 116-117. 11) P. Rossi.
1967. Considerazioni conclusive, in Atti del Convegno sui problemi metodologici
di storia della scienza. Firenze: Barbera, p. 182. 12) G. Giorello. 2005. Per
una Repubblica delle Scienze e delle Lettere, cit., p. 118.Grice: “The
etymology of libertine ruins it! – or ruins the concept. A slave liberated,
being of a low class condition, would be criticized for his excesses of
freedom!” Giulio Giorello. Giorello. Keywords: il libertino, implicatura
speculativa – specchio e il reame: la communicazione -- “il fantasma e il
desiderio” “lo spettro e il libertino” “lo specchio del reame” – “il libertino”
“lo scimmione intelligente” lo specchio di Narciso, Bruno, Leopardi-- -- -- Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Giorello” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756347867/in/dateposted-public/
Grice e Giorgi – l’implicatura di Bacco – filosofia
italiana – filosofia leccese -- Luigi Speranza (Cavallino).
Filosofo. Si laurea a Perugia con Givone con “L’estetico” --. studia con Seppilli
e Arcangeli Studia etnomusicologia della “Grecìa salentina”, rivalutando i brani
in "grico". Altre opere: “Pizzica e rinascita”, La Gazzetta del
Mezzogiorno”. Cura “La danza delle spade e la tarantella. Insegna a Lecce. “Le
strade che portano al Subasio passando dal Salento” (Ed. Del Grifo, Lecce), “Tarantismo
e rinascita: i riti musicali e coreutici della pizzica-pizzica e della
tarantella” (Lecce, Argo); “La danza delle spade e la tarantella: saggio
musicologico, etnografico e archeologico sui riti di medicina” (Argo, Lecce). “Pizzica-Pizzica,
la musica della rinascita. La tarantella del tarantismo e la sua resurrezione:
struttura musicale, stato dell'arte e neotarantismo” (Lecce, Pensa MultiMedia);
“L'estetica della tarantella: pizzica, mito e ritmo, Congedo Editore, Galatina);
“Pizzica e tarantismo: la carne del mito dall'etnomusicologia all'estetica
musicale, Galatina, Edit Santoro); “Il tarantismo come mito: dagli errori di De
Martino alla rivalutazione del pensiero mitico, Galatina, Congedo); “Il mito
del tarantismo: dalla terra del rimorso alla terra della rinascita, Galatina,
Congedo); “I poeti del vino, Galatina, Congedo); “La pizzica, la taranta e il
vino: il pensiero armonico, Galatina, Congedo, “La rinascita della pizzica,
Galatina, Congedo); Husserl e la Krisis,
3ª in “Segni e comprensione”, Milano); Il francescanesimo tra idealità e
storicità, 3ª in “Segni e comprensione”, Porzincula (S.Maria degli Angeli); “Il
canto popolare salentino, in Convegno Di Studi Demologici Salentini, Copertino.
F. Noviello e D. Severino, Capone, Cavallino Pierpaolo De Giorgi, Il tarantismo
secondo Schneider: nuove prospettive di ricerca, in, Quarant'anni dopo De
Martino: il tarantismo, Atti del Convegno, Galatina, La iatromusica carne del
mito: la pizzica pizzica tra etnomusicologia ed estetica musicale, in, Mito e
tarantismo Pellegrino, Pensa MultiMedia, Lecce, La pizzica pizzica immensa
risorsa culturale del Sud, in, Terra salentina: i Sud e le loro arti, materiali
del Convegno di Arnesano, La Stamperia, Leverano, Pierpaolo De Giorgi, “Il
ritorno di Dioniso” a proposito di un libro diPellegrino, in “Segni e comprensione”,
Fra aborigeni e tarantismo, in, Settimana di promozione culturale pugliese C.
Minichiello, Pensa MultiMedia, Lecce, Le tradizioni popolari nei disegni di
Nino Severino, greco, Copertino, Diario di bordo, in, La czarda e il vento:
antologia di autori salentini, G. Conte, Congedo Pierpaolo De Giorgi, Poesia
sintetica, in, Il cuore di Amleto: testi, grafiche e fotografie di autori
contemporanei salentini e ungheresi, nota introduttiva di G. Conte, traduzioni
di F. Baranyi e A. Menenti, Veszprém, Pierpaolo De Giorgi, I fogli, in “L'Immaginazione”;
Chiedendo e schiodando, La vita amico è l'arte dell'incontro e Maestà delle
volte, in Omaggio al Salento, Torgraf, Galatina, In marcia di pace verso Assisi
e Trilogia del molto e ben comunicare, in
Omaggio a Maglie cuore del Salento, Torgraf, Galatina, Fantastica
pizzica, in, Salentopoesia, festival nazionale di poesia con musica e danza,
Gallipoli, Conte, Lecce, Gheriglio in disegno e preghiera, in, Salentopoesia, festival nazionale di poesia con musica e danza,
Lecce, 5Conte, Lecce, Isola nel Trasimeno,
in, Salentopoesia, festival nazionale di poesia con musica e danza, Monteroni,
Conte, Lecce, Pierpaolo De Giorgi, S'è cambiato il mondo? e Leggeri Cieli da
Leggere, in Luigi Marzo: mostra di pittura, Spello, catalogo, Spello, Lascio un
cielo di luce cinica, in Sulle ali di Pegaso senza mai cadere. Marzo: mostra di
pittura, Città della Pieve, Tipografia Pievese, Città della Pieve 1998.
Discografia Album Fantastica Pizzica (MCDiscoexpress) Pizzica e Trance
(MCDiscoexpress) Pizzica e Rinascita (CDSorriso) Il tempo della taranta: pizzica
d'autore (CDDrim) 5Pizzica grica: to paleo cerò (CDPlanet Music Studio) Pizzica
e RinascitaRistampa (CDC&M) Taranta Taranta (CDIrma records). La pizzica la
taranta e il vino. Il pensiero armonico – Pierpaolo De Giorgi 4 Gennaio
2022 G.B. Il libro è stato pubblicato la prima volta nel
corso del 2010 e dopo undici anni riteniamo particolarmente ricordarlo per la
sua attualità culturale. Pierpaolo De Giorgi, peraltro, è socio della nostra
ASSOCIAZIONE APSEC e collaboratore di questa nostra rivista. “La ricerca
innovativa e serrata compiuta da Pierpaolo De Giorgi, in tanti anni di impegno
nelle acque agitate dell’etnomusicologia e dell’estetica, approda finalmente al
porto sicuro dello studio La pizzica, la taranta e il vino: il pensiero
armonico. Accade allora che scoperte e sorprese, esposte con cura
e rigore scientifico, si susseguano qui continuamente e senza soluzione di continuità,
offrendo una concezione finalmente reale del tarantismo e della sua musica
terapeutica, la pizzica pizzica, come pure del decisivo ruolo simbolico e
religioso del vino nella civiltà mediterranea. Sono esperienze direttamente
connesse con quelle antecedenti del dio Dioniso, il nume più significativo
della Magna Grecia e dei territori da essa influenzati, archetipo dell’adesione
entusiastica alla vita, della reciprocità e del dialogo. Tramite
Dioniso, nella musica e nella danza, come pure nel vino e nell’ebbrezza, l’uomo
recupera il contatto con le radici più profonde dell’essere, che si manifestano
armoniche, duali e complementari. Per questo i simboli della taranta, della
pizzica pizzica e del vino sono rimedi psicologici che restituiscono l’armonia
perduta e che si pongono come un’efficace risorsa anche oggi, per costruire un
nuovo umanesimo. Sono simboli mitici, che collaborano con quelli della festa e
del rito, e vengono prodotti da un soggetto collettivo. Devono essere
considerati come arte tradizionale, alla stessa stregua dell’arte individuale.
Nel delineare i confini di queste concezioni, De Giorgi rimedita il brillante
ma non del tutto sufficiente “pensiero meridiano” di Nietzsche, di Camus e di
Cassano. In Puglia, come in gran parte del mediterraneo, “il
pensiero armonico” è il pensiero della rinascita e della misura, valori
indispensabili anche oggi per un corretto cammino della coscienza verso la
comprensione di se stessa e dell’uomo verso la propria natura divina.”
Indice CAPITOLO I IL PENSIERO ARMONICO E LA RICERCA IN PUGLIA La Puglia e il
pensiero armonico Il mare, l’armonia degli opposti e la luce mediterranea Il
pensiero armonico come incontro di mythos e di logos Le radici elleniche della
tradizione pugliese Archeologia e storia. Etnomusicologia ed estetica della
tarantella La ricerca comparativa sui brindisi e le analogie con la pizzica
pizzica Il mito e il pensiero armonico del Mediterraneo nella contemporaneità
L’ambivalenza del mito e la misura armonica La misura armonica e il cristianesimo
Monoteismo e panteismo Noi e i miti del tarantismo e del labirinto. Verso un
nuovo umanesimo CAPITOLO II I BRINDISI E LA PIZZICA PIZZICA COME SIMBOLI
DI RINASCITA I brindisi e la pizzica pizzica come simboli di rinascita in
Puglia La festa e il pensiero mitico della rinascita La forza estetica di
un’arte speciale del leccese, la pizzica pizzica Pizzica pizzica, tarantella e
bellezza L’umanesimo mediterraneo e la bellezza mitica della pizzica pizzica e
della tarantella Le civiltà del vino e l’ambiente poetico tradizionale della
Puglia I brindisi, la tradizione popolare e il soggetto collettivo La ricerca
etnomusicologica ed estetica e i brindisi tradizionali Il ritmo armonico della
pizzica pizzica e la gestione delle contraddizioni – La cumbersazione e i
brindisi CAPITOLO III IL TEMPO CICLICO, LA RIVOLTA COLLETTIVA E IL
PENSIERO ARMONICO TRA ARTE E MITO Il tarantismo come rito di rinascita e il
tempo ciclico come attività psichica collettiva di rivolta Nietzsche, l’eterno
ritorno e il recupero del pensiero arcaico del Mediterraneo – Le analogie
dello Zarathustra con il tarantismo La vita come conoscenza: grandezza e
miseria di Nietzsche. – L’eterno ritorno dell’identico e l’eterno ritorno
dell’analogo Gli errori di De Martino e le intuizioni di Camus. La rivolta come
lotta contro il negativo e come affermazione dell’essere e della vita I
brindisi, la pizzica pizzica e il rito del tarantismo come affermazioni della
vita – La ierogamia e la rinascita I simboli della rivolta e
dell’inversione terapeutica Il ruolo di inversione della pizzica tarantata:
mito, ritmo e analogia La pizzica scherma di Torrepaduli e la rivolta mitica I
risultati dell’analisi etnomusicologica: la biritmìa simbolica. La pizzica
pizzica come analogon della dynamis armonica universale CAPITOLO IV
PENSIERO ARMONICO E SOGGETTO COLLETTIVO Il ritorno al cielo del Sud e i
fraintendimenti di Nietzsche. Dioniso e il pensiero armonico L’aióresis
dionisiaca e la Processione dei Misteri di Taranto. – Il mare come
simbolo armonico e come terapia L’intenzionalità collettiva: il teatro tragico
del tarantismo e la tragedia greca Il tempo ciclico e la Magna Mater:
l’evoluzione della coscienza La Grecia e il governo rituale degli archetipi.
Pizzica pizzica e labirinto I brindisi tradizionali e la pizzica pizzica come
arte tradizionale collettiva L’arte collettiva tradizionale come arte del mito.
L’umanesimo della misura CAPITOLO V IL SIMPOSIO, I BRINDISI E L’UMANESIMO
DELLA MISURA La tradizione pugliese e il simposio greco e magnogreco Il brindisi
e il simposio L’ethos del vino come armonia degli opposti La sperimentazione
del divino e l’etica della misura Il pensiero armonico, l’agape e il rischio
della dismisura La sublimazione del simposio La dismisura e la degenerazione
del simposio CAPITOLO VI L’EMERSIONE DEL PENSIERO ARMONICO DALLA RICERCA
E DALLA COMPARAZIONE La danza, le uova e le corna come simboli simposiali di
rinascita Il gesto dionisiaco delle corna nelle musiche e nelle danze della
rinascita I saperi tradizionali dell’equilibrio mensurale del pensiero
armonico: il ritmo e la benedizione La città di Brindisi, l’origine del nome
brindisi e il Bacco in Toscana La cena della spillazione Il porto di Brindisi e
le corna rituali come simbolo di rinascita. Il brindisi di Dioniso e di Semole
come benedizione Indice dei nomi Iconografìa comparativa Lecce
Tarantula. Antropologia simbolo e iniziazione dalla Tradizione alla
Contemporaneità Incontri culturaliINCONTRI CULTURALI Tarantula. Antropologia
simbolo e iniziazione dalla Tradizione alla Contemporaneità Da Ernesto De
Martino ad oggi la Pizzica Salentina, la Taranta e tutto quel mondo che attorno
ad essa ruota in maniera spettacolare e folklorico, in realtà nasconde studi e
tradizioni che affondano le loro radici in un passato lontano. In una prospettiva
più ampia si può dire che in Europa c'è un luogo che da qualche tempo a questa
parte ha espresso una incredibile sequenza di suoni, stili, artisti,
esperimenti e contaminazioni culturali. Questo luogo è il Salento. La Terra del
Rimorso - come la definì Ernesto de Martino - si è trasformata nella Terra
dello spettacolo delle tradizioni. Riportando con forza la cultura popolare,
l'attenzione per le radici, al centro dell'immaginario giovanile e del consumo
pop, il Salento si è rivelata una meta a cui non si può rinunciare. A cinquanta
anni dal viaggio della troupe di Ernesto de Martino nel Salento, quei luoghi si
sono trasformati in altro, dimenticando l’Oltre. Negli ultimi vent'anni il
Salento è stato spettatore della nascita delle dance hall del Sud Sound System,
e dell'irruzione sulla scena della pizzica, sottratta da un lato al folklore,
dall'altro all'accademia sino poi al più grande world music festival del mondo,
la Notte della Taranta. Degli aspetti antropologici dell’argomento e di quelli
iniziatici, simbolici ed esoterici se ne occuperanno Maurizio Nocera e
Pierpaolo De Giorgi in un incontro dibattito senza precedenti Mail
Presidente Ass. Thorah – piscopo.grazia@libero.it Biografie
relatori Pierpaolo De Giorgi, laureato in Filosofia, è etnomusicologo,
filosofo, musicista e poeta. Ha fondato e guida “I Tamburellisti di
Torrepaduli”, con i quali ha suonato in Italia e in tutto il mondo, provocando
la nascita-rinascita del genere musicale pizzica. Ha inciso sette dischi, che
hanno venduto più di centomila copie, scrivendone i testi poetici e le musiche.
Sue liriche sono state tradotte in greco e in ungherese. Assieme al pittore
Luigi Marzo, ha pubblicato il noto volume Le strade che portano al Subasio
passando dal Salento (Del Grifo 1991). Ha tradotto in italiano La danza delle
spade e la tarantella di Marius Schneider (Argo, 1999) e ha pubblicato numerosi
volumi di ricerca, tra i quali Tarantismo e rinascita (Argo, 1999), L’estetica
della tarantella (Congedo 2004), Pizzica e tarantismo (Edit Santoro, 2005), I
poeti del vino (Congedo 2007), Il mito del tarantismo (Congedo, 2008), La
pizzica, la taranta e il vino: il pensiero armonico (Congedo 2010), La
rinascita della pizzica: testi, poesia e storia dei Tamburellisti di
Torrepaduli. La via della Taranta (Congedo 2012) che riformulano radicalmente
le indagini sul tarantismo e sulla tarantella iatromusicale. Maurizio
Nocera - “Maurizio Nocera (classe 1947) … è un eccellente rappresentante di
quella genia … di intellettuali militanti, che sono sempre di meno, oggi, in
giro. “Impegnato” dalla punta delle (consumate) scarpe fino alla radice dei
(pochi) capelli, infaticabile viaggiatore, talent scout, esploratore di mondi
diversi, inguaribile sognatore, gran parlatore, insegnante, politologo,
promoter culturale, contastorie, indefesso ricercatore e divulgatore di patrie
memorie, bibliofilo, collezionista, scrittore, salentino al cento per cento
eppure cittadino del mondo, giornalista, poeta, saggista, storico, critico
letterario, editore.” (Paolo Vincenti, Io e Maurizio Nocera, in
http://spigolaturesalentine.wordpress.co
m/2010/07/03/spigolautori-maurizio-nocer a/). Maurizio Nocera è segretario
provinciale dell'ANPI di Lecce.Grice: “Giorgi is not an Italian philosopher; he
is a Leccese philosopher. You have to be Leccese to be a Leccese philosopher,
and only a Leccese philosopher will NOT appropriate TARANTA – as Martino did –
misunderstanding it – The idea of Nietzsche on Bacco is all very well, but
Giorgi notes that you have to have the Leccese experience to understand all
this”. Pierpaolo De Giorgi. Giorgi. Keywords: l’implicatura di Bacco, il
ritorno di Dioniso; mito. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giorgi” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756207767/in/datetaken/
Grice e
Giorgi – fiducia nella fiducia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Vernole).
Filosofo. Grice: “Giorgi discovered a
phenomenon I often overlooked: meta-trust: ‘la fiducia nella fiducia e, alla
Parsons, la fiducia di ego con alter, e alter con ego. Grice: “I love Giorgi,
for various reasons; unlike Sir Geoffrey Warnock, or me, who base our Kantian-type
morality on trust, Giorgi recognises a very apt distinction between trust and
‘meta-trust’ – fiduccia nella fiduccia: fiduccia nell’altro!” Insegna a
Salento. Si laurea a Roma con “il giuridico e il deontico” – Fonda il Centro
Studi sul Rischio a Lecce. Studia i sistemi sociali. Altre opera: “Sociologia
del diritto” Manuale di diritto del lavoro e legislazione sociale” “Azione e
imputazione” “La società”; “Diritto e legittimazione” “Mondi della società” o,
con Stefano Magnolo” “Filosofia del diritto” “Futuri passati” Fiducia è
un meccanismo, un dispositivo di riduzione della complessità. Fiducia non è un
valore positivo dell'agire o dell'esperienza; non rappresenta una preferenza
rispetto al suo opposto, non ha valore morale di preferibilità. Fiducia e
sfiducia sono grandezze non convertibili. Dare fiducia ad altri o suscitare
fiducia in altri non sono qualità morali, disposizioni buone, né preferibili o
migliori in assoluto. Il riscontro della loro preferibilità è la situazione, la
conferma della validità dell'orientamento alla fiducia può essere reperita solo
nella dimensione temporale, l'accertamento dell'opportunità può essere dato
solo dal futuro. La funzione della fiducia, infatti, si dispiega nella tensione
fra presente e futuro. In questa tensione si proietta nel presente il dramma
dell'incertezza e il rischio del non sapere. Il sapere, infatti, esclude il
rischio e rende inutile la fiducia. Il non sapere, invece, impone al singolo,
al sistema personale o sociale, la necessità di reperire un dispositivo di
assorbimento dell'incertezza che rischia di paralizzare l'agire. Il problema,
allora, è il tempo; lo spazio di questo tempo è il presente, una estensione
temporale della cui durata ci si rende conto soltanto quando è finita, cioè
quando è già diventata un passato. Lo spazio della fiducia è questo. Solo in
questo spazio si può avere fiducia. In esso cioè si può costruire, sviluppare,
mettere alla prova quella inevitabile avventura che è l'anticipazione delle
aspettative dell'altro. Fiducia non è altro che questa anticipazione che
orienta l'agire e l'esperire. Ma è un'avventura del presente che anticipa il
futuro nella rappresentazione di colui che ha fiducia, perché si serve solo
delle risorse di una propria prestazione effettuata in anticipo e costruita su
una propria rappresentazione del mondo. Una risorsa esterna, una certezza,
renderebbe inutile dare fiducia [...]. La fiducia costituisce una mediazione
tra la complessità del mondo e l'attualità dell'esperienza. Una mediazione drammatica,
rischiosa, che si sostiene sul sapere di non sapere, che produce da sé le
risorse che investe e con le quali si espone al futuro anticipandolo e
all'altro rappresentandosi le sue aspettative [...]. Fiducia non è affidamento
all'altro. Fiducia non è il racconto dell'altro. Non ci sarebbe il dramma, non
ci sarebbe neppure la possibilità di raccontare l'altro, se fiducia avesse a
che fare immediatamente con l'altro. Fiducia ha a che fare con la propria
rappresentazione dell'altro; essa è affidamento alle proprie aspettative
dell'altro. Fiducia è esposizione del sé. Fiducia è abbandono al sé, per questo
c'è il rischio, il dramma, la tensione. (R. De Giorgi, Presentazione
dell'edizione italiana, in N. Luhmann, La fiducia, Bologna, il Mulino, Riferimenti
Bibliografici - P. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione
sociale, Bologna, 1969;* - N. Luhmann, Illuminismo sociologico, Milano, 1983;*
- A. Schütz, La fenomenologia del mondo sociale, Bologna, 1974.*La semantica
del rischio Decisione razionale e azione sociale Raffaele De Giorgi
Docente di Filosofia del diritto - Università di Lecce venerdì 22 gennaio
1999 - 17,30 Centro Culturale. Sulla situazione delle scienze sociali Se
si osserva il panorama delle scienze sociali oggi, si può affermare che esse
sono alla ricerca di temi attuali riferiti alla società, ma che per questo non
dispongono ancora di una struttura teorica adeguata, in particolare non sono
pervenute ancora a una adeguata descrizione della società moderna. Le
discussioni teoriche vengono effettuate in relazione ad autori, in particolare
in relazione a classici. Questo comporta, nel modo di porre i problemi, la
presenza di un sovraccarico di vecchie prospettive e l’implicito orientamento
ad una società che in virtù del suo ottimismo sul progresso aveva raggiunto i
suoi limiti, ma poteva tener presente solo in misura limitata le conseguenze
della società moderna e le poteva trattare solo come problemi della
distribuzione del benessere. Le acquisizioni alle quali si è pervenuti sono date
da un atteggiamento scettico verso l’organizzazione e la razionalità (M. Weber)
o da una critica della struttura di classe della società moderna. Di queste
acquisizioni vive ancora oggi la discussione teorica. La società moderna
ha reso urgenti problemi completamente diversi: il problema dell’ecologia, il
problema delle conseguenze che derivano dalle nuove tecnologie, dalla ricerca
biologica e genetica: ma anche il problema delle conseguenze legate a
determinate politiche di investimento o quello relativo al rapporto tra uso del
denaro per fini speculativi o per fini produttivi. Si tratta solo di alcuni
indici degli ambiti problematici con i quali continuamente si confronta la
società contemporanea e rispetto ai quali la soglia di attenzione, e quindi di
preoccupazione, sembra essere più alta. Negli anni più recenti è sembrato
che la scienza sociale riuscisse ad andare oltre la discussione sui classici:
si è elaborato così un orientamento problematico che può essere descritto
mediante concetti quali complessità, problemi del controllo e guida,
possibilità dell’azione ed altri ancora. Così la società viene descritta dalla
prospettiva dell’agire politico e quindi dalla prospettiva della
pianificazione, la quale ha davanti a sé campi di realtà altamente complessi,
in cui tutte le azioni scatenano “conseguenze perverse” e producono problemi
che danno motivo a nuove forme dell’agire. Tuttavia anche questa discussione ha
raggiunto in modo incontestabile i suoi limiti, non dispone di potenziale
esplicativo dell’agire reale e ripropone ormai solo l’originaria formulazione
dei problemi. All’ottimismo del progresso si è sostituita la paura del futuro,
all’ansia della pianificazione e del controllo, la rassegnazione verso le
conseguenze perverse dell’agire che, non potendo essere previste, vengono rese
oggetto di analisi empirica: un motivo ulteriore per considerare il presente
con disappunto e per tentare di risolvere mediante il ricorso alla morale ciò
che sembrava impossibile risolvere mediante la razionalità. Non si
può affatto prevedere che nel prossimo futuro la scienza sociale riuscirà a
colmare il deficit teorico che la caratterizza e a pervenire ad una convincente
descrizione della società moderna. E’ possibile però isolare temi speciali, che
in questa direzione sono fruttuosi e possono essere utilizzati perché le
ricerche si concentrino su di essi. Il tema rischio può costituire un tema
cosiffatto. Esso è un tema nuovo rispetto alla discussione sui classici e
mantiene considerevole distanza rispetto alle teorie sulla decisione razionale
o sulla pianificazione razionale. Esso attualizza la dimensione del tempo, una
dimensione centrale per la società moderna da tutte le prospettive. Esso
altresì ha particolare riferimento rispetto ai temi che nell’opinione pubblica
hanno acquistato un significato considerevole e che, gradualmente, diventano
dominanti. Esso ha quindi tutte le chances di fornire un contributo rilevante
alla comprensione delle condizioni sociali nelle quali oggi inevitabilmente
viviamo e delle quali in un qualunque modo dobbiamo tener conto. 2. Stato
della ricerca. Negli ultimi vent’anni il tema rischio ha stimolato una
mole immensa di ricerche ed ha raccolto una letteratura che ormai non è più
possibile controllare. Nella letteratura meno recente il tema si è sviluppato
prevalentemente sotto la voce: insicurezza. La ricerca però si è concentrata su
alcuni punti cruciali e non è pervenuta all’elaborazione di una chiara
concettualità teoretica. Da una parte è dato di trovare ricerche sulla
valutazione delle conseguenze prodotte dalle nuove tecnologie; queste ricerche
presentano ramificazioni molto concrete: ad esempio la valutazione degli
effetti cancerogeni che derivano da alcuni prodotti chimici o la valutazione
delle possibilità che si verifichino eventi particolarmente improbabili ed
insieme altamente catastrofici. Questa letteratura è orientata nel senso delle
teorie della casualità o nel senso della statistica: essa ha prodotto a sua
volta altra letteratura che si occupa della posizione e del ruolo degli esperti
rispetto alla politica e che di conseguenza individua una perdita di prestigio
e di credibilità della scienza e degli esperti nelle diverse tecnologie,
qualora questi, sotto la pressione e l’urgenza delle decisioni siano costretti
a rendere manifeste le loro insicurezze o le controversie interne alla scienza
stessa. Si tratta di una letteratura e di un insieme di ricerche
che tematizzano i problemi della sicurezza rispetto a situazioni di pericolo
oggettivo, ma che non riguardano la prospettiva di chi, nell’agire concreto,
deve decidere se rischiare o non rischiare e a quali costi. Accanto
a queste ricerche è dato di trovarne altre che sono orientate in misura
crescente in senso psicologico e che indagano i modi in cui i singoli si comportano
in situazioni di rischio. Risultato di queste ricerche è una distinzione di
variabili che influenzano il comportamento, come ad esempio l’influsso della
fiducia di sé o del controllo di sé sulla disponibilità di colui che agisce
verso il rischio. Un altro orientamento di ricerca si occupa dei
deficit di razionalità e degli “errori” statistici che è possibile individuare
nel comportamento decisionale quotidiano. La disponibilità al rischio dipende,
secondo queste ricerche, non da ultimo dal modo in cui colui che decide pone il
problema col quale deve misurarsi. Questi orientamenti ai quali si
sostiene la ricerca sul rischio permettono di comprendere perché gli esperti
che si occupano della percezione e valutazione del rischio e delle strategie
del suo trattamento, siano essenzialmente studiosi di scienze naturali, di
statistica, di economia (in particolare per i settori relativi alle teorie
della scelta razionale, del calcolo dell’utilità, ecc.) o di psicologia.
Persino il tema “comunicazione sul rischio” viene trattato da specialisti che
hanno questa formazione. La sociologia si è occupata fino ad ora
prevalentemente degli aspetti limitati dei nuovi movimenti che si formano nella
società a seguito della accresciuta percezione del rischio. La scienza politica
ha manifestato scarsa attenzione per i problemi che derivano dal fatto che le
questioni legate al rischio sovraccaricano gli interessi politici. Accanto alla
medicina si è stabilizzata un’etica che si occupa dei modi in cui la morale
dovrebbe affrontare questioni che sembrano sottrarsi al calcolo
razionale. Nonostante la sua ampiezza, l’attuale ricerca sul rischio non
riesce a pervenire a risultati utili sia alla descrizione dell’agire
decisionale che alla determinazione di possibilità ulteriori degli stessi
ambiti decisionali, perché è legata da vincoli che derivano dal modo stesso in
cui il problema del rischio viene tematizzato. Questi vincoli sono definiti dai
modelli derivati dalle teorie della decisione razionale e dalle teorie
psicologico-individualistiche. 3. Integrazione teorica. Tanto
dal panorama delle ricerche quanto dall’eterogeneità dei diversi approcci
scaturisce un considerevole bisogno di integrazione teorica. Le prestazioni
innovative che è possibile effettuare in rapporto allo stato attuale della
ricerca dipendono dal fatto che si riesca ad elaborare e a rendere disponibile
una concettualità teorica capace di rendere possibili questi riferimenti.
Il concetto di rischio è stato definito essenzialmente in relazione agli ambiti
della relazione razionale, per così dire, come concetto per la elaborazione dei
problemi del calcolo razionale. Da qui derivano considerevoli difficoltà di
delimitarne significato e contenuto. Nella letteratura si scambiano e si
utilizzano come equivalenti e fungibili con il concetto di rischio formulazioni
quali pericolo, danger, hazard, insicurezza e simili. Proprio per questo, sul
piano metodologico è necessario mettere in chiaro nel contesto di quali
distinzioni il rischio acquista il suo contenuto e significato proprio.
La distinzione tra rischio e sicurezza sembra inutilizzabile. Sicurezza in
quanto opposta a rischio, indica solo un posto vuoto che non può certo essere
riempito empiricamente. Sicurezza, nello schema rischio-sicurezza, indica solo
un concetto riflessivo: esso esibisce solo la posizione dalla quale tutte le
decisioni possono essere analizzate dal punto di vista del loro rischio.
Sicurezza, in questo senso, universalizza solo la coscienza del rischio;
d’altra parte non è un caso se, a partire dal XVII secolo, tematiche della
sicurezza e tematiche del rischio si sviluppano insieme. Per questo
sarebbe necessario provare se sia possibile intendere il concetto di rischio
utilizzando le prospettive fornite dalla teoria attributiva. Nel generale
contesto di una insicurezza rispetto al futuro e di un danno possibile, si
potrebbe parlare di rischio quando un qualche danno venga imputato ad una
decisione, cioè quando questo danno debba essere trattato come conseguenza di
una decisione (o da colui che decide o da altri). Il concetto opposto sarebbe
allora il concetto di pericolo, che è applicabile quando danni possibili
vengano imputati all’esterno. Una tale concettualizzazione permetterebbe di
utilizzare la problematica dell’attribuzione che si è rivelata fruttuosa e
saldamente sperimentata. La concettualizzazione proposta dà insieme
plausibilità al fatto che nella società moderna la maggiore coscienza del
rischio sia correlata all’accrescimento delle possibilità di decisione.
Riferimenti Bibliografici - Ulrich Beck, Risikogesellschaft. Auf
dem Weg in eine andere Moderne, Frankfurt a.M., 1986;* - Ulrich Beck (Ed.),
Politik in der Risikogesellschaft. Essays und Analysen, Frankfurt a.M., 1991; -
Vincent T. Covello, J. Mumpower, Environmental Impact Assessment, Technology
Assessment, and Risk Analysis, NATO ASI Series, Berlin-Heidelberg, 1985; - Mary
Douglas, Come percepiamo il pericolo. Antropologia del rischio, Milano, 1992;*
- Mary Douglas, Aaron Wildavsky, Risk and Culture. An Essay on the Selection of
Technological and Environmental Dangers, California UP, 1983;* - Adalbert
Evers, Helga Nowotny (Eds), Über den Umgang mit Unsicherheit. Die Entdeckung
der Gestaltbarkeit von Gesellschaft, Frankfurt a.M., 1987; - Anthony Giddens,
The Consequences of Modernity, Stanford UP, 1990;* - Alois Hahn, Willy H.
Eirmbter, Rüdiger Jacob, Le Sida: savoir ordinaire et insécurité, «Actes de la
recherche en sciences sociales», 104, pp. 81-89, 1994; - Toru Hijikata, Armin
Nassehi (Eds), Riskante Strategien. Beiträge zur Soziologie des Risikos,
Opladen, 1997; - B.B. Johnson, Vincent A. Covello (Eds), The Social and
Cultural Construction of Risk, Dordrecht, 1987; - Franz-Xaver Kaufmann,
Sicherheit als soziologisches und sozialpolitisches Problem. Eine Untersuchung
zu einer Wertidee hochdifferenzierter Gesellschaften, Stuttgart, 1970; -
Roswita Königswieser, Matthias Haller, Peter Maas, Heinz Jarmai (Eds),
Risiko-Dialog, Köln, 1996; - Georg Krücken, Risikotransformation. Die
politische Regulierung technisch-ökologischer Gefahren in der
Risikogesellschaft, Opladen, 1997; - Niklas Luhmann, Sociologia del rischio,
Milano, 1996;* - Charles Perrow, Normal Accidents. Living with High-Risk
Technologies, New York, 1984; - Aaron Wildavsky, Searching for Safety, New
Brunswick-London, 1988. (*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono
disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito
presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)
Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della
conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.Grice: “Giorgi understands
trustworthiness perfectly. However, he does not seem to care to provide a moral
background for it, which is okay with me, since being trustworthy and expecting
others to be trustworthy is what an honest chap does! It’s different with
PERJURY, and Giorgi has shed light on the notion of legitimacy – an oath of
trustworthiness becomes a LEGAL BOND – not just moral. It is however better to
consider the moral trustworthiness as PRIOR conceptually to the legal
trustworthiness – even if conceptual priority can go both ways. EPISTEMICALLY,
to have a law that condemns perjury may be the best way NOT to have faith in
faith (fiducia nella fiducia) but PRESUPPOSE that the other has a moral-legal
bond to be trustworthy. The perjury figure in Roman law has to be considered
historically, since if there was something the Italians are good at is Roman
law!” -- Raffaele De Giorgi. Giorgi. Keywords: fiducia nella fiducia, il giuridico,
il deontico, imputazione, azione, fiduzia nella fiducia. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Giorgi” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757844030/in/dateposted-public/
Grice e
Giovanni – la civetta di Minerva – filosofia italiana – Luigi Speranza Napoli).
Filosofo. Grice: “The Italians love
‘divenire’ as in ‘being and becoming’ – but if I say Mary is becoming a
princess, ain’t Mary being?” Grice: “I like Giovanni; only in Italy, you write
an essay on Marx on cooperation and on Kelsen; and then of course an Italian
philosopher HAS to philosophise on Vico: ‘divvenire della ragione,’ Giovanni
calls what I would call a critique of conversational reason!” Ha aderito
successivamente alla Rosa nel Pugno. Simpatizzò
per la monarchia e l'11 giugno 1946 fu tra coloro che presero parte agli
scontri che causarono la strage di via Medina; in seguito avrebbe spiegato la
sua partecipazione con queste parole: “Già leggevo Hegel ero monarchico perché
credevo all'unita dello Stato.” “Scappai quando la situazione s'incanaglì». Si
laurea a Napoli con la tesi “Vico: natura e ius.” Insegna a Bari. Direttore di “Il Centauro. Rivista di
filosofia". Altre saggi: “L'esperienza come oggettivazione: alle origini
della scienza”; “Il concetto di classe sociale in Cicerone”; “La borghesia
italiana”; “Il concetto di prassi”; “Marx dopo Marx” (cf. Luigi Speranza, “Grice dopo Grice.”
Impilcature: Not Grice! --; “La nottola di Minerva”; -- il guffo di Minerva –
la civetta di Minerva -- “Dopo il comunismo”; il comune -- “L'ambigua potenza
dell'Europa”; “Da un secolo all'altro: politica e istituzioni” – istituzione
istituzionalismo istituismo “La filosofia e l'Europa”; “Sul partito
democratico. Aristocrazia, democrazia crazia cratos concetto di potere -- -- Opinioni
a confronto”; “A destra tutta. Dove si è persa la sinistra?” “Elogio della
sovranità politica, -- il sovrano – lo stato sovrano – Machiavelli -- Editoriale scientifica, “Le Forme e la storia.
Scritti in onore di Giovanni, Napoli, Bibliopolis, La parabola di Giovanni. Il dibattito
Un saggio di de Giovanni paragona Severino al filosofo del fascismo. Ma a tutte
le sue obiezioni è possibile rispondere È Gentile il profeta della civiltà
tecnica Ne rende possibile il dominio planetario. Eppure la legge del divenire
è eterna di EMANUELE SEVERINO Giovanni Gentile fu assassinato per- ché era la
voce più autorevole e con- vincente del fascismo. Ep- pure la sua filosofia è
la ne- gazione più radicale di ciò che il fascismo ha inteso essere. Non solo.
Essa è tra le forme più potenti — non è esagerato dire la più potente — del
pen- siero del nostro tempo. Di tale potenza lo stesso Lenin si era accorto —
forse gli assassini di Gen- tile non lo sapevano neppure. Tanto meno lo sa la
cultura filosofica oggi dominante, che mai rico- noscerebbe a un italiano un
così alto rilievo. Non solo. Contrariamente agli stereotipi che vedono in
Gentile un avversario della scienza, l’attuali- smo gentiliano è l’autentica
filosofia della civiltà della tecnica: rende possibile il dominio planeta- rio
della tecno-scienza, ancora frenato dai valori della tradizione. Altrove ho
mostrato il fonda- mento di queste affermazioni. Il recente libro di Biagio de
Giovanni Disputa sul divenire. Gentile e Severino (Editoriale Scientifica,
2013) è un grande e suggestivo contributo al loro approfon- dimento — come
d’altronde c’era da attendersi dalla statura culturale e sociale dell’autore.
Va facendosi largo nel mondo la convinzione che l’uomo non possa mai
raggiungere una verità assolutamente innegabile; che, prima o poi, ogni verità
siffatta resti travolta da altri modi di pensa- re, da altri costumi, cioè si
trasformi, muoia: di- venga. Travolta, anche la certezza che esistano le cose
che ci stanno attorno; essa è innegabile solo fino a che esse non vanno
distrutte: era innegabi- le solo provvisoriamente. Esser convinti dell’ine- sistenza
di ogni verità assoluta è quindi, insieme, esser convinti dell’inesistenza di
ogni Essere im- mutabile ed eterno. «Dio è morto», si dice. La negazione di
ogni verità assoluta e innega- bile non investe dunque l’esistenza del divenire
del mondo. Anzi, proprio perché si fa largo la convinzione che il divenire di
ogni cosa e di ogni stato sia assolutamente innegabile (ed eterno), proprio per
questo è inevitabile che ci si convinca dell’impossibilità di ogni altro
innegabile e di ogni altro eterno. Gentile lo mostra nel modo più rigoroso
(mentre il fascismo, come ogni assoluti- smo politico, intendeva essere la
configurazione inamovibile dello Stato). Ma è appunto per quell’estremo rigore
che de Giovanni rileva, a ragione, l’incolmabile contra- sto tra il pensiero di
Gentile e il tema centrale dei miei scritti, l’affermazione cioè che la verità
asso- lutamente innegabile esiste e che tutto ciò che esiste (nel presente, nel
passato, nel futuro) è eterno, ossia non esiste alcunché che esca dal proprio
esser stato nulla e che sia travolto nel nulla. Certo, la più sconcertante
delle affermazio- ni. Che però de Giovanni considera fondata con altrettanto
rigore. Infatti, mi sembra, egli è inte-ressato al contrasto Gentile-Severino
perché vede in ogni forma di contrasto una conferma della propria prospettiva
di fondo, per la quale l’esi- stenza umana è, da ultimo, un contrasto insana-
bile tra il desiderio dell’uomo, finito, di esser sal- vato dall’Infinito e la
problematicità del rapporto finito-Infinito. Quindi, a suo avviso, per quanto
rigorose possano essere la posizione filosofica di Gentile e la mia, ci
dev’essere in entrambe un vi- zio o più vizi di fondo che non possono venir
estirpati. Attraverso una finissima procedura in- terpretativa de Giovanni lo
fa capire rivolgendo domande, obiezioni sotto forma di domande. So- prattutto a
me. Provo a rispondere ad una soltan- to. In modo adeguato risponderò in altra
sede. Ma prima rivolgo anch’io una domanda a de Giovanni. La sua prospettiva —
qui sopra richia- mata in modo molto sommario — intende essere una verità
assolutamente innegabile o una pro- posta dove non si esclude che la verità
innegabile esista da qualche parte? Propendo per la prima alternativa. Mi
sembra infatti che anche per de Giovanni l’unica verità indiscutibile sia la
«stori- cità» del reale, cioè il divenire che travolge ogni altra presunta
verità. La sua distanza da Gentile tende così a vanificarsi nonostante le
obiezioni, che a questo punto hanno un carattere subordi- nato. E infatti de
Giovanni mi chiede se non ci sia «qualcosa di ineluttabile» «nella condizione
mortale dell’uomo», se la morte non sia «la prova inconfutabile»,
l’«irrefutabile cogenza» che «l’ente uomo nasce dal nulla e va nel nulla» — e
anzi, lasciando da parte il domandare, afferma che il mio discorso «si scontra
con il fatto che l’uomo muore» (pp. 83-84, corsivo mio). Il conte- sto in cui
de Giovanni avanza queste domande- affermazioni è incommensurabilmente lontano
dall’ingenuità con cui a volte queste domande mi vengono rivolte. Ma in questa
sede può essere opportuno richiamare — ancora una volta — che i miei scritti,
ovviamente, non hanno mai negato che l’uomo muoia e come muoia e resti il suo
ca- davere, ma hanno sempre negato che la nascita dell’uomo e delle cose sia un
venire dal nulla e che la morte sia un andare nel nulla; e lo negano perché
mostrano che questo andirivieni non è un «fatto». Provo a chiarire. Che il
dolore, l’agonia, la morte dell’uomo (e il perire dei viventi e delle cose) sia
un «fatto» si- gnifica che se ne fa esperienza. Certo: si fa espe- rienza
dell’orrore della morte — che è sempre la morte altrui. Ma chi crede che la
morte sia un an- dare nel nulla non crede (è impossibile che cre- da) che
l’uomo vada nel nulla ma, insieme, conti- nui ad essere un «fatto» che
appartiene al conte- nuto dell’esperienza: gli appartenga nello stesso modo in
cui gli apparteneva prima di annientar- si. Nell’esperienza rimane il ricordo
di coloro che sono andati nel nulla, e il ricordo è un «fatto»; ma non rimane
il fatto in cui consisteva il loro es- ser vivi, non si fa più esperienza del
loro esser stati vivi. Chi, dunque, crede che la morte sia an nientamento crede
che — pur avendo avuto espe- rienza dell’agonia e del cadavere — ciò che è di-
ventato niente sia diventato anche qualcosa che non appartiene più
all’esperienza, che non è un fatto. Ma allora è impossibile che l’esperienza
mostri che sorte abbia avuto ciò che è uscito dall’espe- rienza, e quindi
mostri che esso è diventato nien- te. Di questa sorte l’esperienza non può che
tace- re. Cioè l’annientamento non può essere un «fat- to». (E se il cadavere
viene bruciato e, come si di- ce, «diventa cenere»; allora anch’esso, come
tutta la vita passata di chi è morto, esce dall’esperienza —anche se ne rimane
il ricordo. Daccapo: che es- so, diventando cenere, sia diventato niente non
può essere l’esperienza ad attestarlo). Ci si convince dunque che la morte è
annienta- mento non sulla base dell’esperienza, ma sulla ba- se di teorie più o
meno consistenti. All’inizio i vivi si fermano atterriti di fronte alle
configurazioni orrende della morte dei loro simili e restano col- piti dalla
loro assenza; i morti non ritornano, vivi, come invece il sole torna a
risplendere al mattino. Anche su questa base, quando si fa avanti la rifles-
sione filosofica sul nulla, si pensa che ciò che non ritorna sia diventato
niente e si crede di sperimen-tarne l’annientamento. Gentile sta al culmine di
tale fede e, con la propria «teoria generale dello spirito», dimostra nel modo
più radicale l’impos- sibilità di ogni realtà esterna all’esperienza, sì che
l’uscire dall’esperienza è per ciò stesso l’andare nel niente. Ma, appunto, si
tratta di una dimostra- zione, di una «teoria», non della constatazione di un
fatto. Dunque, la sconcertante affermazione, al cen- tro dei miei scritti, che
tutto ciò che esiste è eter- no, non è un «paradosso» che «si scontra» con
l’esperienza, cioè «con il fatto che l’uomo muo- re». All’opposto, a scontrasi
con l’esperienza sono coloro che — affermando la sua capacità di atte- stare
l’annientamento degli uomini e delle cose — vedono in essa ciò che in essa non
c’è e non può esserci. Sono molti, moltissimi? Non importa. An- che quando
qualcuno ebbe a mostrare che è la Terra a girare attorno al sole e non
viceversa, tutti gli altri lo negavano, sconcertati. A questo punto de Giovanni
deve mostrare per- ché (una volta escluso lo «scontro con il fatto») non
accetta la fondazione che di quella sconcer- tante affermazione ho indicato nei
miei scritti. At- tendo. Ma anche tutte le altre sue domande atten- dono la mia
risposta.Il tramonto del principe: "Fin dall'inizio della sua attività
Biagio de Giovanni ha accompagnato al suo discorso teorico e politico una
notevole attività di carattere storico-filosofico. Si può dire, anzi, che per
certi versi questi sono tre aspetti di una medesima ricerca che, secondo una
tipica 'tradizione' italiana, ha intrecciato, in modo consapevole, filosofia,
storiografia e politica. Ma questa è una considerazione preliminare, di
carattere generale. Ciò che distingue la posizione di de Giovanni è il modo con
cui ha istituito questo intreccio - il suo 'punto di vista' - e i risultati che
è riuscito a conseguire." (dalla prefazione di Michele Ciliberto). Con una
postfazione sulla storia de "Il centauro" di Dario GentiliBiagio di
Giovanni. Giovanni. Keywords: essere/divenire – dall’essere al divenire -- divenire
della ragione conversazionale: Vico, Hegel, Marx, nottola di Minerva; monarchia
– stato -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giovanni: il divennire della ragione
conversazionale” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Grice e
Giraldi – filosofia italiana – filosofia ligure -- Luigi Speranza (Ventimiglia).
Filosofo. Grice: “Only a Ligurian philosopher would philosophise on Hegel’s
real logic and lobsters!” -- Grice: Grice: “One good thing about Giraldi is
that he is from Ventimiglia and moved to Noli – the most charming corners of
Italy!” – Grice: “Giraldi calls his position ‘romatnic essentialism;’ having
born in Ventmiglia he would, wouldn’t he?”“I like Giraldi; nobody in England
would dare write “The son of Peter Pan,” but Giraldi, otherwise known as the
author of ‘Essenzialismo,’ did write ‘Il figlio di Pinocchio’”! Il padre di
Giovanni Giraldi, originario di Dolceacqua e di estrazione contadina, dopo il
servizio militare riuscì la scalata del successo al Casinò di Monte Carlo,
affermandosi anche come uomo di grande saggezza e religiosità. La madre invece
era originaria di Ventimiglia, dove Giraldi stesso nacque e trascorse la sua
infanzia. Sebbene la famiglia fosse benestante, egli soffriva per la grande
conflittualità interna, continuamente vessato dalla sorella maggiore che non
esitava ad usare violenza nei suoi confronti, mentre la madre non faceva parola
con il padre di quanto assisteva. Racconta che in questo periodo riusciva a
trovare pace solo in chiesa. Con una
bugia astuta riuscì a scappare di casa, entrando in un collegio, dunque l'anno
successivo si trasferì in un altro collegio di Roma, ove tuttavia non riuscì a
trovare la tranquillità sperata. Riuscì a compiere studi classici a Roma,
iscrivendosi poi all'Università. Non frequenta le lezioni delle materie
filosofiche curricolari, ma studia per conto proprio. Tuttavia sigue abbastanza
regolarmente le lezioni di Ponzo, anche se non era materia d'esame. Si laurea e
presta servizio militare durante la seconda guerra mondiale. Si laurea in
filosofia discutendo molto animatamente la tesi con Spirito, il quale ironizzò sulle sue pretese
di "fare una nuova filosofia". Insegna a Milano. Partendo dalla
teoria gentiliana, che vede in tutto una “mediazione”, e da quella di Consentino,
che sostiene al contrario la totale "immediatezza", afferma che anche
l'atto puro, in quanto nuovo e spontaneo, non può che nascere senza alcuna
mediazione, quindi è l'equivalente dell'immediatezza, o del sentire puro. Pertanto
prova a risolvere le contraddizioni di entrambe le posizioni in una sintesi
hegeliana che possa superare sia il “divenirismo,” sia il coscienzialismo
antidivenirista. La soluzione è che l'immediatezza sarebbe sostanziata di
mediazione, e viceversa.L'immediatezza è così colma di mediazione, perché senza
di essa sarebbe cieca e una mediazione senza una immediatezza sarebbe nulla.
Inoltre, per avere una identità distinguibile, si dovrebbe avere già dentro di
sé quanto necessario per identificarsi e per distinguersi. In Etica del sentiment, ancorando il
principio morale proprio alla sfera sentimentale, si focalizza sul sentimento
di libertà e propone nuove argomentazioni alla tesi di derivazione stoica del
sentirsi responsabili, pur entro un tutto già dato. In Gnoseologia del
Sentimento, parte proprio dalla
posizione del Consentino per ripercorrere gli itinerari di una filosofia
dell'essere indiveniente e per affrontare gli aspetti dinamici e volontaristici
dell'Io. In Filosofia giuridica espone la concezione di diritto naturale quale
sentimento fondamentale giuridico, condizione trascendentale di ogni diritto
positive. Pertanto il diritto naturale non sarebbe un codice sovrapponibile ad
altri codici, ma la precondizione che permette alle leggi positive di essere
leggi e non atti religiosi, estetici, scientifici o di altro tipo. Si occupa anche
della riflessione su temi politici. L'opera Storiografia come rettorica tende
ad inquadrare l'unitarietà artistica e scientifica della ricostruzione storica,
coerentemente con la tesi di Cicerone della historia opus oratorum maxime e con
quella aristotelica dell'entimema, in altre parole quel sillogismo retorico che
si differenzia da quello della necessità. In Epistemologia invoca una
"demitizzazione" anche delle teorie cosmologiche e scientifiche più
accreditate (l'evoluzionismo, la teoria del Big Bang, la meccanica quantistica),
poiché tenderebbero pure esse a cadere in paralogismi e contraddizioni logiche,
nonostante gli apprezzabili sforzi a riferirsi alla filosofia da parte di
alcuni notevoli scienziati. Ad esempio nota che anche i migliori epistemologi
che irridono il concetto di sostanza, di fatto, riferiscono i dati sperimentali
ad una sottintesa sostanza soggiacente. In numerose opere dedicate alla
religione, analizzata nelle molteplici forme di spiritualità, avanza la tesi
che il proprium della religione sia la soteriologia, quindi non tanto il
contenuto di una dottrina, ma la speranza di salvazione dal negativo della vita
e della morte. Il principio cardine diventa dunque la speranza, e non più la
fede, che viene ricondotta ad un ruolo funzionale alla realizzazione della salvezza. L'analisi della religiosità tenta perciò di
emanciparsi dagli usuali preconcetti filosofici: se alla religione è stato
assegnato per oggetto l'uomo immediatamente e Dio mediatamente, alla teologia
Dio si dà immediatamente e l'uomo mediatamente. Altresì in Immortalità
dell'anima mostra come sia improponibile lo sforzo di svincolare l'unità del
Pensiero con la determinazione individualizzata della persona. Il Dizionario di
Estetica e Linguistica generale, con alcune integrazioni filologiche presenti
in alcune successive pubblicazioni, alcune in Sistematica, si distingue anche
per l'attenzione dedicata all'estetica e sulle concezioni dei primitivi
"di ieri e di oggi". La proposta
avanzata per una filosofia della scelta e decisione si apre con una riflessione
sul dogmatismo e l'agnosticismo, dalle quali l'autore vuole prendere le
distanza. Non si considera dogmatico, perché il suo metodo gli consente di
aderire ad un'idea solamente dopo la caduta di ogni riserva, ma ciò non lo
porta neppure ad approdare ad una concezione scettica né agnostica, in quanto
la non possibilità di dimostrare (ad esempio l'immortalità, la vita
ultraterrena o l'esistenza di Dio) non equivale ad affermare la loro non
esistenza. Tra le numerose acquisizioni
che lo difenderebbero dalle accuse incrociate di scetticismo e agnosticismo enumera
la consapevolezza di un patrimonio di verità circa le possibilità di pensiero;
la ricchezza dell'atto di conoscenza anche nelle forme meno esplicate;
l'emancipazione dalla divisione del conoscere in intuizioni e concetto,
sensazione e concetto; la pretestuosità di coloro che esigono una purezza del
conoscere senza inquinamenti sentimentali; le aporie di una scienza
oggettivante e insieme soggettivante al massimo e dell'arte che, mentre il
mondo odierno nega il reale, si riferisce continuamente ad essa,
particolarmente nella negazione. Non
potendosi dare una irruzione nel trascendente, è tuttavia possibile affermare
la vasta pregnanza del trascendentale, in altre parole di un terreno comune per
l'esperienza e il pensiero. Si considera pertanto idealista, nel senso che non
esiste pensiero senza pensiero, spirito senza spirito, “ideato” (significato) senza
“ideante” (significans). Tuttavia, differentemente dalle posizioni di Gentili,
non crede che affatto il pensiero sia liquido, tutt'altro; proprio perché
l'idea diventa comune, e in essa il Pensiero trova la sua pace, occorre una
verità fondamentalmente ferma, non mobilizzabile. Da questi presupposti sorge
così una debita attenzione per la scelta e la decisione. Distinguendo le scelte apparenti, che sono
totalmente arbitrarie, da quelle reali, quando al termine dell'analisi si opera
con un atto di buona volontà, una decisione autentica ci si trova di fronte ad
un bivio metafisico: impossibilità di afferrare la realtà dei tre nominati
reali (Dio, Anima e Mondo) e impossibilità di negarli. Sorge appunto la
decisione autentica, cui si arriva solamente secondo una corretta formulazione
di intenti e seguendo una fine immanente ad ogni forma di scelta.
Aristotelicamente e anche kantianamente la causa finale riveste una primaria
importanza. Se ogni uomo sceglie per sé, nessuna scelta avrebbe una portata
teoretica di cogenza, ma aprirebbe le vie della libertà vera, dalla quale ne
derivano conseguenze radicali e speculazioni abissali a partire da una
decisione, che può essere quella dell'anima unica immortale, o quella del
pensiero che viene ad essere dopo la materia, o la non esistenza di Dio. Ciò
permetterebbe anche di evitare il depauperamento culturale, con una
rivitalizzazione delle esperienze antiche.
La decisione personale propende per una concezione dell'anima unitaria,
di stampo aristotelico. Se l'immortalità naturale di tomistica memoria è da lui
considerata "la più materialistica, e più grezza", preferisce pensare
ad una immortalità conseguita, oppure chiesta a Chi può donarla e concessa a
chi la chiede. Sul mondo reale fisico resta una indecisione, ma propende verso
un residuo di natura mentale, una sorta di noumeno mentale sulla scia di Kant e
Galluppi oltre il grande telone dei fenomeni. In questo caso però occorrerebbe
rapportarlo ad una mente divina, perché parlare di mondo senza Dio non avrebbe
connotazioni filosofiche. Infine, riguardo l'esistenza di Dio, punto in cui la
scelta diviene decisione pura, egli tende a negare la validità delle dimostrazioni,
pur scorgendo in esse una bella prova della potenza della mente umana. La
conclusione non è però la non esistenza di Dio, ma la non dimostrazione della
sua esistenza. Chi ammette l'esistenza
di Dio, tuttavia, deve assumere la radicalità di tale affermazione
"guardando il mondo dagli occhi di Dio" e non facendo etsi deus non
daretur. Chi prendesse la scelta teistica dovrebbe tacersi per sempre e
rinunciare ad intenderlo. Giraldi mette in risalto anche la Volontà,
definendola potenza fattiva dell'Idea, e constatandone il carattere
generativo-spermatico, per collocare in una prospettiva differente il vitalismo
dell'élan vital bergsoniano e della Wille di Schopenhauer. Questo permette di
pensare l'Idea non solo quale conoscenza filosofica, ma anche negli aspetti
attivi, vitali e di sentimento. Ad essere eroicamente divini non sono pertanto
solo i pochi giunti al massime vette di autocoscienza teoretica, ma anche gli
umili che vivono inconsapevoli della propria dignità divina, folgoranti però di
una autocoscienza morale. Bàrel Dal
punto di vista poetico, l'opera principale di Giovanni Giraldi è il Bàrel,
iniziato negli anni trenta e sorto dall'ispirazione di un progetto di Papini
esposto nell'autobiografia Un uomo finito per un poema apocalittico, mai
scritto. Altri spunti furono la lettura di Lord of the World di Robert Hugh
Benson e dell'Apocalisse. Il primo dei
tre volumi di cui si compone il Bàrel, terminato in versi nel 1937, fu
presentato a Eugenio Giovannetti de Il Giornale d'Italia, che propose come titolo
Il Dio Eroico. Gli anni seguenti, segnati dalla Seconda Guerra Mondiale, furono
l'occasione per trasporlo in prosa. Questa versione, appena terminata la
guerra, fu proposta a vari editori ma che per una serie di sfortunate
coincidenzeMondadori non disponeva della carta, e dopo alcuni anni, quando la
carta è disponibile, cambia idea sulla pubblicazione; la casa editrice Api di
Mazzucchelli nel frattempo fallìl'idea di pubblicazione venne temporaneamente
accantonata. Nel frattempo alcuni versi furono pubblicati frammentariamente. Il
1964 fu l'anno del riordino delle due versioni in un unico libro che contenesse
sia versi, sia prosa, in uno spiccato pluristilismo sperimentale. La
pubblicazione avverrà, in tre libri, tra gli anni sessanta e gli anni settanta
sotto lo pseudonimo I. Tanarda e poi in raccolte unitarie successive. Il tema è insolito e il contenuto, con
riferimenti religiosi e culturali di ogni tipo, non è di semplice
accessibilità. Se il primo libro può essere collocato in un momento simbolico dell'arte,
il secondo è classico e il terzo romantico, nei canoni dell'estetica hegeliana.
Nel primo, Apocalisse grande, il protagonista Bàrel sovrappone le passioni alle
idee; nel secondo, La cerca di Barel, ritorna in proporzioni umane e nel terzo,
La morte degli dèi, scende negli abissi vertiginosi del Pensiero, che la poesia
tenta di inseguire. È stato tradotto anche in lingua francese dalla poetessa e
latinista Geneviève Immè dell'Pau. Saggi: “Organon Philosophicum”, Ironia,
morale, educazione, Gheroni, Torino, “Etica del sentimento” Filosofia dell'Unicità, Gnoseologia del sentimento,
Pergamena, La filosofia giuridica, Filosofia dell'Unicità, Milano “Filosofia
della religione”. Filosofia dell'Unicità, Epistemologia. Una nostra riforma
della Logica Hegeliana, Pergamena, La Metafisica. Pergamena, Iesous Eléutheros.
La liberazione di Gesù: lettera sistematica ai miei figli, Pergamena Dizionario
di Estetica, Pergamena Studi successivi anel periodico Sistematica. Res
Publica. Educazione civica, Pergamena Res Publica. Teoria dell'Ineguaglianza,
Pergamena Nel Pleròma. Da Dio alla Materia, Pergamena Storiografia come
rettorica. Autobiografia come filosofia, Pergamena Memoriale Ambrosiano e
Memoriale Italico, Pergamena Dio, Pergamena
Estetica della Musica, Pergamena scon Colloquia Edizioni. Meditazioni
Hegeliane, Editrice, Meditazioni Platoniche, Pergamena Capitoli sulla Scienza
Moderna, Pergamena L'immortalità dell'anima, Pergamena Ricerche filosofiche La
filosofia del sentimento di A. Consentino, in Quaderni, Milano, Rabelais e
l'educazione del principe, Viola, Milano; ora in Paideia grande. Un mistico
bergamasco: Sisto Cucchi, Secomandi, Amiel Morale, Saggiatore, Torino,
L'educazione dei ciechi, Armando Roma, Società e Stato da Spedalieri a Marx,
Pergamena L'estetica italiana nella prima metà del secolo XX: figure e problemi.,
Nistri-Lischi, Pisa, Storia della pedagogia, Armando Roma "le edizioni successive alla X sono state
scempiate da interventi dell'Editoreriporta Giraldi in Sistematica). Il
pensiero politico tra Ottocento e Novecento, Pergamena, Adolfo Ferrière.
Psicologia, attivismo, religione, Armando Roma, Giuseppe Lomabardo Radice tra
poesia e pedagogia, Armando Roma, Gentile. Filosofo dell'educazione Pensatore
politico Riformatore della Scuola, Armando Roma Raffaello Lambruschini. Armando
Roma, Silvio Tissi filosofo dell'ironia, Pergamena Moralistica francese,
Pergamena Saggi su Francesco di Sales, il Quietismo, La Rochefoucault, Prevost.
Filosofi teoretici e Morali, Pergamena saggi su Condillac, Senancour, Rensi,
Hume, Camus, Barié, Galli, Lazzarini, Castelli, Capitini. Gramsci e altri miti,
Pergamena Storia della filosofia, Trevisini Milano L'Italia nella dittatura e
nella non democrazia, Pergamena Paideia Grande, Pergamena Rabelais, Rosmini,
Boncompagni, Gentile. Storia del Liberalismo nel sec. XX, Pergamena Riviste
Moltissimi saggi e studi di politica, religione, filosofia, filologia e critica
sono stati pubblicati nelle seguenti riviste fondate da Giraldi stesso: L'Idea Liberale, Sistematica, attiva sino al.
Filologia Giovanni Michele Alberto Carrara, De fato et fortuna. Tipografia A.
Ronda, Milano, Studi sul Rinascimento,
Pergamena Saggi su: Seneca e la filologia; Petrarca viaggiatore; Leonardo da
Vinci scrittore; Le fonti del Pontano lirico; Gli errori di Dante Alighieri in
un poema umanistico inedito; Il Rinaldo di T. Tasso; Il T. Tasso corregge il
Floridante; Rime inedite di Cecco d'Ascoli. G. M. A. Carrara, Pergamena, G. M. A. Carrara, Armiranda.
Inedito umanistico, Pergamena Commedia inedita, testo latino e traduzione G. M.
A. Carrara, III, De choreis Musarum,
Pergamena Testo sistematico latino. Segue un Saggio monografico sull'umanista.
G. M. A. Carrara, Sermones objurgatorii, Pergamena Sui tragici greci. Da mio
diario filologico, Pergamena Filologia. Teoria e saggi, Pergamena Su Dante con
verità, Pergamena Il Manzoni, in Sistematica, Pergamena Gesù, Pergamena Poesia
e prosa d'arte Collana dei "Tredici". La Scala, novelle e poesie; Mutarsio,
Torino Bàrel. I. Apocalisse grande, La cerca di Bàrel, La morte degli dèi; Pergamena
Hendecasyllabi aliaque scripta, Pergamena L'aragosta. Romanzo Ligure, Pergamena
Il figlio di Pinocchio, Pergamena Fratelli Frilli, Il dono delle Muse. Cento novelle, Pergamena Quadri
Intemelii, Pergamena Miniature. Codex aureus, Codex recens. Codex quadraticus,
Pergamena Cento tavole, alcune con testi latini parzialmente editi in
Hendecasyllabi. Il Codex recens presenta soggetti del Bàrel; il Codex aureus è
a soggetto libero e vario; il Codex quadraticus comprende le figure degli
scacchi. Con rubriche annesse che spiegano tempi, temi, tecniche. Pergamene Musa
latina, Pergamena Il ramo d'oro, Pergamena Scritti in Italiano, Latino,
Francese, Romanesco, Biblico. Profili di gente nel mio tempo, Pergamena
Splendido novellare, Pergamena Cento racconti e novelle. Musis amicus,
Pergamena Versi e prose in Latino. Mimì o E tutto è amore, Pergamena Sorridono
i gigli. Liriche e restauro filologico di Saffo, Pergamena Tevere amico,
Pergamena, Pedagogia e Filosofia esposte nel dialetto Romanesco da un popolano
di Trastevere. Paradiso, Pergamena Editrice, Faust mediterraneo, Pergamena
Editrice, Atlantidos persis, Pergamena Editrice, François Villon, Il
Testamento, traduzione e saggio critico Giovanni Giraldi, Pergamena Editrice, Amitiés
françaises, Pergamena Editrice, Nel Sublime, Pergamena Il mio Ponente,
Pergamena Letture belle, Pergamena Piero Pastorino, Pinocchio, un figlio nato
da una bugia, in La Repubblica, sez. Genova. Docente universitario a Milano di
Storia generale della filosofia, è stato ripetutamente consulente all'Accademia
di Svezia per il conferimento dei Nobel per la letteratura. Ha al suo attivo un
dizionario di estetica e linguistica, una storia della pedagogia e ha scritto
novelle raccolte in due volumi. Vive a Noli, di cui è cittadino onorario. Piotr
Zygulski, Filosofo liberale, in Termometro Politico. Giraldi4. Pierre-Philippe
Druet, Silvio Tissi, filosofo dell'ironia, Revue Philosophique de Louvain, John Dudley, Sui tragici greci. Dal mio diario
filologico, Revue Philosophique de Louvain, Da "Autobiografia come
filosofia" (Milano) e pagine integrative in Sistematica, Milano,
Pergamena, Angelo Grimaldi, Illuministi inglesi e francesi, in Disegno storico
del costituzionalismo moderno, Roma, Armando, Giancarlo Ottaviani, La scuola
del Risorgimento. la scuola italiana Roma, Armando, G. Semerano, La favola
dell'indo-europeo, Milano, Paravia Bruno Mondadori. Grice: “Giraldi is obsessed
with ‘essenza’, which is a coinage by Cicero – essentia, meaning essentially
nothing!” Grice: “Giraldi, who defended
Gentile, rightly, as a ‘pensatore politico’ – was obsessed with idealism – his
essentialism was supposed to supersede it, but he spends some time analysing
the situation in Italy with idealism, ‘a la catedra – but is dead – he refers
to Croce, Gentile, and the roots of
idealism in Vico, Sanctis, and Spaventa --.” Giovanni Battista Giraldi. Giovanni
Giraldi. Giraldi. Keywords. essenzialismo, essenzialismo romantico, storia
della filosofia romana, etica del sentimento, autobiografia come filosofia, mio
ponente, filosofia ligure, ‘l’aragosta’ – romanzo ligure -- Riviera di ponente,
nel pleroma: da dio alla materia, gentile, filosofo politico -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Giraldi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757510024/in/dateposted-public/
Grice e Girgenti – la metrica del filosofo –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Girgenti).
Filosofo. Grice: Ritter thinks Girgenti is related to the Velia – and Pareto to
the Crotone – so it’s amazing that Bruto never liked those three Greeks of the
Athenian embassy seeing that most pre-Platonic philosophy came from Magna
Grecia, that is, Italy! Some must have remained in the genes!” -- Grice: “I
like Girgenti; obviously Mussolini didn’t!” Grice: “I love Girgenti – he
philosophised in verse, not prosa – rhyme being unexistant, it was all about
the metre – he talks of ‘amicizia,’ which is none other than Love that unites
all things! And then he fell in the Etna!” “Mussolini thought it was rude of
the Girgentians to call their land ‘Girgenti,’ so he formulated a self-referential
‘decretto’: “From now on, Girgentians shall be called Agrigentians.’” Peano
objected: “Your decree is self-contradictory or invokes a vicious regressus ad
infiniutum!” -- filosofo italiano. Siceliota. Nacque da una famiglia antica, nobile
e ricca di Girgenti.Come suo padre Metone, che ebbe un ruolo importante
nell'allontanamento del tiranno Trasideo, egli partecipò alla vita politica
della città, schierandosi dalla parte dei democratici e contribuendo al
rovesciamento dell'oligarchia formatasi all'indomani della fine della
tirannide, un governo chiamato dei "Mille". La tradizione gli attribuisce uno spirito severo
verso gli aristocratici. Dai suoi nemici fu poi esiliato nel Peloponneso. Tra i
suoi discepoli vi fu anche Gorgia. Successivamente Empedocle abolì anche
l'assemblea dei Mille, costituita per la durata di tre anni, sì che non solo
appartenne ai ricchi, ma anche a quelli che avevano sentimenti democratici. Anche Timeo nell'undicesimo e nel dodicesimo
libro - spesso infatti fa menzione di lui - dice che Empedocle sembra aver
avuto pensieri contrari al suo atteggiamento politico. E cita quel luogo dove
appare vanitoso ed egoista. Dice infatti: 'Salve: io tra di voi dio immortale,
non più mortale mi aggiro'. Etc. Nel tempo in cui dimorava in Olimpia, era
ritenuto degno di maggiore attenzione, sì che di nessun altro nelle
conversazioni si faceva una menzione pari a quella di Empedocle. In un tempo
posteriore, quando Girgenti era in balìa delle contese civili, si opposero al
suo ritorno i discendenti dei suoi nemici; onde si rifugiò nel Peloponneso ed
ivi morì. Si iscrisse alla Scuola di Crotone, divenendo allievo di Telauge, il
figlio di Pitagora. Seguì la dieta pitagorica e rifiutò i sacrifici cruenti. Secondo
la leggenda, dopo una vittoria olimpica alla corsa dei carri, per attenersi
all'usanza secondo cui il vincitore doveva sacrificare un bue, ne fece
fabbricare uno di mirra, incenso ed aromi, e lo distribuì secondo la
tradizione. Secondo altri seguì gli insegnamenti di Brontino e di
Epicarpo. La sua oratoria brillante, la sua conoscenza approfondita della
natura, e la reputazione dei suoi poteri meravigliosi, tra cui la guarigione
delle malattie, e il poter scongiurare le epidemie, hanno prodotto molti miti e
storie che circondano il suo nome. coppiata una pestilenza fra gli abitanti di
Selinunte per il fetore derivante dal vicino fiume, sì che essi stessi perivano
e le donne soffrivano nel partorire, pensò allora di portare in quel luogo a
proprie spese le acque di altri due fiumi di quelli vicini. Con questa mistione
le acque divennero dolci. Così cessa la pestilenza e mentre i Selinuntini
banchettavano presso il fiume, apparve Empedocle; essi balzarono, gli si
prostrarono e lo pregarono come un dio. Volle poi confermare quest'opinione di
sé e si lanciò nel fuoco. Si diceva che fosse un mago e capace di controllare
le tempeste, e lui stesso, nella sua famosa poesia Le purificazioni sembra avesse
affermato di avere miracolosi poteri, compresa la distruzione del male, e il
controllo di vento e pioggia. I sicelioti lo veneravano come profeta e
gli attribuivano numerosi miracoli. Le numerose testimonianze che
riguardano la sua biografia sono alquanto discordanti e non consentono di
attribuire un'identità precisa alla sua figura. A conferma di ciò sono le
numerose leggende sul suo conto. I suoi amici e discepoli raccontano ad esempio
che alla morte, essendo amato dagli dèi, fu assunto in cielo. Mentre Eraclide
Pontico, Luciano di Samosata e Diogene Laerzio sostengono che si suicidò gettandosi
nel cratere dell'Etna. Il vulcano avrebbe eruttato, dopo qualche istante, uno
dei suoi famosi sandali di bronzo.In realtà non sappiamo neanche se sia morto in
patria o forse nel Peloponneso. Si afferma che visse fino all'età di 109. Una
biografia di Empedocle scritta da Xanto, suo contemporaneo, è andata perduta. A
Empedocle la tradizione attribuisce numerose opere, fra cui anche alcuni
trattati – sulla medicina, sulla politica e sulle guerre persiane – e tragedie.
A noi sono giunti però solo frammenti dei due poemi: “Sulla natura” e “Purificazioni”.
Di “Sulla natura”, di carattere cosmologico e naturalistico, sono rimasti circa
400 frammenti. Delle “Purificazione”, di carattere teologico e mistico, abbiamo
poco meno di un centinaio. Il timore di Girgenti appare fin dalle prime righe
di “Sulla natura”. “O dèi, stornate dalla mia lingua follia di argomenti,
e da sante labbra fate sgorgare una limpida sorgente, e a te, musa agognata, o
vergine dalle candide braccia, io mi rivolgo. Ciò che spetta agli effimeri
ascoltare, tu porta, guidando avanti il carro ben governato dell'amore devoto.
Ma non ti turbi il cogliere fiori di nobile gloria fra i mortali con un
discorso, ricolmo di santità, che sia ardimentoso; e allora tu giunga leggera
alla vetta della saggezza. La filosofia di Empedocle si presenta come un tentativo
di combinazione sintetica delle precedenti dottrine ioniche, pitagoriche,
eraclitee e parmenidee. Distingue la realtà che ci circonda, mutevole, dagli Quattro
elementi primi, immutabili, che la compongono. Chiama tali elementi
"radici", non nate ed eternamente uguali e afferma che sono in tutto solo quattro,
associando ognuno di essi a un particolare dio, sulla base di concezioni
orfiche e misteriche proprie dei riti iniziatici allora in uso presso la
Sicilia. I quattro elementi (e i rispettivi dèi associati) dunque sono:
fuoco (Giove), aria (sua moglie, Era), terra (Edoneo), ed acqua (Nesti). L'unione
delle quattro radici (Giove-Era-Edoneo-Nesti) determina la nascita di una cosa.
Si tratta perciò dell’ *apparente* nascita di una cosa, dal momento che
l'Essere (le quattro radici) non si crea. “Ma un'altra cosa ti dirò: non vi è
nascita di nessuna cosa. Solo c'è mescolanza.” In questo modo, i primi principi si empiono
così dell'essenza e del soffio vitale del potere divino. In Empedocle, Amore
(Φιλότης) e la «natura divina che tutto unisce e genera la vita. Are, o Marte, e
il dio del conflitto. Per Empedocle, l'uomo, essendo di origine divina,
raggiunge la vera felicità che quando si riune alla compagnia di Deo. Accanto
alle quattro "radici", e motore del loro divenire nei molteplici cose
della realtà, si pongono due ulteriori principi: Amore ed Odio (Discordia,
Contesa). Amore ha la caratteristica di "legare", "congiungere",
"avvincere" («Amore che avvince.” L’Odio ha la qualità di
"separare", "dividere" mediante la
"contesa". Così Amore
nel suo stato di completezza è lo Sfero, immobile, uguale a se stesso e
infinito. Amore è Dio e le quattro "radici" le sue
"membra", e quando Odio distrugge lo Sfero, tutte, l'una dopo
l'altra, fremevano le membra del dio. Infatti sotto l'azione dell'Odio, presente
alla periferia dello Sfero, le quattro radici si separano dallo Sfero perfetto
e beante, dando origine al cosmo e alle sue creature viventi. Prima bi-sessuate
e poi sotto l'azione determinante di Odio, si differenziano ulteriormente in
maschi e non-maschi, e ancora in esseri mostruosi e infine in membra isolate. Alla
fine di questo ciclo, Amore riprende l'iniziativa e dalle membra isolate,
nascono esseri mostruosi e a loro volta maschi e non-maschi, poi esseri bi-sessuati
che finiscono per riunirsi, con le quattro radici che li compongono, nello
Sfero. Nelle Purificazioni, sostiene la metempsicosi, affermando l'esistenza di
una legge di natura che fa scontare agli uomini le proprie colpe attraverso una
serie continua di nascite, tramite cui l'anima, di origine divina, trasmigra da
un essere vivente all'altro. In questo poema gli esseri viventi, parti
costitutive dello Sfero di Amore divengono dèmoni errando nel cosmo. “È
vaticinio della Necessità, antico decreto degli dèi ed eterno, suggellato da
vasti giuramenti: se qualcuno criminosamente contamina le sue mani con un
delitto o se qualcuno per la Contes abbia peccato giurando un falso giuramento,
i demoni che hanno avuto in sorte una vita longeva, tre volte diecimila
stagioni lontano dai beati vadano errando nascendo sotto ogni forma di creatura
mortale nel corso del tempo mutando i penosi sentieri della vita. L'impeto
dell'etere invero li spinge nel mare, il mare li rigetta sul suolo terrestre,
la terra nei raggi del sole splendente, che a sua volta li getta nei vortici
dell'etere: ogni elemento li accoglie da un altro, ma tutti li odiano. Anch'io
sono uno di questi, esule dal dio e vagante per aver dato fiducia alla furente
Contesa.” L'Amore non interviene nella storia delle peregrinazioni del demone decaduto?
Con ogni probabilità, è l'Amore stesso che ci parla in questo frammento.
L'"io" dei due ultimi versi è l'autore del poema. Ma è anche, se
andiamo più a fondo, l'Amore. I demoni esiliati lontano dagli dèi saranno
allora dei frammenti espulsi dalla massa centrale dell'Amore e condannati a
errare tra i corpi cosmici sotto l'influenza separatrice del suo nemico, la
Discordia. Quando le parti dell'Amore che sono i demoni si riuniscono
nell'unità immobile della sfera, il mondo stesso diviene un essere vivente. Sotto l'influenza di Amore il mondo stesso si
trasforma in dio. Questa concezione conduce al rifiuto assoluto dei sacrifici,
poiché in ogni essere vivente vi è un'anima umana, che sta compiendo il suo
ciclo di reincarnazione. Se nel corso di questo ciclo l'anima si è comportata
secondo giustizia, al termine potrà tornare nella sua condizione divina. Dal
che, come Pitagora, anche a Empedocle ripugnano i sacrifici animali e
l'alimentazione carnea. “Onde, uccidendoli e nutrendoci delle loro carni,
commetteremo ingiustizia ed empietà, come se uccidessimo dei consanguinei; di
qui la loro esortazione ad astenersi dagli esseri animali e la loro
affermazione che commettono ingiustizia quegli uomini «che arrossano l'altare
con il caldo sangue dei beati», ed Empedocle dice in qualche luogo: Non
cesserete dall'uccisione che ha un'eco funesta? Non vedete che vi divorate
reciprocamente per la cecità della mente?” “Il padre sollevato l'amato figlio,
che ha mutato aspetto, lo immola pregando, grande stolto! e sono in imbarazzo
coloro che sacrificano l'implorante; ma quello sordo ai clamori dopo averlo
immolato prepara l'infausto banchetto nella casa. E allo stesso modo il figlio
prendendo il padre e i fanciulli la madre dopo averne strappata la vita mangiano
le loro carni.” Rispetto alla sua precedente opera vi sono delle contraddizioni
che è stato difficile per i suoi esegeti conciliare. Ad esempio, ad una visione
naturalistica del poema Sulla natura si contrappone la teoria della
reincarnazione delle Purificazioni: nel primo scritto l'anima è anche detta
mortale, mentre è definita immortale nel secondo. C'è chi ha spiegato tali
incongruenze con la versatilità di Empedocle, scienziato e profeta al tempo stesso,
medico e taumaturgo. C'è invece chi ha ipotizzato una paternità diversa delle
due opera. Uno dei busti ritrovati nella Villa dei Papiri a Ercolano,
identificato dapprima come Eraclito, solo più recentemente con Empedocle. Lo
stile di Empedocle viene lodato dagli antichi. “Dicantur ei quos physikoús
Graeci nominant eidem poetae, quoniam Empedocles physicus egregium poema
fecerit» «Siano pure detti poeti anche coloro che i greci chiamano fisici,
dal momento che il fisico Empedocle scrisse un poema egregio» (Cicerone,
De Oratore 1, 217) «padre della retorica» (Aristotele fr. 1, 9, 65)
Lucrezio (De rerum natura 727 ss.) lo prende addirittura come modello.
Renan lo definisce «uomo di multiforme ingegno, mezzo Newton e mezzo
Cagliostro» Gli viene intitolato il Regio Liceo Classico di Girgenti, dove studiarono,
fra gli altri, Pirandello e Camilleri. Secondo le discordanti fonti sulla
vita di Empedocle la cronologia andrebbe fissata tra il 484-1 e il 424-1.Cfr.
Gabriele Giannantoni, I presocratici. Roma-Bari). Secondo Bignone (“Empedocle”,
Torino) Empedocle sarebbe vissuto tra il 492 a.C. e il 432 a.C. Anche Robin
ritiene che la sua vita sembra sia scorsa tra il primo decennio del secolo V e
il 430 circa. Schiefsky ritiene che Empedocle sia nato nel 490 a.C. e morto nel
430 a.C. Platone, Parmenide, 127 B
Platone, Parmenide, 127 C.
Diogene Laerzio, VIII. 51 Diogene
Laerzio, VIII. 73. Timeo, ap. Diogene
Laerzio, VIII. 64, comp. 65, 66.
Aristotele ap. Diogene Laerzio, VIII. 63; cfr. Timeo, ap. Diogene Laerzio,
66, 76. Diogene Laerzio, VIII, 66,
67. Mannucci, La cena di Pitagora,
Carocci editore. Satiro, ap. Diogene Laerzio, VIII. 78; Timeo, ap. Diogene
Laerzio, 67. Diogene Laerzio, VIII. 60,
70, 69. Plutarco, de Curios. Princ.,
Adv. Colote, Plinio, HN XXXVI. 27, e altri.
Così nella letteratura antica, come riferisce Bertrand Russel nella sua
Storia della filosofia occidentale, citando un poeta anonimo: «Grande Empedocle
che, l'anima ardente, saltò in Etna, ed è stato arrostito intero». Diogene Laerzio, VIII. 67, 69, 70, 71;
Orazio, ad Pison. 464, ecc. Ippoboto riferisce che egli, levatosi, si diresse
all'Etna e, giunto ai crateri di fuoco, vi si lanciò e scomparve, volendo
confermare la fama che correva intorno a lui, che era diventato dio.
Successivamente fu riconosciuta la verità, poiché uno dei suoi calzari fu
rilanciato in alto. Infatti, egli era solito usare calzari di bronzo.”
(Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, 8.68-69). Cfr. anche Eraclide Pontico, fr.
83 Wehrli. “E questo tutto abbrustolito chi è? - Empedocle. Si può sapere
perché ti gettasti nel cratere dell'Etna? Per un eccesso di malinconia. No: per
orgoglio, per sparire dal mondo e farti credere un dio. Ma il fuoco rigettò una
scarpa e il trucco fu scoperto. (Luciano di Samosata, I dialoghi). Timeo ci
attesta esser lui finito di morte naturale. Dicono alcuni che trovandosi egli
in Messina a cagion di una festa sia ivi caduto da un carro, e rottasi la
coscia, sia morto. Credono altri che in mare naufragasse: altri che si fosse strangolato
da sé. Scinà, Memorie sulla vita e filosofia d'Empedocle gergentino, GERENTI –
no GIRGENTI -- ed. Lo Bianco, Palermo – empedocle gergentino -- Apollonio, ap.
Diogene Laerzio, VIII. 52, comp. 74, 73.
Wolfgang Haase, 2, Principat; 36, Philosophie, Wissenschaften, Technik
6, Philosophie (Doxographica [Forts.]), ed. Walter de Gruyter, Franco Volpi,
Dizionario delle opere filosofiche, Bruno Mondadori). Jori, Empedocle in
Dizionario delle opere filosofiche, Milano, Bruno Mondadori. Avverte infatti il
Jaeger. Dobbiamo guardarci dal prendere per pura metafora poetica l'espressione
della religiosità che lo trattiene dal seguire sino in fondo i predecessori
troppo sicuri di sé.” Cardin, Empedocle, in Enciclopedia filosofica, Milano, Bompiani,
Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol.1 p.213 D-K 31 B 7.
D-K 31 B 17 Kingsley, Misteri e
magia nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica, Il Saggiatore,
In corrispondenza con le quattro primarie anti-tesi del caldo (fuoco), del
freddo (aria), dell'asciutto (terra), e dell'umido (acqua). Le quattro radici di
Empedocle risultano essere poi i quattro elementi di Aristotele e Tolomeo. Edoneo è un appellativo proprio del dio degli inferi
Ade, cfr. in tal senso Esiodo Teogonia, 913; o anche inno omerico A
Demetra. Forse si riferisce a Persefone;
per una dotta riflessione su questo nome, certamente un teonimo poco
conosciuto, si rimanda a Gallavotti in Empedocle, Poema fisico e lustrale,
Milano, Mondadori/Lorenzo Valla. Secondo Empedocle (B 62; 63) i due sessi (maschi,
non-maschi) furono determinati dalla separazione di creature "di natura
integra", che si erano a loro volta evolute da forma di vita più
primitive. Un papiro di recente ritrovamento, contenente aforismi di Empedocle,
ha consentito tuttavia di integrare le due versioni, portando a ritenerle
complementari. Le due opere, quindi, farebbero forse parte di uno stesso
trattato o poema filosofico. In tempi più recenti, è stata avanzata l'ipotesi
che si tratti di Empedocle gergentino. Tale proposta trova conforto sia nella
notizia di Diogene Laerzio in merito alla folta chioma del personaggio sia alla
specifica collocazione del bronzo all'interno della villa dove faceva pendant
con il bronzo raffigurante Pitagora (inv. 5607), che fu suo maestro» (Museo
archeologico Nazionale di Napoli. “Sulle
origini”. Ne conservavamo trecentocinquanta versi.”Martin ha consegnato
complessivi settantaquattro esametri dei quali venticinque coincidono con
quelli già posseduti. “Ma da ogni parte
è uguale a se stesso, e ovunque senza confini, lo sfero rotondo che gioisce di
avvolgente solitudine.» (Empedocle, D-K 31 B 28, Poema fisico e Lustrale,
Milano, Mondadori, 1975. Tonelli, Empedocle di Agrigento. Frammenti e
testimonianze. “Origini,” “Purificazioni,” con i frammenti del papiro di
Strasburgo” (Milano: Bompiani). Bignone, Empedocle. Studio critico, traduzione
e commento delle Testimonianze e dei Frammenti, ristampa, Roma, L'Erma di
Bretschneider, [Torino: Bocca]. Colli, Empedocle, Pisa, La Goliardica, Traglia,
“Studi sulla lingua di Empedocle” Bari, Adriatica, Bodrero, “Il principio
dell’amore nella filosofia d’ Empedocle” Roma, G. Bretschneider, La lingua di
Empedocle, Bari, Levante, Volpi, Empedocle: i suoi misteri rivelati in una
biblioteca, 13 novembre 1996. Empedocle
di Agrigento (PDF), su Università di Milano,1.
Filosofi: Empedocle, scoperto papiro a Strasburgo. Per gli studiosi è
l'unica testimonianza diretta, Strasburgo, Adnkronos, Pigliando il nostro
Empedocle a trattar le cose naturali, cui sopra d'oga ' altro in tendea, ebbe
egli a sdegno di seguir set ta e maestro. E come egli era franco di animo, e
grande d'ingegno; così immagi nò giusta la moda de' tempi, e l' usanza de'
filosofi un sistema novello. Questo di vulgato gli acquistò tal fama, ch'emulo
ei divenne per gloria e per sapere de' fisici più famosi di sua età Democrito e
Anassa gora. I Greci di fatto accolsero con ammi razione i suoi belli poemi; e
chi vennero poi ricordarono con onore Empedocle e i pensamenti di lui. Incerta
fra tanto, manca, é corrotta è venuta la sua dottrina sino a noi. Man cate per
l'ingiuria de' tempi le opere del nostro Gergentino, chi ha voluto conoscer ne
lo spirito, è stato costretto di rintrac 6 ciarlo presso gli storici
dell'antica filosofia. I quali non ebbero affatto cura di notare il vincolo,
con cui destramente iva quegli legando i suoi pensieri. Anzi costoro così
disparati li rapportano, che si possan te nere non altrimenti che rottami, da'
quali non si pud il disegno ricavar dell'edifizio, cui prima apparteneano. Però
eglino non che han male e tortamente fatto conoscere Ja fisica d'Empedocle; ma
nè pur bene e dirittamente apprezzare la forza e la virtir della sua mente.
Giacchè l'eccellenza de' sistemi è riposta nell' union delle parti, che si
rispondon tra loro; e da questo le. game si misura l'ingegno di chi l'hanno
inventato. Empedocle inoltre scrisse in versi, e ‘abbellì le sue idee, come
fanno i poeti. Per lo che pigliando alcuni letteralmente le finzioni della sua
fantasia gli apposero o pinioni assurde e grossolane. Illusi altri dal le
immagini poetiche, che per lo più sono equivoche, travidero; e più presto ci
tra mandarono le loro illusioni, che i pensa - 7 menti del nostro filosofo.
Varie di fatto so. no le forme, sotto cui ci presentano Em pedocle gli antichi
e i moderni scrittori. Ora egli è dualista, e ora è scettico: ora pla tonizza
', e or favoleggia: e non ha gnari fu, non so come, anche gridato qual pre
cursore di Newton (1 ). Sicchè Empedocle, tra biasimato, lodato, e sfigurato, è
stato sempre mal conosciuto, e sempre calunniato. Volendo adunque richiamare in
luce la filosofia di lui, ho cercato e raccolto i frammenti de' suoi poemi, che
per avvene. tura ci restano, e sparsi qua e là si leg gono presso diversi
scrittori. Coll ' ajuto di questi, che sono gli onorati avanzi della sua vera
fisica, son ito raccapezzando pri e poi restituendo la sua filosofia, Per chè
tra le opinioni, che gli storici appon gono ad Empedocle, ho quelle scelto, che
ben s'adattano, e naturalmente si legano colle idee, le quali si traggono da?
fram menti di lui, e le altre rigettato, che a queste si disdicono, o ne sono
contrarie. Ho fatto in somma ciò, che suol praticara ma 8 si da chi 'voglioso
di restaurare un'antica statua o colonna raccoglie e mette insieme que' pezzi,,
che tra loro s' incastrano, e ben si connettono. Questo metodo che stimerà
diritto chiunque non è privo di senno, deve specialmente poter convenire ad
Empedocle. Poichè Aristotile ci atte sta: colui più che altro fisico della sua
età, aver detto delle cose, ch' eran tra loro ben legate e concordi (2 ). Ho
quin di fatto ogni sforzo per richiamare alla sua purezza e integrità la
dottrina del nostro filosofo quando da lui stesso, quando dall' autorità degli
antichi scrittori, sempre met. tendo in accordo le idee, che si traggono da
questi e da quello. Però non è da ma ravigliare, se con sì fatto accorgimento,
ab. bia liberato il nostro fisico di non poche assurdità, e se mi sia venuto
fatto d'ab bozzare almeno il vero sistema di lui. La prima origine, e i primi
elementi delle cose, sono, per quanto pare, fuori la sfera del nostro
intelletto, perchè oltre: passano la sfera de' nostri sentimenti. Pure. i Greci,
cominciando da Talete, s' occupa ron tutti in si fatta vana ricerca, e tutti si
smarrirono. Alcuni degli Jonici coll'acqua, altri coll' aria, altri col fuoco
formaron le cose, e fabbricarono presto l'universo. Non così piacque a
Parmenide, e a Pittagora. Costoro, lasciato il mondo materiale, come indegno
delle loro meditazioni, si misero per strade diverse in un mondo astratto ed
intellettuale. Parmenide spiritualizzò l'u nico elemento degli Jonici; e pose
unica, e terna, immutabile sostanza. Uno è tutto, dicea egli, e tutto è uno;
sicchè le mu tazioni della materia non altro eran per lui', che modi e semplici
apparenze. Pit tagora dal mondo materiale rifuggi alla Geo metria. E se bene
questa scienza non fos che un parto della nostra mente; pú re l’ehbe quegli,
non si sa come, per lo modello, e 'l vero esemplar dell'universo. Però nella
Geometria leggeya i rapporti e le proporzioni, che debbono aver le co se,
ch'eran materiali; e vide nell'unità i primi e veri principj de' corpi. Furon
gli se 8 b 10 ingegni presi da prima di maraviglia così pel filosofo di Flea,
come per quello di Samos; e corsero tutti a ' loro insegnamen ti. Ma stanchi di
poi di contemplare un mondo o metafisico, o geometrico, ritor narono
naturalmente alla materia; e nac que la filosofia corpuscolare. I primi a far
questo ritorno furono Empedocle; Anassagora; Leucippo e Demo crito. Costoro
calando dal mondo di Pit tagora alla materia materializzarono le u nità di
costui. Atomi chiamarono Leucip po e Democrito i principj delle cose (3 );
particelle simili Anassagora; ed Empedocle col nome li distinse di elementi
degli ele menti (4). Ma in verità i loro principi altro non erano, che le unità
di Pittago ra fatte materiali, espresse e indicate con vocaboli diversi.
Democrito lasciò a suoi atomi l'indi visibilità, di cui le unità di Pittagora
eran fornite nello stato suo intellettuale. Questa stessa indivisibilità
secondo alcuni, negd al le parti simili Anassagora. Differente dall' uno e
dall'altro fu per Aristotile l'opinio. ne d’Empedocle (5 ). Costui cercò nella
materia le sue unità, e dividendo e sud dividendo i corpi giunse a quelle moleco
le, che più non si potean dividere. Ma dove i sensi mancarono, suppli colla ra
gione, e proseguendo la division delle mo. lecole col suo pensiero, s'accorse
potersi queste sempre pit di nuovo dividere. Ven ne però affermando che i suoi
elementi de gli elementi eran divisibili; ma solo colla mente non gia col fatto.
Distinse, così di cendo, le unità di Pittagora dalle sue, ch'eran materiali; e
provvida in bel mo do alla durata della natura '. Perchè essen do i principi
delle cose incapaci, secondo lui, d'ogni fisica alterazione, quelle deb bono
sempre durare come al presente sono: Tennero tutti tre que' fisici non che per
cosa assurda, ma impossibile, la crea: zione dal nulla. Ne venne loro in mente,
come ad alcuni indi piacque, di supporre la materia nuda d'ogni qualità. Chiama
vano essi la materia senza forma, e senza 3 b 2 12 qualità ciò che non è (6):
Ciò ch'è, dicea Empedocle, è impossibile venire da quello, che non è (7 ). Ma
diverse furon le quali tà, ch ' attribuiron costoro alle loro unità secondo che
diversamente riguardò ciascun di essi i corpi e la natura. Anagsagora ebbe le
sue particelle non altrimenti che briccioli minutissimi, ma simili in propieta
a corpi, ch'eran destinati a formare. E come varj sono i corpi e differenti le
lor propietà; così yarie e differenti pose in corrispondenza le qualità delle
sue particelle. Per lo che tras portò egli le qualità delle masse a' fram menti
di esse, e,e ristandosi alle apparenze ricayò, come suol dirsi, da grande in
pic colo. Gli atomi per Democrito erano al contrario tutti della stessa natura;
e solo differiyan tra loro per sito, ordine, e fi gura. Idea, che ben si
conviene alla sem plicità della natura; la quale con pochi mezzi suol produrre
fenomeni, che sono pressochè infiniti, attesa la lor varietà, la lor
moltitudine. Empedocle, ciò non o stante, rigettò il pensier di Democrito; e 13
or 1 volendo spiegare la varietà materiale, de? corpi, piglio, com ' egli dovea,
e genno consiglio dall'esperienza.. Gli Jonici addensando o rarefacendo acqua,
or l'aria, or l'aria insieme e ' l fuoco, diedero forma e qualità a ' cor pi
dell'universo. Da questi e dal loro me: todo si dilungo il nostro fisico.
Studiava egli i corpi, e separandone le particelle cer cava prima, e
raccoglieva poi i loro com. ponenti. Però in luogo di fingere, ritro vava ne'
corpi i loro elementi; nè i corpi a capriccio componea alla maniera degli Jo
nici, na li analizzava come fanno i chi. niici. Le sue esperienze, furono egli
è ve. ro, incerte e imperfette, come si leggono ne' versi di lui. Perchè
dirizzandosi per una via non ancora usata nelle fisiche ri. cerche, mancava
d'ajuti e di stromenti; massime che la fisica era allora metafisica e bambina.
Ma ciò non pertanto que' pri mi e rozzi saggi del nostro Empedocle so no da
stimarsi un chiaro testimonio del suo metodo, ch'era tutto pratico e sperimen.
14 tale. Coll'ajuto in fatti delle sue esperien ze agginnse, a giudizio d'
Aristotile ', la terra all' aria, all' acqua, al fuoco, e ' l primo stabilì la
dottrina de' quattro ele menti (8 ). Quattro, dicea egli, son le radici di ogni
cosa: Giove, Giunone, Plu tone e, Nesti, figurando, sotto questi sim, boli il
fuoco, la terra, l ' aria,, ee l'acqua '. Per lo che nella sua fisica le unità
mate riali eran le parti, che diconsi integranti de quattro elementi; e questi
le costituen ti di tutti i corpi, che si trovano in na tura, Sebbene il fisico
di Gergenti avesse di stinto l' aria, l'acqua e la terra per le diverse lor
qualità '; pure in riguardo al fuoco l'ebbe e' tutte tre, come se state fossero
d' unica e medesima natura. Le particelle dell'aria e dell'acqua tendono,
secondo lui ', a condensarsi, come fa la terra. E al contrario credea Empedocle
es sere propietà del fuoco d'assottigliare, se parare, e levare ogni solidezza
alle parti celle dell' aria e dell' acqua. Di fatto fu C 1 15 sua opinione che
la luna si condensò a ca gione del fuoco, che da essa si partì, non altrimenti
che avviene nell'acqua, quando si riduce in gelo (9 ). E se il fuoco indu. ra i
corpi umidi, e vetrifica talvolta i so lidi, ciò accade per Empedocle, perchè
scioglie e separa l'aria e l' acqua in quel li dimoranti (10 ). Gli elementi
dunque aria e acqua sarebbero stati solidi, se la forza dissolvente del calore
portato non l' avesse alla liquidità, che lor si conviene Non conobbe, egli è
vero, così pensando, qualunque corpo per via del fuoco poter pigliare, passare,
ritornare allo stato soli do, o liquido, o aerifornie; ma giunse a comprendere
l'aria e l'acqua dovere al fuoco la loro fluidità. Questa verità, che in tempi
più felici avrebbe potuto gene rarne tant' altre, fu allor qual baleno in notte
huja, che illumina in un attimo, poi l' oscurità lascia più grande. Tal veri ta
o affatto non fu avvertita, o punto non fu ben compresa da’ filosofi d' allora.
Ari stotile si lagna d’Empedocle, come di chi e 16 avesse usato de quattro
elementi, non al trimenti che fossero stati due; contando quegli per uno i tre,
che questi avea real. mente diviso aria, terra, é acqua (11 ). Anzi chi furon
dopo (quasi Empedocle non già quattro, nia un solo elemento avesse stabilito
nella sua filosofia ) si diedero fal samente a credere il fuoco essere stato te
nuto dal nostro fisico per lo principio, da cui ogni cosa veniva, e in cui ogni
cosa doveasi risolvere (12 ). Ma comunque ciò, sia, egli è certo, da che.
Empedocle manifestò quattro po ter essere gli elementi delle cose, tutti
abbracciarono la sua opinione. Di leggieri ciascun' s'avvide l'aria, l'acqua,
la terra il fuoco aver gran parte nella composizio ne de' corpi, e ne'
cangiamenti più notabi li, che avvengono nel nostro globo e nel la nostra
atmosfera '. Di fatto non più a capriccio come prima si solea, s' accrebbe o
diminui il numero degli elementi, e tol ta ogn'instabilità tra le scuole,
comune fu, e ferma rimase la sentenza de' quattro ele 17 Conta area la dem fial
menti. Sicchè su questa dottrina, qual ferma base, venendo assai dopo a posare
la moderna fisica; questa Empedocle ricono scere deve', e lui onorare qual suo
capo e fondatore. Hanno le scienze, come ogni cosa umana i lor giri, e le loro
vicende, che si distinguono da' metodi, dalle opi. nioni, dalle verità, ed
eziandio dagli er rori che son dominanti. La fisica nella sua infanzia nise tra
gli elementi l' aria, l' acqua, il fuoco, la terra. Questi, non ha guari, ha
gia scomposto la chimica. Altri ne sostituiranno i nostri posteri, ch' al
presente non si conoscon da noi. Ma niuno negherà la debita lode al nostro fi
losofo, che fondo il primo periodo della fisica colla dottrina de' quattro
elementi, e regoló i primi debolissimi passi dello spiri to umano nello studio
non che vasto ma difficile delle cose naturali. - Più alto senno, e più forza
d'in, gogno mostrò Empedocle, quando si mise a cercar le forze, che mettono in
movie mento la materia e gli elementi. Si fatta 2, D i leta plaža matukio ered ܐܐ F
Table tol fue ele 8 1 ricerca, siccome molto ardua, non era sta. ta sin allora
impresa d'alcuno. Anassago ra, attese le sue particelle prive di moto e di vita,
non sapendo altro che specola re, ricorse a Dio; e colla forza onnipoten te di
lui agitò e sospinse le sue parti si mili, o loro impresse quel moto, che que.
ste naturalmente non aveano. Fece costui, come chi a muover la macchina, in
luogo di peso, o di molla, cerca la man dell' artefice. Però Aristotilo contro
lui si sde gna, e giustamente il rampogna (13 ). Ba sto a Democrito di fornire
il moto a' suoi atomi, nè curò di saper come e d'onde quello venisse. Al più
facilitò il movimen to immaginando un voto, ove ogni sorta d'atomi avesse
potuto agevolmente dime narsi; e particolarmente attribuendo agli atomi del
fuoco la figura sferica, come quella, che avesse questi potuto render atti a
scorrere e sdrucciolare. Ma Empe docle fu il primo al dir d' Aristotile, che
con molto senno in natura conobbe due come cagioni del moto degli ele St &
© S forze C 19 menti (14). Una di quelle chiamò amo. re, amicizia, concordia, o
l'altra come contraria o lio, inimicizia, lite. L'amore d'Empedocle non è quel
del la favola, di Parmenide, d' Esiodo, o d ' altri fabbri di cosmogonia. Era
forse per costoro un principio attivo che vivificava 1 universo. Ma questa era
un'idea, vaga, generale, e nulla utile alla fisica. Non è così l'amicizia
d'Empedocle. La quale è una forza, fornita di particolari propietà, e tanto
intriseca alla materia, quanto si stima da noi la sua gravità. In virtù di sì
fatto amore le particelle simili tendono a unirsi tra loro, e congiungendosi
forma no a mano a mano le masse. Masse che vie più van sempre crescendo; perchè
la maggiore sempre ne trae a se la minore, e l'una all'altra infallibilmente s'
unisce. Aria, diceva Einpedocle, si aggiunge ud aria, etere a etere, fuoco a
fuoco in mo do che il minore al maggiore s’ accoppia. Sospinte del pari dall '
amore le particelle di natura diversa tendono a unirsi tra lo C 2 E ro, e
compongono gli aggregati colla loro unione. L'amore in somma unisce la ma teria
si fattamente, che se in natura si gnoreggiasse la sua sola forza diverrebbe l'
universo unica męssa, unica sfera (15 ). Perchè è propietà peculiare dell '
amicizia di ridurre le cose, che son più, a una so la. La forza quindi per
Empedocle simbo leggiata dall' amore, amicizia, e concordia non è se non quella
stessa, che oggi da' Chimici si chiama affinità. L'odio, non altrimenti che
l'amore, è parimente intriseco agli elementi de' cor pi, ma le qualità d'uno
son del tutto op poste a quelle dell'altro. Tende l'inimis cizia a disunir le
particelle congiunte; scio gliendo le masse, e scomponendo gli ag gregati. E'
singolar propietà di quella ri durre l ' uno in più: tal che se l'universo
fosse una sola massa e unica sfera, que sio in forza dell'odio si dovrebbe
tutto quan: to sciogliere in minutissimi briccioli. Odio in somma, inimicizia,
lite per Empedocle son e valgono forza dissolvente, o 1 tutt'uno 21 repulsiva.
Di fatto chiamava egli anche il fuoco inimicizia; perchè questa come quel lo
distrugge e separa ogni cosa (16 ). Dą ambidue queste forze tra loro op poste,
d'ailinità una, e dissolvente l' al tra, significate dall' amore e dall'odio,
il nostro Empedocle ne ricava il moto ne' cor pi. L'amicizia sollecita gli
elementi all' u nione tra lor l' avvicina, e nell' avvicinarli tra loro
parimente li muove. L'inimicizia all'incontro cospinge le molecole unite, so
spintele a poco a poco le stacca, staccate le del pari le muove. Forze adunque
so no l'amore, e l'odio del nostro fisico; co me quelle che avvicinando o
respingendo gli elementi cagionano lor movimento. Fors ze ch'egualmente son
chimiche, conie quel le, che uniscono e separano; compongono e scompongono i
corpi in natura. Ma co me furono esse adombrate sotto le forme morali d'amore e
odio, di lite e concora dia; sono state mal comprese e capriccio samente
interpetrate. Alcuni videro in quel. le due forze la divinità e la materia (17):
22 altri: l'ordine e'l disordine; il bene e ' l male (13 ): chi la luce e le
tenebre; chi l' Oromaze e l'Arimanio de' Persiani, o altre cose simili (19).
Tanto egli è vero, che il suo linguaggio, come poetico, ha recato ingiu ria a'
suoi pensamenti e alla sua filosofia. L'amore e l' odio, siccome dice il no
stro fisico, han que signorie; ma alternan ti e separate tra loro. Comincia
l'impero dell'odio, quando finisce quiel dell'amore, e declinando la signoria
dell' inimicizia, l' amicizia ritorna a' suoi primieri onori. E come una
sifatta vicenda non ha mai fi ne; così costante si mantiene il movimen to in
natura, e gli elementi in eterno s' uniscono e separano. Esprime egli tal con
tin: io e scambievole impero dell'odio e dell' aniore coll'immagine, e
somiglianza d'un cerchio, che si revolve. Perché il cerchio la periodi finiti,
che all'infinito si posso no rinovare. Ma tolte le voci d'impero e signoria,
che son propie della poetica, si potrebbe il pensiero d'Empedocle raſfigura re
nella vicenda delle forze, mercè la qua. 23 bene i ebre; chi ni, oabe ero, chei
ell'aur Onn '. le i pianeti si'movono. In questi or preva le la forza
centripeta e viene a farsi mag. gior la centrifuga; or prevale la centrifu ga,
e viene a farsi maggior la centripeta. Sicchè alternativamente prevalendo le
due forze centrali, i pianeti s' accostano e dis costano dal sole, e
costantemente si mo vono nelle loro orbite ellittiche. Tale dellº amicizia, e
inimicizia d'Empedocle. Come gli elementi s' uniscono; comincia a preva ler l'
inimicizia, che tende a separar le cose unite. E come gli elementi dividonsi;
principia a superar l'amicizia, che tende a unir le separate. Per lo che
ambidue sempre operano, e si a vicenda prevalgono, che gli estremi dell'odio
occupa l'amore, e l' inimicizia que' dell' amicizia. Giusta questa legge
Empedocle fa e ternaniente operar l'amore e l'odio. Così, e ' dice, comanda o
il füto, o la necessi tà, o l'antico giuramento degli Dei. Ma il fato del
nostro filosofo non è quello de. gli Stoici, o degli Eleatici. Egli null’ al
tro indica colla parola necessità, che l'ins etarr Itale ம் care
PA umpert 2. la que 24 tima natura di
quelle due forze. Siccome eterna ei reputava la materia, ed eterne le forze, da
cui essa era animata; così l ' amore e l'odio volea dover sempre e ne
cessariamente operare. Gli elementi secon do lui o son separati, e ſrettolosa
corre l ' amicizia a unirli; o sono uniti, e impa ziente va l'inimicizia a
separarli. Se per poco lascerebbe l' una o l ' altra di congiun gere le cose
separate, o segregar le con giunte, l'amore e l'odio, mutata natura, non
sarebbero più nè odio, nè amore. E' quindi pel nostro fisico così necessaria
l'e terna vicenda delle due forze, come invin cibile si stima il decreto del
fato e della necessità. Il fato adunque nel dizionaria del nostro filosofo
altro non significa, che l' intima indole, e l'immutabile natura delle due
forze senza più. Però a torto Aristotile riprende lui, come chi avesse
introdotto nela la fisica il fato é la necessità (20 ). Posti questi principj
va Empedocle squa dernando il suo sistema, qual poeta, qua si collocato su d'un
eminenza, di la con 25 ta; ON ie. Sasa templando la natura dichiara agli uomini
le sublimi lezioni di sua filosofia. Nulla, egli dice, manca, nulla ridonda
nell'us niverso; perchè la quantità della materia nè cresce nè manca. Tutto
nasce, tutto muore, tutto in altra forma trasformato ri sorge, L'accozzamento
di parti, che son disgiunte, n'è la nascita; e la separazion di quelle, che
sono accozzate, n'è la morte, La natura quindi null altro è, che ” se parazione
e miscuglio. Essa è eterna; per che l'amore e l'odio sempre fa e disfà, strugge
e compone. Mancherà il presente ordine di cose, sorgerà subito un altro. Questo
distrutto, di nuovo, e sotto altra, guisa si verrà a formare. Così senz' alcuna
fer posa uno in un altro ordine successivamena te, e sempre sarà permutato. Nè
per que: sti continui giri si cangia la natura, ne ha od te luogo o confusione,
o simmetria. La materia non è stata, nè sarà mai senza moto. La natura è stata
sempre qual sempre sarà: cioè amore e odio, separazione e union d' elementi.
Cosi parlava Empedocle nel suo d ali 200 € c). och eta, Jade 26 poema sulla
natura, o per dir meglio cosi egli smentì anzi tempo chi dopo lui dovean
supporre aver lui voluto il caos immagina to sol da' poeti (21 ). Lo stato di
confu sione e di caos pel nostro fisico, o non è stato, nè sarà mai, o sempre
egli è stato e sarà. La natura quella è ora, ch'è sta ta, e sempre sarà:
miscuglio e separazio ne: amicizia e inimicizia: nascita e morte. Passando
Empedocle d'una in un ' al tra idea strettamente legava i suoi pensie ri.
Siccome la materia è tutta divisa ne' quattro elementi; così i corpi per lui
eran composti presso a poco de'medesimi. Ma perchè ciò nulla ostante quelli tra
lor son tutti diversi; quindi andava ricercando in che, e.come si differisser
tra loro. Tal difie renza ei rinvenne con gran perspicacia nella njaniera
diversa, con cui gli elementi com binansi. Però non è nè l'aria, nè l'acqua, nè
la terra, nè ' l fuoco che distingue le co se; ma la misurata lor mescolanza;
in bre. ve, la proporzione in cui trovansi due o piti di quelli componenti.
Rappresentando da € st CL T 1 C 27 c2003 de poeta le sue idee ch'eran fisiche,
dicea: i dipintori mischiano colori diversi, e col mi schio di questi van
figurando uomini, pian te, fabbriche, uccelli, e anche gli stessi Dei. Non
altrimenti fa la natura. Ha el la, come quattro colori, che sono i quat tro
elementi, e va coll ' accozzare un poco di questo, di quello, e quell' altro
forman do uomini, piante, animali, donne leg giadre, e chiarissimi Dei. Tutto
lo studio d'Empedocle era quel di scomporre i corpi, e scomponendoli cercava la
ragione, in cui stavan tra loro le parti componenti. Per chè era persuaso, che
la loro varietà veni va, ed era tutta riposta nella varia pro porzion degli
elementi. Aristotile che am mira un sì bel pensamento da ad Empedo cle il vanto
d'aver lui il primo conosciuto una tal verità (22 ). Non si può quindi negare
il metodo d’Empedocle, come quel lo, che volea l'analisi de' corpi, esser chi
mico; chimiche esser le forze amore e os dio, che inprimean moto alla materia;
e chimica esser tutta la sua fisica; perchè tra lai arch nemt 22 نماز کی P.;
Det ue opad ando de d 2 28 P ch for pa me pre me an CO fondata sulla proporzion
delle parti, che compongono i corpi pressochè infiniti della natura. Può ora
essere a chiunque manifesto Empedocle il primo aver delineato il siste. ma
dinamico, che oggidi leva tanto rumo re in Alemagna. Pone questo sistema al
cune sostanze semplici e primitive, che col le loro diverse combinazioni
producono la varietà de'corpi. Questo stesso fece Empe docle ammettendo i primi
elementi, e com binandoli in varia e differente lor propor zione, Forze
attrattive e repulsive vogliono i Dinamici; ed Empedocle immaginò affini tà e
forza dissolvente, o sia odio e amo re. Che se quegli a spiegare gli stati e i
volumi de' corpi si fondano sul contrasto e rapporto, in cui si tiene la forza
attratti va colla repulsiva; anche Empedocle dicea, che l'inimicizia sta
appiattata nelle parti de' corpi pronta a vincer l'amicizia nel tem po
opportuno. Ma io non mi maraviglio punto di tal corrispondenza tra Dinamici e
il nostro fisico. Gli uomini gireranno sem at c ) in D gi ti 29 pre nella
stessa orbita, e torneranno sem pre a riunirsi nelle medesime ipotesi ogni qual
volta, che si aggireranno sì oggetti, che illustrar non si possono con
osservazio. ni, e co' fatti. Perchè limitate essendo le forze del nostro
spirito, limitato sarà del pari il numero delle sue combinazioni. ' I metafisici
di fatto sogliono ricondurre sem. pre in iscena più o meno vaghe, più o meno
adornate le opinioni medesime. Gli antichi vollero rappresentar l'essenza de'
corpi. Però Democrito immagind il sistema atomistico; Empedocle il dinamico.
Oggi, che alcuni han pensato di tentar lo stesso, in Francia è risalito in alto
il sistema di Democrito, e quel d'Empedocle in Aloma gna. Dobbiamo persuaderci
una volta che le scienze s' accrescono non già colle nostre opinioni, che sono
semplici fantasmi della nostra mente, ma coll' esservare, ed espri mere co'
nostri pensieri i fatti e le consue. tudini della natura. Questo metodo per
avventura non era ignoto in quella stagione in Gergenti. An 30 [ a crone
l'amico d'Empiedocle, poste giù le ipotesi, fondava la medicina sull'esperien
za, e fu capo della setta empirica. Il no stro fisico cercava e stabiliva la
varietà de' corpi cercando e stabilendo la proporzion de' lor componenti. Ma i
tempi imprimono nel nostro spirito la lor forma, il lor caratte re, le loro
opinioni; operando su noi non altrimenti dell' aria la qual si respira. Non è
quindi da maravigliare se Empedo cle s'occupò, come allor si facea, su i
principi delle cose, e sulla generazion dell' universo. Il romanzo della
nascita del mondo era in que' tempi un'introduzione, che si stimava necessaria
alla fisica. Niuno affat to potea meritare il titolo di sapiente, se non prima
avesse ordito la sua cosmogonia. Quindi i filosofi cominciavano allora i lor
poemi dalla creazione del mondo; molto più, che a ciò fare non dovean perdere
gran tempo, nè durar molta fatica. Le loro cosmogonie erano un lavoro più di
fan tasia, che di ragione. Si fatti lavori me 31. glio che cosmogonie potevan
chiamarsi ro manzi, in cui i paragoni tenendo luogo di raziocini affermiare è
lo stesso che dimostra re; e le capricciose finzioni si scambiano come opere
della natura. Empedocle dun que al par degli altri intese alla formazion dell'
universo; svolgendo e dichiarando l' impero della sua inventata amicizia. Diede
prima nascita all'etere, indi al fuoco, poi alla terra. Da questa trasse
l'acqua, l'a ria, l'atmosfera; indi le piante, gli uomi, ni, e gli animali (23
). Pose più diligen za e più tempo a formar dalla terra; ma per opera
dell'amore il genere umano. Rimescolando gli uomini colle piante, e co gli
animali, tenne costoro come unica ma teria, in cui tutti si fossero contenuti
qua si in ischizzo, ma senza che distinta aves ser presentato la irma,
leggiadria, e ata titudine delle loro membra. Queste a po co a poco ideò egli
essersi sviluppate, ed esserne venute fuori delle immagini, prive di noto e di
vita, simili alle pitture, ale le statue. Nella terza generazione di poi 32
furon distinti i maschi dalle femmine. Nel. la quarta s' ebbero degli uomini,
che na. scono gli uni dagli altri; perché, distinto il sesso, si mosse il
carnale appetito (24). Le piante secondo lui fitte restarono in ter ra per
trarne l'alimento; e gli animali qua e la si divisero per cercare un abituro
con veniente alla loro natura (25 ). Queste co se sconce, incredibili, e
simiglianti sognò il nostro fisico, che dovrebbero passarsi sot to silenzio, se
non giovasse d'accennarle per dare șin' utile lezione allo spirito uma no. Il
quale ardito, com ' egli è, malgrado gli assai folgoranti brillantissimi lumi
non che della religione, ma della moderna de parata filosofia, a dì nostri va
sempre fi sicando geogonie e cosmogonie. Darwin di fatto adottò gli errori del
nostro Empedocle, e certamente da lui ebbe a trarre l'idea della successiva
perfezione, e a grado a grado del regno animale. L'uno e l'altro fece nascere i
vegetabili prima degli anima li nel tempo e nello stato, che le cose e rano
imperfette. Entrambi del pari segna 33 # rono gli animali essersi a poco a poco
svie luppati, e aver tratto tratto acquistato quel. la perfezione, di cui
oggidi son forniti. Vogliono tutti due, che dal principio i ses si fossero
stati confusi si negli animali che negli uomini. Ambidue affermano che l '
universo giunse al grado di sua perfezione, allorchè separati i sessi nacquero
gli ani mali gli uni dagli altri. Darwin in somma dice unica essere stata la
specie dei fila menti', che diede origine a tutti i corpi, che sono organizzati
(26). E parimente fu opinione d'Empedocle, che unica fu la pasta, da cui
vennero vegetabili, animac li, uomini, e Dei (27). Tanto egli è ve ro, che i
nostri pensatori sempre, o al men per lo più copiano, e s ' arrogano le
speculazioni degli antichi. Nella cosmogonia d'Empedocle sicco me a chiunque è
maniſesto, non intervie ne, ne opera alcuna cosa la Divinità. Ma così pensando,
intendea egli di recarle 0 nore più presto che ingiuria. Avendo egli ' la
materia, come allor si pensava, per co 34 I sa vilissima, temeva che la
sapienza si fos se bruttata, se avessé preso a ordinare co se, che son del
tutto materiali. Per lo che a intendere la formazione dell'universo, lasciata
la mente divina, invocò il caso, e commise gli elementi in poter della for:
tuna. In sì fatti grossolani sciocchissimi er rori s' imbatte chi stoltamente,
e senza una precedente saggia e matura riflessio ne, vuol togliere il supremo
artefice dal la fabbrica del mondo. Il caso, fantasti cano essi, siccome
racchiude in se tutte le combinazioni possibili ad avvenire; così tra le molte,
e assai e infinite, che son mo struose, quelle poche ancora contiene, che son
regolari. Infinite, dicea Empedocle, sono state le forme, che ha preso teria ',
e senza numero le combinazioni de. gli elementi. Ma queste si son succedute
senz' alcuna. posa sin dall'eternità, e forse non han potuto durare perchè
prive so no state di regola e simmetria. Dopo tan. te é tante strane vicende,
gli elementi in fine, conchiude egli, essersi disposti in la ma 35 quell'ordine,
che il mondo ritiene, e da tutti con ragione, s ' ammira. Dal caso a dunque
Empedocle formò l'universo. Al caso attribui egli quel, che privativamente è
sol propio della sapienza, e dell'infinito potere d'un esser supremo. Da un
acci dente sogna egli essersi condotto il presen te ordine, ma dopo lungo,
vario, e suc cessivo disordine. Queste idee và Empedocle adornandh colla sua
fantasia vivace, e poetica. Figir ra egli mani, piedi, gambe, busti, oc chi,
braccia, spalle, teste di animali, di uomini, che tra lor misti é confusi si
por tan qua e là únendosi- senza regola, e sen za misura. Ora egli vede petti
senza spalı le; teste senza cervici; e fronti prive d' occhi. Or egli osserva
piedi congiunti a colli, occhi a spalle, teste å gambe, di ta a fronti, e altre
irregolari unioni. Quando immagina egli de' tori in volto u e uomini colla
testa di bue; e quando nota nell'uomo l'impronta della pecora ', e in questa
quella dell'uomo. Em mano e 2 36 1 1 a i pedocle in somma finge, trasfornia, è
com pone mille e mille specie di mostri, che per lui una volta furono, e di
quando in quando appariscono. Ma dopo forme si sconce é fuor di natura dispone
egli ca guialmente quelle membra nelle proporzio ni, e misure che al presente
veggiamo. Che maraviglia è dunque, ei conchiude, che dopo tanta varietà di
mostri sieno a sorte venute le belle e ben disposte mac chine degli uomini e
degli animali? In tal modo si sforzava il nostro fisico di render credibile ciò
ch'è falsissimo; facendo come chi gli occhi s'acceca per meglio e più
chiaramente vedere, Ma i suoi sforzi tutti quanti gli tornarono vani. Non cape
ne capirà in intelletto umano, che il mondo il quale spira ordine, sapienza, e
nia, sia l'opera del cieco, e dello stolto accidente. Ciascuna parte d'un
essere forma un sistema; un sistema formano tutte le sue parti; un sistema
tutti gli esseri, che tra loro legati corrispondono tutti al gran di fi armo 37
c scuna, segno dell'universo. I moti varj e multi plici de corpi celesti son
regolati da poche e semplicissime leggi; le quali nascono e de rivano da unica
propietà della materia. Se dunque ogni sistema indica combinazione, e questa
suppone disegno e architetto; chi contemplando la fabbrica dell'universo, ch '
è un grande e maraviglioso sistema in cia. e in tutte le sue parti, potrà non
ammirar la mente di chi seppe non che idearlo, má farlo? Se il mondo è così per
fetto, qual dovrebbe essere, se fosse l'o pera d'un supremo fattore; se
l'universo non mostra in ciascuna sua parte, avvegna chè minima, alcun segno o
piccolo o lon. tano di casualità; chi senza empietà o stol. tezza, potrà
riconoscerlo per opera del ca. so e non della mente d'un Dio? Ma senza più
travagliarci a dimostrar cid ch'è chiarissimo; l'esistenza d'un som. mo fattore,
oltre all'essere scritta nell' ani. mo nostro, si.legge ne' cieli, e a noi per
viene da ogn'angolo della terra. Da che Anassagora disse agli uomini la mente
di l 38 SO vina con singolar magistero è giusta leggi invariabili, áver
ordinato la materia, niu. no vi fu, che nol consentisse. Il popolo d'Atene alzò
allora un tempio a Dio, qual supremo fabbro degli esseri, e onorò quel filosofo
del soprannome di mente. Anzi la ragione del volgo ha vinto in cið, e vincerà
sempre i lunghi ragionamen ti di qualunque filosofo. Il volgo non lo rigetta
con orrore le cavillazioni degli atei, che tentano invano negar l'esistenza
d'un eterno fattore, ma poco o nulla cura altresì le speculazioni di que'
sapienti, che vogliono dimostrarla. E in vero tal verità alla classe appartiene,
attesa la somma evi denza, di quelle che sdegnan le pruove, e che si possono
guastar più tosto che ras sodare co' lunghi e sottili raziocinj d'una filosofia
illuminata. Empedocle e Democrito sebbene fossero stati superati da Anassagora,
perchè non già una mente divina, ma il caso avesser posto, come autor
dell'universo; pure son degnissimi d'onore per i loro metodi, o bel 39 osta k..
** dias li pensamenti nelle fisiche discipline. Poté Democrito per sua
particolar virtù concepi re egli il primo un sistema meccanico del mondo,
fondato sulle propietà de' corpi, o sulle leggi del niovimento. Valse Empedo.
cle per forza di sua mente a immaginare anch'egli il primo un sistema chimico
dell' universo, che posando su i quattro elemen ti, è regolato da forze, e
sottoposto alle leg. gi dell'affinità. Ambidue tennero in onor l'esperienza,
che certo e naturalmente con duce alla scoperta della verità. Se chi do po lor
filosofarono, fossero stati poco più sensati; avrebber dovuto mettersi dietro
la loro scorta, e collegare insienre i modi chi mici d'Empedocle e i meccanici
di Demo: crito. Si sarebbe allora abbreviato il corso degli errori, e
anticipato il principio di quella filosofia naturale, che fa tant' onore a '
nioderni. Ma le sette smarrirono i filoso fanti d' allora, e costrinser costoro
tanto più a errare, quanto più essi s' attennero alla metafisica, e si
scostarono dall'esperi. mentare e asservare. Dovettero scorrer piů Dice? 17
bile su 40 secoli, perchè venisse in grande stato lo studio della natura.
S'apparteneva veramen te a'nostri tempi, che congiunte chimica e meccanica
avesser portato la fisica a quel grado d'altezza, in cui oggi si trova. Ma è
sempre da confessarsi Empedocle e De. mocrito aver gettato i primi semi di que'
vantaggi, che cal favore del tenipe la fi. sica ha oggi ottenuto. Le opinioni
d’Empedocle sų gli ele menti, e sull'origine delle cose, se non son vere,
almeno non sono ingiuriose nè al la sua mente, nè alla sua filosofia. Splen
dono tra gli abbacinamenti chiari i lampi d'ingegno, e un metodo sopra ogn'
altro riluce, che l'avrebbe guidato alle più bel, se gli errori de' tempi non
gliel' avessero contrastato. Ma non è così, quando il nostro filosofo alle cose
si rivol ge, che trattan d'Astronomia. I suoi sen timenti su gli astri sono
altrettanti assurdi. Empedocle il fisico pare altr' uomo, e tut. to diverso da
Empedocle astronomo. Tal differenza, che veramente è notabile, se 1 le scoperte,
41 non m'inganno, nasce da ciò, che la sua fisica si trae in gran parte da'
frammenti de' poemi di lui; là dove le sue opinioni astronomiche ci vengon
quasi tutte dagli Storici degli antichi filosofi. ' Non senza ra gione quindi
si può sospettare, che i suoi pensieri non sono strani e deformi, quan do egli
stesso l'annunzia; e al contrario pajono sconci ee mostruosi,, allorchè altri
parlano in vece di lui. E ' maggiore tal congettura, qualor si considera que
com pilatori essere stati grossissimi delle cose a stronomiche. Costoro
affastellano in confu 90 le opinioni de ' filosofi, e o abbreviando le mozzano,
o interpolando le allungano, o pure in qualunque altra manieria, senz' alcuno
intendimento, ogni cosa deformando's le alterano. Non è quindi duro a com
prendersi, gli storici del nostro filosofo, tra per l'imperizia delle cose del
cielo, e per l'espressioni di lui, ch'eran tutte fi gurate e poetiche, averne
contraffatto la sua astronomia. Non si negan con ciò gli errori, in cui egli
per avventura avesse po f 42. tuto cadere. So benissimo l' astronomia dei Greci,
sfornita.com'era in que' tempi d ' osservazioni, ridursi, tolto il nascere o
trae montar d' alcune stelle, a una raccolta d' antiche tradizioni, o di
opinioni bizzarre. Si conviene pure Empedocle aver potuto di: re il movimento
del Sole essere stato da prima più lento, che a' suoi tempi non e. ra. Si
concede altresi aver lui potuto opi nare l'asse della terra aver pigliato una
po sizione all' Eclittica inclinata, che prima non avea: (usanza de' cosmogoni
acconciare a lor talento le parti dell'universo, e condur le allo stato, in cui
ne' suoi tempi si trora no ). Ma non si può affatto credere, Empe docle aver
tenuto i tropici quasi due mura glie, cui giunto il Sole, essere stato stretto
a torcere il suo cammino; e aver segnato și fatti circoli non altrimenti che
due confi. ni, che impediscono il Sole camminando verso i poli d'oltrepassare
il suo termine. Chiamò egli que circoli con linguaggio fi. gurato i confini del
Sole; perchè a quel li il Sole giungendo par che il suo cam, 1 43 mino rivolga.
In breve intese egli indica re l'obbliquità dell'eclittica, e segnar lo spazio
in cui il Sole fornisce l'anquo ap parente suo corso. Giacchè l'anno si com
putava allora da’ solstizj, i quali dall'om bre osservar comodamente si possono
coll? ajuto dell'ago. Con tali e simili sconcezze si è guastata l ' astronomia
d’Empedocle; Però se tra per difetto di memorie di lui, e per ignoranza degli
storici, ė, ben diff cile d' indagar ciò ch' Empedocle penso sul. le cose del
cielo; è assai più difficile sa per, ciò ch'egli non disse, e a torto a lui
appongon gli storici, Temendo gli Ateniesi, che la terra fosse stata
un'abitazione mal soda, furon solleciti della sua stabilità. Provvidero e glino
alla propią sicurezza, e a quella del genere umano: ma colla sola fantasia a
modo del volgo. S'appresentarono la ter ra in forma d'un monte, le cui barbe
vanno a profondare e perdersi negli ultimi lontani confini dello spazio.
Assegnarono ina sieme alla terra già divenuta nionte il suo f 2 44 co vertice
di forma rotonda; e quivi loc:arono ferma sicura l'abitazione degli uomini. A
mente dunque di quel popolo il Sole e gli astri non givan mai sotto la terra,
che nol poteano; ma spuntavano e tramonta vano girando intorno intorno a quel
verti. ce. Questa opinione, che in Atene era un pubblico dogma, non si potea
contra star da filosofi senza grave lor danno. Il popolo pigliava alto sdegno
di chi osava sen tirne in contrario, e contro lui si scaglia va, come contro
chi avesse tentato di som. muover la terra é perdere a capriccio.il genere
umano. I filosofi d'allora tra per che adularan la plebe, come chi più che gli
altri soglion fuggire i pericoli; o per ehe su ' ciò nulla dissimili dal volgo
crede van lo stesso; non mai vi fu alcuno, che avesse ardito negare il monte,
le radici, il vertice, e la finta figura della terra. Non cosi fece il nostro
filosofo, che molto perito nelle cose naturali, anche da Sici lia si scaglid
contro sì fatta sentenza. Ri dea egli del monte, delle radici, del ver 45
tice.e aspramente ripiglio, Xenofane, che avea per immensa la profondità della
ter ra (28 ). Chi, dicea Empedocle, tali co se divulgano, o poco veggono, o
nulla san. no dell'universo.; Altri e lontani da quelli del volgo fu. rono i
sentimenti d' Empedocle intorno al la terra. Fu opinione di lui, che fuoco
bruciasse nel centro di questa. I sassi i dirupi, gli scogli, ei riguardò come
sco rie, che la virtù di quel fuoco avea in alto levato. L'acque, che sorgon
terma li, quelle sono, a suo credere, che sotter ra scorrendo piglian calore
dal quel mede simo fuoco (29 ). Empedocle in somma im maginò sin d'allora
l'ipotesi del fuoco cen. brale, che Buffon, non è guari, più bel la e vistosa
ha richiamato alla luce. Pensavano gli Jonici, che la terra sospinta dal
vortice che occupava tutta la sfera, era stata condotta nel centro di ques sta.
Ma non sapeano essi comprendere, come quella, sfornita d' appoggio, ben li
brata si stesse nel punto di mezzo. Timi 1 46 di quindi i filosofi al par del
volgo, ne dilatavan la base, e tormentando i loro ingegni si sforzavan di
sostenerla colle ipo: tesi. Talete avvisò la terra restar sospesa nell'aria,
non altrimenti che un galleggian te sull'acqua, Democrito e Anassagora ne
fecero la base non che larga, ma conca va; aifinchè l' aria quivi sotto
racchiusa la potesse sostentar con sodezza. Parmenide credette sostenerla col
principio della ra gion sufficiente. La terra a suo pensare stava nel centro,
perchè non avea ragio ne, che la portasse per questo più tosto, che per quel
verso, Ma il nostro fisico si dilung) da co storo, e con altri principj prese a
spiegar sie la stabilita. L'acqua nella cosmogonia di lui s' era separata dalla
terra per l'im peto del giro, che questa facea (30 ). Pe. rò la terra nel suo
sistema rotaya. Rota va del pari secondo lui il cielo; è altra differenza non
pose nella rotazion dell' una e dell' altro, che nella velocità, Minore la
yolea nella terra, che stava nel centro; 47 1 rola, ando il cla colo come star
galo raal Po maggiore nel cielo, che in giri smisurati si volgea. Da cid
appunto egli ne trasse e perchè quella stesse in aria sen za cadere. Se girate,
egli dicea, con pre stezza una secchia; l'acqua non cadrà, ancorchè nel girarsi
si tenga capovolta (31 ). Tal è nella sfera i La conversion celerissi ma del
cielo vince ogni peso e ritiene la terra. Al moto dunque del cielo egli in
catenava la posizion della terra nel cen. tro, il suo rotare, e lo starne, Si
sihar rì, egli è vero, in quella spiegazione al par degli altri; perchè allor
s'ignorava la gravità della terra esser diretta al suo cen. tro. Ma il suo
metodo di ridurre più fe nomeni a un solo, e ripescare ne' fatti la ragione di
quelli, è molto degno di lode. Dall'esperienza della secchia, che pre stamente
si volge, han preso argomento chi son portati per l'antichità, aver co nosciuto
il nostro filosofo la forza centrifu. ga, Ma a pensar giusto, ignorandosi allos
ra le leggi del moto, niuno ebbe, nè as ver potea l'idea vera e matematica di
quel, 1 ajd a $ permas 30, ho murah ento: 48 d he Te la forza. Egli è vero
essersi saputo in que' tempi, e da Empedocle essersi ben dimo strato la
velocità del girare impedir la ca duta de' gravi. Ma questo era fatto, non
forza, e più esempio, che principio. Eran sì lontani Empedocle e gli antichi di
cono scer quella forza, che presso loro fu fer ma e costante opinione, i corpi
a cagion di circolazione avvicinarsi al centro se pe santi, fuggir dal centro
se leggieri (32 ). Ma se'a lui si può contrastare la co gnizion della forza
centrifuga, gli si deve certamente quella concedere della rotazion della terra.
Opinione era questa comune presso noi ne' tempi greci, e propia in ve rità
della nostra Sicilia · Giacchè Ecfanto e Iceta la divulgarono in Siracusa; ma
sin da tempi antichissimi Empedocle l' insegno nella nostra Gergenti. Avea il
nostro Astronomo il Sole e le Stelle, come se fossero della stessa natura.
Opinava egli quello e queste esser di fuo co (33 ). Ma non perciò è da credere,
ch ' ei tenesse la luce per eguale o simile al R te te e 1 49 1 fuoco terrestré.
Non sapendo egli qual fose se la natura della luce, che per altro è ignota
anche a noi, tenea il Sole come una massa ignita, che lanciava nella sua sfera
le sottili sue particelle (34). Queste ei credea, che dal Sole si moveano, e
pro gressivamente propagandosi giungeano agli occhi. La luce, dicea, va prima
nel mez zo, e poi perviene sino a noi (35 ). An ticipava così la scoperta
bellissima della pro pagazione della luce, che i Satelliti di Gio ve doveano in
tempi avvenire rivelare a Roemero. La vide, egli è vero, coll' in telletto, e
senza ridurla a fatto, la lascið nel posto di semplice opinione. Ma nel tempo
de' sogni e dell'ipotesi è degna cer to d'ammirazione quella opinione, che
coll' andar de' tempi è stata condotta al grado eminente di fisica verità.
L'emission della luce fu l'ipotesi, ch' allor tenne Empedocle', e cui oggi s'
acco stano chi non vogliono vaneggiar per no velle bizzarie. Questa a dì nostri
d ' alcu ni è rigettata, e in que' tempi era ancor مه 50: contrastata.
L'ipotesi che il Sole quanti raggi manda, altrettanti ne perde, fece al lora, e
ha fatto oggi credere a parecchi, ch ' egli raggi mandando, e raggi perden do
sì gradatamente impoverirà di luce, che collo scorrer de' secoli giungerà sino
a spe. gnersi. Newton all'incontro dimostra in sensibile essere stata la
perdita della luce solare dal principio delle cose sino a noi. Anzi egli quasi
sforzandosi d'assicurar la luce alle future generazioni, cerca di sup plir la
massa solare con quella delle co mete. Le quali attratte dal Sole, quan do nel
suo giro sono vicinissime a lui, e su lui cadendo, colla loro materia vanno a risarcire
la perdita diurna delle particel. le solari. Ma Empedocle in un modo, che se
non sarà forse il più vero, è certamente assai più ingegnoso, s' industrið
provedero alla durata del Sole. Siccome i raggi lan. ciati dal Sole son poi
riflessi dalla terra; cosà egli pensd, che quelli dopo la rifles, sion
concentrandosi, ritornano al Sole (36). 51 Però questi per riflessione acquista
quel, che per enuission perde; e atteso un sì fat to circolo durerà sempre lo
splendore del Sole. Empedocle quindi potė ben dire la luce essere al presente
una riflessione di quella che fu una volta lanciata dal Sole: Ma i compilatori
dell'antica filosofia non capirono i sensi del nostro filosofo. Credette ro
essi due essere i Soli d'Empedocle, uno invisibile, visibile l' altro, che
collocati in due opposti emisferi si guardavan tra lo ro. La terra, eglino
dissero, riflette al se condo i raggi invisibili lanciati dal primo; e quello
poi in forma di luce li rimanda alla terra (37). Ecco con quali sconcez ze
quegli storici guastarono i divisamenti del nostro filosofo sull' emission
della luce. Non meno speziosa fu la difficoltà, che s'oppose a Empedocle ne'
suoi tempi contro la succesiva propagazion della luce. Siccome nel tempo che la
luce viene a noi, il Sole si move; così l'occhio astretto a seguire la direzion
della luce, vedrà il Sole in un punto, in cui fu, e poi non g 52 è più.
Empedocle a rispondere, non prese scampo nella prodigiosa velocità della luce,
o in qualche sottigliezza, cui i fabbri di si stemi soglion rifuggire. Non è il
Sole, ei di cea, ma la terra che in ventiquattro ore si volge: La terra' dunque
nel rotare s’im hatte ne' raggi solari, ed essa prolungan doli va a trovare il
Sole nel punto, in cui egli sta. Non si potrebbe di certo a di nostri in
miglior forma rispondere a chi in quel modo vclesse attaccar l ' emissione e
successiva propagazion della luce (38 ). • Empedocle ebbe la Luna come opaca,
perchè frapponendosi tra il Sole e la ter ra cagiona l' ecclisse. Plutarco a
lui so lo (39), mettendo in non cale tutti gli altri, da il vanto d' aver
divolgato la Lu. na essere un corpo privo affatto di luce, che riflette i soli
raggi solari. La chiarez za della Luna' ei chiamava non che dolce e bénigna, ma
insieme straniera. Una lu ce straniera, dicea Empedocle qual poeta, circola
intorno alla 'terra (40). Ma Empe docle ebbe la disgrazia d' aver avuto gua 53
stato ogni suo sentimento. Achille Tazio dall' epiteto di straniera dato alla
luce lunare da Empedocle, ricavo, non so come, il medesi mo aver tenuto la Luna
qual pezzo svelto dal Sole. Ma buon per noi che ci sia re stato il verso
d'Empedocle, che smentisca l'interpetrazione di Tazio (41 ): Anassagora per
dare una misura del So le riferì la grandezza di quest' astro al solo
Peloponneso. Il nostro filosofo fu il primo, cui venne in pensiero di comparar
Sole e Luna tra loro. Egli credea che il Sole fosse stato più della Luna
distante dalla terra so pra due volte (42). Ciò non ostante affermo quello
essere stato assai più grande di que sta; sebbene ambidue fossero appariti
dello stesso diametro (43 ). In somma l'ineguale distanza fu per lui certo
argomento della lo ro diversa grandezza. Parrà ad alcuno ciò essere stata cosa
di lieve momento; e pure fu un passo, e un avanzamento che allora fece la
scienza del cielo. Giacchè niun altro prima d'Empedocle, ed egli fu e il solo e
il primo, che insegnò gli astri lontani 54. doverci comparire piccoli più de'
vicini. E gli pure fu il primo che pose in confronto tra lor gli astri non solo,
ma i loro diame tri. Dopo hui in fatti prima Eudosso misu rò i diametri apparenti
della Luna e del Sole; e poi cominciarono i Greci a stabili re i periodi
lunisolari, da cui nacque, e s’ avanzò l'astronomia de' medesimi. Si potrebbe
quì aggiungere a formar tutto il quadro dell'astronomia del nostro fi losofo,
aver lui forse conosciuto che la Luna rotando intorno a se stessa si mova circa
la terra. Ma punto non conviene dar a Empe docle una gloria o dubbia o sospetta
(44). Basta aver levato a suoi pensieri astronomici quella ruggine, di cui li
bruttò l'imperi zia di quegli storici. Appresso l' onorano al cuni qual autore
d'un poema sulla sfera in cui si descrive, secondo l'uso de' tem pi il nascere
e ' l tramontar d' alcune stel le. Ma i critici illuminati han quello come
opera d'ignoto autore e non di lui (45 ). Io non discordo da loro; anzi
confesso non essere stato Empedocle intento a osservare, 1 55 1 come si
conviene nell' astronomia. In quell' età si costruiva il cielo da' filosofi non
si osservava. Era quella la stagione della fan tasia, delle opinioni, e
dell'ipotesi, che suol sempre precedere l' altra, che porta seco il raziocinio,
l'osservazione, la veri tà. Però non è poca la gloria d’Empedo cle nell' aver
conosciuto la ' successiva pro pagazion della luce, la rotazion della ter ra,
l'opacità della Luna, è scostandosi dalle volgari stravaganze nell' aver compa
rato il primo le masse tra loro della Lu na e del Sole. Se non può egli quindi
emulare Timocari e Aristillo, Ipparco e Tolomeo, che nella Greca astronomia fu
ron chiarissimi; pure non è da negare lui aver saputo delle cose del cielo
assai più che la sua età non portava. Vennero quel. li assai dopo, e in tempi
assai più illu minati e felici; e non è maraviglia, che questi fossero stati di
quello migliori. Una fiaccola più o meno brilla, quanto più o meno pura è l '
aria, in cui brucia. Dal cielo tornando alla terra non più 56 & troviamo il
nostro filosofo, che immagina l' origin delle cose; ma che studia e in terpetra
con senno la natura. La prima verità, che c'insegna, non già ragionando ma
coll'esperienza, è il peso e la molla dell' aria. Mette egli in opera in
difetto di macchine e di strumenti la clessidra, che s'usava allora da' nostri
come orolo gio a misurare il tempo. Avea questa la sua figura conica; la base
forata a guisa di minutissimo vaglio; e il collo lungo che stringendosi sempre
più andava a fi nire in un sottil bucolino. Si tenea allora la clessidra col
collo all'ingiù; e l'acqua, di cui era piena, lentamente gocciolando misurava
le ore. Questa appunto fu la macchina d'Empedocle, che nelle sue ma ini diventò
indice e misura di fisiche verità. Introduce ei da poeta una donzella, che
trastullando colla clessidra la vuol en piere d'acqua. Ne tura essa l'orifizio
col le dita, e postane la base all' ingiù, cala quella verticalmente in un
fonte. Entra allora l'acqua per la base forata; ma per SC ay is ce 9 in C 57
quanto la donzella prema, e travagli, la clessidra non si può mai empiere tutta.
Stanca finalmente la verginella, alza le di ta, con cui chiudea quell'orifizio;
ed ec co l'acqua che sale, e giunge alla cima. Proposta l' esperienza,
Empedocle ne' suoi versi ne soggiunge lo spiegamento. L' aria, dice egli, che
sta racchiusa nella cavità della clessidra, colla sua molla, resiste all' acqua,
e la ripara di venire all'in su. Ma appena la donzella alza, le dita, l'aria e
sce, e però l'acqua non più impedita dall' aria sale, e tutta empie la
clessidra. In altro modo ci presenta ei la don zella. Finge egli che questa
volti la cles sidra; e allora un altra prova egli ci reca del peso e della
molla dell' aria. Chiude es. sa colla mano il bucolin della clessidra, questa
piena d'acqua volge colla base all' in giù; affinchè l'acqua tutta fuori si ver
si. Ma non senza sua sorpresa s' accorge che l'acqua, lungi di cadere da ’
forellini della base, si ferma: Alza ella quindi la mano con fretta; ed ecco
l'acqua goccio h 58 re il a lare, e a poco a poco cadendo tutta fuori versarsi.
Dichiarato il primo, ſu agevole a Em pedocle spiegare il secondo esperimento.
L' acqua, dicea egli, si sforza d' uscire da' fo. rami della base. Ma l'aria
sottoposta si resiste colla sua molla, che venga a vince peso dell' acqua.
Subito che la don zella alza la mano, l'aria di sopra preme l'acqua sottoposta;
e questa, ajutata dall' aria soprastante, vince ogni restistenza, o vien fuori.
Con tali esperienze, delle propietà dell' aria mostrava egli e il peso, e la
molla. Ciò nulla ostante furon quelle nell'età d'ap presso poste ingiuriosamente
in obblio. Se noti fossero stati al rinascer delle scienze gli esperimenti d '
Empedocle, non si sareb be certo levato tanto grido per l'invenzion del
barometro. Ivi il mercurio sta sospeso dalla forza dell'aria, come l'acqua sta
so spesa entro la clessidra dalla forza egual. mente dell'aria. Si fatte
esperienze, che oggi son volgari, allora erano rade e uti € 59 lissime alla
fisica. Smarriti i Greci in que? tempi o dalla lor fantasia, o dalla lor me
tafisica, non pigliavan cura nè d ' esperien. ze, nè d'osservazioni; e privi di
fatti, co storo eran pur privi di scienza · Ne' versi d'Empedocle quindi il
principio si trova, e la nascita dirò così della fisica; perchè ivi si trovano
i primi esperimenti. Democrito al par d'Empedocle piglia va anch'egli allora la
via de' fatti: sebene ambidue ne fossero stati presto raggiunti dal divino
Ippocrate. Sicché questi tre som mi uomini cercarono allor di fondare un epoca
novella nella Greca filosofia, sfor zandosi di condurre gl'ingegni a studiar la
natura coll' esperienza, e colla osservazio ne. Ma tal metodo, ch'è lento,
ostenta to, non potea esser gradito a Greci, che impazienti erano e caldi; e
però da pochi fu pregiato ed impreso. Sebbene Empedocle avesse posto ogni
studio nello sperimentare; pure fu solo in Sicilia, senza stromenti,
nell'infanzia dela la fisica. Ne si creda Democrito, e Ippo h 2 60 crate
avergli potuto giovare, essendo e co lui di region lontanissima e questi de
tempi d'appresso. Pochi eran quindi i fat, ti, che potea egli raccogliere. I
medesimi non gli eran mica bastevoli all' uopo, ch' era assai vasto, e che
giusta l'usanza de tempi abbracciava tutta la natura. Di che veniva, ch'egli
spesso era costretto a suppli re il difetto de' fatti; e ciò il fece con assai
sagacità e senno: cui nercè l'arte inventò del congetturare. Questa non gia che
fosse stata da lui ridotta in canoni come si svol presso noi, che in ogni cosa
abbondiamo di regole; ma intriseca si tro va, e quasi nascosta ne' suoi
ragionamen ti. Anzi io credo non potersi in miglior modo rilevar l'artifizio
del suo metodo, che descrivendo l'andamento del suo spi rito; allor quando
pigliò ei a comparare i vegetabili agli animali. Furon tanti, e di tal momento
i rapporti, con cui egli quel li a questi lego, che giunse a scoprir del, le
verita, che son degne non che di ricor, F S a 8 danza, ma di stupore. 62 Il
seme, il sesso, la generazione, la nutrizione, la traspirazion de’ vegetabili
fu. rono i varii sorprendenti oggetti su cui fil filo s'applicò la sua mente.
Da prima avverte. Empedocle comune essere il fine assegnato dalla natura 'e
agli animali e a ' vegetabili. Un animale, o una pianta, egli dioe, voglion
produrre animali, o piante simili a se (46). Questo fu messo da lui come base
delle sue illazioni, e co nie fermo segnale d'un punto, da cui egli partendosi
non s' avesse potuto mica smarri re nel proceder più oltre nelle sue nuove
scoperte. Soggiunge egli appresso: come l' animale viene dall'uovo, così la
pianta dal seme (47). Attesi questi fatti comincia o ' specolando a filosofarvi,
e da quelli guidato va con franchezza formando le sue conget ture. Se l'uovo e
il seme, egli prosegue, comune hanno il fine, ch' è la produzio ne; debbono
l'uno e l'altro colla stessa attitudine, e col medesimo impeto tendere al
medesimo fine (48 ). Da sì fatto fine ad ambi comune egli argomenta, come da 62
un indice, comune dover essere la natura del seme e dell' uovo. Ma Empedocle
forse à tal indizio si ferma? Nullameno. Egli torna di nuovo a fatti, mette in
opera da capo osservazioni; e si sforza rintracciar co. sì la natura dell' uno
e dell'altro. Empedocle tirando avanti la sua stes sa traccia, trova e
distingue sì nell' uovo che nel seme, non che germe, ma materia che il germe
nutrisce. L'animaletto fin, chè non nasce, o la pianticella finchè non
abbarbica ', traggono alimento da quella, Non è già, aver lui conosciuto le
foglie seminali; o aver lui detto la placenta u terina portar nutrimento all'
embrione per via del funicolo umbilicare. Egli non al tro conobbe, che due
esser debbano nell' uovo e nel senię le parti principali e muni: il germe e i
cotiledoni, che l'ali mento preparano alla pianticella, o all’em. brione, o nel
seme, o nell' uovo. Il nostro fisico quindi più non distinse dirò così ani mali
da piante. Ebhe egli il seme qual uovo de vegetabili; e chiamò le piante col CO
63 soprannome d ' ovipare (49 ). Ecco avere Em. pedocle svelato agli uomini
assai prima d’Ar véo tutto ciò, che nasce', non d ' altro pro venir che
dall'uovo. Teofrasto infatti, e A ristotile (50 ) a Empedocle solo attribuiscon
la gloria della scoperta di tal verità, e gliela dan come propria. La fatica d
' Arvéo, fu egli è vero, utilissima all'avanzamento del le scienze, e degna di
tutta la lode. Ma egli pubblicando di nuovo lo stesso ritrova mento d'
Empedocle, null' altro fece che as sodar vie più colle prove ogni cosa nascer
dall'uovo. Chi adesso non giudicherà mag. gior l'eccellenza dell'ingegno di chi
colla mente va congetturando ciò, che del tutto s’ è ignorato in preterito, e
prevede ciò che sarà da scoprirsi in futuro? Il nostro fisico, guidato com'
egli era dall' induzione, spinse più oltre i suoi ra gionamenti'. Affermd le
piante al par de gli animali dover essere tutte fornite di ses so. Conosciutosi
da lui il seme null' altro esser che uovo, come l'uovo si feconda per l' union
del maschio colla femina; co $ 64 sì argomentò egli del pari il seme per la
mescolanza di que' sessi doversi fecondare. Franco ' quindi e sagace stabili
egli il pri mo, ed egli il primo distinse il sesso ma schile e feminile in ogni
vegetabile. Non si dubita prima di lui essersi conosciuti ma schi e femine tra
' vegetabili: ma ciò soltan to attribuivasi a palme, fichi, canape, pi stacchi.
Però dal nostro fisico prende ori gine il sistema, su cui oggi posa tutta la
Botanica. Egli è vero non aver lui allora ne cercato, nè mostrato gli organi
genita li nelle piante, come poi han fatto con grande studio i moderni; ma ciò
facea e gli sempre col ragionare, e quelli vedea dirò così, coll' intelletto.
Nella testa de' grand' uomini, come dotati d'una specie di tatto pella verità,
la forza delle con getture si sostituisce talvolta all' evidenza de ' fatti.
Facea Empedocle a guisa d'un gran dipintore, che solo abbozza il quadro con
poche, ma pennellate maestre; e la scia poi agli altri la cura di compirne il
disegno, di colorirlo, e abbellirlo. Arveo 65 definì tutto nascer dall'uovo:
Zalunziaski, Millington, Camerario, Vaillant prima, e poi Linnéo mostrarono il
sesso nelle piante. Ma costoro tutti quanti assodaron la dottri na, e compiron
l'idea tracciata dal nostro Gergentino. In verità non è poca la glo ria che a
costui torna nell' aver lui il pri mo schizzato degli originali, che di mano in
mano col favore del tempo si van tro vando in natura. Contemplare Empedocle,
che conget tura è uno spettacolo degno d'un filosofo. Ora egli scorto
dall'analogia supera tutti i suoi contemporanei', e più oltre proce dendo va
diritto a trovare altre belle ve rità. Ora privo di fatti, non ostante il vi.
gor di sua mente, tentoni cammina incer to tra verità, ed errore. Conobbe egli
il sesso sol nelle piante. Ma altro non pote va egli conoscere, attese le poche
anzi le rade verità solamente allor note. Quante altre osservazioni, quante
altre verita gli mancarono? Ignoto era allora l'antere, e gli stigmi esser gli
organi genitali delle pian i 06 cer te, e questi trovarsi ne' fiori. Niun sapea
il polline portato da venti aderire allo sti gma per via dell'umore, che in
questo si stà. Chi aveva allora osservato la Passiflo ra, la Graziola; e ' l
Tulipano, che come agitati d'estro venereo, erranti van cando la polvere, che
loro fecondi? Chi s'era accorto, in que' tempi la Valisneria, e l'altre piante
acquatiche sul punto de’ loro amori alzar lo stigma dall? acque, per accoglier
cupide, e aperte la polvere de' loro maschi? Non è però da recar mara viglia,
se nell'ignoranza di tali fatti non seppe Empedocle comprendere, come le pian.
te, che fitte stan sulla terra, si potesser congiungere per far la lor
generazione a guisa degli animali. Ma tenne egli come cosa non che non dubbia,
ma certissima, e l'induzione già gliel' aveva indicato, che il seme per
l'unione si feconda della fe mina col maschio. Però egli, posti in cia scuna
pianta, come sullo stesso talamo, quasi marito, e moglie, disse tutte le pian.
te dover essere ermafrodite (51). Fil que: 67 sto, egli è vero, un errore;
perchè in al cune piante i due sessi son del tutto se parati, e distinti. Ma
altresì, egli è vero, la più parte delle piante alla classe ap partenersi
dell'ermafrodite; oltr'a quelle, che sono androgine, e poligame. Empedocle
appresso, il mistero passo a indagare della generazion de’ vegetabili, con
quella confrontandola degli animali. Gran cose in prima osò egli dire sul la
generazione animalesca. ' Immaginò egli starsi divise ne' liquor seminali
de’due ses si particelle analoghe al corpo d'ogni ani male. S'ideò egli queste
nella unirsi, e l'embrion formare del corpo or ganizzato (52 ). Il carnale
appetito egli ri pose in quelle particelle, che, separato trovandosi nel
maschio e nella femina, ten. dono naturalmente a unirsi. Ad abbondan za de' due
semi la cagione ei riferisce del parto o doppio, o triplo; e a scarsezza o
disordine degli stessi la nascita d'ogni sor ta di mostri. La prole secondo lui
al pa dre o alla madre somiglia in proporzione generazione i 2. 68 del più o
men prevalere del liquor semi nale quando della femina, quando del ma schio. La
ragione inoltre crede lui dare della sterilità delle mule, che all' angustia
attribuisce e obbliquita de canali della loro figura (53 ). Varie spiegazioni
va in com ma egli fantasticando, che io piglierei ros sore di chiamar sogni, se
chi han tratta to della generazione, non avessero sinora sognato al pari di lui.
Le molecole orga niche di Buffon, i vermi spermatici di Le wenoek, l'uova di
Bonnet e,di Haller, il filamento nervoso di Darwin, non sono clie ipotesi più o
meno, false o tutte immagi narie. La fantasia inoltre, che tutte domi le umane,
s' avvide Empedocle, poter avere anch'essa una parte nella ge nerazione.
Ricordava ei delle donne, che aveaito dato in luce bainbini simili a sta. tue o
pitture, cui quelle, essendo gravi. de, aveano a caso fisamente guardato (54 ).
Opinò egli quindi la fantasia della femin na, non altrimenti del tornitore sul
legro, na cose 69 2oho da ede lidt? po 12.06 maa Potere dar forma, e
simiglianza al feto. Non inancan.oggi, chi credono poter più operare l'
immaginazione del padre che alle quella della madre. Ma niun disconviene, ato
quasi secondo il linguaggio d ' Empedoc!e, che la fantasia o della femmina o del
nia schio, giunge talvolta a tratteggiar, dirò cosi, le membra, e la fisonomia
della pro le nel ventre della madre. Da si fatte cose, stabilitasi. anzi tem po
da Empedocle la famosa analogia tra' vegetabili, e animali, trasse egli, e cona
chiuse del tutto eguale a questi duver es sere la generaztone di quelli. Ne men
dissimigliante tra loro, disse Empedocle, dover essere la nutrizione de gli uni
e degli altri. I vegetabili e gli a nimali dicea il nostro filosofo, gli
alimenti scompongono, e quel traggon da éssi, ch' è conveniente e accomodato
alla loro na turá (55 ). Ciò egli credea farsi in ambi due per via
dell'affinità insieme e de' pori. Dell'affinità cosi egli parlava. Siccome le
cose amare all'amare si uniscono, le dol UD Eury 7 Pizze,the is on sullink 70
ei de 1 dis Tec cer ci alle dolci; ogni sinile in somma al suo simile: cosi gli
esseri organizzati quel pren dono dagli alimenti, che lor si confa, e può
nutrire ciascuna delle propie parti. Chiaro fu eziandio il suo parlare de' po
ri. La nutrizione, egli è certo, separarsi e dividersi negli animali, e ne'
vegetabili per mezzo de' pori, che son differenti in dia metro (56). Le
particelle, dette nutribi li, è certo altresì non potere indistinta mente
entrare per qualunque di quelli: ma ciascuna insinuarsi nell' orifizio di que'
bucolini, ch'è analogo alla propia gran dezza. Un vino, egli dice, è diverso da
un altro, attesa la differenza non che del terreno ma della stirpe (57 ). Ecco
come par, che il nostro filosofo avesse voluto vie più assodar la sua opinione
della forza dell' affinità, e de' pori, massime su i vegeta bili (ch'è poi
propietà d'ogni corpo orga nizzato ) i quali giusta la propia organiz zazione
han da quelli preparato gli ali menti, e si rendon capaci di saporé diver so. A
senno dunque d'Empedocle la nu se su red nog Ila ti co re со ali 71 Fari
trizione si opera tra per l'affinità, e la ti que varia ampiezza de ' pori per
canali diversi, ce e va svariatamente, ma sempre in pari re preciproco modo,
vigore é aumento porgendo agli organi diversi sien de' vegetabili, sien degli
animali Empedocle frattanto, il modo volendo indicare, con cui la nutrizione si
sparge e dividesi fra gli organi diversi, abbiam noi veduto essersi rifuggito all'
affinità, ch'è certamene un'ipotesi. Ma che maraviglia; se dopo la serie di
tanti secoli da questo suo pensare non sono mica iti lontani pa recchi pur tra’
moderni? Grande in verità e diligentissima è stata oggidì la fatica de nostri
fisiologi nell'indagare i fenomeni del la nutrizione, Gli hanno essi ridotto a
' fat, ti, o a leggi generali, che son propie e comuni a tutti i corpi
organizzati. Nè pu re eglino han trascurato di trovare nella contrattilità
organica la forza, con cui gli alimenti son trasportati in canali opportuni non
sol negli animali, ma eziandio ne've getabili sino all'alto delle propie foglie.
Ma TX, ام د ገን muito 73 con tutto cið o nulla o poco si sono essi avanzati
nell'additar la maniera, con cui si fa la nutrizione per gli organi diversi.
Non si nega oggi darsi da' più a varii organi, una specie di gusto, cui mercè
quel suc chino, e tirino, che a ciascuno in partico lar si conviene. Ma poi tal
fatto pensa mento mostra forse esser del tutto falso il ritrovato d'Empedocle?
E' troppo vero, cho la natura yince in molte cose, e vincera sempre ogni nostra
speculazione e fatica e da filosofi per lo più non si recano, cho sole
congetture, ed ipotesi, Fattisi vedere eguali da Empedocle i rapporti degli
animali co' vegetabili nel se nie e sesso, nel generarsi e nutrirsi, non re.
stava altro a lui che applicarsi sulla tra spirazione comune ad entrambi.
Conobbe egli, che gli uni e gli altri per via de' pori similmente traspirano, e
quella parte degli alimenti tramandano che loro è su perflua. Alla
traspirazione di fatto attribuì costui o il perdersi dagli alberi nella fred da
stagione, o il serbarsi quelle foglie, che 1 73 1 dalla natura, non a caso, ma
particolar mente sono ordinate al traspirare e al nu trir delle piante. I primi,
ei disse, tra spiran molto in estate, e spossati levan le foglie in
autunno. I secondi traspiran po co in estate, e robusti ritengon le foglie in
inverno. Fondava egli la copia o scarsez za del lor traspirare sull' ineguale
diame tro, e contraria posizion de' lor pori. Gli uni a suo giudizio hanno
larghi i pori del le radici, angústi quelli de' rami. Gli al tri all'opposto
angusti i pori delle radici, larghi quelli de' rami. Però i primi più,
succhiando, e men traspirando non levan le foglie. I secondi men succhiando e
più traspirando perdon le foglie (58 ). Se una si fatta posizione di pori, che
immagind il nostro fisico, fosse stata confermata dalle osservazioni, avrebbe
sin d'allora egli sciola to un problema, che non poco fastidio grandissimo
stento ha recato a ' moderni. Era rizio comune a quell' età organizzare ad
arbitrio gli esseri della natura a fin di. poterne presto dichiarare i fenomeni.
Egli k e. 0 1 è vero non esser mancati a di nostri, chi abbian conosciuto e
distinto ne' vegetabili non meno di quattro specie di pori (59 ); Ma chi ha
potuto, o con qual microscopio potrà mai rinvenire, che a ' pori o larghi o
stretti delle radici corrispondano a rove scio quelli de' rami? Pur tuttavia a
Empe. docle in parte siam noi debitori della ragio. ne, che mostra il come
dagli alberi cadan le foglie. La famosa traspirazione ne' vege tabili, da lui
allora scoperta, scioglie og gi a noi con somma nostra ammirazione o senza
nostra molta fatica un sì bel pro blema. Ognun vede le foglie cader più pre sto,
quando la state è più calda. Ognun pur vede gli alberi robusti più de' deboli
più tardi svestirsi di foglie. Anzi ognun vede altresì quegli alberi in inverno
rite ner le foglie, che poco traspirano. I 100 derni al più han distinto le
foglie, che cadono in pezzi da quelle, che intere si staccano, secondo che
l'une o l'altre sono al tronco diversamente attaccate. Costoro 75 di più son
giunti a conoscere, che alcuno foglie cadono intere, prima che le nuovo dalle
lor gemme si svolgano, e altre ristan no finchè non ispuntin le nuove (60). Da
ciò essi han tratto, che quegli alberi, i quali gettan le foglie dopo lo
spuntar del le gemme, debbon mostrarsi verdeggianti in inverno. E che
all'incontro quegli altri, i quali gettan le foglie pria dello spuntar delle
gemme, debbon vedersi nudi nella stege sa stagione (61 ): Che perciò? i nostri
fisiologi forse san. no oggi della caduta delle foglie dagli al beri assai più
di quel, che ne seppe al. lora il nostro filosofo? Abbian quanto si vo glia
convenuto oggi i moderni le foglie tra. spirar più quanto più abbondano di
pori. Abbiano quanto si voglia pure costoro af fermata la copia o della
traspirazione o de' succhi si travagliar le foglie, e i lor vasi ostruire, che
finiscan di vegetare, muoja no, e cadano. Eziandio ne abbiano essi inferito
tutti gli alberi dovere perder le fos glie, chi in Autunno, chi in Primavera.
Ma k 2 26 de 60 fu NI tal differenza non è se non perchè le fo glie di quelli
più, e le foglie di questi meno' traspirano, e l'une servon più, l' altre meno
alla nutrizion delle piante? E non è questa la grande scoperta appunto d'
Empedocle, e che forma uno de' suoi gran di elogi? Il pigliare i vegetabili e
gli animali au mento dal calore, il goder di gioventù, il cadere in malattia,
il giungere alla vecchiez za, sono altresì que' tratti di simiglianza perfetta,
che il nostro fisico andava a quel. li aggiungendo. Nè lascid ei di notare, che
i vegetabili al par degli animali si muv vano, resistano, si raddrizzino (62 ).
Gran de com' egli era di mente, e degno d' in. terpetrar la natura, talmente s’
ingegna va di legare il primo con poche o comu ni leggi i due regni, che paion
tanto di stanti e discordi tra loro, il vegetabile e l' animale. Gli antichi
presero maraviglia di questo specolazioni di lui, e si ne restaron convinti,
che si sforzarono aggiungervi qual che cosa del loro, Empedocle aveva già 0 PE
C te 77 detto, che il seme senza più è nella ter ra ciò, che il feto nell'utero
(63 ) ed egli no procedendo più oltre' non ebbero a schi fo affermare la pianta
essere un animale fitto in terra per le radici, e l'animale una pianta, che
cammina. I moderni poi non han tralasciato punto di assai profittar de pensamenti
d' Empedocle, cui mercè tira ta avanti la traccia e allungati, diciam.co sì, i
suoi stessi passi, sono iti scoprendo nuovi rapporti, che agli attimali legan
le piante. Le piante dormire come gli anima li; respirare coni'essi; avere i
lor muli; pro. pagarsi i polpi al par delle piante; esservi animali (che son
quei, che vivono attacca ti alle pietre ) che cercano la luce e vergo essa
rivolgonsi, come appunto fanno le pian te: questi e simiglianti sono i grandi
ogo getti, su cui i moderni profittando d' Em pedocle si sono fissati. Ciò non
ostante 90 no tante, e di tal momento le differen ze, che separano gli
animali da' vegetabili, che non è stato possibile di ridurli in tut. to giusta
la pretesa d'Empedocle alle me 78 desime leggi. Pare soltanto che nel presen te
stato delle nostre cognizioni tutto con corra a dimostrare aver la natura
espresso e racchiuso dirò così quasi sotto unica fore mola il gran fenomeno
della nuova produ. zione de' corpi organizzati. Questa appun to cercò, e questa
rinvenne il nostro fisi co. Perchè distinse il sesso nelle piante, e conobbe il
seme non esser altro che uovo: e affermò apertamente le piante, come gli
animali, dover essere ovipare. Tali meditazioni d'Empedocle su gli esseri
organizzati', in difetto d'oga' altra pruova, basterebbero sole a indicare la
for, za, e l'eccellenza del suo intendimento. Dovea egli supplir la mancanza
de' fatti, inventar de' metodi per non ismarrirsi, ras. sodare i
suoi pensieri incatenandoli, anti veder congetturando, Operazioni, che vo
gliono tutte ostinazione, sagacità; avvedi mento. Tal è la condizione dell'
umana natnra, che la nostra mente non può senza stento riflettere, ragionare,
scorrer le dub bie vie delle fisiche ricerche. No creda al 7.9 cuno, ch ' ei
qual poeta, o cosmogono aves se ravvisato quelle somiglianze tra i vege tabili
e gli animali più colla fantasia che colla ragione. La fantasia crea non isco
pre; finge non ragiona; abbellisce non in catena; e se talora connette, i suoi
lega mi sono immaginari e non reali. Molti fu rono i cosmogoni tra gli antichi,
Ma Em. pedocle solamente s' addita come chi com prese in egual modo operarsi la
generazio ne negli animali e ne' vegetabili. Fu egli è vero intento a legare
questi a quegli esse ri, come suol farsi dalla fantasia, che cor ca e ritrova
più le somiglianze delle cose che le lor differenze. Ma ciò avvenne dal metodo,
con cui il nostro Gergentino aju tava la sua mente, ch' altro non era, nè esser
poteą nella sua età, che quel dell' analogia. La quale, siccome essa suole,
argomentando da cose simili, potea soltana to condurlo, a veder somiglianze. Se
dun que Empedocle col favor dell' analogia pro pose congetture, che poi si son
trovate ve re dalle nostre osservazioni, e ben da dir 80 si ch' egli fu nobile
di monte, robusto ne suoi raziocinj, e di gran sentimento nelle cose naturali.,
Un altro e più vasto teatro s' apre o rą di altre e nuove specolazioni, Empedo
cle, posti da parte e vegetabili e bruti, staccò l’ Uomo dagli esseri
organizzati, con cui l'avea egli sin allora confuso. Prese costui a considerar
l’ Uomo solo e isolato non che in metafisica e morale, ma in pa recchie fisiche
scienze. Rivolse ei le sue prime indagini alla fisica dell'Uomo, cui i
corpuscolisti con gran cura in quel tema po attendeano. Empedocle, Anagsagora,
De mocrito scrissero sulla natura; ebbero tutti tre il soprannome di fisici: e
tutti tre ten tarono di svolgere l'economia, giusta cui vive, si muove, si
regola la macchina u mana. Fu forse un tale studio sull' uomo che sopra
ogn'altro lor distinse dagli altri filosofi. I quali, senza più, aveano fino
allora quello riguardato come un soggetto soltanto metafisico, o morale, o
politico. Ma ' le fisiche ricerche d'Empedocle 81 sull’ Uomo trapassarono di
gran lunga quel le di Democrito e d’Anassagora. Perchè, sagace, com'egli era,
si mise in investigazio ni non prima tentate d'altri, e utilissime. Tanti
furono i punti di vista, sotto cui e' prese a contemplare il corpo umano; e al
trettante può dirsi essere state le scienze, cui diede principio il vigor di
sua mente. Egli il primo applicò la chimica ', e sie a nalisi al corpo umano;
segnd le prime li nee d'anatomia: fece sforzi se non sempre efficaci, sempre
almen generosi a gettare i fondamenti della fisiologia dell' Uomo:: Il sistema
d'Empedocle sulla natura fu chimico; così chimiche del pari furono le sue prime
ricerche sull'uomo. Comincio egli a esaminar questo nelle sue parti, e quanto
più allor si potèa, ne imprese an cora l'analisi. La carne, ei dicea è coma
posta di parti eguali di ciascun de' quattro elementi. Di due parti eguali di
fuoco e di terra sono formati i nervi, e le unghie son similmente nervi
raffreddati dall'aria (64). Otto furon le parti, ch'ei distinse nelle os 1 82
sa: due di terra, altrettante di acqua, e quattro di fuoco (65). Se non si
corresse un qualche pericolo di travedere, chi non direbbe aver lui trovato
l'ossa abbondare di fuoco, perchè abbondan di fosforo? Ma che che ne sia, non
v'ha dubbio, aver lui dato principio con sì fatte analisi a un novello rano di
chimica · Ramo, che dopo Empedocle fu del tutto posto in non cale: ma che oggi,
attesa la sua grand' utiltà con ardor si coltiva, e che va sempre più
smisuratamente crescendo sotto il nome di chimica de corpi organizzati:
Erasistrato, Herofilo, Serapione fu ron tra ' Greci, che s ' applicarono con
som mo studio all' Anatomia. Ma innanzi a co storo, vinti gli errori della
religione e de' tempi, aveano cominciato a coltivarla De mocrito in Abdera, ed
Empedocle in Ger genti. Descrive quest'ultimo la spina del dorso, e tienla,
come di fatto è, non ' altri menti che la carena del corpo umano (66 ).
Distingue egli di più inspirazione da espi razione mostra i canali per cui si
re r 83 spira dalle narici (67 ). Ricerca egli inti ne l'organo del sentire, e
trapassando il neato uditorio, discopre quella parte dell' udito, che attesa la
sua forma torta e spi rale, chiamò egli allora, e chiamasi anco ra la
chiocciola (68 ). Questo è il poco a vanzo delle sue cognizioni anatomiche, che
per sorte sono arrivate sino a noi. Ma que sto stesso poco mostra il suo gran
sapere in questa scienza. Un gran pezzo di capi tello o di bảse', il rottape d
' una colon na, o pilastro, bastan sovente a indicar e la magnificenza di un
edificio, e la perizia di un architetto. La sola scoverta della chiocciola
dimostra assai meglio, che non fecero ' gli antichi scrittori', essersi il
nostro filosofo molto avanzato nelle cose anatomi che. Questa situata in luogo
riposto dell' udito non si potea discoprir certamente se non da chi fosse stato
molto prima versa - to e perito nelle materie anatomiche. M eno scarse son
le notizie delle fun. zioni della vita e de' sensi dell’ Uomo: e che per
fortuna ci restano della fisiologia d'Empedocle. 1 84:; Il sangue umano, come
ciascun sa, sempre alto, e sempre allo stesso modo co stanțe mantiene il calore.
Ippocrate pien di maraviglia l'attribuì a cagione sovrana turale e divina.
Empedocle all'opposto eb be il calore, come cosa ingenita e conna turale al
sangue medesimo. In cid a lui s'accostarono ne' tempi d'appresso Aristoti le,
Galeno, e tanti altri, Ma egli fu il primo, che a formare un sistema, trasse
dal calore del sangue, come da prima ca gione, una spiegazione non già vera, ma
certo artificiosa, delle funzioni della vita. Le regolate, pulsazioni delle
arterie a véano gia indicato al nostro filosofo, che il muove nelle vene. Ma
igno ta era a lui ', come ignota fu all'antichi tà,, la circolazione del sangue.
Però in ve ce di questa suppose egli in quel fluido un movimento d'oscillazione.
Il sangue, ei dicea, occupa parte, e non tutta la ca vità delle vene, e in
queste va quello giul $ u continuatamente oscillando (69). La for: che lo
stesso agita, era secondo lui il sangue si za 85 calore:. e questo essendo
ingenito al san. gue costante ne mantiene e l'oscillazione e il moto. A tal
movimento legò il nostro filoso fo la respirazione, altra operazion della vi ta.
Quando il sangue, ei dicea, va giù verso il fondo de' vasi, l'aria tosto s '
insi nua ne' sottili prominenti meati delle vene, ed entrando occupa quel vano,
che nell' andare si lascia in queste da quello. Ne perciò egli aggiungea l'
aria quivị restarsi: perchè il sangue, secondo Empedocle, spin to dal calore, e
su tornando, preme dolce mente quella, e fuori la caccia col suo ri tornare (70).
Accade, seguiva egli a dire, ciò che nella clessidra si osserva (71 ).."
Ivi l' aria respinge l'acqua, o da questa quella è re spinta. Non altrimenti
nella respirazione l' aria esce o entra secondo che il sangue si porta o giù o
su nelle vene. Però all'an dare o venire del sangue risponde alter nando il
venire o andare dell'aria. Ques sta forma, entrando, l ' inspirazione; ilscen.
86. do 'l' espirazione e nell’unal e nell' altra è riposto giusta il suo
sistema il respirare d'ognuno. L'aria, che nella respirazione esce ed entra
nelle vene toglie al sangue a giu dizio d'Empedocle una porzion di calore. Ciò
indusse gli antichi medici, che abbrac ciarono tal sua opinjone, a curar
coll'aria fresca e matutina i ' morbi d'eccesivo 'calo re. Il respirar dunque
cagionava secondo il nostro filosofo diminuzion di calore. Da ciò anch'egli
iuferiva la necessità, che strin. ge gli animali a dormire. Il sonno in fat ti
egli diceva; null' altro essere, che dimi nuzion di calore. (72 ). In quella
parte quindi di fisiologia d ' Empedocle che riguarda le funzioni vitali, il
sonno vien dal respirare, e questo dall' oscillazione del sangue. Sicchè sonno,
spirazion, movimento di sangue tra lor son connessi, e tutti quanti a un tempo
dal calore provengono. Nel calore in somma e' pose la cagione di vita e di moto.
La morte (73 ), egli dicea, è privazion di ca re 87 lore però riguardava sonno
come.egli il principio di morte. Giacchè questa, a suo credere, è privazione, e
quello diminu zion di calore. Tali principj di medicina, ch'eran teorici,
guidavano lui eziandio nel la pratica. A quel piccol' calore., da noi già
osservato, che ritenea la donna Ger gentina caduta in asfissia (24) conobbe
Empedocle, ch'ella era ancor capace dell' aiuto della medicina. Tanto egli è
vero, che la sua pratica era alla sua teorica con corde, e questa per
l'andamento naturale del suo spirito era legata tutta e formava un sistema. Ecco
in qual povero stato erano allo ra l' anatomia, e la fisiologia, la fisica in
breve del corpo umano. Nuda era questa di fatti, e piena d'errori, e d'ipotesi.
Ma tale è la condizione delle fisiche discipline: Nascono esse imbecilli, a
stento s'accresco no, e vanno non di rado alla verità per la via degli errori.
A chi allor poteva vee nire in mente, che l'aria nel respirare' in luogo di
toglier calore, ñe porga al san 88 ana? gue e ne porga gran copia? Come potea
Empedocle anticipar specolando in que di tante yerità, che suppongono la
cognizion di tante altre, e d'un immenso numero di fatti, che allora
ignoravansi? Segnd e gli quindi, non v'ha alcun dubbio, po che e imperfette
linee di chimica, d' tomia; di fisiologia del corpo umano. Ma tali schizzi,
avvegnachè informi, ma co me primi, e originali, son titoli degnissimi di sua
gloria, e gli concedono un sublime posto d'onore nella storia delle scienze.
Appartiene a nobilissimi ingegni (i quali sono ben pochi ), di mostrare almen
da lon tano quelle scienze, ch'al dir di Bacone son da supplirsi, e che del
tutto s'igno rano. Empedocle fece ancor di più. Dino to egli la chiniica del
corpo umano, analiz zando gli ossi e la carne; accennò l'ana tomia discoprendo
la chiocciola; indicò la fisiologia legando al calore, come a un sol fatto, le
principali funzioni della vita. Su periore e' quindi al suo secolo non avrebbe
certamente lasciato ad altri la gloria d' ac 8 89 crescere queste utili scienze.
Ma nol poté, come chi privo fu di stromenti, e di tut. ti que' mezzi non solo
opportuni ma ancor necessari a ridurre in effetto i nuovi e và. sti disegni,
che a ora a ora a lui sugge riva il suo genio, Ma se non ebbe Empe docle la
fortuna di accrescerlo tutte, ebbe quella di stabilir meglio la fisiologia e
get tare lui il primo le basi di quell' altra parto d' essa, che riguarda i
sensi dell' uomo, Andavano i Corpuscolisti indagando 80 pra d'ogn'altro nella
lor fisiologia come i nostri organi avessero potuto sentir gli oga getti che,
son fuori di noi. Credevan co storo tutti i corpi venire in ogn’ istante in
alterazione, cangiare, ed esalare particel le sottili, e invisibili. Eran
queste, sécon do loro, trasportate dall'aria, dall' acqua, dal fuoco su nostri
organi, e ivi adatta te eccitavan le sensazioni di que'corpi, da quali esse
spiccavansi. Piacque quindi a costoro le sensazioni null' altro essere, che
impressioni eccitate negli organi da particel m go le, che si parton dagli
oggetti, di cui quel le son, come quasi le immagini. Empedocle intanto non
dissenti mica da loro. Ma il suo spirito, come quello che non erane certo, non
se ne mostrava del tutto convinto. Messosi costui quindi a esaminare i sensi a
uno a uno, adatto a ciascun di loro la sua propia e particolare spiegazione.
Fece egli così un'analisi de' sensi e sensazioni più profonda, che sin ' al
lora non s'era punto fatta d'alcuno. Ma quel ch'è più aperto egli dimostrò non
es ser lui punto ne' suoi pensamenti nè se. guace, nè schiavo delle comuni e
dominan ti opinioni. Giacchè egli nel chiarir questo o quel senso ora abbandona
i corpuscoli, or recali innanzi, o ora aggiunge agli stes si qualche nuovo
argomento. Trattando Empedocle dell' odorato, e del gusto non altro mette in
opera, ch'e salazioni, e corpuscoli. Questi, agli dice, trasportati dall'aria s
' acconciano a ' pori del naso, e muovono il sentir dell' odorato. I cani, ei
soggiunge, cosi e non altrimenti 91 indagan futando l'orme della fiera, Che se
il catarro, dice egli di più, irrigidisce le narici; allora i pori di questo
tosto s ' alterano, si respira a stento, e l'odor non si sente (75 ). Tratta
egli appresso dell'udito, e la sciati e pori, e corpuscoli, piglia dall'ana
tomia il suo nuovo argomento. L'udito, ei dice, nasce dalla battitura dell'
aria nel la parte dell'orecchia, la quale a guisa di chiocciola è torta in giro,
stando essa so spesa dentro, e come un sonaglio percossa. L'anatomia, ch'era
allor grossolana piccol conforto a lui porse nel dichiarare la vista. Conobbe
Empedocle un de' tre umori, ch'è l' aqueo, e qualche membra na, senza più, di
quelle, che coprono il globo visivo. Però sfornito dell' ajuto dell' anatomia
era egli dubbio e incerto. Em pedocle nondimeno giunse a comprendere dover la
luce avere gran parte nella visio ne degli occhi. Ma come, e perchè, per quanto
si fosse ei travagliato, nol potè af fatto conoscere. 1 m 2 92 Suppone il
nostro filosofo entro dell' occhio, non che, acqua, ma luce, che chia ma fuoco
nativo. L'una, e l'altra a suo credere, ivi stanno in tal quantità, che per lo
più sono ineguali. Così egli distingue gli occhi azzurri da' neri. Iprimi egli
af ferma abbondar di fuoco, scarseggiare d ' acqua; là dove i secondi esser
poveri di fuoco s ricchissimi d’aequa (76). Però ei soggiunge gli uni mal
veggon di notte per difetto di acqua; e gli altri veggon male di giorno per
iscarsezza di fuoco (77). Ma sía o poca, ó molta la luce che stanzia
nell'occhio, ei la riguarda qual lu me dentro una lanterna. Lo splendore del
lume, ei dice., fuori della lanterna si span de, e nella notte ci guida. Così i
raggi di luce fuori dell' occhio si spargono,.e ci di mostran gli oggetti.
Empedocle talora aga giunge a raggi della luce i corpuscoli. I raggi secondo
lui, che dall'occhio si lancia no, prima s' imbattono nelle particelle, che si
spiccan da corpi. Poi raggi e corpusco li si congiungono giusta il medesimo: e
93 insiene congiunti si portano all'occhio, e muovono il senso visivo (78).
Aristotile disapprova tali pensamenti d'Empedocle. La visione degli ocohi, egli
dice, è da riſerirsi solamente all'acqua, e niente al fuoco (79 ). Nella storia
dello spirito umano accade sovente, che un er rore un altro ne " caccia, e
' l falso al falso di mano in mano succeda. Aristotile oltrº a ciò rimprovera
il nostro filosofo, che dub. bio egli e incerto abbia, fatto cagion del vedere
ora i raggi uniti a' corpuscoli, e.o ra i soli corpuscoli (80). Ma in ciò sem
bra Aristotile a torto riprendere Empedocle. Non sapea persuadersi il nostro
Gergen tino, che totalmente passiva fosse la se de del senso visivo. Non potea
egli inol tre comprendere, che niuna parte avesse la luce nel gran magistero
del nostro vedere. Incerto restò quindi di se, di sue idee, e delle spiegazioni
volgari; ma tale incertez. za o quanto onore a lui reca ! Dubitar del le
opinioni, che son false, e in voga, è il primo ma più difficil passo, che si
può fare verso del vero. 94 La fisiologia, che va a di nostri spa ziando per
tutte le scienze, comunica ezian. dio colla metafisica e colla morale. Quest'
unione, ch'è il frutto naturale dell'avan zamento delle scienze, fu dirò così
presen tita dal nostro Gergentino. E di fatto sul la sodissima base della
fisiologia cercò egli stabilire si l'una, che l' altra. Da che Pittagora, e
Parmenide ab bandonarono i priini la testimonianza de' sensi, come ingannevole,
i Greci tenzona chi contro la ragione, chi contro i sensi. Questi, è quella
vennero quindi in discredito: 6 sorsero intanto i sofisti, e gli scettici.
Socrate, Ippocrate', e altri di si mil sorte tentaron conciliar la ragione co '
sensi. Ma vani furono i loro sforzi. Duro la gran lite durante la Greca
filosofia. La stessa rinacque al rinascer tra noi delle scienze. Di nuovo si
pugnò allor quando contro i sensi, quando contro la ragione; e di nuovo si
giunse allo scetticismo. Ma nggi simili dispute sono già state bandite da noi;
e si terran lontane, finchè lo studio rono, 95 delle fisiche, e delle
Matematiche avrà in Europa stato, e onore. Ne' tempi d'Empedocle la scuola d '
Eléa orgogliosa facea ogni sforzo ad atter rare i sensi, e a inalzar la ragione.
Cid ch'è, dicevan gli Eleatici, è unico, eter no, immutabile. E come i sensi ci
mostra no il multiplo, il mortale, il mutabile; co sì essi c' ingannano. Però
conchiudean co storo la ragione poter sola conoscere cid, che è, ed essa
solamente decidere della realtà delle cose. Contro i medesimi entrarono in
lizza i corpuscolisti. Questi disdegnando lo sotti. gliezze di quella scuola,
fisici com'erano, difesero i sensi, senza annullar la ragione. Anagsagora con
sottile avvedimento distinse le particelle simili da ' loro composti; Demo
crito gli atomi da' loro aggregati: ed Enia pedocle gli elementi dalle lor
combinazioni. Particelle simili, atomi, elementi, dicean costoro, sono eterni,
immutabili. Non son tali le combinazioni, gli aggregati, i com posti, che
mancano, e cangiano. Questi 96 si conoscon da’sēnsi, quelli dalla ragione.
Eglino quindi tolsero ogni contrasto tra' sen si, e ragione: assegnando a
questa, e a quelli due provincie del tutto separate, e distinte. I corpi, come
composti, operano a senno d'Empedocle, e di Democrito su i nostri organi, che
sono del pari composti. Eccitano quelli le nostre sensazioni; ma queste a parer
d' entrambi non son tali, che i corpi, La'scuola di Jonia avea tal mente
confuso le sensazioni cogli oggetti, che scambiava questi con quelle, e tenea
le" une, non altrimenti, che immagini fe delissime degli altri. Non così
pensarono i Corpuscolisti. Questi separarono, dirò co si, le sensazioni dagli
oggetti, che le ca gionano; è muovono, ed ebbero quelle, come soli, e semplici
modi, quali di fatto sono, del nostro sentire. Il bianco o il ne ro, il caldo o
il freddo, l'amaro o il dol ce esistono, diceano essi, ne' nostri organi, nelle
nostre sensazioni, e non già negli ogo getti. Costoro quindi solean chiamare co
1 97 1. eglia gnizioni, di apparenza, e di opinione, e non gia di verità, e di
realtà quelle, che si traggon da' sensi. Ma non perciò credea Empedocle, co me
alcuni vogliono, le nostre sensazioni es sere immaginarie. Cangiano queste,
vero, secondo che a lui piaeque, come can gia lo stato de' corpi, o come s’
înmuta la disposizione degli organi. Ma vero, e reale è altresì il sentimento,
che si desta da' cor pi. Tal' è della sua dottrina, al pari di quella di Newton
intorno a colori. Vege giamo ne' corpi o rosso, o giallo. Ma ne i raggi di luce,
che percuoton l'occhio, sono o rossi o gialli; ne' rossi ne' gialli so no i
corpi, che que' raggi colorano. Il ros ò il giallo è in somma nell'occhio, e
nell'impressione, che in esso fanno i rag gi di luce: Così a creder d'Empedocle
le sensazioni sono reali. Ma le medesime non rappresentan mai le qualità, che
ne' corpi appariscono; null'altro essendo, che altret tanti modi del nostro
sentire, Diversa da quella de sensi, credeano SO, n 98. E 1. i corpuscolisti,
esser la via, con cui s'ac quista da noi la conoscenza degli elemen ti, o degli
atomi. Questi non si poteano secondo loro, come semplici, conoscer da' sensi,
che sono composti. Ogni simile, era antico assioma, non si può conoscere, non
col suo simile. Però Democrito ed Empedocle, tolta a' sensi la cognizione de'
sempliei, la riservarono all'anima. Per questo l'anima, giusta Democrito, era
for mata d'atomi; e secondo Empedocle degli elementi, ma uniti alle due forze
di amo. re, e di odio. Colla terra, dicea il Ger gentino, veggiamo la terra, r
acqua coll' acqua, l ' aria coll' dria, il fuoco col fuo co; e coll' odio e
l'amore altresì l' odio, e l'amore: Empedocle portava, dove potea, l'oc chio
alla fisica costruzione del corpo uma mo, e dava alle sue opinioni una veduta
anatomica. Credetto ei di veder nel cuo. re umano un centro, diciam così, di
siste ma; e ivi egli pose la sede dell'anima. Ma come Empedocle in tutto, e
sempre 99 era concorde a sestesso, cosi loco quella particolarmente nel sangue,
che asperger e bagna il cuore dell' uomo (81 ). Perchè ripostosi da lui il
principio e di moto, e di vita nel calore del sangue, li ancor e gli dovea
ripor l’anima; Era questa dota ta, a suo credere, di sentimento al pari de'
sensi. Ma ambidue ricevevano le loro impressioni: l'anima dagli elementi i sen
si dalle combinazioni. L' una acquistava la cognizione delle cose eterne, e
immutabili, e gli altri la notizia delle mortali, e mu tabili. I corpi esterni
in somma oporavan sulla macchina dell' uomo in due modi di versi: come elementi
sull'anima, come com binazioni su i sensi: e quella & questi e ran passivi.
Nacque da ciò, che Protagora, lo scoo ' lar di Democrito, portð opinione:
l'intel letto altro non esser che la facoltà di sen è nelle sensazioni stare
ogni cogni zione, e scienza: Per questo Crizia, qua si accostandosi al nostro
filosofo, affermo, pensare esser lo stesso che il sentire tire, e 1 ni 2.' 100
anima stanziarsi nel sangue. Ma Empedo. çle non si fermè quì al par di costoro:
passò molto innanzi. A parte dell' anima, che conosce gli elementi, un altra ne
sup pose egli entro noi, che è destinata a ver sarsi nella contemplazion delle
cose intellet. tuali e divine. Iddio secondo lui, non è una combi nazione a
guisa de corpi; ne un unità ma teriale cone son gli elementi. Dio, egli dice,
non ha forma nè membra umane; non si può veder cogli occhi, nè toccar col. le
mani. Iddio è santa mente, Costui non si può render colle parole, e muove l'uni
verso co' suoi veloci pensieri. Iddio in sostan za per lus è mente, e la sua
vita è il pensare. Così il nostro filosofo abbandona va la compagnia di
Domocrito, e le cose materiali: per tornare a Pittagora, e alle cose,
intellettuali. ins. L'anima dunque, destinata da Em. pedocle a conoscer cose
spirituali, e divine, dovea essere, e fu per lui altresì senza dubbio
spirituale, e divina. Questa proce. 101 dea, secondo che dicevano Empedocle, e
i Pittagorici, da Dio, ed era particella del la sostanza divina. Se ne
appresentavano essi la ġenerazione sotto varie immagini: or di fiaccola, che
tante altre ne accende; or d'idea che tante altre no genera; or di parola, che
trasmette à chi ascolta, la ragion di chi parla: o di cose simili, che sarebbe
lungo il ridirle: Però paghi que' filosofi di esse agevolmente popolarono il
mondo d' innumerabili spiriti, che tutti e. ran partecipi della natura divina.
Di questa classe prese dirò così il nos,. stro filosofo le anime spirituali. Le
due a: nime, quindi annesse da lui nel corpo dell' uomo forman la primaria base
di sua me tafisica dottriną. Una egli sostenne essero immateriale, materiale l'
altra, ' quella ese sere immortale ed eterna, e questa mori re insieme col
corpo: la primą versarsi in contemplazion di cose intellettuali, e astrat te; e
la seconda in cognizione di elemen ti, e di due forze odio, e amore.. Ma non
mancherà çerto, cui si fatta 102 opinion di dire anime in ciascun corpo di o
gn' uomo semibri del tutto strana, e inde gna della gravità d'un filosofo: Ma
chi al tresì avea ' manifestato allora, é chi fin' og. gi ci ha detto cose più
vere, o più sapien. ti sull' union dell'anima col corpo, e sul reciproco loro
influsso, e commercio? Chi presi di boria, annullato lo spirito, tutto riducono
a macchina. Protagora volea, che giudicare, e ragionare fosse la stessa
facol. tà del sentire. Ma questa è un'empietà; una mattezza. Tal la dimostrano
l' unità del pensiero, e l'attività del ragionare dell' uomo. Taglián costoro,
come suol dirsi, non isciolgono il nodo. Chi presi d' entusias mo, annullato
dirò così il sistema organi co, tutto l' uomo riducono a spirito. Stahl volea,
che l'anima sola operava tutte quan te le funzioni del corpo. Ma questa è u• na
falsità, e una follia. Talla dimostra: no i movimenti involontarj, e organici.
Vo glion costoro, como suol dirsi, occultare il sol colla rete. Chi poco più
'ragionevoli, pigliata una via di mozzo, vollero.combi. 103 nare ambidue le
forze dell'anima, e del corpo. Leibnitz volea un'armonia prestabi lita, cui
mercè lo spirito segua ne' pensie ri, voleri i moti del corpo, cui quegli è congiunto:
Ma questa è una ciancia, è una fola più complicata della cosa stessa, che si
vuole spiegare.. Lo spirito umano in somma ha immaginato tante ipotesi su ciò,
tanto più, o meno bizzarre, quanto più o meno son le. teste scaldate di tutti
filosofi. Nè vi è inoltre mai stata ipotesi, che tosto non sia stata accolta, e
non ab hia avuto assai partigiani: tanto vale quel la specie di prestigio, che
la novità ope ra sull’intendimento dell'uomo ! Qual ma raviglia dunque, ch’
Empedocle abbia sup posto in ogni corpo due anime? Non fu egli certo nè tanto
delirante, quanto Pro tagora, tutto macchina; nè tanto immagi nario quanto
Ştahl, tutto spirito; nè cost fantastico qual Leibnitz tutto armonia pri
initiva. Dichiarò egli a. rincontro della falsa dottrina di Protagora, che le
idee spirituali non procedono dal sentire. Svi 104 luppò anzi tempo contro
Stahl le funzioni de' nostri organi, e quelle della vita con fisiologiche
ipotesi non di rado fondate sull' anatomia.. Prevenne Empedocle alla fine l'
erroneo sisteina di Leibnitz, e i sensi, dis se, e le sensazioni esser capaci
di eccitar nell'anima la ricordanza di ciò, che prinia el!a sa, e poscia., atteso
il contatto colla materia, la stessa del tutto dimentica. Non è quindi
Empedocle colla ipotesi delle due anime o men ragionevole, o più strano di
tutti i filosofanti, che sono stati finora. E ' da confessare che il problema
intorno alla reciproca azion dell'anima sul corpo forse appartenga alla classe
di quelli, che vincono qualunque intendimento dell' uo-. mo. Però non si sono
recate da noi, ne' si recheran per lo innanzi, che ipotesi, e sogni, che il
tempo, il quale suol confer mare i soli, e veri giudizi della natura andrà a
mano a mano struggendo. Non è già, che queste due anime', che noi leggiamo
presso molti degli antichi, e sopra ogn'altro' de' Pittagorici, sieno da 105 na,
prendersi secondo la lettera. Intendean co storo distinguere il sensibile e
l'intellettuale: due maniere di facoltà, che sono entro l' uomo. Ma adombrarono
essi, come ' era u sanza d'allora, sotto vive impagini quelle facoltà, o,
diciam cosi, fecero le medesime divenire persona. Empedocle di fatto secon do
la testimonianza di Sesto Empirico d ' ambidue quelle facoltà compose la sola
ra. gione. Questa, egli dice; è in parte uma in parte divina, e porta il nome
di retta ragione (82 ). Perchè questa corrego ge gli errori de'sensi, e può
sola discer nere il vero dal falso. Tanto egli è vero che le due anime
d'Empedocle, non rape presentavano, che la facoltà sensibile e la facoltà
intellettuale, e ambidue faceano u. na cosa sola. Chi potrà or tolerare
Empedocle cole locato tra la classe de' filosofi scettici (83). Egli non mai
affermd essere inutile, o va« na la testimonianza de' sensi. Apzi i sensi, egli
disse, mostrarci i rapporti, che han. no i corpi, e tra loro, e coll' individuo
d'. 106 ognuno. I sensi, egli disse del pari, sve. gliare nelle intellettuali
facoltà le idee spi rituali, e, astratte. Al più al più diffida va Empedocle
de' giudizi de' sensi, che so vente sogliono esser fallaci, o ingannevoli. Però
egli volle, che i medesimi fossero sta. ti guidati unicamente dalla retta
ragione. Questa potea solo a sentimento di lui discer nére il falso dal vero.
Forse, dicea ai suoi tempi Cicerone parlando d'Empedocle, costui ci acceca, e
ci priva de' sensi; allor quan do egli crede, che non fosse in essi gran forza
per giudicar di cose, che sieno sot toposte agli stessi (84)? Par, egli è vero,
Empedocle degli e lementi trattando, quali esseri semplici, ga gliardamente
scatenarsi contro de'sensi. Par lui scatenarsi altresi contro gli stessi, allor
ehé, dirizzandosi al suo amico Pausania, e con lui trattando dell'amore e dell'
odio, ambidue forze immutabili, gli avverte a non fidarsi.de' sensi, e a
guardar le cose non già cogli occhi del corpo, ma con que' della mente. Pare
eziandio finalmente, giue 107 sta cid, che., Cicerone ine dice, lui andare in
furia, contro i medesimi gridando: niuna cosa poter noi nè veder, nè sentir,
ne.co noscere (85 ): Ma altri, che questi 'argomenti ci vo gliono a definire
come scettico il nostro fi losofo. Chi è intento a esperienze e ad a nalisi;
chi cerca con somina cura de' fat ti; chi da questi tenta d'investigare l'ope
razioni della natura sotto la guida dell' a nalogia: certamente non sa, nè può
esse re scettico. I fisici potranno non prender cura di cose spirituali, e
astratte; ma non mai l'esistenza negar di que' corpi, le cui propietà con
ardore cercano, e la cui in dole con diligenza studiano. L' espres sioni quindi
di quelle parole, non v'è dubbio ' dover valutarsi secondo e il pen sare, e il
parlare di quella stagione. Si chiamava allora pero, e ciò che è; quel ch' è
eterno, e immutabile, o sia quello, che sotto i sensi non cade: Però Empedo cle
a ragione parlando di elementi, e di farze, come quelli, che sono eterni e im 0
2. 108 1 mutabili, rigettd affatto i sensi: @ niuna cosa noi, disse, mercè loro
potere o ve dere, o sentire, o conoscere. Fra tanto, chi il crederebbe? che nel
volersi definire il carattere, o la dottrina d'uno stesso soggetto, si passi
anche da' gran filosofi da uno all' altro estremo del tutto contrario. Anche i
grandi uomini tal. volta precipitano i loro giudizi, e nel pre: cipitarli
·traveggono. E' cosa da farci stor: dire il sapere, che la dove alcuni filosofi
dichiaravano scettico Empedocle; altri all! opposto avessero lui materialista
definito, Aristotile, e altri con lui tacciano di ma: terialismo il nostro
Gergentino. Nel siste ma d'Empedocle il pensare, dico Aristoti le, lo stesso
val che il sentire; ogni nostra cogaizione viene dalle sensazioni: e con que:
ste quella s' accresce (86). Ma questo stesso è altresì una calunnia. Passivi
sono, 4. senno d'Empedocle, i nostri sepsi; pas siva è parimenté una di quelle
due ani me, ch'egli suppone materiale entro noi. Pero la nostra scienza, disse
egli, accre. 109 scersi colle nostre sensazioni. Ma dall' una anima e
dall'altra, dalle facoltà cioè sen. sibile, e intellettuale, si forma, come a
lui piacque, quella ragiono, che noi già abbiamo osservato. Questa, secondo
'lui, pesa, compara, giudica: in breve ragiona. Due sono i principj, giusta gli
avanzi di sua filosofia, cui mercè la ragione rettifica i giudizi de' sensi.
Primo: il nulla viene unicamente dal nulla. Secondo: il simile si può solamente
conoscer col simile. La ra gione quindi secondo lui, riferisce le sens sazioni
a tali, e ad altri principj (se pur altri ne avesse ammesso costui ), o coll'
ajuto di questi quella ci mostra il roro. @ il falso. Poteva, cio posto, tal
essere lui, qual co lo dipinge Aristotile, un materia. lista? Chi ammette
principi di conoscere; di giudicare, assoluti, non ricavati da' sen. si, eterni,
immutabili non può affatto cre dere, che il pensare lo stesso sia che il
sentire, nè punto può essere imputato co stui di materialismo. Non v'è uomo,
quanto si voglia grana. de, che non abbia i suoi nei; e anche i gran genj sono
soggetti sovente a censure. Si dice d’Empedocle in metafisica non essere stato
lui originale. Convien forse ora smen tire tal voce? Nulla meno. Si bisogna
esse re ingenuo; nè l'amor di colui, ehe si loda dee sì impaniarci, che ci
debba far supera: re l'amore del.vero. Si confessi pure Em. pedocle, al par de'
corpuscolisti, in metafi sica non essere stato mai originale. Empe docle qnal
allievo de' pitta gorici, e degli e leatici non seppe abbandonar punto le idee
da lui apprese in ambidue quelle scuole. La stessa venerazione egli ritenne,
che ave van costoro verso i principj astratti, Si diparti egli sol da' medesimi
(e co si avvicinossi alle scuole contrarie ' ) nel non aver lui rigettato del
tutto la testimonian za de sensi. Egli in que' dì si sforzo di sedare colla sua
nuova dottrina l'accesa pu gna di que', che litigavano chi contro del, la
ragione, chi contro de' sensi. Combind egli, e mirabilmente congiunse i sensi
cola la ragione, a questa, e a quelli assegno 111 - uffizj, e diritti separati
e distinti: e sen za nulla scemare dalla realtà di nostre sen sazioni, gran
forza, e autorità diede a prin. cipj generali; e astratti: Tutti i corpusco
listi furono in quella stagione eziandio, chi più, chi meno concordi al nostro
filosofo; e tutti egualmente in metafica tennero le parti di conciliatori tra i
due partiti allor dominanti. Tal'è la natura dello spirito u mano. Fatica egli
senza stancarsi, e riflet te anche sino al cavillo, quando è sospin to
dall'ardor del partito, e dall' amor del sistema ! Ma poi stanco ei di meditare,
o pugnare, cerca la quiete, e 'l riposo; e componendo insieme le opinioni
contrarie si lusinga d'aver trovato gia il vero. Avven ne allora in somma ciò,
che la storia filo sofica ci presenta a ogni passo. Sempre dall'urto. di due
opposti sistemi n' è il ter zo spuntato, che li ha conciliato, giunto. Anzi
quando molti in contrasto so no i sistemi; allora è appunto, che sorgon gli
ecclettici, che scegliendo opinioni, or da un partigiano, orda un altro, tutti
con accozzano i partiti tra loro, e li riducono & uno. Sarebbe tempo ora
mai di volgerci dalla metafisica alla morale d'Empedocle. Ma portatesi assai
più avanti da lui le sue ricerche, e le sue vedute sull'anima, di storna noi
pure per ora d'imprender tal via. La fisica (abbiam noi osservato espo nendo la
dottrina d’Empedocle ), essere stata quella scienza, in cui ei sopra ognº altro
si distinse, e cui mercè alto ha so nato, e sonerà eternamente il nome di
lui. Mà nello studio della natura quello, che più l'allettava, e cui
principalmente egli intendeva, era la contemplazione de' corpi organizzati.
Riferi egli da prima (sic. come abbiam noi pure os servato ), gli a.
nimali a ' vegetabili, e da questi portando le sue specolazioni sull' uomo
giunse sino alla metafisica. Dall' uomo poi tornò Em pedocle ad ambidue quegli
oggetti quasi al le sue considerazioni primjere,e domesti che · Ando egli
indagando, se i vegetabili fossero stati provveduti di gentimento, e se 113 gli
animali e vegetabili fossero stati tutti due al par dell'uomo forniti di anima.
Si fatta investigazione non fu punto difficile al nostro filosofo, come chi
piglia va l'analogia per sua guida. I corpi non organizzati, egli dicea, nulla
hañ di comu ne co' vegetabili; perd se quelli son privi di senso, questi
all'incontro nę debbono esser partecipi. I vegetabili all'opposto, ei
sogglungea, molto aver di comune cogli a nimali (87 ). Ambidue han tra loro
comu. ni le primarie funzioni vitali: son dotati di sesso, si nutriscono,
crescono, traspira ban gioventù, han yeochiezza, han no indozzamenti, malattie,
sanità, nasco no, muojono. Però se gli animali son for niti di sentimento,
anche i vegetabili in ciò debbono essere a quelli compagni. Fu quindi sua
opinione essere gli alberi, 6 le piante capaci di tristezza, di gaudio, di
voluttà, di dolore, di desiderio, di sde gno; e di ogn'altro animalesco
appetito (88). Anzi spingendo egli più oltre la forza di sua analogia, posti
eguali i fisici rapporti > P 114 1 tra l'uomo, e gli animali, e tra questi e
i vegetabili, fu di parere, che l' avere un'anima materiale non fosse un
privilegio sol conceduto all' umana natura, ma comu ne eziandio a tutti quanti
i corpi organiz zati. Anima quindi, e sentimento egli die de, non che agli
animali; ma anima e sentimento altresì a ' vegetabili, e a ogni sorte d'erbe, e
di piante (89 ). Anima e sentimento diede Empedocle a ' vegetabili ! fiori che
si rattristano; erbe che si adirano; pianto, che ' o si rallegra no o piangono
! Quanti, non che qual fan. tastico piglieranno il nostro filosofo, ma ne
rideranno ancora al sentirlo? Ma non rideranno certo, chi più sag. gi e più
istrutti, non ignorano punto, che anche i Democriti, gli Anassagori, i Pla toni
abbracciaron si fatta sentenza (90 ). La quale non è già, che faccia a lui ono
re, perchè, abbia in cið avuto e compagni, e seguaci così solenni filosofi. Ciò
sarebbe un argomento d'autorità, che nulla, o po co conchiuderebbe in suo pro:
perchè filo-, 115 sofi ' ancor di gran nome stan sottoposti a errori grossolani,
e massicci. E' che la co sa non è in se stessa sì strana; come a pri ma vista
apparisce. L'anima materiale da que' gran filosofi negli animali, e vegetabi li
ammesza, in sostanza altro non era, che la fisica sensibilità de' moderni.
Questa vole van costoro, che fosse ne' vegetabili tal qua le tra gli animali si
trova: In virtù di que sta ', credevan gli stessi, i vegetabili al par degli
animali ésser capaci d'amore, odio, e d'ogn' altro animalesco appetito. Empe
docle in breve, e que gran filosofi ebbero e uomini, e bruti, e vegetabili come
do tati di senso, e la fisica lor sensibilità chia marono anima. Chi adesso
potrà dirittaa mente riprendere Empedocle? Di poi non vi sono a di nostri de '
fi siologisti famosi, che nelle piante trovano senso d' umido, di secco, di
caldo, di fred do, di luce, di tenebre; perchè non po che di quelle chiudono o
aprono i loro pe tali atteso il freddo o il caldo, il secco o l' umido, il lune
o lo scuro? Non vi soa P 2 116 no del pari quelli, che veggon nelle pian. te,
chi il senso del tatto, come nella sen sitiva; chi quel dell' amore, come nella
valisneria, chi una specie di gusto nell'e. stremità d'ogni radice, cui mercè
questa sceglio, e trae quella nutrizione, che si con. viene a ciascuna? Non son
finalmente o Darwin e le Metherie, che van cercando, é credono d'aver già
trovato ne' vegetabili e senso, o sensorio? Qual assurdo egli è dunque, se
Empedocle, che ne' suoi con cetti abbracciava tutta la natura, abbia u. nito
insieme tutti i corpi organizzati per via della fisica sensibilità, che credea
essere a quelli comtine? La natura, non v'è dub bio, aver distinto, e separato
il vegetabile dall' anirnale con differenze, e caratteri ben contrassegnati, e
rivissimi. Ma l' estendere la sensibilità dagli animali sino alle piante è una
idea grande, bella, e degna di un sommo filosofo. Non v'è, chi a prima vi sta
non ne debba restar preso, e non bra mi trovar vera quella, che vera sin ora
non è. 117 Ma comunque ciò sia, una cosa ' solit è verissima, Empedocle aver
riguardato i corpi organici in un aspetto diverso di quel, che fece Pittagora,
o i filosofi prima di lui. Costoro non ebbero nè pure in pen siero di
considerar le piante, di bruti, come dotati di sentimento, e di anima,
Empedocle fu il primo, almen tra pittagori ci, a pensare in tal modo. Egli fu,
cho ebbe e uomini, e bruti, e piante, quali esseri congiunti tra loro dalla
sensibilità, come quasi comune strettissimo vincolo, o che suppose in tutti un'
anima materiala egualmente. Però egli fu anche il primo, che strinse l'uomo
colle piante, o co ' brus ti ad alquanti sognati doveri, che nasco Ro da quella
ideata parentela, con cui e gli legò quello con questi. Ecco ora come chiaro si
vede su qual base vada a poggiar la morale d'Empedo cle. Sulla fisica fondo ei
la sua, metafisia ca, e su quella fondd egli ancora gran parte di quest'altra
scienza. Con si fatte vedute costui pubblico due gran poemi sul. Ii8 la natura
il primo, e gulle purgazioni il secondo. In questo Empedocle stabilì la sua
etiça; in quello la fisica: ma fece precede re il primo al secondo, come
argomento pri mario della sua raffinata morale. La morale d'Empedocle fu in
verità nel suo fondo la stessa di Pittagora. Pu re lni citano gli antichi
scrittori, come chi. avesse alterato la prima antica dottrina di quel sommo
filosofo, e i tempi di lui ad ditano come la seconda epoca del pittago ricisino.
Ma ciò avvenne, perchè Empedo cle, aggiustata la morale di Pittagora a suo modo,
e conforme al suo fisico pensa rė gi scostò al quanto dagl' insegnamenti di lui.
La colpa degli spiriti; una diversa maniera di metémpsicosi: l'astinenza di
qualche sorta di cibo, furono in tutto le gran novità, ch'egli introdusse nel
corpo della morale di quello. Tra queste come principale, e primaria è da
reputarsi l'o pinion della colpa degli spiriti. Non d ' al tra fonte, che da
questa, qual prima ca. il.119 gione, il nostro filosofo fece dipendere la
metempsicosi e le purificazioni, che sono i due çardini della morale
pittagorica. Fu opinione d'Empedocle, che varj spiriti, mentre menavano yita
beata, avesser pec: cato. Però a cagion di delitto, si credet te da lui, quelli,
scacciati dal cielo, e pri vi degli onori divini, essere stati così astret ti
ad espiare i lor falli. Esuli, erranti, ra minghi, egli diceva, vanno lungi dal
cie lo per trenta mila anni, e pagan vagando il fio meritato del propio loro
delitto. L' etere quindi, e' soggiungea, precipita gli spiriti nel mare, il
mare sulla terra gli sbalza, la terra gli sospinge nell'aria, l ' aria sino
all' etere gl' inalza. A quelli sų giù sospinti perciò, e quà e la circolando
risospinti, oyunque era d'uopo in mare, in aria, in terra vivere in miseria e
in lutto. Tali spiriti, secondo che piacque a costui, andavan successivamente
informan do varj corpi, e questi appunto erano le infelici anime degli uomini.
Queste quindi 120 ta stavano in pena delle lor colpe racchius e ne' corpi; i
corpi eran le prigioni delle ani me, e la matempsicosi, di cui Empedocle formo
il primo cardine di sua morale, giu ata il parer del medesimo, era una pena
delle stesse, ch'aveano prima fallato. Di si fatta reità delle anime che ragion
fa della metempsicosi, non si trova vestigio alcuno presso que' filosofi, che
furono in nanti d ' Empedocle. Questa per la prima volta si legge ne' versi di
lui. Ai suoi tem pi fu, che la medesima divenne comune, o volgare: e Platono
dopo fu quello, che l' abbelli sopra ogn' altro. Pero da Empe docle comincia
una nuova età del pittago ricismo; perchè da lui comincia l'opinione della
fallenza delle anime, qual base e ra gione della trasmigrazion delle stesse.
Egli è vero, la metempsicosi, comu ne a pittagorici, essere stata antichissima
presso gli Egizi (91 ). Non si dubita ne anche aver costoro diviso in più
periodi il tempo della trasmigrazion dalle anime, assegnato a ciascuno la durata
di tre mila 121 anni. In ogni periodo, credeano i medesi mi ogni anima,
informato prima solamen te il corpo di un uomo, andar poi tratto tratto
passando non più ne' corpi d' altri uomini, ma di qualunque animale,. che abita
o l' aria, o il mare, o la terra. E' vero altresì tal dottrina essere stata
dall' Egitto portata da Pittagora presso de' Gre ci (92 ). Non si dubita nè
pure i Greci filosofi coll' andar del tempo averla molto alterata. Altri
restrinsero la metempsicosi ai soli corpi umani, altri pari agli Egizj ľ1°.
estesero dagli uomini ai bruti. Vi fu pa. rimente, chi disse que periodi esseri
tre, chi dieci, chi nove. Nè mancavan di quei, che ridussėro la durata d'ogni
periodo da tre mila a soli mille anni. Empedocle fra tanto afferind il nume ro
di que' periodi esser dieci, e la durata di ciascuno di tre mila anni. Ma l '
anime secondo lui migravano in ognuno di que' periodi in ogni sola volta nel
corpo d'un uomo, e in tutto il resto a ' finire il cir colo di ciascun degli
stessi, andavano mion 122 1 che ne' bruti, ma eziandio nelle piante. Fui
fanciullo, dicea Empedocle, fui don zella, augello, albero, pesce. Chi è or,
che non vegga esser questa un altra delle alterazioni recate da costui alla
metempsi cosi di Pittagora, e degli Egiziani? Questi la voleano solamente negli
uomini, o ne' bruti. Empedocle agli uomini, e a ' bruti aggiunse la
trasmigrazione ancor nelle pian te (93 ): Ma non si creda mica, che tale ag
giunta d'Empedocle alla dottrina della me tempsicosi di Pittagora, e degli
Egiziani, fosse stata in lui l'opera del capriccio, o del caso. Sarebbe cid
indegno di un nuo vo, ' e original pensatore. Chi si risovviene del fisico
sistema del primo, conosce che si dovea far certamente quest' alterazione
notabile alla metempsicosi del secondo, Gia si sa aver avuto Empedocle le
piante, al par degli animali, dotate di sentimento, o d'anima materiale. Ma non
così aveano pensato nè Pittagora, nè gli Egiziani. Pero quegli fece passar le
anime e dagli uomi 1 123 ni, e da bruti alle piante, e questi cre dean, che le
anime migrassero dagli uo mini nel corpo solamente de' bruti. Le a mirne in
somma in forza del sistema d ' Em. pedocle, dovean circolare informando tutti
que' corpi, che in qualunque maniera fos. sero stati organizzati. Ecco le due
novità recate dal nostro filosofo alla morale di Pittagora, ma novi tà ben
legate tra loro qual cagione ad ef fetto. Alla colpa delle anime aggiunse Em.
pedocle la metempsicosi, come al delitto va compagna la pena. Ma quel ch'è più,
a questa e a quella unite insieme andò egli pure legando la demonologia:
articolo fon damentale della teologia de' pagani. i Vedea egli quasi ingeniti
all' uomo i semi si della virtù, che del vizio. Allor si pensava lo spirito '
tendere naturalmente à cose spirituali ed eterne, e la materia al le materiali
e caduche. Credette ei quin di i semi della virtù nascer nell' uomo dall' anima,
e gli altri del vizio nascere in lui della materia. Ma l'anima, a suo pre q 2
12-1 dere, chiusa nel corpo, restava contamina. ta dalla materia, e. però era
sospinta assai più verso il male, che il bene. Oimè, di cea egli, come è misero,
come. è infelice il genere umano. A quali guai, a qua li pianti non è ei
sottoposto Queste due tendenze dell'uonio al be: ne, e, al mal fare raffigurò
Empedocle, giu. sta il costume di quell'età, sotto le imma gini di due opposti
genj. Due, egli disse, sono i genj, che quali direttori delle azio ni degli
uomini, accompagnano ciascun uo « mo in tutto il corso della vita d ' ognuno di
loro. Buono è l'uno, l'altro è malva gio. Il primo guida, o conforta lui alla
virtù; il secondo spinge e conduce il me desimo al vizio (94). Ma ambidue
questi genj non indicavano, che questa stessa dop pia tendenza. Pure tutto il
volgo allora venne nel credere, che ciascun uomo dal nascere al morire fosse'
stato realmente as. sistito da un genio buono, e da un altro malvagio. Tanto
egli è vero, che le im magini, sotto cui adombravano gli antichi 125 >
filosofi le loro specolazioni, fossero state ca gioni di superstizione, e di
errori. L'uomo non solo ha tendenze al be ne e al male, ma è capace altresì d'
ope. rar l' uno, o l'altro. Quante virtù, e quanti vizi di fatto ei mette in
pratica ! Ma questi stessi ebbe la bizzaria Empedoc cle di designare sotto la
figura di genj. Singolari, non cho speciosi furono i nomi, con cui egli
distinse i demoni, che rap presentavano i vizi, ' e le sfrenate passioni degli
uomini, De nomi di Chtonia, d' He liope, d ' Asafia, di Nemerte, o di parec shi
altri ne sjamo debitori a Plutarco (95). Singolari eziandio, non che speciosi,
esser dovettero i nomi, con cui distinse lo stesso l'opposta classe di genj,
che rappresenta vano le virtù, e le passioni imbrigliate de gli uomini, Mą il
tempo, che rode ogni cosa, non ha fatto quelli pervenir sino a noi. Pure è
sfuggita da sifatta ingiuria la nominazione, con cui Empedocle appel 10. le
virtù, felice prodotto, delle regolate passioni. I pittagorici furono usi
chiamare 126 il mondo spelonca, ed Empedocle, qual pittagorico, chiamò le virtù,
e passioni virtuose ' potestà conducitrici delle anime: quasi giunte nel mondo,
come in un an tro (96 ). Il popolo, che in ogni cosa vede portenti, e finge de'
genj, accolse quasi revelazione venuta dal cielo, la de monologia del nostro
filosofo. Gli antichi scrittori, pari al volgo, non compresero nè pure il vero
intentimento di lui. Que sti però dipinsero Empedocle, come chi avesse popilato
l'intero universo di demo nj, e attribuito a virtù de' genj ogni ope razion di
natura. Ma questa stessa dottrina de' genj fu il fondamento della magia, e
teurgia fa mosa d'Empeclocle. Questa, in que' tempi cra un metodo di purificar
le anime col favore degli Dei benefici, che dovean con dir quelle all'unione
con Dio. Gli Dei bendici non eran che virtù astratte deifi. cate da lui: è
nella pratica delle sante o pere era riposto tutto il culto di quelli. Credea
egli, non poter le anime ritornare 1 27 agli onori divini, da cui erat cadute,
che coll' ajuto di quegli Dei, perchè credeva altreşi non potersi quelle
inalzare a Dio, che coll' esercizio delle sante virtù. La teur gia in somma
d'Empedocle fu un retto, e diritto nietodo di purificar le anime colle opere
buone. Sembra cosa veramente incredibile che uomini abbandonati al debile filo
della pro pia imbecille ragione, e privi di qualunque superior lume di
rivelazione divina, avessero potuto architettare un piano di quasi per fetta
morale. Non fu gia la metempsicosi quella, che giusta i pittagorici avesse po
tuto purificar le anime. Questa non era purificazione e virtù, ma pena dovuta
al. delitto. Questa non si poteva in alcuna an corchè menomisssima parte, o
abbreviare, o alterare. Esser questa un decreto divis no, essere un santo
giuramento si spaccia va a tutti da Empedocle. Ciascun anima avvegnachè
virtuosa, e purissima (così és. si pensavano ) non potea unirsi a Dio, se non
compiti i periodi, e il tempo tutto di esilin. 128 Le purificazioni altro
cardine della mo rale d’Empedocle eran propiamente, secon do tutti i
Pittagorici, le sule, che a poco a poco lavavan le anime, e toglievan loro in
quel tempo, che informavano i corpi umani, ogni macchia, di cui le medesime
potevano essere dalla materia bruttate. Pur gate poi le sozzure, e finiti i
periodi tut ti del bando, allora era, che le anime già nette, secondo che allar
si credeva, fos sero agli antichi onori tornate, e alla vita divina... I sagri
riti poi, lo studio delle scien ze, la pratica della virtù erano i tre mo di di
purificazione inventati all' uopo da que' sommi filosofi. Sembra à prima vista
o superfluo o inutile essere stato il primo di questi mo di, e tutti gli
augusti riti, e quelle ceri-, monie solenni, che si metteano in opera al lor da
Teurgici. Ma si poteva scuotere, e infiammare altrimenti l'immaginazione de gli
uomini, affinchè questa si fosse resa docile agl' insegnamenti della virtù?
L'110 { 129 - mo materiale si solleva dal mondo materia le merce cose eziandio
materiali. Le ceri. monie, ei riti sono i soli, che colle san. te immagini
níuovono i sensi, e astraendo li dalle cose impure alle pure gli inalza no. I
riti sono il verace linguaggio de sen si, che efficacemente parlando destano la
fantasia. A questa è sol conceduto ' creare tra il mondo materiale l'altro
spirituale: Disadatto pure si crederà forse essere stato lo studio delle
scienze a purificar le anime. Ma non è egli questo, che aliena lo spirito: dai
vizi, che l'introduce alle co se intelligibili; e che sveglia in lui le idee
immateriali e celesti? Non è egli vero al tresì l'anima, esercitata nelle cose
dell' in telletto, districarsi da' fantasmi del corpo, e. dalle false opinioni
del volgo? Era certa mente un ridicolo sogno quello de pittago rici, che collo
studio delle severe discipli ne fosse tornata alle nostr' anime la mé. moria
delle cose divine. Ma certamente all' opposto è un dogma incontrastabile,. che
tanto più la nostra mente si allontana dal r 130 > la materia e dagli
appetiti carnali, quan to più la medesima s' aggira sulla contem. plazione o
de' principj delle cose, o delle matematiche, o elogn'altra scienza. Ma in
verità e uso di riti, e studio di scienze, e ogni qualunque altra cosa, che
avessero potuto specolare gli antichi, sa rebbe lor tornata inutile, ne sarebbe
mai giunta a purificar nè meno da lungi le a nime, se a tutto ciò non avessero
costoro accoppiato del pari la pratica della virtù. Questo in fine dovea essere
il bersaglio, cui dovean dirizzarsi que' grandi filosofi: o questo l'ultimo e
principal metodo di pu rificazione. Non si può infatti ne pure ideare quanto
studio avessero posto costoro ad astenersi da ogni ancorchè minimo fal lo.
Tutti quanti (tranne il loro raffinato orgoglio, e la loro squisita 'boria e
super bia ) furono del tutto.virtuosi. Di e nota te si recavan essi sopra se
stessi, scrupo losamente ogni lor fatto esaminando, e c gni movimento del
propio loro cuore. In estimabile era la diligenza, ch' essi adope 131 rzano a
nettar d'ogni ruggine l'animo lo ro, e a far bene ogni cosa. Tutta la vita į
medesimi spendevano in contemplare oggetti spirituali, e. in praticar virtù, e
que pre cetti, che si leggono scritti ne' versi dorati. Si crederebbe quì
finito il lavoro della loro morale, Pure come eglino avevano que sta diviso in
due parti, così alla purifica zione aggiunsero altresì la perfezione (97 ). Non
bastò a Pittagora l' essersi lusingato, che l'anima, mercè la prima si fosse e
mondata da vizi, e separata dalla materia, e liberata quasi dal vincolo, che la
ren deva prigione. Volle di più immaginarsi, che l' anima, mercè la seconda già
prima purificata, si fosse poi inalzata a Dio, o ripigliati gli antichi abiti,
e forma, si fos se confusa colla divinità medesima. Le ar nine in somma, che
secondo Pittagora ed Empedocle, erano di loro natura divi ne, ma contaminate
dalla colpa e mate ria ', dovean prima purificarsi, e poi sì per fezionarsi,
che fossero state degne di tor nare a Dio, e agli onori primieri. Però l' 132
immacolato, e innocente viver d'Empedo cle obbligo lui a spacciarsi qual Dio, e
a promettere ai puri, e perfetti la Divinità come premio. Sin quì Empedocle, e
Pittagora furon d'accordo, e quegli fece uno con questo. L' essere stata comune
l ' opinione tra loro nel principio, da cui la purificazione, e perfezione
avesse avuto sua origine, non fece punto discrepar l'uno dall'altro, Cre deano
ambidue le anime tutte degli uomi ni, e tutti gli spiriti altresì formare uni
ca, e sola famiglia con Dio. Là poi, ove i sistemi loro non furon punto
d'accordo si fatti filosofi furon del tutto discordi. Em. pedocle, altrimenti
che Pittagora, riguardo uomini, bruti, piante come unica famiglia. Non è più
quindi da far sorpresa, se si ve de ora entrare in iscena una terza novità
d'Empedocle, come riforma alla moral di Pittagora. Se si vuol prestar fede ad
Aristotile ad Aristosseno, e Teofrasto, Pittagora e i Pittagorici della prima
età uccidevano, ec. 133 cettine i bovi destinati ai lavori, ogni sor ta
d'animali, e tranne i loro cuori e ma trici ne mangiavan le carni: s '
astenevan solamente da' pesci. Empedocle all'incontro fu il primo che proibì
affatto qualunque uso di carne; e riputò sacrilegio l'uccidere quale che si
fosse animale. Non veggo, dicea egli, perchè alcuni animali debbano serbarsi in
vita, e altri all'incontro si pog sano uccidere. Una è la legge per tutti, é
questa è pubblica per tutta la terra. Vedeva costui in tutti gli esseri organiz
zati, facendone un sol corpo morale, quasi unica é sola farniglia, Perd non
sapeva egli scorgere differenza notabile tra uomini, e bruti. Smanioso egli
quindi si scaglia con tro chi avesse sagrificato in que' tempi vit. time agli
Dei, che' attesa la metempsicosi, potevano per lo più esser uomini sottom bra
di bruti. Cessate, gridava Empedocle, o crudeli, di fare strage, e lordarvi di
san gue: Pazzo il padre, che sotto altra sem. bianza scanna il propio figliuolo,
e vane preghiere disperge all'aria e al vento. Stol i 134 ti non veggono, che
divorando le fumanti sanguinose carni di animali le menbra pa. rimente divorano
de' lor padri, figliuoli, o congiunti. Si riderebbe oggi la presente età del:
la severità d'Empedocle, e si reputerà cer tamente stravagante la sua pietà
verso i bruti. Ma ad altro, e più nobil fine ten devan le idee del nostro
filosofo. L'uomo è in mezzo a' suoi simili, e l' amore è il principale anello,
che dee le garlo cogli altri. L'amor verso i simili è il principale dovere di
un uomo di società: e la pieta n'è la base. Ma questa non si potrà avere
giammai, se non campeggia e dilatasi sopra tutti gli oggetti, che circon dano
lui. Se l'uomo deve avere pietà ver 80 gli uomini, uop' è non che estenderla,
mia cominciarla da' bruti. Qualor ' si eser-: citasse ferocia contro i
medesimi, agevol mente il reo costume l'andrebbe portando ancor contro gli
uomini. Anche tra noi, se non può recarsi a effetto sì fatta proibizio. ne di
scannar gli animali, sempre egli 1 135 vero, che debbasi tener come parte di e
ducazione gentile, quella d'insinuare ne gli animi ancor teneri de' giovani la
pietà verso i bruti. Non son dunque da ripren, dersi, così tentoni, gli antichi
filosofi per quegli insegnamenti, che oggi, mutate le usa nze, ci sembrano
stolti. La proibizio. ne ch' Empedocle diede a' suoi scolari d ' uccidere gli
animali, e cibarsene, ebbe in mira non sol di non essere crudeli, e feroci
cogli altri; ma di dispor loro ad amarsi l ' un l'altro a vicenda, e nelle
disgrazie scam. bievolmente aiutarsi. Egli non senza sotti le avvedimento si
sforzò così in persona de? suoi compatriotti svegliare allora in tutta la
generazione degli uomini quell'attitudine, che porta loro a prender parte nell'
altrui traversie: attitudine, che di sua natura è debole, languida, spesso
sopita, e quasi sempre soffogata, ed estinta. Però Empc docle a ingentilir gli
animi umani, e rasla dolcire i costumi degli uomini, volle che questi non si
avessero bruttato le mani del sangue, né avessero mangiato le carni de' 136
bruti. Chi è beniguo co ' bruti non può certo negare agli uoinini amore, pietà,
cor tesia, frattellanza. Pittagora nulla conse guente a' suoi stabiliti
principj della metem psicosi, trascurando quasi tutti gli anima li, ſecesi
soltanto scrupolo, e proibi, che si fosse recata alcuna ingiuria alle piante,
che non fossero state nocevoli. Ma Empe docle fece molto più, e' meglio assai
di Pittagora. Egli dotate prima quelle di sen timento, proibi poi che si fosse
fatto loro del male: ailinchè non si fossero avvezza ti gli uomini ad offendere
esseri forniti di sensi e di organi. Fu in somma intendi mento di lui in tutte
le maniere, quasi tirando tutte le linee a un centro, stabili re tra gli uomini
fratellanza e amicizia Però fu, sollecito ei d ' ordinare, che oltre agli
animali, si avesse avuto compassione sin anche alle stesse piante.. Sarebbe
stata finalmente non che man. chevole, ma mulla la morale d'Empedocle, s' egli
non avesse presentato o un premio, una pena agli osservanti, o violatori de'
737 ciò, precetti da lui stabiliti. La speranza del premio, e il timor della
pena, interni po. tentissimi stimoli dell'animo umano, inco raggiano i buoni a
operar la. virtù, spa ventano i mali a praticare il vizio. E' ben ragionevole
quindi, ch ' Empe docle avesse pigliato una via come stabili re e premio', e
pena, sì alla virtù, che al vizio: e il fece appunto combinando al par de
pittagorici, colla dottrina della metempsicosi. Il tempo di tre mila anni di
ciascuno de' dieci periodi di essa non era destinato da Empedocle a far cir
colare sempre le anime da un corpo in un altro. Le anime in ogni giro di tre
mila anni informavano secondo lui e vegetabili, e bruti. Di poi andavano esse
in ultimo E luogo ad avvivare il corpo di un uomo. questo finalmente morto,
passavan quelle ad abitare un luogo o di gaudio o di lutto secondochè le
medesime avessero o bene, o male operato. Quivi doveano esse restare, finchè
finito avessero il primo periodo di tre mila anni. Dovean le medesime torna. S
138 To appresso a cominciare il secondo di al tri tre mila anni, passando
tratto tratto ne corpi: d' altri bruti, di altre piante, o finalmente di altri
uomini. Così successiva mente doveano esse fare in tutto il corso degli interi
dieci periodi: e cosi le medesi mo doveano essere o premiato, o punite in
ciascuno di essi. Ma al finire di tutti i dieci circoli quelle anime, ch'eran
tenaci ne' vizi, giusta Empedocle, bandite dal cie. lo, eran dannate in mezzo
alle tenebre, e in un continuo lutto, o un eterno suppli zio. Le altre poi, che
virtuose al compir di quo' circoli si fossero trovate belle e det. te secondo
lui, si portavano all'etere puro, e collocate in mezzo alla luce, sedcano in vi
a mensa coi forti Danai, in eterno go dimiento, nell' unione con Dio. Tutto ciò
si raccoglie da ' versi d ' Empedocle. Così pur si pensava da' pittagorici di
Sicilia; nè al trimenti si canto da Pindaro nelle sue odi dirette a Gerone, e
Terone (98 ). Ecco tutto, il quadro compito della intera mora le d'Empedocle.
139 Egli è senz' alcun dubbio, essere stata questa assai raffinata, e, molto
diversa da quella del volgo. E ' cosa da recar mara. viglia l'osservare, com '
essa in tempi assai caliginosi, fosse stata tanto bene architetta ta, cosi
brillante, e del tutto diretta a ri. pulire il costume, a liberar l'uonio, quan
to più s' avesse potuto dai vizi, e a nobi litar l'anima e la mente di lui. Cid
nulla ostante ella ha eziandio i suoi gran difetti. L'essere stata la stessa
riservata ai soli sapienti, e ai soli iniziati ne fu il principale. Quel
sistema d'Etica, che non è fatto per tutti gli uomini, non può esser giusto,
santo, verace. Tutti quan. ti gli uomini sono astretti agli stessi doveri, e a
una sola virtù, Si può considerare, & gli è certo, la scuola pittagorica,
qual.ce nobio, é i pittagorici quali religiosi dell' antica Grecia. Ma
l'orgoglio guastava le loro azioni, rendea yane le loro fatiche, avvelenava
ogni loro virtù. Pure è sem pre da reputarsi degno di lode il nostro filosofo,
che osservantissimo de' precetti pit § 2 110 tagorici non ebbe difficoltà di
manifestarli, e divolgarli nel suo poema delle parilica zioni per solo e
semplice amore di onestà, e di virtù, Empedocle, tranne la super bia, radice
infetta dell' operare d'ogni an tico filosofo, è da celebrarsi, come quel lo,
che ornato di cortesia, amante degli uomini, e virtuoso, avesse aspirato sempre
a perfezionar molto se stesso. Ma gli onori, che si rendono a' tra passati; le
lodi, di cui s' onora la memo ria de gran genj, non possono nè recar loro
diletto, che più non sono, nè tocca re il lor cenere, che affatto è privo di
senso. Tutti i loro elogi, come quelli, che eccitano l'orgoglio e la vanità de'
viventi, noi guardano e a noi son diretti. Siam noi, che dagli omaggi, che si
tributano a quelli, prendiamo speranza di poter forse nieritare la stessa
gloria, e acquistar la fa na stessa presso le generazioni avvenire. Del nome
d'Empedocle fu una volta ne è oggi, e ne sarà sempre piena la ter,. La
filosofia di lui fu tenuta assai in 141 pregio presso tutta l'antichità tra
Greci e Latini (99). Quella occupa tal sublime posto di onore nella storia
delle scienze, ch' Empedocle si può dir, che appartenga a tutte le più colte
nazioni. La Sicilia fra tanto è la sola che a giusta ragione lui vanta: qual
suo. Felice quel suolo, beato quel clima, cho dà il natale a' grandi uomini !
La memoria e la fama loro è un fecondissimo germe, che in ogni età ne desta l'
emulazione, e ne riproduce il sapere. Tal dovrebbe essere a noi il dolce nome
d'Empedocle, caro alla yirtù, caro alle lettere. Anatomia, fisiologia, chimica
de cor pi organizzati possono lui chiamare padre inventore. L' essersi ridotta
la materia a quattro elementi; l' essersi trovate due for ze in natura di
repulsione, di affinità; 1" essersi intrapreso il metodo di fisiche espe.
rienze, la terra n'è a lui debitrice. La scoperta della chiocciola; della
successiva propagazion della luce; del peso e della molla dell' aria; del
nutrirsi, del traspira* e 142 re, dell'essere ovipare le pianto al par de gli
animali son cose tutte propie di lui. Divolgati appena sì fatti suoi
ritrovamenti, tosto si rese celebre il suo nome in tutta la Grecia, ed egli uno
de' concorrenti di venne tra Anassagora e Democrito, La gloria d'Empedocle, che
in gran parte è ancor nostra, ci dee infiammare a battere lo stesso sentiero.
La Sicilia è la stessa oggi, ch'era allora ai tempi d'Em pedocle. Ella in
ogn'angolo, e in tutta quanta la sua superficie presenta a' nostri occhi
oggetti sempre degni di nostre filoso fiche ricerche. Piante d'ogni sorte,
acque d'ogni specie ', minerali d'ogni genere, e i più distinti volcani
esistono nel nostro suolo. Il Fisico, il Chinico, il Botanico lo storico
naturale trova ovunque ampia materia d'appagar le sue brame. E ' no stra somma
vergogna il vedere oggi, che vengan tra noi gli stranieri a insegnare a noi le
cose nostre. Si saran forse cam. biati il cielo, il clima, la terra, che un di
furono ne' tempi de' nostri antichi filo 1 143 sofi? 0 pur saran venuti meno
gli inge gni tra noi? Non sono eglino i Siciliani dotati ancora o d' acume
nello specolare, e di prontezza nel riflettere, e di pre stezza nell' eseguire,
che loro hanno in o gni tempo distinto? La Sicilia una volta e. mula della
Grecia in ogni genere di colo tura non potrà anche a di ‘ nostri con correre e
gareggiar nelle scienze colle più polite nazioni? Si pigli dunque orgoglio
dell' aggiustata idea di nostra antica grandezza. Questo, scossa l'inerzia, ci
sarà di stimo. lo ad una nuova carriera da imprendere. La fatica è l'unica via,
che conduce al sa pere, e questa ci porta, certamente alla fama. Si desti
quindi in ciascuno di noi la virtuosa imitazione d’Empedocle, e si co minci la
grand'opera con ardore e franchez za. Un felice evento coronerà allora ogni
nostro travaglio: la posterità ricorderà noi collo stesso onore, con cui pieni
d'ammi razione noi ricordiamo Empedocle. Empedocle non che fu eccellente filo
sofo: ma fu del pari profondo politico. Si 144 ciliani, non andate quà là ad
apprender ta pini da questo e da quello ordini civili, e fogge di governo.
Guardate i maestosi avanzi delle nostre antiche città;specchia. tevi su li
nostri passati famosi legislatori; richiamate alla memoria i fatti chiarissimi,
non che della nostra Greca Sicilia, ma del la vita d'Empedocle. Così tratto
tratto di verrete atti a maneggiar le cose pubbliche, e ben presto vi sarà tra
voi politica non cabala, libertà non licenza '. Empedocle, convinti un dì i
nobili di Gergenti di peculato, atterrò ivi la lor si gnoria: Non è disdicevole
quindi l'imma ginarcelo, ch'egli colla stessa voce gli ota timati così riprenda
di nostra età. Finito è il tempo, in cui usurpata un ingiusta franchigia de'
pubblici dazj, generosi offri vate al Re il denaro del popolo, a fine e di
ottener da quello nuove insopportabi li prerogative, e di stringer questo vie
più nuove insoffribili catene. Finito è il tempo in cui macchinando l'esenzion
delle taglie, scaricavate gran parte del pubblico con 145 peso sulle città
immediatamente al Re sotto poste a fine di disertar qrieste, e di rau nare
schiavi in gran copia nelle terre a voi immediatamente soggette. Finito è il
tem po, in cui voi assumendo la voce e qualità di nazione, che non avevate,
minacciosi vi rivolgevate contro del trono per non paga re, e taglieggiare il
popolo ogni tre anni. Già il Principe si è congiunto col popolo. ' Gia la voce
del Re, ch'è quella dell'ins tera nazione, è divenuta oggi più imperio, sa
insieme e sicura. Essa ha già rivelato il grande arcano del vostro tirannico
impe ro essere stato riposto nell'aver voi voluto fin'ora poco o nulla soffrire
de’ dazj, e far li tutti a carico andare della povera gen te. Chi di voi potrà
or tolerare con ani mo tranquillo tra vecchi debitori dello sta to non altri
nonni leggersi che i vostri, e de' vostri antenati? Chi sarà tanto scelleras to,
che rivelando il falso, voglia occulta re l'immensa estensione de' suoi ricchi
fon di; affinchè a danno del meschino e del povero, pagasse egli quanto meno si
possa 2 t 140 Chi sarà cosi ribaldo, che voglia sgravar d ' imposta la terra,
unica e sola sorgente di ricchezza in Sicilia, per istrappare con mano rapace
qualche misero tozzo dalla bocca faa melica dello stanco e affannato
agricoltore? Şe cið han fatto i vostri maggiori, sono essi stati i più tristi
nemici, anzi i più crudeli tiranni dell' infelice Sicilia. Si appartiene ora a
voi lavar le macchie di quelli, e onorar voi stessi, contribuendo alla pubblica
feli cità col pagarsi prontamente da voi a pro porzione della vostra opulenza,
Ma Empedocle dovrebbero avere ezian dio qual modello non che i nobili, chi
presi del fantasma di democrazia vo lessero condurre a sfrenatezza la plebe.
Quante altre cose possiamo noi idearci a ver potuto lui dire, a costoro ! Egli
poten do in Gergenti stabilire un governo collo cato tutto nella potestà del
popolo, af fatto nol volle. A' popolari uni costui gli ottimati in quella città;
e teniperò così gli uni cogli altri. L'equilibrio de' poteri, con cui
s'amministrano le cose pubbliche, è la ma 147 solida base, su cui dee riposare,
volendo si e florido e durevole, il presente gover no. L'equilibrio morale, non
altrimenti che il fisico, viene da contrarietà ed egua glianza di forze. Il
popolo ' non deve mai essere. -oppresso, ma all'incontro non dee ne pure essere
costui un oppressore. Se la sua forza sbilancia, lo stato andrà tutto a
soqquadro, e ruinerà senza meno. La ven detta piglierà allora il nome di forza,
di senno il delirio, di libertà la licenza. I poteri legislativo, giudiziario,
esecutivo si debbono a vicenda venerazione e rispetto; tutti debbono riunirsi,
e cospirare a un sol centro: e se per caso ne sia uno avvalla dee tosto
corrersi con mano presta a rialzarlo. Quanto è difficile mantenere og gi in
Sicilia un sl fatto equilibrio ! Appe na vi basterebbe un Empedocle. Egli ad
assodar vie più la novella for ma di governo stabilita da lui nella sua patria,
ebbe in fin l' accorgimento di pian. tarla sulla pubblica coltura, e sul pub
blico civile costume. Qual sublime lezio to, t 2 148 è un sogno, zione ella è
questa da adottarsi da' nostri legislatori d'oggidi, se vogliono eternare, più
che si può, il presente governo stabi lito di fresco. Un impero assoluto si può
fondare tra selvaggi e tra barbari, e vien prosperando in mezzo a gente
corrotta. Ma è un delirio il pretender fer mo un governo costituzionale senza
nè col tura nè costume per base. Nello stato, in cui è il nostro suolo, non
potrà certamente portare la novella libera costituzione senza che fosse prima
quello preparato e divelto. Voglia Iddio che i nostri, posti giù l'e goismo, le
false massime, gl ' impeti, glodj imprendessero a imitare Empedocle, e i nostri
antichi felicissimi tempi. Ma se i Siciliani tutti debbon trarre qualche utile
insegnamento dal nostro filo sofo; i Gergentini massime ne dovrebbero emular la
virtù. La patria de' grand ' uomi ni è quella su cui sfolgora, riflette e va a
concentrarsi, la gloria di loro. Si dovreb bero ricordare i Gergentini, ch '
essi prin cipalmente a Empedocle son debitori d'esa 149 ser tanto chiari, e
così famosi nella nostra sicola storia. Si dovrebbero eglino pur ri cordare,
che vicino a que' tempi, che vis sita oggi lo straniero, e sopra lo stesso suo.
lo, che calcano i Gergentini 'medesimi, det tò allora Empedocle a Gorgia
l'eleganti, avvegnachè prime lezioni di Rettorica. Gli stessi quindi a
ripigliare in loro l'antico u sato splendore dovrebbero richiamare tra loro e
le fisiche e le matematiche discipli ne, e ogn'altra amena e polita lettera
tura. Allor si potranno i Gergentini glo riare a ragione d' aver prodotto, e
dato la culla a Empedocle. Così eglino saran vera mente degni concittadini di
lui. Ne altri menti si potranno lusingare gli stessi di far risorger tra loro
il verace spirito d' Empe docle, e di poter quivi dire allo straniero. Dell'
eccelsa sua mente i sacri versi Cantansi d'ogn'intorno, e vi s'impara Si dotte
invenzioni, e si preclare Che credibil non par, ch'egli d'umana Progenie fosse.
1 PRUOVE E ANNOTAZIONI A L LA TERZA MEMORIA. 153 PRUOVE E ANNOTAZIONI A L
I A TERZA MEMORIA. > Il n'est pas ) Freret raffigura l'attrazione e re
pulsione di Newton nell'amore e odio d ' Empedocle. E però dice besoin d'un
long discours pour montrer que le fond du systeme Newtonien, dé pouillé de
l'appareil et du détail de ses cal. culs se réduit a celui d ' Empedocle, Hi
stoire de l'Académie Royale Des Inscripti ons et belles lettres T. 18 Memoires
p. 102. (2 ) Και γαρ ονπερ οιηθαη λεγειν αν τις μα. λιστα ομολογουμένως αυτω.
Εμπεδοκλης και TYTO TAUTO TETOVIE „ Empedocle, di cui al cuno potrebbe portare
opinione aver, detto sopra di ogn'altro cose tra loro e a se stes so concordi;
egli cadde nel medesimo in 60veniente Arist. Metaph. 1. 3 cap. 4 il • 54 πος
και 8το! O (3 ) Arist. de Coelo 1.3 cap. 4 Λευκίπι και Δημοκρίτος Αβδερίτης
φασι είναι τα πρωτα μεγεθη πληθ. μεν απαρα και μεγεθα δε αδιαιρετα τροπον γαρ
τινα παντα τα οντα ποικσιν αριθμους και εξ αριθ. μων • και γαρ ει μη σαφως
δηλεσιν ομως τετο βελονται λεγαν, Leucippo e Democri to dicono le prime
grandezze essere infini te di numero, ma indivisibili. Essi in cer to modo
fanno gli esseri o numeri, o da' numeri. E se ben non lo mostrano chiu ro; pure
questo vogliono dire. » (4) Εμπεδοκλης περι ελαχιστα εφη προ των τεσσαρων
στοιχειων θραυσματα ελαχιστα οιονα στοιχεία προ των στοιχεων ομοιομερη και Empe
docle prima de' quattro elementi supponeva de minimi bricioli, ch'erano non
altrimen ti che gli elementi degli elementi, e par ti simili Stob. Εcl. Phys.
1. 1 p. 33. Ε più chiaramente Plutarco de Pl. Ph. dice οιονα στοιχεια των
στοιχείων »και elementi degli elementi. (5 ) Ει δε στήσεται που διαλυσις ητοι
ατος μον εσται το σωμα εν ω ισταται η διαίρετον μεν ι 155 8 μεν του διαι
εθησομενον εδε ποτε καθαπερ εoικεν Εμπεδοκλης βελεσθαι λέγειν. » Se lo
scioglinzento delle parti si fermerà in qual che luogo, domando: o il corpo in
củi ri starà è indivisibile, o è divisibile; ma in alcun tempo mai non si potrà
dividere, co me pare ch ' Empedocle abbia voluto dire, Arist. de Coelo l. 3.
cap. 6. Sicchè Empe docle ammettea la divisibilità col pensiero non già col
fatto. (6) Era un assioma presso gli antichi εκ τε μη οντος μηδεν γινεσθαι
nulla farse da ciò che non è, Presso i Greci dev significava ciò ch ' esiste e
il under ciò che non è. Epicuro talvolta piglia il des per corpo e il under per
yoto. Ma diverso era il significato dell' del ov. Empedocle ed Anassago ra
chiamavano Oy la materia dotata di qualità sensibili. E Democrito ed Epicuro la
materia fornita di figura. Al contrario i primi due indicavano col un oy la
mate ria priva di qualità, e i secondi la mates. ria senza figura. Di fatto
Aristotile de GV e 156 gener. et corrupt. 1. 1 cap. 3 dice εστι γη το ον, το δε
μη ον υλη της γης και πυρος ωσαύτως. L Latini tradussero il δεν per res o
corpus il jend Ev per nihil o vacuum. E come non aveano parole corrisponden ti
all' oy e' un or; cosi l'indicarono colle stesse parole res et nihil. E ' nato
da ciò un equivoco nell' intendere i Greci. Questi non solo dissero nulla farsi
da nulla; ia tal volta alcuni di loro pensarono niuna cosa, che ha qualità,
poter venire dalla materia priva di qualità. (8) Απαντα γαρ κακείνος (Σμκεδοκλής
) ταυτα ομολογήσας, ότι εκ τε μη ιοντος αμηχα • γον εστι γενεσθαι και
Concedendo Empedocle tutte le cose medesime,.e che sia impossi bile venire un
essere fornito di qualità de ciò, che ne è privo je Arist. de Xenophane Zenone
et Gorgia. (8) Εμπεδοκλης δε τα τετταρα προς τους ειρημενοις γην προσθας
τεταρτον και Empedoclc disse esser quattro gli elementi, aggiungen do la terra
per quarto a’tre già detti Aristot. Metaph. 1. 1 cap. 3. 157 (9 ) Σεληνην δε
φησι συστηναι καθ' εαυτην εκ τα απολειφθεντος αερος υπο τα πυρος • τατον γαρ
παγηναι καθαπερ την χαλαζαν. La lu πα, dice Empedocle, essersi condensata da se
a cagione dall'aria, che fu abbando nata dal fuoco; perciocchè questa 'si
con densò a guisa di grandine Euseb. Praep. Evang. I. 1. cap. 5. Lo stesso
dice Plut. de Pl. Ph. Origen. Phylosoph. etc. (10) I sassi e gli scogli sulla
terra so no stati giusta Empedocle formati dalla forza del fuoco. Plut. de
primo frigid. Ne per altra ragione credea il nostro filosofo, chę i cieli
siensi formati in guisa di çri stallo, che per l'azione del fuoco. Plut. de
Plac. Philos. (11 ) Ως εν υλης « δ λεγομενα στοιχα τετταρα πρωτος (Εμπεδοκλης ),
απεν. και μεν χρηται γε τετταρσιν αλλ ως δυσιν ουσι μονοις. πυρι μεν καθ' αυτο
τοις δε αντικειμένοις ως Em. μια φυσα γη τε και αερι και υδατι, pedocle fu il
prinio che affermò quattro ese ser gli elementi nella materia. Nondime no di
questi non fu egli uso come se fos 158 } νω sero ' quattro, ma due soli. Mette
il fuoco per se ', e' come al fuoco opposte l'acqua, ' la terra, l'aria, quasi
avessero. queste uni ca natura.,, Aristot. Metaph. 1. 1 cap. 4. (12 ) Origen.
Phylosoph. cap. 3. Clem. Alex. Strom. (13 ) Αναξαγορας μηχανη χρηται τω προς
την κοσμοπίλαν » Anassagora usa della mente nella sua cosmogonia non altrimen
ti che d'una macchina Arist. Metaph. 1. 1 Cap. 4. (14 ) Πολλαχου γουν αυτω (Εκπεδοκλα
) η μεν φιλια διακρινει το δε νεικος συγκρινα • μεν γαρ ε ! ς τα στοιχεία
διαστήται το παν υπο τ8 14κας τότε το πυρ «ς συγκρίνεται και των αλλων στοιχων
εκαστον, οταν δε παντα υπο της φιλιας συνιωσιν ας το εν αναγκαίον εξ εκαστε τα
μορια διακρίνεσθαι παλιν. Εμπεδοκλης μεν 89 παρα τ8ς προτερον πρωτος ταυτην την
ατίας διελων εισενεγκεν ου μιαν ποιήσας την της κινη σεως αρχη, αλλ' έτερας τε
και εναντιας. Non di rado presso d'Empedocle l'amicizia sepa ra; e l'inimicizia
unisce. Imperocchè quan. do per l'inimicizia l'universo si scioglie ne • OTULY
159 gli elementi; allora il fuoco si unisce, e al par del fuoco, ciascuno degli
altri elemen ii. Quando poi per via dell ' amicizia tutti gli elementi si
uniscono; allora è di ne cessità che le parti di ciascun elemento si separino.
Però Empedocle fu il primo, che superiore agli altri più antichi di lui, divi
dendo questa causa, intro lusse non un solo, ma piii e contrarj principj di
movimento: l'anticizia cioè e l' inimicizia Arist. Me taph, I. i cap. 4. L '
vero che qui Aristo tile cerca di cogliere in assurdo il nostro
Empedocle"; perchè cerca di mostrare che l' amicizia talvolta separa, e
l'inimicizia ta lora unisce. Ma ciò non di meno confes sa che giusta Empedocle
l'amicizia e l'ini. micizia eran due principj di moto. E in ciò loda il n'ostro
filosofo, e l ' inalza so pra tutti que' ch'erano stati prima di lui. (15 )
Molti sono i versi d' Empedocle che lo pruovano, che noi rapporteremo ne' fram
menti di lui. Ma Aristotile lo dice chia. rissimo. Es un evný to vemos ev Tols
peyuceo σιν, εν αν ην απαντα ως φησιν (Εμπεδοκλης ) 160,, Se non fosse l '
inimicizia inerente alle cose, tutte queste non farebbero che uno come dice lo
stesso Empedocle,, Aristot. Metaph. 1. 3. cap. 4. Simplicio inoltre de Coelo l.
1 Com. 29,, rapporta che giusta Empedocle è propietà dell'amicizia ridurre
tutto in una sfera lovely o zipov (16 ) (Εμπεδοκλης ) το μεν πυρ κκκος καιλο.
μενον προσαγορευων και Empedocle chiamo il fuoco lité perniciosa Plut. de primo
fri gido. E lo stesso Plutarco ne soggiunge la ragione: Giacchè il fuoco ha la
facoltà di dividere e separare. (17 ) Clem. Alexand. ad gentes cap. 5. (18 )
Aristot. Metaphys. 1. 1 cap. 4. (19) Plut. de Isid. et Osirid. Wolf. de Manich.
ante Man. S. 30 Bayle Dict. Art. Xenoph. (20 ) Aristotile" riferendo l. 3
taph. l'opinione d'Empedocle sul circolo pe renne delle cose in virtù delle due
forze amicizia e inimicizia si lagna del nostro filosofo, che introduce la
necessità senza recare alcima cagione della necessità ws ay. 1 cap. 4 Me. 161
αγκαιον μεν ον μεταβαλλεινκαι αιτίαν δ ' εξ ενο αγκής εδεμιαν δηλοι. (21 )
Brukero T. 1 p. 2 1. 2 cap. 10 Sect. 2. de discipulis Pythagorae. Moshem. nelle
note a Cudwort. (22) Αρχη η φυσις μαλλον της υλης. εγί άχου δηπου αυτη και
Εμπεδοκλης περίπιπτα αγομενος υπ' αυτης της αληθεας, και την εσι. αν, και την
φυσιν αναγκαζεται φαναι τον λογον ειναι: οιον οστουν αποδιδους τι εστιν. ετε
γάρ εν τι των στοιχεων λεγει αυτο ατε δυο ή τρια ατε παντα αλλα λογος της
μιξεως αυτων etc. Il principio delle cose è più presto la nä tura che la
materia delle cose.. Empedocle tirato dalla forza stessa della verità spesso è
costretto di confessare che la sostanza e la natura altro non sia che la
ragione o proporzione: ' come fa allorchè ei dice coså šia.l osso. Poichè dice
che l'osso non cen ga da questo o du quel elemento', nè da due elementi, nè da
tre, nè da tutti, ma dalla ragione in cui questi nell' osso si stan. no ec. is
Arist. de par. Animae l. 1. cap. E poi lo stesso Aristotile soggiunge che 1 362
2 i filosofi prima d Empedocle non fecerd lo stesso perchè non soleano definire
ciò che fosse la cosa astion de to. pen en San τ8ς προγενέστερες επί τον τροπον
τέτον, το τι ην αναι, και το ορισασθαι την ασιαν εκ OTI My •:- (23) Plut. de
Plac. 1. ì cap. 6 Gal. Hist. Ph. (24) Plut. de Plac. Ph. 1. 5 cap. 19 Gal. ibid.
(25) Plut. de Plac. Ph. 1. 5 cap. 19 Arist. de Resp. cap. 14 etc. Credea Em
pedocle che gli animali, subito che nacque ro dalla terra, si divisero e
portarono in luoghi convenienti al loro temperamento. Que' che abbondavan di
fuoco o nell' ac qua o nell'aria. Gli altri ch'erano più gravi, abitarono la
terra ec. (26) Darwin Zoonomia. Vol. 3 Sez, 39 cap. 4 ediz. di Milano, (27) La
massa tutta del seme, che noz mostrava alcuna forma, o figura chiama va
Empedocle. 8ioques che potrebbe significa. re tutta la natura organica secondo
Simpl. 163 1 de Phy. aud. 1, 2. Com. 68 pag. 134 ediz. di Aldo: (28 ) Aristotile
l. 2 de Coelo cap. 8 par lando dell opinione di Xenofane che credea la terra
infinita estendere sino alſ infinito le sue radici, soggiunge do
xakt.Eptidoxing ετως επεπλήξεν Per lo che Empedoche co si lo sferzò, e
soggiunge i versi d' Empe docle, che noi rapporteremo 'ne' frammenti di lui.
(29) Ταυτι δε τα εμφανη κρημνες και σκο: πελες και πετρας και Εμπεδοκλης μεν
υπο τα πυ ρος οιεται το εν βαθει της γης εσταται και ανε χεσθαι. Empedocle è
d'opinione che que sti sassi, questi scogli, questi dirupi, che sono agli occhi
di tutti, sieno stati inalza ti dal fuoco che sta nelle profondità dela la
terra „ Plut. de primo frigido, Quare quaedam aquae caleant", quae dam
etiam ferveant in tantum, ut non pog sint esse usui nisi aut in aperto evanuere,
aut mixtura frigidae intepuere, plures causae redduntur. Empedocles existimat
ignibus, quos multis locis terrà opertos tegit, aquam ! X 2 164 calescere, si
subjecti sunt solo per quod aquis transcursus est. Facere solemus dracones et
miliaria, et complures formas, in quibus gere tenui fistulas struimus per
declive cir. cumdatas; ut saepe eundem ignem ambiens aqua per tantum fluat
spatii quantum ef. ficiendo calori sat est. Frigida itaque in trat, effluit
calida. Idem sub terra Em. pedocles existimat fieri. Seneca Quest. Nat. i. 3. (3ο)
Την γην εξ ης αγαν περίσφεγγομενης τη ρυμη της περιφοράς αναβλυσαι το υδωρ la
terra, da cui, come fu condensata, per l'impeto della girazione spicciò l' ac
qμα 15 Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 2 cap. 6. (31 ). Οτι δε μενα (γη ) ζητεσι την αιτίαν
και λέγεσιν οι μεν τυτον τον τρόπον, οτι το πλα τος και το μεγεθος αυτης αιτιον,
οι δε ωσ: περ Εμπεδοκλης την τε κραγε φοραν κυκλω περιθεασαν και θαττον
φερομενην την της γης φοραν κωλυειν καθαπερ το εν τοις κυαθοις υ δωρ και και
γαρ τατο κυκλω το κυαθε φερομείς πολλάκις κατω τα χαλκά γινομενον ομως ου
φερεται κατω πεφυκος φερεσθαι δια την αυτην 165 Citidy, 99 Alcuni cercano il
perchè la ter ra stia ferma nel mezzo, e dicono esserne cagione la sua
grandezza e larghezza, Al tri poi, siccome Empedocle, son di pare re, che il
cielo girando più velocemente del. la terra sia la cagione, per cui la terra
non cada nello stesso modo, che avviene allac qua nel calice. Poichè seben
questo si giri e stia col fondo su, e il labro all' in giù; pure l' acqua, che
di sua natura tende al basso, non cache per la ragione medesima della girazione,,
Arist. de Coelo l. 2 cap. 13. (32 ) Plut. de fac. in orbe Lunae, (33 ) Plut. de
Pl. Ph. 1, 2. cap. 13 Laert. in Emp. (34 ) Arist. de anima 1, 2 cap. 2. (35)
Καθαπερ Εμπεδοκλής φησιν, αφικνειο σθαι προτερον το απο τα ηλιο φως ας το μετα
ξυ πριν προς την οψιν, η επί την γην, δοξα δ ' ευλογως συμβαινειν Empedocle
dice che la luce, la quale viene dal Sole prinra giunge nel mezzo, e poi
all'occhio ed aļla terra. Il che pare che accada con buona ragio ne » s. Arist.
de sensų et sensili cap. 6. 166 tor. (36 ) Empedocle in prima avea il Sole per
una gran massa ignita' non già per una rijlessione di un altro sole šíecome
attesta Laerz, in Emp. Era in secondo opinione di Empedocle che il simile si va
sempre ad u nire al suo simile. Però venne a lui na turale il dire che la luce
lanciata dal So. le, dopo d' essersi riflettuta sulla terra, nasse di nuovo ad
unirsi al Sole, e poi di nuovo movendosi da quest' astro, tornasse a
risplendere. Per altro Plutarco stesso aper. tamente dice de Pyth. orac.. che
la luce del Sole secondo Empedocle risplende di nuovo αυθις ανταυγαν • (37 )
Plut. de Pl. Ph. Gal. Hist. Ph. Stobeo Ecl. Phys. e tunti altri, appongono ad
Empedocle l' opinione di due Soli, che si riguardavano, de quali l'uno mandava
rag gi invisibili e l'altra visibili ec. (38) Empédocle, sans recourir á l’in
stanatneité de cette émission ou á sa pro digieuse velocité disoit que cette
objection se roit vraie, si le soleil lui même étoit en mouvement; mais que la
terre tournant au 167 tour de son axe, venoit au devant, du ra yon, et voyoit
l'astre dans sa prolonga tion. On ne répondroit pas mieux aujourd hui a cette
objection, si quelqu'un la pro posoit contre la propagation successive de la
lumière et son emission. Montucla. Hist. des Mathematiques Tom. 1 P. i lib. 3
pag. 142. (39) Απολείπεται τοινυν το τα Εμπεδοκλεος ανακλάσει τιγί τα ηλια προς
την σεληνην γεγες; σθαι τον ενταύθα φωτος οιον απ' αυτης οθεν 80's. Jequor de
deep porn Resta dunque co me vera la sentenza d'Empedocle. Però la luce lunare
non è nè calda nè assai splen. Plut. de fac in orb. Lunae. (40 ) Est - il rien
de plus juste que ce vers, dont voici la traduction litterale de Greg en latin
circulare circa terram yolvitur a lienum lumen dit- il en parlant de lo lu ne?
Achille Tatius en tire une preuve qu' Empedocle a regardé cette planéte comme
un morceau détaché du soleil. Il n'a pas conçu que cet alienum lumen vouloit
dire lumière empruntée, ce qui est très-confor me a la verité. Montucla Hist.
des Math. dida,, 168 Tom. 1 p. 1 1. 3 pag. 111. (41 ) Isag. in Arat. (42 ).
Empedocles plus duplo lunam dia stare censet a terra quam a sole. Galen. Hist.
Ph. Plut. de Pl. Ph. (4.3 ) Και τον μεν ήλιον φησι πυρος αθροισο μα μεγα και
σεληνης μαζω » Empedocle di. ce il Sole essere una gran massa di fuoco più
grande della Luna Laert. in Emp. (44) Plutarco de ' fac. in orbe Lunae, afferma
che la Luna al dir d'Empedocle giraya a simiglianza d'una ruota: Ora in que'
tempi si esprimea la rùvoluzione d'un corpo intorno al propio asse sotto la
figura ra d'una rủota, Cosi di fatto indicarono Seleuco d'Eritrea, Heraclide di
Ponto, Eco fanto di Siracusa, il movimento della tere ra intorno al propio asse.
Per altro i Pit tagorici sapeano che la Luna girando in torno alla terra çi
presenta sempre lo stes so emisfero. Il che come ciascun sa non può aver luogo,
se la Luna girando intor no la terra ſon rotasse intorno al propio asse: Sicché
è da credersi cl’Empedocle non 169 ou esse ignorato questo movimento della Lu
na. Ma come Plutarco non ne fa che un sol cenno, che può essere equivoco; cosi
io non ho creduto di doverlo affermare come sicura opinione d'Empedocle. (45)
Fabricio Bibl. Graeca T. (46) Arist. de plant. 1. cap. (47 ) Arist. nel med.
luogo. (48) Arist. nel med, luogo. (49 ) Τα δε σπερματα παντων εχ τινα τροφην
εν αυτός και συναποτίκτεται τη αρχή καθαπερ εν τοις ωοίς. η και κακως
Εμπεδοκλης αρήκε φασκων ωοτοκαν μακρα δενδρα Ogni semè contiene in sè qualche
cosa d' alimen to uñitaniente al principio che genera, sic come è nell' uovo.
Per lo che Empedocle disse bene che gli eccelsi alberi sono ovipa ri Theofrasto
1. i cap. ' 7 de Caus. Plant. Και τατο καλως λεγει Εμπεδοκλης ποιησάς: Ούτω δ '
ωοτοκεί μικρα δενδρα πρωτον ελαίας •. Το τε γαρ ωον κυημα εστι, και εκ τινος
αυτα γίγνεται το ζωον, το δε λοιπον, τροφη τα σπερ ματος, και εκ μερες γιγνεται
το φύομενον, το δε λοιπον τροφη γιγνεται το βλαστω και τη y 170 pión en xpern »
Questo ben disse Emperor cle affermando, che i piccoli alberi ezian dio sono
ovipari. Poichè da una parte dell' uovo nasce l'animale, e dal resto si fa la
nutrizione di questo. Nello stesso modo ac cade nel seme. Da una parte si formá
la pianticella, ed il resto serve per nutrirla Arist. de Gen. anim. l. i cap.
23. (50) Arist, de Gen. anim. I. 1 cap. 18 & lib. cap. 6. Theofrasto 1. i
cap. z de Caus. Plant. Indi è che Malpighi aper: tamente dice Plantarum ova
esse semina vetus est Empedoclis dogma. Anat. Plant. pag. 92 * 93. In questi
ultimi tempi Young è stato il primo a dire che le piante ven gono, dal seme.
Rozier journ. de Phys. Auril. 1789 p. 241 e Bonnet Deur. v. 5 p. 256 ha
dimostrato l'analogia del seme coll' uovo. (51) ο δε μαλιστα και κυρίως εστι ζη
= τητεoν εν ταυτη τη επίσημη τετο οστιν » όπερ ειπεν Εμπεδοκλής ηγουν α
ευρίσκεται εν τοις φύτοις γενος θηλυ και γένος αρρεν και ει εστιν ειδος
κεκραμενον εκ τετων των δυο γενών και Cio 171 she in questa scienza sia sopra
d'ogn' al tro, e propiamente da ricercare, lo disse Em pedocle: cioè se nelle
piante si ritrovi il sesso maschile e feminile, e se questi due sessi sien in
quelle mischiati ed uniti,, Arist. de Pl. 1. cap. 2. Per lo che è da ripu.
ţarsi particolar opinione d'Empedocle, quel, la del sesso nelle piante, e che
queste fos sero state ermafrodite. Si legga lo stesso Aristotile de Pl. I. i
cap. 1. Haaly 005 - λομεν ζητειν πότερον ευρισκονται ταυτα τα δυο γενή
κεκραμενα εν τοις φυτοις ως απεν Εμπε doxninis:,, Dobbiamo ricercare se i dųe
ses si nelle piante sien mischiati, come vuole Empedocle. » (52) Empedocles
quidem divulsa esse so bolis membra aiebat, ut in faeminae alia alia in maris
semine continerentur, atquo inde oriri animalibus venerei complexus ap..
petentiam, dum partes illae inter se di stractae conjungi atque uniri
concupiscunt. Galen. de semine 1., 2. cap. 3. Si legga parimente Aristot. de
Gener, ànim. l, i cap. 18, 172 (53) Plutarco de plac. Ph. 1. 5 cap. & 10 12
Arist. de Gener. anim. 1. 2 cap. 8. (54) Εμπεδοκλης τη κατα συλληψιν φαντα. σια
της γυναικος μορφουσθαι τα βρεφη και πολ: λακις γαρ εικονων και αδριαντων
ηρασθησαν γυναίκες και ομοία τετοις απετέκον. » Empe docle dice che dalla
fantasia della donna piglia forma îl feto. Poichè spesso le don ne hanno la lor
prole partorito simile a statue o. a immagini, che hanno amato Plut. de Pl. Ph.
I. 5 ' cap. 12, (55 ) Plut. de Pl. Ph. 1. 5. cap. 27. (56 ) Tutta la dottrina d
Empedocle, siccome in appresso diremo, era fondata su i pori, e sugli effluvj,
che si spiccano secondo lui da' corpi, o per quelli s'intro ducono, (57 ) Plut.
de Pl. Ph. I. 5. cap. 26. (58) Frondes amittere quibus aestatis ca. lor humorem
ahsumpserit; semper fronde re quae majorem succi copiain habent, ut laurum,
oleam, palmam 4 Hist. Ph. Gal. Lo stesso dice Plut. de Pl. Ph. l. 5 cap. 26.
173 Plutarco Symp. 1. 2. Si propone la questione, perchè l' ellera conserva le
fo glie, e gli altri alberi le perdono. Ei ri sponde con Empedocle per la
disposizione de* pori. Perche τοις δε φυλλoφoυσιν εκ έστι για μανοτητα των αγω
και στενότητα των κάτω πι:,, ρων, οταν οι μεν επίπεμπωσιν οι δε φυλαττω σιν,
αλλ' ολίγον αθρουν λαβόντες εκχέωσιν ωσ. περ εν αγδηροις τισιν ουχ ομαλοις » »
A quel le piante, le cui foglie cadono į alimen to on basta a cagion della
rarità de? pori superiori, e della strettezza degl inferiori. Poichè per questi
pori s’ introduce poco ali mento, e per quelli molto se ne dissipa. Indi è che
quel poco che hanno ritratto tosto lo perdono. Avyiene ciò che suole ac cadere
negli attignitoi, che sono inegual mente forați. (59) Flore française troisieme
edition par MM. de La Marck et Decandolle T. pag. 67. (60 ) Floré française
ibid. pag. 86. (61 ) Flore francaise ibid. pag. 108 (62) Plut. de Pl. Ph. 1. 5
cap. 26 Gal. Hist. Ph. 3 174 (63) Galeno Hist. Ph. Plut. de Pl. Ph. 1. 5 cap.
26. (64) Ρlut. de Pl. Ph. 1. 5 cap. 22 Gal. Hist. Ph. (65) Plut. ' nel med.
luogo. (66) Gal. Hist. Ph. Plat. de Pl. Ph. (67 ) Ρlut. de ΡΙ.. Ρh. 1. 4 cap.
22. (68 ) Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 4 cap. 16 Gal. Hist. Ph. (69 ) Arist. de
Respirat. cap. z (70 ) Arist. 'de Respirat. cap. 7 Gal. Hist. Ph. (71) Arist,
de, Resp. cap. 7 Plut. de PI. Ph. 1. 4 cap. 22. (72 ) Pluit. de ΡΙ. Ρh. 1. 5
cap. 24. (73 ) Plut. nel med. luogo. Gal. Hist. Ph. (74) Si vegga la niemoria
seconda sulla Vita d ' Eimpedocle T. 1 pag. 132. (75) Ρlut. de Pl. Ph. 1. 4
Cap. 17 • (76) Τα μεν γλαυκα πυρωδη καθαπερ Εμ. πεδοκλής φησι τα δε μελανoμματα
πλεον υδατος εχιν η πυρος. » Che gli occhi az zurri, come dice Empedocle,
abbondano di fuoco, ed i rieri abbiano più d ' acqua che 175 di fuoco, Arist.
de gener. An 1. 5 cap. i. (77 ) Τα μεν ημερας εκ οξυ βλεπεις τα γλαυκα. δι
ενδιαν υδατος. θατερα δε νυκτωρ δι ενδααν πυρός και che gli occhi azzurri non
veggano bene di giorno per difetto d' ac qua, ed i neri di notte per difetto di
fuo: εο, Arist. de Gen. an. 1. 5 cap. 1. (78) Gal. Ηist. Ph. Ρlut. de P. Ph. 1.
4 Cap, 13. (79 ) Ειπερ μη πυρος την οψιν θετεον αλλ' υδατος πασαν,, Perclie la
visione non e d ' attribuirsi al fuoco, ma tutta all'acqua » Arist. de Gen.
anim. 1..5. cap. (80 ) Arist. de sensu et sénsili l. 1.cap. 2. (81 ) Empedocles
animum esse censet cor di suffusum sanguinem. ' Cic. Tusc. quaest. 1. 1 cap. 9
e Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 4 cap. 5. Εν τη τα αιματος συστασε. (82 ) Αλλοι δε ήσαν
οι λεγοντες κατα Εμ " πεδοκλεα πριτηριον αγαι της αληθεας και τας
αισθησεις αλλα τον ορθον λογον και τα δε ορθα λογα τον μεν τίνα θαον υπαρχειν
τον δε αν - θρωπινον. ων τον μεν θαον ανεξοισθον ειναι. τον δε ανθρωπινον
εξοισθαν. Ci sono stao 1 O 176 ti alcuni, che han dettò con Empedocle esé sere
il criterio della verità non già i sensi, ma la retta ragione. Questa poi
essere in parte umana e in parte divina: la prima potersi da noi manifestare, e
l'altra nòi, Sext: Emp. adv. Log. 1. 7 p. 396. (83 ) Hụezio Debolezza dello
spiritous mano.. (84) Furere tibi Empedocles videtur: at mihi dignissimum rebus
iis ', de quibus lo quitur sonum fundere. Num. ergo is ex. caecat nos, aut
orbat sensibus, si parum magnam vim censet in iis esse ad ea, quae sub eos
subjecta sunt, judicanda? Cic. Lu cullus c. 23. (85) Empedocles quidem, ut
interdum mi hi furere videatur, abstrusa esse omnia, ni hil nos sentire, nihil
cernere, nihil omni quale sit, posse reperire. Cic. Lucullus c. 5, (86 )
Αρχαίοι το φρονων και το αισθανεσθαι ταυτον αναι φασιν ωσπερ και Εμπεδοκλης (δη
01.,, Gli antichi, come disse Empedocle, vogliono che sia lo stesso sentire,
che ra 177 € 2. gionare. Arist. de anima, l. 3. cap. 3. (87 ) Arist. de Plant...1.
11. cap. 1 (88 ) Αναξαγορας μεν και Εμπεδοκλης επί θυμια ταυτα κινεισθαι
λεγουσιν αισθανεσθαι τε και λυπεισθαι » Anassagora ed Empedo cle dicono che le piante
sien mosse da de. siderio, da tristezza, e da voluttà, Arist, de P1. 1. 1 Cap 1.
(89 ) Αναξαγοράς δε και ο Δημοκρίτος και ο Εμπεδοκλής και νουν και γνωσιν εχεις
απον τα φυτα Anässagora, Democrito, ed Em pedocle dissero le piante esser
fornite di men te e di cognizione », Arist. de Pl. l. 1 cap. 1. Ρlut. de Plac.
Ph. 1. 5 cap. 26. (90) Arist. de.ΡΙ. 1. 1 cap. 1 Ρlut. de P. Ph. 1. 5 cap. 26.
(91) Πρωτοι δε και τονδε τον λογον Αιγυ πτιοι ασι αποντές, ως ανθρωπα ψυχη αθα
γατος εστι. τα σωματος δε καταφθινοντος ες αλλο ζωον αια γενομενον εσδυεται.
επεαν δε περιελθη παντα τα χερσαια και τα θαλασσια και τα πτηνα, αυτις ες
ανθρωπό σωμα γινομες γον εσβυνειν. την περιαλησιν δε αυτή γίνεσθαι εν
τρισχιλίοισι ετεσι. Sono gli Egizi i pri Z 178 ηι. mi che dicono l'anima essere
immortale; ma che 'morto il corpo va questa sempre informando un altro animale;
dimodochè dopo d' esser passata per tutti gli animali o terrestri, o marini, o
aerei torna di nuo ro ad informare il corpo d'un uomo. Que sto giro compie l
anima in tre mila an Herod. Euterp. 1. 2 cap. 123. (92 ) Τατω λογω ασι οι
Ελληνων εχρησαντο οι μεν προτερον οι δε υστερον, ως ιδιω εωυτων εοντι. των εγω
αδως τα ονοματα και γραφω. Tra Greci alcuni prima alcuni dopo han divulgato' la
metempsicosi degli Egizi come opinione propria. E di quelli non vo. glio
scrivere i nomi; ancorche mi sieno, co Herod. 1. 2 cap. 123. (93 ) Sext. Emp.
adν.. Math. 1. 8. (94) Ου γαρ ωσ. ο Μεγανδρος φησιν απαντι δαιμων ανδρι
συμπαράστατα ' ευθυς γενομεγω μυσταγωγος τα βιε αγαθος, αλλα μαλλον ως
Εμπεδοκλης διτται τιγες εκαστον ημων γενομες γον παραλαμβαγεσι και καταρχoνται
μοίραι κα! d'alluoves.,, Non è da credere come dice Menandro, che a ciascun di
noi, come ea gniti, 170 gli nasce, assista un genio buono condut tor di tutta
la vita, ma piuttosto è da te nersi l'opinione d'Empedocle, il quale di che
ciascuno di noi dal punto della na scita è preso e governato da due genj e da
due. fati Plut. de anim. tranquill. E sog giunge lo stesso Plutarco che co'
nomi de gen; si esprimono σπερματα των παθων i se mi, delle passioni. (95 )
Plut. de animi tranq. (96) Αφ ων οίμαι ορμώμενοι και οι πυθα: γορεοι και μετα
τατος Πλατων αντρον και στην λαιον τον κοσμον απεφηναντο. παρα τε γαρ Εμπεδοκλα
αι ψυχοπομποι δυναμας λεγεσιν Ηλυθομεν τοδ ' υπ' αντρον υποστεγον E da queste
cose, siccome io stino i Pittagorici, e Platone dopo costoro, pre sero
occasione di chiamar questo mondo an tro e spelonca. Poichè presso Empedocle le
potestà conducitrici delle anime dicono: che siano finalmente giunte sotto
quest' aniro coperto; Porph. de Ant. Nymph. p. 9 ed. Van - Goens. (97 ) Clem,
Αlex. Strom. 1. 2. Stob. Εcl. 180 Eth. cap. 3. Jambl. Portrep. cap. g Hierocl.
in Com. Scheffer de Secta Italica. (98) Pindaro nella prima ode olimpica
dirizzata a Gerone; dopo: d' aver descritto il supplizio di Tantalo, che chiama
atau λαμον βιον εμποσομοχθον vita priva do gni ajuto e perpetuamente laboriosa
» 'sog giunge „ questo supplizio forma il quarto dopo d' averne sofferto altri
tre » Mesta Tpl. ων τεταρτον πονον. Non si puo comprendere a prima vista, come
questo quarto suppli zio fosse stato perpetuo. Ma ciò è intera mente dichiarato
nella seconda ode. olim pica diretta a Terone Gergentino. Quivi e gli dice:
que', che dopo d'esser dimorati tre volte nella terra e nell'inferno ocou do
ετολμησαν ες τρις εκατερωθι μειγαντες: seppero contener ľanimo loro nella
pratica della virtil, arriveranno per la via di Giove al la regia di Saturno,
dove laure dell' O. ceano spirano dolcemente attorno le isole fortunate, e
splendono i fiori d'oro. vede quindi dal confronto di queste due o. di, che la
metempsicosi giusta Pindaro con Si 181 sisteva in tre articoli: iº che l'anima
del lo stesso uomo informava tre volte corpi u mani, che ' v'era un intervallo
tra la morte e'l rinascimento in cui i giusti go deano di felicità, e i malvagi
eran puni ti, 3º che le anime perseveranti nella giu stizia per tutto il corso
delle tre vite umia ne, andavano poi. cogli eroi nell'impero di Saturno; e
quelle, che s' erano mac chiate di colpe in quello stesso tempo, an davano in
fine a soffrire un supplizio eter πο: απαλαμον βιον εμπεδoμοχθον. Gli sco
liasti stessi di Pindaro, non altriinenti che noi abbiamo fatto ', lo
dichiarano: uno di essi dice υπεραγαν μεχρι τριτης μετεμψυχοσέως Ev 8 %a740015
Tols peeport „ sostennero (le a nime ) sino alla terza metempsicosi nell' uno e
nell'altro luogo cioè a dire nel la terra e nell' inferno. Ora trina di Pindaro
pare che allora fosse sta ta conosciuta da' soli sapienti. Poichè dopo che il
poeir avea esposta la triplice trasmi grazione soggiunge lo tengo sotto il mio
gomito e dentro la faretra delle sette vo: questa dot 182 lanti, il cui fischio
si sente dal solo sa piente. Ma la moltitudine ha lisogno d' interpetri ες δε
το παν ερμηνεων χατιζα. Η saggio è colui che conosce la natura, gli altri, che
įmparano da lui, sono loquaci nxo Root Taivajaworick e come i corvi inutilmente
gracchiano. Per lo che pare, che Pindaro s'astenea di parlar chiaramente per
non ri velare al volgo il dogma pittagorico della metempsicosi, ed opponea la
furgawcola o loquacità del profano al silenzio del pit tagorico. (99) Tutti gli
antichi fanno onorata men zione della filosofia d'Empedocle. Lascian do stare
Aristotile e Teofrasto, noi sappia. mo da Laerzio l. 10 Sect. 25 ch' Herma co
l'epicureo la espose in 24 libri moto - λικων περι Εμπεδοκλεας: Τra Iatini poί
α parte di Lucrezio e di Cicerone, che ne fan sommi elogi, siano avvertiti da
Cicerone me. desinio che si era stato un Sallustio, il quale area trattato la
filosofia d'Empedocle nel la stessa guisa, che avea fatto Lucrezio per quella
di Epicuro. Tria per quanto si rac 183 coglie dalle parole di Cicerone quell'
auto re non era riuscito cosi bene, come Lucre. zio. Lucretii poemata, ut
scribis, ita sunt multis luminibus ingenii: multae tamen ar. tis. Sed cum
veneris, virum te putabo, si Sallustji Empedoclea legeris; hominem non putabo,
cioè a dire se potrai sostener ne la lettura ti 'stimerò invitto e paziente. ma
privo di senso. Cic. Ep. ad Q.fr. 1. 2. Non che Plutarco ne' tempi d'appres. 80,
ma tutti gli scrittori ecclesiastici ricor dano con lode Empedocle ed i suoi
pensu. menti. Vi ha un luogo di Temistio nell orazione 12 all' Imperator
Gioviano, in cui egli loda quest' imperadore per la lege ge da esso lui
stabilita circa la libertà del la religione. In questo luogo ei dice agar σθαι
μεν εν και τις αλλες το νομο προσηκ4 τον θαοτατον Αυτοκρατορα και μαλιστα δε
οίς ουκ εφιασι μονον την ελευθερίαν, αλλα και τις θεσμες εξηγείται και
φαυλοτερον Εμπεδοκλεας και Ma All Excave te Teals. Varia è stata l'
interpetrazione di piu autori intorno a que ste parole, e principalmente per
l'Empe 184 parere che docle, di cui fa menzione Temistio. Al cuni hanno sognato
un altro Empedocle di verso e posteriore al nostro. Petavio, non si sa come,
crede, che sotto il nome d' Empeclocle abbia quegli voluto significare G. C.
Petit è di per Empedocle s'inten la un cinico chiamato Peregrino. Nè marican di
quei, che credono essere stato rcfurrito in quel luogo S. Policarpo marti re.
Iru biti gl'inteipetri Casaubono in not. ad M. Anton, pas 87 è stato a giudizio
di Fabricio Bibl. Graec. T. 8 p. 56, corui che meglio l'hi interpetrato.
AgarIsi Mesy XV x2. Toń andy (ita malo quam tos are 285, quod tamen ferri
potest, nec' senten tiae, quam volumus, repugnat ), 78 roles.po: σηκ ή τον
θιοτατον Αυτοκρατορα μαλιστα δε οίς (idest τετων vel εκεινων οις ) εκ εφιησι Ꭸporgy etc., Degnissimo è l '
imperadore di ammirazione e di venerazione non che per le cose, che in quella
legge si contengono, ma sopra di ogn'altro e per la libertà del la religione, e
perchè spiega quelle leggi, che sono state da Dio dettate, con perizia 185 non
minore di quella, per · Giove, che non fece quell'antico Empedocle., Di che si
vede, ch'era tanta e tale la stima, in cui allora si tenea il nostro filosofo,
che ad esso si comparava l ' Imperadore Gioviniano, allorchè si volea lodare.
Abulfarage presso gli Arabi, secondo che dice Fabric. Bibl. Graec. T. 1 p. 474
loda Empedocle, come chi avea ottimamen te conosciuto gli attributi divini.
Finalmente la filosofia d'Empedocle è stata vinovata da Campanella, da Magna.
no o Maignano. Fahr. Bib. Graec. nel me desimo luogo. Per lo che si vede
chiarissimo quanto male Orazio conoscea il nostro filosofo; allorchè disse. Ep.
12 !. 1 v. 20. Empedocles; an Stertinii deliret acumen. a a 187 MEMORIA
QUARTA Su i Franmenti delle opere di Empedocle Gergentino. ROM nico è l' oggetto
di questa ultima mes moria: presentare a un colpo d'occhio tute ti accozzati
gli avanzi delle opere d'Empe. docle. Egli ne detò molte, e quasi tutte,
com'era usanza in que' di, le scrisse in versi.. Pure niun poema di lui è
venuto sino à noi, e pochi sono i frammenti, che di questi ci restano L'inno ad
Apollo, e 'l poema de' Persiani, furono, lui morto, bruciati. Il poema sulla
sfera si reputa oggi opera d'incerto autore, Del suo discorso sulla medicina
non ce n ' è restato nè anche vestigio: anzi ignorasi, se questo fosse stato
scritto in versi secon do Laerzio, o pure in prosa secondo Sui da. I frammenti
in somma delle opere d' Empedocle, che da noi si conoscono, ri guardano e fan
parte di due famosi poe e non sia. a, a 2 188 ni: l' uno sulle purgazioni,
l'altro sulla natura. Il primo fu intitolato a Gergen tini; il secondo a
Pausania il medico el amico di lui. La raccolta quindi de' fram menti de' versi
d' Empedocle, di cui qui si parla, appartiene soltanto a questi due gran poemi.
Piü Eruditi, e tuti di gran nome assai prima, e in varj tempi praticaron lo
stesso. Errico Stefano no pubblicò il pri mo non pochi nel suo Ibro della
poesia fi. losofica. Giovanni Alberto Fabricio prese appresso il pensiero
d'ampliar la raccolta di Stefano; e giusta il Mosenio quegli mol to l'accrebbe.
Ma ogni fatica di lui, co me attesta il Reimaro, tornò vana; perchè morto
Fabricio si perderono i suoi origina li,, e il pubblico non potè coglierne il
frut. to. Van - Goens di poi nell'edizione, ch ' ei fece del libro della Groita
delle Ninfe di Porfirio, manifestò aver già raunato più di trecento versi
d'Empedocle, e promiso al più presto di recarli in luce. Avea, se condo ch'
attesta egli stesso, tratto gran pro 189 1 da' manoscritti che si conservano
nella libre ria di Leyden, e invitato tutti i dotti ad aiutarlo in si fatio
travaglio. Ma punto non si sa, se abbia o nò costui pubblica to la raccolta de'
versi del nostro filosofo, giusta la promessa di lui nel 1765 sotto titolo di
raccolta Empedoclea. E' sempre una singolar disgrazia il non potere profittar
delle fatiche degli uomini grandi. Le nostre librerie een prive non che di
manoscritti, ma scarseggiano ancora di libri. Non ci è venuto fatto di ritroe'
vare in esse nè pure lo stesso Errico Ste fano della poesia filosofica. Però,
mancan. ti gli aiuti, si è ito sù giù rifrustando an tichi scrittori per
cogliere or uno or due e di rado o sei, o dieci' o più versi di Emperlocle, che
sparsi si leggono in que sto, e in quell'altro. Fatica assai penosa, e ' tanto
più dura, quanto ha obbligato a durar quello stento, che farebbe chi il pri mo
si mettesse ad imprenderla, senza la spe. ranza di poter acquistare la gloria
debita a chi il primo l'avesse intrapreso. Unico 190 > conforto ne fu un
Simplicio dell'edizione d' Aldo, trovato nella libreria de' PP. Tea tini di
Palermo (giacchè questi ne' suoi co. mentari d ' Aristotile rapporta molti
versi d ' Empedocle ). Da questo libro furon tratti non pochi de' versi d '
Empedocle, che si tro van messi insieme. in quest'ultima parte. Ma il medesimo
disgraziatamente fu ruba. to in quella libreria. Però non fu conco duto di
potersi più riscontrare i versi rac colti col testo; e si è dovuto, congetturan,
do quasi tentoni, quando supplir qualche parola a caso tralasciata, quando
correg gere alcuni versi, che per la prima volta erano stati o male lètti, o
falsamente scrit ti. Si è detto tutto ciò non perchè s' am. bisca lode di
questa qualunque siesi fati ca; ma perchè se ne abbia anticipato come patimento.
In altri paesi d'Europa la race colta de' versi d' Empedocle o gia è stata
egregiamente recata in pubblico; o se non è stata ancor fatta, si potrà
certamente fare e più abbondante, e più corretta, e più dotta, che non è questa.
Non è quin 191 di la stessa da considerarsi come un ope. ra perfetta, o degna
degli sguardi de' Dot ti. Si desidera soltanto, che si tenga la medesima, come
un annotazione, con cui si provano i pensamenti d' Empedocle espo sti nella
terza Memoria. Ma comunque ciò sia egli è certo, che i versi d'Empedocle
smentiscono coloro, che portano opinione lui essere stato o di niú no o di poco
valore in poetica. Si fondan costoro sopra Plutarco (1 ), il quale dice
Empedocle avere ornato col metro i suoi discorsi per evitare l'umiltà della
prosa. Ma non si accorgono aver loro o mal inte so o sinistramente interpetrato
Plutarco, il quale pretese sol definire, che sia stata di dascalica la maniera
poetica del nostro fie losofo. Questa, come quella, ehe tratta e di filosofia,
e di precetti sdegna le finzio. ni e l'invenzione, in cui il pregio, il bel lo,
e la natura consiste d'ogni poesia. Per rò quegli disse, ch'Empedocle avea
preso (1 ) De Aud. Poet. 192 dalla poesia, senza più, e la pompa, e il meiro.
Questo stesso avea già gran tempo prima annunziato Aristotilo, che fu non che
savio ma di gran sentimento nelle co se poetiche. Egli, a distinguer la poesia
d' Omero da quella d'Empedocle, affermò i uno e l'altro, tranne il metro, nulla
tra loro aver di comune. Perché Omero era un Poeta, com’ei diee, ed Empedocle
un fisiologo (1 ). Ma se Empedocle, qual didascalico, non merita é nome e lode,
che si convie ne a poeta, non si pao negare aver lui necupato in que' dì il
primo luogo tra di dascalici, Aristotile di fatto non seppe in miglior modo
contrassegnare la differenza tra la vera poesia e la didascalica, che
comparando tra loro il più gran poeta e il più eccellente didascalico; Omero ed
Em pedocle. Nè altrimenti si pensò ne ' tempi d' appresso. Cicerone chiama
egregio il poe (1 ) De Poet. cap. 1. 793 ma d'Empedocle sulla natura (1 ). Anzi
mettendo egli a confronto i versi di Par menide, di Xenofane, e d' Empedocle,
che furon tutti tre poeti didascalici, dice aper tamente, che più belli ed
eleganti erano i versi del nostro filosofo (2 ). Che se poi mancasse ogn'altro
argomento ad apprez zare il merito di lui, sarebbe certamente bastevole il
sapere i poemi d'Empedocle es sersi cantati ne' pubblici giuochi di Grecia.
Ognun sa, che questa, piena allora di gu sto, e severa nel gindicare, non
concedea tali onori se non a soli grandiuomini. Nel resto ciascuno su cið, o
del raffinamento del la poetica d'Empedocle, ne può da ise giu dicare. Il solo
leggere i frammenti, che ci sono restati, basta a far che chiunque ne resti
persuaso e convinto. Il dialetto de' Siciliani e de' Pittagorici era comune; e
questo appunto era il Dori co. Pure Empedocle avvegnache fosse stato (1 ) Lib.
1 de Orat. (2 ) Acad. Quaest. l. 4. Ъь 194 o Siciliano e Pittagorico, non mise
in opera, che il dialetto Jonico, coine quello, ch'era tra Greci poeti il più
polito e gentile. Fu inoltre la musa d? Empedocle dolcissima. E. gli ne' suoi
versi non sol si servì di quel dialetto, ma nel farli scelse le parole più
dolci e sonore. Platone, parlando d ' Era clito, d'Empedocle, dice che le muse
di quello eran più dure, e le altre di questo più molli (1 ) ancorchè l' uno e
l'altro aves sero usato il dialetto medesimo degli Jonj Plutarco stesso poi non
lascia di notare, che gli epiteti apposti da Empedocle non erano, come per lo
più esser ' sogliono ne' poeti, di puro ornamento, ma esprimeano la natura
delle cose (2 ). Ne cita egli di fatto l'aggiunto dato da Empedocle a Ve. nere
qual datrice di vita; il sempre verdeg: giante dato all'alloro; l'abbondante di
san gue adattato al fegato: e altri simiglianti. Anzi il medesimo Plutarco da a
Empedocle (1 ) Plut. in Sophista. (2 ) Plut. Sympos. l. 6 Erotic. 195 il vanto
d' aver meglio e più: destramento usato d'aleuni epiteti d'Omero (1): Ne reca '
egli in pruova l'aggiunto d'agglome rator di nubi, che questi attribuisce a Gio
ve, e quegli all' aria, e l'altro di difena SOF del corpo, che Omero dà allo
seudo, ed Empedocle all'anima. Ma perchè più dilungarci in rapporta: re antichi
testimonj su cið? I franımenti stessi d ' Empedocle chiaro ci mostrano l' éc
cellenza della sua poesia. Basta dirsi aver lui tenuto Omero per modello nelle
sue o pere poetiche. Le voci, le frasi, le me taforé, la giacitura delle parole,
le desi nenze de' versi son le medesime in quello, che in questo. Si può quindi
dir con ra gione l'apparenza de' suoi versi, e la sein bianza de' suoi poemi
essere stata tutta di Omero. Oltre che riluce in lui una viva cità nelle
immagini, e una novità sin" nel le stesse parole. Moltissimi sugi epitéti
ed espressivi e leggiadri non si trovano in al (1 ) Plut. Symp, l. 6. bb 2 196
cun altro poeta: 1. pesci, per tacer d i tant altri, " sono chiamati
da lui quando nutriti, quando abitatori dell'acqua; gli uccelli cimbe volanti;
gli Dei ' di lunghissi. mi secoli. Anzi Aristotile nella sua poeti ca indica
come una metafora assai bella, e allora nuova, quella con cui Empedocle
esprime la vecchiaja; chiamandola l'occa. so della vita. Chiunque poi legge
nelle sue opere la descrizione della natura; " che qual pittore con
quattro colori, fa tutte le co se con quattro elementi; o l' altra della
visione, che comparata a una lucerna, fa le sue funzioni; o quella della
clessidra, o cose simiglianti ', non gli potrà certo ne gare il pregio, che si
conviene a vaga e bella fantasia. Per lo che da' framinenti d' Empedocle si
prende quel diletto, che pigliar si suole guardando i rottami d'una qualche
nostra Greca Sicola anticaglia. Nel mettersi insieme si fatti frammen, ti si
sono in prima distinti i versi, che appartengono al poema della natura, da.
quelli, che fan parte dell'altro sulle pur 197 1 lande prezi Foce cck que nal
elle gazioni. Ciò non è riuscito punto difficile, Perchè il primo tratta di
cose fisiche, e 'l secondo di cose morali. In quello d'ordi nario, perchè
diretto al colo Pausania i verbi si trovano in singolare. In questo all'oppesto
perchè indirizzato ' a Gergenti ni, i verbi si leggono in plurale. Perd e dalla
sintassi e dalla materia è stato age vole il se parare i frammenti d'un poema
da quelli dell'altro. Si sa oltr'a ciò il poema d'Empedo cle sulla natura esser.
diviso in tre libri. Molti stenti ha costato il congetturare qua li sieno stati
trà versi, che ci restano, quel li che appartengono o al primo, o al se condo,
o al terzo, In çiò fare è stato di mestieri ricercare se per avventura gli
scrit tori, che ne riferiscono i frammenti, aba biano citato il libro. Talora
d' alcuni ver si, che certamente si sa dalla testimonian za degli scrittori
doversi collocare in uno de' tre libri, si è rilevata la materia, che in
ciascuno di essi trattavasi dal no stro Gergentino, Stabilita poi la materia la
ni che ung en. he da ur. 198 stato ben facile il riferire allo stesso li bro
tutti que' frammenti, che si versano sullo stesso soggetto. Ma non di rado con
frontando i frammenti tra loro si è trova to, che alcuni finiscono con versi,
che son principio di altri. Con tale studio quindi e simigliante artifizio si è
cercato di collo care o prima, o dopo alcuni frammenti, che sono dello stesso
libro. Nel resto sarà meglio il tutto giustificato nelle note, e l' ordine con
cui sono rapportati i frammen ti, e l'autore, da cui sono stati ricavati e
l'intelligenza, con cui sono stati interpe trati '. Fra tanto se questo
qualunque siesi lavoro non sarà stimato degno di lode, po trà almeno, meritare,
nell' emenda de dete ti il perdono del pubblico. RACCOLTA D E FRAMM ENTI. 200
ΠΕΡΙ ΦΥΣΕΩΣ βιβλ. α. Παυσανία συ δε κλυθι δαίφρονος Αγχίτου υιε (1 ). Εστί
αναγκης χρημα θεων σφραγισμα παλαιον Αϊδιον πλατεεσσι κατεσφραγισμενον ορκοις (2
) Τεσσαρα των παντων ριζωματα πρωτον ακους Ζευς αργής, ηρητε φερεσβιος η
αίσθωγευς Νηστις θ' ' δακρυοις τεγγα κρενωμα βρoταον Των δε συνερχομενων εξ
εσχατων ιστατο νακος (3 ) Διπλ' ερεω: τοτε γαρ εν αυξηθη μονον ειναι Εκ πλεονων
τοτε δ ' αυ διεφυ πλέον εξ ενος ειναι Δοιη δε θνητων γενεσις δοιη και απολαψις
Την μεν γαρ παντων συνοδος τικτατ’ ολεκτιτε Ηδε παλιν διαφυαμενών θρυφθασα γε
δρυπτα Και ταυτ αλλασσοντα διαμπερες εποτε λήγα 201 DELLA NATURA Lib. I.
Pausania figliuol del saggio Anchito Tu ciò, ch ' io dico, attentamente ascolta
E' volere del Fato, è degli Dei Decreto antico, che ab eterno fue Segnato con
solenni giuramenti. Il bianco Giove, la vital Giunone, E Pluto, e Nesti, che
piangendo irriga I canali dell'uom, son d'ogni cosa, Odimi in prima, le quattro
radici. Ma come quelli tra di lor s'accozzano Dall' ultimo confin sorge la lite.
Dųe son le cose, ch' a narrarti io prendo: Ora l'uno dal più risulta, ed ora
Nasce dall' uno il più: cosa mortale Doppio ha nascimento, e doppia ha morte.
Genera, e strugge l ' union del tutto; E questa sciolta, torna pur di nuovo CC
20 2 Αλλοτε μεν φιλοτητί συνερχομεν ’ ας εν απαντα Αλλοτε αυ διχα παντα
φορεμενα νακεος εχθα Εισοκες αν συμφωντα το παν υπενερθε γενητα. Ουτως η μεν εν
εκ πλεογων μεμαθηκε φυέσθαι Η δε παλιν διαφυγτος ενος πλεον εκτελεθεσ: Τη μεν
γίγνονται τε και και σφισιν εμπεδος αιων Η δε διαλλασσονται διαμπερες αποτε
ληγει Ταυτη α εν εασσιν ακινητα κατα κυκλoν. Αλλ' αγέ μυθον κλυθι - μεθη γαρ
τοι φρεγας αυξ Ως γαρ και πριν ειπα πιφασκων πειρατα μυθων Διπλ’ ερεω: τοτε μεν
γαρ εν αυξηθη μονον ειναι Εκ πλεονων τοτε δ' αυ διεφυ πλεον εξ ενος αναι Πυρ
και υδωρ και γαια και κερος απλετον υψος Νικοστ' αλομενον διχα των αταλαντον
εκαστον Και φιλοτης εν τοισιν ιση μηκοστε πλατοστε Την συν νω δερκε μη δ '
ομμασιν ησο τεθηπως Ητις και θνητοισι νομιζεται εμφυτος αρθροίς Tητε
φιλαφρονεας ιδ ' ομοιϊα εργα τελεσι Γιθοσυνην καλεοντες επωνυμον ιδ "
αφροδιτην Την στις μετ ' οτοίσιν ελίσσομενην δεδαηκε. Θνητος ανηρ συ δ' ακ8ε
λογων στoλoν εκ απατηλον Ταυτα γαρ ισα τε παντα και ηλικα γενναν εατσι Τιμης δ'
αλλης αλλο μεδα παρα δ ' ήθος εκαστω Εν δε μερά κρατεεσι περίπλομενοιο χρονοιο.
Και προς τους ατ' αρ' επιγιγεται δ ' απολήγα 203 Ogni cosa, ch' è nata, a
separarsi. Tutto alterna cosť, e così dura Eternamente: ed ora in un si accozza
Per la virtù dell' amicizia, ed ora Per l'odio della lite si sparpaglia, Standosi
in aria, finchè non si unisca, Cosi l'uno dal più nascer costuma. Cosi dall' un
già nato il più rinasce. Entrambi han vita; ma la lor durata Non è mai stabil.
Perchè l' uno e l'altro Alterna, e l'alternar non ha mai fine Sopra di un
cerchio eternamente gira. Ma tu il mio parlare attento ascolta, Che lo spesso
sentire, e risentire La mente aguzza. Come pria ti dissi Raccogliendo la somma
del discorso Due son le cose, ch'a 'narrarti io prendo. Ora l'uno dal più si
forma, ed ora Nasce dall' uno il piii; ch'è terra, e fuoco, και ed aria
d'un'immensa altezza, Oltre di questi, che tra lor son pari, Havi lite dannosa,
ed amicizia, Ch'ha per lungo, e per largo egual misura.?' u colla mente la
contempla. Invano Ed acqua, CC 2 304 Η Ειτε γαρ εφθαροντο διαμπερες εκετ ’ αν
καισαν. Τατο δ ' επαυξησε το παν τι κε; και ποθεν ελθον; Πη δε κεν απολοιτο
επει των δ ' δεν ερημον; Αλλ ' αυτ ’ εστιν ταυτα διαλληλων δε θεοντα Γινεται
αλλοτε αλλα διηνεκες αιεν ομοια (4). 205 Stupidi gli occhi sopra dessa fisi.
Questa d'ogni mortal nelle giunture Si vuole innata, e chi n'han senso in mente
Fanno, comº essa fa, opre leggiadre. Di Venere col nome o d'allegrezza La
chiamano, sebben finor niuno Seppe indicare dentro a quali cose Si aggirasse
involuta. O tu niortale, Ascolta i detti, che non son fallaci: L'amicizia, e la
lite sono eguali, Hanno la stessa età, l' origin stessa Sol con diverso onor l
' una sull'altra Impera, e piglia, com'è lor costume, Il comando a vicenda al
fin del tempo, Scritto a ciascuna dal voler del fato. Nulla viene oltr' a ciò,
ch' ancor non è Nulla di quel, che è, desser finisce; Se pur finisse., riaver
non mai Potrebbe in alcun tempo l'esistenza. Doy ' andrebbe a perir, se non
v'ha luogo Di ciò solingo, ch'al presente esiste? E se quel', che non è, ora
venisse D ' onde verrebbe? e che? come potrebbe Accrescer questo tutto, s' egli
è tutto?? 206 ! 3. • Επι νεικος μεν ενερτατον ικετο βενθος Δινης εν δε μεση
φιλοτης στροφαλιγγα γένηται Εν τη δη ταδε παντα συνερχεται εν μονον είναι Ουκ
αφαρ αλλα θελυμμα συνισταμεν αλλοθεν αλλο Των δε μισγομενων χειτ' εθνεα μυρια
θνητων Πολλα δ' αμικτ ’ εστηκε κερασσαμένoίσιν εναλλαξ Οσσ ' ετι νεικος ερυκς
μεταρσίον • 8 γαρ αμεμτώς Το παν εξέστηκεν επ ' εσχατα τερματα κυκλα Αλλα τα
μεν τ ' εμιμνε μελεων τα δε τ ’ εξεβεβηκεν Οσσον δ ' αιεν υπεκπροθεει τοσον
αιεν επηει Η επιφρων φιλοτης αμεμπτως αμβροτος ορμη Αιψα δε θνητ’ εφυοντο τα
πριν μαθον αθανατ’ είναι Ζωρα δε τα πριν ακρητα διαλλαξαντα κελευθες Των δε τε
μισγομενων χειτ' εθνεα μυρία θνητων EΠαγτ οιαις ιδεησιν αρηροτα θαυμα ιδεθαι (5)
207 Sempre dunque le cose son le stesse, Si mischian, si separano, a vicenda
Movendosi tra lor, e nascon sempre Novelle forme, ma tra lor simili. Avea la
lite già toccato il fine Ultimo del girar, quando amicizia Del cerchio, in cui
si volge, al centro arriva. Tutte le cose allor vanno ad unirsi Per fare l'un;
ma a poco a poco il fanno, Base a base di quà di là giungendo. Dagli elementi,
che tra lor si mischiano Razza infinita di mortali nasce. Ma in mezzo a que',
che s'accozzar, vi furo Altri, che ' ncontro senzı alcun miscuglio Restaron
puri; perchè lite ancora In alto li tenea Piena di colpa Ella com'è, voleva il
tutto scisso Sull' estremo confin del cerchio trarre. Però de' membri, alcuni
fuor spuntaro, Ed altri nò. Ma quanto innanzi corre Sempre la lite, tanto
sempre è pronta L ' amicizia a venir saggia, divina, Nuda di colpe, d'
immortale forza > 208 Σ Η δε χθων τατοισιν ιση συνεχυρσε μαλιστα Ηφαιστω τ '
ομβρωτε και αθερι παμφανοωντι Κυπριδος ορμησθεισα τελειοις εν λιμενεσσιν Ειτ '
ολίγον μειζων ειτα πλεον εστιν ελασσων Ίων αιματ’ εγένοντο και αλλης ειδεα
σαρκος (6). Η δε χθων επικαιρος εν ευτυκτοις χοανοισι Τα δυο των οκτω μερεων
λαχε νηστιδος αιγλης Τεσσαρα δ ' ηφαιστοιο. Τα δ ' οστεα λευκα γένοντο Αρμογιης
κολλησιν αρηροτα θεσπεσιηθεν (7 ). 209 E nascer ecco, e divenir nascendo Della
morte alla falee sottoposti Que', che prima sapean esserne immuni, E mutando
sentier trovarsi misti Que', che puri eran pria senza miscuglio. Formasi in
somma dalle cose miste Un numero infinito di mortali, Che d'ogni specie son,
d'ogni figura, Si, ch'a vederli è certo maraviglia. Ne'porti estremi della
bella Dea Giunse la Terra là dov' ogni cosa Or di massa crescendo, ed or
mancando Il più meno si fa, e 'l meno più. Ivi la Terra in parte egual
s'avvenne All' aria trasparente, al fuoco, all'acqua, E da tale union indi
formossi Qualunque specie di carne, e di sangue. Quando la terra era d'amor
sospinta In pevere ben salde a sorte trasse Dell'otto parti, d' acqua chiara
due, Quattro di fuoco: e per divin volere Col glutin d'armonia tutte s'uniro:
dd διο Βελιον μεν θερμoν οραν και λαμπρον απαντη Αμβροτα γ οσσ ' εδεται και
αργέτι δευεται αυγη Ομβρον δ ' εν πασι νιφρεντα τε ριγηλοντε Εν δ ' αιης
προρεεσι θελυμγα τε και στερεωμα. Εν δε κοτω διαμορφα και αν διχα παντα
πελονται Συν δ εβη εν φιλοτητι και αλληλοισι ποθκται. Εκ τετων γαρ παντ' ην
οσσα τε εστι και εσται Δενδρατο βεβλαστηκε και ανερες ηδε γυναικες Θηρεστ’
οιωνοίτε και υδατο θρεμμονες ιχθυς Και τι θεοι δολιχαιωνες τιμησι Φεριστοι και
Αυτα γαρ εστι ταυτα δι αλληλων θεοντα Γινεται αλλείωτα (8 ), 1 911 E l'ossa
bianche furon tosto fatte. Da per tutto si vede il Sol, che desta Calore, e
lancia della luce i raggi, E quegli ancor, che senza morte sono, Quasi da fame
o pur da sete spinti, L'aria ricercar bianco splendente. Puossi ovunque veder
l'acqua; che in neve: Talòr si muta, e facilmente gela: o pur la terra, da cui
vengon fuori Le salde cose. Quando impera lira Tutto è biforme, ed ogni cosa è
scissa, Ma regnando amicizia il tutto corre Pronto ad unirsi, e l'una all'
altra cosa Per interno desir s'abbraccia, e stringe. Tutto viene da quelli, e
per l'amore, Ciò, che fu, cid, che è, ciò che sard, Germogliaro cosi alberi, e
piante Nacquero maschi, e donne, e fiere, e uccelli, E pesci ancor, che son
d'acqua nutriti; O pur gli Dei di secoli lunghissimi Chiari per gl' inni, e per
gli onor prestanti. Sempre in somma le cose soil le stesse, Sempre tra loro han
moto, e cangian forma. d d 2 212 Ως δ ' oπoταν γραφεες αναθηματα ποικιλλωσιν
Ανερεσ αμφί τεχνης υπο μη τινος δεδαωτες Οιτ ' επει καιν μαρψωσι πολυχροα
φαρμακα χερσι Αρμονια μιξαντε τα μιν πλεω αλλα και ελασσω. Εκ των αδεα πασ'
εναλίγκιά πορσυνέσι Δενδρεάτε κτιζοντες και ανερας nde γυναίκας Θηρας τ’ οιωνες
τε και υδατο θρέμμονες ιχθυς Και τε θεες δολιχαιωνας τιμησι φεριςτες Ουτω μη σ
' απατα φρενα ως νυ κεν αλλοθεν «να Θνητων οσσα γε δηλα γεγαασιν εσπετα πηγήν.
ταυτ ' ισθί θεα παρα μυθον ακουσας (9 Αλλα τορώς Εν δε μερα κρατεεσι
περίπλομενοίο κυκλοίο Χα, φθιγει ας αλληλα και αυξεται εν μέρει αισης Αυτα γαρ
εστι ταυτα οι αλληλων δε θεοντα Γιγοντα ανθρωποιτε και αλλων εθνέα θνητων:
Αλλοτε μεν φιλοτητα συνερχομεν ασ ενα κοσμου 213 Qual dipintor nell'arte sua
perito Sa' i quadri variar, che la pietate Del tempio alle colonne, appende in
dono A santi numi. Egli con man piglian do Ora più, ora men di questo, è quello
Colore, insiem con ' armonia li vmischia, E poi con essi va pingendo immagini
Che son del tutto simili agli oggetti: Uomini, donne, fiere, uccelli, e piante;.
Ed i pesci, che son đ 0 pur gli Dii di secoli lunghissimi Chiari per glinni, e
per gli onor prestanti; Cosi la mente certo non s'inganna Dº ogni nato mortal
qualora dice Esserne fonte sol quegli elementi. Tu.ciò, che ho detto, tieni pur
per fermo. Di tutto il nascer sai, fuorchè di Dio, Sul quale il mio parlar non
è diretto. acqua nutriti Or l'amicizia, ed or la lite impera Del cerchio intorno
rivolgendo i passi, E luña e l'altra, come vuole il fatoo Manca a vicenda, ed a
vicenda sorge. Sempre le stesse son, sempre alternando 214 Αλλοτε δ ' αυ διχ'
εκάστα φορεμενα νικεος εχθα Εισοκεν αν συμφωντα το παν υπεγερθα γενηται. Ουτως
η μεν εν εκ πλεονων μεμαθηκε φνεσθαι Η δε πάλιν διαφωντος ενος πλεον εκτελεθεσι.
Τη μεν γίνονται και και σφισιν εμπεδος αιων Η δε τα διαλλάσσοντα διαμπερές δαμα
λογια Ταυτη αιεν εασσιν ακινητα κατα κυκλος (1ο). Σ Τεσσαρα των παντων ριζωματα
πρωτον ακα! Πυρ και υδωρ και γαιαν η αιθερος απλετον υψος Εκ γαρ των οσατ' ην
οσατ ' εσσεται οσσα τ ' εσσι(11 Αυταρ επε μεγα νεικος ενι μελεεσσιν ετρέφθασε
Ες τίμαστ' ανορεσε τελιoμενοιο χρονοιο Ο σφιν αμοιβαιος πλατεος παρεληλατο ορκα
(12 ) 15 Si muovono. Deil' uom la razza nasce, Tant' altre razze di mortali han
vita. Talor per amicizia in ordin bello Tutto si unisce; ma talor per stizza Di
lite il tutto si separa, è stassi Sospeso in alto, finchè non s'unisca. Cosi
l'uno dal più nascer costuma. Così dall' un già nato il più rinasce. Entrambi
han vita, ma la lor durata Non è mai stabil. Perchè l'uno, e l' altro Alterna,
e l'alternar non ha mai fine Sopra d'un cerchio eternamente gira. Quattro,
figliuol d'Anchito, in prima ascolta Son radici di tutto: il fuoco, e l'acqua,
La terra, e l ' aer d'un immensa altezza; Perchè da questi sol viene, e deriva
Ciò, che fu ', ciò, che è, ciò, che sard. Dopo, che lite, la gran lite ascosa
Era stata ne' membri, il tempo scorso, Agli onori salt. Perchè l'impero
Alternar si dovea, com'era scritto Con solenne, ed eterno giuramento. 256 Αρτια
μεν γαρ αυτα εαυτων παντα μερέσσιν Ηλεκτωρτε Χθωντε και κρανος ηδε θαλασσα Οσσα
Φιν εν θνητοίσιν αποπλ.αχθεκτα πεφυκέν. Ως δ ' αυτως οσα κρασιν' επαρκεα μαλλον
εασσιν Αλληλοις εστερνται ομοιωθεντ' αφροδιτη. Εχθρα πλειστον επ', αλληλων
διεχεσι μαλιστα Γεννητε κρασατε και αδεσιν εκμακτρισι Παντη συγγίγεσθαι αηθεα
και μαλα λυγρα Νακεσ γεννηθεντα οτι σφισι γεννας οργα (13 ),. Αλλο δε τοι ερεω
• φυσις αδενος εστιν απαντων Θνητων εδε τις ολομενα θανατοιο τελευτη Αλλα μογον
μιξις τε διαλλαξις τε μιγεντων Εστι. φυσις δε βρoτοις ονομαζεται ανθρωποισι (14)
Οι δ ' οτε δε κατα φωτα μιγεν φως αιθερι κυρα Η κατα θηρων αγροτέρων γενος και
κατα θαμνων Ηε κατα οιωνων τοτε μεν τα δε φασι γενεσθαι 217 Tutto è perfetto,
perchè tutto ha pari Íl numer delle parti, che il compone. Tal è la Terra, il
Sole, il Cielo, il Marc E tutto quel, che tra mortali errando Miste ha le parti
giusta sua natura. Ciò, che ridonda poi al lor miscuglio Da Venere s ' unisce
al suo simile, Giacchè le cose simiglianti forte S'aman tra lor. Na spesso le
divide L'inimicizia. Nascon quindi mostri Strani assai per la stirpe., e per la
tempra, E per le forme, ch' hanno in loro impresse; Perchè la lite li produce
allora Ch' appetiscon le cose il generare. Un altra cosa a dichiararti io
prendo: Nulla ha natura, nè mortale ha morte, Che danno arrechi. Perch' è sol
miscuglio, E delle cose miste è scioglimento Ciò, che natura gli uomini
chiamaro. Quando a caso nell'aria s'imbatte Il miscuglio, che fa dell' uom la
razza, O quella degli uccelli, o delle piante, 218 Ευτε ο αποκριθωσι τα δ ' αυ
δυσδαιμονα ποτμαν Ειναι καλεσιν (15 ). Βιβλ. β. Νυν δ ' αγε πως ανδρωντε
πολυκλαυτωντε γυναικων Εννυχιες ορπηκας ανήγαγε κρίνομενον πυρ Των δε κλυθ'.8
γαρ μυθος αποσκοπος εδ' αδας μων Ουλοφυες μεν πρωτα τυποι χθονος εξανατελλον
Αμφοτερων υδατοστε και αδεος αι σαν εχοντες τετ' ανέπεμπε θελον προς ομοίον
ευεσθα Ουτε τυπω μελεων ερατον δεμας εμφαινοντες Ουτ’ ενοπην ετ ' αυ επιχωριον
ανδρασι, ηουν (16 ) Πυρ μεν Πολλα μεν αμφιπροσωπα και αμφιστερνα φυέσθαι Βεγενη
ανδροπρωρα τα δ ' εμπαλιν εξανατέλλας Ανδροφυη βεκρανα μεμιγμεγα τη μεν υπ
ανδρων Τη γυναικοφυη σκιεροις ήσκημενα γυιοις (17). 219 O de' bruti selvaggi,
allor si dice Che nascon essi; e quando si discioglie Il miscuglio di lor, ch'
han trista morte, Lib. II. Come nel separarsi il fuoco trasse De' maschi i
germi oscuri, e delle donne, Che piungon molto, odimi, che 'l dire Rozzo non è,
nè fuor sen va del segno. Perfetti in prima dalla terra i tipi Spuntaron tutti.
Ma siccome il fuoco Su n'esulò il suo simil -bramando, Restaron quelli sol
umide forme, e l'immago per lor parti aventi. Però nel tipo de' lor membri
ancora Non mostravan ľamabili fattezze Del corpo, non ancor l'organ di voce, Nè
la natia degli uomini favella. L'acqua, Nascon de' mostri con due facce, o
petti.. Bovi son questi con umano volto, Comini quelli con bovina testa,
D'opachi membri son forniti, e tutti e e 2 2 20 Η μεν πολλαι κορσαι αγαυχενες
εβλαστησαν Οφθαλμοι δε επλασθησαν γαρ πτωχοί μετωπων (18 Βραχιονες γυμνοι χωρίς
μορφονται γε. ωμων (19). Τατον μεν βρoτεων μελεων αριδαιαστον ογκον • Αλλοτε
μεν φιλοτητα συνερχομεν' ας εν απαντα Για το σωμα λελογχε βια θαλέθοντος εν
ακμή. Αλλοτε δ ' αυτε κακησι διατμηθοντ ’ εριδεσσιν Πλαζεται ανδιχο εκαστα περι
ρηγμινι βιοιο. Ως αυτως θαμνοισι και ιχθυσιν, υδρομελαθροις Θηρσιτ’
οραμελεεσσιν ιδε πτεροβασμισι κυμβας (20 Σδε δ αναπνα παντα και εκπγ: πασι
λιφαιμο ! Σαρμων συριγγες πυματον κατα σωμα τετανται Και σφιν επιστομίοις
πυκνοις τετρηντα αλοξι Ριγων εσχατα τερθρα διαμπερες. ωστε φαγον μεν Σ 221
L'han di maschio, e di donna insiem confusi Sorsero teste senz' aver cervici.
Privi di fronte furon fatti gli occhi. Nude le braccia senza spalle fatte, I
membri umani giaccion tutti in massa Bella, e vistosa. Per anior talvolta S'
uniscono tra loro, e corpo a caso Nel fior si forma della verde etate.
All'opposto talor spiccansi i membri Per trista lite, e quà e là d' intorno
Alla spiaggia di vita erran divisi. Apvien ciò pure agli alberi, alle fiere Che
montanine son, a pesci ancora Abitator dell acqua, ed agli uccelli Che solcan l
' aria coll ' alate cimbe Ecco nel respirar come da tutti L' aer dentro si tira,
é fuor si manda, Delle vene i canali si propagano Agli estremi del corpo, e
metton capo Delle nari ne' solchi, in cui le punte 2 2 2 Σ Kευθαν αιθερι δ
ευπορίαν διο οισι τετμησθαι Ενδεν επαθ οποτ.ν μεν επαίζη τερεν αμα Αιθαρ
παφλαζων καταϊσσεται οίδματι μαργω. Ευτε δ ' αναθρησκ 4 πμλιν εκπν: 1. ωσπερ
οταν πας Κλεψυδρας παιζοσα δι ευποτρος καλκoιο Ευτε μεν αυλα πορθμον επ' ευκαδα
χερι θισα Εις υ2τος βαπτητι τερεν δεις αργυφεοιο Ουδε γ' ες αγγος ετ’ ομβρος
εσέρχεται αλλα μιν εργ ! Αερος όγκος εσωθι πεσων επί τρηματα πυκνα Σισοκ α τ
οστεγασι πυκνον ρέον. αυταρ επάτα Πνευματος ελλειποντος εσέρχεται αισιμων υδωρ.
Ως γ' αυτως οθ' υδωρ μεν εχω κατα βενθεα καλκα Πορθμα χωσθέντος βρoτεί » χροι
ηδε πορο! ο Αιθήρ δ' εκτος εσω λελιημενος ομβρον ερυκα Αμφι πυλας ισθμοιο
δυσηχεος ακρα κρατύνων Εισοκε χέρι μεθ, τοτε δ' αυ παλιν εμπαλιν και πριν
Πνεύματος εμπίπτοντος υπεκθι αισιμον υδωρ - Ως δ' αυτως τερέν αιμα
κλαδισσομενον δια γυιων Οπποτέ μεν παλινoρσον επαιν5 μυχονδε Θατερον ευθυ, ρεμα
κατερχεται οι ματι θυον Ευτε δ' αναθρων Α4 παλίν ειπν.4 ισον οπισσα (21). 223
Hanno sturate, Ma di sangue in parte Sono que tubi, e non del tutto pienii.
Però calando giù s'occulta il sangue, E lascia all ' aer libera ed apertit
Dell'entrata lu vir per le bouciucce. Avvien cosi, che quando il sangue molle
In gil si lancii nell'interno, tosto L'aria, che ferve, con sue vacue bolle
Entra con furia. E quando poi balzando Ritorna il sangue, torna fuor di nuovo
Uscendo l'aria. Guarda quà donzella Intenta a trastullare colla clessidra Di
facil bronzo, ch'al martello regge. Empier d'acqua la vuol: perciò ne tura
Colla sua bella man prima la bocca Dell'orifizio, e quindi per la base Di
spessi forellin tutta bucata L'immerge in mezzo della limpid' acqua. in questa
intanto dentro non penétra Perché l'aria racchiusa nella clessidra Sovrastando
a' forami con la molla L ' acqua preme, sospinge, ed allontana. Che se appena
riapre la donzella Il già chiuso orifizio, di repente Ως δ ' οτε τις προοδον
νοεων ωπλίσσάτο λυχνον Χειμεριην δια νυκτα πυρος σέλας αιθομελοιο 225 L'aria
sen fugge; e come questa manca L'acqua fatale, che presiede all' ore, Ch'entrar
pria non potea, entra nel vaso. La clessidra è già piena: or la donzella In
altra guisa guarda là, che gioca. Ella con man turandone la bocca Dalla base
forata vuol che cada L' acqua fatale, di cui quella è zeppa. Ma cupido d '
entrar laer di fuori Quasi forte confin l ' acqua ritiene Intorno á forellini
gorgogliante. Se quella poi leva la mano, allora All'opposto di pria laer di
sopra Cadendo all ' acqua ý giù la manda, è questa Per gli forami della base
gronda. Tal è del sangue, che colante scorre Per le membra. Se presto si ritira
Affollandosi in dentro, allor di colpo Schiumosa l' aria con vigor rientra. Poi
quel ratto s' avanza, e questa fuori Esce coil passo egual retrocedendo. Come
d'inwerno per l'oscura notte Chi prende a viaggiar prima prepara - ff 226 Αγας
παντοίων ανεμων λαμπτηρας αμοργός Οιτ ' ανεμων μεν πνευμα διασκιανασι αεντων
Φως δ ' εξω διαθρωσκον οσον ταγαωτερον ηεν Λαμπεσκεν κατα βηλον αταρεσι
ακτινεσσιν. Ως δε τον εν μηνιγξιν εεργμενον ωγυγίον πυρ Λεπτησιν οθονησιν
εχευατο κακλοπα κερης Αι δ ' υδατος μεν βενθος απεστεγον αμφινααντος Πυρ δ '
εξω διαθρωσκον οσον τανάωτερον Μεν (22) U Βιβλ. και Ου τοσε τι θεος εστιν και
τοτε και τοδε Ουκ έστιν πελασθαι εν οφθαλμοίσιν εφικτος Ημετέροις η χέρσι λαβαν
υπερτε μέγιστη Πειθες ανθρώποισιν αμαξιτος ας φρεγα πιπτα. Ου μεν γαρ βροτεη
κεφαλη κατα γυια κεκασθα Οι μεν απαι γωτων γε δυο κλαδοι ασσεσιν (227
Lampade,.e lume di un ardente fiamma, E poi li mette dentro una lanterna, Che
da venti difenda la fiammella; Perchè di questi come van spirando Disperge il
soffio. Ma di fuor si lancia La luce, intanto, e quanto più si estende, Tanto
illumina più presso la struda Corai di notte vincitor non vinti; Cosi il
naturale antico fuoco, Che la pupilla circolure irradia, Stassi dell' occhio in
le membrane chiuso Sottili al par di vel, che dall ' umore, Il quale in copia
dall' intorno scorre Tutto il difendon. Ma di là movendo Quanto più lungi puà
fuori sį spande. Lib. III: 1 Nè questo, o quello, nè quell' altro è Dio, A noi
cogli occhi non è mai concesso Di poterlo veder, nè colle mani Di poterlo
trattar: che della mente Esser suole la via grande, e comune, Per cui persuasion
entra nell' uomo. 228 Οι ποσες και θοα γουνα παι μηδεα λαχνηεντα Αλλα Φρην ιερη
και αθεσφατος επλετο μενον, Φροντισι κοσμον άπαντα καταϊσσεσα θοησιν (23 ) ΠΕΡΙ
ΦΥΣΕΩΣ. Ει δ ' αγε νυν λεξω πρωθ ηλιον αρχην Εξ ων δη εγενοντο τα νυν εσoρωμεγα
παντα Ταράτε και ποντος πολυκυμων ηδ' υγρος αηρ Τιταν η δ αθηρ σφιγγων περί
κυκλoν απαντα (24) 229 Iddio non è di mortal capo ornato, Che su membri
s'estolle. A lui sul dorso Non spiegansi i due rami. Egli non have Ginocchia,
che al cammin ci fan veloci. Egli piedi non ha, nè quelle parti Che vergogna, e
lanugine ricopre. E mente sol, è sacra mente Iddio, Ch'esprimer non si può da
nostra lingua: In un istante tutta la natura Col veloce pensier ricerca, e
scorre. DELLA NATURA. V B R SI Che non si sa a quale de tre Libri appartengono.
Dirotti in prima co' mięi versi d' onde Ebbe origine il Sole, e d'onde
ogn'altro Che noi veggiam; l ' ondoso mar, la terra L'aria, che nel suo sen
chiude, e raccoglie Ogni umido vapor, la luce, e letere Che tutto cinge, e
tutto intorno avvolge. 23ο Πως και δενδρεα μακρα και ειναλιοί καμασκνες (25 )
Ειπερ, απαρονα γης τε βαθη και δαψιλος αθηρ Ως δια πολλων δη γλωσσης ρηθεντα
ματαιως Εκκέχυται στοματων ολιγον τε παντος ιδόντων (26) Ουδε τι τα παντος
κεγεον πελα ουδε περισσον (27 ) Ως γλυκυ μεν γλυκυ μαρπτε πικρον δ ' επι πικρον
Ορέσες οξυ ο επ ' οξυ εβη θερμον δ εποχευετο θερμος (28): Γνους οτι παντων «
σιν απορροια οσσ ' εγένοντο (29) Kευθεα θηριων μελεων μυκτηρσιν ερευνων (3ο)
Ούτω γαρ συνεχυρσε θεων τοτε πολλακι δ ' αλ λος (31). 23 In qual maniera furon
pria formati E gli arbor alti, ed į marini pesci. Per la lingua di molti invan
discorre La terra, e l ' Eter non dver con fine Quella nelle radici e questo in
alto. Ciò la bocca di color si sparge per Che nulla, o poco sanno, e guardan
lungi Colla veduta corta d'una spanna » Vacuo non c'è, e nulla pur ridonda; U
Dolce a dolce s' unisce, ed all' amaro Corre l'amaro, e l'aspro all aspro vanne,
E verso il caldo si conduce il caldo. Ogni corpo, ch ' esiste, il dei sapere,
Vibra lungi da se parti vaganti, Fiutando indaga le ferine tane, Tale in quel
punto s’intoppò correndo Ma in altra guisa per lo più s' avviene 233 οπη
συγεκυρσεν απαντα (35). Η δ ' αυ φλοξ ιλααρα μινυνθαδικαις τυχε γαιης (33 )
Κυπρίοδος εν παλαμης πλασέως τοιηστε τυχοντα (34 ) Τη δε μεν ιοτητι τυχης
πεφρονήκεν απαντα (35 ) (Και καθ' οσον μεν αρμοτατα συγκυρσε πεσοντα(36) Αλλα
οπως αν τυχη (37 ) ΓIαντα γαρ εξακης πελειζετο γυια θεσιο (38) Και δα παρ’ ο δη
καλαν έστιν ακουσαι (39) Ενθ' ουτ' ηελιοιο διειδετο ωκεα γυια (40) Αρμογιης
πυκίγως κρυφα εστηρικτα (41 ) Σφαιρος κυκλοτερης μοί1 περίγ 19 εκων (42 ) 237
Dove ogni cosa s' imbatte i Fiamma lunare s' incont Insiem con Terra, che Nelle
man di Ciprigna cost Col parer di fortuna al tutto intese In quanto a caso
s'accordar tra loro Nell'incontrarsi Ma come sorte volle Tutte di mano in man
le membra scosse Furon del Dio Ciò, che è bello convien, che si ripeta Le
pronte membra non vedeano il Sole Salde in occulto d' armonia fur fatte In
tonda sfera stretto quasi il tuttó 234 Αυξα δε χθων μεν σφετέρος γενος αθερα δ
', αι: θηρ (43 ). Κατα το μαζων εμιγνυτο δαιμονι δαμων (44). Αιθηρ μακρησι κατα
χθονα δυετο ριζας (45 ). Οινος απο φλοιου πελεται σαπεν εν ξυλω υδωρ (46) Αλλα
διεσπασθαι μελεως φυσις ή μεν εν ανδρος Η γ ' εν γυναικος (47 ). Μηνος εν
ογδοατα δεκάτη που επλετο λευκον (48) Ως δ ' οτ’ οπος γαλα λευκών εγομφώσει και
εδη - σεν (49). Ουτω δε ωοτοκει μικρα δενδρα πρωτον ελαιας (5ο ) Νυκτα δε γαια
τιθησιν υφισταμενη φαεισσι (51 ) 235 Lieto dell'unità solingo gode: > Aria
ad aria s ' aggiunge, e terra a terra; Il minore al maggior spirto s' unisce:
Della terra le barbe aer penetra; L'acqua scomposta sotto la corteccia Vino
diventa, Della prole le membra stan dis ise Parte nel maschio, e parte nella
femina, Al giorno dieci dell' ottaro mese Nelle poppe si forma il bianco latte.
Come gaglio rappiglia il bianco latte, Cosi da prima partoriscon l'uovo Gli
arbor non alti della verde uliva Luce impedendo fa la terra notte. an 2 236
Ήλιος οξυβελης ηδε ιλαϊρα σεληνη (52 ). απέσκεδασε.αυγας Ες γαμαν καθυπερθεν
απεσκιφωσε δε γαιης Τοσσον οσοντ ’ ευρος γλαυκωσιδος επλετο μηνης (53. Гщи ру
тар уцау апожариву детi * Uдор Ηερι δε ηερα διον ατάρ πυρι πυρ αιδηλον Στοργην
δε,στοργη κακος δε τε νεικεί λυγρω (54). Παντα γαρ ισθι φρονησιν εχαν και
σωματος αισαν(53 Λιματος εν πελαγεσι τετραμμενα αντιθρωντος Τη τε νοημα μαλιστα
κικλεσκεται ανθρωποισιν Αιμα γαρ ανθρωπους περι καρδιον εστι νοημα (56). Προς
παρεον γαρ μητες αεξεται ανθρωποισι (57 ). οθεν σφισιν ας Και το φρογαν αλλοια
παριστατα (58 ). 1. 237 Dolce è la Luna, e durdeggiante il Sole. Disperge i
raggi sulla Terra, e sopra Tant è la luce, che le fura, quanto Il disco è largo
della glauca Luna. Terra veggiam con terra, acqua con acqua, Aer divin con aere,
e lucente Fuoco con fuoco, e con amore ' amore, E veggian lite con dannosa lite.
Uomini, bruti e piante ben lo sai Han tutii mente, e parte di ragione, Stassi
la mente dove più ridonda II sangue, che su giù sempre si muove, Perchè dal
sangue, che circonda il core Il pensiero nell' uom sua forza prende; Il pensare
dell' uom cresce e al presente Però il pensare sempre a lui diverse Mostra le
cose. 238 Ενδ ' εχυθη καθαροισι τα δε τελετουσι γυναικες Ψυχεος αντιασαντα (59
). Νηπιοι και γαρ σφιν δολιχοφρονες ασι μεριμνα Οι δε γενεσθαι παρος εκ εον
ελπιζασιν Ητοι καταθνησκαν τε και εξολλυσθαι απαντη (6ο ), Αλλα κακοίς μεν
καρτα πελ4 κρατ€8 σιν απιστών, Ως δε παρ' η ιετερης κελεται πιστωματα μεσης
Γναθη διατμεζεντα ενι σπλαγχνοισι λογοιο (61 ) Ταυτα τριχες και φυλλα και
οιωνων πτερα πυκνα Και λεπίδες γιγνονται επί στιβαροισι μελεσσιν (62 ) αυταρ
ελικος οξυβελας νωτοισι δ ' ακανθι επιπεφρικασι (63 ). Της δαφνης των φυλλων
απο παμπαν εχεσθαι (64) 239 Col solito calor si forma il maschio Ma se l'utero
poi s'affredda a caso La famina ne vien. Stolti non lungi col pensier veggendo
Prendon lusinga di poter esistere Ciò, che innanzi non fu, o quel, ch'esiste
Potersi in tutto struggere, e perire. Il malvagio non crede, e non cedendo Alla
forza del ver, trionfo meni, Ma cosi detta, e vuole, che tu creda La nostra
musa. Tu dentro l'interno I detti scissi, ne penétra il senso. Della stessa
natura sono i peli, Degli arbori le frondi, e degli uugelli Le fulte piume, o
pur le squame sparse De' pesci sopra la ben soda carne. Ed il riccio marin, a cui
le spine Acute gli si arricciano sul dorso, Dalle foglie d' allor la man
ritieni 240 Τετο μεν εν κογχασι θαλασσονομοις βαρυνωτοις Και μην κηρυκαντε
λιθορρινων χελυωντε Ενθ οψε χθονα χρωτος υπερτατα ναιεταεσαν (65) Βυσσω δε
γλαυκης κροκο καταμισγεται (66). Φυλος αμουσον άγουσα πολυστερεων καμασκηνων(67
κορυφας ετεράς ετεραισι προσαπτων Μυθων μητε λεγαν ατραπον μιαν (68). Νυκτος
ερκμαιης αλαωπιδος (69). Αλφιτον υδατι κολλησας (7ο). θαλλαν Καρπων αφθονιισι
κατ ηερα παντ εγιαυτον (71 ). Ουδε τις ην κανοισιν Αρης θεος, ουδε Κυδοιμος
Ουδε Ζευς Βασιλευς, ονδε Κρονος, ουδε Ποσειδων Αλλα Κπρις Βασιλαα. 241 Del mar
le conche di pesante dorso, Il murice riguarda, e le testuggini Che son coperte
di petrose scaglie: Bene in questi aninai veder tu puoi Come del corpo sta la
terrợ in cima. Si mischia al bisso il fior del croco azzurro. La goffa turba
de' fecondi pesci Guidando Somma a sonima giungendo del discorso Per diversi
sentier prender cammino Della solinga tenebrosa notte Coll acqua unendo la
farina d'orzo. Germoglian ricchi di lor frutta in tutte Le stagioni dell'anno
in mezzo all' aria. Marte non han qual Nume, nè Minerva Del tumulto guerriero
eccitatrice: A Nettuno, a Saturno, Giove il rege hh ) 242 Την οιν' ευσεβεεσσιν
αγαλμασιν ιλασκονται Γραπτοις δε ζωοισι, μυροισι τε δαδαλεοδμοις, Σμυρνης τ'
ακρητου θυσιαις λιβανου τε θυωσους Ξουθων τε σπονδας μελιτων ριπτοντες ες ουδας
(72 Στανωποι μεν γαρ παλαμαι κατα για κέχυνται Πολλα δε σαλεμπη α τατ ’
αμβλυνεσι μεριμνας Παυρον δε ζωησι βια μερος αθροισαντος Ωκυμοροι καπνοίo δικην
αρθεντες απεπταν. Αυτο μονον πασθεντες οτω προσεκυρσεν εκαστος Παντος
ελαυνομενοι και το δε ολον ευχεται ευρειν Ουτως ατ’ επιδερκτα τα δ' ανδρασιν ετ
' επακιστα Ουτε νοω περιληπτα (73). ή και συ 80 επα ωο " ελιασθης
Πευσεαι.ε πλεον γε βροτάη μητις ορωρε (74). 243 Negano omaggio; e prestan solo
il culto A Venere Regina, che sdegnata Placan con santi simulacri, e pinti
Animali, e con mille odor, che l'arte Ingegnosa travaglia, o co' profumi Di
pura mirra, e d'incenso spirante Soave odore, e fanle sagrifizio Sopra la terra
il biondo miel spargendo. In parte angusta delle membra è sparsa La nostra
mente. Abbonda pur la cispa Ch' ottenebra il pensier, e ne' viventi Poch'è la
porzioni di vital forza, Che qual fumo sen fugge, allorchè morte Di repente ei
fura. E quindi ognuno, D' ogni parte sospinto, sol di quello, Cui per sorte s'
avvien, resta sicuro. Altero intanto di trovar presume Tutto, e saper ciò, che
non puossi ancora Nè veder, nè sentir, nè colla mente Comprendere dall ' uom.
Giacchè vagando in guisa tal ti scosti Prendi consiglio da ragion; che l'uomo
hh 2 244 Αλλα θεοι των μεν μανιην αποτρεψατε γλωσσης Εκ δ ' οσιων στοματων,
καθαρην οχετευσατε πηγην Και σε πολυμνηστη λευκο λενε παρθενε μεσα Αντομαι ων
θεμις εστιν εφημερoισιν ακ84ν Πεμπε παρ' ευσεβιης ελασσ' ευημιoν αρμα Μηδε σεγ
ευδοξοιο βιησεται ανθεα τιμης Προς θνατων αγελεσθαι εφ ω ' οσιη πλεον απον
Θαρσα και τοτε δη σοφιης επ ακροισι θοαζη Αλλα γαρ αθρεα πας παλαμη πη δηλον
εκαστον Μητε τιν οψιν εχων πιστει πλεον η κατ’ ακτην Η ακοην εριδαπών υπερ
τρανωματα γλωσσης Μητε τι των αλλων οποση πορος εστι νοησαι Γυιων πιστην ερυκε
γορα θ ' η δηλον εκαστον (75). 245 Col suo saper più oltre non s'inalza. Dalla
lor lingua, santi numi, tale Furor cacciate, e dalle vostre bocche La purissima
vena in lor sgorgate. Te Verginella bianchibraccia musa, Cui più corteggian
disiosi amanti, Te prego attente a porgermi l'orecchie A fin di quello udir,
che lice all ' uomo, E come te non pungerà la gloria Fiori a coglier d'onor
presso i mortali, Perciò più cose ti potrò svelare. Ma agitando i destrier
docili al freno Porta da Religion lontano il carro. Prendi fidanzı: andrai
ratta a sedere Di sapienza allor sull’ alta cima. Colla ragion contempla il
tutto, e vedi Ciascuna cosa chiarų si, che certa Ti si dimostri. Ne maggior la
fede Presta al senso di vista, che all' udito; Nè all'orecchio, che raccoglie i
suoni Credi più della lingua, che discopre Le cose. Nè all'una più, ch'
all'altra Credi di quelle vie, per cui ci viene 246 Πεση Φαρμακα και οσσα
γεγασι κακών και γηραος αλκας ετα μενω σοι εγω κρανεω ταδε παντα. Παυσις δ '
ακαματων ανεμων μενος οιτ' επι γαιαν Ορνόμενοι πνοιαισι καταφθινυθουσιν αρουραν
Και παλιν ην και εθελησθα παλιντονα πνευματ' επαξές Θησεις δ ' εξ ομβροια
κελαινα καιριον αυχμον Ανθρωποις θησας δε εξ αυχι8οίο θεραου Ρευματα
δενδρεοθρεπτα τα δ' εν θερι αησαντα Αξας δ ' εξ αΐδαο καταφθίμενου μενος ανδρος
(76). 247 La notizia de' corpi, ed il pensare. De' sensi in somma poni giù la
fede: Ti sia guida ragion, onde discerna In ogni cosa chiaramente il vero.
Quanti i rimedi fugator de' morbi, Come vecchiezza si conforti, udrai. Che
tutto a te io solamente suelo, De' venti infaticabili frenare L'ira saprai; che
con furor piombando Sopra la terra, col soffiare, i campi Guastano tutti; o pur
se n'hai piacere Concitar li potrai, se son tranquilli. Saprai d'inverno tra
procelle scure Produr di state il lucido sereno, O pur nel fitto della secca
state Produr le piogge, che nutriscon gli alberi, E del caldo l'ardor tempran
movendo Aure soavi. Giungerà tua forza Sin dall'inferno a richiamar gli estinti.
248 ΠΕΡΙ ΚΑΘΑΡΜΩΝ. Ω Φιλοι οι μεγα αστυ κατα ζανθου Ακραγαντος Ναιετ ακρην
πολεως αγαθων μεληδεμονες εργων χαιρετ. εγω δ υμιν θεος αμβροτος ουκ ετι θνητος
ΓΙωλευμα μετα πασι τετιμένος ωσπερ εοικε Ταινίας τε περιστεπτος στεφεσιν τε
θαλαιης Τοισιν αμ’ ευτ ’ αν ικωμα ες αστεα τηλεθοωντα Ανδρασι ηδε γυναιξι
σεβιζομαι. οι δ ' αμ' εποντα Μυριοί εξερεοντες σπη προς κερδος αναρπος Οι μεν
μαντοσυνεών κεχρημενοι οι δε τι νουσων Παντοίων επυθοντο κλύειν ευηκέα βαξιν
(77). Αλλα τι τοις δ ' επικειμ' ωσει μέγα χρημα τι πραση σών Ει θνητων περιειμι
πολυφθορεων ανθρωπων; (78 ). 249. DELLE PURGAZIONI. Salvete, o miei diletti,
abitatori Dell' alta rocca, e della gran cittate, Che del biondo Acragante
bagnan l’acque. Salvete, o cari, cui virtute è cura. Immortale sori Dio, nè
qual mortale Sto più tra voi, d'onor, siccom'è giusto, Pieno fra tutti.
Allorchè cinto il capo Di larghe bende, e di festanti serti Io porto il piè
sulle città fiorenti, Corrono, e maschi, e donne a darmi culto. E mille, e
mille, che là van col passo Dove dritto il sentier li mena al lucro, Ali
s'affollan d'intorno nel cammino: E mi seguono ancor quelli, che intenti Stansi
a svelar dell'avvenir gli arcani, Ed altri, che saper bramano l'arte Sagace di
guarir qualunque morbo. Ma perchè mi dilungo tali cose Nel riferire, quasichè
d'eccelse Gesta pur si trattasse, se vincendo Ogni mortal, sopra di lor
m’inalzo? ii 25ο Σ Εστι δε αναγκης χρημα θεων ψηφισμα παλαιον Ευτε τις
αμπλακιησι φονω φιλα γυια μιανη Δαιμονες οιτε μακραιωνος λελογχασι βιοιο Τρις
μιν μυριας ωρας απο μακαρων αλαλησθαι Την και εγω νυν αμι φυγας θεοθεν και
αλήτις Νακεί μαινομεγω πισυνoς (79). Αιθεριων μεν γαρ σφε μενος ποντον δε
διωκεα Ποντος δ ' ες χθονος ουδας ανεπτυσε γαιαδες αυ γας Ηελία ακαμαντος οδ '
αιθερος εμβαλε δινας Αλλος δ ' εξ αλλε δεχεται στυγερσι δε παντες (8ο αγα
λοιμωγατε και σκοτος ηλεσκέσις (81). 251 be E ' volere del fato, è degli Dei
Decreto antico, che s'alcun peccando Di quegli spirti, che sortiron vita
Lunghissima, lordò le proprie mini Quasi di sangue, sia costui cacciato Lungi
dall' alte sedi, in cui beata Vivon, vita gli Dei, e vada errante In репа del
fallir tapino in terra, Finché ritorni primavera ai campi Tre volte dieci mila;
ed un di questi Io son, ch' ora dal Ciel men vo lontano Vagando quà, e là esul
ramigo, Solo in poter di furibonda lite. } L'aria gli spirti, che falliro,
caccia In mar con forza, il mar li getta in terra, La terra li rigetta su
lanciando Del sole infaticabile ne' raggi, D ' aria nel turbo il sole infin gli
scaglia. L'un dopo l'altro van cosi girando, E tutti traggan pien di duolo i
giorni. Van per gli prati, e per lo scuro erranti ii 2 252 Ενθα φόνoστε κοτοστε
και αλλων εθνεα κηρων (82 ) Κλαυσα τε και κοκυσα ιδων ασυγηθεα χωρον (83 ) Ω
πoπoι η δειλον θνητων γενος ω δυσανολβον Οιων εξ εριδων εκ τε στoναγων εγεγεσθε
(84). Εξ οιης τιμης και οι μηκεος ολβα (85). Εκ μεν γαρ ζωων ετιθεα νεκρα «δε'
αμκβων (86) Σαρκων αλλογνωτί περιστελλασα χιτωνε Και μεταμπεχασα τας ψυχας (87).
Ηλυθομεν του ' νπ ' αντρον υποστεγον (88). Ηδη γαρ ποτ' εγω γενομενην κεροστε
κορητε Θαμνοστ’ οιωνοστε και εν αλι ελλοπος ιχθυς (89). Εν θηρσι δε λεοντες
οραλεχεες χαμαιεύναι Γιγονται σαν ναι εγι δενδρεσιν ηύκομοισιν (go ). 253 Ivi
la stragge, e l'ira, ivi tant' altri Mali hanno sede. Insolito abitar vedendo
piansi. Ah ! La razza mortal quant' è meschina ! Quanto infelice ! Quali
affanni, e liti Siete nati a soffrir ! Da quale onor son misero caduto, Da qual
grandezza di felicitate, Da vita a morte son, forma mutando L'alme involgendo,
e quasi ricoprendo Della straniera veste delle carni. inIn quest'antro coperto
al fin siam giunti. Fanciullo io fui un di, donzella, uccello, Albero, e senza
voce in mar fui pesce, Qual sopra ogn'animal s'alza il Leone Giacente in terra,
abitator de monti 254 Εν9 ' ησαν χθονιητε και Ηλιοπη ταναίτις Δηρίς θ '
αιματοεσσα και αρμονίη ιμερωπις Καλλιστω τ’ αισχρητε θοωσατε Δαναητε Νημερτης
τεροεσσα. μελαγκαρπος Ασαφια (91 ) Ξεινων αιδοιοι λίμενες κακοτητος απαροι (92).
2 φιλοι οιδα μεν εν οτ ' αληθαη παρα μυθους, Oυς εγω εξερεω, μαλα δ' αργαλειτε
τετυκται Ανδρωση και δυσζηλος επι φρενα πιστέος ορμη (93) Ουκ αν ανηρ τοιαυτα
σοφος Φρεσι μαιτεύσατο Ως όφρα μεν τε βιωσι το δε βιοτον καλεσιν Τοφρα μεν εν
εστι και σφι παρα δειγα και εσθλα Πριν δε παγασαι βροτοι λυθεντες τ ’ εδεν αρ'
εισιν(94 Αλλα το μεν παντων νομημον δια τ’ ευρυμέδοντος 255 Tal su gli arbor
fronduti il lauro eccelle. Chtonia gº era là con Eliope Di larghi occhi, e la
cruenta Deri Con armonia, piena d'amor, nel volto. Vera del par Thoòsa, e
Deinèa E la turpe Callisto, e insiem l'amabile Nemerte, ed Asafia, che il tutto
oscura O Gergentini di mal fürè ignari Degno porto d'onor degli stranieri. Io,
mici cari, so ben ', che nel mio dire Stassi la verità dentro nascosa, Ala
della fe la forza l'uom travaglia E pena, e dispiacer gli reca in mente. Saggio
non v'è, che possa con sua mente Pensar, che l'uomo mentre vive questa, Che
chiaman vita, esista solo, e colga E beni, e mali; si che l'uomo nulla Sia
prima il nascimento, e dopo morte. Ma questa legge pubblicata a tutti 156 '.
Αιθερος ηνεκεός τετατα δια τ ' απλέτε αυγης (95). Ου παυσεσθε Φονοιο δυσηχεος';
8κ εσoρατε Αλληλες δαπτόντες ακηδεμησι νοοιο;. Μορφήν δ ' αλλαξαντα πατηρ φιλον
υιόν αερας Σφαζα επευχομενος μεγα νηπιος και οι δε πορευντα Λισσομενοι θυοντες
οδ ' ανηκοστος ομοκλεων Σφαξας εν μεγαροισι κακης αλεγυνατο δαχτα Ως δ ' αυτως
πατερ' υιος ελων και μητερα παιδες Θυμoν απορραισαγτα. φιλας κατα σαρκας εδεσι
(96) 4. Oιμοι οτ’ και προσθεν με διωλεσε νηλεές ημας Πριν σχετλι’ εργα περι
χειλεσι μητισασθα ! (97 ) 257 Dell' aria si distende per l'immenso Splendore, e
l'alta region dell Etere Che per lunghezza, e per larghezza è vasto.? Ancor si
sparge per le vostre mani IL sangue gorgogliante degli animai? Ah non vedete
colla mente piena Di sprezzo, che sbranandovi, a vicenda Vi diorate? E che
mutata forma Il padre alzando il suo caro figliuolo Lo scanna, e pazzo grandi
cose prega Tutti color, che sacrifizj fanno, Sen van supplici orando; ma
quest'altro Nell'atto di scannar gridi mandando D' udirsi indegni, in segno di
minaccia Malvagio in casa desinar prepara. Cosi talora avvien, che danno morte
Il figlio al padre, ed alla madre i figli, E questa, e quel fucendo privi
d'anima Le care in cibo ne trangugian carni. Perchè crudele il di ah non mi
spense Prima, ch'avessi fatto il gran peccato D' appor tal cibo sopra le mie
labbra ! kk 558 Ταυρων δ ' ακρίτοισι φονοις και δευετο βωμος Αλλα μυσος τετ '
εσκεν εν ανθρωποισι μεγιστον Θυμoν απορρασαντας εεδμεναι ηϊα γυια (98 ). Τοι
γαρ τοι χαλεπησιν αλυοντες καιστησιν Ου ποτε δαλαιων αγιων λεωφησετε θυμον (99).
Ολβιος ος θαων πραπιδων εκτησατο πλετον Διαλος δω σκοτοεσσα θεων περι δοξα
μεμπλε (ιοο) Εις δε τελος μαντάστε και να τοπολοι και 1ητροι Και προμοι
ανθρωποισιν επιχθονίοισι πίλονται Ενθεν αναβλαστασιν θεοι τιμηση φεριστοι (101
). Αθανατους αλλοισιν ομεστιοι αυτοτραπεζοι Ανδρομεων αχεων αποκληροι εοντες
απειροι (102). 259 Non macchiava l'altar sangue innocente De’ tori un di. Ma
sommo allor misfatto Dagli uomin si credea privar dell' anima Gli animai, e
divorarne i membri in cibo. Chi dalla colpa, che da se molesta, E ' tormentato,
non avrà nell' animo Mai requie al suo misero dolore. Felice è quegli, che
possiede i beni Della mente divina, ed infelice E' quel, che male degli Di
pensando Ne porta tenebrosa opinione. 7 I vati infine, ed i cantor degl' inni I
medici, ed i forti capitani, Che de' terrestri uomini son guida Ivi rinascon Dü
d'onor prestanti. Nella stessa magion, a mensa stessa Stando cogli altri Dii,
d'ogni vicenda D'ogni umarło dolor futti già privi. kk 2 16ο Ην δε τις.ν
κανοισιν ανηρ περιωσια αθως Ος δη μηκιστον τραπιδων έκτησατο πλετον Παντοίων τε
μάλιστα σοφων επικράνος έργων Οπποτε γαρ πασησι ορεξατο πραπιδεσσι Ραγε των
οντων παντων λευσεσκεν εκαστα Και τε δεκ ' ανθρωπων και τ' ακoσιν αιωνεσσι (103)
ΕΠΙΓΡΑΜΜΑΤΑ Περι Ακρωνος • Ακρον ιατρον Ακρων ακραγαντινον πατρος ακρου Κρυπτα
κρημνος ακρος πατριδος ακροτατης Τιγες δε το δευτερον στιχον ουτω προφέρονται
Ακροτατης κορυφής τυμβως ακρος κατεχα (104) 261 5 Tra quelli o'era l' uom sopra
d'ogn ' altro Eccelso nel saper, che della mente L' altissimo tesor chiudea.nel
seno. Egli pieno d'amor tutti indagava De' sapienti i fatti, e le scoperte
Dotte di lor. E quando del suo spirto Ogni forza intendeva, ad una ad una Tutte
schierate le cose reali In dieci o venti secoli abbracciando Rapidamente col
pensier vedea. EPIGRAMMI INTORNO AD ACRONE. L'alto di gran saper medico Acrone,
Nato dun alto padre in Agrigento Alta, rupe tien alta per sepolcro Della sua
patria posto in alta cima. Alcuni leggono così il secondo verso Alta tomba
ritien sull' alta cima аба. Περι Παυσαγικς Παυσαγι: ιητρον επωνυμον Αγχίτου
υιον Φωτ’ Ασκλεπιαδης πατρις εθρεψε Γελα Ος πολλούς μογεροίσι μαρανομένους
κεματοισι Φωτας ατέστρεψαν Φερσεφονης αδυτων (1ο5).. Δειλοί πανδειλοι κυαμας
απο χειρος, εχεσθαι, Ισον τοι κυαμες τρωγειν κεφαλασθα τοκων (106 ) Ναν μα τον
αμετερας σοφίας ευρoντα τετρακτην Παγον αεγνας φυσεως ριζωμα τ' εχεσαν (107).
263 Di Pausania. Il medico che nomasi Pausania E' d' Anchito figliuol', è
discendente Degli Asclepiadi, ed ha per patria Gela, Che lo nutri. Costui molti
languenti I'er penosi malor dalle segrete Di Persefone stanze a forza trasse.
Versi d' incerto Autore attribuiti da alcuni ad Empedocle. Scostate, o miseri,
del tutto in felici Dalle fave la mun: mangiar di queste Egli è privare i
genitor del capo. Giuro per quel, che nella nostra scuola Scoperse il qucttro,
che racchiude il forte, E la radice eterna di natura. ANNOTAZIONI ALLA R A O
COITA D E FRAMMENTI. ANNOTAZIONI ALLA RACCOLTA D E FRA MM EN TI. (1 ) Questo
verso si trova presso Laerz. 1. 8 in Emp. Egli dice ny de o lavraylas spwjeevas
αυτε, ω δη και τα περι φυσεως προσπεφωνηκεν Pausania era amato da Empedocle, e
que sti gli intitolò il suo poema sulla ' natura E siccome questo verso forma
la dedica; cosi si è collocato il primo. La frase per quanto pare è Omerica
come si può vedere Iliad. 11 V. 450 Iliad. 1: V. 451. (2 ) Presso Simplicio de
Phys. aud. l. 8 p. 272 ediz. d'Aldo. Perchè questi due ver si si suppongono
dagli altri, che li seguono, si son collocati prima. Per altro Plut. de exil.
afferma che cosi cominciava la filosofia d'Empedocle. (3 ) IL 2. 3 verso son
rapportati da Laerz. 11 2 263 che se 1. 8 in Emp. I primi tre da Sext. Emp.
adv: Phys. 1. ģ, da Plut. de Pl. Ph. l. 1 cap. Tutti quattro poi da Stobeo Ecl.
Phys. 1. i p. 26. Questi si sono premessi per la ragio ne ch'esprimono i
quattro elementi, che sono base di tutta la filosofia d'Empedocle. Si conviene
da tutti che sotto Giove è in: dicato il fuoco, e da Nesti l'acqua, condo
Vossio de Idol. 1. 2. cap. 7 e Fabricio nelle note à Sesto Empirico deriva da
yalay fluere. Vi è solo un disparere tra gli Scitiori per gli due simboli.
Giunone e Plutone. Pois chè secondo Cic. de Nat. Deor. l. 2.cap. 26 Plut. l. 1.
cap. 3. de Pl. Ph. Macrob. Satur. l i cap. 15, da Giunone è espressa l'aria; ed
al contrario giusta Athen. Apol. 22. Achill. Tazio in Arat. Laert. I. 8 in Emp.
Stobeo Ecl. Phys. 1. i Heracl. Allegaz, Omeriche,p. 443., -sotto il simbolo di
Giunone è indicata la terra. E però per questi Plutone era la• ria, e per
quelli la terra. Aïd oyeus in luogo di aïdris Om. 11. 20 V. 61. Esiod. Theog.
v. 913. Hpn epoßios Omer. Hyinn. in matr. o. mnium '. Nella traduzione si è
formato GIOTATO 2 per tmesi. 269 9 col. (4 ) Di questi versi il 7 e l'8 sono
riferi ti da Laerz. in Emp. I. 8. Stobeo Ecl. Phys. 1. 1 p: 26. Dal 10 sino al
15 si trovano presso · Arist. Natur. Auscult. l. 8 cap. 1. Il. 22 presso Ciem.
Alex. Strom. I. 5., ed il 21 e 22 presso Plut. Amat. Tutti poi eccetto il g e'l
10 sono rapportati da Simplicio de Phys. Aud. I. 1 p. 34 ediz. d'Aldo. Siccliè
si è supplito il 10 con Aristotile, e'l lo stesso Simplicio come si vedrà alla (10
). Questi versi che sono al numero di 36 fan parte del primo libro della natura.
Poichè lo stesso Simplicio dice chiaramente sy 7pUTW TO φυσικών.99 και nel
primo libro delle cose fisiche I versi 3, 4, 5 pajono d ' essere un'imi,
täzione d'Omero. II. 6.v., 146, e 149. Il 5 portá P&T Th, ma si è cangiato
in.dpuntu come più confacente al senso. Nel 6 in luo go di xdcepecei dinge si è
posto 8T0T€ anges.co me Omero. Il. -10. V. 164. Nel z la paro la Qiaotati
amicizia non significa in verità che ainore, siccome fa Omero. Il. 6 v. 161 c
in quasi tutta l'ariade che dice QLXOTNTO felgympia rab. Dal 7 al 12 sembra di
essere una sem 270 * plice imitazione d' Esiodo nella Theog. Poichè Empedocle
mette in contrasto l'amore e lo dio come Esiodo fa colla notte e'l giorno. Ne’
versi 6, 13 e 32 si trova la parola ' deau Trepes. collocata nello stesso modo
che suol fa re Opiero. Il. 10 v. 325 e 331. II. 12 v. 398. II. 19 v. 272. Odys.
4 V. 209. Odys. 7. v. 96. Odys. 10 v. 38. Odys.. 14 v. 11. Sicchè pare che
l'orecchio d Empedocle era educato al suono de' versi Omerici, Nel verso 14
aloy Euroly alla maniera d'Omero. Il. 1 v. 290. Nel 16 reipata pewIwon siccome
0. mero παρατα τεχνης. Nel 20 1 ’ αταλαντον co me Il. 15 v. 302. Nel 21 è da
dirsi che intanto, l'amicizia sia di lunghezza e larghez za eguale, in quanto i
corpi possono risulta re da parti eguali de quattro elementi. Al meno questa
interpetrazione pare più confa cente al suo sistema; se non si vuole abbrac
ciare quella, che deriva dal pittagoricismo, per cui il numero quattro era il
più perfetto. Nel 22 100. TEINTWS per attonito e Omerico. II. 4 v. 246. Nel 24
cina poves's dovrebbe esser nominativo giusta la Grammatica. Na si v. 271
lasciato in accusativo; perchè gli Attici alcuna, volta, coře si vede presso
Aristof. in avibus, sogliono usare l'accusativo in luogo del nomi nativo.
L'epye texti si trova spesso in Omero e in Esiodo: cosi Odys. 7 V. 272.Esiod.
Theog. V, 89. Il 25 è simile a quello dell' Iliad. 9 v. 558, e pile d'ogni
altro ad Esiod. Theog. v. 595. Nel 27 laratnaon è d ' Omero. II. 1 v. 526. Nel
30 il Trepiadojevolo è pari mente adattato al tempo e all'anno presso Omero'.
Odys. iv. 16 ed Esiod. Opera v. ' 384. Nel 31 si osserva l'id atoange in fi. ne
del verso come in Omero. Il. 6 v. 149. (5) I versi 12 e 13 si trovano presso
Arist, Poet. cap. 25, e Ateneo lib. 10 p. 424. Tutti poi sono rapportati da
Simplicio de Phys. aud. 1. i'p. 7 d' Aldo. Essi sono stati posti nel primo
libro del poema; perchè Simplicio li riferice come quelli che precedeano altri,
che da lui sono notati per versi del primo lix bro προ τετων των επων • Nel
verso 7 è 11 si è scritto a Jey.TTW5 in luogo di queuent Ews come si legge in
Sims plicio. Nel 10 si trova vtsupper feri ch'è d' 272 Omero II. 9 V. 502,
Nell'ultimo, si ha l espressione Jaunese idiogui ch ' è comune presso Omero ed
Esiodo: cosi Il. 18 v. 83. Odys. 13 v. 108. De scụto Herc. v. 140 ', ed in
tanti altri lunghi dell' uno e dell'altro poe ta. Teocrito nell' Idyl.. 17 v.
77. non è dif ficile che avesse imitato Empedocle, dicendo egli εθνεα μυρια
φωτων α εinmiglianzα di quel che dice il nostro poeta nel 8 verso e nel 14, (6
).Simplic. de. Phys. aud. I. 1 p. 7. Quer sti versi sono quegli stessi innanzi
a' quali di ce Simplicio ch' erun collocati quelli della na: ta (5 )..... L'
epiteto Truji Payowymi è Omerico. II. 8 v. 320 e 435. Orfeo nell'inno all'
etere, chiama l ' etere dotepo@ eyzes (7 ) I primi tre' versi sono presso
Arist. de anima li i càp. 7, e tutti presso Simp. de Phys. aud. I. 2 p. 66 Aldo.
Simplicio af ferma che appartengano al primo libro d' Em. pedocle λεγει εν
πρωτω. Ε come sono dello stesso tenore della nota (6); cosi si sono si tuati
vicino a quelli. Nel 1 verso επικαιρος in luogo di επίκρανος 273 è d'Omero. II.
1 v. 572, e il v. 572, e il xoayolai é ' Esiod. Theog. v. 865. Nel 3 l’ oGTEL
deuxa è parimente d ' Esiod. Theog. v. 540, e 557 e d'Omero. Il. 24 v. 793. (8
) I primi due versi si trovano presso Plut. de primo frigid., e il 7, 8, 9
presso Arist. de gen. et corrupt. Tutti presso Simpl. de Phys aud. l. 1 p. 8, e
nella pag. 34 sono pre ceduti da due seguenti versi. 1 እእእ. αγε
των δ * οαρων προτερων επί μαρτυρα δερκεί Ει τι και εν προτερoισι λιποξυλον
επλετο μορφη • 1 Di questi due versi non si sa che voglia dire quel Altofurov
legno pingue: Perchè pa-. re ch? Empedocle voglia rapportarsi a' prece: denti
colloquj dove forse v'era qualche for. ma Altrotuloy. Si è cercato di
sostituire Action Yugov, ma neppure s intende. Però si sono trascurati nel
testo questi due versi. Nel 3 verso si legge presso Plut. Svopa EVTA xep ply a
negyté, ch? è spiegato tenebroso, ed crribile. Ma come non si sa ď' onde poss m
m 274 sa derivare played soy si è sostituito plyndor, che più si conviene
all'acqua. Indi è che si è scritto VIOOEYTA,xoh pigns.ovte. E' vero che il vero
so diventa spondaico; ma gli epiteti dell' ac qua sono più confacenti alla sua
natura, e corrispondono più all'intendimento d'Empedo cle, che in questi versi
vuol dare i caratteri di ciascuno dei quattro elementi, siccome at testa
Simplicio de Phys. aud. - p. 7. Nel 4 προρε8σι θελυμνα τη luogo di προθελυμνα.
It' 9 vi 537. Il 5 verso è simile a quello d. Omero. Il. 18 v. 511, ilil 7 al
v. 70. Il. e al. v. 38 d' Esiod. Theog., e l'8 al v. 163 Odys. 15. Nel 9, e 10
l ' epiteto de' pesci υδατοθρεμμονες, e quello degli Dei δο. arxay wres sono
tutti due propj d'Empedocle; giacchè non si leggono presso altro poeta. Il
Tlpenoi Ospirtoi pare che sia preso dal v. 494 1 11. 9 • (9 ) Simplic. de Phys.
aud. 1. 1 p. 34. Egli li rapporta dopo quelli della nota (8) e dice, che
Empedocle li soggiunge in esempio. Non v'è quindi dubbio, che debbono essere
collocati nel primo libro, e dopo di quelli. Vi 275 si trovano alcuni versi
ripetuti alla maniera Omerica, e nel g versa ľws YÜ XEV come nel v. 749 Il. 11,
e nel v. 11 della Theog. d' Esiod. Nel 10 si e mutato l'acheta in fore, e nell'
11 vi si troνα μυθον ακεσας nel miodo stesso d'Omero II. 7 v. 54. Odys. 2 z v:
560, (19 ) Simplic. de Phys. aud. l. 1. Costui, dopo d' avere rapportato i
versi delle note (8) • (9 ) 80ggiunge και ολιγον δε προελθων αυθις Çnti. Però
si son collocati dopo, e come ap partenenti al primo libro. Il 7 di questi ver
si è quello stesso, ch ' è stato inserito da 9 nes versi della notą (4). (11)
Il 2 verso si trova presso Plut. net lib. de adulat. et amici discrimine: il
terzo presso Aristot. Metaph. 1. 3. cap. 4.- Tutti tre presso Clem. Alex. Strom.
I. 6. Il secondo verso, si rapporta d'alcuni ne: pos nilov ufos, ma Empedocle
nel 19 della nota (4) dice c7 NETOV, e per altro pare più armonioso ed Omerico.
Questi versi, come quel li, che indicano i quattro clementi ', non si possono
collocare che nel primo libro. m m 2 276 ! (12 ) Arist. Metaph. l. 3 cap. 4.
Simplic. de Phys. ' aud. 1. 6 p. 272. Plutaroo nel lib. de Reip. geć. praecept.
vi allude dicen da τιμας ονομαζω κατ' Εμπεδοκλεα. Questi ver si non possono
appartenere, che al primo li bro; perchè in esso dichiara Empedocle le due
forze amicizia e lite. (13 ) Simp. 1. i de Phys. aud. p. 34. La parola aprice
del primo versa può significare pari di numero, perfetto, ed adatto. Si è
tradotta pari; perciocchè si è trovato che i corpi, di cui Empedocle enumera le
parti de gli elementi, da cui quelli son composti, non sono che di numero pari.
Cosi l'ossa di oi to parti nota (7 ), la carne di parti eguali de quattro
elementi nota (6 ) et.. (14 ) Arist. de Gen. et Corrupt. l. i cap. 1, e De
Xenoph. Gorg., at Zenon. Plut. de Pl. Ph. l. 1 e adv. Golot. Si sono collocati
nel primo libro perchè Plutarco dice chiaramente de Pl. Ph. l. i λεγα δε ετως
και των πρώτων φυσικών και Anno de Tol spaced è modo turto ď Omero II. 1 v.
797. Odys. 11 V. 453. Odys. 10 2: 7 V. 495 ec. L'a.JavaTolo TEMBUTn è d' Esiod.
in Scuto Herc., ' e nell'ultimo verso Bpomois "QvIpomolol è maniera greca
che spesso si tra, va presso Omero ed Esiodo che dicono Bpotox ardpa. Il Duris
nel principio come opposto a 76 deutn pare che indicasse la nascita. Ma co me
in fine significa natura si è lasciato cob. la sua propia significazione di
natura. (15 ) Plut. adv. Colot. Questi versi, come si vede dalla materia, sono
una continuazio ne di que' della nota antecedente. Si sospetta che questi versi
fossero sta ti alterati da qualche copista. Vi si osserva ows per uomo in
genere neutro, che suol esa sere presso i Greci di genere maschile. (16 )
Simpl. de Phys. aud. 1, 2, pag. 85 Aldo. E siccome queg!i dice « TOTO'S AS T8
Εμπεδοκλεας εν τω δευτερη των φυσικών προ της ανδριων και γυναικιων σωμάτων
διαρθρωσεως TAUTU TC ETn, Empedocle nel secondo libro delle cose fisiche canta
questi versi prima di parlare della formazione e articolazione de' corpi de
maschi e delle femine Non vi ha 278 quindi alcun dubbio, che questi versi fan
par te del secondo libro, e che il soggetto di que. sto libro si versa sulla
nascita degli uomini, e de' corpi de' maschi e delle femine. Però è, che tutti
i versi che riguardano la formazio ne degli uomini, e de' loro membri, e delle
parti del corpo umano e loro funzioni sono stati da noi posti nel secondo libro.
IL 3 verso è un'imitazione d'Omero nel v. 157 dell' Iliad. 4, 810Quais secondo
Simpli cio esprime la massa tutta, del seme, che an cora' non indicava la forma
de' membri. (17 ) Aeliano de Nat. anim. I. 16 cap. 29. Le forme descritte in
questi versi sono ricor date da tutti gli antichi scrittori come singo lari.
Cosi Arist. Nat. ausc. l. 2. cap. 8. Es se non poterono durare, perchè non eran
tra loro convenienti. Di quando in quando ne na. sconto de' simili, e questi
sono i mostri.: (18) Simpl. de coelo 1. 2. Arist. de coel. 1. 3 cap. 2. De Gen.
I. i cap. i8. Isaac. Tzetze in Comm. ad Lycophr. Epi vax65 • (19 ) Simpl. de
coelo l. 2. (20 ) Simpl. de Phys. aud. 1. 8 p. 258 279 Aldo. Nel terzo verso si
è spiegato pngjely! al la maniera d'Omero Il. 1. v. 437. Nel 6 e nel 7 - sono
da notarsi ud poplene Opols, opsta μελεσσι, € πτεροβαμμoσι κυμβας clie sono ma
niere originali d' Empedocle. (21 ) Aristot. de respir. cap. 7. Questo è il più
bel frammento d'Empedocle, e forse l ' avanzo più, venerando dell'antica fisica,
in cui non solo si spiegà da Empedocle il modo a suo credere del nostro
respirare, ma si di mostra eziandio il peso, e la molla dell' a. ria. Egli è
stato tradotto per quanto si può letteralmente, e solamente si è ito aggiungen.
do talora la forma della clessidra, senza di che non si avrebbe potuto
chiaramente com prendere Il coros del 4 verso corrisponde al cruor de’latini.
Il. 16 y. 162. Chi si conosce – Omero può accorgersi come va adattando Em.
pedocle tutte le parole e frasi d'Omero nel 5. sino all ': 8 verso. Lo stesso
WTTEL OTAY Trays è ď Omero nel v. 362 Il. 15.. L'EPOMBAEOS, che Omero applica
ail' acqua'. Ili 16 v. 174, Empedocle l'adatta alla duttilità del bronzo 200
Verso. It all'acqua, nel 9 TEPEY Ejedes dell' 11 è d' 0. mero Il. 14 v. 406.
L'autap ETHTU nel 15 è forma parimente Omerica Il. 11 V. 304 Odys. l. 9 v. 371
ec. L'ayrilor ud wp nel 16 si trova applicato al giorno in Oniero, e qui che
non può esser fatale se non per che nella clessidra è destinata a notare le ore
che scorrono. Nel 18 verso Bpotew Xpor presso Esiod. Opera è preso per umano
corpo, qui per la mano. Nel 20 ilil duonysos è applica to alla guerra. Il. v.
395 ec. Da Empedocle si acconcia al gorgogliamento dell'acqua (22 ) Arist. de
sensu et sensili lib. i cap. Nel 2 verso σελας πυρος αθομενοιo e d ' Omero. Il.
9 v. 559. Il. 10 v.. 246. II. 11 v. 219. II. 6 v. 282 ec. Il 24uepiny νυκτα e
simile all' αμβροσιην δια νυκτα d' O mero. Il. 2. v. 57. Nel 3 si trova apopg85
ch'e' una metafora, quasi che le lanterne di fendendo il lume da venti se li
succhiassero; giacchè quopges vuol dire succhianti. Il mayo Town dyepewr Odys.
5 v. 293 e 304. Nel 4 verso il divanid ve si aeyrwy si trova in Omero Il. 5 v.
526. Nel 5 ci ha un epiteto de' 2. Nel dia 282 indomiti; per raggi ch ' è molto
ardito UTCpert chè non sono vinti dalla notte. La stessa pa rola walioruto nel
i verso per preparare è Omerica. Il. il v. 86 '. In quanto poi alla costruzione
delle lanterne è da dirsi, che for se allora erano di corno trasparente. (23 )
Il i e gli ultimi due versi presso Giov. Tzetze Chil. 5 p. 382. Il 2 presso
Theod. de Curat. Graec. l. 1. IlIl 22,, 3, e 4 pres SO Clem. Aless. Strom. 1.
5. Dal 5 sino all ' ultimo presso lo stesso Giov. Tzetze Chil. 13 p. 476. Gli
ultimi due versi sono anche rap portati da Chalcid. in Tim. Pl. Essi sono sta
ti tutti disposti nell' ordine, in cui sono no tati, che sembra non esser
disconveniente, e fanno certamente parte del lib. 3. Poichè Tzetze nella Chil.
7 p. 382 nel rapportarli soggiunge Εμπεδοκλης τω τιτω των φυσικων δεικ: VUOY
TIS ' N. sold togey το θεα κατ' επ'ος ετω λεγων. 9, Empedocle nel terzo libro
delle cose fisiche. volendo indicare quale sia la sostanza di Dio dice cosi Il
pendea nel senso in cui qui lo pigliu Empedocle è comune ad Omero nell' Odissea
n n. 282 o ad Esiodo nella Theng. (24) Clem. Alex. Strom. 1. 5. Il. 1 ver so
manca d'un piede, e si potrebbe compiere leggenda Ει ο αγε τοι μεν εγω λεξω. Vi
si os serva poi la stessa maniera d Oniero nell ' ap porre degli epiteti al
mare, all'aria, aile tere. (25) Athen. Dipnosoph. 1. 8 p. 334. Il devd pece
pecupce è d'Omero. Il. 9 v. 537. Lo stesso Athen. nel medesimo luogo attesta
che tutti i pesci da Empedocle furon chiamati zce paglves. (26 ) Aristot. 1. 2
de coelo cap. 8 e De Xenoph. Zenon, et Gorg. Gli ultimi due versi presso Clem.
Aless. Strom. 1. 6. (27 ) Plut. de Pl. Ph. I. i cap. 18. Theo dort. de mater.
et mundo Serm. 4 p. 1080. (28) Plut. Symp. l. 4 quaest. 1. Macro bio Saturn. l.
7 p. 521. E siccome in Plut. si leggono alterati; cosi sono stati correlti con
Macrobio. (29 ) Plut. quaest. Nat. p. 916. (30 ) Plut. quaest. Nat. p. 917, et
de Curiosit. Alcuni leggono Keuuata, altri rappese. (283 ra, ma si è sostituito
xeu-ged, che pare più acconcio al senso dell'autore (31 ) Arist. Nat. Auscult.
1.? cap. 4, e De Part, Anim. I. i cap. 1, Simpl. I. Phys. (32 ) Simpl. de Phys.
and. I. 2 p. 73. (33 ) Simpl. 1. 2 de Ph. aud. p. 23. L' epiteto de incepa come
dice ' Hesichio' è propio d' Empedocle.; ed il polyurgadins d'Omero II. 1 v.
352, (34) Simpl. l. 2 de Phys. aud. p. 74 Aldo. (35) Simpl. 1. 2 nel med. luog.
(36) Simpl. 1., nel med. luog. (37) Simpl. 1. 2 de Ph. aud. p. 73. (38 ) Simpl.
l. 8 de Ph. aud. p. 272. (39 ) Plut. in l. non posse suaviter vivi jut. xta
epicuri decreta. (40 ) Simpl. de Ph. aud. l. 8 p. 272. (41 ) Simpl. nel med.
luog. (42 ) Simpl. nel med. luog. (43) Arist. de Gen. et Corrupt. l. i cap. 6. (44)
Simpl. de coelo Com. 21. p. 88. (45 ) Arist. de Gener. et Corrupt. 1. i cap. 6.
La frase zgova dupsyo, presso Omero Il. 6 y. 411. nn 2 284 (46) Plut. quaest.
Nat. p. 916. (47 ) Arist. de Gener. anim. 1..1 cap. 18. (48) Arist. de Gener.
anim. I. 4 cap. 1. (49) Plut. nel lib. de Amic. multitud. (50) Arist. de Gener.
anim. 1. i cap. 23. Alcuni leggono μακρα δενδρεα. (51 ) Plut. quaest. Platon.
p. 1006.4. (52 ) Plut. de fac. in orbe lunae dove in luogo d' ožupeans è da
leggersi očußeans e in vece di naiyo Iraupe come si è rapportato nel. la nota
(35). (53) Plut. de fac. in orbe lunae. Questi versi sono stati corretti da
Xilandro. (54) Arist. Metaph. l. 3 cap. 4 de anim, 1. i cap. 2. Sesto Emp. adv.
Gram. l. i cap. 13 e adv. Log. l. 7 Chalc. in Tim. cap. 21 p. 131. Pare che in
questi versi Empedocle abbia imitato Omera Il. 13 v. 31, e Il. 16 v. 215. Il
tip apo ndoy Omerico. Il. 2 v. 455. L'epiteto della lite rugpw, che da Omero si
adatta alla vecchiaja, e talora alla ferita ec. è situato in fine del verso
come in Omero II. 5 v. 153, e Il. 10. v. 79. Il. 16 v. 393 ec. 285 3. (55 )
Sext. Emp. adv. logic. l. - 8 p. 512. (56) Stobéo Ecl. Plys. l. 1 p. 131. L'
última verso è anche rapportato da Chalcid. in Tim. Pl. p. 29,, ed è un
imitazione di quello d' Esiodo nella Theog. 7 spe pezy 750" T δες, περι δε
εστι νοημα • (57 ) Aristot. de anima 1. 3 сар. (58) Aristot. de anima" nel
med. luog. (59 ) Aristot. de Gener. 1. i cap. 13. (60) Plut. adv. Colot. (61 )
Clem. Alex. Strom. l. 5 Theodor. de curat. aegritud. Ethnic. Acciaolus Theod,
interpres I. i contra Graecos. (62 ) Arist. Meteorol. l. 4 cap. 9, atspao TURVO
è d ' Omero. Il. 11 y. 454, e otißola pous pedeerol è d ' Esiodo opera v. 148. (63
) Plut. Symp. 1. i cap. 3. Deve lege gersi andyl. (64 ) Plut. Symp. 1. 3.
quaest. 1. (65) Plut. Symp. I.,1 quaest. 2, e nel lib. de fac. in orbe lunae. (66)
Put. de Orac defectu. Per finire il verso si è supplito nella traduzione artos.
(67 ) Plut. Simp. I.? quaest. 10, 286. (68) Plut. de Orac. defect: (69) Plut.
Simp. 1. 8 quaest. 3. (70) Arist. Poet. cap. 25 c Meteor. l. 4. 71) Theophr. de
Caus. Plant. 1. i cap. 14. (72 ) Athen. Dipnosoph. l. 8 p. 365. Que sti versi
si son collocati come appartenenti al poema 'della natura; perchè parlano di Ve
nere, che indica l'amicizia. Vi si trova il Soydan codpots parola composta da
Empedocle, che non si legge in altro poeta. Si dee lege gere Κυπρις nel testo, e
non Kπρις. (73 ) Sesto Emp. adv. Log. 1.? Gli ul. timi due versi sono anche
rapportati da Plut. nel 1. de áud. Peet. Nel 2 yerso Scalig. legge suve ETEITA,
ed Erric. Stef. dely ETECL; ma ne' MSS. si trova SaneM.T, Si è quindi
conservata, come sta ne' MSS., e si è ritratta da dep @ os che più s' adatta al
senso dell'autore. Questi versi unitamente agli altri delle note (24) e (75 )
sono riferiti da Sesto Emp. come quelli, che con poche interruzioni si suc
vedono. E come Empedocle si dirizza ad un solo, ch'è Pausania;' cosi tutti fan
parte del 287 Chil. 1, pra poema sulla natura, (74) Sesto Emp. adv. Log. l. 2 (75
) Sesto Emp. nel med. luog. (70) Laerz. in Emp. 1. 8. Joan. Tzetze I versi 3, 4,
5 sono anche pres. so Clen). Alex. Strom. 1. 6. Nel 5 si legge d' alcuni
παλιγτιτα c d' altri παλιντινα; mα da Casaub. si vuole raditova, e fondasi so
Suida. Nell'ultimo verso è da notare che il sanare gl' infermi si esprime,
presso gli an tichi avastne dall'inferno. Plut. in amat. Horaz. l. 2 Sat. 1 V.
82. (77 ) Laerz. l. 8 in Emp. I versi 3 € 4 si trovano presso Sesto Emp. adv.
Gramm. 1. i cap. 13, e presso Philost. Vit. Apoll. Se condo Laerzio cosi
Empedocle avea dato prin. cipio al suo poema delle purgazioni cvcpzopese νός
των καθαρμων φησίν. (78) Sesto Emp. adv. Gram. I. 1 e Laerz. in Emp. 1. ' 8.
Sesto Empirico mette questi due versi dopo quelli della nota (77 ) e soge.
giunge nas nary. Sicchè icon c'è dubbio che appartengano alle purgazioni. (79)
Plut. de exil. I. 2, e l'ultimo meza 288 zo verso è presso Hierocle in aur.
carm., il quale lo ' rapporta unitamente al penultimo ως Εμπεδοκλης Φυσι ο
Πυθαγοραος • (80) I primi tre versi presso Plut. nel lib. de vit. aere alieno,
e tutti quattro presso lo stesso Plut. de Isid. et Osir., e presso Eusebio. (81
) Hierocl. in aur. carm. (82) Hierocl. in aur. carm. (83 ) Clem. Alex. Strom.
1. 3. (84) Clem. Alex. Strom. I. 3 0 70xO1 peegee herdos Il. 1 v. 254. (85)
Clem. ' Alex, Strom. I. 3. (86) Clem. Alex. nel med. luog. (87 ) Stob. Ecl.
Phys. 1. i. (88 ) Porph. de Antr. Nymph. Ediz. di Van - Gcens p. 9. (89 ) Clem.
" Alex. Strom. 1. 5 Origen, Phy losophumera. Phil. in V. Apoll. Athen.
Dipn. In luogo di do7Os, che è un epiteto dato da Esiodo e da Poeti Greci al
pesce, presso d' al.cuni si legge eurupos. A prima vista pare che l' epiteto
ignito non abbia luogo; mu ove si voglia riflettere che giusta Empedocle, gli
ani mali molto caldi cercarono l'acqua, ed ivi 289 soggiornarono, si può
comprendere in qual senso abbia potuto adattare al pesce l ' epiteto Europos. (90)
Eliano de Nat. anim. I. 12 cap. 7. Questi versi appartengono al poema delle pur
gazioni. Perchè Eliano nel rapportarli soggiun ge λεγει δε και Εμπεδοκλης την
αριστην αναι με: τοικησιν την τα ανθρωπου ει μεν ας ζωον η ληξις αυτην μεταγαγα
λεοντα γινεσθαι και δε ας φυτον dadyny. » Empedocle dice che ottima sia da
stimarsi la trasmigrazione dell'uomo, se do vendo passare in un bruto la sorte
lo porta nel corpo del leone, e se in una pianta lo porta nell' alloro L'
epiteto ηύκομοισιν Ο. mnerico. (91 ) Plut. de animi tranquill. L'epiteto
έροέσσα e d' Esiodo che dice Θαλιη εροεσσα και ma non s' intende quello di
μελαγκαρπος che vuol dire produttrice di frutti neri che Empe docle adatta ad
Asafia o sia al genio dell' oscurità. Giovanni Tzetze Chil. 12 dice Ecco
πεδοκλης προ παντωντε φιλοσοφος ο μέγας • γα γαρ την ασαφα αν μελαγκορον
υπαρχαν ως κελαινωπας τον θυμον ο Σοφοκλης που λεγα 25 * Ο Ο 290 SO • Empedocle
filosofo, grande sopra d'ogn'al tro, chiama Asafia o sia l'oscurità di nera
pupilla conie Sofocle dice l'animo di nero via In sostanza poi vuol qui
indicare Em pedocle quello che noi diciamo animo cupo, che tutto è coperto, e
tutto fa con riserva. (92 ) Diod. Sic. Bibl. Hist. 1. 13 p. 204. (93) Clem.
Alex. Strom. 1. 5. (94) Plut. adv. Colot. L'ultimo verso è stato corretto da
Giov. Clerc. Bibl. Choisie Tom. 1. (95) Arist. Rhet. l. i cap. 13. Si son
collocati in questo poema delle purgazioni; perchè Aristotile dice che
riguardano la proi bizione d uccidere gli animali. xoy ws EyeTedo κλης λεγα
περι τε μη κτιγαν το εμψυχσν. τετο γαρ τισι μεν δικαιον τισι δε και δικαιον. »
Co me dice Empedocle parlando della proibizione d' uccidere qualunque animale.
Poichè que sto non può essere giusto per alcuni e per al tri nò L' epiteto
supurtedortos é d' Omero e quello d'atletoy è d ' Esiodo. (98 ) Sesto Empir.
adv. Phys. I. 9 p. 580. Plut. de Superst. Nel 5 verso l'entBTT05 si 291 è
tradotto per indegno d'essere udito come půs letterale. Na potrebbe avere due
altri sensi cioè: da non essere compreso, o pure come colui, che è pieno di
Qyaxer 116 che vuol dire contumacia, o inobbedienza; perchè senza di ciò non si
ritrae un senso che sembra ragio nevole. Nel 6 a legurato d'apra è d' Omero
nell' Odys. 13 v. 23. (97 ) Porphyr. de non necandis ad epulan dum animalibus l.
2 pag. 137 ediz. di Lio ne 0285dic epga per scelleraggini è d'Omero Odys. 14 v.
83. (98 ) Porphyr. de non necandis ad epul. anim. I. 2 pag. 131. Il primo verso
somiglia a quello ď Omero Il. 24 v. 69. Alcuni leg, gono appatolor in luogo d '
cxpitolob. (99 ) Clem. Alex. exhortat. ad gentes. Awe Q10ste Odys. 11 v. 460. (100
) Clem. Alex. Strom. I. 5. (101 ) Clem. Alex. Strom. I. 4 Bpotol o pu. re ardpes
sain horlon. Il. 1 v. 266, e 273. (102 ) Clem. Alex, Strom. 1. 5. Questi due
versi sono stati corrotti. Nel primo verso Sca. ligero legge fyte TPUDEGcus in
luogo d' AUTOTA. OO 2 292 che non FIG. In verità questa seconda maniera cor
risponde meglio all'opertio. Nel secondo leg ge Ευγιες ανδρειων αχεων αποκηροι
ατειρεις. dla ad altri è piaciuto all' aydpelwy di sostituire l' and pouleur
ch'è più adatto e pie Omerico; all' електро! ľ Anouampor ch'è anche più ragione
vole; ed in fine all ατειρείς I'' ατηρείς si sa donde possa derivare. Si
potrebbe dire più presto artelpon. Vi sono poi di quei che in luogo di amewn
leggong amoywy; dimodochè spiegano coi forti achivi. (103 ) I primi due versi
sono presso Laerz. 1. 8 in Emp., e tutti si leggono presso Janibl. de Vit. Pyth.
p. 54. Questi versi si sono col locati nel poenia delle purgazioni; perchè in
questo poema Empedocle dichiara la morale pittagorica. (104) Presso Suida voce
Axpwr e Laerz. I. 8. in Emp. Questo epigramma, come dicono e Suida e Laerzio, è
diretto a punzecchiare Acrone, che domanda a la grazia di ergere un gran
monumento a suo padre in un luo. go alto della città di Gergenti. Empedocle va
scherzando.col nome di Acrone e la parola 293 acron che in Greco significa alto
e altezza. Ma questo scherzo non si può rendere nel no stro linguaggio. (105)
Laerz. in Emp. I. 8 & Towvoploy indi ca nome conveniente alla cosa. Perchè
liquo gavin in greco può significare che fa cessar i mali, e i dolori. Perciò
Empedocle scherza col nome del suo amico. (106) Questi due versi s'
attribuiscono dit Aulo Gellio Noct. Att. 1. 4 cap. 11 ad Em pedocle, e da altri
ad Orfeo. Ma in verità so no della scuola pittagorica. Si legga Didym. 1. 2.
Geoponicon cap. 35. Varii sono i sen timenti degli Scrittori sulla proibizione,
che facea la scuola Pittagorica, di mangiar del le fuve. Secondo alcuni, perchè
non sono sa lutari, e secondo altri perchè sono simili agli organi della
generazione. Di fatto Gellio dice che l'astinenza delle fave era un simbolo,
eon cui si volea indicare da Empedocle l'a ' stinenza delle cose veneree. (107
) Questi versi esprimono il giuramen to che si facea nella scuola Pittagorica.
Si leggono presso Jambl, de vit. Pyth. p. 125, 294 Ma non semhrano d'esser
d'Empedocle cosi perchè non corrispondono allo stile del nostro poeta, come
ancora perchè vi si osserva il dia. letto dor ico, che non mai egii usò ne'
suoi poemi. ROMA BIBLIOTECA 295 Note mancanti nel Tomo I. pag. 67. MEMORIA
SECONDA. (121 ) Απηρεν ασ Κροτωνα της Ιταλίας και κακοι τομές θες τοις
Ιταλιωταις εδοξασθη συν τοις μας θεματας και οι περι τας τριακοσίες οντες
ωκoνoμαν αριστα τα πολιτικα ωστε σχεδον αριστοκρατίας αναι την πολιτααν και
Pittagora si porto in Cro tona d'Italia; ed ivi dando leggi agľ Italias ni fu
egli in onore unitamente a' suoi disce poli. Trecento de' quali amministravano
otti mamente le cose politiche, si che quella re pubblica era di posta a
governo di ottimati, Laerz. in Pythag. (122 ) La persecuzione della scuola
pitta gorica nacque da ciò, giusta Jamblico nella Vita di Pittagora cap. 35,
che i pittagorici allontanavano il popolo dalle magistrature, e da' pubblici
consigli, e voleano essi soli, come sapienti, regolar le cose pubbliche.Grice:
“If people call William of Ockham, Surrey, Occam, I shall call Empedocles of
Agrigentum Agrigentum, or Agrigento simpliciter in the vulgar.” Vide “Italic
Griceians”While in the New World, ‘Grecian philosophy’ is believed to have
happened ‘in Greece,’ Grice was amused that ‘most happened in Italy!’ Empedocle
da Girgenti – Keywords: Girgenti -- Refs.: Luigi
Speranza, "Grice ed Empedocle," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51675742458/in/photolist-2mKFrQ6-2mLGZ47-2mKzDys-2mKucE2-2mKCPCw-2mKfijf-2mJrUpx-2mJpEUu-2mJorPw-2mJjky4-2mJorPB-2mJpFM6-2mJpFT8-2mJpFSS-2mJorQD-2mJpFN8-2mJorMs-2mJorSc-2mJrUsP-2mJjku6-2mJjkwA-2mJjkwk-2mJrUok-2mJsW8r-2mJjkyK-2mJrUqu-2mJorRW-2mJpFQn-2mJpFNP-2mJorQi-2mJpFTZ-2mJrUso-2mJpFPv-2mJjkub-2mJpFM1-2mJrUqK-2mJrUr6-2mJjkvJ-2mJpFSM-2mJrUqz-2mJrUqE-2mJsWcj-2mJrUsU-2mJrUoa-2mJpFLK-2mJrUn3-2mJjkvt-2mJorKZ-2mJpFNt-2mJq2uE
Grice e
Girgenti – la parola che non s’incatena – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo. Grice: “I love Girgenti
for many reasons! For one, he has edited Boezio ‘as he is’! – then he has
elaborated on Socratic irony, a concept that needs some elucidation, if ever
one did! Also, he has edited the ‘logica retorica’ of Cicero, which is
welcome!”Frequenta gli studi classici a Palermo, sotto Brighina, Franchina,
Armetta, Mirabelli e Puglisi) e poi si è trasferito a Milano sotto Bontadini,
Bausola, Melchiorre e Giussani. Si laurea sotto Reale con “Platonismo e Cristianesimo
in San Giustino Martire” – Studia “Porfirio tra henologia e ontologia
riproponendo la questione degli universali come origine del "pensiero
forte". Insegna a Milano I suoi studi sono concentrati sul rapporto tra
filosofia greco-romana e Cristianesimo, e in particolare nell'influenza che il
platonismo ha esercitato sui Padri della Chiesa. Per analizzare questo tema,
applica due categorie ermeneutiche: la "storia del’effetto" e la
"fusione dell’orizzonte”. Secondo la storia dell’effeto, la Patristica latina
deve essere considerata una fase importante della storia del platonismo antico,
che fa da tramite rispetto alla filosofia medioevale. Secondo la fusione
dell’orizzonte, il rapporto tra platonismo e Cristianesimo deve essere
analizzato superando due opposte posizioni: la "praeparatio
evangelica" di Eusebio di Cesarea, secondo cui la filosofia pre-cristiana
sarebbe stata di per sé una preparazione al Cristianesimo e la
"Ellenizzazione del cristianesimo" di Adolf von Harnack, secondo cui
nell'incontro con la filosofia, il Cristianesimo avrebbe smarrito la vocazione
originaria (e dovrebbe pertanto “de-“ellenizzarsi, de-filosofarsi). Una
posizione mediana potrebbe contribuire a superare le rigidità del cristianesimo
cattolico e le chiusure del cristianesimo protestante non-cattolico. Saggi:
“Porfirio: catalogo ragionato” (Vita e Pensiero, Milano); “Giustino Martire, il
primo cristiano platonico” Vita e Pensiero, Milano); “Porfirio, Vita e Pensiero,
Milano); Porfirio, Laterza, Roma-Bari; “Platone, G. Girgenti, Rusconi, Milano,
Incontri con Gadamer, G. Girgenti, Bompiani, Milano “Platone” G. Girgenti,
Bompiani, Milano; Atene e Gerusalemme. Una fusione di orizzonti, Il Prato,
Padova; Il bue squartato e altri macelli. La dolce filosofia, libro-intervista
con Sossio Giametta, Mursia, Milano. G. Giorello, Corriere della Sera, 1ºScheda
biografica, curriculum e nel sito
dell'Università Vita-Salute San Raffaele, su unisr. Selezione di
pubblicazioni Porfirio negli ultimi cinquant’anni. Bibliografia
sistematica e ragionata della letteratura primaria e secondaria riguardante il
pensiero porfiriano e i suoi influssi storici, presentazione di G. Reale, Vita
e Pensiero, Milano, Porfirio, Isagoge, prefazione, introduzione, traduzione e
apparati di G. Girgenti, testo greco a fronte, versione latina di Severino
Boezio in appendice, Rusconi, Milano, nuova edizione Bompiani, Giustino
Martire, il primo cristiano platonico. Con in appendice “Atti del Martirio di
San Giustino”. Presentazione di C. Moreschini, Vita e Pensiero, Milano,
Giustino, Apologie. Prima Apologia per i Cristiani ad Antonino il Pio. Seconda
Apologia per i Cristiani al Senato Romano. Prologo al “Dialogo con Trifone”,
introduzione, traduzione e apparati di G. Girgenti, testo greco a fronte,
Rusconi, Milano, Aristotele, Poetica, introduzione, traduzione, note e sommari
analitici di D. Pesce, revisione del testo, aggiornamento bibliografico, parole
chiave e indici di G. Girgenti, testo greco a fronte, Rusconi, Milano, Porfirio,
Sentenze sugli intellegibili, prefazione, introduzione, traduzione e apparati
di G. Girgenti, con in appendice la versione latina di Marsilio Ficino,
Rusconi, Milano. G. Girgenti, Il pensiero forte di Porfirio. Mediazione tra
henologia platonica e ontologia aristotelica, introduzione di G. Reale, Vita e
Pensiero, Milano, Porfirio, Storia della
Filosofia (frammenti), a cura di A. R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano, Introduzione
a Porfirio, “I filosofi”, Laterza, Roma-Bari, La nuova interpretazione di
Platone. Un dialogo di Hans-Georg Gadamer con la Scuola di Tubinga e Milano e
altri studiosi (Tubinga), introduzione di H.G. Gadamer, prefazione, traduzione
e note di G. Girgenti, Rusconi, Milano, nuova edizione ampliata: Platone tra
oralità e scrittura, Bompiani, Milano, Porfirio, Vita di Pitagora, monografia
introduttiva e analisi filologica, traduzione e note di A. R. Sodano, saggio
preliminare e interpretazione filosofica, notizia biografica, parole chiave e
indici di G. Girgenti, in appendice la versione araba di Ibn Abi Usabi’a, testo
greco e arabo a fronte, Rusconi, Milano, J. Patocka, Socrate. Lezioni di
filosofia antica, introduzione, apparati e bibliografia di G. Girgenti,
traduzione di M. Cajtham l, testo ceco a fronte, Rusconi, Milano, nuova edizione: Bompiani, Milano, K. Wojtyla,
Persona e Atto, a cura di G. Reale e T. Styczen, revisione della traduzione
italiana e apparati a cura di G. Girgenti e P. Mikulska, testo polacco a
fronte, Rusconi, Milano, nuova edizione: Bompiani, Milano, Struttura dell’anima
dell’anima secondo Agostino e presupposti neoplatonici, in: Autori vari,
Coscienza. Storia e percorsi di un concetto, Donzelli, Roma, Der Begriff der
Verantwortung in der Welt der Antike und des Christentums, in K. Götz – J.
Seifert (Hg.), Verantwortung in Wirtschaft und Gesellschaft, Rainer Hampp
Verlag, München; J. Seifert, Ritornare a Platone. La fenomenologia
realista come riforma critica della dottrina platonica delle idee, in appendice
un testo inedito su Platone di A. Reinach, prefazione e traduzione di G.
Girgenti, Vita e Pensiero, Milano, Autori vari, Incontri con Hans-Georg
Gadamer, edizione italiana a cura di G. Girgenti, Bompiani, Milano, Porfirio
nel vegetarianesimo antico, “Bollettino Filosofico: Dipartimento di Filosofia
dell’Università della Calabria”, Due fonti neoplatoniche indirette di Cusano:
Porfirio e Giamblico, in AA. VV., Nicolaus Cusanus zwischen Deutschland und
Italien Beiträge eines deutsch-italienischen Symposions in der Villa Vigoni vom
(Veröffentlichungen des Grabmann-Instituts, Bd. 48), hrsg von Martin Thurner,
Akademie Verlag Berlin, Plotino, Enneadi, traduzione di R. Radice. Saggio
introduttivo, prefazioni e note di commento di G. Reale. Porfirio, Vita di
Plotino, a cura di G. Girgenti, “I Meridiani. Classici dello Spirito”, Arnoldo
Mondadori Editore, Milano K. Wojtyla,
Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, a
cura di G. Reale e T. Styczen, apparati e indici di G. Girgenti, Bompiani, Milano
2003. Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei filosofi. Commentaria in Porphyrium a se
translatum (editio secunda). Boethius Georg Schepps Samuel
Brandt University of Leipzig European Social Fund
Saxony Gregory Crane Jouve OCR-ed, corrected and
encoded the text Greta Franzini Project Manager
(University of Leipzig) Simona Stoyanova Project
Assistant (University of Leipzig) Bruce Robertson Technical Advisor
(Mount Allison University) Uvius Fonticola Technical
Advisor (Ludwig Maximilians University Munich) University of
Leipzig stoa0058.stoa007.opp-lat3.xml Available under a Creative
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University of Leipzig Germany Georg Schepps
Samuel Brandt Boethius Vienna
Leipzig Tempsky Freytag 1906
48 Internet Archive The following text
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Architecture. Latin p. 46
Secundus hic arreptae expositionis labor nostrae seriem translationis
expediet, in qua quidem uereor ne subierim fidi interpretis culpam, cum uerhum
uerbo expressum comparatum- que reddiderim, cuius incepti ratio est quod in his
scriptis in quibus rerum cognitio quaeritur, non luculentae orationis
lepos, sed incorrupta ueritas exprimenda est. quocirca mul- tum profecisse
uideor, si philosophiae libris Latina oratione compositis per integerrimae
translationis sinceritatem nihil in Graecorum litteris amplius desideretur, et
quoniam humanis animis excellentissimum bonum philosophiae comparatum est,
ANICII. MALLII. SEVERINI. BOECII. IN YSAGOGAS PORPHIRII. A SE TRANSLATA
EDITIONIS SECVNDĘ LIBER PRIMVS INCIPIT- P; BOETII EXPOSITIO SCDA IN
YSAGOG. E; BOETII COMMENTA IN ISAGOGAS G; INCIP COMENTV BOETII, in
isagogis porphirii; Expos Scda L; COMENTV BOECII IN ISAGOGAS
R; inscriptione carent CFHNS (nisi quod in FH recens quaedam est),
item e codd. Isagogen tantum a Boethio translatam continentibus ΛΣ
; ISAGOGAE PORPHYRII TRANSLATAE DE GRECO IN LATINVM A VICTORINO ORATORE (sic)
ΓΦ ; INCIP LIBER YSAGOGARVM (HΥS- \ ) POR- PHYRII (I
pro Y Π ) AII ,- Icipidt isagoge porphyrii (m.
poster.) Ψ; de titulo operis cf. Prolegomena
6 fidi—reddiderim] cf. Horat. Ars poet. 133. 11—13] cf. Cic. Acad. post.
I 3,12. 6 fędi C foedi Hm1N infidi
FGm1 7 uerbo] e uerbo N 8 incoepti CEGHPRS 10
corrupta Em1Sm1 incorruptae Em2 (e in mg. add.
sed del .) Lm1 11 uidebor brm 13 graecis
Lm2 ut uia et filo quodam procedat oratio, ex animae ipsius effi-
cientiis ordiendum est. triplex omnino animae uis in uegetandis corporibus
deprehenditur, quarum una quidem uitam corpori subministrat, ut nascendo
crescat alendoque subsistat, alia uero sentiendi iudicium praebet, tertia ui
mentis et ratione subnixa est. quarum quidem primae id officium est, ut
creandis, nutriendis alendisque corporibus praesto sit, nullum uero rati-
onis praestet sensusue iudicium. haec autem est herbarum atque arborum et
quicquid terrae radicitus adfixum tenetur, secunda uero composita atque
coniuncta est ac primam sibi sumens et in partem constituens uarium de
rebus capere potest ac multiforme iudicium. omne enim animal quod sensu uiget,
idem et nascitur et nutritur et alitur, sensus uero diuersi sunt et usque ad
quinarium numerum crescunt, itaque quicquid tantum alitur, non etiam sentit,
quicquid uero sentire potest, ei prima quoque animae uis, nascendi
scilicet atque nutriendi, probatur esse subiecta. quibus uero sensus adest, non
tantum eas rerum capiunt formas quibus sensibili corpore feriuntur praesente,
sed abscedente quoque sensu sensibili- busque sepositis cognitarum sensu
formarum imagines tenent memoriamque conficiunt, et prout quodque animal
ualet, lon- gius breuiusque custodit, sed eas imaginationes confusas atque
ineuidentes sumunt, ut nihil ex earum coniunctione ac compo- 1 uia et
filo quodam] CEm2H (uia fort. ras. ex uiae), uiae et
filo quodam N uiae (s. l. R) ex filo quodam
EmIGPR edd . uiae ( ex uia S ) ex quodam filo LS uiae (
s. l . filo m1 ) quodam F ratio CEmIGLRS ex]
ab Hm1NP efficienti Em1 efficientis Fa. c . 3 post
uitam add . solum CFHP solam N corporis
GNRL a.r.Sa.r . 5 rationis FGRS 6 procreandis CHNP 7
nutriendisque ( om . alendis) EL sit s. l. Gm2Nm2 9
terra CN 10 ac] ad FSm1 at LSm2 et
G 11 rebus] quibus GRS de rebus de quibus L 12
poterit E post iudicium add . capit E (sed del.) L, s. l. m2
in HRS 13 et nutritur om. CHP, s. l . nutritur (om. et)
Lm2 14 ita CHR 16 poterit E quoque prima
FGm2H 19 praesente ante feriuntur FHN praesentes CHm1N abscedente]
Em2FGHmINESa.r . absente CEm1Hm2LPSp.r . 20 re- positis GR 22
imagines FHN 23 ante sumunt add. sic brm
sitione efficere possint, atque idcirco meminisse quidem possunt, nec aeque
omnia, admissa uero obliuione memoriam recolli- gere ac reuocare non possunt,
futuri uero his nulla cognitio est. sed uis animae tertia, quae secum priores
alendi ac sen- tiendi trahit hisque uelut famulis atque oboedientibus
utitur, eadem tota in ratione constituta est eaque uel in rerum prae- sentium
firmissima conceptione uel in absentium intellegentia uel in ignotarum
inquisitione uersatur. haec tantum humano generi praesto est, quae non solum
sensus iraaginationesque perfectas et non inconditas capit, sed etiam
pleno actu intel- legentiae quod imaginatio suggessit, explicat atque
confirmat, itaque, ut dictum est, huic diuinae naturae non ea tantum cognitione
sufficiunt quae subiecta sensibus comprehendit, uerum etiam et insensibilibus
imaginatione concepta et absen- tibus rebus nomina indere potest et quod
intellegentiae ratione comprehendit, uocabulorura quoque positionibus aperit,
illud quoque ei naturae proprium est, ut per ea quae sibi nota sunt ignota
uestiget et non solum unum quodque an sit, sed quid sit etiam et quale sit nec
non cur sit, optet agnoscere, quam triplicis animae uim sola, ut dictum
est, hominum natura sor- tita est. cuius animae uis intellegentiae motibus non
caret, quia in his quattuor propriae uim rationis exercet, aut enim aliquid an
sit inquirit aut si esse constiterit, quid sit addubitat, quodsi etiam
utriusque scientiam ratione possidet, quale sit 2 admissa] CR
amissa EFGm1NP amissam Gm2LS, ras. et s. l. ex
admissam H memoriam om. FGR, s. l. Sm2 , memoria H
3 hiis F , sic saepe cogitatio CNm2 4 animae
uis CEL 5 ante trahit add . uires brm 6 ea
CHm1N est ante constituta CEGS , om. R 7 con- tentione
EGm1Sm1 contemplatione R, m2 in GLS 8 in s. l. Gm1PmS
, del. Lm2 ignotorum Hm1N 9 imaginationes
EN 11 conformat Gm2Pm2 13 cognitione] in cognitione
FHNP 14 et] ex Em1HN sensibilibus CEm1Hp. c. Nm2
sensibus Ha. c. Nm1 ante imaginatione add .
sibi E (del. m2) NPSm2 imaginatione] in agnitione
Gm1Sm1 agnitione Gm2R post concepta add. nomina Hm1,
idem post rebus s. l. m2 17 sint E 19 optat
LR 22 quia] qua Gm1 atque EHm1Pm1 24
scientiam post ratione E sententiam Hm1
pos- sedit FRS unum quodque uestigat atque in eo cetera
accidentium momenta perquirit, quibus cognitis cur ita sit quaeritur et ratione
nihilo minus uestigatur. Cum igitur hic actus sit humani animi, ut
semper aut in <rerum> praesentium comprehensione aut in absentium
intel- p. 47 legentia aut in ignotarum inquisitione | atque
inuentione uer- setur, duo sunt in quibus omnem operam uis animae ratio- cinantis
inpendit, unum quidem, ut rerum naturas certa inqui- sitionis ratione
cognoscat, alterum uero, ut ad scientiam prius ueniat quod post grauitas
moralis exerceat, quibus inquirendis permulta esse necesse est, quae
uestigantem animum a recti itinere non minimum progressione deducant, ut in
multis euenit Epicuro, qui atomis mundum consistere putat et honestum uoluptate
metitur, hoc autem idcirco huic atque aliis accidisse manifestum est, quoniam
per imperitiam disputandi quicquid ratiocinatione comprehenderant, hoc in
res quoque ipsas euenire arbitrabantur, hic uero magnus est error; neque enim
sese ut in numeris, ita etiam in ratiocinationibus habet, in numeris enim
quicquid in digitis recte computantis euenerit, id sine dubio in res quoque
ipsas necesse est euenire, ut si ex calculo centum esse contigerit,
centum quoque res illi numero sub- iectas esse necesse est. hoc uero non aeque
in disputatione seruatur; neque enim quicquid sermonum decursus
inuenerit, 4 aut om. CNR, s. l. Gm2Sm2 5 rerum add. edd.
post praesentium, ante Brandt; cf. p. 137, 6 6
ignotorum Gm2Hm1Lm2N ante in- uentione s. l. in Hm2 8
inpendat FPSa.c . naturam FHm1N certa inquisitionis]
Gm2H certae inquisitionis FNP inquisitionis certa CELm2 , om.
certa Gm1Lm1RS (fort. recte) 10 quod] eius quod r exer- cet
Hm1 12 minimum ante non E minime FSm1
diducant FGm2 13 atbomis plerique codd . consistere in
mg. Hm2 constare CFP, post er . ł consistere C honestam
Em1P honestatem F 14 uoluptate om. F uoluptatera
CEHm2 (te* m1) LNR, add . corporis L (del. m2) R, s. l. Gm2,
ante uol. edd . mentitur CEGHPRSm1 hoc] haec
H 16 racione CN comprehenderent m1 in
EHN 17 nero] ergo H maximus E error est
CFHNP post sese add . res FR , s. l. Pm2 19 digitos
CEFN id natura quoque fixura tenetur, quare necesse erat eos falli
qui abiecta scientia disputandi de rerum natura perquirerent, nisi enim prius
ad scientiam uenerit quae ratiocinatio ueram teneat disputandi semitam, quae
ueri similem, et agnoscere quae fida, quae possit esse suspecta, rerum
incorrupta ueritas ex ratiocinatione non potest inueniri. cum igitur ueteres
saepe multis lapsi erroribus falsa quaedam et sibimet contraria in disputatione
colligerent atque id fieri inpossibile uideretur, ut de eadem re contraria
conclusione facta utraque essent uera quae sibi dissentiens ratiocinatio
conclusisset, cuique ratiocinationi credi oporteret, esset ambiguum, uisum est
prius disputationis ipsius ueram atque integram considerare naturam, qua cognita
tum illud quoque quod per disputationem inueniretur, an uere comprehensum
esset, posset intellegi, hinc igitur profecta est logicae peritia
disciplinae, quae disputandi modos atque ipsas ratiocinationes internoscendi
uias parat, ut quae ratiocinatio nunc quidem falsa, nunc autem uera sit, quae
uero semper falsa, quae numquam falsa, possit agnosci, huius autem uis duplex
esse perpenditur, una quidem in inueniendo, altera in iudicando. quod
Marcus etiam Tullius in eo libro cui Topica titulus est, euidenter expressit
dicens; Cum omnis ratio diligens disserendi duas habeat partes, unam inue-
niendi, alteram iudicandi, utriusque princeps, ut mihi quidem uidetur,
Aristoteles fuit. Stoici 20 Tullius] Top. 2, 6 s. 1
ante natura add . in HLSpr, s. l. Pm2 3 post nisi
add . quis r prius enim E 4 disputandi om. GRS ad
ueri similem s. l . ał que ueri se similem agnouerit
Hm2 et agnoscere] FSm1 ( om . et) et agnouerit EGLPRSm2
( om . et) edd. ut ex hoc delectia rationum que- amus agnoscere Hm1, s. l
. ał et agnouerint quae fida et reliqua m2 ut ex diligentia
rationum queamus ( ex quaeramus C ) agnoscere CN 7 et
sibimet] sibimet C sibi et EGRS 9 post re s. l .
si Cm1? 10 cuique) CHm1N cuiue cett . 13
tunc FHNPm1R post an add . id R, s. l. Gm2Lm2, 2 litt.
er. C 15 ipsis ratiotinationibus Hm2 16 ante internoscendi
add. et brm uiam CFHN 19 inneniendi et iudicandi ( om .
in) Hm2 24 quidem uidetur] FHNPCic . uidetur quidem GRS
quidem om. CEL autem in altera elaborauerunt; iudicandi enim
uias diligenter persecuti sunt ea scientia quam διαλεκτικήν appellant,
inueniendi artem, quae τοπική dicitur quaeque ad usum potior erat
et ordine naturae certe prior, totam reliquerunt, nos autem quoniam in
utraque summa utilitas est et utram- que, si erit otium, persequi cogitamus, ab
ea quae prima est, ordiemur, cum igitur tantus huius considera- tionis fructus
sit, danda est huic tam sollertissimae disci- plinae tota mentis intentio, ut
primis firmati in disputandi ueritate uestigiis facile ad rerum ipsarum
certam comprehen- sionem uenire possimus. Et quoniam qui sit ortus
logicae disciplinae praediximus, reliquum uidetur adiungere, an omnino pars
quaedam sit philosophiae an ut quibusdam placet, supellex atque instru-
mentum, per quod philosophia cognitionem rerum naturamque deprehendat, cuius
quidem rei has e contrario uideo esse sen- tentias. hi enim qui partem
philosophiae putant logicam con- siderationem, his fere argumentis utuntur,
dicentes philoso- phiam indubitanter habere partes speculatiuam atque
actiuam. de hac tertia rationali quaeritur an sit in parte ponenda, sed
eam quoque partem esse philosophiae non potest dubitari, nam sicut de
naturalibus ceterisque sub speculatiua positis solius philosophiae uestigatio
est itemque de moralibus ac 2 uias] ENPCic.p, om. cett. codd .,
uiam brm ea scientia] Pm1Cic . eam scientiam EPm2
edd. eam scilicet scientiam CN artem et scientiam FSm2
scientiam GHLRSm1 3 διαλεκτικήν ] Cic. dialecticen
CFGHL- NPm2RS dialecticam E dialectica Pm1 τοπική
] Cic . topice Gm2LNS topica CEFGm1HPR 4 quaeque]
quae et Cic . 5 prior] prior est GLa.c.RS 6 in—est et]
CN Cic., s. l. Pm2, om. cett. codd., Boethius etiam in comment. in Cic. Top.
lib. I p. 1047 D haec uerba respicit 8 prima] prior Cic .
ordiemur] EHm1NCic . ordiamur CGHm2LPRS ordinamus
F 13 quid FHm1NPp.c . quod a.c . 14 ante reliquum
add . esse GHP pars sit quaedam GN quaedam pars sit
L 18 hii EHL 20 ante habere add .
duas L m 1860 21 post rationali add . uel
orationali EFGH (del. m2) RS (del. mS) id est logica L
( s. l. m2) edd. ad an s. l . si Cm2 24
inuestigatio L reliquis quae sub actiuam partem cadunt, sola
philosophia perpendit, ita quoque de hac parte tractatus, id est de his quae
logicae subiecta sunt, sola philosophia iudicat. quodsi speculatiua atque
actiua idcirco philosophiae partes sunt, quia de his philosophia sola
pertractat, propter eandem causam erit logica philosophiae pars, quoniam
philosophiae soli haec dis- putandi materia subiecta est. iam uero inquiunt :
cum in his tribus philosophia uersetur cumque actiuam et speculatiuam
consideratio|nem subiecta discernant, quod illa de rerum naturis, p.
48 haec de moribus quaerit, non dubium est quin logica disci- plina
a naturali atque morali suae materiae proprietate di- stincta sit. est enim
logicae tractatus de propositionibus atque syllogismis et ceteris huiusmodi,
quod neque ea quae non de oratione, sed de rebus speculatur neque actiua pars,
quae de moribus inuigilat, aeque praestare potest, quodsi in his tribus,
id est speculatiua, actiua atque rationali, philosophia consistit, quae proprio
triplicique a se fine disiuncta sunt, cum specula- tiua et actiua philosophia
partes esse dicuntur, non dubium est quin rationalis quoque philosophia pars
esse conuincatur. qui uero non partem, sed philosophiae instrumentum
putant, haec fere afferant argumenta, non esse inquiunt similem logicae finem
speculatiuae atque actiuae partis extremo, utraque enim illarum ad suum proprium
terminum spectat, ut speculatiua 2 tractat Ep.r.FR, m2 in GLP
3 diiudicat CHm2 5 sola philo- sophia CFN
pertractet Em1 tractat Hm1 7 iam] tam R
ita FL 9 sublectas discernat Em2 10 dubium non
est CEL non est dubium F 11 a om. LS, s. l. Gm2Pm2,
postea add. R disiuncta (iunc in ras. m1? ) R 12 est
enim] etenim GLRS post tractatus add. est LR, s. l. Pm2
14 orationibus E ratione Lm1, add . est L 17 sint
Rm1, ex sit Sm2 cumque H (q. er .)
Lm2N 18 et] atque EFNP philosophiae pbr dicantur
Lm2N non est dubium EFHNP 21 haec—argumenta del.
G asserunt ( ss in ras. m1? ) C similem om. GR,
post finem s. l. Sm2, ad similem s. l. ł proprium
Pm2 22 ante speculatiuae add . sed R, s. l.
Gm2Lm2 extremum E (u ex a uel o m2 ) GL
(um ex am m2 ) Pm2RSm1 23 proprium suum C ut] ita
ut brm quidem rerum cognitionem, actiua uero mores atque
instituta perficiat, neque altera refertur ad alteram, logicae uero finis esse
non potest absolutus, sed quodammodo cum reliquis duabus partibus colligatus
atque constrictus est. quid enim est in logica disciplina quod suo merito
debeat optari, nisi quod propter inuestigationem rerum huius effectio
artis inuenta est? scire enim quemadmodum argumentatio concludatur uel quae uera
sit, quae ueri similis, ad hoc scilicet tendit, ut uel ad rerum cognitionem
referatur haec scientia rationum uel ad inuenienda ea quae in exercitium
moralitatis adducta beatitu- dinem pariunt. atque ideo quoniam
speculatiuae atque actiuae suus certusque finis est, logicae autem ad duas
reliquas partes refertur extremum, manifestum est non eam esse philosophiae
partem, sed potius instrumentum, sunt uero plura quae ex alterutra parte
dicantur, quorum nos ea quae dicta sunt strictim notasse sufficiat. Hanc
litem uero tali ratione dis- cernimus. nihil quippe dicimus impedire, ut eadem
logica partis uice simul instrumentique fungatur officio, quoniam enim ipsa
suum retinet finem isque finis a sola philosophia, consideratur, pars
philosophiae esse ponenda est, quoniam uero finis ille logicae quem sola
speculatur philosophia, ad alias eius partes suam operam pollicetur,
instrumentum esse philosophiae non negamus; est autem finis logicae inuentio
iudiciumque rati- onum. quod scilicet non esse mirum uidebitur, quod eadem
pars, eadem quoddam ponitur instrumentum, si ad partes corporis animum
reducamus, quibus et fit aliquid, ut his quasi quibusdam instrumentis utamur,
et in toto tamen corpore par- tium obtinent locum, manus enim ad tractandum,
oculi ad 1 rerum] Em2H(in mg. m1?) Lm2 edd., post
cognitionem add . rerum s. l. Pm2Sm2, add . naturalium rerum
F, s. l. Gm2, om. cett . 2ad alteram] de altera Em2 3 non potest
esse FGN 4 est om. C 5 aptari FGm1Hm1Pm2R 6
affectio EFHLm2Pm1Bm1 8 intendit F 9 rationum
scientia CLP 10 mortalitatis bm 11 parant Ea.c .
pariant Hm1 15 alterutra] utraque EP, add. post
alterutra H, del. m2 ante dicta add . supra EP, s. l.
Lm2 18 enim] nero CFHN 21 ei F 24 uidetur
Em1FGm2LNPm2 28 optineant Fp.c.S uidendum, ceteraeque
corporis partes proprium quoddam uidentur habere officium, quod tamen si ad
totius utilitatem corporis referatur, instrumenta quaedam corporis esse
deprehenduntur quae etiam partes esse nullus abnuerit, ita quoque logica
disciplina pars quidem philosophiae est, quoniam eius philo- sophia sola
magistra est, supellex uero, quod per eam inqui- sita philosophiae ueritas
uestigatur. Sed quoniam, quantum mihi quoque breuitas succincta
largita est, ortum logicae et quid ipsa logica esset explicui, nunc de eo
nobis libro pauca dicenda sunt quem in praesens sumpsimus exponendum, titulo
enim proponit Porphyrius intro- ductionem se in Aristotelis Praedicamenta
conscribere, quid uero ualeat haec introductio uel ad quid lectoris animum praeparet,
breuiter explicabo. Aristoteles enim librum qui De decem praedicamentis
inscribitur hac intentione composuit, ut infinitas rerum diuersitates quae sub
scientiam cadere non possent, paucitate generum comprehenderet, atque ita quod
per incomprehensibilem multitudinem sub disciplinam uenire non poterat, per
generum, ut dictum est, paucitatem animo fieret scientiaeque subiectum.
decem igitur genera rerum esse omnium considerauit, id est unam substantiam et
accidentia nouem, quae sunt qualitas, quantitas, relatio, ubi, quando, facere
et pati, situs, habere, quae quoniam genera essent su- prema et quibus nullum
aliud superponi genus posset, omnem necesse est multitudinem rerum horum
decem generum spe- 1 quoddam] quod Em1 (aliquod m2
) G 2 utilitatem post corporis EG, ante
totius L 4 quas FSm2 5 quidem post philosophiae
H quaedam L 6 uero] uero est L 8 quoque om.
L quidem edd . ueritas Cm1N succincta]
CNPSm2 sua mora EFGHR sua mota Sm1 succincta suam
moram L 9 ortum om . L et de ortu CNF quod CF
est G explicaui CELm2PRS 11 titulum CHm1N
13 lectoris s. l. Gm2, post animum CN, post
praeparet H. om. E 14 paret EFGNRS 15 scribitur
EGRSm1 17 ita quod s. l. Gm2 (itaque m1) Rm2 quod
( om . ita) s. l. Sm2 20 decem] in decem C 23 et
om. FLNP situm habere CRa.c . situm esse habere Gm1S 24
genus superponi H possit Ea.c.FGm1NPRS 25 ante horum
add. per s, l. Pm2, ante species CFLR. s. l. Gm2Sm2
cies inueniri. quae quidem genera a se omnibus differentiis distributa
sunt nec quicquam uidentur habere commune nisi p 49 tantum nomen,
quoniam omnia | esse praedicantur. quippe sub- stantia est, qualitas est,
quantitas est, et de aliis omnibus ‘est’ uerbum communiter praedicatur, sed non
est eorum communis una substantia uel natura, sed tantum nomen. itaque
decem genera ab Aristotele reperta omnibus a se differentiis distributa sunt.
sed quae aliquibus differentiis disiunguntur, necesse est ut habeant proprium
quiddam quod ea in singu- larem solitariamque uindicet formam. non est autem
idem proprium quod accidens. accidentia enim et uenire et abesse possunt,
propria ita sunt insita, ut absque his quorum sunt propria, esse non possint.
quae cum ita sint cumque Aristo- teles decem rerum genera repperisset, quae uel
intellegendo mens caperet uel loquendo disputator efferret - quicquid
enim intellectu capimus, id ad alterum sermone uulgamus —, euenit ut ad horum
decem praedicamentorum intellegentiam quinque harum rerum tractatus incurreret,
scilicet generis, speciei, differentiae, proprii, accidentis. generis quidem,
quoniam oportet ante praediscere quid sit genus, ut decem illa quae
Aristoteles ceteris anteposuit rebus, genera esse possimus agnoscere, speciei
uero cognitio plurimum ualet, ut quae cuiusque generis sit species, possit
agnosci. si enim quid sit species intellegimus, nihil impediti errore turbamur.
fieri enim potest, ut per speciei inscientiam saepe quantitatis species
in relatione ponamus et cuiuslibet primi generis species alteri
cui- 4 omnibus aliis FHLN 9 quoddam S 10
uendicet HLP uindicent ( ent in ras.) S
constituat CN 11 euenire FGm2R (om. et) abire NP 12
propria ita] propria enim ita H proprietates EGm1S propria
uero ita edd . insitae EGm1S 14 uel om. FP 16
cupimus E alterutrum FPm2S 19 ante
accidentis add . atque FHNP et L 21 inter-
posuit m1 in EGS superposuit Em2NP praeposuit
FGm2 possemus FN 22 cognitio post ualet
LP 24 impedito (uel in- ) Ca.c.EGm1HNS impedit
R turbari CS 25 inscitiam F 26 cuilibet]
cuiuslibet Gm1N,a.r. in EFS libet generi subdamus atque ita
fiat permixta rerum atque indiscreta confusio; quod ne accidat, quae sit natura
speciei ante noscendum est. nec uero in hoc tantum prodest speciei cognoscenda
natura, ne priorum generum species inuicem per- mutemus, uerum etiam ut
in eodem quolibet genere proximas species generi nouerimus eligere, ut ne
substantiae mox animal dicamus esse speciem potius quam corpus aut corporis
homi- nem potius quam animatum corpus, at uero differentiarum scientia in his
maximum retinet locum, qui enim omnino qualitatem a substantia uel cetera
a se genera distare cogno- scimus, nisi eorum differentias uiderimus? quomodo
autem discernere eorum differentias possumus, si quid ipsa sit diffe- rentia nesciamus?
nec hunc solum nobis inscientia differentiae offundit errorem, uerum etiam
specierum quoque tollit omne iudicium. nam omnes species differentiae
informant, ignorata differentia species quoque necesse est ignorari, quomodo
uero fieri potest, ut quamlibet differentiam possimus agnoscere, si omnino quae
sit nominis huius significatio nesciamus? iam nero proprii tantus usus est, ut
Aristoteles quoque singulorum praedicamentorum propria perquisiuerit.
quae propria esse quis deprehenderit, antequam quid omnino sit proprium discat?
nec in his tantum propriis haec cognitio ualet quae singulis nomi- nibus
efferuntur, ut hominis risibile, uerum etiam in his quae in locum definitionis
adhibentur, omnia enim propria rem subrectam quodam termino descriptionis
includunt, quod suo quoque loco 25 suo loco] lib. IV c. 15 s.
1 generis Gm1REa.r.Sa.r . fiet CH fit N
permixtio FHm2LNP 4 primorum FNP 5 in om. CERS,
s. l. Gm2 6 ante generi add . cuilibet brm
7 aut—corpus om. E, s. l. Gm2Sm2 8 corpus om. FP , del.
Hm2 9 qui] quomodo Ep.c.HPp.c.R 11 nouerimus R
quo- modo—ignorari (16) in inf. mg. Em2 autem] nero
E(m2) 14 offundit] E (m2) Pm1 obfundit Hm2 diffundit
Gm1 effundit cett.; cf. p. 159,16 15 informant
differentiae brm 16 quomodo] qui FNP uero om.
G 18 huius nominis FNP 20 perquisierit R quis
esse FR 21 deprehen- derit in ras. E
deprehenderet Np.c . deprehendet ( ex -it) P 22 proprii
Gm2N post singulis add . tantum FHLNP 24 subiecto
EGm1RS oportunius commemorabo, accidentis quoque cognitio quantum
afferat, quis dubitare queat, cum uideat inter decem praedica- menta nouem
accidentis naturas? quae quomodo accidentia esse putabimus, si omnino quid sit
accidens ignoremus, cum praesertim nec differentiarum nec proprii scientia nota
sit, nisi accidentis naturam firmissima consideratione teneamus? fieri
enim potest, ut differentiae loco uel proprii per inscientiam accidens
apponatur, quod esse uitiosissimum etiam definitiones probant, quae cum ipsae ex
differentiis constent et fiant unius cuiusque definitiones propriae, accidens
tamen non uidentur admittere. Cum igitur Aristoteles rerum genera
collegisset, quae nimirum diuersas sub se species continerent, quae species
nuraquam diuersae forent, nisi differentiis segregarentur, cum- que omnia in
substantiam atque accidens, accidens uero in alia nouem praedicamenta soluisset
cumque aliquorum praedi- camentorum fere sit propria persecutus, de his
ipsis quidem praedicamentis docuit, quid uero esset genus, quid species, quid
differentia, quid illud accidens, de quo nunc dicendum est, uel quid proprium,
uelut nota praeteriit, ne igitur ad Praedicamenta Aristotelis uenientes, quid
significaret unum p. 50 quodque eorum quae superius dicta sunt
ignora|rent, hunc librum Porphyrius de earum quinque rerum cognitione per-
scripsit, quo perspecto et considerato quid unum quodque eorum quae supra
praeposuit designaret, facilior intellectus ea quae ab Aristotele proponerentur
addisceret. Haec quidem intentio est huius libri, quem Porphyrius
ad introductionem Praedicamentorum se conscripsisse ipsa, ut 1
opportunius NR post accidentis add . teneri L ,
post naturas (3) tenere HN 3 quonam modo
FHLNP 5 tota EN, m1 in GPS 6 te- nemus C 7
insciciarn FN 11 ante rerum add . decem
cod. Monac. 4621 brm, recte? 15 nouem om. S edd., s. l.
Em2Gm2 16 fere om. EFGS, er. H 18 nunc om. GRS
est dicendum CL 21. 24 eo- rum delendum esse coni. Engelhrecht
23 quo] ut CHLNP inspecto FNP perfecto EGm1 24
eorum] cod. Monac. 4621 ( om . quae), om. codd. nostri
proposuit FP proposui H posuit NR 25 ab om. ENR
praeponerentur CHm2NR 27 ipse L ita F
dictum est, tituli inscriptione signauit, sed licet ad hoc unum huius
libri referatur intentio, non tamen simplex eius utilitas est, uerum multiplex
et in maxima quaeque diffusa est. quam idem Porphyrius in principio huius libri
commemorat dicens; Cum sit necessarium, Chrysaori, et ad eam quae
est apud Aristotelem praedicamentorum doctri- nam, nosse quid genus sit et quid
differentia quid- que species et quid proprium et quid apcidens, et ad
definitionum adsignationem et omnino ad ea quae in diuisione uel
demonstratione sunt, utili hac istarum rerum speculatione, compendiosam tibi
traditionem faciens temptabo breuiter uelut introductionis modo ea quae ab
antiquis dicta sunt adgredi altioribus quidem quaestionibus abstinens,
simpliciores uero mediocriter coniec- tan s. Utilitas huius libri
quadrifariam spargitur, namque ad illud etiam ad quod eius dirigitur intentio,
magno legentibus usui 5—16] Porph. p. 1, 3—9 (Boeth. p. 25, 2—9
Busse). 2 eius utilitas est] FGm2 (in mg. add.) HP
utilitas eius est in mg. add. Em2 est eius utilitas s. l.
add. Lm2 eius est utilitas N, om, RS; est tamen simplex eius utilitas
C 3 uerum in mg. Em2 sed GLS sed et R
multiplex et in mg. Em2, s. l. Sm2 est er. uid. E
5 ante Cura add . PROLOGVS RS, de inscript. codicum
Isagogen tantum con- tinent. cf. ad initium libri Chrysaori] G
chrisaori EHNPa.c . Γ ( s. l . menanti) Ώμ2ΣΦ
chrysaoni S chrisarori ( uel cris- uel chriss-,1
CFLPp.c . R lATl m1 *! (-oui) ante et add. te C (er.)
FLNA (del.) Σ , s. l . scil, te E 6
ante praedicamentorum add . X Δ 7 sit genus L A
et om . Φ quidue N 8 pr . et s. l. E,
om . A 9 diffinitionem Em1 \ m2 , in -nes,
hoc in -num mut. F 10 in] ad FHP , ante
in er . ad uid. C diuisionem Ca.r.FHNP T a.r . A a.r .
Q uel] et N et ad FHP uel in ΔΣΦ
demonstrationem Ca.r . (-ne ras. ex -ne ut uid .)
FHNP F a.r. A a.r .(b utili] edd . utilia codd . 11
hac] HP , s. l. Sm2 hanc CLNΤ ΛΙIΣΦ , del .
Δ , om . EFGRS speculationem CEa.r.Hm2L A a.r .
ΑΦ , in -num corr. Σ compendiosa ras. ex
-sa C A 12 traditione ( uel -cione) CLΝ Φ , ras.
ex -nem HT A 14 altioribus] ab altioribus A 17
quadrifaria S ante ad add . et EGP , s. l.
L 18 etiam om . G est et ad cetera, quae cum extra
intentionem sint, non tamen minor ex his legentibus utilitas comparatur, est
enim per hoc corpusculum et praedicamentorum facilis cognitio et defini- tionum
integra adsignatio et diuisionum recta perspectio et demonstrationum
ueracissima conclusio, quae res quanto diffi- ciles atque arduae sunt,
tanto perspicaciorem studiosioremque animum lectoris expectant. dicendum uero
est quod in omni- bus libris euenit. nam primum si quae sit intentio
cognoscatur, quanta quoque utilitas inde prouenire possit expenditur et licet
extra multa, ut fit, huiusmodi librum sequantur, tamen illam proxime
utilitatem uidetur habere, ad quod eius refertur intentio, ipso libro quem
sumpsimus exponente, cum eius intentio sit ad Praedicamenta intellectum facilem
comparandi, non dubium quin haec eius principalis probetur utilitas, licet non
minores sint comites definitio, diuisio ac demonstratio, quorum nobis
quaedam hic principia suggeruntur, sensus uero totus huiusmodi est : ‘cum sit,
inquit, utilis generis, speciei, differentiae, proprii accidentisque cognitio
ad Praedicamenta Aristotelis eiusque doctrinam, ad definitionum etiam adsigna-
tionem, ad diuisionem et demonstrationem, quae sit harum rerum utilis
überrimaque cognitio, compendiosam, inquit, tra- 2 utilitas
legentibus FHP 3 opusculum CEp.r.FGm2HLN, recte ? cf. p. 149,
3 4 integra om. ER, s. l. Gm2Sm2 recta] perfecta CFGm2-
Hm1N 8 post libris add . his HNP hoc
R , s. l , sed exters. G sit] est H 9 id
est (add. Lm2) perpenditur Em2Lm2 10 ante huius-
modi add . in CE (del.) G (del. m2) N librum] LPm2RSm2,
om. Hm1 , libros FGm1Sm1, s. l. Hm2 , libro CE (del.) Gm2NPm1
sequntur ( uel sec-) R, m1 in EGS 11 uidentur FH
ad quod] aliquod Cm1 ad quam FGm2Pm2 eius] eorum
FGm2HPm1 12 ante ipso add . ut (s. l. est Lm2) in
hoc CFHLNP, s. l . ut in Em2 hoc Gm2 ex-
ponendum CE (dum in er . te?) FHLNP ( ex
-dus m1 exponere m2 ) Sm1 post cum s. l .
enim Hm2 13 praeparandi H 14 ante dubium
add . est FHNP , s. l. Gm2, post s. l. L 15 minoris
CGm1N 16 nobis om. C hic quaedam C
principalia NSm1 17 huiusmodi totus EG 19 eamque
Hm1Sm1 20 ad om. C, s. l. Gm2 , et FHN et ad
P et] ac H, om. CFNP , et ad edd . demonstrationemque CN
demonstrationum- que FP quae] quia Lm2R, om. CFNP 21
traditione ras. ex -nē H ditionem faciens ea quae
ab antiquis large ac diffuse dicta sunt, temptabo breuiter aperire’, neque enim
esset compendiosa, nisi totum opus breuitate constringeret et quoniam intro-
ductionem scribebat, ‘altiores, inquit, quaestiones sponte refn- giam,
simpliciores uero mediocriter coniectabo’, id est sim- pliciorum quaestionum
obscuritates habita in eis quadam coniecturae ratiocinatione tractabo. Tota
quidem sententia huiusce prooemii talis est, quae et utilitate überrima et
facilitate incipientis animo blandiatur, sed dicendum uidetur quidnam
celet amplius altitudo sermonum, necessarium in Latino sermone, sicut in
Graeco άναγκαΐον , plura significat, diuersa enim significatione Marcus
Tullius dicit necessarium suum esse aliquem atque nos, cum nobis necessarium
esse dicimus ad forum descendere, qua in uoce quaedam utilitas
significatur. alia quoque significatio est qua dicimus solem necessarium esse
moueri, id est necesse esse, et illa quidem prima significatio praetermittenda
est, omnino enim ab eo necessario quod hic Porphyrius ponit aliena est. hae
uero duae huiusmodi sunt, ut inter se certare uideantur quae huius loci
obtineat significationem, in quo dicit Porphyrius; Cum sit necessarium,
Chrysaori; namque, ut dictum est, neces- 12 Marcus Tullius] cf. infra
apparatum. 2 enim om. E 3 corpus HNPm1 4
refugio EGR 5 simplicium Gm2LPm2 6 eas
EFGm1HNSm1 7 ad quidem s. l. autem
Gm2 8 prohemii EPS uberrima <sit> Brandt 9
animum EGLm2Pm2R uidetur om. ERS, s. l. Gm2 11 ΑΝΑ Γ
ΑΙΟΝ uel ANAKAION uel sim. codd . ANA IT CION ł
ANAKAION C 12 etenim F ad Marcus Tullius in mg .
Marcus enim tullius pro fundanio inquit descripsistine eius neces- sarium id
est adiutorem danium ( leg . fundanium) add. Hm2, ex Mario Victorino De
defin., Boeth. p. 906 B, haustum, Cic. IV 3 p. 236 frg. 6 Mueller 13
aliquod C aliquid Hm1NPm2 nos] Hm1Pp.e.Sm1
nostrum cett.; an nostrum est scribendum ? ante cum add .
ut EG (del. m2) HLm2P uel F nos Hm2 14
dicamus L 16 post , esse] esset F est
Hm1LNP 18 uero om . N ergo F 21
Chrysaori] CEm1 chrisaori uel eris- uel
crys- uel crisar- uel sim. cett . necessarium] harum
E ( s. l . duarum necessitatum m2 ) Gm1S necessarium
harum F sarium et utilitatem significat et necessitatem,
uidentur autem huic loco utraque congruere, nam et summe utile est ad ea
p. 51 quae superius dicta sunt, de genere et specie | et ceteris
disputare, et summa est necessitas, quia nisi sint haec ante praecognita, illa
ad quae ista praeparantur, non possunt cognosci, nam neque praeter generis
uel speciei cognitionem praedicamenta discuntur nec definitio genus relinquit
et differentiam, et in ceteris quam sit utilis iste tractatus, cum de diuisione
et demonstratione disputabitur, apparebit, sed quamquam necesse sit haec
quinque de quibus hic disputandum est, prius ad cognitionem uenire quam
ea quibus illa praeparantur, non tamen ea significatione hic a Porphyrio
positum est qua neces- sitatem significari uellet ac non potius utilitatem,
ipsa enim oratio contextusque sermonum id clarissima intellegentiae ratione
significat, neque enim quisquam ita utitur ratione, ut aliquam
necessitatem referri dicat ad aliud, necessitas enim per se est, utilitas uero
semper ad id quod utile est refertur, ut hic quoque, ait enim Cum sit
necessarium, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamen- torum
doctrinam, si igitur hoc necessarium utile intel- legamus et id nomine
ipso uertamus dicentes : cum sit utile. Chrysaori, et ad eam quae est apud
Aristotelem praedicamen- 1 et om. R, del. CGm2 significans R
ante necessitatem add . altera R, s. l. Gm2 4
necessitas est E quia om. NS sint post
haec F, post praecognita H 5 agnosci CN
post cognosci add . quae (om. E) praedicamenta dicuntur
CEGL (in sup. mg. m2) PR cognitiones (del. et s. l . quae
add. m2) praedicamentarum (rum del. m2 ) dicuntur S
nam—discuntur om. GRS, in sup. mg. Lm2 nam—cognitionem in mg.
Em1?, reliqua om . 7 nec] sed istis cognitis nec C sed nec S
neque N 10 sit] erit Em2GLm1RS 13 significare
FN 15 utatur Sm1 oratione CHm1N 16 aliud]
aliquid CHm1N 17 post se add . quiddam
CFHPN, s. l. Em2Lm2 , quidem edd . quod] ad quod NP defertur
Gm1Lm1RS 18 enim om . C Chrysaori] eaedem fere quae
p. 147, set 149, 21 in codd. scripturae 19 et] te et L
20 post doctrinam add . nosse quid genus sit C
nosse quid sit genus et cetera in mg. Lm2 22 Chrysaori] ut
18 et om . EFGS te et L doctri- nam praedicamentorum
C torum doctrinam, nosse quid genus sit et cetera, recte se habebit
ordo sermonum; sin uero id ad ‘necesse’ permutetur atque dicamus : cum sit
necesse, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum
doctrinam, nosse quid genus sit et cetera, rectae intellegentiae sermonum
ordo non conuenit. quocirca hic diutius immorandum non est. quamquam enim sit
summa necessitas his ignoratis non posse ad ea ad quae hic tractatus intenditur
perueniri, non tamen de necessi- tate hic dictum est necessarium, sed potius de
utilitate. Nunc uero, licet idem superius dictum sit, tamen
breuiter quid ad praedicamenta generis, speciei, differentiae, proprii
atque accidentis prosit agnitio, disputemus. Aristoteles enim in Praedicamentis
decem genera constituit rerum quae de cunctis aliis praedicarentur, ut quicquid
ad significationem uenire posset, id si integram significationem teneret,
cuilibet eorum subiceretur generi de quibus Aristoteles tractat in eo libro qui
De decem praedicamentis inscribitur, hoc ipsum uero referri ad aliquid uelut ad
genus tale est, quale si quis spe- ciem supponat generi, hoc uero neque praeter
cognitionem speciei ullo modo fieri potest nec uero ipsae species quid
sint uel cuius magis sint possunt perspici nisi earum differentiae
cognoscantur, sed differentiarum natura incognita, quae unius 1 recte—sermonum]
recte intellegentiae sermonum ordo conuenit CLP (ex 5)
2 uero] autem C 3 atque] itaque FN ut CLH (in
ras.) Chry- saori] ut p . 150, 18 4 est] sit GLRS
nosse—sit om. EH 5 ordo ante sermonum E
7 post his s. l. quinque Lm2 pr.
(sic) ad om. G , in mg. Em1? 8 tractatus hic
H intendit L peruenire Lm1S 9 ante
hic add . solummodo F 10 nunc] nam F 11 quod
EN 12 possit Lm2 cognitio R 15 possit
Fa.c.LS 16 Aristoteles delend. esse coni. Brandt eo om.
E 17 De om. NS , de s. l. Lm2 uero s. l. Gm2
18 post , ad om. GRS, s. l. Em2Lm2P qui S 19
neque er . L nec N post
cognitionem add. generis neque praeter cognitio- nem CFHP
(in mg. m2) generis nec E (s. l. m1?)N, s. l.
generis et Lm2 20 nullo Lm2 neque F 21
magis] modi CEm2 (in aliis m1) Hm1Pp.c. (corr. m1?)
modo N possint S possumus Gm1Lm2
possemus m1 possimus E perspici] scire EGm1
(sciri m2 ) L agnosci RS cuiusque speciei
sint differentiae, modis omnibus ignorabitur, quare sciendum est quoniam, si de
generibus Aristoteles tractat in Praedicamentis, et generum natura cognoscenda
est, cuius cognitionem speciei quoque comitatur agnitio, sed hoc cognito, quid
sit differentia non potest ignorari, quamquam in eodem libro plura sint
ad quae nisi maximam peritiam et generis et speciei et differentiae lector
attulerit, nullus omnino intellectus patebit, ut cum ipse Aristoteles dicit :
diuersorum generum et non subalternatim positorum diuersae secundum species et
differentiae sunt, quod his ignoratis intellegi inpossibile est. sed idem
Aristoteles proprium unius cuiusque praedicamenti diligentissima inquisitione
uestigat, ut cum substantiae proprium post multa dicit esse quod idem numero
contrariorum susceptibile sit, uel rursus quantitatis, quod in ea sola aequale
atque inaequale dicatur, qualitatis etiam, quod per eam simile et dis-
simile aliud alii esse proponimus, et in ceteris eodem modo, ut quae sit
proprietas contrarii, quae secundum relationem oppositionis, quae priuationis
et habitus, quae affirmationis et 8—10] Aristot. Categ. c. 3, p. l b , 16
s. 13 s.] ibid. c. 5, p. 4 a , 10 s. 15 s. (dicatur)] ibid. c. 6, p. 6 a , 26
s. 16 s.] ibid. c. 8, p. 11 a , 15—19. 18 (quae sit)—153, 1 (negationis)] ibid.
c. 10. 1 sit differentia S 5 non potest s. l. Gm2
quamquam] cum F 6 et generis—differentiae post attulerit
E 8 pateat EGLRS dicit] Brandt dicat codd. edd.;
cf. 13. p. 154, 14. 21. 153, 2. 6 10 post secundum add
. se EGL (del.) ES, er. uid. H et om. CN, del. Lm2, er. uid.
H; cf. Aristot. Cat. c. 3 τών Ιτέρων γενών καί μή ΰπ’ αλληλα
τεταγμένων ετεροι τω εΤδεε κο· αϊ διαοοραί et Boethii
interpretat. In Categ. Arist. p. 177 A (om. se) quid GRS 11
possibile EG ( post est signum interrogat.) RS
propria FHNP 14 ante numero s. l. cum
E 15 aequum Em1FGLm1RS; cf. p. 153, 17 atque] aut N 16
dicitur FHLm2P et dissimile] F uel dissimile s. l. Em2
aut dissimile s. l . Gm2Pm1? , om. cett.; cf. Aristot. Cat. c
. 9 Τ ών μέν ouv είρημένων — τό ομοιον χα) άνο'μοιον —
αοτήν et Boethii interpretat, p. 259 A (simile et dissimile,)
17 aliis DGPm1RS ( s in ras); cf. Aristot, ibid . έτέρω
, Boeth. ibid . alteri 18 post relationem add .
contrarii Em1, del. et s. l . ut sapientia stulticiae m2
negationis, in quibus ita tractat tamquam iam peritis scienti- busque
quae sit proprietatis natura; quam si quis ignorat, frustra ea quae de his
disputantur adgreditur. iam uero illud manifestum est, quod accidens maximum
praedicamentorum obtineat locum, quod proprio nomine nouem praedicamenta
circumdat. Et ad praedicamenta quidem quanta sit huius libri
utilitas ex his manifestum est. quod uero ait et ad definitionum adsignationem,
facile cognosci potest, si prius substantiae rationum diuisio fiat,
substantiae ratio alia quidem in descrip- tione ponitur, alia uero in
definitione, sed ea quae in descrip- tione est, pro|prietatem quandam colligit
eius rei cuius sub- p. 52 stantiae rationem prodit, ac non modo
proprietate id quod monstrat informat, uerum etiam ipsa fit proprium, quod
in definitionem quoque uenire necesse est; si quis enim quan- titatis
rationem reddere uelit, dicat licebit; quantitas est secundum quam aequale
atque inaequale dicitur, sicut igitur proprietatem quidem quantitatis in
ratione posuit quantitatis et ipsa tota ratio ipsius quantitatis propria est,
ita descriptio et proprietatem colligit et propria fit ipsa descriptio,
definitio uero ipsa quidem propria non colligit, sed ipsa quoque fit propria, definitio
namque substantiam monstrat, genus differen- tiis iungit et ea quae per se sunt
communia atque multorum in unum redigens uni speciei quam definit reddit
aequalia. ita igitur ad descriptionem utilis est proprii cognitio,
quoniam sola proprietas in descriptione colligitur et ipsa fit propria sicut
definitio quoque, ad definitionem uero genus, quod primum 1 ita om.
RS, s. l. m2 in EGL tamquam iam] quasi C 5 optinet
FHm1LmSN obtineat ante praedicamentorum E 7 libri
huius CGLRS ; cf. p. 155, 14. 17. 156, 8 utilitas]
brm intentio codd . 10 post substantiae add .
uero F, s. l . enim Lm2 16 ante dicat s. l . sc.
ut Lm2 20 proprietates CFHNP ipsa] ita G 22
nam qui Gm2Lm1 (namque qui m2 ) S 26 proprietas
sola CLP sola proprietas sola FGm1S 27 ad sicut
s. l . ł sic Em2 uero s. l . Hm2 quod om
. F quidem R ponitur, et species, ad quam genus
illud aptatur, et differentiae, quibus iunctis cum genere species definitur,
sed si cui haec pressiora quam expositionis modus postulat uidebuntur, eum hoc
scire conuenit, nos, ut in prima editione dictum est, hanc expositionem nostro
reseruasse iudicio, ut ad intellegentiam simplicem huius libri editio
prima sufficiat, ad interiorem uero speculationem confirmatis paene iam scientia
nec in singulis uocabulis rerum haerentibus haec posterior colloquatur.
Ad diuisionem uero faciendam tam hic liber est utilis, ut praeter earum
scientiam rerum de quibus in hac libri serie disputatur, casu fiat potius
quam ratione partitio, hoc autem manifestum erit, si diuisionem ipsam
diuidamus, id est si nomen ipsum diuisionis in ea quae significat partiamur,
est namque diuisio generis in species, ut cum dicimus ‘coloris aliud est album,
aliud nigrum, aliud uero medium’, rursus diuisio est, quotiens uox plura
significans aperitur et quam multa sint quae ab ea significantur ostenditur, ut
si quis dicat ‘nomen canis plura significat, et hunc, latrabilem quadrupedem
que et caeleste sidus et marinam bestiam’, quae omnia a se definitione
disiuncta sunt, diuidi autem dicitur et quotiens totum in partes proprias
separatur, ut cum dicimus ‘domus aliud sunt fundamenta, aliud parietes, aliud
tectum’, et haec quidem triplex diuisio secundum se partitio nuncupatur, est
autem 4] in prima editione nihil eiusmodi. 1 post
ponitur add . utile est CN, post species s. l . utilis
est Lm2 et species—aptatur in mg. Em2Gm2 illud
genus C 3 eum om. E , s. l. Gm2 , ei R 4
uti FGLRSm1 5 reseruasse] CPm2 edd . reser- uare E (
-re in ras .) FGm2HNPm1 (ante reseruare add . se
m1, del. m2) reseruantes Gm1S seruantes Lm1
seruare m2 reseruantes sumus R 8 colloquatur] m1
in GLS eloquatur CEm2 (in ras.) HN collocatur Em1R
, m2 in GLS edd . loquatur FP 9 utilis est LP 10
rerum om. E 12 post . si om. EG, s. l. Sm2
13 ante partiamur s. l . si E partia- tur
Gm1 14 aliud est] CEp.c.R edd . aliud esse Ea.c.GHLPS
esse aliud FN 15 rursum CEGNPm1R est s. l. Sm2 ,
ante diuisio FHNP , et ante rursus et post
diuisio R 16 quam] quod EG a.c . (quae p.c .)
LRS sunt CFLNPa.c . 18 quadripedemque Sm1 20
distincta FHm1NP 23 partitio] separatio EGLm1Pm1RS
alia quae secundum accidens dicitur, ea quoque fit tripliciter, aut cum
accidens in subiecta diuidimus, ut cum dico ‘bonorum alia sunt in animo, alia
in corpore’, uel rursus cum subiectum in accidentia, ut ‘corporum alia sunt
alba, alia nigra, alia medii coloris’, rursus cum accidens in accidentia
separamus, ut cum dicimus ‘liquentium alia sunt alba, alia nigra, alia medii
coloris’, et rursus ‘alborum alia sunt dura, alia liquentia, quaedam mollia’,
cum igitur ita omnis sit diuisio aut secundum se aut per accidens, utraque uero
partitio tripliciter fiat cum- que in superiore secundum se triplici
partitione sit una diui- sionis forma genus in species separare, id neque
praeter generum scientiam fieri ullo modo potest neque uero praeter
differentiarum, quas necesse est in specierum diuisione sumi, manifestum est
igitur, quanta utilitas huius libri ad hanc diuisionem sit quae primo
aditu genus ac species et differentias tractat, secunda uero ea diuisio quae
est secundum se in uocis significantias, nec haec quidem ab huius libri
utilitate discreta est. uno enim modo cognosci poterit, utrum uox cuius diui-
sionem facere quaerimus, aequiuoca esse uideatur an genus, si ea quae
significat definiantur, et si ea quae sub communi nomine sunt, definitione
clauduntur, species esse necesse est, et illud commune eorum genus, quodsi illa
quae proposita 3 sunt alia H uel] aut brm rursum
FS 4 corporalium Ca.c.Hm1N 5 rursum F 6
liquentia Ea.c.Gm1 8 fit G sit ante omnis F
, post diuisio N 9 accidentia S 10 superiori
Sm2 11 sepa- rare om. EN 12 possit Em2 uero om. C
post praeter s. l . scientiam Sm2 16 ea del. L, er.
uid. P ante quae add . est N (om. post
quae] P (er. uid.) secundum—significantias] FHN
uocis post significantias C se et in
om cett . 18 uno] nullo F quo m2 in HLP enim]
quidem N 20 si] nisi FLm2Pm2 significant
CNPm2 et (om. si, ) in ros. Hm2 si et RS
(et s. l. m2 ) si om. EL, s. l. Gm2Pm2 , etenim L (ex et m2)
Pm1 communi nomine] CEm2 (in ras.) FHNP (nomine s. l.
m2 ) communione cett. 21 sunt del. L, s. l. Pm2 ante
definitione add . una FHL (del. m2) R, s. l. Em2Pm2
diffinitione s. l. Gm2 claudantur EGLRS 22 earum
ES post genus s. l . necesse est Gm2 praeposita
EGPS uox designat, non possunt una definitione concludi, nemo
dubitat quin illa uox sit aequiuoca neque ita sit communis his de quibus praedicatur
ut genus, quandoquidem ea quae sub se posita significat, secundum commune nomen
non possunt una definitione comprehendi, si igitur ex definitione
manifestum fit quid genus sit, quid uero nomen aequiuocum, definitio uero
per genera differentiasque discurrit, quisquamne dubitare potest aeque in hac
diuisionis forma plurimum huius libri auctoritatem ualere? illa uero secundum
se diuisio quae est totius in partes, quemadmodum discernitur ac non
potius p. 53 generis in species diuisio esse putabitur, nisi sint
genus |et species et differentiae earumque uis ante disciplinae ratione
tractata? cur enim non quisquam dicat domus species potius esse quam partes
fundamenta, parietes et tectum? sed cum occurrit generis nomen in una quaque
specie totum posse con- gruere, totius uero in una quaque parte sua nomen
conuenire non posse, manifestum fit aliam diuisionem esse generis in species,
aliam totius in partes, conuenire autem nomen generis singulis speciebus
ostenditur per id, quod et homo et equus singuli animalia nuncupantur, neque
tectum uero neque parietes aut fundamenta singillatim domus nomine
appellari solent, sed 1 concludi om ., nemo—comprehendi
(5) in inf. mg. Gm1? nemo—ita sit in ras. Em2 2
uox—communis] uox non (non er. L, om. S ) sit communis Gm1 uel 2
Lm1Sm1, post uox add . sit aequiuoca neque (non, sed del. G )
ita ( om. G etiam S ) s. l. Gm2 uel alia Sm2, in mg.
Lm2 3 ante his add . de E (er.) G (del. m2) ES
his s. l. Lm2 4 post posita s. l. sunt Hm2 non
possunt] definiri ( uel diff-j (-ri ex -re Cm2 ) non
possunt ( add . neq. Cm1, er. et una add. m2 ) nec
CFN 6 fit] H est C sit cett . 8 aeque]
etiam CFHm1NPSm1 9 auctorem GR utilitatem Lm2 10
discernetur Hm2 (fort. recte) discernatur N ac]
et FHNP 11 esse om. R, ante diuisio FN
sit FSm1 sunt G et] ac R 12 earum
quauis ELR, m2 in GHPS , earum quis Fm1 quamuis ( om .
earum,) m2 ; cf. p. 157, 3 13 quisque CFHR esse
potius FNR 14 dum F 15 quaque om. FN 17
sit ELRm1 (est m2 ) S 19 id om . RS,
s. l. Em2Gm2 singula CEa.r. (ut uid.) GLPm1 singularis
Sa.c . singu- laque R 20 aut] ac FHLNP neque
S 21 singulatim CNR appel- lari] nuncupari FHLNP
cum fuerint iunctae partes, tunc recte totius nomen excipiunt, de ea uero
diuisione quae secundum accidens fit, nullus ignorat quin incognito accidenti
incognitaque ui generis ac differen- tiarum facile euenire possit, ut accidens
ita in subiecta soluatur quasi genus in species, et postremo omnem hunc
ordinem partitionis foedissime permiscebit inscientia. Et quoniam
quid hic liber ad diuisionem prosit osten- dimus, nunc.de demonstratione
dicemus, ne per ardua atque difficilia haereat qui in tanta hac disciplina
uigilantissimo in- genio et sollertissimo labore sudauerit. fit enim
demonstratio, id est alicuius quaesitae rei certa rationis collectio, ex ante
cognitis naturaliter, ex conuenientibus, ex primis, ex causa, ex neces- sariis,
ex per se inhaerentibus, sed genera speciebus propriis priora naturaliter sunt;
ex generibus enim species fluunt, item species sub se positis uel
speciebus uel indiuiduis priores naturaliter esse manifestum est. quae uero
priora sunt, ea et praenoscuntur et notiora sunt sequentibus naturaliter,
duobus enim modis primum aliquid et notum dicitur, secundum nos scilicet et
secundum naturam, nobis enim illa magis cognita sunt quae sunt proxima,
ut indiuidua, dehinc species, postremo genera, at uero natura conuerso modo ea
sunt magis cognita quae nobis minime proxima, atque ideo quamlibet se longius
1 tunc er. C accipiunt F 3 incognita m1 in
GRS accidente CN accidentia, del . a
EGm2Rm2 accidenti—differentiarum in mg ., ante facile
add . ea accidentia, sed del. E incognitaque—differentia- rum
om. GR cognitaque (sic) ut generis ac differentiarum Sm1,
del. m2 4 soluamus FHNP 5 postremum HP hunc
ante omnem L, post ordinem R 6 inscitia FHN
7 quid hic liber) FGm1NP quid liber hic Em2HL hic quid
liber Gm2 liber quid hic Em1R liber hic quid S; quid ad
diuisionem hic liber C 8 ne—haereat] rem perarduam atque difficilem
illi etiam FN ; ne et - in in difficil ** ia
et hereat in ras. C 9 hereat s. l. Sm2
etiam m1 tota CFN 11 alicuius om. CL 13
priora propriis C 15 pr . uel om. L, del. Pm2 19
enim] uero N 21 natura] Ea.c.GR naturae
Ep.c.FHLPS secundum naturam CN; cf. Boeth . Post. Analyt.
Aristot. interpret. lib. I c. II p. 714 B non enim idem est natura prius
et ad nos prius neque notius natura et nobis notius. 22 quantumlibet
Em2 quantolibet Pm2 a nobis genera protulerint, tanto
magis erunt lucida et natura- liter nota, differentiae uero substantiales illae
sunt quas per se inesse his rebus quae demonstrantur agnoscimus, praecedere
autem debet generum ac differentiarum cognitio, ut in una quaque disciplina
quae sint eius rei quae demonstratur con- uenientia principia, possit
intellegi, necessaria uero esse ea ipsa quae genera et differentias dicimus,
nullus dubitat qui speciem sine genere et differentia intellegit essq non
posse, genera uero et differentiae sunt causae specierum. idcirco enim species
sunt, quia genera earum et differentiae sunt quae in syllogismis posita
demonstratiuis non rei solum, uerum con- clusionis etiam causae sunt, quod
postremi Resolutorii locu- pletius dicent. Cum igitur perutile sit
et definitione quodlibet illud circum- scribere et diuisione dissoluere et
demonstrationibus comprobare, haec autem praeter earum rerum scientiam de
quibus in hoc libro disputabitur, neque intellegi neque exerceri ualeant, quis
umquam poterit dubitare quin hic liber maximum totius logicae adiumentum sit,
praeter quem cetera quae in ea magnam uim tenent, nullum doctrinae aditum
praebent? Sed meminit Porphyrina introductionem aese conscribere
neque ultra quam institutionis modus est, formam tractatus egreditur, ait enim
‘se altiorum quaestionum nodis abstinere, 1 protulerunt FLR
praetulerint N 2 substantiales] substantiae uel E 3
inesse post rebus C esse, del . in E
4 in om. C, s. l. Sm2 6 possint Hm1P 7 ante
genera add. et LP 8 intellegit in mg . Cm2, post
esse in ras. N 9 causae sunt FHL sunt om. R
causa G 11 demonstrantibus EFGLPm1RS; cf. Boeth. ibid. c. VI
p. 718 D de- monstratiuus syllogismus 12 postremis L in ( s.
l .) postremis Pm2 postremo EFGPm1RS resolutoriis
L resolutarii F resoluturi RS resoluituri
G resolutius ac E 13 dicemus EGLPm1RS 15 demon-
stratione N 16 in om. FGPR, s. l. Hm2S 17
ualeant] m2 in EHLS ualent CEm1F (n del .)
GHm1NP (n in ras .) RSm1 22 nec N 23 egre-
ditur] CF (aegr-) HNPm1 aggreditur L egredi
EGRS aggredi Pm2 altioribus FN nodis om
. Cm1Sm1 modis FNRa.c., s. l. Cm2, in mg. Sm2 simplices
uero mediocri coniectura perstringere’, quae uero sint altiores quaestiones
quas se differre promittit, ita proponit : Mox, inquit, de generibus ac
speciebus illud quidem, siue subsistunt siue in solis nudisque
intellectibus posita sunt siue subsistentia corporalia sunt an incor-
poralia et utrum separata a sensibilibus an in sensi- bilibus posita et circa
ea constantia, dicere recusabo, altissimum enim est huiusmodi negotium et
maioris egens inquisitionis. Altiores,. inquit, quaestiones
praetereo, ne eis intempestiue lectoris animo ingestis initia eius
priraitiasque perturbem, sed ne omnino faceret neglegentem, ut nihil
praeterquam quod ipse dixisset, lector amplius putaret occultum, id ipsum cuius
exequi quaestionem se differre promisit, addidit, ut de his minime
obscure penitusque tractando nec le|ctori quicquam p. 54
obscuritatis offunderet et tamen scientia roboratus quid quaeri iure posset
agnosceret, sunt autem quaestiones quas sese reti- 3—9] Porph. p. 1, 9—14
(Boeth, p. 25, 10—14). 8 altissimum— negotium] Abaelardus, Epistolae, Opp. I p.
5 ed. Cousin. 1 simpliciores L praestringere
G perscribere CFN 2 sunt N 3 inquit om
. Ω ac] et ΗΝ Ω post quidem add .
quod EG (del.) Sm2 quae m1 4 subsistant L
nudisque] nudis purisqne Ω ; Porph. p. 1, 10 έν
μο'να'.ς ψιλοΐς έπινοίαϊς 5 substantia Em1 sunt ante corporalia
Σ , post incorporalia Δ sint LR A m2 , ras
. ex sunt II 6 separat R a sensibilibus om. Gm1
(s. l. m2) Sm1 (cf. proxima), ras. ex ab insensi- bilibus \ m2; om
. Porph. p. 1,12 ab CEa.r . A m1 A m1 an in
sensibilibus posita et] FG (posita s. l. m2 ) LR
Ψ an in sensibilibus (a sensibilibus m2 ) et S an ipsis
sensibilibus (posita om .) iuncta (in mg.) et ( om .
II) Γ , s. l . Π m2 et ( cetera om .) CEHPm1 h m1
(s. l. an et in sensi- bilibus posita m2 ) A m1 ( in mg . an
sensibilibus iuncta m2 ) Φ an (cet. om.)
NPm2 Σ 7 consistentia CHF A m1 8
enim—negotium] FHLP Q ( sed est enim A ) Abaelard
. negotium ante est CEGRS enim est negotium huius
modo (sic) N; Porph. p. 1, 13 βαθύτατης οϊοης τής
τοιοΰτης πραγματείας 10 ante eis add .
in, sed del. E 11 primitiaque R per- turbent
FN 12 neglegentiam Gm1P praeter (s. l.)
quam C praeter id quam L 13 putasset C 14
exequi quaestionem] exeeutionem ( uel eis-) EGHm1LRS 15
penitus Em1FG ne L 16 effunderet Ca.c.EGLNR
infunderet Cp.c.FS ; cf. p. 145, 14 17 possit C a.c.
Fa.c . se N cere promittit, et perutiles et secretae et
temptatae quidem a doctis uiris nec a pluribus dissolutae, quarum prima est
huius- modi. omne quod intellegit animus aut id quod est in rerum natura
constitutum, intellectu concipit et sibimet ratione de- scribit aut id quod non
est, uacua sibi imaginatione depingit. ergo intellectus generis et
ceterorum cuiusmodi sit quaeritur, utrumne ita intellegamus species et genera
ut ea quae sunt et ex quibus uerum capimus intellectum, an nosmet ipsi nos
ludimus, cum ea quae non sunt, animi nobis cassa cogitatione formamus, quod si
esse quidem constiterit et ab his quae sunt, intellectum concipi
dixerimus, tunc alia maior ac diffi- cilior quaestio dubitationem parit, cum
discernendi atque intel- legendi generis ipsius naturam summa difficultas
ostenditur, nam quoniam omne quod est, aut corporeum aut incorporeum esse
necesse est, genus et species in aliquo horum esse opor- tebit. quale
erit igitur id quod genus dicitur, utrumne cor- poreum an uero incorporeum?
neque enim quid sit diligenter intenditur, nisi in quo horum poni debeat
agnoscatur, sed neque cura haec soluta fuerit quaestio, omne excludetur ambi-
guum. subest enim aliquid quod, si incorporalia esse genus ac species
dicantur, obsideat intellegentiam atque detineat exsolui postulans, utrum circa
corpora ipsa subsistant an et praeter corpora subsistentiae incorporales esse
uideantur. duae quippe incorporeorum formae sunt, ut alia praeter corpora
esse 1 promisit C 2 doctissimis P 4
statutum L discribit E 5 id s. l. C 8
capiamus C ipsi nos] ipsos FR ipsos ** (-os
ex i m2 ) S ipsi Hm1 nos s. l.
m2 9 eludimus Hm2 cogitatione] imaginatione F 11
intellectu ras. ex -tu E ac] et R 12
parat FHm1PRS discer- nendae atque intellegendae.. naturae
EFGHNRS 13 natura L osten- datur N 16 utrum
FHm1NP 17 an] aut ex ut F uero om. N
19 excluditur Cm2GHp.c.LPRS 20 aliquid quod] alia quae (que N
) FN aliud ( ex aliquid] quod E esse
post species FHL , om. N 21 ac] et H
intellegentiam atque] animum intelligentiamqne F intellegen-
tiamque N 22 ipsa corpora EFGHN et om. CFHLN
(fort. recte) , del. Pm2 23 subsistentia Ca.c.Gm2L
substantiae Cp.c.FN (s. l . ł subsistentes) incorporalia Gm2L
possint et separata a corporibus in sua incorporalitate perdurent, ut
deus, mens, anima, alia uero cum sint incorporea, tamen praeter corpora esse
non possint, ut linea nel superficies uel numerus uel singulae qualitates, quas
tametsi incorporeas esse pronuntiamus, quod tribus spatiis minime
distendantur, tamen ita in corporibus sunt, ut ab his diuelli nequeant aut
separari aut, si a corporibus separata sint, nullo modo permaneant, quas licet
quaestiones arduum sit ipso interim Porphyrio renuente dissoluere, tamen
adgrediar, ut nec anxium lectoris animum relinquam nec ipse in his quae
praeter muneris sus- cepti seriem sunt, tempus operamque consumam, primum
quidem pauca sub quaestionis ambiguitate proponam, post uero eundem
dubitationis nodum absoluere atque explicare temptabo. Genera et species aut
sunt atque subsistunt aut intellectu et sola cogitatione formantur, sed
genera et species esse non possunt, hoc autem ex his intellegitur, omne enim
quod commune est uno tempore pluribus, id unum esse non poterit; multorum enim
est quod commune est, praesertim cum una eademque res in multis uno tempore
tota sit. quantaecumque enim sunt species, in omnibus genus unum est, non
quod de eo singulae species quasi partes aliquas carpant, sed singulae uno
tempore totum genus habent, quo fit ut totum genus in pluribus singulis uno
tempore positum unum esse non possit; neque enim fieri potest ut, cum in
pluribus totum uno sit tempore, in semet ipso sit unum 1 a om. CS,
s. l. Em2 corporalitate ELS 3 possunt ELNPR 4
tamenetsi Ca.c . (tam ras. ex tam) L tam si
Em1 tamensi GRS 5 quod] eo quod L tamen om.
G tam N 6 uti EGLPa.r.RS ante diuelli add. aut Hm1,
del. m2 7 a om. ERS , s. l. Gm2 separatae
ex -ta H 8 quaestiones licet FHLPN 9
rennuente Ca.r.Ga.c.LNS ut] ita ut R 13 dubietatis
L exsoluere CF 14 atque] et EGLPRS 15 solo ( s.
l. Pm2 ) et FHNP 17 uno tempore pluribus] multorum uno
tempore N 18 est ( s. l. m2 ) enim G 19 tota sit]
transit F 20 est unum Fm2H 21 non, s. l . quod S
, ut non CHm1N 22 carpunt RS capiant F
participant Nm1 habeant Hm2Lm2P 24 possunt
F possint S enim om. FN. del. L 25 unoque
Gm2 sit uno FHN tempore in mg. Gm2 numero,
quod si ita est, unum quiddam genus esse non poterit, quo fit ut omnino nihil
sit; omne enim quod est, idcirco est, quia unum est. et de specie idem conuenit
dici, quodsi est quidem genus ac species, sed multiplex neque unum numero, non
erit ultimum genus, sed habebit aliud super- positum genus, quod illam
multiplicitatem unius sui nominis uocabulo includat, ut enim plura animalia,
quoniam habent quiddam simile, eadem tamen non sunt, idcirco eorum genera
perquiruntur, ita quoque quoniam genus, quod in pluribus est atque ideo
multiplex, habet sui similitudinem, quod genus est, non est uero unum,
quoniam in pluribus est, eius generis quoque genus aliud quaerendum est, cumque
fuerit inuentum, eadem ratione quae superius dicta est, rursus genus tertium
uestigatur. itaque in infinitum ratio procedat necesse est, cum nullus
disciplinae terminus occurrat, quodsi unum quiddam numero genus est,
commune multorum esse non poterit, una enim res si communis est, aut partibus
communis est et non iam tota communis, sed partes eius propriae singulorum, aut
in usus habentium etiam per tempora transit, ut sit commune p. 55
ut seruus communis uel equus, aut uno ] tempore omnibus commune fit, non
tamen ut eorum quibus commune est, sub- stantiam constituat, ut est theatrum
uel spectaculum aliquod, quod spectantibus omnibus commune est. genus uero
secundum nullum horum modum commune esse speciebus potest; nara 1 numero]
in numero NR quoddam FS quodque N quidem
R 5 ad ultimum s. l . maximum E super se
(se s. l. G ) positum GR 6 sui] LP edd . ui cett
. ( post nominis F ) hominis R 7 uocabulo] HLP
edd., om. cett . concludat H concludit Lm1 includat
m2 includit R 12 requirendum F perquirendum
N 13 ratio Hm1N tertium genus CL 14
nestigabitur FH nestigabit N 15 quodsi] quod NR
quiddam] quoddem (sic) R 17 si communis] sic omnis F quae
com- munis CN si om. R post post , communis est
add . ut puteus et (uel H ) fons CHNP (del. m2) , in mg. E,
s. l. Lm2 18 proprie CFLNR post singulorum
add . sunt HP , s. l. Lm2 , post sunt s. l . ut
puteus et fons Pm2 19 habent G etiam om.
FNP iam LS 21 sit NP ( ras. ex fit)
est R ita commune esse debet, ut et totum sit in singulis et
uno tempore et eorum quorum commune est, constituere ualeat et formare
substantiam, quocirca si neque unum est, quoniam commune est, neque multa,
quoniam eius quoque multitudinis genus aliud inquirendum est, uidebitur
genus omnino non esse, idemque de ceteris intellegendum est. quodsi tantum
intel- lectibus genera et species ceteraque capiuntur, cum omnis intellectus
aut ex re fiat subiecta, ut sese res habet aut ut sese res non habet nam ex
nullo subiecto fieri intellectus non potest —, si generis et speciei ceterorumque
intellectus ex re subiecta ueniat, ita ut sese res ipsa habet quae intel-
legitur, iam non tantum in intellectu posita sunt, sed in rerum etiam ueritate
consistunt, et rursus quaerendum est quae sit eorum natura, quod superior
quaestio uestigabat. quodsi ex re quidem generis ceterorumque sumitur
intellectus neque ita ut sese res habet quae intellectui subiecta est, uanum
necesse est esse intellectum qui ex re quidem sumitur, non tamen ita ut sese
res habet; id est enim falsum quod aliter atque res est intellegitur, sic
igitur, quoniam genus ac species nec sunt nec cum intelleguntur, uerus
eorum est intellectus, non est ambiguum quin omnis haec sit deponenda de his
quinque pro- positis disputandi cura, quandoquidem neque de ea re quae
sit 1 sit] s. l. Lm1? brm, om. cett . 2 post tempore
add. sit Np, s. l . Em2 3 conformare N
substantias FHNP ante si add. et Hm1 , del.
m2 ad quoniam s. l . quod Hm2 4 multiplex m2 in
CEGP,Lm1 8 habeat N aut—habet in mg. Gm2 ut
s. l. Lm2Sm2 9 habeat N , post add . nanus est intellectus
(Intellectus otn. brm ) qui de nullo subiecto capitur in mg. Lm2,
s. l. Rm1? brm intellectus post potest
C 11 ipsa res HLN 12 pr . in om. ENR , s.
l. F 13 etiam om. CL 14 uestigabit Lm2 inuestigabat
F 17 esse post intellectum F , post
uanniu N , om . R 18 enim falsum est CKNP
est om . H , er . L enim om. R 19
si CNPS, m1 in GHL , nec R
igitur—intelleguntur om . R quoniam om. CN ac] et
S neque FHN quae Sm1 20 neque FH
cum om. GLPS s. l. add. E, sed del . uerus] nec uerus GLR
earum HN est eorum CL non] neque N 22
fit Lm2 neque de ea de qua uerum aliquid intellegi proferriue
possit, inquiritur. Haec quidem est ad praesens de propositis quaestio;
quam nos Alexandro consentientes hac ratiocinatione soluemus. non enim necesse
esse dicimus omnem intellectum qui ex subiecto quidem fit, non tamen ut
sese ipsum subiectum habet, falsum et uacuum uideri. in his enim solis falsa
opinio ac non potius intellegentia est quae per compositionem fiunt. si enim
quis componat atque coniungat intellectu id quod natura iungi non patitur,
illud falsum esse nullus ignorat, ut si quis equum atque hominem iungat
imaginatione atque effigiet Cen- taurum. quodsi hoc per diuisionem et per
abstractionem fiat, non quidem ita res sese habet, ut intellectus est,
intellectus tamen ille minime falsus est; sunt enim plura quae in aliis esse
suum habent, ex quibus aut omnino separari non possunt aut, si separata
fuerint, nulla ratione subsistunt. atque ut hoc nobis in peruagato exemplo
manifestum sit, linea in corpore quidem est aliquid et id quod est, corpori
debet, hoc est esse suum per corpus retinet, quod docetur ita : si enim
separata sit a corpore, non subsistit; quis enim umquam sensu ullo
separatam a corpore lineam cepit? sed animus cum confusas res permixtasque in
se a sensibus cepit, eas propria ui et 4 Alexandro] testimonia Simplicii
in Categ. Aristot. p. 50 a , 45 ss., Dexippi p. 50 b 15—31 (= p. 45,
12—28 Busse), Dauidis p. 51 b , 10 ss. (Brandis) adfert Prantl, Gesch. d.
Logik im Abendlande I 623 n. 24. 6 sit CEFH (ex
fit ) NPR ante ut add . ita FN , s. l. Gm2Pm2
habeat FHm1NP 7 post uideri add . ut si quis
dicat lineam esse cum longitudine sine latitudine non est omnino falsum
F 8 compositionem] conjunctionem EGLPRS, recte? 9
quisquam HP quisque N ponat H intellectu] in
intellectu F id om. N 10 patiatur NR
11 pr . atque] aut N efficiet L ( c ex g
m2) efficiat CF effigiat Sa.c . 12 haec E
ad abstractionera s. l . ł (??)positionem Lm2 ł
abscisionem Pm2 fit R 13 ita post res
C, om. R 14 ille] ipse R 16 ut s. l. Cm2, del. Lm2
, post hoc F 17 ad peruagato s. l . ł
uulgato Pm2 18 hoc om. F est om. ELS, s. l. Gm2 ,
et F 19 ante docetur add . et CHNP, in mg.
Lm2 20 a om. ERS, s. l. Gm2 21 anima Em1Gm1Pm2Sm1
22 post permixtasque add . corporibus brm
capit C eas in mg. Hm2 cogitatione distinguit,
omnes enim huiusmodi res incorporeas in corporibus esse suum habentes sensus
cum ipsis nobis corporibus tradit, at nero animus, cui potestas est et
disiuncta componere et composita resoluere, quae a sensibus confusa et
corporibus coniuncta traduntur, ita distinguit, ut incorpoream naturam per se
ac sine corporibus in quibus est concreta, specnletur et uideat. diuersae enim
proprietates sunt incorpo- reorum corporibus permixtorum, etsi separentur a
corpore, genera ergo et species ceteraque uel in incorporeis rebus uel in
his quae sunt corporea, reperiuntur. et si ea in rebus incor- poreis inuenit
animus, habet ilico incorporeum generis intel- lectum, si uero corporalium
rerum genera speciesque perspexerit, aufert, ut solet, a corporibus
incorporeorum naturam et solam puramque ut in se ipsa forma est contuetur, ita
haec cum accipit animus permixta corporibus, incorporalia diuidens spe-
culatur atque considerat, nemo ergo dicat falso nos lineam cogitare, quoniam
ita eam mente capimus quasi praeter corpora sit, cum praeter corpora esse non
possit, non enim omnis qui ex subiectis rebus capitur intellectus aliter quam
sese ipsae res habent, falsas esse putandus est, sed, ut superius
dictum 20 superius] p. 164, 8. 2 corpore EGLRS 3
at nero om. C animi ( om . cui) R et om. GRS, s.
l. Lm2 post disiuncta add . ut equum et hominem quae iungi non
patitur natura, post composita add . ut corpus et lineam
et (sic) disiungi natura non patitur R 4 a s.l. m2 in
EGLS 5 ante incorpoream add . in FLNS 7 et]
ut S sunt proprietates CLR , add. ut equum et cetera R
8 ante corporibus add. et C etiamsi R et, s. l.
si Cm2F separarentur F (ra s. l.) R separantur Lm1N 9
ergo om. FN, del. Lm2 , uero H, s. l. Lm2 corporeis
Cm1GHLPa.c.R 10 incorporeis] corporeis Cm1 11 animus
inuenit FHNP post ilico add . ibi F, s. l. Gm2 , add .
quo E, sed del . 12 incorporalium Em1 speciesque] et species
esse F prospexerit HR 14 ante haec add .
et H (del. m2) N, s. l. Cm2 animus cum accipit F 15
accepit Pm1S animus accipit C post incorporalia add
. ea CHm2LPN diuisa Gm2 16 desiderat Em1Ga.c .
falso ante dicat F falsam CGm1Lm1 (
post nosl NRS 17 capiamus Cm2N 19 sese om.
F ipsae om . H , s. l. Em2 , ipsa F
est, ille quidem qui hoc in compositione facit falsus est, ut cum p.
56 hominem atque equum | iungens putat esse Centaurum, qui uero id in
diuisionibus et abstractionibus assumptionibusque ab his rebus in quibus sunt
efficit, non modo falsus non est, uerura etiam solus id quod in proprietate
uerum est inuenire potest. sunt igitur huiusmodi res in corporalibus
atque in sensibilibus, intelleguntur autem praeter sensibilia, ut eorum natura
per- spici et proprietas ualeat comprehendi, quocirca cum genera et species
cogitantur, tunc ex singulis in quibus sunt eorum similitudo colligitur ut ex
singulis hominibus inter se dissi- milibus humanitatis similitudo, quae
similitudo cogitata animo ueraciterque perspecta fit species; quarum specierum
rursus diuersarum similitudo considerata, quae nisi in ipsis speciebus aut in earum
indiuiduis esse non potest, efficit genus, itaque haec sunt quidem in
singularibus, cogitantur uero uniuersalia nihilque aliud species esse
putanda est nisi cogitatio collecta ex indiuiduorum dissimilium numero
substantiali similitudine, genus uero cogitatio collecta ex specierum
similitudine, sed haec similitudo cum in singularibus est, fit sensibilis, cum
in uniuersalibus, fit intellegibilis, eodemque modo cum sensibilis est,
in singularibus permanet, cum intellegitur, fit uniuersalis. subsistunt ergo circa
sensibilia, intelleguntur autem praeter corpora, neque enim interclusum est ut
duae res eodem in subiecto sint ratione diuersae, ut linea curua atque caua,
quae 1 cõpositionem GHR facit post hoc
H 2 quia Gm1R quod Sm2 3 id om. N, s. l.
Em2H , post diuisionibus F assumptionibus Em1Gm1P
atque assumptionibus CL 5 post solus add .
intellectus F , scil, intellectas s. l. Lm2 6
corporibus FHN post sensibilibus add .
rebus CHLNP 8 ante genera add . et CFS ; et
species et genera R 11 post pr . simili- tudo add .
colligitur N , scil, colligitur s. l. Hm2Sm2 cognita
Cm1F cognita uel cogitata N 12 ueraciter Lm2N
perfecta Em1NP sit FN 13 in om. C 14
earum] Pp.c. (corr. m1?) eorum cett . 17 substantiarum
R 18 collecta cogitatio Cm1LP 22 autem] tamen R
23 eadem Em1Gm1Ha.c . eidem Gm2Lm1 fin eodem m2 )
PR e * dem (sic) S in ante subiecto s. l.,
post eodem er. uid. C, om. EGLPRS 24 sint om. L concaua
Cm2N cauata Lm1 res cum diuersis definitionibus
terminentur diuersusque earum intellectus sit, semper tamen in eodem subiecto
reperiuntur; eadem enim linea caua, eadem curua est. ita quoque generibus et
speciebus, id est singularitati et uniuersalitati, unum quidem subiectum
est, sed alio modo uniuersale est, cum cogitatur, alio singulare, cum sentitur
in rebus his in quibus esse suum habet. His igitur terminatis omnis, ut
arbitror, quaestio dissoluta est. ipsa enim genera et species subsistunt quidem
alio modo, intelleguntur uero alio, et sunt incorporalia, sed
sensibilibus iuncta subsistunt in sensibilibus, intelleguntur uero ut per semet
ipsa subsistentia ac non in aliis esse suum habentia, sed Plato genera et
species ceteraque non modo intellegi uniuersalia, uerum etiam esse atque praeter
corpora subsistere putat, Aristoteles uero intellegi quidem incorporalia
atque uniuersalia, sed subsistere in sensibilibus putat; quorum diiudicare
sententias aptum esse non duxi, altioris enim est philosophiae, idcirco uero
studiosius Aristotelis sententiam executi sumus, non quod eam maxime
probaremus, sed quod hic liber ad Praedicamenta conscriptus est, quorum
Aristoteles est auctor. Illud uero quemadmodum de his ac de
propo- sitis probabiliter antiqui tractauerunt et horum ma- xime Peripatetici,
tibi nunc temptabo monstrare. Praetermissis his quaestionibus quas
altiores esse praedixit, 21—23] Porph. p. 1, 14—16 (Boeth. p. 25,
14—16). 1 earum] HPp.c.(corr. m1?) eorum cett . 3
enim om. LP quippe P, s. l. Lm2 concaua
Cm2N eadcmque FLRS 6 post singulare add .
est R, s. l. Sm2 9 post , alio] alio modo LR
10 post uero s. l . praeter corpora Pm2 11
subsistentia in ras. E substantia GSm1 13 ante
esse s. l . ea E praeter s. l. Cm2 15
ante sensibilibus add . ipsis G 16 dixi Lp.c.Sa.c
. 17 uero s. l. Cm2 20 auctor est CLP est om.
G 21 ante lemma ISTORIA add. S, sic ( uel
HIST-) ante omnia paene lemmata uero] autem Σ post, de
om. E 22 pro- babiliter] λογιχώτίρον Porph. p. 1,
15 tractauerint Cp c . GH X m1 23 monstrare
(demonstrare N ) temptabo FLN 24 ante
Praetermissis add . EXPOSITIO S, sic paene ubique ante explicat,
lemmatum Missis Sm1 exoptat mediocrem introductorii
operis tractatum, sed ne haec ipsa sibi harum quaestionum omissio uitio
daretur, apposuit quemadmodum de propositis tractaturus est, ex quorumque hoc
opus auctoritate subnixus adgrediatur, ante denuntiat, cum mediocritatem quidem
tractatus promittit detracta obscuri- tatis difficultate, animum lectoris
inuitat, ut uero adquiescat ac sileat ad id quod dicturus est, Peripateticorum
auctoritate confirmat, atque ideo ait de his, id est de generibus et spe-
ciebus, de quibus superiores intulerat quaestiones, ac de pro- positis, id est
de differentiis, propriis atque accidentibus, sese probabiliter
disputaturum, probabiliter autem ait ‘ueri similiter’, quod Graeci
λογικώς uel Ινδόξως dicunt, saepe enim et apud
Aristotelem λογικώς ‘ueri similiter’ ac ‘probabi- liter’ dictum
inuenimus et apud Boethum et apud Alexan- drum. Porphyrius quoque ipse in
multis hac significatione hoc usus est uerbo, quod nos scilicet in
translatione, quod ait λογικώς , ita interpretari ut ‘rationabiliter’
diceremus omisimus, longe enim melior ac uerior significatio ea uisa est, ut
pro- babiliter sese dicere promitteret, id est non praeter opini- onem
ingredientium atque lectorum, quod introductionis est proprium, nam cum
ab imperitorum hominum mentibus doc- trinae secretum altioris abhorreat, talis
esse introductio debet, p. 57 ut praeter opinionem ingredijentium
non sit. atque ideo melius 1 haec om. S 2 harum que
LS horumque Gm1 quaestionum] insti- tutionum
Gm1Lm1RS omissi Em1 omisso Lm1Sm1 amissio F 3
est s. l. Em2 , esset Gm1 ex] et FHN , s. l. (om
. ex) Em2 quo- rum FHN 4 subnisus EGm1Sm1
aggreditur EGLPRS 8 et] ac R 10 de] R, om. cett .
11 post ait add . id est C 12 λογιχώς
uel ένδόξως ] edd., ante λογιχώς add .
uel CGLPR ; ΛΟΓ ΙΚΟΟ uel ΛΩΓΙ- ΚΩΟ
uel alia sim. codd .; ΕΝ ΔΩ ΧΟΝ C, sim. Η endo ΧΩ Ο E
ΕΝ ΑΟΓΩ Ο S, alia uarie cett . 13 et om. GR est S
λογιχώς ] S , in cett. eadem fere quae 12
14 Boethum] b boetum p boethon Em2GNS
(recte?) boeton CEm1PR boethion F
bethon H boetoton Lm1 boeten m2 Boethum
(-tium m)rm 16 uerbo usus est CEGLRS 17 λογιχώς
] item ut 13 , λογικώτερον edd . 19
se L *mitteret, s. l . pro Cm2 23 ingredientium
opinionem C non ante praeter CEG ( corr. m2
) L atque ideo] ergo Gm1 (atque ita m2 )
LPm1RS melius probabiliter quam om. R, s. l. Gm2Sm2
probabiliter quam rationabiliter, ut nobis uidetur, inter- pretati sumus,
antiquos autem ait de eisdem disputasse rebus, sed <se< eorum illum
maxime tractatum insequi quem Peri- patetici Aristotele duce reliquerint, ut
tota disputatio ad Praedicamenta conneniat. 2 eisdem]
E (eis in ras .) hisdem cett . disputasse post
rebus C , ante de eisdem L , disputare N 3
se post illum add . brm , post sed
Brandt sequi CEm2HN 4 reliquerint] Gm1HPp.r .
relinquerint FSm1P a.r . relinquerent. R a. r.Sm2
reliquerunt CEGmSLNRp.r . EXPLICIT (CΟΜ- MENTARIORV add . C ,
COMENTORVM add. F , COMTV PLOLOGI, sic, add . S) LIB. I. INCIPIT
(LIB. add. F ) II.(INCIPIT. om. R ) CEFGPRS ( uariis cum
scripturis compendiisque), subscriptio deest in HLN Quaeri
in expositionum principiis solet, cur unum quodque ceteris in disputationis
ordine praeponatur, uelut nunc in genere dubitari potest, cur genus speciei,
differentiae, pro- prio accidentique praetulerit; de eo enim primitus
tractat, respondebimus itaque iure factum uideri; omne enim quod
uniuersale est, intra semet ipsum cetera concludit, ipsum uero non clauditur,
maioris itaque meriti est ac principalis naturae quod ita cetera cohercet, ut
ipsum naturae magnitudine nequeat ab aliis contineri, genus igitur et species
intra se positas habet et earum differentias propriaque, nihilo minus
etiam accidentia, atque ita de genere inchoandum fuit, quod cetera naturae suae
magnitudine cohercet et continet, praeterea illa semper priora putanda sunt
quae si auferat quis, cetera perimuntur, illa posteriora quibus positis ea quae
ceterorum substantiam perficiunt, consequuntur, ut in genere et ceteris,
nam si animal auferas, quod est hominis genus, homo quoque, quod species est,
et rationale, quod differentia, et risibile, quod proprium, et grammaticum,
quod accidens, non manebit et 2 ante Quaeri codd. et p exhibent
idem lemma (sine inscript.) quod p. 171,10 habent, om. brm expositione
CGm1L expositionis S prin- cipii CGm1L 3
dispositionis N 5 praetulerat C tractat in ras .,
s. l . scil, conamur Em2 tractare Em1Sm1 6
respondemus F 8 clu- ditur (i ex e m2 )
S naturae] naturae suae F 10 igitur] itaque C
et om . CN 11 etiam minus HS 12 etiam om.
R etiam et C ita] idcirco CE (in ras.) HLm2NP
ideo F inchoandum fuit] erat incho- andum FHNP 13
ante cetera add . et L natura suae magnitudinis FHN
coerceat et contineat Lm2 14 priora] propria LS
aufert Ca.c . 19 ante proprium add . est P, s. l.
Lm2 post gram- maticum add . esse FHP, s. l. Em2
post accidens add. est FP , ante N interemptum
genus cuncta consumit, si uero hominem esse constituas uel grammaticum uel
rationale uel risibile, animal quoque esse necesse est. siue enim homo est,
animal est, siue rationale, siue risibile, siue grammaticum, ab animalis
substantia non recedit, sublato igitur genere et cetera con- sumuntur, positis
ceteris sequitur genus; prior est igitur natura generis, posterior ceterorum,
iure est igitur in dispu- tatione praepositura. Sed quoniam generis
nomen multa significat hoc - est enim quod ait : Videtur autem neque
genus neque spe- cies simpliciter dici; ubi enim non est simplex dictio, illic
multiplex significatio est —, prius huius nominis significationes discernit ac
separat, ut de qua significatione generis tractaturus est, sub oculis ponat,
sed cum neque genus neque species neque differentia nec proprium nec
accidens significatione simplici sint, cur de his tantum duobus, genere inquam ac
specie, dixit non simpliciter dici, cum proprium, differentia atque accidens
ipsa quoque sint significatione multiplici? dicen- dum est quoniam longitudinem
uitans tantum speciem nomi- nauit eamque idcirco, ne solum genus
significationis esse multi- plicis putaretur, enumerat autem primam quidem
generis signi- ficationem hoc modo; Genus enim dicitur et
aliquorum quodammodo se habentium ad unum aliquid et ad seinuicem
collectio, 10 s.] Porph. p. 1, 18 (Boeth. p. 26, 1). 23—p. 172. 5] Porph.
p. 1, 18—23 (Boeth. p. 26, 1—8). 1 esse om. P 2
post grammaticum add . esse FHP , s. l. Em2 3
esse post est Gm2L , om. EGmIRS, post esse add .
constituas EP , s. l. Lm2 alt . est] sit FHNP 5 et
om. FHNR consummantur S 9 enim est L 10
ante Videtur add . INCIPIT Δ DE GENERE ΓΔΛΠ2Φ
Incipit diffinicio generis Ψ m. post., om. cett . autem
om. HN 12 est significatio C 13 tractatus R 14
est] sit P oculos HN neque genus om. C
15 pr . nec FHP neque proprium neque N 16
simplicia G (a add. m1 uel 2) LSm2 ac] et C 17 non] nec
G 18 atque om. C 19 est om. G 20 solem Gm1
21 quidem om. C 24 ad] et ad S aliquod EN P
IIS aliquem in ras . Cm2 , fort . aliquid
m1 secundum quam significationem Romanorum dicitur genus ab unius
scilicet habitudine, dico autem Romuli, et multitudinis habentium aliquo modo
ad inuicem eam quae ab illo est cognationem secundum diuisio- nem ab aliis
generibus dictae.| p. 58 Una, inquit, generis significatio
est quae in multitudinem uenit a quolibet uno principium trahens, ad quem
scilicet ita illa multitudo coniuncta est, ut ad se inuicem per eiusdem unius
principium copulata sit, ut cum Romanorum dicitur genus; multitudo enim
Romanorum ab uno Romulo uocabulum trahens et ipsi Romulo et ad se inuicem
quasi quadam nominis hereditate coniuncta est. eadem enim quae a Romulo
societas descendit, Romanos inter se omnes uno generis nomine deuin- cit et
colligat, uidetur autem secuisse hanc generis signifi- cationem in duas partes,
cum copulatiuam coniunctionem admiscuit dicens; genus dicitur et
aliquorum quodam- modo se habentium ad unum aliquid et ad se inuicem collectio,
tamquam et illud genus dicatur ad unum se aliquo modo habere et hoc rursus
genus dicatur, quod ad se inuicem unius generis significatione coniuncti sint.
hoc uero minime; eadem enim a quolibet uno propagata societas et ad illum
qui princeps est generis, totam multitudinem refert et ipsam 1
significationem] diffinitionem Φ romanura Cm1G 2
scilicet om. Porph. p. 1, 20 3 ante inuicem add .
se L (s. l. m2) brm Busse; cf. p. 173, 12 4 eam quae]
eamque CR 5 dictae] Hm1Lm2R \ m2 W dictam cett.;
cf. p. 173, 14 et Porph. p. 1, 23 ( τού πλήθοος_ ) κεκλιμένοι» 7
uno om. FGRS, s. l. Em2 , unum H; cf. 21 ad quem s. l .
ał quod Lm2 8 est coniuncta F 9 dicitur—Romanorum
in mg. E, s. l. Gm2, uerba multitudo enim Romanorum del. Lm2
11 post trahens add . sit E (del.) G (del. m2), s. l.
Lm2 12 ea E (ras. ex eadem ) FHN ab CEH 14
colligit CFPm2RS alligat L 16 genus om . H,
s. l. N dicitur] edd., om. H dici cett. (s. l. N)
17 ad] et ad S aliquod N 18 collectionem FH
aliquo modo om. EGRS 19 rursus post genus C
rursum S dicatur—generis om. GRSm1 dicatur unius
generis s. l. m2 20 coniunctiua EGR coniuncta Sm2
sint] NS sunt CFHLP , om. EGR post minime
add . est LPm2 22 refert—multitudinem om. EGSm1, s. l. m2
(sed praefert ) inter se multitudinem uno generis nomine
conectit et continet. quocirca non est putandus diuisionem fecisse, sed omne
quic- quid in hac generis significatione intellegendum fuit, aperuisse. ordo
autem uerborum ita sese habet — qui est hyperbaton intellegendus —:
‘genus enim dicitur et aliquorum ad unum se aliquo modo habentium collectio et
ad se inuicem aliquo modo habentium’ — rursus ‘collectio’ subaudienda; est enim
zeugma —, cuius significationis adiecit exemplum : secundum quam
significationem Romanorum dicitur genus ab unius scilicet habitudine,
dico autem Romuli, et multitudinis rursus habitudine habentium aliquo modo ad
inuicem cognationem, eam scilicet quae ab illo est, id est Romulo, secundum
diuisionem ab aliis generibus dictae, scilicet multitudinis. haec enim
multitudo aliquo modo ad unum et ad se inuicem habens genus dicta est, ut
ab aliis discerneretur, ut Romanorum genus ab Atheniensium ceterorumque
separatur, ut sit integer uerborum ordo : ‘genus enim dicitur et aliquorum
collectio ad unum se quodammodo habentium et ad se inuicem, secundum quam
significationem Romanorum dicitur genus ab unius scilicet habitudine,
dico autem Romuli, et multitudinis secundum diuisionem ab aliis generibus
dictae, habentium scilicet hominum aliquo modo ad inuicem eam quae ab illo est,
id est Romulo, cognatio- 1 nomine] EGLRS uinculo CFHN
nomine uel uinculo P 4 se FHNP qui om. ER, s. l. Gm2Sm2
6 pr . sese L 7 ante collectio s. l . et ( ut uid
.) C subaudiendo N , post sub. add .
est LR, ante s. l. Pm2 8 zeuma EFGHPS 14 dictam
EGm1Lm1PSm2 haec enim multitudo om . ERS, s. l. Gm2
aliquo modo om . FP, ante add . et C, post add . se P
(del. m1?), s. l. Gm2H 15 post unum s. l .
aliquid Gm2 post habens add . cognationem Pm2 edd . 17
separetur Fa.c.N separaretur CFp.c.HLm1 sit] sic
H (sit post uerborum,) P (sit post
ordo,) sic sit F ; integer sit C ; ordo uerborum, post repet
. sit N 18 collectio om. E 20 ab] ad F
habitudinem F , post repetit uerba post . aliquo— exemplum
(6—8) G 22 dictam CEGm1Lm1Sm2 post habentium add .
se Lm2P 23 id est om. S, in quo post cognationem locus
p. 172, 4—13 secundum—deuincit et collegit (sic) repetitus (5 dicta
est, 12 ea script.) nem.’ Atque haec hactenus;
nunc de secunda generis signi- ficatione dicendum est. Dicitur
autem et aliter rursus genus, quod est unius cuiusque generationis principium
uel ab eo qui genuit uel a loco in quo quis genitus est. sic enim Orestem
quidem dicimus a Tantalo habere genus, Hyllum autem ab Hercule, et rursus
Pindarum qui- dem Thebanum esse genere, Platonem uero Athenien- sem; etenim
patria principium est unius cuiusque generationis, quemadmodum et pater. haec
autem uide- tur promptissima esse significatio; Romani enim sunt qui ex
genere descendunt Romuli, et Cecropidae, qui a Cecrope, et horum proximi.
Quattuor omnino sunt principia quae unum quodque prin- cipaliter
efficiunt. est enim una causa quae effectiua dicitur, uelut pater filii,
est alia quae materialis, uelut lapides domus, tertia forma, uelut hominis
rationabilitas, quarta, quam ob rem, uelut pugnae uictoria. duae uero sunt quae
per accidens unius 3—13] Porph. p. 1, 23—2, 7 (Boeth. p. 26, 8—16).
4 generationis om . A , in ras. C quae Gm1
ll m1 5 a loco] ab eo loco CEGLRS; Porph. p. 2, 1
άπ6 τού τόποα sic ex si Cm2 enim in
ras. Cm2 6 oresthē C oresten LN ΣΝΑΣΦ
horestem FH T dicemus S genus habere F 7 Hyllum]
Gm1 yllum m2 illum ( ad quod s. l . tan- talum A
m2 ) cett . autem om. G 8 ante Thebanum add
. dicimus 2 9 principium] Porph. p. 2,4 αρχή τις
; cf. infra p. 178, 17 10 et] Ν Ψ (er. uid.) brm,
s. l . Δ , om. cett. Busse; Porph. p. 2, 5 καί
om. codd. quidam (habet M) ; cf. p. 176, 1 11 esse om.
H sunt om. EFG- ΗΝS ΑΑΣ , s. l. Lm2 , in mg . U
m2 dicuntur edd.; Porph. p. 2, 6 λέγονται ; cf.
p. 176, 7 12 cecropides Σ 13 a Cecrope] cecropis Ea.c .
(a cecropis p.c .) G (cae- m1 ci- m2
) R ex genere descendunt cecropis LS ΑΑΣ , s. l.
Em2 ( om . cecropis), fort. ex p. 176, 8 ; Porph. Κ εκροπίδαι
ol άπό Κέκροπος eorum HL A , in ras . 2 14 efficiunt
principaliter H 16 filii] et filius Em1FGLPRS post
materialis add . dicitur FPR 17 ante forma
add . a R, s. l. Sm2, ras. in E uelut * (i er
.) C quam] NS, om. R , quae cett., fort. recte ob
rem s. l. Rm2 18 pugnae uictoria] N pugna
uictoriae cett . duo CNP accidentes Ea.c.GHm1 (
in mg . ał accidentialiter m2 ) Lm1RSm2 accidentis
m1 cuiusque dicuntur esse principia, locus scilicet ac tempus.
quoniam enim omne quod nascitur uel fit, in loco ac tempore est, quicquid loco uel
tempore natum factumue fuerit, eum locum uel id tempus accidenter dicitur
habere principium. horum omnium in hac secunda generis significatione duo
quae- dam ex alterutris assumit, quae ad significationem generis uidebuntur
accommoda, ex his quidem quae principalia sunt, effectiuum, | ex his uero quae
accidentia, locum. ait enim ‘genus p. 59 dicitur et a quo quis
genitus est’, quod est effectiua princi- palium causa, ‘et in quo quis
loco est procreatus’, quae est accidens causa principii. itaque haec secunda
significatio duo continet, eum a quo quis procreatus est, et locum in quo quis
editus, ut exempla quoque demonstrant. Orestem enim dicimus a Tantalo genus
ducere; Tantalus quippe Pelopem, Pelops Atreum, Atreus Agamemnonem,
Agamemnon genuit Orestem. itaque a procreatione genus hoc dictum est. at uero
Pindarum dicimus esse Thebanum, scilicet quoniam Thebis editus tale generis
nomen accepit. sed quoniam diuersum est illud, a quo quis procreatus est,
locusque in quo quis editus, uidetur diuersa esse generis significatio
procreantis et loci, quam in secunda scilicet parte enumerans unam fecit. sed
ne uideretur duplex, per similitudinem coniunxit dicens : etenim patria
principium est unius cuiusque generationis, 2 uel in ras. E
et C 3 quicquid ex quo quid Cm2, ante add . et F,
post add . enim L 4 accidentaliter CLN
accidentialiter EGPSm2; cf. indicem Meiseri 5 ex alterutris duo
quaedam FP 6 consumit S sunt Cm1H sumit
Cm2, s. l. N generis significationem H 7 uidebantur
LPRS uideantur EG accommodata R post quidem
add . causis codd., om. unus F, del. Hm2 8 ante
effectiuum add . sumit H accidentalia N 9 dici
CFNP et om. C, s. l. Lm2 quisque CGRS 10 loco
procreatus est L procreatus est loco N quod
GKS 13 editus] editus est FHNP post quoque add .
ipsa FHP, s. l. Lm2 oresten LN , item 16 14
pelopen E 15 agamemnonen EG (-men) 17 quoniam]
quia FHN ante Thebis s. l. a Hm2? 18 editus] editus
est CL accipit C est om. G 19
pr. quisque R editus] editus est NP (est s.
l. m2 ) 22 post uideretur add . tamen EP, s. l.
Lm2 adiunxit FN 23 patria s. l. Cm2, in mg. F
generati Em1 generis RSm1 quemadmodum et pater.
sed quoniam in significationibus euenit fere, ut sit aliquid quod intellectui
significatae rei pro- pinquius esse uideatur, quoniam duas generis apposuit
signi- ficationes, multitudinis scilicet et procreantis, cui generis nomen
conuenientius aptetur, iudicat atque discernit dicens hanc esse
promptissimam generis significationem quae a procreante deducta sit; hi enim
maxime Cecropidae sunt qui a Cecrope descendunt, hi Romani, qui a Romulo. quae
cum ita sint, confundi rursus generis significationes uidentur. si enim hi sunt
maxime Romani qui a Romulo originem trahunt, et haec significatio illa
est quae a procreante deducitur, ubi est reliqua, quam primam quoque
enumerauit, quae est ‘mul- titudinis ad unum et ad se inuicem quodammodo se
habentium collectio’? sed acutius intuentibus plurimae admodum diffe- rentiae
sunt. aliud est enim a quolibet primo procreante genus ducere, aliud unum
genus esse plurimorum. illud enim et per rectam sanguinis lineam fieri potest
et non in multa diffundi, ut si per unicos familia descendat, huic enim
aptabitur secunda illa generis significatio, quae a procreante deducitur; prima
uero illa non nisi in multitudine consistit. illud quoque est, quod prima
procreationis principium non requirit, sed, ut ipse ait, sufficit aliquo modo
se habere ad id unde huiusmodi generis principium sumitur, secunda uero
significatio nullam uim nisi procreante sortitur. item in illa primae
significationis multitudine huius secundae particularitas continetur, ut
in 2 fere] saepe C (ante euenit ) LNPm2S
intellectu G signi- ficandae FRSm2 propinquis
F propinquus Gm1PR propinquum N 3
quoniamque Em2HLm2P, post quoniam add . qui Sm1, del.
m2 4 generi EGH (s er .) 6 esse om. G 7
ducta R cecropides R 8 Cecrope] cecropede
FR (-ide) post Romulo add . descendunt N 9
significationes generis C 11 ducitur Lm1 15 est
s. l. F, post enim CL enim om. N aliquolibet ( om
. a) G 16 deducere CLm1 et om. N 18
si s. l. Lm2, del. Sm2 per—descendat] puer unicus familiam distendat
Cm1FHN aptatur N 21 est] est intellegendum C
primae Hm2 24 <a> procreante Engelbrecht
prima EGHLm1RS Romanorum genere Scipiadarum genus; nam cum
sint Romani, Scipiadae sunt. quoniam enim ad Romulum et ad ceteros Romanos
secundum Romuli habitudinem iuncti sunt, Romani sunt, Scipiadae uero dicuntur
ad secundam generis significa- tionem, quia eorum familiae Scipio et
sanguinis principium fuit. Et prius quidem appellatum est genus
unius cuius- que generationis principium, dehinc etiam multitudo eorum qui sunt
ab uno principio, ut a Romulo; namque diuidentes et ab aliis separantes
dicebamus omnem illam collectionem esse Romanorum genus. Sensus
facilis et expeditus, si tamen ambiguitas una sol- uatur. cum enim prius
multitudinis significationem retulerit ad generis nomen, post autem ad
procreationis initium, nunc contrario modo illam prius a se enumeratam
significationem dicere uidetur quae est procreationis, illam uero posteriorem
quae est multitudinis; quod contrarium uideri potest, si quis ad ordinem
superius digestae disputationis aspexerit. sed hic non de se loquitur, sed de
humani consuetudine sermonis, in quo prius eam significationem generis
fuisse dicit quae a procreante sit tracta, accedente uero aetate loquendi usu
nomen generis etiam ad multitudinem habentem se quodam- modo ad aliquem fuisse translatum,
hoc uero idcirco, quoniam 7—11] Porph. p. 2, 7—10 (Boeth. p. 26,
16—19). 1 nam] natura CFL 2 scipiades HNP ante
pr. ad add . et FHNP , s. l. Em2Lm2 post, ad om.
L 4 scipiades N 5 quia] quod E et om. NP,
s. l. Cm2 8 generationis in ras. Cm2 generis PR 9
nam- que ( sic etiam B Bussii )] om . ΛΦ , add. Hm2 \
m2 nam 2 quam edd. Busse; Porph. p. 2, 8 το
πλήθ-ος—δ 10 post aliis add . generibus F ,
s. l. Lm2 11 collationem Λ collectionem post
esse HP ; romanorum esse collectionem F 12 post
facilis s. l . est Lm2Pm2 facile ( om . et) FN
expeditur FNPa.c . 13 retulerat F retulit R
14 post , ad om. FHNR, s. l. Sm2 post nunc s. l .
autem Lm2 15 prius] posterius CLm2NP numeratam
N 16 post uidetur add . priorem CGLNP 18
perspexerit C 21 loquendique CN et (s. l.
m1?) loquendi H 23 ante hoc s. l .
dicit Lm1?, post idcirco in mg . dixit Pm2 superius
dixerat : haec enim uidetur promptissima esse significatio, ut ab hac, id est
secunda, quam promptissimam significationem esse dixit, illa quoque nuncupata
uideretur, quae est multitudinis. prius enim genus inter homines appel- latum
est quod quis a generante deduceret, post autem factum est, ut per
loquendi usum etiam multitudinis ad aliquem p. 60 quodammo|do se habentis
genus diceretur propter diuisionem scilicet gentium, ut esset inter eas nominis
societatisque discretio. His igitur expletis uenit ad tertium genus
quod inter philosophos tractatur cuiusque ad dialecticam facultatem multus
usus est. horum quippe generum historia magis uel poesis tractat exordium,
tertium uero genus apud philosophos con- sideratur. de quo hoc modo loquitur
: Aliter autem rursus genus dicitur cui supponitur species, ad
horum fortasse similitudinem dictum. et- enim principium quoddam est
huiusmodi genus earum quae sub ipso sunt specierum, uidetur etiam multi-
tudinem continere omnem quae sub eo est. Duplicem significationem
generis supra posuit, nunc tertiam monstrare contendit, hanc autem ad superiorum
similitudinem 1 superius] p. 174, 10. 14—18] Porph. p. 2, 10—13 (Boeth.
p. 26, 19—23). 1 enim] autem p. 174 , 10 2 secundum
GR a (s. l.) secunda E 5 quis Cm2
prius m1 7 duceretur Cm1 diuisiones
EFHLm2NP 8 esset] est (s. l.) et E has
FH 9 expeditis N ad om. F 10 cuius CF
multus post usus Lm1R , multum G 11 poesi
Cm1 13 hoc] 2 litt. er. C 14 genus ante
rursus Λ , post dicitur Φ cui—genus (16)
om. N, quod indicatur uoce usque addita (dicitur usque
earum); sic ( saepe etiam usque ad) paene constanter in
N aliisque codd. ubi mediae lemmatum partes omissae sunt 15 ab..
similitudine GL \ m2 \Z 16 eorum A m2 A
earum—specierum] Porph. p. 2, 12 τών δφ’ lauto 17
ipso om . h m1 se m2Lp.c. \HA> sunt add.
Gm2 \ m2 uideturque brm Busse; Porph . xai SoxeT xai
etiam] enim F autem Δ 18 omnem] 2 ( h m1 ß m1 )
omnium CEGLPRS h m2 U m2 earum FHN, s. l. post omnium
Lm2 sub eo est] PA m1 AU m1 ST est Φ sub eo
(ipso F \ m2 se Lm2 ) sunt (est E, s. l. G )
specierum EFGHLNPp.c . (sunt eo sub a.c .) RS \ m2 U m2
sunt sub eo specierum C; cf. Porph. p. 2,12 s . 19 pro- posuit edd
. 20 superiorem FLm1Pm1 dictam esse arbitratur. superius
autem dictae significationes sunt una quidem, cum nomen generis quadam
principii anti- quitate ad se iunctam multitudinem contineret, alia uero, cum
genus ab uno quoque procreante duceretur, quod eorum quae procreantur
principium est. cum igitur sint superius duae generis propositae significationes,
tertium nunc addit de quo inter philosophos sermo est, illud scilicet cui sup-
ponitur species, quod idcirco genus uocatum esse sub opinionis credit ambiguo,
quoniam habet aliquam similitudinem supe- riorum. nam sicut illud genus
quod ad multitudinem dicitur, uno suo nomine multitudinem claudit, ita etiam
genus plurimas species cohercet et continet. item ut genus illud quod secun-
dum procreationem dicitur, principium quoddam est eorum quae ab ipso
procreantur, ita genus speciebus suis est prin- cipium. ergo quoniam
utrisque est simile, idcirco nomen quoque generis etiam in hac significatione a
superioribus mutuatum esse ueri simile est. Tripliciter igitur cum
genus dicatur, de tertio apud philosophos sermo est; quod etiam describentes
adsi- 18—p. 180, 3] Porph. p. 2, 14—17 (Boeth. p. 26, 24—27, 2).
1 dictam esse arbitratur] ut dictum est GRS autem om.
C, s. l. Lm2, del. Pm2 dictae] duae Lm1, ante sunt s. l
. dictae m2 , duae ex dictae H (ras.) Sm2, ante
dictae s. l. Pm2, ante sunt edd., post R 2 quidem
om. C cum in mg. Cm2 quae m1N quadam om.
EFG quandam H qua RSm1 antiquitatem H
3 ad se iunctam] CLm2 ad se et adiunctam HN ad se
iniunctam Sm1 ab uno quoque iniunctam R adiunctam
cett.; cf. p. 177, 2 continet Cm1 (corr. in mg. m2) Nm2
aliam G 4 deduceretur E 5 qui P 6
tertiam et qua F 7 post scilicet add
. genus F, s. l. Sm2 8 ante opinionis add . suae
N, post CHLP, s. l. Em1?, in mg. Sm2 se m1 9 creditur
Ca.r.FR 10 a multitudine Ep.c.FHN 11 suo] sub C
(nomine sub uno) FHNPm2 , ex suo EL ita in mg.
Cm2, s. l. Nm2 13 est] esse EGLm2RS 14 post
suis add . constat FHN, post genus s. l. Em2 est]
CLm1P esse cett . 15 idcirco] id C nomen
post generis FHNP, post quoque L 16 in hac
etiam FHN hanc significationem CP 18 cum
genus—sit (p. 180, 2) om. N dicitur S A m1 /AS 19
etiam] etiam et R gnauerunt genus esse dicentes quod de
pluribus et differentibus specie in eo quod quid sit praedicatur, ut
animal. Iure tertium genus philosophi ad disputationem sumunt; hoc
enim solum est quod substantiam monstrat, cetera uero aut unde quid
existat aut quemadmodum a ceteris hominibus in unam quasi populi formam
diuidatur ostendunt. nam illud quod multitudinem continet genus, illius
multitudinis quam continet substantiam non demonstrat, sed tantum uno nomine
collectionem populi facit, ut ab alterius generis populo segre- getur.
item illud quod secundum procreationem dictum est, non rei procreatae
substantiam monstrat, sed tantum quod eius fuerit procreationis initium. at
uero genus id cui sup- ponitur species, ad speciem accommodatum speciei
substantiam informat. et quia inter philosophos haec maxima est quaestio,
quid unum quodque sit — tunc enim unum quodque scire uidemur, quando quid sit
agnoscimus —, idcirco reiectis ceteris de hoc genere quam maxime apud
philosophos sermo est, quod etiam describentes adsignauerunt ea descrip- tione
quam subter annexuit. diligenter uero ait describentes, non definientes;
definitio enim fit ex genere, genus autem aliud genus habere non poterit. idque
obscurius est quam ut primo aditu dictum pateat. fieri autem potest ut res
quae 1 esse ante genus Pm1, post dicentes
Σ et om. F 2 differentiis R quid]
iterum quod P praedicetur Γ 3 ut animal om
. ΑΣ 5 est solum enim CN enim est solum FP
6 existit E (it in ras .) GLPS existet
Sm1 extitit HN <multitudo> a Brandt 7 una...
forma EGRS diuidantur G ostendit EGLPm1S 8
multitudinis] multi- tudinem G 12 procreantis Nm1 13
atque G 14 ad speciem om. N ad differentiam
Cm2FLm1Pm2 edd . 15 quaestio est FHN 16 unum om. EGRS
enim] etenim FN quodque unum G 17 uidemur]
debemus E (in ras.) GPm1RS, post uidemur add . uel
debemus Hm1 del. m2 post reiectis add . quia non
demonstrant substantiam L temptatis temporum Sm1, del.
m2 19 post quod add . genus EPm1, del. m2
20 ait ex aut Em1 addit m2NP addidit
F 21 ex] de H 23 dictum om. FH dictu GLS
autem] enim FNP alii genus sit, alii generi supponatur, non
quasi genus, sed tamquam species sub alio collocata. unde non in eo quod genus
est, supponi alicui potest, sed cum supponitur, ilico species fit. quae cum ita
sint, ostenditur genus ipsum in eo quod genus est, genus habere non posse.
si igitur uoluisset genus definitione concludere, nullo modo potuisset; genus
enim aliud quod ei posset praeponere, non haberet, atque idcirco descriptionem
ait esse factam, non definitionem. descriptio uero est, ut in priore uolumine
dictum est, ex proprietatibus infor- matio quaedam rei et tamquam
coloribus quibusdam depictio, cum enim plu|ra in unum conuenerint, ita ut omnia
simul rei p. 61 cui applicantur aequentur, nisi ex genere uel
differentiis haec collectio fiat, descriptio nuncupatur. est igitur descriptio
generis haec : genus est quod de pluribus et differen- tibus specie in eo
quod quid sit praedicatur. tria haec requiruntur in genere, ut de pluribus
praedicetur, ut de specie differentibus, ut in eo quod quid sit. de qua re
quoniam ipse posterius latius disputat, nos breuiter huius rei intellegentiam
significemus exemplo. sit enim nobis in forma generis animal. id de
aliquibus sine dubio praedicatur, homine scilicet, equo, boue et ceteris. sed
haec plura sunt. animal igitur de pluribus praedicatur, homo uero, equus atque
bos talia sunt, ut a se discrepent, nec qualibet mediocri re, sed tota specie,
id est tota forma suae substantiae. de quibus dicitur animal; homo enim
et equus et bos animalia nuncupantur. praedicatur ergo animal de pluribus specie
differentibus. sed quonam modo fit 9 in priore uolumine] cf. p. 42, 8—43,
6 potius quam p. 153, 10 ss.; cf. Proleg. adn. 7. 1 genere G
post supponatur add . sed cum (alii add. P ) subponi- tur (
uel sup-) CFHN, s. l. Pm2 non—potest (3) del. E 2
col- locatur CFHNPm2 non] enim EF 7 ei (eius HN )
aliud quod HNPm1RS possit EGS 9 priori LN
ex om. GHS, s. l. Em2Lm2 11 plurima L plura post
unum C 16 post . ut om. FG 18 late E (in
ras.) FHP, ecte ? 19 exemplo] hoc modo CLP 20 prae- dicetur
CEGPm1RS ante equo add . et FHLN, er. P 21 boue] et
boue L et er. uid. C 22 a] ad Lm1S 23
mediocri re] medio- critate H 24 forma tota E (del. tota) G
26 fit om. G haec praedicatio? non enim quicquid
interrogaueris, mox ani- mal respondetur : non enim si quantus sit homo
interrogaueris, ‘animal’ respondebitur, ut opinor; hoc enim ad quantitatem
pertinet, non ad substantiam. item si ‘qualis’ interroges, ne huic quidem
responsio conuenit animalis, ceterisque omnibus inter- rogationibus hanc
animalis responsionem ineptam atque inu- tilem semper esse reperies, nisi ei
tantum apta est quae quid sit interroget. interrogantibus enim nobis quid sit
homo, quid sit equus, quid sit bos, ‘animalia’ respondebitur. ita nomen
animalis ad interrogationem ‘quid sit’ de homine, equo atque boue ac de
ceteris praedicatur, unde fit ut animal praedicetur de pluribus specie
differentibus in eo quod quid sit. et quo- niam generis haec definitio est,
animal hominis, equi, bouis genus esse necesse est. omne autem genus aliud est
quod in semet ipso atque in re intellegitur, aliud quod alterius prae-
dicatione. sua enim proprietas ipsum esse constituit, ad alte- rum relatio
genus facit, ut ipsum animal, si eius substantiam quaeras, dicam substantiam esse
animatam atque sensibilem. haec igitur definitio rem monstrat per se sicut est,
non tam- quam referatur ad aliud. at uero cum dicimus animal genus esse,
non, ut arbitror, tunc de re ipsa hoc dicimus, sed de ea relatione qua potest
animal ad ceterorum quae sibi subiecta 2 non] num FHN
rogaueris Cm1GS 3 ante animal add . mox F
respondetur F ut] non FHN 4 post
qualis add . sit FHNP, s. l. Em2, s. l . homo sit Lm2
interroges] Em1Lm1P roges cett . nec CG
haec CSm2 id m1 hic FN 5
interrogantibus EG 6 ineptam] CFHNPp.c.Lm2
idiotam E (s. l. i . inertem m2) GLm1 (s. l. inpro-
priam m1?) Pa.c.S Hilgard idiotam uel ineptam R
idiotae Engelbrecht 7 nisi] ni C 8 interrogat
Em2HN enim] autem F post . quid] quidque R 9 sit
om. E animal C item EGLm1PRS 11 ac] et
R 13 ante bouis add . atque FHNP 14 genus
autem C 15 ante alterius add . ad
CEm2HN praedicationem Em1PSm1 edd., post add . refertur Pm2
edd . 18 dicas Lm2 21 esse om. EGRS, s. l. Lm2 re
om. EGR, s. l. Sm2 post hoc add . nomen C, s. l .
Em2Pm2, ante FHNS de del. L, s. l. Pm2 22 relatione in
ras . E ratione GLPm1R sunt praedicationem
referri. itaque character est quidam ac forma generis in eo quod referri
praedicatione ad eas res potest, quae cum sint plures et specie differentes, in
earum tamen substantia praedicatur. Huius autem definitionis
rationem per exempla subiecit dicens : Eorum enim quae
praedicantur, alia quidem de uno dicuntur solo, sicut indiuidua ut Socrates et
hic et hoc, alia uero de pluribus, quemadmodum genera et species et
differentiae et propria et accidentia com- muniter, sed non proprie alicui. est
autem genus qui- dem ut animal, species uero ut homo, differentia autem ut
rationale, proprium ut risibile, accidens ut album, nigrum, sedere.
Omnium quae praedicantur quolibet modo, facit Porphyrius diuisionem
idcirco, ut ab reliquis omnibus praedicationem generis seiungat ac separet, hoc
modo. omnium, inquit, quae praedicantur, alia de singularitate, alia de
pluralitate dicuntur. 7—14] Porph. p. 2, 17—22 (Boeth. p. 27, 2—7).
1 post itaque add . ut P, s. l. Lm2 est om.
R, post generis F quiddam Ea.r.G quidem
CNPm1 2 praedicatione post res C 3 eo- rum
CGNS, m1 in ELP 4 tantum E substantiam NR , -a
ex -a CS; cf. p. 187, 11. 18 5 autem om. C, in mg.
Lm2 8 indiuiduum C indibus ( s. l . indiuidua Em2 )
diabus (a, ex e E ) EG ut Socrates— hoc om.
CLNP ,—risibile (13) om. E (in mg . sicut socrates et hic et hoc)
GH ut] sicut Em2 (in mg.) RS ΑΣ et hic et hec et hoc
F 9 uero om. CFLNPR autem Σ
quemadmodum—risibile (13) om. CL ( sed uerba est autem
11 —sedere 14 exhibet p. 184 , 14) NP ut genera, om. reliqua
usque accidens (13) F 10 differentia Sm1
m1 pro- prium Γ 11 sed] et ΛΣ
proprie] L (p. 184, 14) R Ψ propria ΓΑΑΠ ( ras.
ex -ae) 2 (a in ras .) Φ ( post
alicui); Porph. p. 2, 20 ιδίως est— risibile om.
R est—sedere (14) om. S 12 uero s. l . Δ m2 Φ
m2 13 ante accidens add . ut CL ut] id
est CLm2P uel E et R; Porph. 2,22
otov 14 ante nigrum add. et R
16 a LPS 17 post separet add . et (F) id
facit FHN, s. l. Em2 18 pr . alia] alia quidem
FHN alia de singularitate om. G, s. l. Em2, post
pluralitate CLm1 post . alia] alia uero FHNS dicuntur]
praedicantur post singularitate FHN de singularitate
uero, inquit, praedicantur quaecumque unum quodlibet habent subiectum de quo
dici possint, ut ea quibus singula subiecta sunt indiuidua, ut Socrates, Plato,
ut hoc album quod in hac proposita niue est, ut hoc scamnum in quo nunc
sedemus, non omne scamnum – hoc enim uniuersale est —, sed hoc quod nunc
suppositum est, nec album quod in niue est — uniuersale est enim album et nix
—, sed hoc album quod in hac niue nunc esse conspicitur; hoc enim non potest de
quolibet alio albo praedicari quod in hac niue est, quia ad singularitatem
deductum est atque ad indiuiduam formam constrictum est indiuidui
participatione. alia uero sunt quae de pluribus praedicantur, ut genera,
species, differentiae et propria et accidentia communiter, p. 62
sed non proprie alicui. | genera quidem de pluribus praedi- cantur speciebus
suis, species uero de pluribus praedicantur indiuiduis; homo enim, quod
est animalis species, plures sub se homines habet de quibus appellari possit.
item equus, qui sub animali est loco speciei, plurimos habet indiuiduos equos
de quibus praedicetur. differentia uero ipsa quoque de pluri- bus speciebus
dici potest, ut rationale de homine ac de deo corporibusque caelestibus,
quae, sicut Platoni placet, animata sunt et ratione uigentia. proprium item
etsi de una specie praedicatur, de multis tamen indiuiduis dicitur, quae sub
conuenienti specie collocantur, ut risibile de Platone, Socrate et ceteris
indiuiduis quae homini supponuntur. accidens etiam 1 uero om.
FHN 2 possunt CLm1 3 ante Plato add . ut
FH, s. l. Lm2 et N edd . 4 quod] ut F ut] et
N 6 sed] sed et F 7 niui Gm2Sm1 enim est FL
8 niui Sm1, item 9 9 hac] alia EFGR (a.c.ut uid. ac
p.c.) Sm1 10 post , ad om. GHLR, s. l. Em2Nm2 , in
FSm2 14 propriae FGa.c.Sm1 propria CHLN post
alicui uerba lemmatis p. 183, 11—14 est autem—sedere add.
L 15 plurimis FN 16 post indiuiduis add .
suis CFHP 17 qui] quod FHN 19 praedicatur
FHN 20 potest dici E 21 quae om. R, s. l. Sm2 q.
er. N 22 item] autem Lm2P specie om. C 23
tamen ante de H 25 post indiuiduis
add . dicitur CLP, s. l. Hm2 hominibus EG homini
* ( b. ? er.) L supponantur Em1GS
supponuntur ante homini C de multis dicitur; album enim
et nigrum de multis omnino dici potest quae a se genere specieque seiuncta
sunt. sedere etiam de multis dicitur; homo enim sedet, simia sedet, aues
quoque, quorum species longe diuersae sunt. accidens autem quoniam
communiter accidens esse potest et proprie alicui, idcirco determinauit dicens
et accidentia communiter, sed non proprie alicui. quae enim proprie alicui
accidunt, indi- uidua fiunt et de uno tantum ualentia praedicari, ea quae
communiter accipiuntur, de pluribus dici queunt. ut enim de niue dictum
est, illud album quod in hac subiecta niue est, non est communiter accidens,
sed proprie huic niui quae oculis ostensionique subiecta est. itaque ex eo quod
commu- niter praedicari poterat — de multis enim album dici potest, ut albus
homo, albus equus, alba nix —, factum est, ut de una tantum niue
praedicari illud album possit cuius partici- patione ipsum quoque factum est
singulare. omnino autem omnia genera uel species uel differentiae uel propria
uel acci- dentia, si per semet ipsa speculemur in eo quod genera uel species
uel differentiae uel propria uel accidentia sunt, mani- festum est
quoniam de pluribus praedicantur. at si ea in his speculemur in quibus sunt, ut
secundum subiecta eorum formam et substantiam metiamur, euenit ut ex
pluralitate praedicationis ad singularitatem uideantur adduci. animal
enim, 3 enim om. C et (s. l. m2) enim
L sedit CN simia] post sedet FH et simia
R aues] auis N set et aues F sedet auis
H 4 quo- que om. FN , uero L quarum Lm1
post sunt s. l . sedent Pm2 scil, sedent
Sm2 5 ante communiter add . et FHN, s. l.
Em2Pm2 7 propria HN pr . alicui om. GLR quae s.
l. Sm2 cum E (s. l. m2)FH enim proprie s. l.
Em2Sm2 propria N accidunt ali- cui E 8 ea quae] et
quae E ea quidem quae N eademque cum P et
cum F cum H 9 queunt om. Em1G, s. l. Sm2
possunt E m2 Pm1 (potest m2 ) R 10 niui
Sm1 niue est subiecta HL niui Sm1 nunc
G 12 ostensione GRS ita * (q. er .) C
ita quoque Sm2, ad itaque s. l . quoque Hm2 15
niui GSm1 17 differentias CE (s in er . e?)
GL 20 quoniam] quod G 21 ut] et FN subiectam CEGH
a.r.Lm1PSm2 22 substantiamque ( om . et) FHNP metiantur
E mentiamur Ca.r.Sa.c . eueniet HN pluritate
Gm1P quod genus est, de pluribus praedicatur, sed cum hoc animal in
Socrate consideramus — Socrates enim animal est —, ipsum animal fit indiuiduum,
quoniam Socrates est indiuiduus ac singularis. item homo de pluribus quidem hominibus
praedi- catur, sed si illam humanitatem quae in Socrate est indiuiduo
consideremus, fit indiuidua, quoniam Socrates ipse indiuiduus est ac
singularis. item differentia ut rationale de pluribus dici potest, sed in
Socrate indiuidua est. risibile etiam cum de pluribus hominibus praedicetur, in
Socrate fit unicum. communiter quoque accidens, ut album, cum de pluribus
dici possit, in uno quoque singulari perspectum indiuiduum est. Fieri autem
potuit commodior diuisio hoc modo. eorum quae dicuntur, alia quidem ad singularitatem
praedicantur, alia ad pluralitatem, eorum uero quae de pluribus praedicantur,
alia secundum substantiam praedicantur, alia secundum acci- dens. eorum
quae secundum substantiam praedicantur, alia in eo quod quid sit dicuntur, alia
in eo quod quale sit, in eo quod quid sit quidem, genus ac species, in eo quod
quale sit, differentia. item eorum quae in eo quod quid sit praedi- cantur,
alia de speciebus praedicantur pluribus, alia minime; de speciebus
pluribus praedicantur genera, de nullis uero species. eorum autem quae secundum
accidens praedicantur, alia quidem sunt quae de pluribus praedicantur, ut
accidentia, 1 plurimis R 5 si s. l. Lm2Sm2
quae et est om. F est— indiuidua in mg. Cm2
7 est post singularis E 9 hominibus om. FN praedicatur
CEGL (ante hominibus) Pm1RS dici possit N in Socrate
om. ER unica Em1GS unicam Lm1 unita R 10
cum s. l. Em2Sm2 11 possit dici E singulari] singulari
corpore CFHN perspectum] CE (in ras.) FH, m2 in LPS
perspecta Lm1 a.c . (perfecta m1p.c .) R perfectam
Pm1Sm1 profecto ( alt . o in ras .) N profecto
perfecta G in- diuidua EGLm1RS 12 ante
eorum add . ut GRS, del. EL 13 dicun- tur] praedicantur
Pm2 praedicantur] dicuntur L ( ex dicantur m2
) P 14 plurimis R praedicantur] dicuntur N
17 pr . quod—differentia (19) in ras. Em2 post , in
eo—differentia (19) om. GR 19 iterum FN 20 pluribus
(plurimis H ) praedicantur FHN 21 post speciebus
add . quidem FHNP pluribus om. GRS, s. l. Lm2, post
praedicantur Em1Fm1 23 post pluribus add .
speciebus CFHN, s. l. Em2 alia quae de uno tantum, ut
propria. Posset autem fieri etiam huiusmodi diuisio. eorum quae praedicantur,
alia de singulis praedicantur, alia de pluribus. eorum quae de plu- ribus, alia
in eo quod quid sit, alia in eo quod quale sit praedicantur. eorum quae
in eo quod quid sit, alia de diffe- rentibus specie dicuntur, ut genera, alia
minime, ut species, eorum autem quae in eo quod quale sit de pluribus prae-
dicantur, alia quidem de differentibus specie praedicantur, ut differentiae et
accidentia, alia de una tantum specie, ut propria. eorum uero quae de
differentibus specie in eo quod quale sit praedicantur, alia quidem in
substantia praedicantur, ut diffe- rentiae, alia in communiter euenientibus, ut
accidentia. et per hanc diuisionem quinque harum rerum definitiones colligi
possunt hoc modo. genus est quod | de pluribus specie differen- p.
63 tibus in eo quod quid sit praedicatur. species est quod de
pluribus minime specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur.
differentia est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit in
substantia praedicatur. proprium est quod de una tantum specie in eo quod quale
sit non in sub- stantia praedicatur. accidens est quod de pluribus specie
differentibus in eo quod quale sit non in substantia praedicatur. 1
quae om. FN una C (s. l. add . specie ) FHN
possit FRS potest N 2 etiam om. LP 4
post pr . sit add . praedicantur CFHNP, s.l. Lm2 6 specie]
speciebus Ea.r.FLNPS 7 autem in mg. E, s. l. Lm2 9
accidentia et differentiae C post accidentia add .
communiter Pm2 edd . 10 uero om. GRS, in mg.
Em2Lm2 quae in mg. Em2 de differentibus specie om.
GLRS, in mg . de specie differentibus Em2 de om . C 11
substantiam RSa.r . 12 conuenientibus Pm2 13 de- finitiones]
diuisiones FHm1 14 specie differentibus hic F, post quid
sit (15) cett.; cf. proxima et p. 193, 1 15 est] autem
E 18 substan- tiam R proprium—praedicatur (20)] om. GR,
in mg. Em2 proprium (uero s. l. add. Lm2 ) est quod de pluribus
minime specie differentibus in eo quod quale ait (sit s. l. Lm2 ) non in
substantia praedicatur LPm2 non in substantiam praedicatur
Sm1, del. m2, in sup. mg . ( ante non inse- renda ) haec
proprium est quod de pluribus specie minime differentibus, deinde pauca
uerba, quorum extremum <praedi>cat<ur>, cum mg.
abscisa, sequuntur uerba accidens est (20) —praedicatur (21)
, m2 20 ante specie add . et CE (del.)
GLP Et nos quidem has diuisiones fecimus, ut omnia a semet ipsis
separaremus, Porphyrio uero alia fuit intentio. non enim omnia nunc a semet
ipsis disiungere festinabat, sed tantum ut cetera a generis forma et
proprietate separaret. idcirco diuisit quidem omnia quae praedicantur aut in ea
quae de singulis praedicantur, aut in ea quae de pluribus, ea uero quae
de pluribus praedicantur, aut genera esse dixit aut species aut cetera,
horumque exempla subiciens adiungit : Ab his ergo quae de uno solo
praedicantur, diffe- runt genera eo quod de pluribus adsignata praedi-
centur, ab his autem quae de pluribus, ab speciebus quidem, quoniam species
etsi de pluribus praedican- tur, sed non de differentibus specie, sed numero;
homo enim cum sit species, de Socrate et Platone praedicatur, qui non specie
differunt a se inuicem, sed numero, animal uero cum genus sit, de homine
et boue et equo praedicatur, qui differunt a se inui- cem et specie quoque, non
numero solo. a proprio uero differt genus, quoniam proprium quidem de una sola
specie, cuius est proprium, praedicatur et de his quae sub una specie
sunt indiuiduis, quemadmodum 9—p. 189, 16] Porph. p. 2, 22—3, 14 (Boeth.
p. 27, 8—28, 7). 2 separemus GNRm1Sm1 porphirii
Lm1 fuit alia CN 4 forma generis H separet
NPa.c.Sm1 ante idcirco add . hic FRS 5 diuisit s.
l. Em2 separauit m1 quidem s. l. R, ante
diuisit L 6 praedicarentur FHLm2Pm2 plurimis
Em1Lm2 uero] autem C 7 plurimis FGm2N
praedicarentur FHLm2 8 horum F 9 Ab om. GHP, s.
l. ER ergo] uero H praedicarentur N 10 prae-
dicantur Em1GLm2PRSm2 Busse 11 ab his—accidens (p. 189, 14)
] Ω , om. cett., sed in S particulae lemmatis plerumque
HISTORIA (cf. ad p. 167, 21) inscriptae uariis locis expositionis p. 189,
17—193, 16 insertae sunt, item particulae quaedam in L; quorum locorum
lectiones hic pro- ponentur post . ab] Ω (etiam B
Bussii) a edd. Busse 12 post quidem add .
differunt genera Γ praedicatur ΛΣ 13 sed non] sed
om . Σ non tamen H m2 ‘i’ 14 Platone] de platone
A 16 sit genus Σ 17 boue] de boue Γ 18 et
om. ΓΦ non] Porph. p. 3, 1 aX\’ οΰχί
solum edd. cum Porph . τώ άριθ·μώ μόνον 20 hiis Φ
21 una om. Porph. p. 3, 3 risibile de homine solo et de
particularibus homini- bus, genus autem non de una specie praedicatur, sed de
pluribus et differentibus specie. a differentia uero et ab his quae communiter
sunt accidentibus differt genus, quoniam etsi de pluribus et
differentibus spe- cie praedicantur differentiae et communiter acciden- tia,
sed non in eo quod quid sit praedicantur, sed in eo quod quale quid sit.
interrogantibus enim nobis illud de quo praedicantur haec, non in eo quod
quid sit dicimus praedicari, sed magis in eo quod quale sit. interroganti
enim qualis est homo, dicimus ratio- nalis, et in eo quod qualis est coruus,
dicimus quo- niam niger. est autem rationale quidem differentia, nigrum uero
accidens. quando autem quid est homo interrogamur, animal respondemus;
erat autem homi- nis genus animal. Nunc genus a ceteris omnibus
quae quolibet modo praedi- 3 specie s. l . Γ , om.
optimi codd. Porph. p. 3,5, delend. uid. Bussio 5 locum
quoniam—animal (16) post genus p. 193, 18 add. LS
etiamsi LS sΠ*ΙΓ specie differentibus ΛΣ ; Porph. p. 3,
6 διαφερόντων τψ ειόει 6 differentia Lm2S 7 sed
non] Δ ( ad sed s. l . id est tamen m1? )
Π ( ad sed s. l . uel tamen m1? ) A Busse
tamen non LS ΤΣΦ non tamen Ψ edd.; Porph. p. 3,
8 άλλ’ οόκ , cf. supra p. 188, 13, infra 190, 12 7
sit om. L sed in eo quod quale quid sit] codd. cum Porph. p.
3, 8 codicib. Lm2Mm2 άλλ’ έν τψ όποιον τ£ έστιν , delend.
uid. Bussio 8 quid om. S Φ interrogantibus—sit (11) om
. Φ ad interrogantibus s. l . uel interrogati Δ
nobis] LS A m2 Ii (del. m2) Busse nos A m1
(enim post nos,) Ψ , om . ΓΔ2 ( decst
Φ ); Porph. p. 3, 8 έρωτησάντων γάρ ήμών
uel τινών codd . 9 post illud s. l .
quomodo (m1?) uel de quo (m2) Δ haec
s. l. Lm2 10 post quale add . quid Π (del.
m2) Ψ m Busse, om . LS VM pbr, om. etiam p. 194, 7 (cf. p.
195, 4. 196, 8. 15) , aliquid s. l . Λ ( deest Φ
); Porph. p. 3, 10 έν τψ ποιόν τί έατιν 11
interroganti] ΑΣ a.r . Ψ interrogantibus S interrogati
cett.; Porph. p, 3, 10 έν γάρ τψ έρωταν 12. dicimus] Π
m2 ΣΨ , om . Φ , dicitur cett.; Porph. p. 3, 11
οομέν 14 autem om. N quid est] quidem FN
qui Gm1, s. l . est m2 quod est L 15 interrogamus
P A , m1 in EGR Z interrogemus S erat]
RS, m1 in Ρ ΔΛ , est 1 erit cett.; Porph. p. 3, 13
vjv genus ho- minis Σ cantur separare contendit
hoc modo. quoniam enim genus de pluribus praedicatur, statim differt ab his
quidem quae de uno tantum praedicantur quaeque unum quodlibet habent indiui-
duum ac singulare sublectum; sed haec differentia generis ab his quae de uno
praedicantur, communis ei est cum ceteris, id est specie, differentia,
proprio atque accidenti idcirco, quo- niam ipsa quoque de pluribus
praedicantur. horum igitur sin- gulorum differentias a genere colligit, ut
solum intellegendum genus quale sit sub animi deducat aspectum, dicens : ab his
autem quae de pluribus praedicantur, differt genus, ab speciebus quidem
primum, quoniam species etsi de pluribus praedicantur, non tamen de
differentibus specie, sed numero. species enim sub se plurimas species habere
non poterit, alioquin genus, non species appellaretur. p. 64 si
enim genus est quod de pluribus specie | differentibus in eo quod quid
sit praedicatur, cum species de pluribus dicatur et in eo quod quid sit, huic
si adiciatur ut de specie differenti- bus praedicetur, speciei forma transit in
generis; id quoque exemplo intellegi fas est. homo enim praedicatur de Socrate,
Platone et ceteris quae a se non specie disiuncta sunt, sicut homo atque
equus, sed numero : quod quidem habet dubitationem quid sit hoc quod dicitur
numero differre. numero enim differre aliquid uidebitur quotiens numerus
a 2 quidem om. CHN qui G, ex quae Lm2
3 post praedicantur add . ut socrates et hic et hoc H
quae CN 5 uno] uno solo LS est ei L
est om. CEHN 6 post specie add . et FHP, s.
l. Lm2 accidente Lm2Pm1N 9 aspectum deducat E
ab] CL (s. l.) NSm2, om. cett . 10 autem] enim P post
pluribus add . id est ( add . specie, sed del. E ) ab
his quae ( haec s. l. E ) de pluribus Em2GPRS 11 a R
primum om. S, s. l. Lm2; deest p. 188, 12 12 praedicatur
S non tamen] sed non S de om. FHNP 15
plurimis Em2GPRS 16 plurimis EGR dicatur] praedicetur
C praedicatur edd . 19 fas est] placet HNPm1 post
enim s. l . cum sit species Em2Pm2 (ex p. 188,14) quod est
species Lm2 20 et ceteris del. E qui Ep. c .
disiuncta ( ad quod s. l . differunt)—equus del. E 21
post equus add . uel bos LP 23 differre (in mg.
H) post aliquid FHLN aliquis GS quoties
(-cies) EPRS numero differt, ut grex boum qui fortasse
continet triginta boues, differt numero ab alio boum grege, si centum in se
contineat boues; in eo enim quod grex est, non differunt, in eo quod boues, ne
eo quidem : numero igitur differunt, quod illi plures, illi uero sunt
pauciores. quomodo igitur So- crates et Plato specie non differunt, sed numero,
cum et So- crates unus sit et Plato unus, unitas uero numero ab unitate non
differat? sed ita intellegendum quod dictum est numero differentibus, id est in
numerando differentibus, hoc est dum numerantur differentibus. cum enim
dicimus ‘hic Socrates est, hic Plato’, duas fecimus unitates, ac si digito
tangamus dicentes ‘hic unus est’ de Socrate, rursus de Platone ‘hic unus est’,
non eadem unitas in Socrate numerata est quae in Pla- tone. alioquin posset
fieri ut secundo tacto Socrate Plato etiam monstraretur. quod non fit.
nisi enim tetigeris Socratem uel mente uel digito itemque tetigeris Platonem,
non facies duos, dum numerantur. ergo differunt quae sunt numero dif- ferentia.
cum igitur species de numero differentibus, non de specie praedicetur, genus de
pluribus et differentibus specie dicitur, ut de boue, de equo et de
ceteris quae a se specie inuicem differunt, non numero solo. tribus enim modis
unum quodque uel differre ab aliquo dicitur uel alicui idem esse, 3
continet EGLRS differt C, add . neque CP, s. l. Hm2, s.
l . nec Lm2 4 ne—differunt] H ( post quidem
del . haec m2 ) N igitur om. EG nec in eo
(recte?) quidem differunt. Igitur numero differunt L non nisi
quidem numero. Igitur differunt numero F non nisi (eo add. S,
sed del .) quidem numero differunt RS Numero igitur (Igitur
numero C ) differunt, cet . om. CP 5 quomodo] quo
R igitur] uero C 6 specie—Plato om. F 7 pr
. unum PS 8 differt CEm2NPR post intellegendum
add . est CL 10 dum] cum F 12 ante
rursus s. l . et S 14 possit FLRS posset
fieri in mg. Cm2 ut] in Cm2Em2G tactu socrates
Em1G 15 ante etiam add . et ( sed et
in etiam del. uid. E ) EG demonstraretur LP 19 speciebus
CFHN post genus s. l . quoque Lm2 et om.
Em1 ( s. l . et de m2 ) R specie differentibus
EF 20 pr . de om. CL et om. FH de s.
l. Em2Lm2 ceterisque quae F inuicem specie FN
genere, specie, numero. quaecumque igitur genere eadem sunt, non necesse
est eadem esse specie, ut si eadem sint genere, differant specie. si uero eadem
sint specie, genere quoque eadem esse necesse est, ut cum homo atque equus idem
sint genere — uterque enim animal nuncupatur —, differunt specie, quoniam
alia est hominis species, alia equi. Socrates uero atque Plato cum idem sint
specie, idem quoque sunt genere; utrique enim et sub hominis et sub animalis
praedicatione ponuntur. si quid uero uel genere uel specie idem sit, non
necesse est idem esse numero, quod si idem sit numero, idem et specie et
genere esse necesse est; ut Socrates et Plato, cum et genere animalis et specie
hominis idem sint, numero tamen reperiun- tur esse disiuncti. gladius uero
atque ensis idem sunt numero, nihil enim omnino aliud est ensis quam gladius,
sed nec specie diuersi sunt, utrumque enim gladius est, nec genere,
utrumque enim instrumentum est, quod est gladii genus. quoniam igitur homo, bos
atque equus, de quibus animal praedicatur, specie differunt, numero ergo etiam
eos differre necesse est. idcirco hoc plus habet genus ab specie, quod de
specie differentibus praedicatur. nam si integram generis defi- nitionem
demus, dabimus hoc modo : genus est quod de plu- 1 ante
genere add . id est P, s. l. Hm2Lm2 genere—esse specie
om. EGRS numero] et numero C 2 esse post specie
C, ante eadem FH ut si—differant specie om. FHNPm1
, in mg. add., sed del. m2 genere—eadem sint om. C 3
sunt F 4 est] esse ( idem ante necesse ) GSm1
sunt EFGKHm1NRSm1 5 animalia FHN nuncupantur
FHNS differentia Hm1N 6 species om. FG, ante
est C 7 uterqne EGLPRS, recte? 8 et om. CP
sub hominis et om. GLRS, s. l. Em2Pm2 post , sub om. C
ponitur Lm2Sm2 9 sit] sint S sunt Fm1 (in mg .
est m2) Nm1 10 quod si—necesse est post disiuncti (13)
transpos. et 13 enim pro uero scr. brm 12 tamen]
tantum CLm1 15 diuersi * (s er.) , om ,
sunt C est gladius FN 16 ad instrumentum
s. l . bellicum Em2 17 bos ante homo EG
atque bos post equus FN 18 ergo om. FHNP, del.
Cm1? Lm1? Sm2 etiam s. l. Lm1? 19 ante id-
circo add . et F, s. l. Sm2 ab specie om. EGLS
a R de] a R ab CEGLS 20 post
specie s. l . quidem L definitionem ( uel diff-)
generis FHNP 21 dabimus om. EG ( add . dicimus
post modo) RS, s. l. Lm2, post modo C ribus
specie et numero differentibus in eo quod quid sit prae- dicatur, at uero
speciei sic : species est quod de pluribus numero differentibus in eo quod quid
sit praedicatur. A proprio uero differt genus, quoniam proprium quidem de
una sola specie, cuius est proprium, praedicatur et de his quae sub una specie
sunt indiuiduis. proprium semper uni speciei adesse potest neque eam relinquit
nec transit ad aliam, atque idcirco proprium nuncupatum est, ut risibile hominis;
itaque et de ea specie cuius est proprium praedicatur et de his
indiuiduis quae sub illa sunt specie, ut risibile de homine dicitur et de
Socrate et Platone et ceteris quae sub hominis nomine continentur. genus uero
non de una tantum specie, ut dictum est, sed de pluribus. differt igitur genus
a proprio eo quod de pluribus speciebus praedi- catur, cum proprium de
una tantum de qua dicitur appelletur et de his quae sub illa sunt indiuiduis. A
differentia uero et ab his quae communiter sunt accidentibus differt genus.
differentiae atque accidentis discrepantiam a genere una separatione concludit.
omnino enim quia haec in eo quod quid sit minime praedicantur, eo ipso
segregantur a genere; nam in ceteris quidem propinqua sunt generi, nam et
1 specie—differentibus] specie non (non Lm2 s. l. et R et cum
cett. P ) numero solo (solo s. l. Lm2, om. P ) differentibus
LPR 2 plurimis S 3 in—sit om. HN 4 proprium]
prius S proprium—praedicatur] pro- prium praedicatur et de una sola
specie C quidem—est proprium om . G, s. l. Em2
quidem om. etiam S 6 post proprium add .
uero N enim brm 7 uni om. GS, post speciei
E (s. l. m2) HR 9 post hominis add . est edd . 11
et] ut RS de om. FN, s. l. Pm2 Platone] de
platone G et ceteris] ceterisque FHNP 12 qui
Em2 13 ut s. l. Hm2Pm2 de om. N plurimis
CEm1GNR, add . et differentibus specie S, in mg. Pm2 ( om . specie)
14 praedicetur Lm2P 15 post tantum s. l .
specie Lm2 appellatur FHm1NR 17 sunt accidentibus]
accidunt HN 18 genus] cf. ad p. 189, 5; post locum p. 189,
5—16 uerba Quare—praedicantur p. 194, 20 s. add.
L discrepantia FL 19 separatione del. et s. l .
diffinitione Em2, post separatione add . uel
definitione Hm1, del. m2 20 sint Em2HN 21 in] CL
(s. l. m2) N, om. cett . de pluribus praedicantur et de specie
differentibus, sed non p. 65 in eo quod quid sit. si quis enim |
interroget : qualis est homo? respondetur rationalis, quod est differentia; si
quis : qualis est coruus? dicitur niger, quod est accidens. si autem interroges
: quid est homo? animal respondebitur, quod est genus. quod uero ait :
haec non in eo quod quid sit dicimus praedi- cari, sed magis in eo quod quale
sit, hoc magis quaesti- oni occurrit huiusmodi. Aristoteles enim differentias
in sub- stantia putat oportere praedicari. quod autem in substantia
praedicatur, hoc rem de qua praedicatur, non quale sit, sed quid sit
ostendit. unde non uidetur differentia in eo quod quale sit praedicari, sed
potius in eo quod quid sit. sed sol- uitur hoc modo. differentia enim ita
substantiam demonstrat, ut circa substantiam qualitatem determinet, id est
substanti- alem proferat qualitatem. quod ergo dictum est magis, tale est
tamquam si diceret : uidetur quidem substantiam significare atque idcirco in eo
quod quid sit praedicari, sed magis illud est uerius, quia tametsi substantiam
monstret, tamen in eo quod quale sit praedicatur. Quare de pluribus
praedicari diuidit genus ab his quae de uno solo eorum quae sunt
indiuidua praedi- cantur, differentibus uero specie separat ab his quae
20—p. 195, 5| Porph. p. 3, 14—19 (Boeth. p. 28, 7—13). 1
plurimis FH 3 respondebitur R rationabilis N
quis om. R, post s. l . scil. (om. brm) interroget
Hm2brm post , est om. HN 4 dicetur FHN interrogetis
N 9 autem] uero FHN 10 qualis Cm2FHP 16 tamquam]
ac F 20 uerba Quare—praedicantur (21) et p. 193,
18 et hic ( hic om . praedicatur) habet L, eadem iam ante lemma
add. S predicari ex preditur Pm2 genus
diuidit hic L hiis F 21 sola F
eorum—accidentibus ( p.195, 3 )] Ω , in sup. mg . non sunt
indiuidua (21) — accidentibus add. Lm2? dicuntur ut indiuidua quae
de una solummodo substantia dicuntur R, om. cett. codd . eorum quae sunt
indiuidua om. p. 193, 18 L eorum om. L (hic)
A 22 ante differentibus add . de ΓΛΦ ;
differentibus—quibus praedicantur (195, 5) post colligamus p.
196,1 inseruit S, itaque uerba quae (195, 3) —quibus praedicantur
(195, 5) et illic et hic habet separatur Φ , in mg .
genus add . Γ sicut species praedicantur uel sicut
propria; in eo autem quod quid sit praedicari diuidit a differentiis et
communiter accidentibus, quae non in eo quod quid sit, sed in eo quod quale sit
uel quodammodo se habens praedicantur de quibus praedicantur.
Tria esse diximus quae significationem hanc tertiam generis informarent,
id est de pluribus praedicari, de specie differenti- bus et in eo quod quid
sit. quae singulae partes genus a ceteris quae quomodolibet praedicantur
distribuunt ac secer- nunt, quod ipse breuiter colligens dicit; id enim
quod de pluribus praedicatur, genus ab his diuidit quae de uno tan- tum
praedicantur indiuiduo. indiuiduum autem pluribus dici- tur modis. dicitur
indiuiduum quod omnino secari non potest, ut unitas uel mens; dicitur indiuiduum
quod ob soliditatem diuidi nequit, ut adamans; dicitur indiuiduum cuius
praedicatio in reliqua similia non conuenit, ut Socrates : nam cum illi sint
ceteri homines similes, non conuenit proprietas et praedi- catio Socratis in
ceteris. ergo ab his quae de uno tantum praedicantur, genus differt eo quod de
pluribus praedicatur. restant igitur quattuor, species et proprium,
differentia et acci- 6 diximus] p. 181, 15. 2 diuiditur
Φ , s. l . genus add. Lm2 differentibus S 3
ante quae add . et CEGP quae om. R
non om. S (hic) quod] quia R 4 post . sit]
Σ est cett; cf. p. 196, 8 quodammodo in ras. Em2
quod ad modum CG quemadmodum LP quod a modo
R quomodo Ψ edd. Busse ; Porph. p. 3, 19
πώς ; cf. supra p. 128, 10 5 praedicantur om .
ΓΦ ante de quibus add . de his S ( ad p.
194, 22 ) ab his Σ his A hiis Φ de quibus
praedicantur] S (ad p. 194, 22) ΓΛ (de s. l
.) 2Φ , om. cett . 7 informant FHm1N post, de]
Hm2LPm2, om, CEGNRS , sed FHm1Pm1; cf. p. 181, 16 8 et om.
R 9 quolibet modo CL (modo s. l. m2 ) N quo *** libet
(libe er. uid .) F praedicatur GPm1 10 col-
ligens breuiter EGS 12 dicitur pluribus C 13 non potest
secari CFN 14 indiuiduum—dicitur (15) om. G 15
adamas HLm1P (-as ras. ex -ans), amans R 18
ceteros NP 20 igitur] ergo FP dif- ferentiae EHa.c.NP,
ante add . et H, s. l. Lm2 dens, quorum a genere differentias
colligamus. singulis igitur differentiis ab his rebus segregabitur genus. ea
quidem dif- ferentia qua de specie differentibus genus dicitur, separat ab his
quae sicut species praedicantur uel sicut propria. species enim omnino de nulla
specie dicitur, proprium uero de una tantum specie praedicatur atque ideo
non de specie differenti- bus. item genus a differentia et accidenti differt,
quod in eo quod quid sit praedicatur; illa enim in eo quod quale sit
appellantur, ut dictum est. itaque genus quidem ab his quae de uno praedicantur
differt in quantitate praedicationis, ab speciebus uero et proprio in subiectorum
natura, quoniam genus de specie differentibus dicitur, proprium uero et species
minime. item genus in qualitate praedicationis a differentia accidentique
diuiditur. qualitas enim praedicationis quaedam est uel in eo quod quid sit uel
in eo quod quale sit praedicari. Nihil igitur neque superfluum
neque minus con- tinet generis dicta descriptio. Omnis descriptio
uel definitio debet ei quod definitur aequari. si enim definitio definito non
sit aequalis et si quidem maior sit, etiam quaedam alia continebit et non
necesse est ut semper definiti substantiam monstret; si minor, ad omnem
definitionem 16 s.] Porph. p. 3, 19 s. (Boeth. p. 28, 13 s.)
1 quarum Cm1Lm1 colligamus ante differentias
C colligemus (e ex i) H; cf. ad p. 194, 22 2 ea
quidem—dicitur om. S 3 post differentibus add .
praedicari edd . separat ab his] FLm1R dum separat ab
his S differt ab his CN differt (s. l. Em2) ab
(a L ) specie et proprio HP , s. l. Lm2
(seperat—propria [4] del. Lm2, om. P), s. l . et ab his add .
Hm2, om. EG separatur ab his edd.; cf. p. 194, 20 4
praedicantur post propria H 5 nulla] nulla alia
LS 8 enim] uero FHN 10 a LNR 13 ab
FHP (b er .) 15 praedicare GR 16 Nihil ex
Nil Pm1? pr . neque om . ΛΛΠΣΨ Porph. p. 3, 19
Busse, del . Γ m2 17 genus F dicta om. E, s. l
. Σ , post descriptio G locus Porph. p. 3, 19 s.
plenior est (cf . τής έννοιας , quod deest ap. Boeth.) 18
Omnis descriptio in mg. Em2 (in contextu ras.), om. GR, s. l. Sm2
post Omnis add . enim L, s. l. Sm2, post debet C
(er.) EGR 19 definito om. FPS et om. CFN 21
definitio ( uel diff) Ca.r.N post si s. l . sit
L definitio C definiti ( uel diff-) Em2HN
substantiae non peruenit. omnia enim quae maiora sunt, de minoribus
praedicantur, ut animal de homine, minora uero de maioribus minime; nemo enim
uere dicere potest ‘omne animal homo est’. atque idcirco si sibi praedicatio
conuertenda est, aequalis oportebit sit. id autem fieri potest, si neque
super- fluum quicquam habet neque di|minutum, ut in ea ipsa generis p.
66 descriptione. dictum est enim esse genus quod de pluribus specie
differentibus in eo quod quid sit praedicetur, quae descriptio cum genere
conuerti potest, ut dicamus quicquid de pluribus specie differentibus in
eo quod quid sit praedicetur, id esse genus. quodsi conuerti potest, ut ait,
nec plus neque minus continet generis facta descriptio. 1
substantiam CEm2 4 pr . est om. C 5
oporteat EGHL ( a del .) PRS ante sit add .
ut E (in ras. m2) FLNPR, s. l. Cm2Hm2 6 habeat R
diminutiuum Em1 7 enim est G esse s. l. Em2L,
post genus Pm2 8 praedicatur Em2FNa.c . 9
post ut s. l . si Lm2 quicquid] quod
EGLm1RS 10 praedicatur Em2 11 conuerti potest] * (ñ er .)
con- uertitur C conuertitur. est F conuerti (non
del .) potest S neque— neque FLm2P nec—nec HLm1
neque—nec N 12 continet s. l. Nm2 Sm2, om. F,
post generis CEGL facta] dicta p. 196, 17 ANICII
MANLII (MALLII G ) SEVERINI BOETII V. C. ET I LL EXCONS. ORD. PATRICII
IN ISAGOGAS (YSAGOG. E ) PORPHYRII ID EST INTRODVCTIONEM
(introductiones C ) A SE TRANSLATAS EDITI- ONIS SECVNDAE COMMENTARIVS
SECVNDVS EXPLIC. (commen- tum in secdo lib. explic. C, post
PORPHYRII add . SCDE EXPOSITIO- NIS LIB. II. EXPLICIT E ) INCIPIT
LIBER TERTIVS C ( pleraque litt. minusc. scr .) GE (
uariis cum scripturis compendiisque ); sede trans- lationis comtarius expł
incip lib IΙI. L ; EXPL COMMENTARIVS. II. INCIPIT LIB TERTIVS. S; EXPLIC
COMENTORV LIBER SCDS. INCIPIT TERTIVS N·, EXPLICIT LIBER SECDS. INCIPIT LIBER
TERTIVS (TERCIVS LIBER P ) FP ; INCIPIT LIBER TERTIVS R
; subscriptio deest in H Superior de genere disputatio
uideatur forsitan omnem etiam speciei consumpsisse tractatum. nam cum genus ad
aliquid praedicetur, id est ad speciem, cognosci natura generis non potest, si
speciei quae sit intellegentia nesciatur. sed quoniam diuersa est in suis
naturis eorum consideratio atque discretio, diuersa in permixtis, idcirco sicut
singula in prooemio proposuit, ita diuidere cuncta persequitur. ac primum post
generis disputationem de specie tractat. de qua quidem dubitari potest. si enim
haec fuit ratio praeponendi generis reliquis omnibus, quod naturae suae
magnitudine cetera con- tineret, non aequum erat speciem differentiae in ordine
trac- tatus anteponere, quod differentia speciem contineret, cura praesertim
differentiae ipsas species informent. prius autem est quod informat quam id
quod eius informatione perficitur. posterior igitur est species a
differentia, prius igitur de dif- ferentia tractandum fuit. etenim prooemio
etiam consentiret, in quo eum ordinem collocauit quem naturalis ordo suggessit,
dicens utile esse nosse quid genus sit et quid differentia. huic respondendum
est quaestioni, quoniam omnia quaecumque 19 dicens] p. 147, 5. 7. 148,
17. 2 uidetur CGHL, ras. ex uideatur PS 3
sumpsisse CHN 5 ne- scitur FHm1 7 mixtis
Fa.c.Lm1 8 posuit H diuidere ante ita G, post
cuncta CLP , diuise HNa.c . prosequitur Gm1PR 10 pro-
ponendi CFNR genus R 12 nonne Em2FHPSm2 ante
aequum add . et HP, s. l. Em2 speciei differentiam
EFHLm2P; cf. p. 239, 9 13 obtineret CLm1 14 ipsae CNP
est s. l. Gm2Lm2 15 informet E 16 post
Em1GLm1RS igitur] ergo C a om. CRS, er. L 17 ut
enim N ut CH etiam om. CF 18
post quo add . prius CN eam ordine CFN quam
CFN 19 post dicens add . ubi ait E 20
ante huic add . sed E ad aliquid praedicantur,
substantiam semper ex oppositis sumunt. ut igitur non potest esse pater, nisi
sit filius, nec filius, nisi praecedat pater, alteriusque nomen pendet ex
altero, ita etiam in genere ac specie uidere licet. species quippe nisi
generis non est rursusque genus esse non potest, nisi referatur ad speciem; nec
uero substantiae quaedam aut res absolutae esse putandae sunt genus ac species,
ut superius quoque dictum est, sed quicquid illud est quod in naturae
proprietate consistat, id tunc fit genus ac species, cum uel ad inferiora
uel ad superiora referatur. quorum ergo relatio alterutrum constituit, eorum
continens factus est iure tractatus : De specie igitur inchoans ait
hoc modo. Species autem dicitur quidem et de unius cuiusque forma,
secundum quam dictum est : ‘primum quidem species digna imperio’. dicitur
autem species et ea quae est sub adsignato genere, secundum quam sole- mus
dicere hominem quidem speciem animalis, cum sit genus animal, album autem
coloris speciem, trian- gulum uero figurae speciem. Sicut generis
supra significationes distinxit aequiuocas, ita idem in specie facit dicens non
esse speciei simplicem signi- ficationem. et ponit quidem duas, longe autem
plures esse 7 superius] cf. p. 158, 3 ss. 180, 23 ss. 13—19] Porph. p. 3,
21— 4,4 (Boeth. p. 28, 15—21). 20 supra] p. 171, 9 ss. 1
positis Gm1Sm1 3 nomen] non Ea.c.Ga.c . 4 uideri
EP 8 in om. R 9 consistit CLNPSm2 constat
Em1 tum R ac] et H 10 referuntur FLm1
referantur NS refertur Pm2R 11 continuus CN
12 ante De add . sed CH , m1 in LRS , si
E de ex sed Sm2 sed del. Lm2Rm2
13 ante Species inscriptio DE SPECIE (EXPLICIT DE
GENERE. INCIPIT DE SPECIE Ψ ) additur in 11
et om. L 14 primum] G edd . primi L primis
Sm1 priami cett. Busse; Porph. p. 4, 1 πρώτον piv είδος
άξιον τυραννίδος (Eurip. Aeol. frg. 15, 2 N.) ; cf . quemlibet
illum infra p. 200, 22 15 post digna add .
est HNPR AAΦ , s. l. LSm2, edd. Busse; om. Porph. post et ras., s.
l . etiam Γ 17 qui- dem om. N, post add . esse FR, s.
l. L , esse post speciem s. l. Pm2 cum—animal om.
S 18 autem om. Ε ΑΣ 20 ita om. HN
manifestum est, quas idcirco praeteriit, ne lectoris animum prolixitate
confunderet. dicit autem primum quidem speciem uocari unius cuiusque formam,
quae ex accidentium congre- p. 67 gatione perficitur. cautissime
autem dictum est unius|cuius- que, hoc enim secundum accidens dicitur. quae
enim uni cuique indiuiduo forma est, ea non ex substantiali quadam forma
species, sed ex accidentibus uenit. alia est enim sub- stantialis formae
species quae humanitas nuncupatur, eaque non est quasi supposita animali, sed
tamquam ipsa qualitas substantiam monstrans; haec enim et ab hac diuersa est
quae unius cuiusque corpori accidenter insita est, et ab ea quae genus
deducit in partes. postremumque plura sunt quae cum eadem sint, diuersis tamen
modis ad aliud atque aliud relata intelleguntur, ut hanc ipsam humanitatem in
eo quod ipsa est si perspexeris, species est eaque substantialem
determinat qualitatem; si sub animali eam intellegendo locaueris, deducit
animalis in sese participationem separaturque a ceteris ani- malibus ac fit
generis species. quodsi unius cuiusque proprie- tatem consideres, id est quam
uirilis uultus, quam firmus incessus ceteraque quibus indiuidua conformantur et
quodam- modo depinguntur, haec est accidens species secundum quam dicimus
quemlibet illum imperio esse aptum propter formae 1 praeterit
CEGLPR 2 primo FHNP 3 formam] CN figuram
cett 5 haec GL ( s. l. add . species m2 )
RSm1 uni om. EGRS 6 ea om. HN 7 ante
species (specie H ) add . ac CHN ex om. CH
8 forma, s. l . species (m. 2) E pr . quae] sed quae E
eaque] ea quae EFGH Lm1Sm2 9 post sed
add . est brm, post qualitas S 11 unius cuiusque
corpori] CNPm2R in (s. l. Lm2) unius cuiusque (in
add. Lm1, del. m2 ) corpore ( ex -ri Lm2 ) FHLPm1 unius
cuiusque (in s. l. Sm2 ) corpore EGS accidentaliter
CLm2P sita FHLm1 si ita Na.c . ea] hac F 12
postremoque CNPm2 (recte?) postremo quoque Rm1
postremum quae Rm2S postremum H 13 sunt FH post
atque add . ad CHR 14 in- telligantur LRm1 15
si post humanitatem FHN respexeris N eaque]
Cm1N ea quae cett . determinet R 16 eam om. GPRS
(recte?) , s. l. Em2 17 se Lm1N 18 species
generis C 20 informantur LPm2 21 accidentalis
Lm2Pm2 22 quamlibet FLm1 quodlibet Sm2
illum om. CHLNP illud RS eximiam dignitatem. huic
aliam adiungit speciei significationem, id est eam quam supponimus generi. nos
uero triplicem speciei significationem esse subicimus, unam quidem substantiae
quali- tatem, aliam cuiuslibet indiuidui propriam formam, tertiam de qua
nunc loquitur, quae sub genere collocatur. creden- dum uero est propter
obscuritatem eius quam nos adie- cimus, quia nimirum altiorem atque eruditiorem
quaereret intellectum, ea tacita praetermissaque ceteras edidisse. cuius quidem
speciei haec exempla subiecit, ut hominem quidem animalis speciem, album
autem coloris, triangulum uero figurae; haec enim omnia species nuncupantur
eorum quae sunt genera, animal quidem hominis, albi autem color, trianguli figura.
Quodsi etiam genus adsignantes speciei meminimus dicentes quod de
pluribus et differentibus specie in eo quod quid sit praedicatur, et
speciem dicimus id quod sub genere est. Dudum cum generis
descriptionem adsignaret, in generis definitione speciei nomen iniecit dicens
id esse genus quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid ait
prae- dicaretur, ut scilicet per speciei nomen definiret genus. nunc uero
cum speciem definire contendat, generis utitur nuncupatione dicens speciem esse
quae sub genere ponatur. 13—16] Porph. p. 4, 4—7 (Boeth. p. 28, 21—23).
18 (dicens)—20] p. 180, 1 s. 3 subiecimus CLN
substantialem FLm2Bm2 4 indiuiduam G 5 collocatur
(-catur in ras. m2) E colligatur GLm2 (colligitur
m1 ) Rm1s 6 est] est quod EPRS 7 quia] quae CN
quaerit C quaeret Hm1N 8 praetermissa quae
Em1Sa.c . praetermissa Rm1 dedisse Gm1 edidisset
R, ante edid. add . ipsum r 9 ut] et
EGLm1Ra.c.S 11 eorum quae] CFHN earum quae EGR
earumque LPS 12 trianguli figura] Lm1 figura
trianguli Pm2 forma trianguli HNPm1 trianguli
forma cett.; fort , trianguli >uero>; cf. 10. 199, 19
13 Quodsi] Quid sit FPm1 (Quod sit m2 ) Quod CL
Sic Λ2 signantes F 14 et om. F, s. l. R 15
sit om. ERS praedicatur—quid sit (19) om. N id s.
l. Hm2 16 quod sub assignato genere ponitur (est p ) edd.,
Porph. p. 4, 6 το όπό τό άποοοθ-έν γένος 19 et
differentibus p. 180, 1 20 genus definiret C 21 nunc]
nam Cm1 cui quidem dicto illa quaestio iure uidetur opponi.
omnis enim definitio rem declarare debet quam definitio concludit, eamque
apertiorem reddere quam suo nomine monstrabatur. ex notioribus igitur fieri
oportet definitionem quam res illa sit quae definitur. cum igitur per speciei
nomen describeret uel definiret genus, abusus est uocabulo speciei uelut
notiore quam generis atque ita ex notioribus descripsit genus. nunc uero cum
speciem uellet termino descriptionis includere, generis utitur nomine rerumque
conuertit notionem, ut in generis quidem sit notius speciei uocabulum, in
speciei autem descrip- tione sit notius generis, quod fieri nequit. si
enim generis uocabulum notius est quam speciei, in definitione generis speciei
nomine uti non debuit. quodsi speciei nomen facilius intellegitur quam generis,
in definitione speciei nomen generis non fuit apponendum. cui quaestioni
occurrit dicens : Nosse autem oportet <quod>, quoniam et
genus ali- cuius est genus et species alicuius est species, idcirco necesse est
et in utrorumque rationibus ntrisque uti. Omnia quaecumque ad
aliquid praedicantur, ex his de quibus praedicantur, substantiam sortiuntur;
quodsi definitio unius cuiusque substantiae proprietatem debet ostendere,
iure ex alterutro fit descriptio in his quae inuicem referuntur. ergo quoniam
genus speciei genus est et substantiam suam et 16—18] Porph. p. 4, 7—9
(Boeth. p. 28, 23—29, 1). 2 post , definitione ( uel
diff-) CHNPm2 claudit C nec concludit F 3
monstrabat E (-bat ex -batur? m2 ) R
5 sit] est FHN 6 notiorem FR 8 uelit FHNPm1
9 conuertit] uidetur conuertere CHLm2P genere R
10 post quidem add . descriptione CFHLN, in mg. Em2,
fort. recte autem] quidem C uero FHNP 11
sit om. G pr . genus FH 16 autem om. Porph . quod
add. edd.; Porph. p. 4, 7 είϊέναι χρή ότι, έπεί χτλ .
17 pr . est om. FN, s. l . Λ , ante
alicuius Σ idcirco in utrisque necesse est utrorumque rationibus
uti Σ 18 et] hoc N om . FPSA S neutrorumque
Em1 utrasque Em1 utriusque Λ 20 post
definitio add . uel descriptio CFHNP, s. l. Em2Lm2 22
ante inuicem add . ad CL, s. l. Pm2 , ad se F, s. l.
Rm2 23 ante substantiam add . in FHm1, del. m2
post , et om. F, s. l. Hm2Sm2 uocabulum genus ab specie
sumit, in definitione generis speciei nomen est aduocandum, quoniam uero
species id quod est sumit ex genere, nomen generis in speciei descriptione non
fuit relinquendum. quoniam uero diuersae sunt specierum qualitates —
aliae enim sunt species, quae et genera esse possunt, aliae, quae in sola
speciei | permanent proprietate neque p. 68 in naturam generis
transeunt —, idcirco multiplicem speciei definitionem dedit dicens :
Adsignant ergo et sic speciem : species est quod ponitur sub
genere et de quo genus in eo quod quid sit praedicatur. amplius autem sic
quoque : species est quod de pluribus et differentibus numero in eo quod quid
sit praedicatur. sed haec quidem adsignatio specialissimae est et quae solum
species est, aliae uero erunt etiam non specialissimarum.
Tribus speciem definitionibus informauit, quarum quidem duae omni speciei
conueniunt omnesque quae quolibet modo species appellantur, sua conclusione
determinant, tertia uero non ita. cum enim duae sint specierum formae, una
quidem, cum species alicuius aliquando etiam alterius genus esse potest,
altera, cum tantum species est neque in formam generis 9—15] Porph. p. 4,
9—14 (Boeth. p. 29, 2—7). 1 genus om. H generis
FLS ab om. F a NR, s. l. Hm2 specie s. l .
Hm2 species F definitionem ( uel diff-)
FGHP 2 pr . est] fuit Lm2 ( post aduocandum)
Pm2 3 descriptione] definitione ( uel diff-) CFHLm2N
diffinicione uel descripcione P 4 relinquendum] omittendum
FHN uero post sunt H 8 reddit FN 9
ergo] uero PLm2 autem Σ et er. Λ speciem
sic F quae CNR h m1 (quo m2 ) ΛΣ 10 quo]
EGHLm2Pm1 > qua cett . 11 amplius—praedicatur
(13) om. L 12 et om . S ac EGRS 13
post praedicatur add . ut homo equs (sic) bos et asinus
et cetera C 14 specialissimae] ΧΨρ (-me) specialissima
cett. codd. brm ; Porph. p. 4, 12 aΰτη μέν ή άπόδοσις τού
εΐδιχωχάτου άν εΐη et om . FHR, s. l. Pm2, del. Sm2
sola C 17 omnis G 18 determinan- tur Hm2
19 post ita s. l . est Hm2 sint om. Em1
sunt CEm2GR ante specierum add . species
Cm1, del. m2 20 post cum s. l . sit Lm2 ,
post aliquando EP (del. m1?), post species
s. l . scil. sit N transit, priores quidem duae, illa
scilicet in qua dictum est id esse speciem quod sub genere ponitur, et rursus
in qua dictum est id esse speciem de quo genus in eo quod quid sit praedicatur,
omni speciei conueniunt. id enim tantum hae definitiones monstrant quod sub
genere ponitur. nam et ea quae dicit id esse speciem quod sub genere
ponitur. eam uim significat speciei qua refertur ad genus, et ea quae dicit id
esse speciem de quo genus in eo quod quid sit praedicatur, eam rursus
significat speciei formam quam retinet ex generis praedicatione. idem est autem
et poni sub genere et de eo praedicari genus, sicut idem est supponi
generi et ei genus praeponi. quodsi omnis species sub genere collocatur, mani-
festum est omnem speciem hoc ambitu descriptionis includi. sed tertia definitio
de ea tantum specie loquitur quae numquam genus est et quae solum species
restat. haec autem species ea est quae de differentibus specie minime praedicatur.
nam si id habet genus plus ab specie, quod de differentibus specie praedicatur,
si qua species praedicetur quidem de subiectis, sed non de specie
differentibus, ea solum erit superioris generis species, subiectorum uero non
erit genus. igitur praedicatio ea quam species habet ad subiecta, si
talis sit, ut de differen- tibus specie non praedicetur, distinguit eam ab his
speciebus 2 ponitur—genere (5) om. N rursum CR 3
quo] Schepss qua codd. et edd.; cf. p. 203, 10 4
praedicaretur EGLRS praedicetur edd . 5 ponuntur
Cm2HN 6 speciem om. Sm1 species m2G post
eam add . tantum FHNP, s. l. Lm2 7 qua] CNP
quae cett . 8 quo] p Schepss qua codd. brm; cf. 3
genus s. l. Em2, ante add . species G praedicetur
FHLm2NP praedicaretur S 9 speciei om. C 10
est post autem E (s. l. m2) R supponi EFGHLRS 11
generi] genere CGm1 12 omnes (sed collocatur )
ELN 13 post est add . autem CEGL (del. m2) S
(del. m2) 15 est om. EGS, ante genus ΗR , fit
L per- stat E ( pers in ras.) HNa.c . 17 habet
ante plus FH, post N, plus post habet
L a RS 18 si qua species om. N praedicetur om.
N praedicatur Em1HSm2 post subiectis add . Species uero
differentibus numero N 19 de om. N 21 de—non] non
differentibus specie N 22 ante distinguit add .
sed hanc terciam, sed del. E, post add . enim, sed del. RS
quae genera esse possunt et monstrat eam solum speciem esse nec generis
praedicationem tenere. illa igitur tertia de- scriptio speciei quae magis
species ac specialissima dicitur, definitur hoc modo : species est quod de
pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur, ut homo;
praedicatur enim de Cicerone ac Demosthene et ceteris qui a se, ut dictum est,
non specie, sed numero discrepant. Ex tribus igitur definitionibus duae
quidem et specialis- simis et non specialissimis aptae sunt, haec uero tertia
solam ultimam speciem claudit. ut autem id apertius liqueat, rem paulo
altius orditur eamque congruis inlustrat exemplis : Planum autem
erit quod dicitur hoc modo. in uno quoque praedicamento sunt quaedam
generalissima et rursus alia specialissima et inter generalissima et
specialissima sunt alia. est autem generalissimum quidem super quod nullum
ultra aliud sit superueniens genus, specialissimum autem, post quod non erit
alia inferior species, inter generalissimum autem et spe- cialissimum et genera
et species sunt eadem, ad aliud 7 ut dictum est] p. 188, 13 ss. 12—p.
206, 18] Porph. p. 4, 14— 5,1 (Boeth. p. 29, 7—30, 2). 1 et
(s. l. m2) monstrabat S monstratque FHNP
solam Sm2 3 speciei] solum species est N
speciei—species ac] quae (s. l. m2) solum * species magisque
(in ras.) species H 4 hoc modo in mg. Hm2
ante species add . Dicitur enim FHP et
differentibus numero p. 203, 12 6 Cicerone] socrate N
post ac add . de R 8 duae—claudit] C (om. pr .
et) E (in ras. m2) FH (solum) LNP duabus quidem et specialis-
simas et non specialissimas species claudit GR una quidem et
specialis- simam et non specialis ultimam speciem claudit Sm1, del. et in
mg. corr. m2 (apte sunt post duae quidem,) 10 id
om. LR rem om. EGS, s. l. Pm2, post orditur Lm2
12 in uno quoque—solum species (p. 206, 17) ] RS Q , om. cett
. 14 rursum Γ et inter—alia om. RS 15 sunt om . T
m1, in mg. scil. sunt ut corpus m2 , est ut uid .
Δ 16 super— ultra] ultra quod nullum RS ultra nullum
ΓΦ 17 specialissima R quod] quam RS 18
autem om . Γ 19 ante et genera add .
alia p alia sunt quae brm; Porph. p. 4, 19 άλλα,
α ν,α'ι γένη quidem et ad aliud sumpta. Sit autem in uno
prae- dicamento manifestum quod dicitur. substantia est quidem et ipsa genus.
sub hac autem est corpus, sub corpore uero animatum corpus, sub quo animal, sub
animali uero rationale animal, sub quo homo, sub ho- p. 69 mine
uero Socrates et Plato et qui|sunt particulares homines. sed horum substantia
quidem generalissi- mum est et quod genus sit solum, homo uero specia- lissimum
et quod species solum sit, corpus uero species quidem est substantiae. genus
uero corporis animati; et animatum corpus species quidem est corporis,
genus uero animalis. animal autem species quidem est cor- poris animati, genus
uero animalis rationalis, sed rationale animal species quidem est animalis,
genus autem hominis, homo uero species quidem est rationalis animalis,
non autem etiam genus particularium homi- num, sed solum species. et omne quod
ante indiuidua proximum est, species erit solum, non etiam genus.
Praediximus ab Aristotele decem praedicamenta esse dis- 19 Praediximus]
p. 151, 12. 1 quidem post eadem R 5
ad om . Λ , s. l. R T uno] uno quoque R A
(quoque er .) Φ , ad uno s. l . isto A m2 2
est quidem] R ΓΦ est quiddam ( repet , est S ) cett . 3
est post corpus S, om . Φ 5 uero] RST
iI (s. l. m2) Φ , om . ΛΛΣΊ
Busse; Porph. p. 4. 23 δέ 6 uero] codd. nostri,
om. Busse; Porph. p. 4, 24 δέ post , et om.
RS 7 eorum RS generalissimum] codd. PQ (non L) Bussii
edd . genera- lissima codd. nostri; Porph. p. 4, 25 τό γινικώτατον
8 uero om. R 9 ante et add . est 2
pr . specie R 10 est om . 2 , s. l .
Δ 11 et] sed et brm, recte ut uid.; Porph. p. 4, 27
αλλά καί est om. R 12 animal autem] rursus animal
brm; Porph. p. 4, 28 κάλιν δέ to ζώον 13 uero] ΓΔ
(s. l. m2) Π*!' , om. cett . animalis] Δ
(s. l. m2) ΣΊ ’ ( post ratio- nalis). om. cett.;
Porph. p. 4, 29 γένος δέ τού λογικού ζώου 14 animal—
est om. R 15 autem] uero RS 16 autem del .
h m2 genus etiam R 17 et om. CEGP indiuiduum
F 18 est s. l. E erit CGR solum species
erit LS erit solum species E solum species est
CR solum speciem non etiam genus esse liquet G 19
Praedicimus R, add. etiam L posita, quae idcirco
praedicamenta uocauerit, quoniam de ceteris omnibus praedicantur. quicquid uero
de alio praedicatur, si non potuerit praedicatio conuerti, maior est res illa
quae praedicatur ab ea de qua praedicatur. itaque haec praedicamenta
maxima rerum omnium, quoniam de omnibus praedicantur, ostensa sunt. in uno quoque
igitur horum praedicamentorum quaedam generalissima sunt genera et est longa
series spe- cierum atque a maximo decursus ad minima. et illa quidem quae de
ceteris praedicantur ut genera neque ullis aliis sup- ponuntur ut
species, generalissima genera nuncupantur, idcirco quia his nullum aliud
superponitur genus, infima uero quae de nullis speciebus dicuntur,
specialissimae species appellantur, idcirco quoniam integrum cuiuslibet rei
uocabulum illa sus- cipiunt quae pura inmixtaque in ea de qua quaeritur
proprie- tate sunt constituta. at quoniam species id quod species est ex
eo habet nomen, quia supponitur generi, ipsa erit simplex species, si ita
generi supponatur, ut nullis aliis differentiis praeponatur ut genus. species
enim quae sic supponitur alii, ut alii praeponatur, non est simplex species,
sed habet quan- dam generis admixtionem, illa uero species quae ita
supponitur generi, ut minime speciebus aliis praeponatur, illa solum spe- cies
simplexque est species atque idcirco et maxime species et specialissima
nuncupatur. inter genera igitur quae sunt generalissima et species quae
specialissimae sunt, in medio 1 uocauit Lp.c.P dicuntur
N 3 poterit CNSm1 res om. E, sed ras .,
ratio R 4 post , praedicatur] dicitur HNP 5
maxime Em1G a.c . 7 quaedam] quae CFHN genera om. CN,
ante sunt F et om . CHN 8 maximis
CFHNPm2 11 quia] quoniam HN 14 inper- mixtaque
Em2HPm2 intermixtaque NPm1 de qua s. l. Sm2 de
quo R quae E (ex alia uoce) N 15 at] ut CFN
quod] quoniam E 16 nomen om. FN quia] quoniam
F 17 aliis om. C 18 ante alii add .
generi CL (del. m2), post s. l. P 19 simplex om. GRS, s. l
. Em2Lm2 22 atque idcirco maxime (-ma H ) species est
(est om. H ) in mg. Hm1?, s. l. Lm2 ante species add .
est P, post C, s. l. Lm2 24 specialissima EGSm1
sunt om. EG, s. l. Pm2, post quae L sunt quaedam
quae superioribus quidem collata species sunt, inferioribus uero genera. haec
subalterna genera nuncupantur, quod ita sunt genera, ut alterum sub altero collocetur.
quod igitur genus solum est, id dicitur generalissimum genus, quae uero ita
sunt genera, ut esse species possint, uel ita species, ut sint genera
nonnumquam, subalterna genera uel species appellantur. quod uero ita est
species, ut alii genus esse non possit, specialissima species dicitur.
His igitur cognitis sumamus praedicamenti unius exem- plum, ut ab eo in
ceteris quoque praedicamentis atque in ceteris speciebus in uno filo
atque ordine quid eueniat possit agnosci. substantia igitur generalissimum
genus est; haec enim de cunctis aliis praedicatur. ac primum huius species
duae, corporeum, incorporeum; nam et quod corporeum est, substantia dicitur et
item quod incorporeum est, substantia praedicatur. sub corporeo uero
animatum atque inanimatum corpus ponitur, sub animato corpore animal ponitur;
nam si sensibile adicias animato corpori, animal facis, reliqua uero pars, id
est species, continet animatum insensibile corpus. sub animali autem rationale
atque inrationale, sub rationali homo atque deus; nam si rationali
mortale subieceris, hominem feceris, si inmortale, deum, deum uero corporeum;
hunc enim mundum ueteres deum uocabant et Iouis eum appellatione 1
quidem om. EG collata] FHm1NPm2 collatae Cm2EGHm2
( add . e, sed exters .) Lm2 collocata Pm1
collocatae Cm1Lm1RS (in ras.) sunt species CLR 2 haec]
et C nominantur FHNP 3 alterutrum Ea.r.Pm1
alterutro Pm2 5 ita s. l. Em2Lm2, ante ut C
6 ut sint—est species (7) s. l. Em2 9 igitur] ergo E
11 ante in add . ut Lm2Pm2 uno quoque
Em2H (quoq. del. m1 ?) PRS quod Ea.c .
GLm2Pm1R 14 duae om. HN sunt add. C,s.l. Pm2,
ante duae L post pr . corporeum add . et C, s. l. Pm2 ,
atque FHN 15 ante post . substantia add . et ES
(del) , ex R 17 sub animato—ponitur om. R post . poni- tur]
collocatur FHNP 18 adicies RS 19 inanimatum
Cm1Lm2NPm2S (in s. l. minus cert .), post add . et s.
l. Pm2 20 post rationali add . autem L 22
feceris om. GRS, s. l. Em2 , scil. fecisti ( ante hominem) s.
l. Sm2 constituis L post uero s. l . dico Lm2,
post corporeum Sm2 23 deum ueteres LN
dignati sunt deumque solem ceteraque caelestia corpora, quae animata esse
cum Plato, tum plurimus doctorum chorus arbitratus est. sub homine uero
indiuidui singularesque homines ut Plato, Cato, Cicero et ceteri, quorum
numerum pluralitas infinita non recipit. cuius rei subiecta descriptio
sub oculos ponat exemplum. | substantia p. 70 corporea
| incorporea corpus animatum | inanimatum animatum corpus sensibile |
insensibile animal rationale | inrationale rationale animal mortale | inmortale
homo Plato | Cicero Cato Superius posita descriptio omnem ordinem
a generalissimo us- que ad indiuidua praedicationis ostendit. in qua quidem
substantia generalissimum dicitur genus, quoniam praeposita est omnibus,
nulli uero ipsa supponitur, et solum genus propter eandem scilicet causam, homo
autem species solum, quoniam Plato, 1 dignati sunt] designauerunt
Em2 deum quoque HLm2P 2 cum] tum Em2F
platone Lm2PSm1 tunc CGLSm1 4 cato om. C,
ante plato L , tito N 5 oculis CFP 6
ponit Lm1 figuram supra de- pictam exhibent P (est altera de duabus ipsa
quoque a m1 facta, prior minus dilucida est), nisi quod ad pr . animal
add . sensibile et rationale post post . animal pos.,
et E, in quo ordo nominum cato plato cicero est, simillima est in
G, sed extrema pars homo—Cicero deest, et in H, nomina tamen
socrates plato cicero sunt; in S uoces mediae tantum substantia—homo
extant, sub uoce homo unum nomen est FVLCO GONCŁ, (explicare non
potuimus); figura deest in CFLNR, in F post ponat exemplum est
SVBSTANTIA 8 ad om. H, s. l. Em2 indiuiduum FLN in qua]
et E 10 uero] ergo H Cato et Cicero, quibus est
ipsa praeposita, non differunt specie, sed numero tantum. corporeum uero, quod
secundum a sub- stantia collocatur, et species esse probatur et genus,
substantiae species, genus animati. at uero animatum genus est animalis,
corporei species. est enim animatum genus sensibilis, animatum uero sensibile
animal est; ipsum igitur animatum propter pro- priam differentiam, quod est
sensibile, recte genus esse dicitur animalis. animal uero rationalis genus est
et rationale mor- talis. cumque rationale mortale nihil sit aliud nisi homo,
rationale fit animalis species, hominis genus. homo uero ipse Platonis,
Catonis, Ciceronis non erit, ut dictum est, genus, sed est solum species. nec
solum differentiae rationalis species est homo, uerum etiam Platonis et Catonis
ceterorumque species appellatur, propter diuersam scilicet causam. nam
rationalis idcirco est species, quoniam rationale per mortale atque
inmortale diuiditur, cum sit homo mortale. idem nero homo species est Platonis
atque ceterorum; forma enim eorum omnium homo erit substantialis atque ultima
similitudo. est autem communis omnium regula eas esse species specialis- simas
quae supra sola indiuidua collocantur, ut homo, equus, coruus — sed non
auis; auium enim multae sunt species, sed hae tantum species esse dicuntur —,
quorum subiecta ita sibi sunt consimilia, ut substantialem differentiam habere
non possint. in omni autem hac dispositione priora genera cum inferioribus
coniunguntur, ut posteriores efficiant species; nam 1 Cato] tito
N et om. P, s. l. Lm2 5 corporis FN enim]
autem CLSm2 6 ipsum post igitur FL (s. l. m2),
om. EGRS propter] praeter H 7 quae ER 8
post rationale add . est genus R, s. l . scil. genus
L 11 Catonis om. CLN titonis N ante
Ciceronis add . et CFHP 12 species est solum C 13
catonis et platonis CL platonis titonis N 15
post rationalis add . homo G 16 homo om.
EGLS 17 atque] et C eorum enim E 18 erit]
est FHNP 19 ante om- nium add . et R
post regula add . est EG esse ante
eas FNS (s. l. m2), om. EGR 21 enim] uero CEGLRS
22 haec Gm1NR hee P species om. E
quarum Em2FSm2 sibi om. R 24 dis- putatione
F 25 iunguntur CLm1 coniungantur m2
efficiunt Fa.c.Sm1 efficiat m2 ut sit corpus
substantia, cum corporalitate coniungitur et est substantia corporea corpus.
item ut sit animatum, corporeum atque substantia animato copulatur et est
animatum substantia corporea habens animam. item ut sit sensibile, eidem tria
illa superiora iunguntur. nam quod est sensibile, tantum est, quantum
substantia corporea animata retinens sensum, quod totum animal est. item
superiora omnia rationi iuncta effi- ciunt rationale postremumque hominem
superiora omnia nihilo minus terminant; est enim homo substantia corporea,
animata, sensibilis, rationalis, mortalis. nos uero definitionem hominis
reddimus dicentes animal rationale, mortale, in animali scilicet includentes et
substantiam et corporeum et animatum atque sensibile. et in ceteris quidem
speciebus atque generibus ad hunc modum uel genera diuiduntur uel species
describuntur. Quemadmodum igitur substantia, cum suprema sit, eo quod
nihil sit supra eam, genus erat generalis- simum, sic et homo, cum sit species
post quam non sit alia species neque aliquid eorum quae possunt diuidi, sed
solum indiuiduorum| — indiuiduum enim est p. 71 Socrates et
Plato —, species erit sola et ultima species 15—p. 212, 18] Porph. p. 5,
1—16 (Boeth. p. 30, 2—20). 4 eadem H idem
ex eidem Lm2 6 retinet CN habens L 7
ratio- nali Pm2 coniuncta HL efficiuntur
Ea.r.GS 8 postremoque CHNP (recte?) postremum (-mo L )
uero LS 11 inter mortale et in animali add
. quia animal includit[ur] in se et substantiam et corporeum et animatum atque
sensibile R 12 atque] et H 14 describuntur] dis-
tribuuntur FN 15 cum] R (sed ante breuis ras.)
fi quae cum cett . (quae del. et in mg. scr .
parentesis 5 m2 ); an quae scribend .? suprema om. S
summa G 16 eo quod] et A a.c . nihil] nullum N SA
sit om. F, s. l . Λ , est post eam Λ2
erat] RSm1 erit m2F sit P est cett.
codd . edd. Busse; Porph. p. 5, 2 ήν 17 sic et—species
dicitur (p. 212, 15) ] RS Q , om. cett . et] etiam RS
ΤΦ , glossa ut uid. ad et in Π 18 alia]
aliqua RS; add . inferior ΔΛΠΣ*Ρ Busse, post
species Γ , om. RS Φ edd. Porph. p. 5, 3 aliud
R 19 post diuidi add . in species edd., recte ut
uid., etiam Bussio placet; Porph. p. 5, 3 χών χέμνεοΟαι ουναμένων εις
είδη post indiuiduorum add . species R
20 post Plato add . et hoc album brm, fort. recte;
Porph. p. 5, 4 xat χοοχι χό λεοχόν solum R
solam S et, ut dictum est, specialissima. quae uero sunt in
medio, eorum quidem quae supra ipsa sunt, erunt species, eorum uero quae post
ipsa sunt, genera. quare haec quidem habent duas habitudines, eam quae est ad
superiora, secundum quam species ipsorum esse dicuntur, et eam quae est
ad posteriora, secundum quam genera ipsorum esse dicuntur. extrema uero unam
habent habitudinem. nam et generalissimum ad ea quidem quae posteriora sunt,
habet habitudinem, cum genus sit omnium id quod est supremum, eam uero
quae est ad superiora, non habet, cum sit supre- mum et primum principium,
specialissimum autem unam habet habitudinem, eam quae est ad superiora, quorum
est species, eam uero quae est ad posteriora, non diuersam habet, sed etiam
indiuiduorum species dicitur, sed species quidem indiuiduorum uelut ea
continens, species autem superiorum, uelut quae ab eis contineatur.
2 ipsa om. R, post sunt Γ species erunt RS;
Porph. p. 5, 6 είη αν εϊδη 3 uero—sunt om. S, s. l .
autem quae sunt sub se erunt m2 uero] autem RSm2
V<]?} fort. recte post ipsa] sub ipsis R 4
duas habent ΔΛ2 Busse; Porph. p. 5, 7 έχει Sio
σχέσεις habentes S 7 dicuntur esse R extremae
(-me) Sm1 h m1 A2 m2 b 8 habent unam Δ et generalissimum] id
quod generalissimum est RS; Porph. p. 5, 9 το τε γάρ
γενιχώτατον 9 habet] habet unam Δ 10 genus post
omnium R, post sit S Σ id] hic R ea
R 11 post uero add . habitudi- nem Γ non
habet hic om., post principium add . non habet habitudi-
nem R, add . et (ut diximus) supra quod non est aliud superueniens
genus edd. cum Porph. p. 5,12 12 ante
specialissimum add . et brm Busse, fort. recte, om.
codd. (etiam LPQ Bussii); Porph. p. 5, 12 «ύ τί> είδιχώτατον
δέ specialissimam R T m1 specialissima S autem]
etiam brm 13 eam om. RS 14 posteriora] inferiora
RS 511 , recte ? 15 non diuersam] Sm1 edd . quorum diuersam A
m1 non ( del. uel om . diuersam,) Sm2 A m2 et cett.
Busse; Porph. p. 5, 14 oi% άλλοίαν species dicitur—indiuiduorum om.
FHN , sed—indiuiduorum om. CT 16 qui- dem om . Σ
, post add . dicitur edd.; codd. quidam Porph. p. 5,15
λέγεται eam N 17 post continens add . est
Σ autem] uero L 18 his NR illis F
contineantur CEm2H continetur N Ω ( sed corr . K
m2 , ex -entur II m2 ) Ex proportione speciei
nomen et generis ostendit. nam ut genus, quoniam non habet genus supra se,
generalissimum genus dicitur, ut substantia, ita species, quoniam non habet sub
se speciem, sed indiuidua, specialissima species dicitur, ut homo. quid
est autem species non habere? his praeesse quae neque in dissimilia diuidi
possunt, ut genera diuiduntur, neque in similia secantur, ut species. quae uero
inter genera generalissima speciesque specialissimas constituta sunt, ea et
species et genera nuncupantur, quoniam et ipsa aliis suppo- nuntur et his
alia subiciuntur, quorum uel in dissimilia uel in similia possit esse partitio.
cumque duae sint habitudines et quasi comparationes oppositae, quae in omnibus
generibus speciebusque uersentur, una quidem quae ad superiora respi- ciat, ut
specierum, quae suis generibus supponuntur, alia uero quae ad inferiora,
ut generum, cum speciebus propriis praeponuntur, generalissima quidem genera
unam tantum reti- nent habitudinem, eam scilicet quae inferiora complectitur,
illam uero quae ad praeposita comparatur, non habent. gene- ralissimum enim
genus nulli supponitur. item species specia- lissima unam possidet
habitudinem, per quam scilicet ad sola genera comparatur, illam uero quae ad
inferiora committitur, non habet; nullis enim speciebus ipsa praeponitur. at
uero quae subalterna sunt genera, utraque habitudine funguntur. 1
propositione FPm1 et om. N, del. Sm2 , etiam FL 2
super F se om. CN, s, l. Lm2 4 species
specialissima FHN 5 speciem Lm2 post habere add .
nisi ( ex 2 al. litt. m2 ) L hoc est N id est R,
inseruit Pm1? 6 possint ESm2 7 ante
neque add . sed P, del. m1?, s. l· Lm2 quae—constituta]
specialissimae constitutae, cet. om. EGRS 8 ea et] illae
(illa L ) uero EGLRS 9 et om. FP quoniam]
quae EGLm1R subponantur S 10 subiciantur S pr .
uel om. EGR, s. l. Lm2 uel in similia om. EGRS 11
possint EGLm1S possunt R paratio Cm1
partitiones EGLa.r.RS cumque—comparationes om. EGRS, in mg.
Lm2 duo Cm1 sunt NPa.c . 12 subpositae CHm1Lm1N,
om. F 13 uersantur EGL 16 una Cm1 retinent
ante tantum H retinet R habent N 18
illam—comparatur (21) om. S habet G, m1 in CEH 19 genus
enim H nullis F 23 quae] illa quae F
utramque habitudinem G nam et illam possident quae ad
superiora respicit, quoniam quae subalterna sunt, habent superpositum genus, et
illam quae de inferioribus praedicatur; habent enim subalterna genera
suppositas species, ut corporeum ad substantiam quidem eam retinet habitudinem
qua potest poni sub genere, ad ani- matum uero eam qua potest de specie
praedicari. specialis- simae uero species licet ipsae indiuiduis praeponantur,
tamen praepositi habitudinem non habebunt, idcirco quoniam illa quae speciei
ultimae supponuntur, talia sunt, ut quantum ad substantiam unum quiddam sint
non habentia substantialem differentiam, sed accidentibus efficitur, ut
numero saltem distare uideantur, ut paene dici possit et pluribus praeesse
speciem et quodammodo nulli omnino esse praepositam. nam cum species
substantiam monstret unam, quae omnium indi- uiduorum sub specie positorum
substantia sit, quodammodo nulli praeposita est, si ad substantiam quis
uelit aspicere. at si accidentia quis consideret, plures de quibus praedicetur
species fiunt, non substantiae diuersitate, sed accidentium multitudine. itaque
fit ut genus quidem semper plurimas sub 1 ad illam
et quae s. l . ał illud et ał quod L ad
om. CGHLPS quoniam quae] quantum que S 2 post sunt
add . genera P, s. l. Lm2 3 praedicantur Hm1Sm1 4
superpositas Hm1 5 qu * a (i er .) C poni
potest E 6 quae EHm1LPN specie] speciebus R 7
prae- ponuntur Hm1Pm1 8 subpositi E habent
EP habebit Gm2 9 ul- tima EGLm1S ad substantiam]
substantia F 10 quidem GLm2S non] nec FHLm2NP
habentia] Em2 habentes CEm1GL (es ex al. litt. m2
) PS habentem R habent FHN 11
post sed s. l . scii, ex Hm1? accidentibus del.
et s. l . ał accidentalem Hm2 uel al ., acci- dentalem, s. l . ał
accidentibus Lm1, s. l . Nam accidentibus m2 saltim
Lm2NPR 12 possint EFGLRS et] nec F, m1 in HLN 13
species EGL ( es in er . em? m2 ) Pm1RS
esse om. FHN praepositae EGLRSm2 (-tum m1 ) nam
cum—praeposita est (16) in sup. mg. Lm2 14 monstraret
HPm1 monstrat RS unam, quae] S unaque CFHNP
( ras. ex -que) unam quamque EGR unam * L 15
substantiae GLR sit s. l. ante substantia Pm2,
om. EGLR , est S ante quodammodo add. fit HN, post
nulli C, om . est (16) CHN 16 ad om. EGPRS 17
ac GR praedicatur EGLRS se habeat species; de
differentibus enim specie praedicatur, differentia uero nisi pluralitati non
conuenit. at uero species etiam uni aliquando indiuiduo praeesse potest. si
enim unus, ut perhibetur, est phoenix, phoenicis species de uno tantum
indiuiduo praedicatur; solis etiam species unum solem intel- legitur habere
subiectum. ita nullam multitudinem | species p. 72 per se continet,
cum etiam si unum sit tantum indiuiduum, speciei tamen non pereat intellectus;
quibusdam enim suis quasi similibus partibus praeest. ut si aeris uirgulam
diuidas, secundum id quod aes dicitur, idem et partes esse intellegitur
et totum. idcirco dictum est speciem, licet sit indiuiduis praeposita, unam
tamen habitudinem possidere, unam scilicet qua species est. quoniam enim
praepositis subditur, species nuncupatur, et est superiorum species tamquam
subiecta inferiorum quoque species, idcirco quoniam eorum substantiam
monstrat. speciem uero substantiam nuncupamus, nec ita est species substantia
indiuiduorum, quemadmodum speciei genus; illud enim pars substantiae est, ut
animalis homo. reliquae enim partes rationale sunt atque mortale, homo uero
Socratis atque Ciceronis tota substantia est; nulla enim additur dif-
ferentia substantialis ad hominem, ut Socrates fiat aut Cicero, 1 de
differentibus enim] quod de differentibus CL 2 ni C 4
est post unus FHP, post phoenix N 5
solem] EGPpr solum cett. codd . bm; cf. p. 218. 3. 219,
17 . 7 cum om. S ut CFN tantum om . ENRS;
cf.p. 219,11 post indiuiduum add . unius generis G 8
tamen om. C perit Sm2, add . sensus et F 9
post uirgulam add . in partes suas (suas partes P ) id est
(id est om. F ) aeneas particulas (particulas om. F , aeneas
uirgulas, sed del. L ) CFHLN, in mg. Pm2 10 in-
telliguntur H 12 possidet FN unam] illam L
eam unam F 13 ante qua s. l . in Sm2
14 nuncupatur] nominatur FHN 16 demonstrat CEGLP est
om. S, post species in ras. N , esset F 17 substantia
(ia ex ie F ) ante species FNa.c.RS,
post indiuiduorum C 18 ani- malis homo] EGLm1
homo animalis Sm2P animal hominis CLm2Sm1 hominis
animal FH (inis in ras. m2 et post animal 2 litt.
er .) NR 19 etenim R sunt om. EGR post
mortale add . adduntur ( om. N ) animali ad diffiniendam substantiam
hominis N edd . uero om. CFGLRS sicut additur animali
rationale atque mortale, ut homo integra definitione claudatur. idcirco igitur
species specialissima tantum species est atque hanc solam possidet habitudinem
ad superiora quidem, quoniam ab his continetur, ad inferiora uero, quoniam
eorum substantiam format et continet. Determinant ergo
generalissimum ita, quod cum genus sit, non est species, et rursus, supra quod
non erit aliud superueniens genus, specialissimum uero, quod cum sit species,
non est genus et quod cum sit species, numquam diuiditur in species et quod
de pluribus et differentibus numero in eo quod quid sit praedicatur. ea
uero quae in medio sunt extremorum, subalterna uocant genera et species, et
unum quodque ipsorum speciem esse et genus ponunt, ad aliud qui- dem et ad
aliud sumpta. ea uero quae sunt ante spe- cialissima usque ad
generalissimum ascendentia, et genera dicuntur et species et subalterna genera,
ut Agamemnon Atrides et Pelopides et Tantalides et ultimum Iouis.
Posteaquam naturam generum ac specierum diuersitatemque monstrauit, eorum
ordinem definitionis descriptionisque com- memorat. ac primum quidem
generalissimi generis terminum 6-19] Porph. p. 5, 17—6, 3 (Boeth. p. 30,
21—31, 7). 1 rationalis atque mortalis N 3 possidet]
optinet P 6 post deter- minant add .
philosophi C ergo om. CN enim EGLm1 <t>
p.c.; Porph. p. 5, 17 τοίνον ita om. CGHP,
s. l. Em2 A m2 quod] quoniam S 7 sit genus NR et
rursus—genera ut (17) ] LRS ii , om. cett . rursum
S 8 erit] LRS T est cett.; Porph. p. 5, 18 οΰχ αν
ειη 9 pr . quod] quae S h a.c . post. quod—et quod (10)
om. L 10 diuidatur S 11 et] et de L 13
uocant] Λ2Φ uocantur cett. edd. Busse; Porph. p. 5, 21
χολοΰσι 14 ipso eorum S speciem] Brandt
species codd. Busse ponunt] A m2 U m2 , e coni. scr.
Busse , ponuntur T m1 possunt m2 cum
cett .; species esse potest et genus edd.; Porph. p. 5, 22
xal έχαοτον αδτών είδος είναι xal γένος τίθενται 17 post ,
et om. R ut om. FS 18 et om. CEG pelides F
post . et om. C 19 ultimo F 20 Post ** quam
CL diuersitatem GLm1R , -que in ras. E, er. P
inducit, id esse generalissimum genus quod cum ipsum genus sit, non habet
superpositum genus, hoc est speciem non esse, et rursus, supra quod non erit
aliud superueniens genus. si enim haberet aliud genus, minime ipsum
generalissimum uocaretur. specialissima uero species hoc modo : quod cum
sit species, non est genus, ex opposito, quoniam opposita ex oppo- sitis
describuntur interdum. nam quoniam praepositio opposita est suppositioni, genus
autem praeponitur, species uero sup- ponitur, si idcirco erit primum genus,
quia ita superponitur, ut minime supponatur, idcirco erit ultima species,
quia ita supponitur, ut praeponi non possit, oppositorum igitur recte ex
oppositis facta est definitio. Est alia rursus descriptio : quod cum sit
species, numquam diuidatur in species, id est genus esse non possit. si enim
omne genus specierum genus est, si quid non diuiditur in species, genus
esse non poterit. Est rursus alia definitio : quod de pluribus et differentibus
numero in eo quod quid sit praedicatur. de qua definitione saepe est superius
demonstratum. nunc 18 saepe superius] p. 188, 12. 190, 11 ss. 203, 11.
205, 4. 1 inducit] RSm1 indicit Em1
indicat GLa.c. dicit CEm2FHLp.c. NPSm2
inducit dicens brm indicat dicens p id om. EGRS,
s. l. Lm2 3 non om. EGRS, s. l. Lm2 superueniens om.
EGRS, s. l. Lm2 si—genus om. EGRS, in mg. sup. Lm2 5
uocetur EGLm1Sm2; post inlatus est locus p. 219,14—220,
3 quoniam ridere—exemplam in EGL, quoniam irridere
(sic) —praedicatur p. 219, 15 (qui locus tamen infra quoque extat) in
S specialissima—idcirco erit (10) in ras. C post modo
add. describitur edd. 6 opposito] opposita F
opposito est H; post add. Quia sicut genus (genus
in mg. F ) generalissimum est cui non aliud genus superponitur, ita et species
specialissima nuncupatur, cui alia species non subponitur (superponitur F
) et utrumque ex opposito dicitur alterius sicut pater ex opposito dicitur
filii F, in inf, mg. cum nota d(esunt) h(aec) Hm1?
opposita om. EGR, s. l. Sm2 7 quoniam om. EN 9 si
er. E sed La.c, Pm2 11 ante ut add.
rursus RS ut praeponi non possit] ut minime praeponatur CFHN
(in mg. add. m2) oppositorum om. EGLRS recte om.
C 13 quod] Lm1 edd. quae cett. ante
numquam add. quae CGHm1, del. m2 diuiditur
CLRSm1 14 est om. C possit] posse CFN
potest edd . 16 potest EGLRS Est] et FHNS
et om. N illud attendendum est. si, ut paulo superius dictum
est, speciei unum indiuiduum potest esse subiectum, ut phoenici atomum suum, ut
soli corpus hoc lucidum, ut mundo uel lunae, quorum species singulis suis
indiuiduis superponuntur, qui conuenit dicere speciem esse quae de pluribus
numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur? sunt enim quaedam
quae de numero differentibus minime dicuntur, ut phoenix, sol, luna, mundus.
sed de his illa ratio est de qua etiam superius pauca reddidimus, quae paululum
inflexa commodissime nodum quae- p. 73 stionis absoluit. | omnia enim
quae sub speciebus specialissimis sunt, siue infinita sint siue finito
numero constituta siue ad singularitatem deducantur, dum est aliquod indiuiduum,
semper species permanebit neque indiuiduorum deminutione, dum quodlibet unum
maneat, species consumitur. ut enim dictum est, tametsi plura sint indiuidua,
substantiales differentias non habebunt. id uero in genere dici non
conuenit, quod his praeest quae substantiali a se differentia disgregata sunt;
praeest enim speciebus quae diuersis differentiis informantur. 1 paulo
superius. 8 superius] p. 215, 2 ss. 1 est om. G, s. l.
Lm1 si, ut] sicut FGPSm1 sic La.c. supra RS
3 suam S solis F mundi FR, add. hoc inane
spacium s. l. Lm2, post lunae in mg. et hoc
immane spacium quod uidemus P quo- rum] quae Lm1 4
indiuiduis om. EGRS post superponuntur add . quod si ita est ut species
de uno quolibet indiuiduo praedicetur (praedicatur P ) ut de phoenice
(phe- P ) P edd. qui] quomodo Hm2LP 6
praedicetur L 8 mundus om. EGRS, s. l. Lm2 illa
his EG ratio est om. EG 9 paulum N inplexa
( uel im-) EHm1LP nodum ras. ex modum EN 10
sub] suis EGS in suis R specialissima
GPm1RS 11 sint] sunt CHa.c.Lm1R finita CHm2N 12
deducuntur Lm2R adducuntur P, add. ut fenix uel
sol R aliquid FL semper—deminutione om. EGRS, in
mg. Lm2 semper s. l. Pm1?, post species N, om. L (m2)
13 deminutione] C diminutione cett. dum om.
S si EGLm1R 14 ante consumitur add.
non EGL (del. m2) RS ut] quod EGLRS 15
tamenetsi G tamen si RS sunt F ante
substantiales add. si G, s. l. Sm2, ras. in E 16 id
uero om. EG quod L idcirco id R id
circo Sm1 , circo del. m2 18 ante speciebus
s. l. genus E si igitur earum una perierit et ad
unitatem speciei reducta sit ratio, genus esse non poterit, quia de
differentibus specie praedicatur. non ita in speciebus. si enim omnium
indiuidu- orum natura consumpta sit et ad unius singularitatem indi-
uidui superpositae speciei praedicatio peruenerit, est tamen species ac
permanet. talia enim sunt illa quae pereunt ac desunt, quale est id quod
permansit et subiacet. quod uero dicimus de pluribus numero differentibus speciem
praedicari, duobus id recte explicabitur modis, uno quidem, quia multo
plures sunt species quae de numerosis indiuiduis praedicantur, quam hae quibus
unum tantum indiuiduum uidetur esse sup- positum, dehinc hoc, quia multa
secundum potestatem dicuntur, cum actu non semper ita sint, ut risibilis homo
dicitur, etiamsi minime rideat, quoniam ridere potest. ita igitur species
de numero differentibus praedicatur; nihilo enim minus phoenix de pluribus
phoenicibus praedicaretur, si plures essent, quam nunc, quando unus esse
perhibetur. item solis species de hoc uno sole quem nouimus, nunc dicitur, at
si animo plures soles et cogitatione fingantur, nihilo minus de pluribus
solibus indiuiduis nomen solis quam de hoc uno praedicabitur. idcirco
igitur species de pluribus numero differentibus dicitur praedicari, cum sint
aliquae quae de singulis indiuiduis appellentur. Illa uero quae subalterna
uocantur ita definiri queunt : subalternum 1 eorum EFGLm1RS
redacta EGLPm2RS edd. 2 de om. E 3 si enim] nam
si EGLRS 5 suppositae LNR superposita S
uene- rit EGLRS 6 alia EGLa.c.RS ante sunt s.
l. non E 7 quale] quam EGLa.c.RS et] ac
CFHNP 8 de numero pluribus Ca.c. numero de pluribus
p.c. 9 excusatur EGLRS quidem uno EG multo
om. FN, s. l. H 11 hae om. ER hee C eae
H ea N ante qui- bus add. e CR, er. uid.
E tantum om. S suppositum esse RS 12 dehinc]
deinde EGLRS hoc om. FHNS 13 semper om. CFH
14 etiamsi—praedicatur om. F de loco quoniam ridere eqs. in
EGLS cf. ad p. 217 , 5 igitur] etiam E 15 nihil
EGLPRS 16 phoenicibus om. F 17 ita (a in ras. m2) E
hoc om. S, post uno F 18 ac EGR ante
animo s. l. in Pm2 19 cogitationes Ca.c.F
ante de add. enim EG 20 praedicatur
EGLRS 22 appellantur FHN genus est quod et genus esse
poterit et species, ad eumque modum est ut in familiis, quae procreant et
procreantur, ut etiam subiectum monstrat exemplum : ut Agamemnon Atri- des et
Pelopides et Tantalides et ultimum Iouis. Atreus enim Pelopis filius tamquam eiusdem
species quasi Agamemnonis genus est. item Agamemnon Pelopides et Tan-
talides, cum Pelops ad Tantalum comparatus Tantalusque ad Iouem quasi species
itemque Tantalus ad Pelopem, Pelops ad Atreum tamquam genera esse uideantur,
cum Iuppiter ueluti sit horum generalissimum genus. Sed in familiis
quidem plerumque ad unum redu- cuntur principium, uerbi gratia ad Iouem, in
generibus autem et speciebus non se sic habet. neque enim est commune unum
genus omnium ens nec omnia eiusdem generis sunt secundum unum supremum genus,
quem- admodum dicit Aristoteles. sed sint posita, quemad- 11-221,
7] Porph. p. 6, 3—11 (Boeth. p. 31, 7—17). 16 Ari- stoteles] Metaph. II, 3, p.
998 b , 22. 1 et om. RS et genus om. EG ad—ut]
CG ( ut om.) Hm2 ad eumque ( et ad eum N) modum
sunt ut Hm1N ad eumque ( eum que * L
eundem Pm2 ) modum qui (s. l. Lm2, part. in ras. Pm2)
est (s. l. Pm2) LP ad eum modum qui est EFR
ad eum ( eum del. m2, post que eu er.)
modum, in ras. quae est m2 S 4 et Tantalides—Iouis]
Lm2Pm2 (om. et Tantalides ) R edd., post species
(5) Lm1S, om. cett. 5 quasi] quae si Sm1, del. m2, ante add.
et F, s. l. Pm2 , est R 6 Agamem- nonis] tamen his ( is
R) EGLm1R tamen non his Sm1, del. m2 genus est del.
Sm2 est om. P ante Pelopides add. non
E atrides non ( non del. m2) L 7 comparatus] (
s in ras. m2) H comparatur ( cõ- ) cett Tantalusque] ut
tantalus quae G 8 idemque CP idem N 9
Atreum] creontum EG creontem Lm1 tareontum
S tamquam] quasi EGLR quae S uelut HP
11 reducuntur ante ad N, post reducuntur
add. omnes L, s. l. Pm2; reducunt coni. Busse; cf. p.
224, 19 reduci; Porph. p. 6, 3
άναγουοι 12 ad om. EGRS A 13 speciebus] in
speciebus R sic se ΝΣ habetur EG neque—dicerentur
(p. 221, 5) ] RS Q , om. cett. enim om.
R 14 neque Busse 15 sunt generis Γ 16 sunt
\ m2 2 ; Porph. p. 6, 6 χείοθ·ω quemadmodum om.
S, add. dictum est edd., idem post Praedicamentis h m2
W m2 (cf. p. 224, 19); om. Porph. p. 6, 7 modum in
Praedicamentis, prima decem genera quasi prima decem principia; uel si omnia
quis entia uocet, aequiuoce, inquit, nuncupabit, non uniuoce. si enim unum
esset commune omnium genus ens, uniuoce entia dicerentur; cum uero decem
sint prima, com- munio secundum nomen est solum, non etiam secun- dum rationem,
quae secundum nomen est. Cum de subalternis generibus diceret,
familiae cuiusdam posuit exemplum, quae ab Agamemnone peruenit ad Iouem,
quem quidem pro numinis reuerentia ultimum posuit. quantum enim ad ueteres
theologos, refertur Iuppiter ad Saturnum, Saturnus ad Caelum, Caelus uero ad
antiquissimum Ophionem ducitur, cuius Ophionis nullum principium est. ne igitur
quod in familiis est, id in rebus quoque esse credatur, ut res omnes possint
ad unum sui nominis redire principium, idcirco deter- minat hoc in generibus ac
speciebus esse non posse; neque enim sicut familiae cuiuslibet, ita etiam
omnium rerum unum esse principium potest. fuere enim qui hac opinione
tenerentur, ut rerum omnium quae sunt unum putarent esse genus quod ens
nuncupant, | tractum ab eo quod dicimus ‘est’; omnia enim p. 74
3 inquit] sententia, non uerba Aristotelis. 1 quasi in
ras. Σ sic A m1 sicut Ψ 2 prima
om. Γ , post decem Π 2 uocat A m1 II
3 nuncupauit S, in ras. ex -bit Γ 4 genus omnium
Busse entia uniuoce R post uniuoce add.
omnia edd. cum Porph. p. 6, 9 πάντα 5 uero]
autem Γ enim ΔΔΣΦ ; Porph. p. 6, 10 δέ
sunt FH prima] principia Lm1 prima genera
m2P (genera s. l. m2 ), prima principia N ΓΣ 7
ante rationem ( ante nomen E ) add. definitionis
( uel diff-) ELRS Q , om. Porph. p. 6, 11 quam E
post est add . solum CHN 8 Cum] Quoniam
CLm1NS Quoniam (del. m2) cum H di- cens
CLm1N dicit in ras. S cuius Pm1 cuiusque
F eiusdem R 9 ponit Sm2 ab om. F, s. l.
Gm2 10 nominis EGLS nomini R 11 ad ueteres]
aduertere Sm1 aduertisse CEFGLm2P aduertit se R
referantur Hm1N 12 caelium ( uel ce-) LPm2RS
zethum F zechum N Caelus] Hm2 caelius ( uel
ce-) LPm2Sm2 celium R caelum CEGHm1Pm1Sm1
zetus F zehus N othionem F ( sed ophionis)
14 esse ( Pm2 est m1 ) quoque FHNP 15 ante
sui exters. uid. proprii E 17 familia H 19 ut]
et Fa.c.S ut et N 20 est] esse S sunt
et de omnibus esse praedicatur. itaque et substantia est et qualitas est
itemque quantitas ceteraque esse dicuntur; nec de his aliquid tractaretur, nisi
haec quae praedicamenta dicun- tur, esse constaret. quae cum ita sint, ultimum
omnium genus ens esse posuerunt, scilicet quod de omnibus praedicaretur.
ab eo autem quod dicimus ‘est’ participium inflectentes Graeco quidem
sermone Sv Latine ens appellauerunt. sed Aristoteles sapientissimus
rerum cognitor reclamat huic sententiae nec ad unum res omnes putat duci posse
primordium, sed decem esse genera in rebus, quae cum a semet ipsis diuersa
sint, tum ad nullum commune principium reducantur. haec autem decem
genera statuit substantiam, qualitatem, quantitatem, ad aliquid, ubi, quando,
situm, facere, pati, habere. quod uero occurrebat quoniam de his omnibus esse
praedicaretur — omnia enim quae superius enumerata sunt genera, esse dicuntur
—, ita discussit ac reppulit dicens non omne commune nomen communem etiam
formare substantiam nec ex eo debere genus esse commune arbitrari, quod de
aliquibus nomen commune praedicaretur. quibus enim definitio communis nominis
con- uenit, illa communis nominis iure species iudicabuntur et communi
illo uocabulo uniuoce praedicantur, quibus uero non conuenit, uox his communis
tantum est, nulla uero substantia. id autem manifestius declaratur exemplis hoc
modo. animal hominis atque equi genus esse praedicamus; demus igitur
1 post. et om. EGRS, s. l. Lm2 2 cetera C 3
de] in GLm1RS 5 esse om. EGRS, s. l. Lm2 6 autem
s. l. L enim C est] esse FS principium EG,
m1 in LPS inflectentes post quidem N 7
quidem ante Graeco R ante sermone add.
de P, s. l. L post Latine add. autem FHN, s. l. Pm2 8
prudentissimus FNP rerum] principiorum EGLm1Pm1RS 9
omnes ante res C, om. EGRS, s. l. Lm2 dici
FGm1Pm2 10 ad FHNRm1 ipso Em1GPm1S ipsa FHN
ipsos Rm1 sunt CLm1R edd. 11 reducuntur
EFGLm2RPm1S 15 nu- merata CEGL innumerata S 16
repulit CEFHRP 17 eo debere] eodem uere (e re add. S )
EGSm1 18 post arbitrari add. debet E
19 praedicatur E praedicetur FHNP nominis
communis FN 22 his uox FHNP 23 manifestis
FLp.c. 24 praedicatur S dicamus CHN
animalis definitionem, quae est substantia animata sensibilis; hanc si ad
hominem reducamus, erit homo substantia animata sensibilis, nec ulla falsitate
definitio maculatur. rursus si ad equum, erit equus substantia animata
sensibilis; id quoque uerum est. conuenit igitur haec definitio et
animali, quod commune est homini atque equo, et eidem equo atque homini, quae
species ponuntur animalis. ex quo fit ut homo atque equus utraque animalia
uniuoce nuncupentur. at si quis hominem pictum hominemque uiuum communi
animalis nomine nuncu- pauerit, definiat si libet animal hoc modo, substantiam
ani- matam esse atque sensibilem. sed haec definitio ei quidem homini qui uiuus
est conuenit, ei uero qui pictus est, minime; neque enim est animata
substantia. igitur homini uiuo atque picto, quibus communis nominis definitio,
id est animalis, non potest conuenire, non est animal commune genus, sed
tantum commune uocabulum diciturque hoc nomen animalis in uiuo homine atque
picto non genus, sed uox plura signi- ficans; uox autem plura significans
aequiuoca nuncupatur, sicut uox ea quae genus ostendit, uniuoca dicitur. itaque
id quod dicitur ens, etsi de omnibus dicitur praedicamentis, quoniam
tamen nulla eius definitio inueniri potest quae omnibus prae- dicamentis possit
aptari, idcirco non dicitur uniuoce de prae- dicamentis, id est ut genus, sed
aequiuoce, id est ut uox plura significans. Conuincitur etiam hac quoque
ratione id quod dicimus, ens praedicamentorum genus esse non posse.
2 hanc] uel hanc E 3 facultate Em1 4 equus] equi
CFPm2 5 definitio ( uel diff-) haec FHN 6 homini] et homini
CNP atque] et, FHNPR eidem] CEm2FH a.r.NPR
idem Em1GHp.r.Lm1S eadem Lm2brm ea eidem p
8 animalis EGLa.c. una uoce E nun- cupantur
C nominentur FHN 9 uiuum] uerum EGLm1PRS 10 si libet]
scilicet CHm1N animal om. E 12 uero] FHP, om. S ,
quidem cett. 13 est post substantia LP 16 dicitur
quae Em1Sm1 dicitur quod LSm2 dicitur quia
CFN 17 genus] genus est FN uox—significans om.
CEGP, s. l. Lm2Sm2 18 autem] enim RS ante
aequiuoca add. quae CEGP nuncupantur GS 19
ita ELm1 23 id est om. CFN ut genus om. F
24 quoque om. N unius enim rei duo genera esse non possunt,
nisi alterum alteri subiciatur, ut hominis genus est animal atque animatum, cum
animal animato uelut species supponatur. at si duo sint sibimet ita aequalia,
ut numquam alterum alteri supponatur, haec utraque eiusdem speciei genera esse
non possunt. ens igitur atque unum neutrum neutri supponitur; neque enim
unius dicere possumus genus ens nec eius quod dicimus ens, unum. nam quod
dicimus ens, unum est et quod unum dicitur, ens est; genus autem et species
sibi minime conuertuntur. si igitur praedicatur ens de omnibus praedicamentis,
praedicatur etiam unum. nam substantia unum est, qualitas unum est,
quantitas unum est ceteraque ad hunc modum. si igitur, quoniam esse de omnibus
praedicatur, omnium genus erit, et unum, quoniam de omnibus praedicatur, erit
omnium genus. sed unum atque ens, ut demonstratum est, minime alterum
alteri praeponitur; duo igitur aequalia singulorum praedica- mentorum genera
sunt, quod fieri non potest. cum haec igitur ita sint, id Porphyrius
determinauit dicens non ita in rebus, ut in familiis omnia ad unum principium
posse reduci nec omnium rerum commune esse genus posse, ut Aristoteli
pla- cet; sed sint posita, inquit, quemadmodum in Praedi- p.
75 camentis dictum est, prima decem ge|nera quasi decem prima principia,
scilicet ut nulla interim ratio perquiratur, sed auctoritati Aristotelis
concedentes haec decem genera nulli 3 ac R sint
post aequalia pos. RS, repet. FL (s. l. m2) P 4 sibi-
metque ( quae F) FLm2Pm1 ita s. l. Lm2 5
ante haec add . aequa C , sed del . eidem
Pm2 eius S 6 neutris Em1 8 pr . unum
post nec, om . post ens H dicitur om.
S dicimus Rbrm 13 esse] ens Lm2P post omnibus
add . his CP, in mg. Hm2, add . praedicamentis (s. l. m2)
his L post erit add . ens CHN et unum—omnium
genus om. R 15 sed] si in ras. Em2 ut om. FH 16
praeponi FH 17 hoc Ea.c. edd . 18 sit edd . 19
deduci LS duci Em1 20 genus ante esse CFN,
post posse S poterit F 21 sint] FHm1
sunt cett . 23 prima om. N, post principia R
ut om. EGS 24 auctoritate Em1Hm1 ad auctoritatem FN
accedentes CFNS alii generi esse credamus subiecta, quae si
quis entia nuncupat, aequiuoce nuncupabit, non uniuoce; neque enim una eorum
omnium secundum commune nomen definitio poterit adhiberi. quae res facit, ut
non uniuoce de his aliquid praedicetur. si enim uniuoce praedicaretur,
genus esset eorum commune nomen quod de omnibus praedicaretur; at si genus
esset, definitio generis conueniret in species. quod quia non fit, com- mune
his id quod dicimus ens, uocabulum est uocis signi- ficatione, non ratione
substantiae. Decem quidem generalissima sunt, specialissima uero
in numero quidem quodam sunt, non tamen infi- nito, indiuidua autem quae sunt
post specialissima, infinita sunt. quapropter usque ad specialissima a
generalissimis descendentem iubet Plato quiescere, descendere autem per
media diuidentem specificis differentiis; infinita, inquit, relinquenda sunt;
neque enim horum posse fieri disciplinam. 10—17] Porph. p. 6,
11—16 (Boeth. p. 31, 17—32, 1). 14 Plato] Phileb. p. 16 C. Polit, p. 262 A—C.
Sophist. p. 266 A. B adfert Busse. 1 entia nuncupat] ERS
(-pet), etiam entia nuncupat N ab ens entia nuncupat (-pet
Lm2 ) CGL etiam nuncupat (nuncupat post ens P )
ab ens entia HP entia nuncupat ens F 2 nuncupabit (-uit
FHN ) post uniuoce FHNP , nuntiauit S
unam—definitionem ( uel diff-) poterit adhibere FHN 3 nomen
ex non Em2G 5 esse Hm1, add . ens s. l . L,
ante esset P eorum om. CN, post commune
L 6 nomen in mg. Hm2, del. Lm2 ens CH(in
mg.) Lm2 ( s. l. ante eorum) N 7 con- uenerit
Em1 8 his om. GS 10 sunt om. S 11 in numero
om . Δ quodam] quaedam Pm1 sunt om., post
indiuidua add . est S tam C infinito] Fp. c
. (finito a.c .) Hm2S TNtt p.c . Φ in infinito Hm1N W
a.c . indefinito C ( ras. ex -tio) EGL a.c . (in
indefinito et ał definito corr. m1 ) PR kIPV
(in er .) 12 indiuidua—quiescere) LRS Q , om. cett . 13 sunt
infinita LRS Busse; cf. p. 226, 22 a om. R 15
ante descendere post usque (cf. ad p. 178, 14)
add. ad id CHP diuidentem per me- dia Γ 16
ante infinita add . indiuidua uero Δ , sed del., post
add . uero ΓΦ 17 enim s. l. L, del . Γ
horum] N ii ( ante add . et ΛΦ , er. uid . Γ
, post add . indiuiduorum Γ ) eorum cett.; Porph. p. 6,
16 τούτων disciplina Cm1 Quoniam specierum
nosse naturam ad sectionem generum pertinet quoniamque scientia infinita esse
non potest — nullus enim intellectus infinita circumdat —, idcirco de
multitudine generum, specierum atque indiuiduorum rectissima ratione
persequitur dicens supremorum generum numerum notum — decem enim
praedicamenta ab Aristotele esse reperta quae rebus omnibus generis loco
praeferenda sint —, species uero multo plures esse quam genera. nam cum decem
suprema sint genera cumque uni generi non una, sed multae species supponantur
proximaeque species supremis generibus subalterna sint genera usque dum
ad ultimas species descendatur, nimirum unius generis multas species esse
necesse est utrobique dif- fusas, specialissimas uero multo plures esse quam
subalterna, quoniam per multitudinem generum subalternorum ad specia- lissimas
descenditur species. quas multo plures esse quam genera subalterna hoc
maxime ostenditur, quod inferiores sunt; semper enim genera in plura subiecta
diuiduntur. decem uero generum species multo plures quam unius existere
manifestum est, uerum tamen etsi plures sunt, certo tamen numero con- tinentur;
quem facile si quis discutiat omniumque generum species persequatur,
possit agnoscere. indiuidua uero quae sub una quaque sunt specie, infinita sunt
uel quod tam multa 1 generis EGLRS, recte? 2 scienti GRS
scienti alicui Lm2 5 su- premorum] supra horum EG, m1 in LPS
ante numerum add . esse FHNP, post notum L
6 post reperta s. l . commemorat Em2 7 gene-
ris om. R, post loco L , generum S sunt
CFH (ras. corr.) NPRSm2 8 nam cum—genera om. EGRS
9 sunt FLP (ras. corr.) 11 sint post genera
C sunt F 13 subalternas FH (s in ras. m2) N, ante
sub. add . genera PS, s. l. Lm2 16 hoc] in hoc F
inferiora FHm1Lm2NP 17 semper enim genera] FHN semper
si genera Cm1 semper enim sub- alterna (genera subalterna P
) Cm2 (part. in mg.) P et semper subalterna genera RS
et (om. G) semper subalterna EGL plurima N
18 ge- neris G unius] generis unius R species unius
generis Lm1 19 sint L compraehenduntur L 21
prosequatur NR 22 species G specie ante
sunt FHLNR tam] FHN ea EGLPRS tam ea
C sunt diuersisque locis posita, ut scientia numeroque includi
comprehendique non possint, uel quod in generatione et cor- ruptione posita
nunc quidem incipiunt esse, nunc uero desinunt. atque idcirco suprema quidem
genera et subalterna et species eas quae specialissimae nuncupantur,
quoniam finitae sunt numero, potest scientiae terminus includere, indiuidua
uero nullo modo. idcirco igitur Plato a magis generibus usque ad magis species
id est specialissimas praecipiebat facere secti- onem; per ea enim quae finita
essent numero, iubebat descen- dere diuidentem, ubi autem ad indiuidua
ueniretur, standum esse suadebat, ne, quod natura non ferret, infinita
colligeret. ita uero genera in species diuidi comprobabat, ut specificis
differentiis soluerentur. de specificis autem differentiis melius in eo titulo
ubi de differentia disputatur, ac largius disseremus. hic enim hoc tantum
dixisse sufficiat, eas esse specificas dif- ferentias quibus species
informantur, ut rationale uel mortale hominis. cum igitur diuidimus animal,
rationali atque inratio- nali, mortali inmortalique separamus. <hoc ergo>
ceteraque genera talibus differentiis quae subiectas species informent,
Plato censuit esse diuidenda usque dum ad specialissima 13 de
specificis—disputatur] lib. IV c. 8. 1 sint EFGHp.r . (
ex sunt) LPRS numeroque] FHN in unum
EGLm1 (numero m2 ) RS numeroque in unum CP
concludi LS 3 uero) ex quidem uero P recepit
Brandt , quidem CEGLRS, om. FHN; cf. p. 223, 12 5 easque ( om .
quae,) LR specialissime GS 7 igitur om. C magis
a EGLPRS usque ad magis species] FHN magis om. C
quam a speciebus cett . 8 id est] e ut uid. er. C
specialissimas] CFHN a ( add. L ) specialissimis cett.; cf.
p. 225, 13 9 essent] sunt FN 10 diuidentem] diuisionem
EGHm1 (diuisorem m2 ) Lm1PRS 11 nec HN 12
comprobat ELm1 (probabat m2 ) R ut et
soluerentur om . EGPm1 (s. l. m2) RS post ut add .
in edd . 13 autem om. EGLPm1 (uero m2 ) RS
14 de om. FG differentiis CS a.c . 16 rationabile
E uel om. ERS et Lm1 17 ante
rationali et inrationali add . in Em2 rationale atque
inrationale ( uel irr-) EGN p.c.RS 18 mortali om
. N mortale EGLPS inmortaleque EGNp.c.PRS ;
mortale (sic) ac (s. l.) inmortali L 18 hoc
ergo add. Brandt , cetera <quo>que Engelbrecht
separabimus FHN separauimus R 19 informant
Fa.c.Lm1NR ueniretur, dehinc consistere nec infinita sequi, quoniam
indi- uiduorum numquam esset nec disciplina nec numerus.
Descendentibus igitur ad specialissima necesse est diuidentem per multitudinem
ire, ascendentibus uero ad generalissima necesse est colligere multi-
p. 76 tu|dinem. collectiuum enim multorum in unam natu- ram species est
et magis id quod genus est, particularia uero et singularia e contrario in
multitudinem semper diuidunt quod unum est; participatione enim speciei plures
homines unus, particularibus autem unus et communis plures; diuisiuum est
enim semper quod singulare est, collectiuum autem et adunatiuum quod commune
est. Diuidere est in multitudinem quod unum fuerat ante dis-
soluere, omnisque diuisio e contrario compositionem coniunc- tionemque
meditatur. quod enim, cum sit unum, dispertiendo diuiditur, id ipsum ex
pluribus rursus partibus adunando componitur. ut igitur superius dictum est,
indiuiduorum qui- dem similitudinem species colligunt, specierum uero genera :
similitudo uero nihil est aliud nisi quaedam unitas qualitatis. ergo
substantialem similitudinem indiuiduorum species colli- gere manifestum est,
substantialem uero similitudinem spe- cierum genera contrahunt et ad se ipsa
reducunt. rursus 3—13] Porph. p. 6, 16—23 (Boeth. p. 32, 1—8). 9
participa- tione—11 plures] Abaelardus, Theolog. christ., II p. 486 ed. Cousin.
18 superius] p. 166, 8 ss. 3 ante igitur add .
illis L necesse—singulare est (12) om. N 4 ire
ante per L T ascendentibus—plures (11) ] Ω ,
om. cett . 6 post multitudinem excidisse in unum
coni. Busse ( cum Porph. p. 6, 18 e’:; εν ), add. edd .
8 e contrario—semper] Γ edd. cum Porph. p. 6, 20 semper
in multitudinem e contrario cett. codd. Busse 9 est unum Φ 10
unus, unus autem et communis particularibus plures Abaelard . 11
commune P a.c . communes Φ enim post est FS Φ ,
om. CELR , ante est cett . 12 est om. E 14 est]
enim C est enim L in om. G , s. l.
Lm2 15 post dissoluere add . est C 17
plurimis F 19 uero] ergo CEGLm1RS 20 nisi] ni
C generis adunationem differentiae in species distribuunt, spe-
cieique adunationem in singulares indiuiduasque personas accidentia partiuntur.
cum igitur haec ita sint, necesse est semper cum a genere descendis ad speciem,
diuidendo semper facere multitudinem, cum uero ab speciebus ascendis ad genera,
componendo colligere et plura quae in specierum differentiis fuerant
similitudine qualitatis adunare. in speciebus etiam idem considerari potest. ut
enim ipsae indiuidua, quae sunt infinita, una similitudine substantiali
colligunt. ita indiuidua speciem propria infinitate distribuunt. omnia
enim indi- uidua disgregatiua sunt et diuisiua, species uero et genera
collectiua, species quidem indiuiduorum collectiua atque adu- natiua, specierum
uero genera, ut ita dicendum sit : genus quidem species distribuunt et species
ab indiuiduis in multi- tudinem deducuntur, rursus autem genus quidem
multas species colligit, species autem particularem singularemque multitudinem
ad singularitatis deducit unitatem. igitur plus genus adunatiuum est quam
species. species namque sola indiuidua colligit, genus uero tam species quam
ipsarum quo- que specierum indiuiduas contrahit singularesque personas.
sed in hoc conuenienti utitur exemplo dicens quoniam partici- patione speciei,
id est hominis, Cato, Plato et Cicero pluresque reliqui homines unus, id est
milia hominum 1 post generis s. l . ergo E
species] specie G speciem Lm1 2 ante
indiuiduasque s. l . in Hm2 3 haec igitur LNP 4
species ELm2R 5 a ELS ad ( tamen speciebus)
G 6 et om . EGLPRS plures EFGLPm1RS
quae ante fuerant EGLPRS 7 fuerint S
simili- tudinum (-nem Pm2 ) qualitates ( ex -tis Pm2) EFGLPRS
ante adunare add . et EGLPR 8 poterit Lm2 ante
ipsae add . species N, post in mg. Cm1? ipsae]
Cm2H ipsa cett . 9 unam similitudinem substantialem
EFGLRS 10 propriam infinite ( uel -tae, -tate H )
EGHLPRS 12 post adunatiua add . est CGH
(in mg. m1?) Lm2 NPm2 13 specierum uero genera s. l. Hm2
14 distribuit EGRS 15 ducuntur EGHN 17 ducit
HN 19 cum species tum N 20 indiuidua EGHLPRS 21
participationi G 23 post unus add . est
Hm2 in eo quod sunt homines, unus homo est; at uero unus homo, qui
specialis est, si ad hominum multitudinem qui sub ipso sunt consideretur,
plures fiunt. ita et plures homines in spe- ciali homine unus est et specialis
unus in pluribus infinitus. sic igitur quod singulare quidem est, diuisiuum
est, quod uero commune, quoniam multorum unum est, ut genus ac species,
collectiuum atque adunatiuum. Adsignato autem genere et specie,
quid est utrumque, et genere quidem uno, speciebus uero pluribus — semper enim
in plures species diuisio generisest —, genus quidem semper de specie
prae- dicatur et omnia superiora de inferioribus, species autem neque de
proximo sibi genere neque de supe- rioribus; neque enim conuertitur. oportet
autem aut aequa de aequis praedicari, ut hinnibile de equo, aut maiora de
minoribus, ut animal de homine, minora uero de maioribus minime; neque enim
ani- mal dices esse hominem, quemadmodum hominem dices esse animal. de quibus
autem species prae- 8-231, 19] Porph. p. 6, 24—7, 21 (Boeth. p. 32, 9—33,
4). 1 est. ut et 3 fiunt, ita r 2 pr
. qui] quamuis FNm1 post . quae EPR 3 et] ut Cm1
4 unus est] unum est ał (haec del. m2) unus est C post . unus]
unus est LS infinitis CLm1 diffinitus R 5
quidem om. FN diuisum Em1 diuisuum N quod]
quia quod, s. l . est G 6 uero commune] FS
commune uero Cm1 ( post uero add . est m2 )
HN commune est uero LPm2R commune est numero
EGPm1 ac] et R ad Em2GLPm1 8 Assignati
Pm1 quid est] FHPm2 \ m1 quide CNRS quid
sit Π m2 xV edd . quod est cett. Busse; cf . sunt
p. 236, 14 9 utrum- que—uno] CEGHPm1 (quidem ex
quodem) RS h m2 W m2 xP utrumqae quodque sit genus unum (unum genus
N ) FN & m1 AZΦ utrumque et (et om . L Π ) cum
(cumque Π ) sit genus unum LPm2 il m1 utrumque unum
Γ species uero plurimae FLNPm2 TΔ m1 Λ2Φ ; ad utrumque—
pluribus cf. Porph. p. 7, 1 11 genus—indiuiduis (p. 231, 16)
] RS Q , om. cett . speciebus R 14 autem] Porph.
p. 7, 4 γάρ 15 aut] RS edd., om .
Ω Busse; Porph. p. 7, 4 ή aequis] aequo R
ignibile R 17 uero] autem S post minime add .
praedicantur Γ 18. 19 utroque loco dices]
RS dicis Ω edd. Busse; Porph. p. 7, 7
ειποις άν dicatur, de his necessario et speciei genus prae-
dicabitur et generis genus usque ad generalissi- mum; si enim uerum est
Socratem hominem dicere, hominem autem animal, animal uero substantiam,|
uerum est et Socratem animal dicere atque sub- p. 77 stantiam.
semper igitur superioribus de infe- rioribus praedicatis species quidem de
indiuiduo praedicabitur, genus autem et de specie et de indi- uiduo,
generalissimum autem et de genere et de generibus, si plura sint media et
subalterna, et de specie et de indiuiduo. dicitur enim generalis- simum quidem
de omnibus sub se generibus spe- ciebusque et de indiuiduis, genus autem quod
ante specialissimum est, de omnibus specialissimis et de indiuiduis,
solum autem species de omnibus indiuiduis, indiuiduum autem de uno solo parti-
culari. indiuiduum autem dicitur Socrates et hoc album et hic ueniens, ut
Sophronisci filius, si solus ei sit Socrates filius. Breuiter
quaecumque superius dicta sunt commemorat hoc modo. cum, inquit, adsignauerimus
quid sit genus et quid species, cumque suis ea definitionibus comprehenderimus
docuerimusque unum genus semper in plurimas species solui, 2
generalissima Sm2 (specialissimum m1 ) ΓΛΛ 3
enim] autem S 4 autem] uero Λ uero] autem Δ
5 et Socratem animal] A m2 A m2 ( om . et,) Ψ hominem
et (et om , AA ) animal Α m1 Α m1 Φ et hominem ani-
mal RS Σ et ( om . II ) socratem et (et om . Γ )
hominem ( del . Γ m2 ) et ( om . T ) animal ΓΠ ; cf.
Porph. p. 7, 11 6 igitur] RS enim Ω ; Porph. p.
7, 12 οΰν superioribus] superiora RS TA a.c . 7
praedicantur RS VA a.c . species] et species R
indiuiduo] cod. Q. Bussii brm indiuiduis RS Q ( ante
add. eius Σ ); Porph,. p. 7, 13 τοΰ άτο’μοο
10 sunt RS m2 p.c subalterna] de subalternis
A 11 enim] autem S 13 et de om. R de om.
S 14 de] Ω cum Porph. p. 7, 17 et de
RS 15 pr . de om. S post . de] et de R 17 autem]
enim N TAΛΣ ; Porph. p. 7, 19 ie 18 album]
aliud T m1 (et illud m2 ) A m1 ut] et Ν ΤΑ
m2 ΑΣ 19 socrates sit CEGLPRS; Porph. p. 7, 21 εΤη
Σινγ,ράτης 20 quae FHN 21 et om. R illud,
inquit, adiungimus quoniam omnia superiora de inferio- ribus praedicantur,
inferiora uero de superioribus minime. et ea quae sunt utilia de praedicationis
modo rite pertractat. ostendit autem genus in plurimas species semper solui ad-
signata generis definitione. quod enim de pluribus rebus specie
iffdiertenbus in eo quod quid sit praedicaretur, esse definiuit genus. nihil
autem sunt plurimae res specie differentes nisi plurimae species; de quibus
autem praedicatur genus, in ea ipsa dissoluitur. ostensum est igitur ex
definitionis adsigna- tione unius generis esse species plures. quae cum ita
sint, genus quidem de specie praedicatur, species uero de indiuiduis
omniaque superiora de inferioribus, inferiora de superioribus nullo modo. id
quare eueniat paucis absoluam. quae superiora sunt, substantialiter ea genera
esse praediximus, qua uero sunt genera, ampliora sunt quam una quaeque species.
neque enim in plurima diuideretur genus, nisi ab una quaque specie maius
existeret. id cum ita sit, nomen generis toti conuenit speciei; non enim
coaequatur solum speciei generis magnitudo, uerum etiam speciem superuadit.
idcirco igitur omnis homo animal est, quoniam intra animalis uocabulum et homo
et cetera continentur. at uero nullus dixerit : omne animal homo est; non
enim peruenit ad totum animal hominis nomen, quia, cum sit minus, nullo modo
generis uocabulo coaequatur. itaque quae maiora sunt, de minoribus praedicantur,
quae minora, non conuertuntur, ut de maioribus praedicentur. at uero si
qua sint aequalia, ea secundum naturae parilitatem conuerti necesse est, ut
hinnibile atque equus, quoniam ita sibimet 1 quoniam] quod S
2 uero om. ES 4 ante genus add . unum FHNPR, in
mg. Cm2, recte? 5 definitio ( uel diff-) Ea.c.GLPm1S 6
esse] et esse R definiuit] designauit Sm1 10
ante esse add . semper FHNP 13 id cur HN
idcirco F 14 ea add. Em2 quae L ( s.
l. illa) PS 15 quaque E quoque S 17
toti] totum non R 18 post enim repet . non
R 21 cetera] cicero F cetera animalia G 23
itemque Lm1S 24 post post . quae s. l . uero
Hm2 26 sunt FHLN pari- tatem EGLp.c.RS 27
ignibile R ita] si ita H coaequantur, ut neque
equus non sit hinnibilis neque quod sit hinnibile, non sit equus. fit ergo ut
omne hinnibile equus sit et omnis equus hinnibilis. quae cum ita sint, ea quae
superiora sunt, non modo de sibi proximis inferioribus prae- dicantur,
uerum etiam de inferiorum inferioribus. nam si illud recipitur, ut ea quae
superiora sunt, de inferioribus praedi- centur, inferiorum inferiora
superioribus multo magis infe- riora sunt, uelut substantia praedicatur de
animali, quod est inferius; sed animali inferius est homo, praedicabitur
igitur etiam substantia de homine. rursus Socrates inferius est homine,
praedicabitur igitur substantia de Socrate. ita- que species quidem de
indiuiduis praedicantur, genera uero et de speciebus et de indiuiduis. quod
conuerti non po- test; nam neque indiuidua de speciebus aut generibus
prae- dicantur nec species de generibus. ita fit ut genus quod est
generalissimum, de omnibus subalternis generibus praedi- cari et de speciebus
et de indiuiduis possit. de ipso nihil. ultimum uero genus id est quod ante specialissimas
species collocatur et de solis speciebus specialissimis dici potest,
species uero de indiuiduis, ut dictum est, indiuidua autem de singulis
praedicantur, ut Socrates et Plato, eaque maxime sunt 1 non om. brm
post sit (si R ) add . nisi CH (s. l. m2) LNPS
ni R inhinnibilis EG nec FN quid CF
2 pr . sit om. S post . sit] est CEGLm1RS ; non sit om.
brm; post add . nisi CLNPRS , s. l. Hm2 ergo om.
H enim F sit equus FHNP 3 hinnibile N, post
hinn. add . sit L, ante P 4 sunt om. S, ante
superiora EGP sibi om. H 5 si om. S, s. l.
Hm1? 8 uelut om. LS ut C 9 pr . est
s. l. Lm2 post . est s. l. Gm2 praedicatur
CELm2RS 10 etiam om. FG 11 ante de add .
et EGLR ita R 13 de speciebus] hic desinit cod.
F 14 aut] ac R 15 itaque CHNP quod est]
quidem CP quidem est R 16 post
praedicari add . potest L (s. l.) m1 possit m2 N
17 possit om. N potest L post ipso add .
uero HNPR, s. l. Cm2Lm2 18 uero] autem L id est]
CHm2NS id est autem est Hm1 id autem est EGLa.c . (id
est autem ut uid. p.c .) RP ante om. EGR, s. l.
Pm1? 19 collocat EGR et om. HN 20
post uero add . quae post indiuiduis add . dici
potest R autem] enim Lm1 21 ea quae maximae
G p. 78 indiuidua quae sub ostensionem | indicationemque
digiti cadunt, ut hoc scamnum, hic ueniens atque quae ex aliqua proprie
accidentium designantur nota, ut, si quis Socratem significa- tione uelit
ostendere, non dicat ‘Socrates’, ne sit alius qui forte hoc nomine nuncupetur,
sed dicat ‘Sophronisci filius’, si unicus Sophronisco fuit. indiuidua
enim maxime ostendi queunt, si uel tacito nomine sensui ipsi oculorum digito
tac- tuue monstrentur, uel ex aliquo accidenti significentur uel nomine
proprio, si solus illud adeptus est nomen, uel ex parentibus, si illorum est
unicus filius, uel ex quolibet alio accidenti singularitas demonstratur,
eo quod ad esse unam praedicationem habeat eiusque dictio non transeat ad
alterum, sicut generis quidem ad species, specierum uero ad indiuidua.
Indiuidua ergo dicuntur huiusmodi, quoniam ex proprietatibus consistit
unum quodque eorum, quarum collectio numquam in alio eadem erit. Socratis
enim proprietates numquam in alio quolibet erunt 14—p. 235, 4] Porph. p.
7, 21—27 (Boeth. p. 33, 4—10). 1 ostensione EGPS
ostentationem HN indicationeque EGPS indaga-
tionemque N 2 ante hic (is ex hic E
) add . ut CEGR et L atque quae]
Hm2LNP atque EGHm1 atque ea quae S eaque quae
CR propria CH proprietate R 4 qui post
forte HP 5 forte ante alius N 6
Sophronisci LNRS; cf . ei p. 231, 19 7 quaeant R
si uel ex siue Lm2 sensu GL ( ante add .
siue) P ( ras. ex -sui) R ipso
Cm1LPm1R tactuque H tactu uel R 8
monstrantur R accidenti significentur uel om. EGR
accidente N ante uel add . id est CH (del.
m2) Lm2NP 9 nomine om. EGR , post proprio S
illud om . S, del. Lm2 10 post uel add .
si HR, s. l. Lm2 11 demonstretur S eo quod in
ras. Cm2 eaque H (que add. m2, post er . quod)
N ea quae P; post quod add . accidentia in mg.
Cm2 de (s. l.) accidenti in con - textu , ał eo
quod accidentia in mg. L ad esse unam] unam ad sese C
ad sese unam HN ad se unam L (s. l. et in mg . de se
a.c.) P 12 habeat] EGHm2Lp.c.PRS habet
Cm1Hm1La.c.N habeant Cm2L in mg . dictio]
praedicatio CNSp.c . transit CHNR 13 species] m2 in CH
(in mg.) P, La.c . specierum cett . 16 quarum—pluribus (p. 235, 3)
] R il , om. cett . quarum] Π m2 Ψ quorum cett .
in alio post eadem s. l . \ m2 in alium R,
post alio add . quolibet 2 particularium, hae
uero quae sunt hominis, dico autem eius qui est communis, proprietates erunt
eaedem in pluribus, magis autem in omnibus particu- laribus hominibus in eo
quod homines sunt. Quoniam superius indiuiduum appellauit, huius
nominis rationem conatur ostendere. ea enim sola diuiduntur quae pluribus
communia sunt; his enim unum quodque diuiditur quorum est commune quorumque
naturam ac similitudinem continet. illa uero in quae commune diuiditur,
communi natura participant proprietasque communis rei his quibus com-
munis est conuenit. at uero indiuiduorum proprietas nulli communis est.
Socratis enim proprietas, si fuit caluus, simus, propenso aluo ceterisque
corporis lineamentis aut morum institutione aut forma uocis, non conueniebat in
alterum; hae enim proprietates quae ex accidentibus ei obuenerant eiusque
formam figuramque coniunxerant, in nullum alium conueniebant. cuius autem
proprietates in nullum alium conueniunt, eius proprietates nulli poterunt esse
communes, cuius autem pro- prietas nulli communis est, nihil est quod eius
proprietate participet. quod uero tale est, ut proprietate eius nihil
parti- 1 post particularium add . eaedem edd
. cum Porph. p. 7, 24 haec Δ eae Φ
post hominis s. l . proprietates Δ dico—communis
om. R 2 proprietates er . Λ proprietatis Γ
3 eadem Δ m1 2 pr . in] et in Γ post . in]
et in ΓΛ m2 Φ omnibus om. S 4 in om .
Φ post sunt add . continentur (ex p. 236, 7)
R 6 ostendere conatur C 7 <in> his brm
quodque unum Cm1 quibus EGLPRS edd . 10 participan- tur
R post . communi ( om . est) Gm1 11 proprietas om. E
proprietates Gm1 12 caluus, simus] caluissimus EGHm1
(caluus uel simus m2 ) Lm1PR 13 perpenso ESp.c .
albo Em1 (caluitio m2 ) G uentre N
cor- poris linea del., sed lin. er., s. l . corruptus Hm2
liniamentis CEG LNPm2S 14 post institutione
add . probatus EP, s. l. Lm2 uocis] Cm1EGPRS uocisue
sono Cm2HLm2 (uocis uel sonus m1 ) N con-
ueniebant EGm1Hm1P haec G 16 in nullo alio
EGHLm1PS 17 cuius—conueniunt om. EGLRS cuius] eius
P autem] uero N ita- que P in nullum—eius
om. P post eius add . itaque N igitur L 18
poterant EGL potuerunt ex poterunt P
potuerant R autem om. LS 19 proprietatem EGLRS
proprietate * (s er .) H 20 proprietatem
EGH LPRS nihil] nulli Lm2P participat
ER cipet, diuidi in ea quae non participant, non potest; recte
igitur haec quorum proprietas in alium non conuenit, indi- uidua nuncupantur.
at uero hominis proprietas, id est spe- cialis, conuenit et in Socratem et in
Platonem et in ceteros, quorum proprietates ex accidentibus uenientes in
quemlibet alium singularem nulla ratione conueniunt. Continetur
igitur indiuiduum quidem sub spe- cie, species autem sub genere. totum enim
quiddam est genus, indiuiduum autem pars, species uero et totum et pars, sed
pars quidem alterius, totum autem non alterius, sed aliis; partibus enim totum
est. De genere quidem et specie et quid generalissimum et quid
specialissimum et quae genera eadem et spe- cies sunt, quae etiam indiuidua, et
quot modis genus et species dicitur, sufficienter dictum est. Hic
retractat omnia breuiter quae supra latius absoluit dicens indiuiduum ab specie
contineri, species uero ipsas a genere, huiusque causam reddens ait : omne enim
genus totum est, indiuiduum pars. totum enim genus in eo quod genus est,
continet, tametsi species esse potest; totum enim non ut genus species
est, sed ut ea quae supponitur generi. genus igitur in eo quod genus est, totum
est speciebus, semper enim continet eas. at uero indiuiduum pars semper est,
num- 7—15] Porph. p. 7, 27—8, 6 (Boeth. p. 33, 10—17). 2
proprietates Em1NR conueniunt N 4 pr . et
om. C secund . in om. S tert . in om. HNP 5 uenientes ex
accidentibus C ex accidente (om . uenientes ) EGLm1RS 7
Continetur om. R (cf. ad p. 235, 4) con- tinentur A m2 K m1
Z quidem om . Φ est quidem Δ 8 totum—indi-
uidua (14) ] R Q , om. cett . 9 pars—uero] pars est species
autem Δ 10 pr . totum] totum est ΛΦ 11 sed in aliis, in
partibus edd. cum Porph. p. 8, 2 12 quod ΛΣ 13 et quid
specialissimum om . A quod A2 14 sint. R
ΓΛΙIΣ; cf. p. 237, 15 quod GS tot Pm1
modis om. S 15 dicatur N ΥΔΛΠΦΨ , s. l. add . Σ
; cf. p. 237, 19 16 Hic om. NR, s. l. Hm2 17
teneri C ipsas om. E ipsa Cm1 18
huiusce Lm2 19 pars om. E genus enim Cm1
(ante genus s. l . totum m2) HN 20 totum] tum
Hm1 tunc Ν enim] autem S 23 est ante
semper CN pars post est LS quam enim
ipsum aliquid sua proprietate concludit. species uero et totum est et pars,
pars quidem generis, totum uero indiuiduis. et cum pars est, ad singularitatem
refertur, cum totum, ad pluralitatem. quoniam enim unum genus pluribus 5
speciebus superest, una quaelibet species pars est generis, id est unius,
quoniam autem species pluribus indiuiduis | praeest, p. 79 non est
uni indiuiduo totum, sed plurimis. idcirco enim totum dicitur, quia plura
continet et cohercet. nam ut pars sit ali- quid, una ipsa unius pars esse
poterit, ut uero totum sit, unum ipsum unius totum esse non poterit.
idcirco alterius quidem pars est species, aliis uero totum. Et de
genere quidem et specie dictum est et quid sit gene- ralissimum genus, quoniam
id cui nullum aliud superponitur genus, et quid specialissima species, quoniam
ea cui species nulla supponitur, et quae genera eadem sunt, eadem et
species, scilicet subalterna quibus aliquid superponitur, aliquid uero supponitur,
quae etiam indiuidua, ea scilicet quorum pro- prietates alteri nequeunt
conuenire, et quot modis genus uel species dicitur, genus quidem aut in
multitudine aut in pro- creatione aut in participatione substantiae,
species uero aut ex figura aut ex generis suppositione, sufficienter dictum
est. quibus absolutis modum uoluminis terminabo, ut quarti area libri
differentiae reseruetur. 2 ante post . pars add .
et C , post er . que L totum in mg. Cm2 uero
om. HN autem C (in mg. add. m2) L quidem S 3
indiuidui Cm1NS et] sed CHN post post . cum add .
uero R 4 quoniam] quod L 7 plu- ribus
HLm2NS 9 unum ipsum brm 12 Et] sed in er . et
Lm2 specie] de specie EG 13 post id add .
est P, s. l. Em2 14 quod C specialissimum ( om . species,]
HN nulla species NR 15 superponitur (ras. corr.
E) nulla EG eadem s. l. Lm2 16 supponitur
HR aliquid uero supponitur om. ENR, in mg. Cm2 17 ea
om. EGLPRS 18 non queunt G quod Em1GN quod
quot R 20 aut in partici- patione s. l. Gm2 post
substantiae add . aut ex figura S consistit edd . uero
aut] autem N 21 figura] genere S ex om. E
est om. S 22 post area s. l . ubi discutiamus
ea Em2 23 ante subscriptionem initium libri IV usque ad p.
239, 6 iniecta scriptum, post subscrip - tionem E
ANICII MANLII (MALLII G ) SEVERINI BOETII (BOECII G ) V. C. ET I LL
. EXCONS (EXC. E ) ORD. PATRICII IN ISAGOGEN (YSAGOGAS E )
PORPHYRII (PORPHIRII E ) ID EST INTRODVCTIONE A SE TRANSLATAE (ID
eqs. om ., SCDAE E ) EDITIONIS LIB. III. EXPL. INCIP. LIB. IIII. EG
; EXPLICIT LIBER TERTIVS. (LIB. IIII. EXPLICIT L ) INCIPIT (LIBER
add. LS ) QVAR- TVS L (add. mS) NPRS (uariis cum.
compendiis) ; LIBER QVARTVS C; subscriptio deest in H
De differentia disputanti non aeque illud debet occur- rere quod in
generis specieique tractatu de collocationis ordine quaerebatur. illic enim
meminimus inquisitum, cur esset omni- bus praepositum genus, ut id primum
ad disputationem ueniret, cur post genus species esset iniecta, nunc uero superuacuum
est dicere, cur post speciem differentia sumpta sit, cum illud iam fuerit
inquisitum, cur non ante speciem collocata sit. quodsi mirum uidebatur speciem
differentiae in disputationis loco fuisse praepositam, quod differentia
continentior et magis amplior esset specie, quid est quod possit quisque
mirari, si eandem differentiam ante proprium atque accidens collocauerit, cum
proprium unius semper sit speciei, ut posterius demon- strabitur, accidens uero
exteriorem quandam ostendat naturam nec omnino in substantia praedicetur,
differentia uero utrumque contineat, et de pluribus speciebus et in substantia
praedicari? sed haec hactenus, nunc ad ipsa Porphyrii uerba ueniamus.
Differentia nero communiter et proprie et magis 3 quod—inquisitum]
p. 170, 2 ss. 198, 10 ss. 18—p. 240, 13] Porph. p. 8, 8—17 (Boeth. p. 33,
18—34, 7). 2 De differentia] Differentiae E
Differentia G Differentiam La.c . disputanti] in
disputando CEGLm1N non aeque illud] non illud quoque C
3 quod] ut HN collationis Cm1HN 4 quaerebatur]
hic desinit cod. S 11 ante specie add . ea
EG ab HL est quod om. GR ( post quid
add .interrgatiue) s. l. Lm2 , sit Em1 sit quod m2
an quisquam? ad quisque add . iure possit
Em2 12 post eandem add . iure E, s. l. Lm2
13 sit unius speciei semper C unius sit semper speciei
R unius semper speciei sit N 15 substantiam NR 16
substantiam Em1 18 ante Differentia
inscriptio DE ( om . Ψ ) DIF- FERENTIA additur in
2 et magis proprie in mg. Cm2? proprie dicitur.
communiter quidem differre alterum ab altero dicitur, quod alteritate quadam
differt quo- cumque modo uel a se ipso uel ab alio. differt enim Socrates a
Platone alteritate et ipse a se uel puero uel iam uiro et faciente aliquid uel
quiescente et semper in aliquo modo habendi alteritatibus. proprie autem
differre alterum ab altero dicitur, quando inse- parabili accidenti ab altero
differt. inseparabile uero accidens est ut nasi curuitas, caecitas oculorum,
cicatrix, cum ex uulnere obcalluerit. magis proprie differre alterum ab
altero dicitur, quando specifica differentia distiterit, quemadmodum homo ab
equo p. 80 specifica differentia differt rationali qualitate.
| Tribus modis aliud ab alio distare praediximus, genere. specie,
numero, in quibus omnibus aut secundum substantiales quasdam differentias
alia res distat ab alia aut secundum accidentes. nam quae genere uel specie
distant, substantia- libus quibusdam differentiis disgregata sunt, idcirco
quoniam genera et species quibusdam differentiis informantur. nam quod homo ab
arbore genere distat, animalis sensibilis qua- litas in eo differentiam
facit. addita enim sensibilis qualitas 14 praediximus] p. 191, 21.
1 dicitur] λεγέσ&ω Porph. p. 8, 8; cf .
nuncupatur infra p. 241, 18 communiter—distiterit (12)
] R Q , om. cett . 2 ab om . A , s. l . Γ 3
ipso om. R 4 pr . a om. R X puero] a puero
ΣΦ 5 uiro] a uiro Φ et] R T uel cett.;
Porph. p. 8, 11 χοιί aliquod S 6 habendi] habendi se Φ
; Porph. p. 8, 12 τού πώς εχειν 7 ab om .
ΔΛΣ quandam R 8 accidente R ; post add .
alterum edd. cum Porph. p. 8, 13 ab om . Σ 10
coaluerit Σ m2 post proprie add . autem ΓΔ (fort.
recte) uero Φ ; Porph. p. 8, 15 hi 11
ab om . ΛΣ 12 destiterit TX m1 AZ quem-
admodum—differt del. Lm1? 13 differentia om. Ν Σ
ante rationali add . id est CEGL, s. l . Hm2 A
m1? rationabili CEGLPR 14 ab] LP, om. cett . 17
accidens CEm2 accidentales Lm2 18 disgregata— quibusdam
om. N, s. l. R 19 post quibusdam add .
substantialibus Hm2 edd.,recte? ad informantur s. l.
disregantur N 21 ea Hm1Lm2NP animato animal
facit, eidem detracta facit animatum atque insensibile, quod uirgulta sunt.
igitur homo atque arbor genere differunt — utraque enim sub animalis genere
poni non possunt —, differentia sensibili secundum genus discrepant, quae unius
ex propositis tantum genus, id est hominis informat, ut dictum est. illa
uero quae specie distant manifestum est quod ipsa quoque differentiis
substantialibus discrepant, ut homo atque equus differentiis substantialibus
discrepant, rationabilitate atque inrationabilitate. ea uero quae indiuidua
sunt et solo numero discrepant, solis accidentibus distant. haec autem
sunt uel separabilia uel inseparabilia, separabilia quidem, ut moueri, dormire;
distat enim alius ab alio, quod ille somno prematur, bic uigilet. distat item
inseparabilibus accidentibus, quod hic staturae sit longioris, hic minimae.
Quae cum ita sint, in ter- narium numerum has differentiarum diuersitates
Porphyrius colligit hisque ipse nomina quibus post utatur, apponit dicens :
omnis differentia uel communiter uel proprie uel magis proprie nuncupatur,
communiter quidem eam dif- ferentiam sumens quae quodlibet accidens monstret,
quae in quadam alteritate consistit, ut si Plato a Socrate differat, quod
ille sedeat, hic ambulet, uel quod ille sit senex, hic 5 ut dictnm est]
p. 208, 17 ss. 1 eiusdem E et idem G
eadem L inanimatum L , in- er. EP; cf. p. 208, 14 ss .
2 post arbor add . quae H (linea del., sed
lin. er.) L (del. m1) N 3 animali ( om . genere) N 4
ante differentia add . sed ex E nam brm, post s.
l . igitur Pm2 5 praepositis CLm1N positis Em1, s. l .
homine et arbore Lm2Em2 6 distant specie C quod
om. CHN 7 dis- crepare CHN ut—discrepant om. EGL, s. l.
R 8 discrepant om. C 9 post
inrationabilitate add . distant L 10 sunt add. Lm2, in
mg. Pm2 13 distant Hm1Pm2 distet L distat
enim E 14 sit om. R, ante staturae HN staturae
sit post longioris L minimae] Ppr
minime cett. codd. bm 16 isque EG ipsis C post
utatur] postulatur EGR 17 propria Ca.c.L 18
propria L differentiam eam HNP a differentia (om.
eam) E 19 ad sumens s. l . exordium Em2
monstraret EGLm1 (demonstraret m2 ) R 20 ut si]
uti EGLm1 (uti si m2 ) R a om. CGR, s. l.
Lm1?Pm2 differt ex -rat E 21 sit om.
C est EGL (s. l.) R iuuenis. a se ipso etiam saepe
aliquis differre potest, ut si nunc quidem faciat aliquid, cum ante quieuerit,
uel si nunc adulescens iam factus sit, cum prius tenera uixisset infantia.
communes autem differentiae nuncupatae sunt, quoniam nullius propriae esse
possunt differentiae, sed separabilia accidentia sola significant. nam et
stare et sedere et facere aliquid ac non facere multorum atque adeo omnium et
separabilia esse accidentia manifestum est. quibus si qui differunt, communibus
differentiis distare dicuntur. praeterea puerum esse atque adule- scentem uel
senem, ea quoque separabilia sunt accidentia. nam ex pueritia ad
adulescentiam atque hinc ad senectutem, ab hac denique ad decrepitam usque
aetatem naturae ipsius necessitate progredimur. illud forsitan sit dubitabile
de unius cuiusque forma corporis, an ullo modo separari queat. sed ea quoque
est separabilis, nullius enim diuturna ac stabilis forma per- durat.
idcirco nec peregrinus pater relictum domi puerum, si adulescentem redux
uiderit, possit agnoscere; forma enim semper quae ante fuerat, permutatur atque
ipsa alteritas qua distamus ab altero, semper diuersa est. Constat igitur hanc
communem differentiam separabilibus maxime accidentibus applicari,
propria uero est quae inseparabilia significat acci- dentia. ea huiusmodi sunt,
ut si quis caecis nascatur oculis, si quis incuruo naso; dum enim adest nasus atque
oculi, ille caecus, ille erit semper incuruus. atque haec per naturam. sunt
uero alia quae per accidens corporibus fiunt, ut si cui uulnus 1
post differre add . quidem L 2 cum ante in mg.
Cm2 nunc si C 3 iam er. L, post nunc
N 5 proprie CL sed] CLm2NP , om. EG , et
R quae HLm1 separabiles E, post add . enim Lm1,
del. m2 6 pr . et om. P ac] et HNP 7
ideo EGL post omnium add- sunt edd . et om.
H esse om. G, post accidentia EL ; separabilium esse
accidentium N 8 si om . N quid EG qua
R 9 discuntur E 10 ante separabilia add .
ueraciter R 14 eo Lm1 15 est separabilis] est
separabilis forma PR separabilis forma est EGL nullius—per- durat
om. GR, in mg. Cm2, s. l. Pm2 ac stabilis] et stabilis C ( ut
uid .) N ac stabili P estimabilis E 18
alteritas ipsa EG 19 altera EGLm2R 22 nascetur
Em1 24 ante erit add . etiam R semper
om. C inflictum cicatrice fuerit obductum, haec si obcalluerit,
pro- priam differentiam facit; distabit enim alter ab altero, quod hic
cicatricem habeat, ille uero minime. postremoque in his omnibus uel
separabilibus accidentibus uel inseparabilibus alia sunt naturaliter
accidentia, alia extrinsecus, naturaliter quidem ut pueritia uel iuuentus et
totius conformatio corporis, sic caeci oculi et curuitas nasi. et superiora
quidem exempla separabilis accidentis per naturam sunt, posteriora uero inse-
parabilis. item extrinsecus uel ambulare uel currere; id enim non natura,
sed sola affert uoluntas, natura uero posse tan- tum dedit, non etiam facere.
atque haec sunt separabilis acci- dentis extrinsecus uenientis exempla, illa
uero inseparabilis, ut si qua cicatrix obducta uulneri obcalluerit. Magis
propriae autem differentiae praedicantur, quae non accidens, sed sub-
stantiam formant, ut hominis rationabilitas; differt enim homo a ceteris, quod
rationalis est uel quod mortalis. | hae sunt p. 81 igitur magis
propriae, quae monstrant unius cuiusque sub- stantiam. nam si illae quidem
idcirco communes dicuntur, quia separabiles atque omnium sunt, aliae autem
propriae, quoniam separari non possunt, quamuis sint in accidentium
numero, illae iuro magis propriae praedicantur, quae non modo a subiecto
separari non possunt, uerum subiecti ipsius speciem substantiamque perficiunt.
ex his igitur tribus differentiarum diuersitatibus, id est communibus, propriis
ac magis propriis, fiunt secundum genus uel speciem uel numerum
discrepantiae. nam ex communibus et propriis secundum numerum distantiae
nascuntur, ex magis propriis uero secundum genus ac speciem. 1 ante
cicatrice add . si H 6 uel om. C formatio
HNPm2 sic] HPm1 (et si m2 ) Rm1
(sieque m2 ) si EGLm1 (sique m2 ) tum CN
9 post currere add . sunt E 10 uoluptas
L 11 at Em1 atqui m2 separabilis sunt C 13
uulneris Lm2P autem propriae La.c.R 14 substantia
Cm1 15 informant Pm2, recte? 16 a om. HN rationa-
bilis EGLPR post mortalis add . est C hae]
Hp.r.L haec cett . sunt igitur] enim sunt H 20 quoniam]
quod R 22 ab G post ipsius add . suis Em1,
del. m2 23 tribus igitur CG 24 ac s. l. Em2 , et
CR Uniuersaliter ergo omnis differentia alteratum facit cuilibet
adueniens, sed ea quae est communiter et proprie, alteratum facit, illa autem quae
est magis proprie, aliud. differentiarum enim aliae quidem alte- ratum faciunt,
aliae uero aliud. illae quidem quae faciunt aliud, specificae uocantur,
illae uero quae alteratum, simpliciter differentiae. animali enim dif- ferentia
adueniens rationalis aliud fecit et speciem animalis fecit, illa uero quae est
mouendi, alteratum solum a quiescente fecit; quare haec quidem aliud,
illa uero alteratum solum fecit. Omnis differentia alterius ab
altero distantiam facit. sed haec uel est communis et continens uel cum quodam
proprio et magis proprio differentiarum modo. quare quicquid qualibet ratione
ab alio diuersum est, alteratum esse dicitur. si uero accesserit illi
diuersitati ut etiam specifica quadam differentia sit diuersum, non alteratum
solum, uerum etiam aliud esse praedicatur. alteratio igitur continens est,
aliud uero intra alterationis spatium continetur; nam et quod aliud est, alte-
ratum est, sed non omne quod alteratum est, aliud dici potest. itaque si
accidentibus aliquibus fuerit facta diuersitas, alteratum 1—11] Porph. p.
8, 17—9, 2 (Boeth. p. 34, 7—15). 1 ergo] uero CEGR; Porph. p.
8, 17 osv alterum E h m2 A 2 sed ea—quiescente
fecit (10) ] Ω , om. cett . ea quae est eqs. ]
cum cod. A Porph. p. 8, 18, cett. α: μέν—κοιοϋσιν, a: 81 άλλο
3 alterum Δ , item 4 autem] uero ΔΣΦ 7
altera Φ* enim] autem A a.c . 8 ratio- nale 2
facit ΓΣΦ item 9; Porph. p. 9, 1 ίποίησεν
et speciem animalis fecit om. codd. quidam Porph., deleri uult Busse
10 faci(??) ΓΔ m2 ΣΦ qua * ( (??) ? er.) re *
C qua in re (si add. GLm1, s. l . siqui- dem m2 )
EGL 11 ille Gm1 illae Δ solum om. EG, s. l.
Cm2 , solum modo P fecit] ΔΛ , om. P, facit
cett.; Porph. p. 9, 2 έποίηοιν 13 uel est] L uel
ex EG est uel N, om . est CR, om . uel HP
(ante est add . quidem ) communi EG
continenti E ( -ti * ) G cum om. N, s. l. Em2 eo
m1 14 proprio] proximo GR, post proprio add . uel ma-
ximo P 18 inter Gm1 19 nam et] Hm1NR igitur
et EG igitur omne ( et add. C) CHm2L 21
erit HN quidem effectum est, quoniam quidem quolibet modo uel
ex quibuslibet differentiis considerata diuersitas alterationem facit
intellegi, aliud uero non fit, nisi substantiali differentia alterum ab altero
fuerit dissociatum. itaque communes et propriae differentiae, quoniam
accidentium, ut dictum est, sunt, solum efficiunt alteratum, aliud uero minime,
magis propriae autem, quoniam substantiam tenent et in subiecti forma
praedicantur, non modo alteratum, quod est commune uel substantiali uel
accidenti differentiae, sed etiam aliud faciunt, quod ea sola retinet
differentia quae substantiam continet formamque sub- iecti. atque hae quidem
differentiae quae faciunt aliud, speci- ficae nuncupantur idcirco, quod ipsae
efficiunt speciem; quam cum substantialibus differentiis informauerint, faciunt
ab aliis ita esse diuersam, ut non alterata solum sit, uerum etiam tota
alia praedicetur. itaque fit huiusmodi diuisio, differentiarum ut aliae
alteratum faciant, aliae nero aliud. et illae quidem quae faciunt alteratum,
simpliciter puro nomine differentiae nuncupantur, illae uero quae aliud,
specificae differentiae prae- dicantur. atque ut planius liqueat quid sit
alteratum, quid aliud, tali describuntur termino uel declarantur exemplo
: aliud est quod tota speciei ratione diuersum est, ut equus ab homine, quoniam
rationalis differentia animali adueniens hominem fecit aliudque eum quam equum
esse constituit. item si unus homo sedeat, alter assistat, non efficietur homo
diuersus ab homine, sed eos alteratio sola disiungit, ut eum qui assistit
ab eo qui 5 ut dictum est] p. 242, 4 ss. 19 ss. 1 post
, quidem om. HNP, del. Lm2 uel ex quibuslibet om. H
2 ad differentiis s. l . uel diuersitatibus Rm1 ? 7
formam N 9 accidentali Hm2NPm2 facit EGLP 10
quae er. C 11 hee P 12 ipsae om. EGLR 14
alteratum E (in ras. m2) P alterum GLR 15 aliud
R sit E 16 ut om. EH faciunt HNR
facient Em2 facie m1 20 describantur Em1 21
ratione specie (sic) E ab om. EGL, s. l. HP 22
facit HLNPm1 23 esse] est Em1 ita R
itaque N 24 effi- citur N efficiatur (ur add. m2
) P sedet faciat alteratum. item si ille sit nigris oculis,
ille caesiis, nihil, quantum ad formam humanitatis attinet, permutatum est. ita
secundum has differentias alteratio sola consistit. at si equus quidem iaceat,
homo uero ambulet, et aliud est equus ab homine et alteratum, dupliciter quidem
alteratum, semel uero aliud. alteratum est enim, uel quod omnino specie
diuer- sum est — et est aliud; omne enim aliud, ut dictum est, etiam alteratum
est —, uel quod accidentibus distat, quod ille iaceat, hic ambulet, semel uero
est aliud, quod rationabili p, 82 atque inrationabili differentiis
dis|gregatur, quae specificae sunt et substantiales dicuntur. est igitur
alteratum quod ab alio qualibet ratione diuersum est. Secundum igitur
aliud facientes diuisiones fiunt a generibus in species et definitiones
adsignantur, quae sunt ex genere et huiusmodi differentiis, secundum
autem eas quae solum alteratum faciunt, alteratio sola consistit et aliquo modo
se habendi permutationes. Quoniam in principio operis huius
generis, speciei, differen- 13—17] Porph. p. 9, 2—6 (Boeth. p. 34,
15—19). 18 in prin- cipio o. h.] p. 147, 5. 1 facit
Em1G item om. EGR, in mg. Hm2, s. l. Lm2 si om. EGL,
post ille R, in mg. Hm2 post . ille] iste N
caesius La.c . (ce-) Pm1 caecis N cecus
C 3 item in ras. L post has add . quo- que HNP,
s. l. Lm2 sola s. l. Em2 ut GN 4 uero om.
E 5 ab] de P pr . alterum GLm1 6 post
uero add . est C enim om . H (quidem
add. post est ) N, ante est CGPR 7 enim om. G 8
distet R 9 iacet HLm1N ambulat H rationali
atque inrationali HLm2R 10 differentia N segregatur
CR specificae sunt] differentiae specificae C 13 post
facientes add . differentias edd., om. codd. cum cod. C Porph. p.
9,3 et Dauide commentatore p. 177, 23 (Busse); post add . et edd. cum
Porph . τέ 14 quae—faciunt (16) ] L Q , om. cett
. 15 ante sunt add . definitiones Γ definitiones
scilicet Δ et] ex Δ m2 16 ante
alteratio add . at CG alteratio sola consistit] ai έτερότητες
μο'νον συνί- ατανται Porph. p. 9, 5 17 et] in
CEGLR ad Δ ; Porph. v.at aliquo modo]
aliquando Γ se add. Em2 habentis R
habentibus EGLm1 permutatione R permutationibus CEGLm2
18 huius om. EGR, ante operis s. l. Lm2 specieique
EGLNPR; cf. p. 148, 17 tiae, proprii accidentisque notitiam ad
diuisionem atque ad definitionem utilem esse praedixit, idcirco nunc
differentiarum ipsarum facta diuisione easdem partitur et segregat, quaenam
differentiae diuisionibus ac definitionibus accommodentur, quae uero
minime. quoniam igitur diuisio generis ita in species facienda est, ut illae a
se species omni substantiae ratione diuersae sint, idcirco non probat
assumendas esse eas ad diui- sionem differentias quae uel separabilis uel
inseparabilis acci- dentis significationem tenent, idcirco quoniam, ut dictum
est, solum faciunt alteratum, aliud uero perficere et informare non
possunt. inutiles igitur sunt ad diuisionem hae differentiae quae faciunt
alteratum. segregandae igitur sunt communes et propriae a generis diuisione,
illae assumendae tantum quae sunt magis propriae. illae enim faciunt aliud,
quod generis diuisio uidetur exposcere. ad definitionem quoque eaedem
magis propriae plurimum ualent, communes et propriae uelut inutiles
segregantur; communes enim et propriae, quo- niam accidens diuersi generis
ferunt, nihil substantiae ratione conformant, definitio uero omnis substantiam
conatur ostendere. specificae uero differentiae illae sunt quae, ut
superius dictum est, speciem informant substantiamque perficiunt; hae sunt
magis propriae. eaedem igitur sicut in diuisionem, ita etiam in definitionem
assumuntur. ut enim dictum est, eaedem diffe- 9 ut dictum est] cf. p.
244, 2. 245, 4 (et p. 242, 19—21). 20 supe- rius] p. 245, 11. 23 ut enim dictum
est] infra p. 253, 12 ss. 258, 9 ss. 260, 6 ss. 2 definitionem]
defensionem G utile E 4 ac definitionibus om
. EG 5 diuisio igitur E 7 eas ante
assumendas P, ante esse HN diuisiones NRm1
8 uel inseparabilis om. EGR 9 idcirco—faciunt] uel eas differentias
quae faciunt (faciant R ) EGL (del. m2) R 10 aliud—
alteratum (12) om. EGR 14 aliud faciunt C 15 definitionem]
diui- sionem Cm1EGLm1 eadem Em1G 16 plurimum om.
EG post ualent add . nam EGL (del. m2) P 17
uelut—propriae om. EGR enim om. CH 18 proferunt
Lm2Pm2 procedent m1 praecedunt N a.c . 19 informant
N 21 hee CP haec E 22 eaedemque C
eadem Em1GL diuisione GN, add . generis GL
etiam om. HN et P 23 diffinitione N ut
enim—sumuntur om. edd . rentiae nunc quidem constitutiuae ad
definitionem specierum sumuntur, nunc diuisiuae ad partitionem generis
accommodantur. ita igitur cum diuisiuae sunt generis, aliud constituunt, in
substantiae uero definitione speciei informationem faciunt, cumque magis
propriae et aliud faciant et specificae sint, eo quidem quo aliud
faciunt, diuisionibus aptae sunt, eo uero quo speciem informant, definitionibus
accommodatae sunt. communes autem et propriae quoniam neque aliud faciunt, sed
alteratum, neque omnino substantiam monstrant, aeque a diuisione ut a
definitione disiunctae sunt. A superioribus ergo rursus inchoanti
dicendum est differentiarum alias quidem esse separabiles, alias uero inseparabiles.
moueri enim et quiescere et sanum esse et aegrum et quaecumque his proxima
sunt, separabilia sunt, at uero aquilum esse uel simum uel rationale uel
inrationale inseparabilia. inseparabilium autem aliae quidem sunt per se,
aliae 11—249, 4] Porph. p. 9, 7—14 (Boeth. p. 34, 20—35, 6).
2 assumuntur Ea.c . partitionem] coparationem N 3
ita—faciunt (4) in mg. sup. Hm2 Ita igitur cum diuisio generis
aliud quaerat. substantia uero speciei informationem Hm1, eadem uerba
loco ita—faciunt adiungit N Ita igitur cum ad diuisionem
generis aliud querant. aliud uero ad speciei informacionem faciunt
Hm3 3 diuisiuae] CHm2LN (priore loco) Pm1
diuisione EG ad diuisionem Hm3R diuisio Hm1N
(post. l) Pm1 sunt] CHm2LN (pr. l.), om. EGHm1 et 3 N (post. l.) R,
s. l. Pm2 constituunt] CHm2N (pr. l.) Pm2 quaerat Hm1N
(post. l.) Pm1 quaerant ( uel que-,) Hm3R quam
erat EG constituunt quam erat L in substantiae uero
definitione] CHm2LN (pr. l.) Pm2 in substantia uero
Pm1R substantia uero EGHm1N (post. l.) aliud uero
Hm3 4 post uero add . ad Hm3 faciunt
om. EHm1N (post. l.) 5 pr. et om. HN, s. l. Pm2
faciunt Lm1Pm1 et] ac C eo] in eo N 6
quidem om. L quod HLm1NP (d er .) uero] modo
N 7 quod HRm1 9 sed] sub G monstrat
CGm1 11 ergo om . H uero N 2 ; Porph. p. 9,
7 ouv rursus om. H 12 aliae... aliae h
m1 separabiles esse Φ 13 alias uero—perceptibile (p.
249, 2) om. C moueri—perceptibile] R Ω , om. cett . 14
ante quaecumque s. l . omnia Λ 15 at—inseparabilia
in sup. mg . h m2 acylum ΓΦ acilum ΛΣ ,
sim. p. 249, 3.250, 20. al . 16 post inseparabilia add . sunt
PAS<P edd. Busse, om.R h cum Porph. p. 9,10 uero
per accidens; nam rationale per se inest homini et mortale et disciplinae esse
perceptibile, at nero aquilum esse uel simum secundum accidens et non per
se. Superius differentias triplici diuisione partitus est dicens
aut communes esse aut proprias aut magis proprias, dehinc easdem alia diuisione
in duas secuit partes dicens has quidem aliud facere, illas uero alteratum.
nunc tertiam earum quidem facit diuisionem dicens alias esse separabiles, alias
inse- parabiles, posse autem de uno quoque cuius multae sunt dif-
ferentiae, plurimas fieri diuisiones ex ipsa differentiarum natura manifestum
est. nam si omnis diuisio differentiis distribuitur, quorum multae sunt
differentiae, multas etiam diuisiones esse necesse est. fit autem ut animal
diuidatur quidem hoc modo : animalis alia quidem sunt rationabilia, alia
inrationabilia, item alia mortalia, alia inmortalia; item alia pedes habentia,
alia minime; rursus alia herbis uescentia, alia carnibus, alia semi- nibus. ita
nihil mirum uideri debet, si multiplex differentiae est facta partitio. ac
primum quidem cum in ternarium nume- rum differentiae membra secuisset,
communes et proprias et magis proprias nuncupauit. secunda uero diuisio
communes et proprias intra nomen alteratum | facientis inclusit, magis
proprias p. 83 uero intra aliud facientis. haec nero tertia
diuisio, quae ait dif- ferentiarum alias esse separabiles, alias inseparabil
es, 5 Superius... dicens aut eqs.] p. 239, 18. 7 dicens has eqs.| p. 244,
2. 2 perceptibile] ΦΨ perceptibilem cett . ( in
mg . capacem T ) 3 uel] et Γ simium P post
accidens add . est Γ , s. l. Lm2, ras. in E et
om. Ν ΑΣ 4 post se add. est P 5
differentia R 7 dicens in mg. Hm2 8 earum quid
R earundem CN quidem post pr . alias C
9 post post , alias add . uero C 14 animal] in animali
quod H diuiditur H quidem ante
diuidatur Lp, om. brm 15 animalium N edd . quidem
post sunt NP, om. H rationalia alia inrationalia
H 18 item P 20 post secuisset add .
ait HP aut CN et magis—et proprias om. EG
21 nun- cupari H nuncupauerit LPR 22 facientes
CNPm1 propria R proprium Em1GLp.c . 23 facientes
CN qua CLNRm1 unam quidem ex alteratum facientibus
separabilibus differentiis adiungit, ceteras uero intra inseparabilis
differentiae uocabulum claudit. una quidem ex alteratum facientibus. id est
propria differentia, et reliqua quae aliud facere demonstrata est, id est magis
propria, inseparabiles differentiae esse dicuntur. quarum subdiuisio fit.
inseparabilium differentiarum aliae sunt per se, aliae secundum accidens, per
se quidem magis pro- priae, secundum accidens uero propriae. per se autem
aliquid inesse dicitur quod alicuius substantiam informat. si enim idcirco
quaelibet species est, quoniam substantiali differentia constituitur,
illa differentia per se subiecto adest neque per accidens aut per quodlibet
aliud medium, sed sui praesentia speciem quam tuetur informat, ut hominem
rationabilitas. homini enim huiusmodi differentia per se inest, idcirco enim
homo est, quia ei rationabilitas adest; quae si discesserit, species
hominis non manebit. et has quidem quae substanti- ales sunt, inseparabiles
esse nullus ignorat; separari enim a subiecto non poterunt, nisi interempta sit
natura subiecti. secundum accidens nero inseparabiles differentiae sunt hae
quae propriae nuncupantur, ut aquilum esse uel simum; quae idcirco per
accidens nuncupantur, quoniam iam constitutae speciei extrinsecus accidunt
nihil subiecti substantiae commo- dantes. Illae igitur quae per se
sunt, in substantiae 24—p. 251, 14] Porph. p. 9, 14—23 (Boeth. p. 35,
6—17). 1 ex om. EG, in inf. mg. L alteratum
post facientibus R, om. G post facientibus add . id est
communem L (in inf. mg.) P 2 adiungit] ponit La.c .
cetera R ceterasque Lm2 alteram C 3
una ras. ex una C quidem] quidem fit G
quippe HN 4 et om. G, s. l. E 5 inseparabilis
E esse om. G 6 post quarum add .
quidem Lp ita brm post aliae add . enim
EGL 8 inesse aliud ( ex aliquid m2 ) L 11 neque]
non Lm2R, ante neque add . quae Hm2 12
post medium add . quae sunt propria Hm1, del. m2 13
rationalitas H, item 15 15 ei s. l. Hm2 16 quidem
eas (sic) C 17 nullus esse C 18 nisi] ni EG 20
proprie CN aquilum] cf. p. 248, 15 22 accedunt
Hm1N subiecto Hm1 subiectae Lm1N
(-te) 24 Igitur illae C in om . N
ratione accipiuntur et faciunt aliud, illae uero quae secundum accidens,
nec in substantiae ratione dicuntur nec faciunt aliud, sed alteratum. et illae
quidem quae per se sunt, non suscipiunt magis et minus, illae uero quae
per accidens, uel si inse- parabiles sint, intentionem recipiunt et remissi-
onem; nam neque genus magis aut minus praedi- catur de eo cuius fuerit genus,
neque generis dif- ferentiae, secundum quas diuiditur; ipsae enim sunt
quae unius cuiusque rationem complent, esse autem uni cuique unum et idem neque
intentionem neque remissionem suscipiens est, aquilum autem esse uel simum uel
coloratum aliquo modo et intenditur et remittitur. Differentiis
rite partitis earum inter se distantiam monstrat atque unam quidem repetit quam
superius dixit. cum enim tres esse dixisset differentias, communes, proprias,
magis pro- prias, alteratum facere dixit proprias, sicut etiam communes, aliud
minime, sed hoc solis magis propriis reseruauit. nunc igitur idem repetit
dicens quoniam inseparabiles differentiae quae substantiam monstrant, id est
quae per se subiectis speciebus insunt easque perficiunt, aliud faciunt, illae
uero 16. 252, 3 superius] p. 244, 1 ss. 1 rationem GR
h suscipiuntur Lm2 percipiuntur Φ aliud]
illud E illae—suscipiens est (12) ] Ω , om. cett
. 3 dicuntur] accipiuntur Φ (ex 1); Porph. p. 9, 16
λαμβάνονχαι uel παραλαμβάνοντα codd .,
λέγονται Dauid comment. p. 184, 16 alteratum] alterum
W- m1 et om . Γ 4 quidem om . Λ
uero Γ 5 uero quae] quidem Γ si om .
Φ 6 sunt ΔΣΦ brm Busse; Porph. p. 9, 18 v.dv—Jaw
7 aut] Λ Busse et cett. codd. edd. (cf. 4);
Porph. p. 9, 19 ή cod. M m;
cett . 9 ipsae] otuxat Porph. p. 9, 20 10
post rationem add . id est diffinitionem Φ 11
neque—remissionem cum Porph. p. 9, 21 cod. Μ , ooxe ανεσιν οντε
έπίχασιν cett . 12 aquilum] cf. ad p. 248, 15
autem om. P 13 pr . uel] et Γ colorari
Em1 et om. CLR 14 et] uel R 17 esse post
dixisset HNP, ante tres P 18 alteratum—proprias]
proprias alte- ratum facere dixit HNP 19 post
aliud add . uero HNPR, s. l. Lm2 quae sunt propriae, id
est secundum accidens inseparabiles differentiae, neque in substantia insunt
nec aliud faciunt, sed tantum, ut superius dictum est, alteratum. item alia distantia
est earum differentiarum quae secundum substantiam sunt, ab his quae secundum
accidens, quoniam quae substantiam mon- strant, intendi aut remitti non
possunt, quae uero sunt secun- dum accidens, et intentione crescunt et
remissione decrescunt. id autem probatur hoc modo. uni cuique rei esse suum
neque crescere neque deminui potest; nam qui homo est, humanitatis suae nec
crementa potest nec detrimenta suscipere. nam neque ipse a se plus aut
minus hodie uel quolibet alio tempore homo esse potest nec homo rursus ab alio
homine plus homo potest esse uel animal. utrique enim aequaliter animalia,
aequaliter homines esse dicuntur. quodsi uni cuique esse suum nec cremento
ampliari potest nec inminutione decrescere, quod per id facile monstrari
potest, quoniam quae genera sunt uel species, nulla intentione uel remissione
uariantur, non est dubium quin differentiae quoque, quae unius cuiusque speciei
substantiam formant, nec remissionis detrimenta suscipiant nec intentionis
augmenta. itaque substantiales differentiae neque intentionem neque
remissionem suscipiunt. huius causa haec est. quoniam esse uni cuique unum et
idem est, et p. 84 intentionem re|missionemue non suscipit huius
exemplum. genus 2 nec N substantiam N sunt
EN neque edd . 4 est] L (s. l. m2) P edd., om.
cett . sunt om. E 5 secundum accidens quo- niam quae om.
EGP 6 ante intendi add . quae EGP post pos-
sunt add . secundum (s. l. E) accidens EGP
sunt om. CHL 7 in- tentione] intensione Pm2 edd., item 17—p.
253, 6 9 deminui] Pm1 minui L (ex diminui
m2) N diminui cett . quia C 10 decrementa Em1G edd . 11
uel] aut L 12 neque N 13 uterque P aequa-
liter—dicuntur] aequaliter corporales. aequaliter animati. aequaliter ho- mines
esse dicuntur H, eadem uerba loco aequaliter—dicuntur adiungit
sic utrique enim aequaliter eqs. N 15 ampliorari
EGLPm1 17 ante non s. l . et ob hoc Em2 19
informant Pm2 21 suscipient N cuius HNP
22 post unum add . est L 23 remissionemque
N post exemplum add. sit Lm1 edd. (ante
huius distinctio) , est Lm2, s. l. Hm2 enim dici non
potest plus minusue cuilibet genus; omnibus enim genus aequaliter superponitur.
differentiae quoque quae diuidunt genus et informant speciem, quoniam speciei
essentiam complent, nec intentionem recipiunt nec remissionem. quae uero
secundum accidens differentiae sunt inseparabiles, ut aquilum esse uel simum
uel coloratum aliquo modo, et inten- tionem suscipiunt et remissionem. fieri
enim potest ut hic paulo sit nigrior, hic uero amplius simus, ille minus
aquilus, at uero quod non omnes homines aequaliter rationales mor-
talesque sint, nec specierum nec differentiarum natura uidetur admittere.
Cum igitur tres species differentiae consi- derentur et cum hae quidem
sint separabiles, illae uero inseparabiles, et rursus inseparabilium cum
hae quidem sint per se, illae uero per accidens, rursus earum quae sunt per se
differentiarum aliae quidem sunt secundum quas diuidimus ge- nera in species,
aliae uero secundum quas ea quae diuisa sunt specificantur, ut cum per se
differen- tiae omnes huiusmodi sint, animati et inanimati, 12—p.
254, 8] Porph. p. 9, 24-10, 8 (Boeth. p. 35, 18—36, 6). 16 differentiarum—19
specificantur] Abaelardus, Introduct. ad theolog., II p. 94.
1 post cuilibet add . esse L edd . 2 quae
om. GPR, del. Hm1? 3 formant CEGLm1R species
Lm2NP 3 ante quoniam add . quae EGHLPR
essentiam] substantiam N 4 ante quae add.
ill<a>e G 6 aquilum] cf. ad p. 248, 15
colorari EG 8 nigrior sit HNP hic— aquilus] hic uero
minus hic magis acilus ille autem minus hic amplius simus illo uero minus
E amplius simus] amplissimus G, add . sit L aquilus]
ut 6 9 non quod R ut non HNPm1 quoniam non m2
ratio- nabiles ELm2P 12 considerantur Λ m2 ( in er .
-entur) 2 13 haec EG illae—sensibilis (p. 254, 5)
om. CEG 14 et—sensibilis (ibid.) om. HLNP 16
rursus—sensibilis (ibid.) om. R per se sunt Λ2Φ 17
quidem om . Λ2 18 ea] ΓΔΨΨ edd . haec
ΛII2 20 animatum et inanimatum sensibile et insensibile rationale et
inrationale mortale et inmortale h m1 animati—insensibilis] Porph.
p. 10, 4 εμψύχου και αίαβητικου ante sint
add . animalis edd. cum Porph . τοϋ ζώου quattuor
et (20—p. 254, 2) om . 2 sensibilis et insensibilis,
rationalis et inrationalis, mortalis et inmortalis, ea quidem quae est animati
et sensibilis differentia. constitutiua est substan- tiae animalis — est enim
animal substantia ani- mata sensibilis —, ea uero quae est mortalis et
inmortalis differentia et rationalis et inrationalis, diuisiuae sunt animalis
differentiae; per eas enim genera in species diuidimus. Fit nunc
differentiarum plena et suprema diuisio, quae est huiusmodi. differentiarum
aliae sunt separabiles, aliae inse- parabiles, inseparabilium aliae sunt
secundum accidens, aliae substantiales. substantialium aliae sunt diuisibiles
generis, aliae coustitutiuae specierum. quod uero ait : cum igitur tres species
differentiae considerentur, ad hoc retulit, quod in prima differentiarum
diuisione partim eas communes esse, partim proprias, partim magis
proprias dixit, quas rursus tres differentias alias separabiles esse
monstrauit, alias inseparabiles, separabiles quidem communes, inseparabiles
uero proprias ac magis proprias. inseparabilium uero fecit diuisionem dicens
alias esse secundum accidens, quae propriae nuncupantur, magis proprias
uero secundum substantiam considerari. earum uero quae secundum substantiam
sunt, subdiuisionem facit, quod 3 constituta T m1 4
post animata add . et ΓΛ Busse, om . ΔΠΣΦΨ
Porph. (p. 10, 6) edd . 5 ea] he ex e Rm2 est]
sunt R 6 diffe- rentia om . CEGPR et om
. CLR \\ rationabilis et inrationabilis (rac- et irrac-
P ) Lm2P 7 diuisi Em1 diuisae GPm1
has HP; Porph. p. 10, 8 St’ αΰτών 8 genera in] L
(s. l. m2) ΓΔΠ . (in mg. m2) Ψ
Porph., om. cett . 11 post inseparabilium add.
uero C 12 generis om. EGR, in mg. Lm2 15
post esse add . dixit HNP dicit R 16
dixit om. HPR, s. l. Em2 rursum H 17 alias insepa-
rabiles esse (esse om. N ) monstrauit HNP 18 ac] et
HN 20 acci- dens] se EG(er.), s. l. Pm2, add . substantiam
Em1 alias (alia E ) se- cundum substantiam considerari G
edd., in mg. Em2, s. l . alias secun- dum Pm2, post
considerari add . et illas esse secundum accidens edd.
quae—considerari om. E post quae s. l . uero secundum
accidens Pm2 propria C proprias Pm2
nuncupari Pm2 21 eorum (sic) uero quae secundum
substantiam s. l. add. Em2 22 post quae
add. et C aliae earum genus diuidant, aliae speciem
informent. ad cuius rei facilem cognitionem illa tertii libri specierum
generumque dispositio transcribatur. sitque primum substantia, sub hac
corporeum atque incorporeum, sub corporeo animatum atque inanimatum, sub
animato sensibile atque insensibile, sub quo animal, sub animali rationale
atque inrationale, sub rationali mor- tale atque inmortale et sub mortali
species hominis, quae solis deinceps indiuiduis praeponatur. in hac igitur
diuisione omnes hae differentiae specificae nuncupantur, generum enim
specierum- que differentiae sunt, sed generum quidem diuisiuae, specierum
autem constitutiuae. id autem probatur hoc modo. substantiam quippe corporei
atque incorporei differentiae partiuntur, cor- poreum uero animati atque
inanimati, animatum sensibilis atque insensibilis. ita igitur genera
substantiales differentiae partiuntur et dicuntur generum diuisiuae. at
uero si eaedem differentiae quae a genere descendentes genus diuidunt, colli-
gantur et in unum quae possunt iungi copulentur, species informatur. nam cum
animal species sit substantiae — omnia enim superiora de inferioribus
praedicantur et quicquid inferius fuerit, species erit etiam superioris
—, animatum tamen atque 2 illa tertii libri.. dispositio] p. 208, 12 ss.
1 diuidunt N diuident R informant CNR, add .
atque construant H atque constituunt (-ant ex
-ent P ) NP, s. l. Lm2 (ex p. 256, 3) at
E 2 facilitatem G cognitionem om. EG illa
s. l. Hm2 3 trans- feratur Hm1N; post transcribatur spatium
ad inscribendam figuram ut uid. relictum in EG sub] ubi E
hoc Em1GLm1R 4 atque incorporeum in mg. Em2 sub
corporeo om. GR, in mg Em2, s. l. Lm2 6 animal sub om.
E sub animali om. GR 6 rationabile E 7 et
om. HN, del. Em2 12 patiuntur Em1G corporeum—partiun-
tur (15) om. Em1, in mg . corporeum ( ex corpore m3
)—inanimati (ani- matum autem s. l. add. m3 ) sensibilis—partiuntur
add. m2 13 ani- matum om. G, post add . autem Em3
enim Lm1, del. m2 , et er. N 14 post
insensibilis add . partiuntur CL substantialis Gm1Pm2
15 si del. Lm2, post si del . et R heaedem
P (dem er .) R (h del .) hae HN 16
quae post descendentes L 17 in ex al. litt. Em2 18
informantur EHN informant part. ras. ex informatur
Lm2 fit E sensibile quae sunt differentiae, si
referantur ad genera, diui- siuae sunt, constitutiuae uero fiunt animalis
eiusque sub- stantiam formant atque constituunt definitionemque conformant, ut
sit animal substantia animata sensibilis, substantia quidem genus, animatum uero
atque sensibile eiusdem differentiae consti- p. 85 tutiuae. | item
animal rationabilitas atque inrationabilitas diuidit, mortali etiam atque
inmortali diuiditur, sed iuncta rationabilitas atque mortalitas, quae animalis
diuisiuae fuerant, fiunt homi- nis constitutiuae eiusque perficiunt speciem
atque omnem eius rationem definitionis informant atque perficiunt. at si
inrationabilitas cum mortalitate iungatur, fiet equus aut quod- libet animal,
quod ratione non utitur, rationabilitas uero atque inmortalitas copulatae del
substantiam informant. ita eaedem differentiae cum referuntur ad genera,
diuisiuae generum fiunt, si uero ad inferiores species considerentur, informant
species earumque substantiam conuenienti copulatione constituunt. In hoc
quaesitum est, quemadmodum dicerentur esse hae diffe- 1 post
sunt add . eiusdem P (s. l. m2) edd . diuisiua Em1G
2 post sunt s. l . si ad speciem Lm2Pm2
uero om. N, del. Pm1?, s. l. Hm2Rm2 fiunt s. l. Rm2 3
definitionemque] diuisionemque EG formant Hm1 4 quidem]
uero N 5 ante genus add. eiusdem CN , post add .
est s. l. LPm2 ante differentiae add . generis GP, post
add . diuisiuae R post constitutiuae add . animalis R,
s. l . speciei animalis Lm2 6 rationabilitas—diuiditur]
P rationalitas atque inrationalitas diuidit mortalitas ( ex
inmortali m2 ) etiam atque inmortalitas ( ex inmor- tali m2 )
diuidit ** · H rationabilitas atque irrationabilitas mortale atque
inmortale diuidit C rationale atque inrationale (diuidunt
add. N ) mortale atque (et N ) inmortale diuidit (diuidit om. N
) NR inrationabile (inratio- nale L ) atque inmortale
diuiditur EGLm1, in mg. ante atque add . irracionale. mortale
etiam atque m2 rationabilitas atque irrationabilitas, mortalitas
atque immortalitas diuidit brm 7 rationalitas E 8
diuisiua Em1GLm1R 9 constitutiua GLm1R eiusque]
hominisque HNP nominis (del. Lm2) eiusque
EGL 10 atque perficiunt s. l. Rm2 11 irrationalitas
EP mortali Lm2Pm1 fiat G aut] atque L
12 rationalitas HP 13 inmortalitas] inrationabilitas R
dei om. G , post substantiam E (s. l. m2) L
formant HN item HL 14 di- uisae E 17
esse om. C eae EGR heae P rentiae
specierum constitutiuae, cum inrationabilis differentia atque inmortalis nullam
speciem uideantur efficere. respondemus primum quidem placere Aristoteli
caelestia corpora animata non esse; quod uero animatum non sit, animal esse non
posse; 5 quod uero non sit animal, nec rationale esse concedi. sed eadem
corpora propter simplicitatem et perpetuitatem motus aeterna esse confirmat.
est igitur aliquid quod ex duabus his diffe- rentiis conficiatur, inrationabili
scilicet atque inmortali. quodsi magis cedendum Platoni est et caelestia
corpora animata esse credendum, nullum quidem his differentiis potest
esse subiectum — quicquid enim inrationabile est corruptioni sub- iacens et
generationi, inmortale esse non poterit —, sed tamen hae differentiae, quoniam
substantialium differentiarum in numero sunt, si iungi ullo modo potuissent, earum
naturam et speciem quoque possent efficere. atque ut intellegatur, quae
sit haec potentia efficiendae substantiae specieique formandae, respiciamus ad
proprias atque communes, quae tametsi iun- gantur, speciem substantiam que
nulla ratione constituunt. si quis enim loquatur ambulans, quae sunt duae
communes dif- ferentiae, uel si albus ac longus, num idcirco isdem eius
sub- stantia constituitur? minime. cur? quia non eiusdem sunt generis, quae
alicuius possint constituere et conformare sub- 3—7 Aristoteli] cf. De
caelo II 12, p. 292 a , 18 ss.; ed. Didot IV part. II p. 38 a , frg. 24 (Cic.
de nat. deor. II 15, 42 cum locis ab Heitzio adlatis). 9 Platoni] Tim. p. 38 E.
39 E ss.; cf. supra p. 209, 2. 1 species G inrationalis
CEGP differentiae E 5 concedit Lm1N 7 est]
esse CN, ad est s. l . ał esset L aliud
G 8 con- ficeretur H, s. l. ( add . ał) ad
conficiatur L irrationali Lm2P 9 ac- cedendum
CN (ac er .) H (ac in ras. m2 ),
concedendum edd . est platoni CN et om. C 10
credendum om. CN 11 inrationale (irr- P ) HP 13
ante substantialium add . in CHN, post diff. om.
CHNR 16 efficientiae G 17 tametsi] etsi C etiam
(si er. H ) etsi H ( in mg . ł tametsi m2 )
NP 19 loquitur HN 20 sit H num ex
non Rm2 isdem] NP eisdem (ei in ras. m2 ) L
hisdem cett., post s. l . differentiis add. Em2 21
ante cur add . id HNP, s. l. Lm2 eius EG
sunt ante eiusdem N, post generis L 22
possunt NP con- firmare Em1GRm1 stantiam. ita
igitur hae, id est inrationale atque inmortale, etiamsi subiectum aliquod
habere non possunt, possent tamen substantiam efficere, si ullo modo iungi
copularique potuissent, praeterea inrationale iunctum cum mortali substantiam
pecudis facit : est igitur constitutiua inrationalis differentia, item
inmor- tale ac rationale coniuncta efficiunt deum : est igitur inmortale
quod speciem formet, quodsi inter se iungi nequeunt, non idcirco quod in natura
earum est, abrogatur. Sed hae quidem quae diuisiuae sunt
differentiae generum, completiuae fiunt et constitutiuae speci- erum;
diuiditur enim animal rationali et inrationali differentia et rursus mortali et
inmortali differentia, sed ea quae est rationalis differentia et mortalis, con-
stitutiuae fiunt hominis, rationalis uero et inmor- talis del, illae uero quae
sunt inrationalis et mor- talis, inrationabilium animalium, sic etiam et
supremae substantiae cum diuisiua sit animati et inanimati dif- ferentia et
sensibilis et insensibilis, animata et sen- sibilis congregatae ad substantiam
animal perfecerunt. 9—19] Porph. p. 10, 9—17 (Boeth. p. 36,
7—15). 2 aliquod om. C aliquid LP
possunt—substantiam] possent tamen substantiam possent C 4
mortale EGPm1 5 irrationabilis NP ita R 6
coniunctae HN 8 eorum edd . 9 haec CL heae
P 10 generum om. EG fiant Cm1Em1G sunt
Σ 11 diuiditur—insensibilis (18) ] 2 , om. cett .
12 pr . et—differentia om. 2 , add. X
m2 13 ea... differentia] Porph. p. 10, 12 ai... διαοοραί
rationalis.. mortalis cum cod . M Porph., cett . τοΰ 6-νητοδ
καί τού λογικού 14 fiunt] definiunt Δ m1 ΙΛΣ hominem Δ
m1 ΑΣ 15 dni in ras. 2 , add . sunt et angeli Δ ,
sed del., ante dei add. angeli et Π m2 , sed
del.; codd. Porph. p. 10,13 aut θεού aut
άγγέλοο quae sunt add . X m2 post
mortalis add . constitutiuae sunt Γ 16 inratio- nalium
X m2 \ m1 , add . sunt Φ etiam] enim Φ supremae
substan- tiae] T m2 (suae substantiae m1 ) X m 2
(superna substantia m1 ) suprema substantia cett. codd. edd. Busse;
cf. Porph. p. 36, 12 et infra p. 259, 23 18 animatum EGR
sensibile E (le in ras .) R 19 congregata
ER perficerent G perficiunt in ras . 2 post
perfecerunt add . animata uero et insensibilis perfecerunt plantam
edd. cum Porph. p. 10, 17, om . Boethius etiam in commentario
Geminum differentiarum usum esse demonstrat, unum qui- dem quo genera
diuiduntur, alium uero quo species infor- mantur; neque enim hoc solum
differentiae faciunt, ut genera partiantur, uerum etiam dum genera diuidunt, species
in quas genera deducuntur efficiunt, itaque quae diuisiuae sunt gene-
rum, fiunt constitutiuae specierum, huiusque rei illud exemplum est quod ipse
subiecit; animalis quippe differentiae sunt diui- siuae rationale atque
inrationale, mortale atque inmortale; his enim praedicatio diuiditur animalis,
omne enim quod animal est, aut rationale aut inrationale aut mortale aut
inmortale est. sed istae differentiae quae diuidunt genus quod est animal,
speciei substantiam formamqne constituunt, nam cum sit homo animal, efficitur
rationali mortalique differentiis, quae dudum animal partiebantur, item cum sit
equus animal, inrationali mortalique differentiis constitui|tur, quae
dudum animal diui- p. 86 debant. deus autem cum sit animal, ut de
sole dicamus, ratio- nali inmortalique efficitur differentiis, quas diuidere
genus habita partitio paulo ante monstrauit. sed hic, ut diximus, deum
corporeum intellegi oportet, ut solem et caelum ceteraque huiusmodi, quae
cum animata et rationabilia Plato esse con- firmat, tum in deorum uocabulum
antiquitatis ueneratione probantur assumpta, de primo quoque genere, id est
substantia demonstrantur uenire. nam cum eius diuisiuae sint differentiae
18 ut diximus] p. 208, 22 ss. 20 Plato] cf. p. 257, 9. 2 aliud
EHm1Rm2 alio m1 uero om. R 4 partiuntur
GPm1 diuidendo N 5 deducantur HN dicuntur
R diuiduntur C (uid in er . duc? m2 ) diuisae
Em1Gm2HR 6 huius C rei om. EGR s. l. Lm2 7 ipse] ille
R diuisae Em1Gm2 8 mortale atque inmortale om. EGR, in
mg. Lm2 9 quod animal est] animal HNR 10 pr . aut
om. R post rationale add . est HN 11 est om.
HR quod] hoc C 13 post efficitur add. ab
his EPm1, del. m2, s. l. Lm2 post differentiis add .
constituitur Cm1, del. m2 14 partiebantur] diuidebant Lm1R 15
diuidebant] parciebantur R 16 ut] si CH, in ros. N, recte?;
cf.p. 208, 22 20 confirmet C (et in ras. m2 )
HLm2N 22 substantiam Em1 23 demonstrantur] idem
monstratur HN idem (super ras. Cm2, s. l. Pm2)
demonstrantur Cm1Pm1, alt . n del. Cm2Pm2 euenire
HNPm2, add. s. l . differentiae Lm2 diuisae Em1Pm1
sunt EHm1 animatum atque inanimatum, sensibile atque
insensibile, iunctae differentiae sensibilis atque animati efficiunt substantiam
ani- matam atque sensibilem, quod est animal, iure igitur dictum est, quae
diuisiuae sunt differentiae generum, easdem esse con- stitutiuas
specierum. Quoniam ergo eaedem aliquo modo quidem accep- tae fiunt
constitutiuae, aliquo modo autem diuisiuae, specificae omnes uocantur. et his
maxime opus est ad diuisiones generum et definitiones, sed non his quae
secundum accidens inseparabiles sunt, nec magis his quae sunt
separabiles. Omnes a genere differentias procedentes genus ipsum a quo
procedunt, diuidere nullus ignorat, ipsae autem quae diuidunt genus, si ad
posteriores species applicentur, informant substantias easque perficiunt,
eaedem igitur sunt constitutiuae specierum, eaedem diuisibiles generum,
alio tamen modo atque alio consideratae, ut si ad genus relatae quidem in
contrariam diuisionem spectentur, diuisibiles generis inueniuntur, si uero
iunctae aliquid efficere possint, specierum constitutiuae sunt, quae cum ita
sint, hae differentiae quae genus diuidunt, rectis- sime diuisiuae
nominantur - quae enim constituunt speciem, specificae sunt, sed constituunt
speciem hae differentiae quae 6—11] Porph. p. 10, 18—21 (Boeth. p. 36,
15—19). 4 post constitutiuas add . et
completiuas C completinasque HNP (ex p.
258,10) 6 ergo] igitur P needem uel heedem
hic et 15. 16. p. 261, 1 codd. quidam alio P ( ras. ex
aliquo,) Γ (o in ras .) quidem] ΓΔΛΙIΨ , om.
cett.; Porph. p. 10, 18 μεν 7 aliquo—inseparabiles sunt
(10) ] Ω , om. cett . alio ras. ex aliquo ut uid
. Γ autem modo Φ autem add . 5 m2 10
sunt inseparabiles Γ his om . Γ 12 post
Omnes add . enim R 13 quo] quibus EGR
procedent Em1 15 post sub- stantias s. l .
earum L eas substantiasque (quae N ) HNR sunt
igitur HL 16 post eaedem add . sunt
LR 19 sint CHPRm1 21 diui- siuae] specificae Lm2
nominantur] nuncupantur HΡΝ enim om. C post
speciem add . eaedem speciem faciunt, quae uero speciem faciunt
CHN sunt generis diuisiuae - eaedemque sunt specierum constitu-
tiuae. quare iure quae generum diuisiuae sunt et quae spe- cierum
constitutiuae, specificae nuncupantur, has igitur in diuisione generis et in
definitione specierum accipi oportere manifestum est. quoniam enim
diuisiuae sunt, per eas diuidi oportet genus, quoniam autem constitutiuae, per
eas species definiri; quibus enim unum quodque constituitur, isdem etiam
definitur, constituitur autem species per differentias generis diuisiuas, quae
sunt specificae, iure igitur specificae solae et in generis diuisione et
in specierum definitione ponuntur, et de specificis quidem haec ratio est, de
his autem quae uel separabilia uel inseparabilia continent accidentia, nihil in
generum diuisione uel definitione specierum poterit assumi, idcirco quoniam
quae diuisibiles sunt, substantiam generis diuidunt, et quae constitutiuae
sunt, substantiam speciei con- stituunt. quae uero sunt inseparabilia
accidentia, nullius sub- stantiam informant, unde fit ut multo minus
separabilia acci- dentia ad diuisiones generum uel specierum definitiones
accommodentur; omnino enim dissimiles sunt substantialibus differentiis,
nam inseparabilia accidentia hoc fortasse habent commune cum specificis, hoc
est substantialibus differentiis, quod aeque subiectum non relinquunt, sicut
nec specificae differentiae, separabilia autem accidentia ne hoc quidem; sepa-
1 diuisae Gm1 eaedemque] H (hee-) NP
eaedem C igitur eaedem (eaedem s. l. Lm2 ) quae (que E
) sunt EGLR constitutiuae specie- rum C 2
quare—constitutiuae om. EGLR quare iure] iure igitur P
4 diuisionem HLm2P et] uel R definitionem (uel
diff-) HL ( s. l . ał constitutione] P diuisione
Em1 6 eius Em1 7 post definiri add .
oportet CN, s. l . (scil. add. E ) EL quibus—definitur
om. EGLR, in mg. Pm2 hisdem CHN 9 solae s. l. Em2
10 post , in om. HN 12 continent] concedunt EG, s. l .
uel faciunt Gm1? 13 post uel add . in
L 16 sub- stantiam] HN, om. Em1 , speciem CGLm1R (post
informant) s. l. Em2 , speciei substantiam Lm2P edd . 17 formant
H multo om. C 18 ad diuisiones—accidentia (20) in inf.
mg. Gm2 definitiones] diuisiones Em1G 19 ante
substantialibus add . a HN, recte? 22 ante quod
add. id H (linea del., sed linea er. uid.) N ad quod
aeque s. l. ał quod hae similiter L sic G
(ut er .) L (ut del. m2) 23 ne] nec LN rari
enim possunt, nec tantum potestate et mentis ratiocinatione, sed actus etiam
praesentia, et omnino ueniendi uel discedendi uarietatibus permutantur.
Quas etiam determinantes dicunt : differentia est qua abundat species a
genere, homo enim ab animali plus habet rationale et mortale : animal
enim neque ipsum nihil horum est nam unde habebunt species differentias? neque
enim omnes oppositas habet - nam in eodem simul habebunt opposita —. sed,
quemadmodum probant, potestate quidem omnes habet sub se differentias,
actu uero nullam, ac sic neque ex his quae non sunt, aliquid fit neque opposita
circa idem sunt. Specificas differentias definitione concludit
dicens substan- p. 87 tiales differentias a quibusdam tali
descriptionis ratione finiri : differentia specifica est qua abundat
species a genere, sit enim genus animal, species homo : habet igitur homo dif-
ferentias in se, quae eum constituunt, rationale atque mortale; omnis enim
species constitutiuas formae suae differentias in se retinet nec praeter illas
esse potest, quarum congregatione perfecta est. si igitur animal quidem
solum genus est, homo uero est animal rationale mortale, plus habet homo ab
animali id quod rationale est atque mortale, quo igitur abundat species
4—13] Porph. p. 10, 22—11, 6 (Boeth. p. 36, 20—37, 5). 1 nec]
non brm 4 Quae h m1 dicuntur A m1 est
add . \ m2 5 que Em1 quae Ga.c . abundant
(ha- G ) Em1G a om. N ho- mo—-nullam (11) ]
R Q , om. cett . ab om . ΓΦ 6 enim] enim tamen
R autem A 7 horum nihil Γ 8 enim om .
Φ , add . & m2 , autem er . T : Porph.
p. 11, 3 ούτε ίί ; enim pro autem; cf. ad p. 16,
15; an autem ( cf. T ) Boethius scripsit ?
opposita R habet] habent cett . codd. et
edd . 9 nam] nec R habebit Φ ( post opposita),
non habe- bunt Δ 11 habet] P p.c . Φ*Γ
habent cett . ac sic om. N sic ex si
Em2G 12 hiis Φ sint Sa.c . opposita] ex oppositis
quae R h m1 13 circa idem sunt] Porph. p. 11, 6
&pa περί τό αΰτο εσται 15 diffiniri Pm2R 19
constitutiuae Em1GLp.c.Rm1 in se om. C 22 est
uero E 23 id] id est EGP a genere, id est quo
superat genus et quo plus habet a genere, hoc est specifica differentia, sed
huic definitioni quae- dam quaestio uidetur occurrere habens principium ex
duabus per se propositionibus notis, una quidem, quoniam duo con- traria
in eodem esse non possunt, alia uero, quoniam ex nihilo nihil fit. nam neque
contraria pati sese possunt, ut in eodem simul sint, nec aliquid ex nihilo
fieri potest; omne enim quod fit, habet aliquid unde effici possit atque
formari, quae pro- positiones talem faciunt quaestionem, dictum est
differentiam esse id qua plus haberet species a genere, quid igitur?
dicen- dum est genus eas differentias quas habent species, non habere? et unde
habebit species differentias quas genus non habet? nisi enim sit unde ueniant,
differentiae in speciem uenire non possunt, quodsi genus quidem has
differentias non habet, species autem habet, uidentur ex nihilo
differentiae in speciem conuenisse et factum esse aliquid ex nihilo, quod fieri
non posse superius dicta propositio monstrauit. quod si differentias omnes
genus continet, differentiae autem in contraria dissol- uuntur, fiet ut
rationabilitatem atque inrationabilitatem, mor- talitatem atque inmortalitatem
simul habeat animal, quod est genus, et erunt in eodem bina contraria, quod
fieri non potest, neque enim sicut in corpore solet esse alia pars alba, alia
nigra, ita fieri in genere potest; genus enim per se conside- ratum partes non
habet, nisi ad species referatur, quicquid igitur habet, non partibus,
sed tota sui magnitudine retinebit, nec illud dubium est, quin in partibus suis
genus habeat 1 post , quo] quod Em1 (quid m2
) GHm1R a om. H 2 hoc—dif- ferentia om. C
huic] hunc Em1N 4 per se ante notis brm
unam GHa.r. 5 aliam C (sic) Ha.r. post quoniam
add . quidem C 6 sit C nec N 10 id
om. R qua] quod GHLm1P; cf. p. 270, 12 dicen- dumne
Lm2 11 genus ante non habere HNP habent]
habet Lm2 12 habet] habebit CEGLm1, in mg. Rm2 (om. m1)
13 ueniunt R 15 uidetur GLm1P differentia
EGL ( ex -tiasj P 16 esse] est CLP aliquando
Em1 18 contrarium HLm2NPm1 contrario R 19
mortali- tatem atque inmortalitatem] CNP, s. l. Lm2, om. cett . 22
esse post alba N, post alia P 25
detinebit N 26 in] HNP, s. l. Lm2, om. cett .
contrarietates, ut animal in homine rationabilitatem, in boue contrarium.
sed nunc non de speciebus quaerimus, de quibus constat, sed an ipsum per se
genus eas differentias quas habent species, habere possit atque intra suae
substantiae ambitum continere, hanc igitur quaestionem tali ratione dis-
soluimus. potest quaelibet illa res id quod est non esse, sed alio modo esse,
alio uero non esse, ut Socrates cum stat, et sedet et non sedet, sedet quidem
potestate, actu uero non sedet. cum enim stat, manifestum est eum non agere
sessi- onem, sed potius standi inmobilitatem. sed rursus cum stat, sedet,
non quia iam sedet, sed quia sedere potest; ita actu quidem non sedet,
potestate uero sedet. et ouum animal est et non est animal. non est quidem
animal actu, adhuc namque ouum est nec ad animalis processit uiuificationem,
sed idem tamen est animal potestate, quia potest effici animal, cum
formam ac spiritum uiuificationis acceperit. ita igitur genus et habet has
differentias et non habet, non habet quidem actu, sed habet potestate. si enim
ipsum per se animal consideretur, differentias non habebit, si autem ad species
reducatur, habere potest, sed distributim atque ut eius speciebus separarim
nihil possit euenire contrarium. ita ipsum genus si per se consi-
1 post homine s. l . habet E, post
rationabilitatem Lm2 2 nunc om. EGR, s. l. Lm2 4 suae
intra C 6 quaelibet illa res] HLm2NPm1 quaelibet
res ( res s. l. E) CEPm2 quidlibet Lm1R quodlibet
G 7 alio uero non esse om. Hm1, s. l . alio non esse m2
8 secund . sedet om. CEGR 9 enim om. CEGLPm1 (s. l .
autem m2) R sessione G 10 mobilita- tem
CEGLm1P mobilitate N cum stat in constat
mut . ERm2 13 actu om. EG 14 neque CL
ad om. E animal G animalis quidem L 16
spiritum] speciem CHR genus et] ELm2NP et genus
et H genus CGLm1R 17 non habet quidem—potestate] habet
quidem potestate sed non habet ( habet om. C) actu
CEm2P habet quidem actu sed non habet potestate Em1G 18
consideretur] quis (s. l.) consideret E 19 autem]
enim R reducat E 20 distributim] HLm2PRm2
distri- butum CN distribute EGLm1 distributam Rm1
atque—contrarium] atque in species separatum ( separatim H)
ut nihil possit esse ( euenire H) contrarium CHN, add.
locum atque ut eius—contrarium C nihil] et nihil G 21
si ipsum genus HN deretur, differentiis caret; quod si ad
species referatur, per distributas species uel in partibus suis contraria
retinebit, atque ita nec ex nihilo uenerunt differentiae quas genus retinet
potestate nec utraque contraria in eodem sunt, cum contrarias
differentias in eo quod dicitur genus, actu non habet, inpos- sibilitas enim
eius propositionis quae dicit contraria in eodem esse non posse, in eo
consistit quod contraria actu in eodem esse non possunt, nam potestate et non
actu duo contraria in eodem esse nihil impedit, quae uero nos contraria
diximus, Porphyrius opposita nuncupauit. est enim genus contrarii
oppositum : omnia enim contraria, si sibimet ipsis considerantur, opposita
sunt. Definiunt autem eam et hoc modo : differentia est quod de
pluribus et differentibus specie in eo quod quale sit praedicatur;
rationale enim et mortale de homine | praedicatum in eo quod quale quiddam est
p. 88 homo dicitur, sed non in eo quod quid est. quid est enim homo
interrogatis nobis conueniens est dicere animal, quale autem animal inquisiti,
quoniam ratio- nale et mortale est, conuenienter adsignabimus.
Tres sunt interrogationes ad quas genus, species, differentia, proprium
atque accidens respondetur, haec autem sunt : quid 13—20] Porph. p. 11,
7—12 (Boeth. p. 37, 6-12). 1 species] differentias H 2
uel om. Lm1 uelut HLm2 sin eo] id HN
quot E 7 actu ante contraria H, post eodem
CLN in eodem esse—in eodem om. EG 8 post non
possunt add . quantum ad genus potestate solum, quantum ad species actu
et potestate Rm2 9 nil L contraria nos C 11
si om. HN, s. l. Cm2 si in semet Lm2P
considerentur CLm2 12 sunt om. HN 13 autem om.
H enim C et om. CEGHNP 2 , ante eam 4
; Porph. p. 11, 7 xo; όντως 14 quae EP
de om. C et om. CEGLIR; Porph. xat ; cf.
infra p. 267, 1 15 ra- tionale—animal (19) ] R Q , om.
cett . 16 praedicatur T a.c. m1 quid- dam om.
ΓΦ 18 homo om. R ΔΦ , s. l . scil, homo \ m2 ;
Porph. p. 11, 10 6 άνθρωπος 19 post post ,
animal add . sit C, ante EG inquisiti] Porph. p. 11,
11 πυνθανομενων 20 et om. CEGLR; Porph. p. 11, 12
xac est om. HNR, s. l . 2 m2 assignauimus E
assignamus G 22 hae Hp.r.LR edd . heede m P
sit, quale sit, quomodo se habeat, nam si quis interroget : quid est
Socrates? responderi per genus ac speciem conuenit aut animal aut homo, si quis
quomodo se habeat Socrates interroget, iure accidens respondebitur, id est aut
sedet aut legit aut cetera, si quis uero qualis sit Socrates interroget,
aut differentia aut proprium aut accidens respondebitur, id est uel rationalis
uel risibilis uel caluus. sed in proprio quidem illa est obseruatio, quod illud
proprium dici potest quod de una specie praedicatur, accidens uero tale est
quod qualitatem designet quae non substantiam significet, differentia uero
talis est quae substantiam demonstret, interrogati igitur qualis una
quaeque res sit, si uolumus reddere substantiae qualitatem, differentiam
praedicamus, quae differentia numquam de una tantum specie praedicatur, ut
mortale uel rationale, sed de pluribus, quod igitur de pluribus speciebus inter
se differen- tibus praedicatur ad eam interrogationem, quae quale sit id
de quo quaeritur interrogat, ea est differentia cuius talem posuit definitionem
: differentia est quod de pluribus 1 se om. G, s. l. E
habet CEGLR 2 per om. H ac N 3 pr .
aut] ut CHm1N post , aut] ut Hm1N habet R, post habeat
del . se habet G 4 iure—legit] differentia aut legit G
aut differentiam * ut (a er.) legit E differentia respondetur
(respondetur etiam R ) id est aut sedet aut legit Lm1 5 aut]
et HLm1NP quale H 6 proprio aut accidenti
EGR respondebitur] CLm2P respondebit EGR
respondetur HLm1N 7 pr . uel om. LN uel risibilis
uel caluus] Lm1 edd . uel mortalis uel caluus CHLmSN uel
mortalis uel alicuius EGR uel mor- talis uel saluus uel
caluus Pm1 uel mortalis uel risibilis uel caluus m2 10 quae
non—demonstret] Differentia uero talis est (haec om. L) quae
(que ELm1 atque m2 ) non substantiam significet (-cat
Lm1, add. m1 Differentia uero talis est quae substantiam significat,
del. m2 ). Differentia uero talis est quae (non add., sed del. E )
substantiam demonstret (at Lm1 ) EGL post significet in
mg. Proprium uero est quod non sub- standam significat H 11
quae] quia R demonstrat CLm1 inter- roganti R
( ex -tis] quale R 12 constantiae G 13 numquam]
non C tantum de una C 14 sed om. EG, s. l.
Lm2 15 quod] quod- si R 16 ad praedicatur
in mg . respondetur E 18 pluribus—differen- tibus] cf. p.
265, 14 specie differentibus in eo quod quale sit praltdicatur;
cuius definitionis causam rationemque pertractans ait; Rebus enim
ex materia et forma constantibus uel ad similitudinem rtfateriae et formae
constituti- onem habentibus, quemadmodum statua ex materia est aeris,
forma autem figura, sic et homo communis et specialis ex materia quidem
similiter consistit genere, ex forma autem differentia, totum autem hoc animal
rationale mortale homo est, quemadmodum illic statua. Dixit
superius differentias esse quae in qualitate speciei praedicarentur, nunc autem
causas exequitur, cur speciei qua- litas differentia sit. omnes, inquit, res
uel ex materia formaque consistunt uel ad similitudinem materiae atque formae
sub- stantiam sortiuntur, ex materia quidem formaque subsistunt
3—10] Porph. p. 11, 12—17 (Boeth. p. 37, 12-17). 1 post
quale add . quid Lm2(in ras.) E (sed er.) Rm1, del. m2, add .
quid post sit s. l. Hm2 4 post
similitudinem add . proportionemque LNRQ ( in mg . nempe
communionem Γ ); om. Porph. p. 11, 13 et) ac ΓΔΙΙΨ- ,
om . L Α2Φ formae] A m2 HI!1- speciei CEGHNPR h
m1 specieique L Λ2Φ formae speciei er. uid . Γ ;
cf. Porph. et infra 13 ss . 5 quem- admodum—differentia (8) ] LR Q
, om. cett. post materia add . quidem edd., recte ut
uid.; Porph. p. 11, 14 μέν 6 aeris] et (s. l. m2)
aere (in ras. m2) Ψ forma] ex ( in al. litt.
xV m2 ) forma L xV brm Busse; Porph .
εΐϊοος post figura haec Proportionale autem (enim Φ ) dicitur (est
Σ ) quod proportionem omnium specierum teneat (tenet Σ ) id est
communionem omnium partium uel (et T ) specierum quae diuidi (diui- dendo
Rhm1 diuidendae Th m2 \l m1 2'l> ) ex ea (eo ΣΣ ) contingunt
(con- tingant R ) per (del. Σ ) differentiam figuras ΓΠ
m2 diffe- rentiam figuras \ ) add . LR T m1 h m1 ΑΠΣΦ ,
om . Ψ , del . T m2 \ m2 7 simi- liter]
Busse similiter proportionaliter LR ll m1 similiter
proportionaliterquc ΓΔΙ m2 Φ'Ρρ proportionaliter 2 brm; cf.
Porph. p. 11, 15 8 ante genere add . in Γ m2 (ex
m1 ) L Σ toto Ga.c . 9 ratione E ante
mortale add . et CEGHLPR, om . N Q cum Porph. p.
11, 16 homo est om. N , ex homine Δ m2 11
differentiam HN 12 praedicaretur HN causis Em1
post cur add . autem Hm1, del. m2 qualitas
speciei H 13 omnis ELm2N uel om. EGR 14
consistit Ea.c.HLm2 subsistit N 15 sortitur
HLm2N ex om. CEGR formaque] et forma P
omnia quaecumque sunt corporalia; nisi enim sit subiectum corpus quod
suscipiat formam, nihil omnino esse potest, si enim lapides non fuissent, muri
parietesque non essent, si lignum non fuisset, omnino nec mensa quidem, quae ex
ligni materia est, esse potuisset, igitur supposita materia ac prae-
iacente cum in ipsam figura superuenerit, fit quaelibet illa res corporea ex
materia formaque subsistens, ut Achillis statua ex aeris materia et ipsius
Achillis figura perficitur, atque ea quidem quae corporea sunt, manifestum est
ex materia for- maque subsistere, ea uero quae sunt incorporalia, ad
simili- tudinem materiae atque formae habent suppositas priores
antiquioresque naturas, super quas differentiae uenientes effi- ciunt aliquid
quod eodem modo sicut corpus tamquam ex materia ac figura consistere uideatur,
ut in genere ac specie additis generi differentiis species effecta est. ut
igitur est in Achillis statua aes quidem materia, forma uero Achillis
qua- litas et quaedam figura, ex quibus efficitur Achillis statua, quae
subiecta sensibus capitur, ita etiam in specie, quod est homo, materia quidem
eius genus est, quod est animal, cui superueniens qualitas rationalis animal
rationale, id est speciem fecit, igitur speciei materia quaedam est
genus, forma uero et quasi qualitas differentia, quod est igitur in statua aes,
hoc est in specie genus, quod in statua figura conformans, id in specie
differentia, quod in statua ipsa statua, quae ex aere 2 potest]
putem G putemus R 4 nec om. Gm1 ne
EGm2L 5 ma- teria est] fit materia HNP ante igitur add
. si E , sed del . 6 in om. R ipsa ER
figuram Hm1La.r . peruenerit HN 9 corpo- ralia
HNP ex om. C 11 prioris Em1G 12
antiquiorisque G 13 tamquam om. CLP, del. Hm2 ex]
ea GL (in ras. m2) R 14 materia ac figura] brm materia
(in ras. Lm2) forma ac figura (ac figura del. Lm2 ) LP forma
ac figura CEGHRp figura ac forma N 15 generi] generis
EG 16 aes—statua (17) om. N materiae G 17 et quae-
dam—statua] CH, om. Lm1 ( in mg . et quaedam figura m2
) P statua (cet. om.) EGR 18 quod] quae edd . 22
et om. EGR, s. l. Lm2 quali- tatis R igitur est
(est s. l. Pm2 ) HNP 23 figura] forma N 24
post quod add . est igitur Pm2 figuraque conformatur,
id in specie ipsa species, quae ex genere differentiaque coniungitur. quodsi
materia quidem speciei genus est, forma autem differentia, omnis uero forma
qualitas est, iure omnis differentia qualitas appellatur, quae cum ita
sint, iure in eo quod quale sit interrogantibus respondetur. Describunt
autem huiusmodi differentias et hoc modo: differentia est quod) aptum natum est
diuidere p. 89 quae sub eodem sunt genere; rationale enim et in-
rationale hominem et equum, quae sub eodem sunt genere, quod est animal,
diuidunt. Haec quidem definitio cum sit usitata atque ante oculos
exposita, eam tamen plenius dilucideque declarauit. omnes enim differentiae
idcirco differentiae nuncupantur, quia species a se differre faciunt, quas unum
genus includit, ut homo atque equus propriis discrepant differentiis; nam
sicut homo animal est, ita etiam equus, ergo secundum genus nullo modo
distant. 6—10] Porph. p. 11, 18—20 (Boeth. p. 37, 18—38, 1).
1 formatur CHNP 2 quidem] quaedam CHLm2PR 3
autem] nero N uero] ergo Lm1 autem N
qualitas] HNPm1 qualia CEGLR uel qualis s. l.
Pm2 5 ante respondetur excidisse differentia
coni. Brandt 6 post autem add . et L (del.) R;
Porph. p. 11, 18 post 8e add . *αί cod.
B differentias] Em2GHPm1 xV differentiam CLPm2
ΓΛΑΙIΣΦ differentia Em1NR; Porph ,. τάς τοιούτας
διαφοράς et] LPR i , om. cett.; Porph. *a\ οοτως 7
qua CG actum R natura] HL (del. m2)
ΓΑΛΠΦ om. cett.; Porph. p. 11, 19 πεφοχος;
cf. infra p. 272, 5—9. 275, 12 8 ante quae add. ea Γ2 ,
s. l. A m2 , del. m. al. , illa s. l. Δ
m2 genere sunt ΣΑΨ rationale—sunt genere om. EG 9
et equum] equnmque C 10 diuidit L 11 cum—oculos
in mg. E sit usitata] sita sit situr (sic) Em1 ita sit
m2 situ sit sita G ante om. HNR, s. l. Lm2 oculis
HN 12 post exposita add. superius R ea GNR
plenius dilucideque declarauit] (claruit Em1Gm1 ) CEm2Gm2
plenius dilucideque declarauit L plenius lucidinsque
declarauit Hm2 plenius dilucidiusque claruit R exempli
insuper luce declarauit ( ex decla- ruit N ) NP plenius
dilucideque exempli insuper luce declarauit Hm1 exempli insuper
luce reserauit edd . 13 species ase differre] specie ( ex
specierum, sequ. rasura ) differentiam E species in aere
differentiam G species ase differentiae Lm1 14 a]
ad R concludit N 15 nam in ras. Lm2
sed EG quae igitur secundum genus minime discrepant, ea
differentiis distribuuntur, additum enim rationale quidem homini, inratio- nale
uero equo equus atque homo, quae sub eodem fuerant genere, distribuuntur et
discrepant, additis scilicet differentiis. Adsignant autem etiam
hoc modo : differentia est qua differunt a se singula; nam secundum genus
non differunt, sumus enim mortalia animalia et nos et inrationabilia, sed
additum rationabile separauit nos ab illis, et rationabiles sumus et nos et
dii, sed mortale adpositum disiunxit nos ab illis. Vitiosa ratione
et non sana quod uult explicat definitio quorundam. id enim esse dicunt
differentiam qua una quaeque res ab alia distet, in qua definitione nihil
interest quod ita dixit an ita concluserit : differentia est id quod est
differentia, etenim differentiae nomine in eiusdem differentiae usus est
5—10] Porph. p. 11, 21—12, 1 (Boeth. p. 38, 1—5). 2
describuntur EG 3 post equo distinguunt edd.,
post equus expec- tatur igitur’ Schepps , additum
eqs. nominatiuum absolut . (cf. indicem Meiseri) interpretatur
Brandt qui Lm2P 5 autem om . \, del.
Lm2 A. m2 etiam om. H etiam et Λ eam et Ν Σ
; Porph. p. 11, 21 St καί 6 qua] Porph.
διαφορά έσχιν δχψ διαφέρει έκασχα; ‘an quo?’ Busse, sed cf.
infra p. 271, 1.7. 18. 272, 17 . 6 nam—ab illis (9) ] LR Q ,
om. cett. post nam add . homo et equus cum Porph. edd. (cf.
etiam infra p. 271, 9. 12, sed etiam supra p. 269, 9) , etiam
Bussio homo atque equus addendum uid . 7 enim] autem Γ
8 inrationalia ( uel irr-) R ?ΓΠ (in ras.)
ros. ex -bilia Δ sed—illis (9) om.
R ratio- nabile] p.r rationale \ a.r. et cett .
separauit] disiunxit ΓΦ 9 et] CHP, s. l. er. uid.
Δ , om. cett . rationabiles] L \ m1 2 rationale
CP rationales cett., add . enim ΕGΗ ΑίΙΦΨ ; codd.
Porph. aut λογικοί aut λογικά sumus om.
CEGHP; Porph . έσμέν et nos om. E et om. N
di C dei ut uid . 2 sed—ab illis om.
EG 11 ante Vitiosa in ras. Haec E
ratione] L edd., om. cett. (recte?), in ras . est E et
om. G sane E (in ras.) NP explicans HNP non
(s. l. m2) explicat L 12 id] cf. p. 263, 10 13
aliis R distat HN differt P 14
dixerit Lm2P an] utrum R concluderit L
concludat EGR id quod est om. E ante differentia
add . ipsa ER differentia om. G 15 etenim om. EGR
differentiae nomine] qua differt una res ab alia, id est id quod est
differentia est differentia. Differentiae nomine fid est—nomine in ras.
m2) E in—definitione] usus in eius diffinitione N
definitione dicens : differentia est qua differunt a se singula, quodsi
adhuc differentia nescitur, nisi definitione clarescat, differre quoque quid
sit qui poterimus agnoscere? ita nihil amplius attulit ad agnitionem qui
differentiae nomine in eiusdem usus est definitione, est autem communis
et uaga nec includens substantiales differentias, sed quaslibet etiam
accidentes hoc modo : differentia est qua a se differunt singula; quae enim
genere eadem sunt, differentia discrepant, ut cum homo atque equus idem sint in
animalis genere, quoniam utraque sunt animalia, differunt tamen
differentia rationali, et cum dii atque homines sub rationalitate sint positi, differunt
mortalitate, rationale igitur hominis ad equum differentia est, mortale hominis
ad deum, atque hoc quidem modo substantiales differentiae colliguntur, quodsi
Socrates sedeat, Plato uero ambulet, erit differentia ambulatio uel
sessio, quae substantialis non est. namque istam quoque dif- ferentiam
definitio uidetur includere, cum dicit : differentia est qua differunt singula;
quocumque enim Socrates a Platone distiterit nullo autem alio distare nisi
accidentibus potest —, id erit differentia secundum superioris terminum
definitionis, quam rem scilicet uiderunt etiam hi qui definitionis huius uagum
communemque finem reprehendentes certae con- clusionis terminum
subiecerunt. 2 nesciatur Lm2 (non noscitur m1) P
definitione] in definitione N 3 qui] LN quomodo CEGPR
qui * (d er.) H possemus EG possi- mus
R 4 ita om. EGR cognitionem NPm2, post
agnitionem add. a cogitatione Hm1, del. m2, s. l. uel
cognitione m2, del. m. al. set om. EG 7
accidentales Lm2Pm2 9 sunt EGHLm1R in om.
GNR 11 et om. EGR rationabilitate CGLm1
rationale N sunt CEGLm1R 12 positi] post EG post
differunt add. tamen L rationabile L 13
est om. C 15 ambulatio uel om. EG, s. l. Lm2 16
nam HLm1 ista E 18 quo EGHm1 post
differunt add. a se R cumque EG
quoque Rm1 quocumque modo P post enim s. l.
modo Lm2 19 de- stiterit CEm1HPRm2 distauerit m1
post alio s. l. modo Em2 ac- cidentibus] ex
accidentibus P Interius autem perscrutantes de differentia
dicunt, non quodlibet eorum quae sub eodem sunt genere diuidentium esse
differentiam, sed quod ad esse conducit et quod eius quod est esse rei pars
est; neque enim quod aptum natum est nauigare erit homi- nis differentia,
etsi proprium sit hominis, dicimus enim ‘animalium haec quidem apta nata sunt
ad naui- gandum, illa uero minime’, diuidentes ab aliis, sed aptum natum esse
ad nauigandum non erat comple- tiuum substantiae nec eius pars, sed aptitudo
quae- dam eius est, idcirco, quoniam non est talis quales sunt quae specificae
dicuntur differentiae, erunt igitur specificae differentiae quaecumque alteram
faciunt speciem et quaecumque in eo quod quale est acci- piuntur. — Et de
differentiis quidem ista sufficiunt. Sensus propositionis huiusmodi
est. quoniam superius dixit determinasse quosdam differentiam esse qua a se
singula dis- p. 90 creparent, ait alios diligentius de differentia
| perscrutantes non 1—15] Porph. p. 12, 1-11 (Boeth. p. 38, 6—17). 1
perscrutantes] EGHP perscrutantes et speculantes cett.;
Porph. p. 12, 1 προσεξεργοζόμενοι de differentia]
CH (linea del., sed lin. er.) Σ differentiam cett. edd.
Busse; Porph. p. 12, 1 τά περί τής διαφοράς 2 non] non
solum R , quodlibet] quod habet ELm1 h m1 X , post
quod- libet er. habet 23 diuidentium esse
om. X , s. l. Lm2 sed quod— dicuntur differentiae
(12) ] LR Q , om. cett. 5 aptum] actu R
natum om. LR; Porph. p. 12, 4 τδ πεφοχέναι πλεΐν 6
dicimus] Porph. p. 12, 5 εΐποιμεν γάρ dv , unde
dicemus coni. Brandt, cf. supra p. 230, 18. 19; infra 12
erunt ειεν άν ; p. 234, 16. (erit). 17. 235, 2
(erunt) 7 ani- malia A acta Rm1 nata om. LR
8 aliis] illis A 9 actum Rm1 natum om. R
est R erit h m2 10 neque Busse 11 est
om. R quoniam om. LR 12 quae om. Φ
igitur] ergo L 13 alteram— quaecumque om. H 14 et]
ea EG quale in er. quid ut uid. Hm2
quid EG post est add. esse EG accipiunt EG
15 Et—sufficiunt om. N Et om. CEGP; Porph. 12,11
Καί de om. EG A diffe- rentiis] Porph.
περί μίν διαφοράς quidem om. H sufficiant CL X
m2; Porph. άρχει 18 alios] ilico
EGLa.c. ilico alios P de differentia] differentiam
CLm1P fuisse arbitratos recte esse superius propositam
definitionem, neque enim omnia quaecumque sub eodem posita genere dif- ferre
faciunt, differentiae hae de quibus nunc tractatur, id est specificae, numerari
queunt, plura enim sunt quae ita diuidunt species sub uno genere positas,
ut tamen eorum substantiam minime conforment, quia non uidentur esse differentiae
speci- ficae nisi illae tantum quae ad id quod est esse proficiunt et quae in
definitionis alicuius parte ponuntur, hae autem sunt ut rationale hominis, nam
et substantiam hominis conformat et ad esse hominis proficit et
definitionis eius pars est. ergo nisi ad id quod est esse conducit et eius quod
est esse rei pars sit, specifica differentia nullo modo poterit nuncupari, quid
est autem esse rei? nihil est aliud nisi definitio, uni cuique enim rei
interrogatae ‘quid est?’ si quis quod est esse monstrare uoluierit,
definitionem dicit, ergo si qua definitionis pars fuerit, eius erit pars quae
unius cuiusque rei quid esse sit designet, definitio est quidem quae quid una
quaeque res 1 positam EG 2 posita] posita sunt EGL post
genere add. quae Lm1, del. m2 3 differentiae—id est om.
CN hae om. H id est om. R, er. uid. H, s. l. Lm2
4 nominari HLm2NR 5 earum H 6 quia] quae CH
specificae ante esse H, post N 7 proficiant R et
quae] eaeque G eae quae Em1, del. m2, etiam proxima
in—ponuntur del. m2 8 in del. Lm2, om. P diffinitiones
N definitionibus EGLm1 aliqua N partes EGLP
post ponuntur add. ut mortalis rationalis Em1, del. m2
hae] ea EGLm2P 9 et s. l. Lm2 et ad G con-
format—hominis om. EG 11 conducat EHm2Lm2N et eius—pars
sit] N et eius quod ( add. quid Rm1, del. m2 , quidem
ex quid Hm2 , del. m3 ) est esse rei pars sit (est Hm1)
HR et eius rei quod est (est del. Lm2 ) esse pars est (est
om. Lm1, s. l. sit m2) CL et eius quod quidem esse rei pars
est P eius rei quod quidem (aliquid add. E) EG 13
esse om. G, ante autem H nihil del. Em2
est s. l. Lm2Rm2 esse E (del. m2) G unius
cuiusque R 14 interrogatae] ad inter- rogationem CHN
quis] quid Lm2 quod] id quod CHNP 15 qua] quid
CHN 16 post eius s. l. rei Lm2 quae]
quod HLm1N quid] quod N sit esse L esse
fit G est esse Hm1N 17 designat Lm2P
significet Hm1N est quidem] enim est HN quae quid]
quia N sit, ostendit ac profert, demonstraturque quid uni
cuique rei sit esse per definitionis adsignationem. illae uero differentiae
quae non ad substantiam conducunt, sed quoddam quasi extrin- secus accidens
afferunt, specificae non dicuntur, licet sub eodem genere positas species
faciant discrepare, ut si quis hominis atque equi hanc differentiam
dicat, aptum esse ad nauigandum. homo enim aptus est ad nauigandum, equus uero
minime, et cum sit equus atque homo sub eodem genere animalis, addita
differentia ‘aptum esse ad nauigandum’ equum distinxit ab homine, sed aptum
esse ad nauigandum non est huiusmodi, quale quod possit hominis formare
substantiam, sed tantum quandam quodammodo aptitudinem monstrat et ad faciendum
aliquid uel non faciendum oportunitatem. idcirco ergo speci- fica differentia
esse non dicitur, quo fit ut non omnis diffe- rentia quae sub eodem genere
positas species distribuit, spe- cifica esse possit, sed ea tantum quae
ad substantiam speciei proficit et quae in parte definitionis accipitur,
concludit igitur esse specificas differentias quae alteras a se species faciunt
per differentias substantiales, nam si uni cuique id est esse quodcumque
substantialiter fuerit, quaecumque differentiae substantialiter diuersae
sunt, illas species quibus adsunt, omni substantia faciunt alteras ac
discrepantes, atque hae in defini- tionis parte sumuntur, nam si definitio
substantiam monstrat 1 ostendit om. E ostenditur
N ac er. E, om. N profert om. N demonstratque
CLm1 quid] quod Lm1Pm1R quidem quid N 2 per
om. EGR, in mg. Lm2 assignatione EG 3 ad om. EΡ quasi
om. EGPR 5 faciant om. EG facient CLm1Rm1 7 homo
enim (autem LR )—equus] HLNR hominem equum (cet, om.)
CEGP 10 esse ad—sed tantum (11) om. EG 11 quale om.
EGR, del. Lm2 ante quod (quid P ) add. per
L (del. m2), s. l. Pm2 post substantiam add.
sicut rationale quae est substantialis qualitas C 12
habitudinem Hm1 13 opportunitatem CR differentia
specifica C 18 ante esse add. eas
HΝΡ, s. l. Lm2 quae—differentias om. EGR ad faciunt s.
l. 1 informant Lm2 19 differentias ex
distantias Lm2 idem est ( in ras. m2 ) esse
H idem esse est R 21 sint Hm1 omnes
EGP 22 substantias P substantiae Hm1 substantiae
ratione N et substantiales differentiae species efficiunt,
substantiales dif- ferentiae erunt partes definitionum.
Proprium uero quadrifariam diuidunt. nam et id quod soli alicui speciei
accidit, etsi non omni, ut ho- mini medicum esse uel geometrem, et quod omni
accidit, etsi non soli, quemadmodum homini esse bipedem, et quod soli et omni
et aliquando, ut homini in senectute canescere, quartum uero, in quo
concur- rit et soli et omni et semper, quemadmodum homini esse risibile,
nam etsi non semper rideat, tamen risi- bile dicitur, non quod iam rideat, sed
quod aptus natus sit; hoc autem ei semper est naturale et equo hinnibile, haec
autem proprie propria perhibent esse, 3—p. 276, 2] Porph. p. 12, 12—22
(Boeth. p. 38, 18—39, 9). 1 et om. EG, s. l. Pm2 2
erunt post partes Lm2 sunt m1 sunt
post definitionum CGR, s. l. Em2 3 DE PROPRIO om. H, add.
Lm2 EXPLICIT DE DIFFEREN. (DIFFERENTIIS Ψ ) INCIPIT DE PRO-
PRIO 2<F 4 et s. l. C 5 hominem R h m1 A
6 uelut H geo- metram CEm1G edd. Busse et quod—perhibent
esse (14) ] LR ( locum hic om., p. 277, 7
post adest inserit ) Ω , om. cett. omni]
Porph. p. 12, 14 παντί—τφ εϊδει 7 etsij et
R T m1 ante homini add. et R 8
homini] Porph. p. 12, 16 όνΟ-ρώπψ παντί , unde
homini omni coni. Busse 9 post uero add.
est Φ in quo concurrit et del., in mg. conuenit T
m2 10 hominem R Σ 11 risibilem R ΓΣΦ ; Porph. p.
12, 17 ώς τψ άνθρώπψ τό γελαστιχόν non semper rideat] L
Σ non rideat ΓΑ non ridet ( hic ut uid. s. l.
semper add., sed er. \ ) R AIIΨΨ semper non
rideat Busse non rideat semper edd.; Porph. p. 12, 18
χαν γάρ μή γελά αεί risibile tamen L Λ edd.
Busse; Porph. άλλα γελαστιχο'ν 12 iam] semper Σ
edd.; Porph. p. 12, 19 άεί , cod. Mm2 ί)Bη
rideat—natus sit om. Φ 13 sit natus R, add.
ad ridendum R ΓΑ ridere Σ , ante sed
add. ridendum Φ ; om. Porph. semper ei est
naturale L semper est ei naturale Γ ei semper naturale
est Σ ante et add. ut (om. etiam B Bussii)
edd. Busse ; Porph. p. 12, 20 ώς , om. cod. A 14
autem] Porph. 81 xai , om. xai
cod. A proprie—esse] L Λ (esse s. l. m2 )
Σ (esse om. ), proprie domi- nanterque (nominantur T m2 )
propria perhibentur (perhibentur del. Γ m2 ) ΓΦ
proprie nominantur (nominant Π ) propria R ΔΙΙ uere dicuntur
propria Ψ ; Porph. χυρίως ΐßιά φασιν
quoniam etiam conuertuntur. quicquid enim equus, hinnibile, et quicquid
hinnibile, equus. Superius dictum est omnia propria ex accidentium
genere descendere, quicquid enim de aliquo praedicatur, aut substan- tiam
informat aut secundum accidens inest. nihil uero est quod cuiuslibet rei
substantiam monstret nisi genus, species et differentia, genus quidem et
differentia speciei, species uero indiuiduorum. quicquid ergo reliquum est, in
accidentium numero ponitur, sed quoniam ipsa accidentia habent inter se aliquam
differentiam, idcirco alia quidem propria, alia priore p. 91 atque
antiquiore nomine accidentia nun|cupantur. et de acci- dentibus paulo post,
nunc de propriis, quae quadrifariam diui- duntur, non tamquam genus aliquod proprium
in quattuor species diuidi secarique possit, sed hoc quod ait diuidunt, ita
intellegendum est, tamquam si diceret ‘nuncupant’, id est propria
quadrifariam dicunt, cuius quadrifariae appellationis significationes enumerat,
ut quae sit conueniens et congrua nuncupatio proprietatis ostendat, dicit ergo
proprium accidens quod ita uni speciei adest, ut tamen nullo modo coaequetur
ei, sed infra subsistat ac maneat, ut hominis dicitur pro- prium medicum
esse, idcirco quoniam nulli alii inesse ani- 3 superius eqs.] fort. p.
186, 12—187, 1. 1 enim equus om. N equus—equus]
CEGHNP U ( sed add. et si homo, risibile, si risibile, homo
est] cum Porph. p. 12, 21, post pr. equus add. et
R A est et L est etiam est et (sic) Φ
equus est et hinnibile est (est s. l. F\ m2 ) et quicquid
hinnibile equus est ΓΔ est equus est hinni- bile et quicquid est
hinnibile est equus ( quattuor est s. l. m2 ) Ψ equus
est hinnibile et quicquid hinnibile est equus est et si homo est risibile est
et risibile homo est 2 4 alio N 6 ante
species add. et Lm1, del. m2 7 et om. R
genus—diiferentia om. EGR, s. l. Hm2 11 ante antiquiore
add. in ER 12 nunc ex nam Hm2
quadrifarie N in quadrifariam (-um GP ) EGP
diuidunt H (ur er. ) P (ur del. m2 ) 13
aliquid CPm1 14 ait om. E ( in mg. dicitur
m2 ) G est R diuiduntur EG 15 nuncu-
pantur EGR 16 proprie CEm1G propriam ut uid.
Pm1 propriam m2 dicuntur EGHm1La.c.NR
quadrifariam C 18 proprietas Ea.c. (proprii p.c.
) G dicitur CEHLa.c. (corr. m1 et 2) P ergo om.
C proprium s. l. Cm2 primum m1 20 ei
ante nullo HN ac] et HNP dicimus HN
malium potest, nec illud adtendimus, an hoc de omni homine praedicari
possit, sed illud tantum, quod de nullo alio nisi de homine dici potest medicum
esse, et haec quidem signifi- catio proprii dicitur inesse soli, etsi non omni;
soli enim speciei, etsi non omni coaequatur, ut medicina soli quidem
inest homini, sed non omnibus hominibus ad scientiam ad- est. Aliud proprium
est quod huic e contrario dicitur omni, etsi non soli; quod huiusmodi est, ut
omnem quidem speciem contineat eamque transcendat, et quoniam quidem
nihil est sublectae speciei quod illo proprio non utatur, dicimus omni,
quoniam uero transcendit in alias, dicimus non soli : hoc huiusmodi est quale
homini esse bipedem, proprium est enim homini esse bipedem, omnis enim homo
bipes est etiamsi non solus, aues enim bipedes sunt, geminae igitur
significationes proprii quae superius dictae sunt, habent aliquid minus, prima
quidem quia non omni, secunda uero quia non soli, quas si iungimus, facimus
omni et soli, sed demimus aliquid secundum tempus, si ei adiciatur aliquando,
ut sit haec tertia proprii nuncupatio ‘omni et soli, sed aliquando’, ut
est in senectute canescere uel in iuuentute pubescere; omni enim homini adest
in iuuentute pubescere, in senectute canescere, et soli, pubescere enim solius
hominis est, sed ali- 1 hoc om. EG homini EN 2
quod] quia HN nisi de homine post esse N 3
medicus Hm1N 4 inesse] CP, s. l. Hm2Lm2, om.
EGR inest N etiamsi Em2 (et m1
) Hm1LR 5 etiamsi EHm1L ( repet, post
inest) PR coaequetur Em2Hm1 ante medicina add.
homini H (del. m2) LNR 6 homini om.
NR, s. l. Hm2 adest] adesse potest CLN potest esse H;
de R cf. ad p. 275, 6 7 est ante aliud HN, post
CG, om. E 8 etiamsi HLNR quid HN 10 quod
illo—non soli in inf. mg. Em2 post dicimus
add. enim C 11 aliis Em2G 12 hoc] id
N post quale add. est s. l. Hm2, post
homini CG 13 hominis R, post homini add.
proprium Em2 enim in mg. Em2 14 etiamsi—geminae
om. EGR 17 sed Hm2 si m1
demimus] HN deminus Cm1 i demimus ί
deest minus m2 dempsimus R dedimus Em1
(addimus m2 ) G deest minus LP 18 eis
HLP ei post adiciatur N 19 omni et soli] et soli
et omni C sed] si G 21 post. in] et in
HN 22 est hominis HN quando, neque enim omni tempore,
sed in sola tantum iuuen- tute. haec igitur determinatio proprii in eo quidem
modo quod omni et soli inest, absoluta est, sed ex eo minuit aliquid uel
contrahit, cum dicimus aliquando, quod si auferamus, fit pro- prii integra
simplexque significatio hoc modo : proprium est quod omni et soli et
semper adest, omni autem et soli speciei et semper intellegendum est ut homini
risibile, equo hinnibile; omnis enim et solus homo risibilis est et semper.
neque illud nos ulla dubitatione perturbet, quod semper homo non rideat; non
enim ridere est proprium hominis, sed esse risibile, quod non in actu,
sed in potestate consistit, ergo etiamsi non rideat, quia ridere tamen posse
soli et omni homini semper adesse dicitur, conuenienter proprium nuncupatur,
nam si actus separatur ab specie, potestas nulla ratione disiungitur.
Quattuor igitur significationes proprii dixit, nam prima quidem,
quando accidens ita subiectae speciei adest, ut soli ei adsit, etiamsi non
omni, ut homini medicina; secunda uero, 1 in om. EGR, s. l. L,
post tantnm P tamen L post iunentnte add.
pubescit N 2 post proprii add. integra
simplexque significatio GHP (del. m1? ex 5) in eo—fit proprii
(4) om. R modo om. N, del. Lm2 3 inest om.
EG est Lm1 minus La.c. minui N
minuens P aliquid uel] atque significationem in ras.
Em2 uel] CNP et GL, om. ΕH 4 quod] quam
N 5 simplexque] et simplex HLNR proprii R 6 soli
et omni N secund. et om. GLR, s. l. Pm2
omni autem—intellegendum est om. Rbrm 7 et semper om. EGR,
del. Lm2, s. l. Hm2Pm2 intellegendum est del. et s. l.
adest scr. Hm2, in mg. quod soli et omni adest m. al. 8
post. et om. EGPR post semper add.
similiter et equus hinnibile brm 9 illud Hm2 enim
Hm1N 10 proprium est NPR sed] si est R esse
del. Lm2 est R 11 sed] si R 12 si non rideat
etiam C quia om. N, s. l. Hm2 tamen om. R
autem HN possit La.c.N potest Em2 post
omni add. adsit H (del. m2) adest N
13 ante semper s. l. et Hm2 semper om. R
ante conuenienter add. et H (er.) L (del. m2) NP
14 si] etsi Hm1Lm1N separetur Em2 a C 15
proprii om. EG nam prima] unam CHm1 (primam m2) N
nam (s. l.) primam P 17 homini medicina] hominem esse
medicum C secundam CHN; in mg . ał. se- cunda autem cum omni
accidit etsi non soli ut homini esse bipedem add. L uero]
autem CL (in mg.) cum soli quidem non adest, omni uero semper
adiungitur, ut homini esse bipedem; tertia uero, cum omni et soli, sed ali-
quando, ut omni homini in iuuentute pubescere; quarta, cum omni et soli et
semper adest, ut esse risibile, atque ideo cetera quidem conuerti non
possunt : neque enim coaequatur quod soli, sed non omni speciei adest, species
quidem de ipso dici potest, ipsum uero de specie minime, qui enim medicus est,
potest dici homo, homo uero qui est, medicus esse non dicitur, rursus quod ita
est alii proprium, ut omni adsit etiamsi non soli, ipsum quidem de specie
praedicari potest, species uero de eo minime, nam bipes praedicari de homine
potest, homo uero de bipede nullo modo, rursus quod ita adest, ut omni et soli,
sed aliquando adsit, quoniam de tem- pore habet aliquid deminutum nec
simpliciter semper adest, reciprocari non poterit, possumus enim dicere
‘omnis qui pubescit homo est’, non ‘omnis homo pubescit’: potest enim minime ad
iuuentutem uenire atque ideo nec pubescere; nisi forte non sit pubescere
hominis proprium, sed in iuuentute pubescere, aut, etiam cum nondum est in
iuuentute aut etiam praeteriit, tamen sit ei proprium non tale quale tunc
fieri possit, cum praeter iuuen- tutem est, sed quale cum in iuuentute
consistit, atque ideo hoc 1 cum] quae N soli—adiungitur
del. Hm2 omni accidit etsi non soli CHm2L semper s. l.
Hm2 2 hominem C tertiam CHN soli et omni
N 3 omnio m. LNR homini om. N quartam CG
(sic) HN 4 post. et om. EG, add. Pm2 inest
CHm1N ideo om. E adeo HLR 5 coaequantur HN
6 quodj quia cum Hm1N non omni sed soli N sed] si
R 7 qui enim—dici homo om. EGR 8 homo dici C
9 ad alii s. l. a t illud L, post add. una
pars R 11 de homine praedicari C 13 adest
ex est Em2 distat Hm1 assit ex
sit Hm2 14 diminutum EN nec] et Hm1 16 non]
non tamen dicimus L homo] qui est homo L qui homo est
(qui et est s. l. m2) H 18 ante sed
add. solummodo Hm2, ante in CN, post post.
pubescere L aut] Hm2La.c.Pm2 ut
EGHm1Lp.c.Pm1R autem CN 19 cum] Hm1NR quod
CEGHm2LP etiam s. l. Hm2 iam Em1 20 sit] adsit
CHN ei om. G fieri om. C, in ras. Lm2 fieri
possit del., est s. l. scr. Hm2 potest
L (in ras. m2) P est C 21 post
quale add. tunc fieri potest (posset CHLm1N) CH (s. l. m2)
LNP quod non in omne tempus tenditur, etiamsi tale est, ut
omni p. 92 speciei adsit, quod ta|men in tempus aliquod differatur,
integrum atque absolutum proprium esse non dicitur, quartum est quod ita alicui
adest, ut et solam teneat speciem et omni adsit et absolutum sit a temporis
condicione, ut risibile quod a supe- riore plurimum distat; nam qui
risibilis est, semper ridere potest, rursus qui potest in iuuentute pubescere,
cum ipsa iuuentus non sit semper, non ei adest semper ut in iuuentute pubescat,
haec autem quarta proprii significatio quoniam nulla temporis definitione
constringitur, absoluta est atque ideo etiam conuertitur et de se inuicem
proprium atque species praedicantur; homo enim risibilis est et risibile
homo. Accidens uero est quod adest et abest praeter sub-
iecti corruptionem, diuiditur autem in duo, in separa- bile et in
inseparabile, namque dormire est separabile accidens, nigrum uero esse
inseparabiliter coruo et Aethiopi accidit, potest autem subintellegi et coruus
albus et Aethiops amittens colorem praeter subiecti corruptionem, definitur
autem sic quoque; accidens est 13—p. 281, 7] Porph. p. 12, 23—13, 8
(Boeth. p. 39, 10—21). 1 quod] quia HN 2 speciei]
tempori EGR aliquid C 4 alicui om. EG, del.
Hm2 ali R alii Lm1 pr. et om. EGLR
post. et] ut La.c.R 5 post. a s. l.
Hm2 6 qui ex quod Lm2 7 ante
cum add. sed CH (del. m2) NP, s. l. Lm2 8 adest]
est EGR in iuuentute deleri uult Hilgard 9 quoniam]
quam EGLm2P 10 definitio ( uel difd–) EGLm2R
constringit EG 11 et de se] et ideo de se P de se
om. R De specie EG 12 risibile C et om.
EGHR 13 inscript. om. HL K ACCIDENTE ΝR ΔΣ
14 uero om. A 15 diuiditur—sub- sistens (p. 281,
3) ] LR Q , om. cett. duobus L 16 in om.
Φ nam A Busse 19 amittens colorem] A
m1 T" nitens colore c ett. edd. Busse; Porph. p. 13,
2 άποβαλών τήν χροιάν; cf. supra p. 101, 13
corruptionem subiecti LR ϋίΓΦ ; codd. Porph.
φθοράς aut ante τοΰ υποκειμένου aut
post; cf. infra p. 281, 17. 282, 3. 8 20 definitur]
Porph. p. 13, 3 ορίζονται quod contingit eidem esse et
non esse, uel quod neque genus neque differentia neque species neque pro-
prium, semper autem est in subiecto subsistens. Omnibus igitur
determinatis quae proposita sunt, dico autem genere, specie, differentia,
proprio, acci- denti, dicendum est quae eis communia adsint et quae
propria. Quouiam, ut superius dictum est, quae de aliquo praedi- cantur,
uel substantialiter uel accidentaliter dicuntur cumque ea quae
substantialiter praedicantur, eius de quo dicuntur substantiam definitionemque
contineant et sint eo antiquiora atque maiora, quod ex substantialibus
praedicatis efficiuntur, cum ea quae substantialiter dicuntur pereunt, necesse
est ut simul etiam ea interimantur quorum naturam substantiamque
formabant, quae cum ita sint, necesse est ut quae accidenter dicuntur, quoniam
substantiam minime informant, et adesse et abesse possint praeter subiecti
corruptionem, ea enim tan- tum cum absunt subiectum corrumpere poterunt, quae
effi- ciunt atque conformant quae sunt substantialia, quae uero 8
superius] p. 276, 4. 1 contigit - R A ante pr. esse
add. et R, s. l. \ m2; om. Porph. p. 13, 4 post.
et] uel L ( post uel littera er. ) edd.; Porph.
η , codd. CM nat 2 post genus
s. l. est A m2 neque species neque differentia ΔΔΣ edd.
Busse; Porph. οοτε διαφορά οϋτε είδος post
proprium add. sit LR 3 consistens Λ 4
praeposita Δ m1 5 dico—accidenti om. Γ
propria Φ proprio et L ΔΑΣ accidente H et
accidenti L A m2 (et accidente m1 ) ΛΣ de
accidenti EG 6 eis] his CHP hiis Φ uel
his R , om. EG; Porph. p. 13, 7
αΰτοϊς adsint] sint R sunt L Λ m1 ηιΙΧΣ ;
Porph. πρδσεοτιν et om. G 7 post
propria add. EXPLICIT DE GENERE SPECIE DIF- FERENTIA PROPRIO
ACCIDENTE Σ 8 ut om. EG alio CEGR 9
accidentialiter CP accidenter HR dicuntur] praedicantur
R cum EG 11 definitione EG maiora atque
antiquiora C 12 quod] quia R substantialiter CN
efficitur CHm2LN 13 cumque N , post cum s.
l. accidenter E intireunt P 15 an
informabant? acci- dentaliter Lm2 16 et om. EGR, s. l.
Lm2 abesse et adesse H 17 possunt N tantum
enim C 18 perrumpere E potuerunt LR 19
informant HN non efficiunt substantiam, ut accidentia, ea cum
adsunt uel absunt, nec informant substantiam nec corrumpunt, est igitur
accidens quod adest et abest praeter subiecti corruptionem, id autem diuiditur
in duas partes, accidentis enim aliud est separabile, aliud inseparabile,
separabile quidem dormire, sedere, inseparabile uero ut Aethiopi atque
coruo color niger. in qua re talis oritur dubitatio. ita enim est definitum :
accidens est quod adesse et abesse possit praeter subiecti corruptionem. idem
tamen accidens aliquando inseparabile dicitur; quod si inseparabile est, abesse
non poterit, frustra igitur positum est accidens esse quod adesse et
abesse possit, cum sint quaedam accidentia quae a subiecto non ualeant
separari, sed fit saepe ut quae actu disiungi non ualeant, mente et cogitatione
sepa- rentur. sed si animi ratione disiunctae qualitates a subiectis non ea
perimunt, sed in sua substantia permanent atque per- durant, accidentes
esse intelleguntur, age igitur, quoniam Aethiopi color niger auferri non potest,
animo eum atque cogitatione separemus, erit igitur color albus Aethiopi, num
idcirco species consumpta sit? minime, item etiam coruus, si ab eo colorem
nigrum imaginatione separemus, permanet tamen auis nec interit species,
ergo quod dictum est et adesse et abesse, non re, sed animo intellegendum est.
alioquin et sub- stantialia, quae omnino separari non possunt, si animo et
cogi- tatione disiungimus, ut si ab homine rationabilitatem auferamus 1
cum—absunt] uel cum adsunt uel cum absunt H uel cum absunt uel cum
adsunt N cum uel (uel s. l. m2 ) absunt uel adsunt L;
ante assunt (sic) add. uel P 3 ante
adest add. et P 4 dinidunt EGLR
accidens edd. aliud est enim H 5 ante
dormire add. ut brm 6 ut om. HR edd. 7
dubietas CEG (recte?) post. est add. Hm2 8 et]
uel N potest CL 9 dicit EG 11 abesse-et
adesse E 12 ab CRm1 14 animi] hac C 15
eas EGN permaneant G ac R 16 acciden-
ter CG intellegantur Em1 igitur] enim HN 17
eum om. G, ante separemus C , uero E atque]
et HLNPR 18 num ex non Rm2 19 consumptae
(consumpta R ) sunt EGLR edd. ita CEP 20
imagine EGR 21 interiit Lm1PR pr. et om. EGR, s. l. Lm2
22 et om. CEG 23 si] saepe Hm1LNP 2t
rationalitatem P — quam licet actu separare non possumus,
tamen animi imaginatione disiungimus —, statim perit hominis species, quod idem
in accidentibus non fit: sublato enim accidenti cogitatione species manet. Est
alia quoque accidentis defi- ni|tio ceterorum omnium priuatione, ut id
dicatur esse acci- p. 93 dens quod neque genus sit neque species
nec differentia nec proprium; quae definitio plurimum uaga est ualdeque
communis. sic enim etiam genus definiri potest, quod neque species neque
differentia nec proprium sit nec accidens, eodemque modo species ac
differentia et proprium, cum autem eadem simili- tudine definitionis plura
definiri queant, non est terminans et circumclusa descriptio, praesertim cum
longe sit a definitionis integritate seiunctum quod cuiuslibet rei formam
aliarum rerum negatione demonstrat. Quibus omnibus expeditis, id
est genere, specie, differentia. proprio atque accidenti, descriptisque eorum
terminis quantum postulabat institutionis breuitas, ea ipsa communiter pertrac-
tanda persequitur, ut quas inter se habeant differentias haec quinque, de
quibus superius disputatum est, quas uero com- muniones, mediocri
consideratione demonstret, ut non solum 1 separari EG
possimus EL post tamen add. si L, s. l. Hm2Pm2
2 imaginatione] cogitatione N statimque C (q. er.
) H (q. del. m2) N periit PR 3 item
CHm1 sit EN (ut uid.) sublata EGR enim s.
l. Cm2 accidenti om. EGR, post cogitatione N 4
ante cogitatione er. et C quoque om. EGP
(sic) accidentis om. C, post definitio R 5
ad priuatione s. l. quae fit per priuantiam Em2
id om. EG dicat EGR 6 fit C neque differentia
neque proprium LNR 8 enim om. NR nec ( ante
differentia) CH 9 neque NR sit om. L,
post accidens R neque N 10 proprio
HPm1 11 plurima L queunt EGLm1R termino
Ep.c.R et om. EGR 12 ab LR ac G 13
negatione rerum E 14 demonstret N 15 post
genere add. quidem CP 16 ante proprio
add. et H ante quantum add. et PR, s. l.
Lm2 17 post breuitas repet. expeditis
PR, s. l. Em2 pertractanda om. C
retractanda HNP 18 ante quas s. l.
quia Em2 19 de quibus om. E disputandum G
quas nero] quasue CL quid ipsa sint, uerum etiam quemadmodum
inter se compa- rentur, appareat. 1 quid] H, m2 in CLP
quod NPm1 quae Cm1EGLm1R compa- rantur E 2
ANICII MALLII SEVERINI BOETII ( BOETI E) V. C.ET I LL .
(EXINI sic E ) EXCONS. ORDINAR. PATRICII IN ISAGOGAS PORPHYRII (
Y ex I Gm2) ID EST INTRODVCTIONEM IN CATE- GORIAS A SE
TRANSLA. (sic EG) EDITIONIS SECVNDAE LIBER IIII. EXPL. (
EXPLICIT’ E) . INCIPIT LIBER V. EG ; EXPLICIT LIBER (
LIBER om. C) QVARTVS. INCIPIT LIBER ( LIBER om.
HN) QVINTVS CHLNP, add. DE COMMVNIBVS GENRIS. DIFFER. SPEC.
ACCID. ET PROPI N ; EXPLICIT LIBER QVARTVS R
Expeditis per se omnibus quae proposuit et quantum in unius cuiusque
consideratione poterat, ad scientiae terminum breuiter adductis nunc iam non de
singulorum natura, id est uel generis uel differentiae uel speciei uel
proprii uel acci- dentis, sed de ad se inuicem relatione pertractat, nam qui
communiones ac differentias rerum colligit, non ut sunt per se res illae
considerat, sed ut ad alias comparentur, id autem duplici modo, uel
similitudine, dum communitates sectatur, uel dissimilitudine, dum
differentias, quae cum ita sint, nos quoque, ut adhuc fecimus, propter
planiorem intellectum philosophi uestigia persequentes ordiemur de his
communio- nibus quae adsunt generi et speciei et differentiae uel proprio et
accidenti. Commune quidem omnibus est de pluribus praedi-
15—p. 286, 18] Porph. p. 13, 9-21 (Boeth. p. 40, 1—16). 3
cuiuscumqne C considerationem Ea.r.G 4 id est om.
N, add. Rm2 5 pr . uel om. P secund. uel]
et P 6 nam quia R namque Hm1N 7 sunt. om.
C 8 ille GLNP, post illae s. l. sint Cm2
ut om. R ad s. l. LRm2 post alias add.
qualiter CHPR, s. l. Lm2 comparantur EGHm2, recte? cf.p. 284,
1 post autem s. l. fit Cm2L, in mg. Em2,
post duplici s. l. Pm2 9 dum—dum om. EG sectatur]
retractat R retractantur L (n del., s. l. a
i sectatur] P 10 differentiae La.c.P uel
differentia EG 11 ad adhuc s. l. id est
(uel G ) hac tenus EGm2 12 his] his omnibus R
communibus EGR 13 utrumque et om.
EGLR uel om. R et NP 14 et] uel EGL
atque R 15 ante Commune add. inscriptionem
DE COMMVNIBVS GENERIS (ET add. ΔΠ ] SPECIEI DIFFERENTIAE
PROPRII ET ACCIDENTIS ΛΠ Busse, N in subscript.
libri IV cum alio ordine uerborum, DE HIS (HIIS Φ ) COMMVNIBVS QVAE
ASSVNT (sunt A ) GENERI ET SPECIEI (ET SPECIEI om. T )
ET DIFFERENTIAE ET PROPRIO ET ACCIDENTI (accidenti proprio et
differentiae A ) ΓΑ (litt. minusc.) Φ ,
INCIP. DE EORV COMVNIBVS 2 DE COMMVNITATIB; OMNIVM. *i'
, inscript. om. CEGHLPR cari, sed genus quidem de
speciebus et de indiuiduis, et differentia similiter, species autem de his quae
sub ipsa sunt indiuiduis, at uero proprium et de specie cuius est proprium et
de his quae sub specie sunt indiuiduis, accidens autem et de speciebus et de
indi- uiduis. namque animal de equis et bobus [et canibus] praedicatur,
quae sunt species, et de hoc equo et de hoc boue, quae sunt indiuidua,
inrationale uero et de equis et de bobus praedicatur et de his qui sunt par-
ticulares, species autem, ut homo, solum de his qui sunt particulares praedicatur,
proprium autem, quod est risibile, et de homine et de his qui sunt particu-
lares, nigrum autem et de specie coruorum et de his qui sunt particulares, quod
est accidens inseparabile, et moueri de homine et de equo, quod est
accidens separabile, sed principaliter quidem de indiuiduis, secundum
posteriorem uero rationem de his quae continent indiuidua.
Antequam singulorum ad unum quodque habitudinem tractet, illam prius respicit
quam omnes ad se inuicem habere uide- 1 sed—separabile (16) om. HNP
post. de om. R 2 autem] quidem Δ hiis Φ
, item 4 3 post indiuiduis s. l.
praedicatur Em2 at uero —separabile (16) om. CEG at
uero—indiuiduis (5) om. Σ · 4 de his om.R 5
post. de om. R 6 bubus Lm1 A bobis R, ante
add. de L T de bobus Busse et canibus cum Porph.
p. 13, 14 om. edd., delend. uid. Bussio 7 praedicatur post
species R pr. (sic) de om. R 8 inrationabile
L et om. Porph. p. 13, 15; ante et add.
similiter R 9 de om. R bubus RLm1 A
praedicatur s. l. \ m2 (dicitur m1 ),
post particulares Λ2 quae L TA 10 quae R
ΓΑ 11 particularia R, add. homines L 4ΛΦ ; om.
Porph. p. 13, 16 proprium—particulares (12) om. R
quod est] otov Porph. p. 13, 17 12
pr. et om. L ΆΣ Busse (casu ut uid., cf.
eius adnot. ad Porph. p. 13, 17 v-ai ),
add. \ m2 13 pr. et om. Busse; Porph. p.
13, 18 τοΰ τε εΐδοος 14 qui] quae R 15 de
homine—equo post separabile R 16 sed om.
Π Σ post principaliter add. accidens
praedicatur Φ , s. l. accidens Lm2 17
secundum—rationem] secundo uero (cet. om.) N ΛΣΦ ;
secundo etiam T m1 ; uero post secundum
C posteriore E ratione E orationem Λ
ante de add. et edd. cum Porph. p. 13, 21
18 post indiuidua add. speciebus N Σ 20
uidentur RG antur. haec est autem una communio quae
pro|positarum p. 94 quinque rerum numerum pluralitate praedicationis
includit; omnia enim de pluribus praedicantur, in hoc ergo sibi cuncta
communicant, nam et genus de pluribus praedicatur, itemque species ac
differentia et proprium et accidens, quae cum ita sint, est eorum una atque
indiscreta communio de pluribus praedicari, disgregat autem ipsam de pluribus
praedicationem, quemadmodum in singulis fiat, quod unum quodque proposi- torum
de quibus pluribus praedicetur ostendit, ait enim genus quidem de
pluribus praedicari, id est speciebus ac specierum indiuiduis, ut animal
praedicatur de homine atque equo ac de his indiuiduis quae sub homine sunt
atque sub equo, item genus praedicatur de differentiis specierum atque id iure.
quoniam enim species differentiae informant, cum genus de speciebus
praedicetur, consequens est ut etiam de his dicatur quae specierum substantiam
formamque efficiunt, quo fit ut genus etiam de differentiis praedicetur ac non
de una, sed de pluribus; dicitur enim quod rationabile est, esse animal et
rursus quod inrationabile est, esse animal, ita genus de spe- ciebus ac
differentiis praedicatur ac de his quae sub ipsis sunt indiuiduis. differentia
uero de speciebus dicitur pluribus ac de earum indiuiduis, ut inrationabile et
de equo praedicatur ac boue, quae sunt plures species, et de his quae sub ipsis
sunt indiuiduis eodem modo dicitur; nam quod de uniuersali praedicatur,
praedicatur et de indiuiduo. quodsi differentia de speciebus dicitur,
praedicabitur etiam de eiusdem speciei sub- 1 praepositarum HN
5 post. et] atque R 7 autem] ut est E 8
quod] ut Em2P et quod La.c. et ut p.c., ante
quod s. l. in eo Hm2 praepositorum HN 9
ostendat ELm2P 10 id est om. HNR, er. G 11 atque] et
CL equo ac de om. EG ac] atque CL et
R 12 de om. L, s. l. Cm2 qui EGP post. sub om.
LNP 14 enim del. E 15 praedicatur HN 16
perliciunt HNP 18 rationale EGHNP 19 quod om. R,
in ras. E, quoniam GLm1 inrationale HNP est
om. R 21 differentiae... dicuntur R 22 inrationale ( uel
irr-) Em2 (rationabile m1) HLm2NP 23 bouej de
boue N et de] deque EG 25 et ante praedicatur
C 26 praedicatur C etiam om. EN iectis.
species uero de suis tantum indiuiduis praedicatur; neque enim fieri potest, ut
quae species est ultima quaeque uere species ac magis species nuncupatur, haec
alias deducatur in species, quod si ita est, sola post speciem indiuidua
restant, iure igitur species de suis tantum indiuiduis praedicantur, ut
homo de Socrate, Platone, Cicerone et ceteris, proprium item de specie
praedicatur cuius est proprium, neque enim esset proprium alicuius, si de alio
diceretur; de quo enim una quaeque res ‘et soli et omni et semper’ dicitur, eiusdem
pro- prium esse monstratur. quae cum ita sint, proprium de specie
dicitur, ut risibile de homine; omnis enim homo risibilis est. dicitur etiam de
indiuiduis speciei de qua praedicatur; est enim Socrates, Plato et Cicero
risibilis, accidens uero et de speciebus pluribus dicitur et de diuersarum
specierum indi- uiduis. dicuntur enim coruus atque Aethiops nigri et hic
cor- uus et hic Aethiops, qui sunt indiuidui, nigri secundum nigre- dinis
qualitatem uocantur. atque hoc quidem est accidens inseparabile, sed multo
magis separabilia accidentia pluribus inhaerescunt, ut moueri homini et boui —
uterque enim moue- tur —, et rursus ea quae sub homine sunt atque boue
indiuidua, moueri saepe praedicantur. sed aduertendum est auctore Por-
phyrio quod ea quae accidentia sunt, principaliter quidem de his dicuntur in
quibus sunt indiuiduis, secundo uero loco ad uniuersalia indiuiduorum
referuntur, atque ita praedicatio 1 praedicabitur CLP 3
uero C 5 praedicatur Cm1EGLRm2 7 esse E 8
nisi HPR, ex si CLm2 aliquo CHP ante
diceretur add. non R, s. l. Lm2 9 pr.
et om. EGHN secund. et om. G tert. et om. EG,
del. Lm2, s. l. Pm2; ad et—semper cf. p. 275,10 12 etiam]
autem HPm1 13 Plato] et piato N et om. CEG
risibiles CH et om. EGLP 14 pluribus om. CN
dicitur om. H, post indiuiduis s. l. scil,
praedicatur m2 specierum om. HN 15 dicuntur in
ras. Hm2 dicitur GNR niger NR
et om. EGHN 16 et om. EG post nigri
add. autem R, s. l. Lm2 19 et om. EG 20 et
om. CEGP 21 mouere Ea.c.Gm2 actore
Ea.c.R 23 post dicuntur add. nam non subsistunt praeter
haec quibus adsunt et nulli prius acci- dunt quam indiuiduis R
24 post uniuersalia add. ad speciem G
superiorum redditur, ut quoniam nigredo singulis coruis adest, dicitur
adesse coruo. nam quia omnia particularia qualitas ista accidentis nigredinis
inficit, idcirco eam de specie quoque praedicamus dicentes coruum, ipsam
speciem, nigrum esse. In quibus omnibus mirum uideri potest, cur
genus de proprio praedicari non dixerit nec uero speciem de eodem proprio nec
differentiam de proprio, sed tantum genus quidem de speciebus ac differentiis,
differentiam uero de speciebus atque indiuiduis, speciem de indiuiduis,
proprium de specie atque indiuiduis, accidens de speciebus atque
indiuiduis. fieri enim potest ut quae maioris praedicationis sint, ea de
cunctis minoribus praedi- centur, et quae aequalia sunt, sibimet conuertuntur,
eoque fit ut genus de differentiis, de speciebus, de propriis, de acci-
dentibus praedicetur, ut cum dicimus ‘quod rationale est, animal est’,
genus de differentia, ‘quod homo est, animal est’, genus de specie, ‘quod
risibile est, animal est,’ genus de proprio, ‘quod nigrum est’, si forte coruum
uel Aethiopem demonstremus, ‘animal est,’ genus de accidenti praedicamus,
rursus ‘quod homo est, rationale est’, differentia de specie, 1
superiorum] E ( s. l. id est specierum) GP
superioribus cett. sub- teriorura superioribus brm
ut—dicitur om. EG 2 post coruo s. l.
speciali Lm2 3 nigredinis accidentis C infecit
HLm1 eam] eamdem Lm2Pm2 (it eadem m1 ) eadem
EG eo Rm1 ea m2 de om. P 4 ipsum
specie EGPRm2 post ipsam add. scilicet C
nigram C 5 omnibus s. l. Cm2 6 utroque loco
neque R 7 differentias R 8 atque Rbrm et
de p differentiis] indiuiduis pr cum p. 286, 1, differentiis
<atque indiuiduis> coni. Brandt; cf. p. 287,12—21
differentias HLPR 9 proprium de specie atque indiuiduis om.
H 11 maiores praedicationes EGR sunt Ca.c. (ras.
i ex u) Pm2R ea s. l. L eadem C
eaedem ( om. de G ) eae Pm1 hae ER cunctis]
dictis EGR 12 et om. EG conuertuntur ]
Em1GLm1Rm2 (conuertentur m1 ) conuertantur CEm2HL
m2NP ad eoque s. l. i ideo G
fit] quale sit EG 13 pr. de] et de HNP
secund. de om. R et de HLNP tert. de
om. E et HNPR et de L quart. de]
et NP et de HL atque R 14 praedicatur
EG rationabile CEGLm1NR 15 animal est] sit animal E (
ad sit s. l. pro est) GLR de s. l. EGm2L
post differentia add. praedicatur GP (del. m1?),
s. l. Lm2, s. l. praedicari Em2 16 eat genus om.
G 18 accidente R 19 rationabile Em1G post specie
add. praedicatur G ‘quod risibile est, rationale est,’
differentia de proprio, ‘quod nigrum est, rationale est’, si Aethiopem
demonstremus, dif- ferentia de accidenti; item ‘quod risibile est, homo est’,
spe- p. 95 cies de proprio, ‘quod nigrum est, homo|est,’ si
Aethiopem designemus, species de accidenti, qua in re etiam ‘quod nigrum
est, risibile est’ in Aethiopis demonstratione ut proprium de accidenti
praedicatur. conuerti autem ad totum accidens potest, ut quoniam in indiuiduis
singulorum esse proponitur, idcirco de superioribus etiam praedicetur, ut
quoniam Socrates animal est, rationalis est, risibilis est et homo est, cumque
in Socrate sit caluitium, quod est accidens, praedicetur idem accidens de
animali, de rationali, de risibili, de homine, ut accidens de quattuor reliquis
praedicetur. sed horum profundior quaestio est nec ad soluendum satis est temporis,
hoc tantum ingredi- entium intellegentia expectet, quod alia quidem recto
ordine praedicantur, alia uero obliquo, quoniam moueri hominem rectum
est, id quod mouetur hominem esse conuersa locutione proponitur, quocirca
rectam Porphyrius in omnibus propositi- onem sumpsit, quodsi quis uim
praedicationis et solutionis adtenderit in singulis praedicationibus comparans,
eas quidem 1 differentiam HR 3 accidentia G post
item add. quod rationale est homo est species de differentia Hm1,
del. m2 speciem ELm2PR, item 5 6 ut om. R,
del. ELm2 post proprium s. l. etiam Pm2,
post accidenti N, s. l. Cm2 7 praedicetur
CHLm1NPm2 ad om. N, s. l. Cm2 8 ut ex
et Hm2 in] N, s. l. m2 in EHP, om. cett. praeponitur
Ca.c.EGHLNR 9 praedicatur CHLNR ante animal add.
et HN 10 ante rationalis add. et HNP,
s. l. Cm1? rationabile Lm1 ante risibilis add.
et HNPR, s. l. Cm1? Lm2 risibile Cm1EGLm1 et (s. l.
m1?) homo est post rationalis est C et
om. EG 11 praedicatur CHLm2NP 12 secund.
de om. CEGR tert. de om. R quart. de om. C
ut] et CHN 13 praedicatur CHN 14 dis- soluendum
N 15 expectet idem quod spectet 16 quoniam] nam HLm2NP
moueri post hominem Cm2Pm2 17 moneatur N 18
ante proponitur s.l. non Hm2 proportionem
EL 19 uim quis EGLR uim om. Hm1, ante
adtenderit s. l. m2 praedicatae H praedictae
Lm2Pm2 et solutionis] CN solutionisque L
solutionis Gm1Hm2 (locutionis m1 ), s. l. add.
Pm2 so- lutione Gm2R solue (sic) E 20 attenderit
in ras. Em2 ostenderit R prolationes quae rectae sunt,
inueniet a Porphyrio esse enu- meratas, eas uero quae conuerso ordine
praedicantur, fuisse sepositas. Commune est autem generi et
differentiae con- tinentia specierum. continet enim et differentia
species, etsi non omnes quot genera, rationale enim etiamsi non continet ea
quae sunt inratio· nabilia quemadmodum animal, sed continet homi- nem et
deum, quae sunt species, et quaecumque praedicantur de genere ut genera, et de
his quae sub ipso sunt speciebus praedicantur, et quae- cumque de differentia
praedicantur ut differen- tiae, et de ea quae ex ipsa est specie
praedicabun- tur. nam cum sit genus animal, non solum de eo praedicantur
ut genera substantia et animatum, sed etiam de his quae sunt sub animali
speciebus 4—p. 292, 10] Porph. p. 13, 22—14, 12 (Boeth. p. 40, 17—41,
12). 1 esse om. GN, add. Hm2 enumeratas] N
numeratas cett. 2 prae- dicantur] proferuntur HN 3
positas Gm1Hm1 suppositas Pm2 4 de
Porph. cf. ad p. 103, 7 5 Communis Σ , m1 in EH \
est om. E Porph. (p. 13, 33) Busse, post autem
N 6 continet—sunt (p. 292, 8)] LR Q , om. cett. 7
etiamsi ΔΣ quod i m1 quas A m2R 8
enim om. R, 8. l. Δ inrationalia 2Φ ,
add. ut genus codd. praeter R Σ , om. etiam
Porph. p. 14,2, delend. uid. Bussio 9 sed] tamen brm 10 deum]
angelum R angelum et deum L; Porph. cod. A θεόν
, cett. άγγελον 11 genera] Σ genus cett.
Busse (sed genera probare uid.); cf. ut genera 16. p.
293, 20 , ut differentiae 13; Porph. p. 14,3 όσα τε
ν,ατηγορεΐται του γένους ώς γένους et] eadem in ras. A
m2 12 et] Z p, s. l. A m2, om. cett.
(aliter er. T ) Busse item brm; cf. ad
13 quaecumque] Lm2R Z quaeque cett. 13 de
differentia] differentiae Lm1 A differentia R ΓΦ ;
cf. ut differentiae p. 294, 1; Porph. p. 14,4 όσα τε
τής διαφοράς ώς διαφοράς 14 ex] sub L \ et
R; Porph. έξ praedicantur Γ 15 genus sit
ΔΛΣ 16 praedicatur R ut om. edd. genera] L
Z Busse genus cett. codd., om. edd.; cf. p. 394, 3—5;
Porph. p. 14,5 γένους... ώς γένους αατηγορεΐται ή
ουσία 17 sunt om. L animalis Δ omnibus
praedicantur haec usque ad indiuidua. cumque sit differentia rationalis,
praedicatur de ea ut differentia id quod est ratione uti, non solum autem de eo
quod est rationale, sed etiam de his quae sunt sub rationali speciebus
praedicabitur ratione uti. commune autem est et perempto ge- nere uel
differentia simul perimi quae sub ipsis sunt; quemadmodum enim si non sit animal,
non est equus neque homo, ita si non sit rationale, nullum erit animal quod
utatur ratione. Post eam quae cunctis adesse uisa est communitatem,
sin- gulorum ad se similitudines ac dissimilitudines quaerit, et quoniam inter
quinque proposita genus ac differentia uniuer- salioris praedicationis sunt,
siquidem genus species continet ac differentias, differentiae uero species
continent neque ab his ullo modo continentur, primum generis ac
differentiarum similitudines colligit, ac primam quidem ponit hanc, dicit enim
commune esse generi ac differentiae, ut species claudant; 1
praedicatur LR ante haec add. et s. l. Lm2, in
mg. Γ , post haec Λ haec del.
\ m2 2 rationalis] codd. (etiam Bussii LQ
rational, in P uox paene tota euanuit ) rationale edd. Busse;
Porph. p. 14,7 διαφοράς τε οόσης τής τοΰ λογιχοΰ ; cf. infra
p. 293, 14 rationalis diffe- rentia; 295, 11 sub rationali
differentia, unde rationalis nominatiuum potius
intellegas quam cum Porph. genetiuum praedicantur Φ 3 eo
coni. Busse non] et non L *l> 4 autem] ΓΦ , s.
l. Km2, om. cett.; Porph. p. 14, 8 δε 5
ante sunt s. l. sub ipsa \ m2 sub rationabili-
bus h m1, del. m2 post rationali add. animali ΠΦ
, s. l. Lm2 praedi- catur ΓΔΛΣΦ a.c.; Porph. p.
14, 9 χατηγορηθήσετοι 6 ante ratione add.
id quod est s. l. & m2 W m2 Busse id quod
potest LR post com- mune s. l. illis Γ est
autem Φ ante perempto add. hoc
Λ genere] Porph. p. 14, 10 ή τοΰ γένους ,
om. η cod. Μ 8 enim] Σ , s. l.
Ψ m2 , om. cett.; Porph. p. 14,11 γάρ sit]
est CEGHP 9 ita] sic L ac b m1 \ 12 ad se]
ad esse EGP et om. CEG, s. l. Pm2, del. Lm2 13 generis
ac differentiae CN uniuersaliores praedicationes CEGNP
14 ante species add. et LR 15 nec
N 16 ac] et N 17 primum LNP hanc] hanc
communionem H 18 commune] hoc commune H
communionem LR ac] et CGLP concludant HN
nam sicut genus sub se habet species, ita etiam differentia, tametsi non
tantas quot habet genus, etenim genus quoniam differentiam etiam claudit et non
unam tantum sub se diffe- rentiam cohercet ac retinet, plures necesse est
habeat sub se species, quam quaelibet una earum differentiarum quas
claudit, ut animal praedicatur de rationabili et inrationabili. quodsi ita est,
praedicabitur et de his quae sub rationali sunt positae speciebus et de his
quae sub inrationali. est ergo commune animali et rationali, id est generi et
differentiae, quod sicut genus de homine et de deo praedicatur, ita etiam
rationale, quod est differentia, de deo ac de homine dicitur, sed non in tantum
haec praedicatio funditur quantum animalis, id est generis, animal enim non de
deo solum atque homine, sed de equo et boue praedicatur, ad quae rationalis
differentia non peruenit. sed quandocumque deum supponimus animali,
secun- dum eam opinionem facimus quae solem stellasque atque hunc totum mundum
animatum esse confirmat, quos etiam deorum nomine, ut saepe dictum est,
appellauerunt. Secunda item communio est generis ac differentiae, quoniam quaecumque
praedicantur de | genere ut genera, eadem de his quae sub p. 96
ipso sunt speciebus praedicantur; ad hanc similitudinem 15 quandocumque — 18
appellauerunt] Abaelardus, Introduct. ad theolog., II 34. 376. 18 saepe] p.
208, 22. 259, 19. 1 habeat Lm2 differentiae
EGR 2 post. genus om. EGR, post quoniam Cm1,
corr. m2 3 differentias CHm1L etiam del. Lm2, om.
N et om. EG, s. l. Lm2 tantum om. H, s. l. Lm2 4
ante plures add. sed EGL adhibeat R
ut habeat L 5 quas om. L quam EGHPm1R 6
rationali CHLN inrationali ( uel irt-) HLN 7 ra-
tionabili Cm1EGm2P 8 inrationabili ( uel irr-,)
CEGNP commune est, post s. l. ergo C ; ergo om.
EG, add. Pm2 10 et de deo om. EG rationabile CEGR
11 in om. LN 12 haec om. EG 14 rationabilis
R 16 opinionem] CHNPm2 Abaelard. propositionem
EGLPm1R qua EGLm1P solem] coelum Abaelard. 17
confirmant EGLm1 confirmet N 20 de genere
praedicantur C post eadem add. et L 21
ipso] genere H ad hanc similitudinem om. EGR; ante
ad s. l. et Pm2 quaecumque de differentia
praedicantur ut differentiae, et de his quae sub differentia sunt ut
differentiae praedicantur, cuius sententiae talis est expositio, sunt plura
quae de generibus praedicantur ut genera, ut de animali dicitur animatum,
dicitur substantia, atque haec ut genera, haec igitur praedicantur et de
his quae sub animali sunt, ut genera rursus; nam hominis et animatum et
substantia genus est, sicut ante fuerat ani- malis. item in ipsis differentiis
quaedam differentiae inueniun- tur quae de ipsis differentiis praedicantur, ut
de rationali duae differentiae dicuntur, quod enim rationale est, utitur
ratione uel habet rationem, aliud est autem uti ratione, aliud habere
rationem, ut aliud est habere sensum, aliud uti sensu, habet quippe sensum et
dormiens, sed minime utitur, ita quoque dormiens habet rationem, sed minime
utitur, ergo ipsius ratio- nabilitatis quaedam differentia est ratione uti, sed
sub ratio- nabilitate homo positus est; praedicatur igitur de homine ratione
uti ut quaedam differentia, differt enim a ceteris animalibus homo, quia
ratione utitur, demonstratum igitur est quia sicut ea quae de genere
praedicantur, dicuntur de generi subiectis, ita etiam ea quae de differentia
praedicantur, dicuntur de his quae differentiae supponuntur. Tertium
commune est quod 1 ante quaecumque add. et
EGL(del. m2), er. uid. C quaeque GPR praedicantur om.
EGR, post ut differentiae H ut differentiae om. EG post
differentiae add. eadem quoque L, post de his P
(om. et), eadem s. l. Nm2 2 post sub
add. ipsa NR sunt ante sub H ut
differentiae om. H, s. l. Nm2 ut differentia EG 4
post. dicitur om. L 5 ante substantia add.
et LPm2 6 rursus ante ut GR, post L 7 antea
fuerat H ante fuerant (n s. l. m2) L fuerant ante
R 8 quae- dam s. l. Cm2 9 praedicentur Cm2
ut om. HN 11 autem habere rationem aliud uti ratione
NR. 12 ut om. H sicut N est om. H 13 sed
minime utitur om. N sed—dormiens om. EGPE, del. Lm2
ita—rationem in sup. mg. Nm2 15 sed om. EG, s. l. Pm2
16 positus est homo R esse ( om. est EGP est
ex esse Lm2 esse del. Pm2 ) praedicatur. Igitur
EGLP 17 ut om. EG, s. l. Cm2 post diffe- rentia
add. est EGP a] L, om. cett. 18 homo
ante ceteris H est igitur HLN quia] quod
CL 19 post. generum EGLm2P 20 post
his add. quoque HN 21 post Tertium
add. uero P, s. l. Lm2 quod] quia C sicut
absumptis generibus species interimuntur, ita absumptis differentiis species de
quibus differentiae praedicantur, intereunt, commune enim est hoc, uniuersalium
in substantia pereuntium perire subiecta. sed prima communio demonstrauit
genera de speciebus praedicari, sicut etiam differentias, propter hanc
igitur similitudinem si auferantur genera, species pereunt, sicut etiam species
perire necesse est quae sub differentiis sunt, si uniuersales earum
differentiae consumantur, cuius exemplum est : si enim auferas animal, hominem
atque equum sustuleris, quae sunt species positae sub animali, si auferas
rationale, hominem deumque sustuleris, qui sunt sub rationali diffe- rentia
collecti. Et de communitatibus quidem hactenus, nunc de generis et differentiae
dissimilitudine perpendit. Proprium autem generis est de
pluribus prae- dicari quam differentia et species et proprium et accidens;
animal enim de homine et equo et aue et serpente, quadrupes uero de solis
quattuor pedes habentibus, homo uero de solis indiuiduis et hin- nibile
de equo et de his qui sunt particulares, et 14—297, 2] Porph. p. 14,
13—15, 8 (Boeth. p. 41, 13—42, 14). 1 sicut—ita om. EG
consumptis ( post ita) Pm2 6 igitur] qui- dem E
sicut] sic GHm2LN 7 species etiam HNP 10 quae]
quia H qui ex quia Nm2 12 collocati
HNP, recte? cf. 10. p. 300, 18 Et om. CEGP, del. Lm2 13
perpendet G 14 PROPRIO C PRO- PRIIS post
DIFFERENTIAE L GENERI R DE PROPRIIS EORVM
(EORVNDEM Ψ ) Ρ Ψ ; de Porph. cf. ad p. 105, 16 15
autem om ·. ΓΦ generi LNR A ; cf. infra p. 297,
15. 16 s. 299, 17. 300, 23. 301,10. (13) 302,11 est ante
generis s. l. A , om . Σ , om. Porph. p.
14,14 16 ante quam add . magis L (er.)
A (del. m2) differentiae EGHLPm1R ; Porph.
p. 14, 15 ή διαφορά et species—differentia (p. 296, 21)
] LR ii , om. cett . et proprium] propriumque A 17 de
equo et (de add. \ ) homine ΔΑ 18
post uero add . uidetur ΓΦ , m1 in L ΔΑ , del.
m2; om. Porph. p. 14, 17 solis om. R 20 ante equo
add . solo edd. cum Porph. p. 14, 18 μόνον , fort.
recte post , de om. R, s. l. Lm2 accidens similiter de
paucioribus, oportet autem differentias accipere quibus diuiditur genus, non
eas quae complent substantiam generis, amplius genus continet differentiam
potestate; animalis enim hoc quidem rationale est, illud uero inratio-
nale. amplius genera quidem priora sunt his quae sunt sub se positae
differentiis, propter quod simul quidem eas auferunt, non autem simul aufe-
runtur; sublato enim animali aufertur rationale et inrationale. differentiae
uero non auferunt genus; nam si omnes interimantur, tamen substan- tia
animata sensibilis subintellegitur, quae est animal, amplius genus quidem in eo
quod quid est, differentia uero in eo quod quale quiddam est, quemadmodum
dictum est, praedicatur, amplius genus quidem unum est secundum unam quamque
speciem, ut hominis id quod est animal, differen- tiae uero plurimae, ut
rationale, mortale, mentis et disciplinae perceptibile, quibus ab aliis
differt, et genus quidem consimile est materiae, formae uero differentia,
cum autem sint et alia communia 1 autem om . Σ
enim Lm1 4 continet genus LR; Porph. p. 14, 20 τό
γένος περιέχει 5 enim om. 2 uero A m1
est in mq. Lm2 6 quidem genera Lm1R priora om.
L 7 sub se ante sunt L, post positae R
positis ΓΛΦ , m1 in L Λ2 8 quidem om. L, ante
simul R auferunt] h m1 V aufert cett.; Porph. p. 14,
22 ( τα γέν-r ) σοναναιρεΐ οΰτός aufe- runtur] A m1
W aufertur cett.; Porph. p. 14, 23 σοναναιρεϊται
9 aufertur rationale—aufernnt genus om. R 11 si] etiamsi brm
cum Porph. p. 15, 1 καν ; fort. etsi scribendum
tamen om . Σ , s. l. A m2 A m2 12 sensi-
bili R subintellegitur] Φ subintellegitur potest
R subintellegi potest cett.; Porph. p. 15, 2
επινοείται quod Δ Busse; Porph . οϋσια...ήτις ήν
τό ζψον 14 uero om. L quiddam om. R quid
edd . est om. LR TΛΦ 15 quemadmodum] sicut
LR est dictum Λ Busse 16 quidem genus hA m1
Z est unum LR 17 ante hominis add.
est edd. Busse; om. Porph. p. 15, 4 18 plures brm cum
Porph. p. 15, 5 πλείοος ; cf. infra p. 301, 21; post
plurimae add . sunt ΑΣ Busse; om. Porph. p. 15, 5
mentis 5 m2 risus m1 20 cum simile R 21
autem Cp.c . haec a.c . et om. G et propria
generis et differentiae, nunc ista suf- ficiant. | Proprium quidem
quid sit, conuenienti atque integro uoca- p. 97 bulo definitum est. sed
per abusionem illa etiam propria quorumlibet dicuntur quae in una quaque
re ab aliis continent differentiam, licet cum aliis sint ea ipsa communia, per
se quippe proprium est homini quod ei omni et soli et semper adest, ut
risibilitas, per usurpatam uero locutionem etiam proprium hominis
rationabilitas dicitur non per se proprium, quippe quod ei cum deorum est
natura commune, sed homini rationabilitas proprium dicitur ad discretionem pecudis,
quod rationale non est; id uero propter hanc causam, quoniam id proprium unius
cuiusque dicitur quod habet suum, quo igitur quis ab alio differt, proprium
eius non absurda usurpatione praedicatur, sed nunc quod dicit proprium
generis esse de pluribus praedicari quam cetera quattuor, id ipsum generis tale
proprium est, quale per se proprium dici solet, id est quod semper <et>
omni et soli adsit generi, generi enim soli adest, ut differentia, specie,
proprio, accidenti überius atque affluentius praedicetur, sed de his
differentiis, speciebus, pro- priis atque accidentibus id dici potest quae sub
quolibet 1 proprii P et] ac EGP nunc om.
Porph. p. 15, 8 suf- ficiunt Λ m1 2 ; Porph . άρκείτω ταϋτα
, cod. B apxet τοααδτα 3 quidem] autem C quod
R 5 in una quaque re] CLP re om. N una
quaque E una quaeque G unam quamque HR 6
differenda EGLm1 7 omni et soli] et soli et omni C
pr. et s. l. Lm2 post , et om. EG 10
post ei add . quoque HNP 12 rationabile HR
post uero add. fit L , s. l. Pm2 14 aliquo
Lm2 differat Cm2Hm1N 15 nunc om. EG , post
quod C 17 tale ante quale P est proprium LP
post , est om. CN 18 et add. brm adest C
generi enim in mg. Hm2 enim] uero C autem L
19 post ut add . et H (del. m2) N et
specie HLN et proprio HLR et (atque R )
accidente HLm1 (-ti m2 ) NR 20 affluentius]
CHNPm2 fluentius Lm1 , s. l . ł lucidius m2 cluentius
E ( s. l . habundantius] Pm1 licentius G
luculentius R de] e R speciebus post
differentiis pos. Brandt, ante codd. pr, om. bm et propriis
CHLN 21 atque om. P genere sunt, id est differentiae
quidem quae quodlibet diuidunt genus, species uero quae diuisibilibus generis
differentiis infor- matur, proprium autem illius speciei quae sub illo genere
est quod differentiis est diuisum, accidentiaque quae his hae- reant indiuiduis
quae sub ea specie sunt quam designatum genus includit, hoc facilius
exempla declarant, sit enim genus animal, quadrupes ac bipes differentiae sub
animalis positae continentia, homo atque equus species sub eodem genere
constitutae, risibile atque hinnibile propria earundem spe- cierum, uelox uero
uel bellator accidentia quae his indiuiduis accidunt quae sub speciebus
equi atque hominis continentur : animal igitur, quod est genus, praedicatur et
de quadrupede et bipede, quae sunt differentiae, quadrupes uero de bipede non
dicitur, sed tantum de his animalibus quae quattuor pedes habent; plus igitur
praedicatur genus quam differentia, rursus homo de Platone ac Socrate
praedicatur, animal uero non modo de hominibus indiuiduis, uerum etiam de
ceteris inratio- nabilibus indiuiduis dicitur; plus igitur genus quam species
praedicatur, sed cum sit proprium hinnibile equi speciei cum- 1
differentiae] CNp differentias EG, m1 in HLP de (om.
HPR) dif- ferentiis m2 in HLP, Rbrm quidem om. B, ante
add . sunt C, post N genus diuidunt HN 2
speciebus Hm2Lm2 specie Pm2brm diuisi- bilis
Hm1Pm1R ( add . est), dissimilis E ( add . est) G,
ad diuisibilibus in mg. ał quae diuisiuis Lm2, sed cf.
p. 254, 12 ante generis add est ERm2, add . sunt,
post et (del. m2) P informantur CLm2 3 pro-
prio m2 in HLP (ante s. l. de add.) brm post autem add . quod
est EGP (del. m2) illi Lm1 4 diuisiuum Lm1
diuiditur ( om . est; N accidentiaque] CEGHm1Lm1
accidentia quoque Pm1 (de accidentibus quoque m2 )
accidentia Rp accidensque N accidentibusque
Hm2Lm2brm quae] quod N hereat N haerent Pm2
edd . 5 sint G 10 uelox— bellator] HNP (uel om. ,
et s. l. m2 ), uelox uero dux uel bellator C uelox uero uel
bellator dux L uelox uero bellator dux EG ferax
uerox (sic) ( s. l . equus m2 ) bellator dux R 11
accidant H accidencia Pm1 12 et om. EGP 13
et bipede] HNP, om. R bipede C de bipede
EGLm1 et de bipede m2 quadrupedes G 14 his
om. GR, s. l. Cm2Lm2 16 ac] et P post praedicatur add .
et ceteris HNP 17 hominis C (s in er. b.? m2
) GHm1N 19 sed—praedicetur om. EG hinnibile
ante proprium N, om. LR simile H equi om.
H que genus quam species überius praedicetur, praedicatio quo- que
generis proprii supergreditur praedicationem, accidens quoque etsi pluribus
inesse potest, tamen saepe genere con- tractius inuenitur, ut bellator non
proprie nisi homo dicitur, ut uelocitas in paucis animalibus inuenitur.
quo fit, ut genus differentia, specie, proprio et accidentibus amplius
praedice- tur. Atque haec est una proprietas generis quae genus ab aliis
omnibus disiungat ac separet, oportet autem, inquit, nunc eas differentias
intellegere quibus diuiditur genus, non quibus informatur, illae enim
quibus informatur genus, plus quam ipsum genus sine dubio praedicantur, ut
animatum et corpo- reum ultra animal tenditur, cum sint differentiae animalis,
sed non diuisiuae, sed potius constitutiuae; omnia enim superiora de
inferioribus praedicantur, quae uero de inferioribus praedi- cantur neque
conuerti possunt, haec ab eis quae inferiora sunt amplius praedicantur.
Post hoc aliud proprium generis ostendit quo ab his differentiis quae sub
eodem sunt positae, segregatur, omne enim genus continet differentias
potestate, differentia uero genus non potest continere, animal enim
rationale atque inra- tionale continet potestate; neque enim inrationabilitas
neque rationabilitas animal poterit continere, potestate autem ait continere
animal differentias quia, ut superius dictum est, 23 superius] p. 264,
16. 1 praedicatur Cm1R 3 inesse] inest C
ante saepe add . semper uel Hm1, del. m2 contractius
genere H inneniri C 5 pr. ut er. uid.
C, om. HPm1 et LN, s. l. Pm2 6 ante
differentia add . et Hm2LN ante specie add . et
HL et de N ante proprio add. et HL et de
N et om. E accidente R 8 inquit om. N, del.
Hm2 10 post informatur add . genus C
illae—informatur om. EGLR, post praedicantur (11) add . Ipsae enim
diffe- rentiae a quibus informatur genus Lm1, ante plus quam
transpos. m2 illae enim] nam illae P ante plus add .
nam GR 11 sine dubio om. HN et om. EG 12
tendit EG ? tenduntur R sunt H 15 ab om.
H 18 eodem] eo HN eodem genere C segregetur
HN 20 rationabile ELm2P atque om. EGR, s. l. Pm2
inrationale om. EGPm1R inrationabile Lm2, s. l. Pm2 21
inrationalitas neque rationalitas HN 22 poterunt CHLP
23 post differentias add . proprias CL (del. m2), ante
HNP genus quidem omnes sub se habet differentias potestate, actu
uero minime, ex quo fit ut alia proprietas oriatur, sublato enim genere perit
differentia, ueluti sublato animali interimitur rationabilitas, quod est
differentia, at si rationale interimas, inrationale animal manet, sed obici
potest : quid? si utrasque differentias simul abstulero, num poterit
remanere genus? dicimus : potest, unum quodque enim non ex his de quibus
praedicatur, sed ex his ex quibus efficitur, substantiam sumit, itaque fit ut
genus sublatis diuisiuis differentiis permanere possit, dum tamen maneant illae
quae ipsius generis formam substantiamque constituunt, quoniam enim
animal animata p. 98 atque sensibilis differentiae constijtuunt, hae si
maneant atque iungantur, perire animal non potest, licet ea pereant de quibus
animal praedicatur, rationale scilicet atque inrationale. unum quodque enim, ut
dictum est, ex his substantiae proprietatem sumit ex quibus efficitur, non
ab his de quibus praedicatur, amplius si utrasque differentias genus potestate
continet, ipsum per se neutram earum intra se positam collocatamque con-
cludit. quodsi actu quidem eas non continet, sed potestate, actu etiam ab his
poterit separari; hoc ipsum enim, potestate eas continere, id erat actu
non continere, genus uero, quod quaslibet differentias actu non continet, actu
ab eisdem etiam separatur. Kursus aliud est proprium generis, quod ex
pro- 1 omne GR 2 alia ut EGP 4 rationalitas
HN at om. EGR rationabile CLm1R 5
inrationale om. EG inrationabile Lm1R quod
CEGLP qui R 6 post abstulero add. rationales et
inrationales E num] non EGLm1P 7 dicimus] sed dici
EP de quibus—his in mg. Hm2 8 post , ex]
de P 9 itaque] atque GR atque ita C atque
ideo EP 10 post tamen add . earum P
illa C ( a. in er . ae m2 ) N quod E
11 quoniam—constituunt in mg. inf. Em2 animati Cm2LR 12
differentia HN differendis Pm1 haec C (c er.)
EGHN manent E 15 dictam est] diximus C
17 ante ipsum s. l. tunc Hm2 18 neutra
G neutrum R positum collocatumque LPm1R 20 etiam]
quidem E post poterit add . genus EG post
enim add . quod est R, s. l. Pm2 21 erit Lm2R
quod] quae E 23 eat om. ENR prietate praedicationis
agnoscitur, omne enim genus ad inter- rogationem ‘quid est unum quodque?’
responderi conuenit, ut animal in eo quod quid est de homine praedicatur,
differentia uero minime, sed in eo quod quale sit; omnis enim differentia
in qualitate consistit, sed hoc proprium tale est quale supe- rius diximus, non
per se, sed secundum alicuius differentiam dictum, alioquin commune est hoc
generi cum specie, ut in eo quod quid sit praedicetur, sed quia hoc genus a
differentia discrepat, quoniam differentia quidem in eo quod quale est,
genus uero in eo quod quid est praedicatur, generis proprium dicitur non per
se, sed ad differentiae comparationem, et in omnibus reliquis eandem rationem
conueniet speculari; quod- cumque enim ita generi proprium dicitur, ut nulli
sit alii commune, sed tantum hoc habeat genus ut omne genus et semper, id
secundum se proprium nuncupatur, quicquid uero cum quolibet alio commune est,
id non per se, sed ad alterius differentiam proprium dicitur. Alia rursus
generis et diffe- rentiae separatio est, quod genus quidem speciei unum semper
adest, scilicet proximum plura - enim possunt esse superiora, uelut
hominis animal atque substantia, sed proximum eiusdem hominis animal tantum —,
differentiae uero plures uni speciei 5 superius] p. 297, 9.
1 post agnoscitur add . Omne enim genus ei proprietate
cognoscitur praedicationis P, in inf. mg. Lm2 generis E
2 quid est] quidem E quidem quid est HN unum om.
E respondere CLR 4 sit] est HN 7 hoc
ex huic Em2 8 ac G 9 est] sit N 11 et om.
EG 12 conuenit CHNP 13 generis Pm2 alii sit
C 14 tamen E habeat—semper] Cm2Hm1N habeat genus
et omne genus et (et om . Lm2R ) semper Cm1Hm2Lm2R
habeat omne genus semper EG habeat genus omne semper
Lm1 genus hoc (del. m2) haheat omne genus (genus omne
m2 ) et (s. l. m2) semper P 15 se om. CN ,
illud Cm2 (s. l.) id H post proprium add .
dicitur quod per se proprium CHN 16 ad om. C, in mg.
Hm2 17 pr . differentia C 18 est om. HNR ,
s. l. E uni R 19 proximum Cp. c . proprium a. c .
ad plura in mg. genera Lm2 , enim genera
P 20 ante animal s. l . sed genus Cm2 21
post speciei add. semper adsunt E adesse
poterunt, ut rationale atque mortale homini, itaque fit definitio ex uno quidem
genere, sed pluribus differentiis, ut hominis animal rationale mortale. Rursus
alia discretio est, quod genus quidem quasi subiecti locum tenet, differentia
uero formae, ita ut illud sit materia quaedam quae figuram suscipiat,
haec uero sit forma quae superueniens speciei sub- stantiam rationemque
perficiat. Idcirco uero pluribus diffe- rentiis a genere differentiam
segregauit, quia haec maxime generis quandam similitudinem contineat, quia est
uniuersalis et praeter genus inter ceteras maxima, sed cum alia plura
communia pluraque propria generis inter se ac differentiae ualeant inueniri,
nunc, inquit, ista sufficiant, satis est enim ad discretionem quaslibet
differentias assumere, etiamsi non quae dici possunt omnia colligantur.
Genus autem et species commune quidem ha- bent de pluribus,
quemadmodum dictum est, prae- dicari. sumatur autem species ut species et non
etiam ut genus, si fuerit idem et species et genus. 15—303, 3] Porph. p.
15, 9—13 (Boeth. p. 42, 15—20). 1 adesse—mortale om.
EGR ut om. HN ut homini C Hominis itaque
C hominis, itaque P 2 ante pluribus add .
de Lm2 3 post rationale add. atque
edd . est om. HNR 4 quidem om. C 5 ita ut om.
EGLm1 ut m2 quaedam om. EG, s. l. Lm2, ante
materia P quae om. R, s. 1. Cm1? quod Em1 6
suscipiens Lm1R 7 uero om. EGLR 8 differentias
CEGHm1Pm1 9 continet EGLPR 10 et om. N praeter]
post HPm1 maxima inter ceteras H in N
cetera Lm1Pm2 edd . maximi G maximae Pm1 12
nunc—sufficiant] HLNR (recte? an ex p. 297, 1?) ista inquit
sufficiunt GP sufficiunt inquit ista C ista quidem
sufficiunt E 14 non post omnia E (s. l.) p, ante
brm colliguntur Hm1R 15 ET SPECIEI] SPECIEIQVE C; de Porph.
cf. ad p. 102, 7 17 de pluribus om. G 18 sumatur—prae- dicantur
(p. 303, 2)] LR Q , om. cett . autem] autem et L ΛΛΦ ; Porph.
p. 15, 11 11 et om . ΓΔ sed RΣ
19 ut add . \ m2 pr . et] L cum Porph. p. 15,12, om. codd.
cett. edd. Busse genus et species Ε Σ commune autem his
est et priora esse eorum de quibus praedicantur, et totum quiddam esse utrum
que. Generis et speciei enumerat tria communia, unum quidem,
de pluribus praedicari; genus enim et species de pluribus praedicantur, sed
genus de speciebus, ut dictum est, species uero de indiuiduis. sed nunc de illa
specie loquitur quae tantum species est. id est quae non etiam genus est, sed
ultima species, quodsi talem speciem ponamus quae etiam genus esse
potest, ac de ea dicamus quoniam commune habet cum genere de pluribus
praedicari, nihil interest an ita dica- mus, ipsum genus id secum habere
commune de pluribus praedicari, talis enim species quae non est solum species,
ea etiam genus est. Est autem commune his quoque quod utra- que priora
sunt his de quibus praedicantur, omne enim quod de aliquibus praedicatur, si
recto, ut dictum est superius, ordine dicatur, prius est his de quibus
praedicatur. Praeterea est illis hoc etiam commune, quod genus ac species totum
sunt eorum quae intra suum ambitum continent et cohercent; omnium enim specierum
totum est genus et omnium indi- ui|duorum totum species, aeque enim genus et
species aduna- p. 99 tiua sunt plurimorum, quod uero multorum
adunatiuum est, id eorum quae ad unitatis formam reducit, recte dicitur
totum. 16 superius] p. 290, 15 ss. 1 est om.
L priora] propria La.c. Tk a.c A m1 2 esse] est C
5 ante genus add. et H (er.) N 6 post
genus add . quidem L 8 est, sed] est ut est H ut
est N 12 secum] H (cum in ras. m2 )
LR secundo CEGNPm2 (-da m1 ) de pluribus—commune
(14) post praedicantur (15) E 13 quod E 14
his commune HN 15 omne—-praedicatur (16) in mg. Hm2 17
dicatur] praedicatur CN his] de his G 18 etiam
hoc N eorum sunt C 20 genus est NR et]
ut Hm1 21 ante species add. est CNP, post E (in
ras.) H 23 quod E re- ducuntur Ca.c.N
Differt autem eo quod genus quidem continet spe- cies sub se, species
uero continentur et non continent genera; in pluribus enim genus quam species
est. genera enim praeiacere oportet et formata specificis differentiis
perficere species; unde et priora sunt naturaliter genera et simul
interimentia, sed quae non simul interimantur. et species quidem cum sit, est
et genus, genus uero cum sit, non omnino erit et species. et genera quidem
uniuoce de speciebus praedi- cantur, species uero de generibus minime,
amplius genera quidem abundant earum quae sub ipsis sunt specierum continentia,
species uero a generibus abun- dant propriis differentiis. amplius neque
species fiet umquam generalissimum neque genus specialissimum.
Expeditis communibus generis ac speciei nunc de eorum discretione
pertractat. differre enim dicit genus ab specie, quoniam genus continet
species, ut animal hominem, species 1—15] Porph. p. 15, 14—24 (Boeth. p.
42, 21—43, 10). 1 PROPRIO H DIFFERENTIIS C; de Porph. cf. ad
p. 105, 16 2 Differunt ENR edd.; Porph. p. 15, 15
διαφέρει post autem add . genus a
specie Φ continet quidem N 3 sub se er. uid
. 5 , s. l. 2 m2, ante species (2) ΓΦ
; Porph. p. 15, 15 περιέχει τά είδη species s. l.
Gm2 continetur C A continetur a genere Γ ; Porph
. τα δέ είδη περιέχεται et om. EG continet C
ΑΦ 4 in pluribus—differentiis (14) ] LR Q , om. cett .
enim] quidem S ; Porph. p. 15, 16 ετι τά γένη
5 ante oportet s. l . et 5 m2 et s. l
. 5 m2 , hic om., sed ante perficere pos. LR h m1
(del. m2) A ; Porph. p. 15, 17 ν.α'ι
διαμορφωθ-έντα 7 sed] si R 9 est] Porph. p. 15, 19
πάντως εστι; exciditne omnino ? pr .
et om . LR I , s. l . A m2 ; Porph. p. 15,
19 εστι και γένος post . et] A (del.
m2) Φ cum Porph. p. 15, 20, om. cett. edd. Busse
10 uniuoce quidem AAS ; Porph. τά μέν γένη de
speciebus] Porph. p. 15, 21 των δφ’ έοοτά ειδών 12
quidem genera L s m2 i\Y . Busse; Porph. τά μέν
γένη sunt (s. l. L) sub ipsis LR; Porph. p. 15,
22 των όπ’ αΰτά ειδών 13 a om . ΓΦ ab
A m1 , del. m2 14 fiet post umquam C
fit HN 15 neque genus specialissimum om. H
post genus add . fiet CEGR fiet umquam
ΑΑΣ fiet species L; Porph. 15, 24 ούτε τδ γένος
ειδικάιτατον 16 ac] et CE 17 differt GR a
HLNR 18 pr . speciem HN uero non continet genera;
neque enim homo de animali prae- dicatur. itaque fit ut species quidem
contineantur a generibus, numquam uero contineant genera, omne enim quod
amplius praedicatur, illius est continens quod minus dicitur, quodsi
genus amplius praedicatur quam species, necesse est ut spe- cies quidem
contineatur a genere, genus uero speciei nullo ambitu praedicationis
includatur, huius autem ratio est quo- niam genus semper suscipiens
differentiam speciem facit, hoc est, genus quod habebat latissimam
praedicationem, coartatum differentia et contractum speciem facit; omnino
enim generi iuncta differentia speciem reddit et ex uniuersalitate atque
latissima praedicatione in angustum speciei terminum con- trahit. animal enim,
cuius praedicatio per se longe lateque diffusa est, si arripiat rationalis
differentiam, si etiam mortalis, deminuit atque contrahit in unum hominis
speciem, unde fit ut minor sit semper species quam genus atque ideo conti-
neatur, sed non contineat, sublatoque genere auferatur et spe- cies; si enim
totum auferas, pars non erit, quodsi species auferatur, genus manet, ueluti cum
animal sustuleris, interi- mitur etiam homo, si hominem auferas, animal
restat, haec etiam causa est, ut genus de specie uniuoce praedicetur, id est ut
species suscipiat definitionem generis et nomen, sed 1 continent HN
enim om. C 6 contineantur NR speciei om. R
specie Cm1 in specie Lp.c . species N post
nullo add . modo EGHPR, s. l. Lm2 7 includitur
EGLm1P includat N post autem s. l.
rei Cm2 8 semper om. HN species N hoc—facit
(10) om. EG 9 est s. l. C, om. HN, del. Pm2 habet
Lm2Pm2 coartatum ex coapta- tum Lm2, in mg . ał
coaptata ipsa diffinitio et contracta speciem facit m1
coaptata Hm2P apta Cm1 (aptata m2 )
Hm1N 10 et] LR, s. l. Pm2 , om. CHN (de EG cf. ad S) contracta Lm2
omni Hm2Lm2 11 et om. G, s. l. ELm2 atque] et EHNPR 12 post praedicatione add.
generis CNP, s. l. Lm2 speciem EG contrahitur Hm2 14 differen- tia C (
ras. ex -ã) R etsi etiam E et s. l., del. si etiam Lm2,
et R 15 diminuit EHLPR ; diminuitur atque contrahitur
N unam C (am in ras. m2 ) Hm2NR 16
continentur sed non continent N 17 et om. EGR 19
remanet C cum] si P 21 est causa C 22
generis et nomen] et generis nomen E et nomen generis N
generis nomen R non e conuerso. definitionem quippe speciei
genus suscipere non uidetur; substantiam enim priorum inferiora suscipiunt, si
enim definias animal et dicas substantiam esse animatam atque sensibilem aut si
praedices de homine ‘animal’, uerum dixeris, si etiam animalis definitionem de
homine praedicaueris dicasque hominem esse substantiam animatam atque
sensi- bilem, nihil fuerit in propositione falsi, sed si hominis defini- tionem
reddas ‘animal rationale mortale’, ea animali non con- ueniunt; neque enim quod
animal est, id dici poterit animal rationale mortale, fit igitur, ut sicut
species generis nomen suscipit, ita etiam capiat definitionem, et sicut
genus nomen speciei non suscipit, ita nec eiusdem definitione monstretur, sed
cuius nomen et definitio de aliquo praedicatur, id uniuoce dicitur, cum igitur
generis et nomen et definitio de specie praedicetur, genus de specie uniuoce
dicitur, quoniam uero speciei de genere. neque nomen neque definitio
praedicatur, non conuertitur uniuoca praedicatio. Differunt genera <ab>
speciebus hoc quoque modo, quod genera superuadunt species suas aliarum continentia
specierum, species uero genera dif- ferentiarum pluralitate, animal enim, quod
est genus, superuadit hominem, quod est species, quia non hominem solum
continet, uerum etiam bouem, equum aliasque species, quas suae spatio
praedicationis includit, species uero, ut homo, superuadit genus, ut animal,
multitudine differentiarum, nam quod actu genus 1 e conuerso] est
(om. R) conuersio EGLPR 2 non er. H sub- stantiae
EGLm2 (-tia m1 ) PR enim priorum] enim proprium
EGP diffinitionem ( om . en. pr .) R 3 et om.
CHNP 4 aut] brm at CHLNP, om. EGR 5
definitione E 7 nil C fuerat Cm1 fueris
HN falsi] mentitus HN sed] quod CHN hominis
definitionem om. EGR hominis rationem L 8 addas
EGR, post si ( om . reddas,) add. P , reddas addas L pr .
animali Ea.c.LR animal est G conuenit CNPa.c. 9
ante quod add. id HNPR, s. l. Lm2 id dici] EGLa.r.P
dici Lp.r.R idcirco dici HN id circo id dici
C 11 et om. EG 12 defini- tionem ( uel diff-) monstret
EGR 14 pr . et om. CEG, s. l. Lm2 15 praedicatur
E uniuoce de specie C 17 a add. brm , ab
Brandt 18 modo om. NR 19 continentia aliarum C 21
quod] quae N non s. l Cm2 22 equum bouem HN 24
namque quod Lp.c . non habet rationale uel mortale — nullas
quippe actu genus retinet | differentias —, easdem species suae substantiae
inhae- p .100 rentes atque insitas tenet, homo enim rationalis est
atque mortalis, quod genus minime est; animal enim neque mortale est per
se neque rationale, quodsi genus quidem plus unam continet speciem, at uero
species multis differentiis infor mantur, superat quidem genus speciem
continentia specierum species uero uincit genus differentiarum pluralitate.
Illa quoque est differentia, quod genus quoniam omnium primum est,
numquam in tantum descendere poterit, ut fiat ultimum, species uero, quae
cunctis est inferior, in tantum ascendere non poterit, ut suprema omnium fiat;
numquam igitur nec species generalissimum fiet nec genus specialissimum. Sed ex
his quae dictae sunt differentiae aliae sunt quae genus ab specie
propriae coniunctaeque disterminant, aliae uero quae non solum genus ab specie,
uerum etiam a ceteris diducunt ac disterminant, neque in his tantum
differentiae quae sunt dictae, uerum etiam in ceteris considerentur oportet, si
proprie normam quaerimus discretionis agnoscere. 1 uel om.
R 4 mortale] rationale CHN 5 rationale] R
inratio- nale CHN per se rationale EGLP unam continet
speciem] EG (unam s. l. m2 ) Lm1 quam unam
continet speciem Lm2R una continet (continet una C )
specie CHNP 6 species uero ( om . at) C informa-
tur Lm1Pm1 7 species G 9 quoniam] quod Hm2
11 in tantum ascendere non] numquam in tantum ascendere LNR 12
nec... nec] et... et Hm1N et... nec C, pr . nec om.
P 14 ex his om. EG, s. l. Lm2 sunt om. E
differentiarum CN differentiis R genus s. l.
Cm2 a R 15 proprie coniuncteque ( ras. ex -teque
Η ) HΝR (recte?) propriaeque G coniunctaeque om.
EG 16 ab] a R diducunt] Em2R deducunt cett.
distinguunt ac deducunt ( om . disterminant] HN 17 neque (et quae
non CHN, s. l . ał quae L ) in his tantum differentiis quae sunt
dictae ( L quae sunt dicta G quae dictae sunt CHNP quid
sint in ras. E ) uerum etiam in ceteris (add. quoque HLm1N, del.
Lm2 ) considerentur oportet CEGHLNP neque in his tantum oportet
considerare differentias quae sunt dicta uerum etiam in ceteris oportet R
; differentiae scr. Brandt ; neque enim in (de bm ) his tantum
oportet (oportet om. p ) differentiis quae sunt dictae, uerum etiam in ceteris
considerare (considerari oportet p ) edd. 18 propriae
CEGLP 19 discretionis quaerimus HR Generis autem
et proprii commune quidem est sequi species - nam si homo est, animal est, et
si homo est, risibile est et - aequaliter praedicari genus de specie- bus et
proprium de his quae illo participant; aequaliter enim et homo et bos
animal et Cato et Cicero risibile, commune autem et uniuoce praedicari genus de
pro- priis speciebus et proprium quorum est proprium. Tria interim
generis ac proprii dicit esse communia, quorum primum illud est, - quoniam ita
genus sequitur species ut proprium, posita enim specie necesse est
intellegi genus ac proprium; neutrum enim species proprias derelinquit, nam si
homo est, animal est, si homo est, risibile est; ita quemad- modum genus, sic
proprium ab ea specie cuius est proprium, non recedit. Illud quoque, quod
aequalis est generis partici- patio, sicut etiam proprii, omne enim genus
aequaliter specie- bus participatur, proprium uero indiuiduis omnibus aequaliter
adhaerescit, manifestum uero est participationem e?se generis aequalem; neque
enim plus homo animal est quam equos 1—8] Porph. p. 16, 1-7 (Boeth. p.
43, 11—17). 1 COMMVNITATIBVS Ψ ; de Porph. cf. ad p.
102, 7 2 Genus Em1Gm1 consequi Pm1 3 nam—risibile
(6) ] LR Q , om. cett. pr . est s. l. h m2
5 illo] sub illo R participant] continentur R , add.
indiuiduis edd. cum plerisque codd. Porph. p. 16, 4 6 post
animal add. est ΓΦ , om. Porph. p. 16, 5 et Cato et
Cicero] Porph . xat Άνοτος και Μέληχος post risibile add.
est Φ 7 autem et] autem CEGP autem est (est s. l
. h m2 ) et (om. R) R h autem his Ψ
autem hiis et Φ his (s. l. m2) autem et Γ ;
Porph. p. 16, 6 δέ καί speciebus propriis R
8 post pr . proprium add . de his Ν Σ , s. l. de
propriis Gm2 10 illud est primum R 11 post
proprium add. quoque CH (del. m2) N ac]
et C 13 si] et si HN risibilis EGHNP
15 post quoque add. est commune R, s. l. Lm2 , s. l . scil,
commune est Hm2 a genere (generis Hm2 ) participatio
est HN 16 proprii] a proprio Hm1N ante
speciebus add . a H ab L (del. m2) NB, post add .
suis R 17 parti- cipat ** (ur er .) E 18
adheret N participatione EGR generi E ( ex
genere m2 ) R 19 aequale EG aequale
proprium R, post aequa- lem add. s. l . et proprii Lm2,
in mg . et proprium Pm2 atque bos, sed in eo quod sunt
animalia, aequaliter animalis, id est generis ad se uocabulum trahunt. Cato
etiam et Cicero aequaliter risibiles sunt, etiamsi aequaliter non rideant; in
eo enim quod apti ad ridendum sunt, dici risibiles possunt, non quod iam
rideant, aequaliter ergo ea quae sub genere sunt, suscipiunt genus, sicut ea
quae sub propriis, propria. Tertium illud, quod sicut genus de speciebus propriis
uniuoce praedi- catur, ita etiam proprium de sua specie uniuoce dicitur, genus
enim quoniam substantiam speciei continet, non modo eius nomen de specie,
uerum etiam definitio praedicatur, pro- prium uero quia speciem non relinquit
eamque semper sequitur nec in aliam speciem transgreditur nec infra subsistit,
defi- nitionem quoque propriam speciebus tradit; cuius enim nomen uni tantum
conuenit speciei cui coaequatur, dubitari non potest quin eius quoque
definitio speciei conueniat. quo fit ut sicut genus de speciebus, ita proprium
de sua specie uniuoce praedicetur. Differt autem, quoniam genus
quidem prius est, posterius uero proprium; oportet enim esse animal,
dehinc diuidi differentiis et propriis, et genus qui- 18—p. 310, 13]
Porph. p. 16, 8—18 (Boeth. p. 43, 18—44, 11). 1 eo] eodem
HLm2NR 2 ad se om. EGR, s. l. Lm2 etiam om. H
et om. R 3 pr . aequaliter om. C 6
suscipiant Em1Lm1 genera EGLPm2 gen. ante
suscipiunt HNP 7 illud] illud commune est G quid
Cm1 9 enim om. E nomen eius C 11 quia om.
EGLP derelinquit Lm2P eamque] eique HN ei
quae R ea quae Pm1 ae- quatur Pm2 12
definitio (diff-) ELm2 (diffinitione m1 ) Pm1 definitio
enim R 13 proprium Ea.r.R proprii Ep.r.L (
ras. ex propriis,) P traditur EGLm2Pm1 14 cui] uel
ei C eique HNPm2 (cuique m1 ), et (del.
m2) cui L aequatur L 18 De proprietatibus Δ
; de Porph. cf. ad p. 105, 16 GENERIS ET PROPRII] EORVM P PROPRII]
SPECIEI L 19 Differunt C edd . autem om. N autem genus et
proprium LR Δ2 ; Porph. p. 16, 9 Διαφέρει δέ δτι τό μίν γένος
quidem om. HNR est om. H 20 oportet—interimunt
genera (p. 310, 10) ] LR Q , om. cett . 21 pr .
et om. L dem de pluribus speciebus praedicatur, proprium uero
de una sola specie cuius est proprium, et proprium qui- dem conuersim
praedicatur de eo cuius est proprium, genus uero de nullo conuersim
praedicatur, nam neque si animal est, homo est, neque si animal est,
risi- bile est; sin uero homo est, risibile est, et e conuerso amplius
proprium omni speciei inest cuius est pro- prium, et soli et semper, genus uero
omni quidem speciei cuius fuerit genus, et semper, non autem soli, amplius
species quidem interemptae non simul inter- p.101 imunt|genera,
propria uero interempta simul in- terimunt ea quorum sunt propria, et bis
quorum sunt propria interemptis et ipsa simul interimuntur. Rursus tale
proprium sumit, quod ad alterius comparationem proprium nuncupetur, dicit enim
proprium esse generis prius esse quam propria, oportet enim prius esse
genus, quod ueluti materia differentiis supponatur, uenientibusque differentiis
fieri speciem, cum quibus propria nascuntur, si igitur prius est 1
praedicatur] R A m2 n edd . praedicari cett. codd.
Busse (propriis, et genus distinguit, sed cf. 16
oportet et p. 311, 9 Rursus differt); Porph- p. 16, 11
κατηγορεΐται 2 una sola] Porph. ενός , cod. C add
. μόνοο est om. Φ 6 si R homo
est] homo et ΔΑΠΨ (et er .), homo, et Busse homo
est (est s. l. m2 ) et L; Porph. p. 16, 13 et δέ
άνθρωπος et e conuerso] et conuerso L h m1 et conuersim si
risibile est homo est R si risibile est homo est 2 ;
Porph. p. 16, 14 καί εμπαλιν , add. ei γελαστικόν,
άνθρωπος cod. C 8 et soli] TA m2 et uni Δ
m1 ΑΣ et uni et soli LR ΠΦΨ ; Porph. p. 16, 15
καί μόνψ speciei quidem 2 9 post
speciei add . inest LR TA ( s. l .) ΠΦΦ-
(in mg. m2) edd. Busse, om . Δ2 cum Porph . soli]
Porph. p. 16,16 και μόνω 10 species s. l. L
propria brm cum Porph . interempta Φ interimuntur
HL 11 post genera add. quorum sunt species
A propria] genera brm Busse (in adn.) cum Porph. p. 16, 17
interimuntur HΡ 12 ea om . Η ΤΦ species brm
cum Porph . quarum brm et his— interemptis om. EG et]
quare edd., Porph. p. 16, 18 ώστε καί 13 in-
teremptis ante et his CP et ipsa] et ipsa etiam
propria Φ ipsa propria 2 interimuntur simul CGLR
ad 10—13 cf. p. 312, 13 ss . 14 Rursus om. EG, s. l. Pm2 , sed R
ad om. H, s. l. Pm2 comparatione HPm1 15
nuncupatur Cm2Em2Ga.c.N 16 pr . esse om. N, s. l.
Pm2 uelut N 18 species Lm2 nascantur
N genus quam differentiae, prius etiam differentiae quam species et
speciebus propria coaequantur, non est dubium quin pro- pria generibus
posteriora sint, ac per hoc quod dictum est, proprium esse generis prius esse
quam propria, commune est hoc generi cum differentia, differentiae enim
species conformantes priores considerantur esse quam propria, siquidem
speciebus ipsis priores sunt, quas propria ratione determinant, sed ut dictum
est, hoc proprium ad differentiam proprii intellegendum est, non quale superius
per se proprium constitutum est. Rursus differt genus a proprio, quod
genus quidem de pluribus praedicatur speciebus, proprium uero minime; nam neque
genus est, nisi plures ex se species proferat, nec proprium, si alteri cuilibet
speciei possit esse commune, fit igitur ut genus quidem plurimas sub se species
habeat, ut animal hominem atque equum, proprium uero unam tantum, sicut
risibile hominem. Quo fit ut illa quoque differentia nascatur : genus enim
praedicatur quidem de speciebus, ipsum uero in nulla praedicatione supponitur,
proprium uero et species alterna praedicatione mutantur, fit enim praedicatio
aut a maioribus ad minora aut ab aequalibus ad aequalia, genus igitur,
quod maius est, de speciebus omnibus praedicatur, species uero, quoniam minores
sunt, de generibus non dicuntur, ut animal de homine dicitur, homo uero de
animali nullo modo praedi- catur. at uero proprium, quoniam speciei aequale
est, aeque 1 etiam] enim Lm2 2et om. EG et
si H 4 est hoc] HL (hoc del. m2 ) N
est et hoc C esse Pm1 et hoc est m2
est EGR 5 diffe- rentia] differentiis CHN
differentiae om. EG enim s. l. Cm2, post species
EG informantes prius N 6 considerentur Hm1R
esse s. l . Cm2 7 quam G 8 hoc om.
EGR 10 a om. NR quod] quo- niam L de] a
C 12 proferet Lm2 14 species sub se C 16 quoque
del. Em2, post add . proprietas (s. l. Lm2) ex GL, s. l.
Pm2 nascan- tur Ep.c . 17 de speeiebus quidem C
ipsis CN in om. CN 19 mutuantur La.c.Pm2
praedicatio om. EGR, s. l. Lm2 20 quod] quoniam E (in ros.)
Gm2 21 est s. l. Em2 praedicabitur N 22
minora CEGLm2P praedicatur atque supponitur, ut risibile de
homine dicitur - omnis enim homo risibilis est —, eodemque conuertitur modo;
omne enim risibile homo est. Differt etiam proprium a genere, quod proprium uni
et omni et semper speciei adest, genus uero ex his duo quidem retinet, in uno
uero diuersum est. nam speciebus suis et semper adest et omnibus, non
uero solis; hoc enim haeret propriis, quod singulas tantum species continent,
hoc generibus, quod plures. igitur propria quidem singulas optinent species,
genera uero non singulas, adest igitur proprium uni soli speciei et semper et
omni, genus uero omni quidem et semper, sed non soli, ut risibile homini
soli, ani- mal uero eidem homini, - sed non soli; praeest enim ceteris, quae
inrationabilia nuncupamus. Praeterea si auferatur genus, species interimuntur
nam si non sit animal, non erit homo —, si auferas species, non interimitur
genus; nam si non sit homo, animal non peribit, species uero et propria
quoniam sunt aequalia, alterna sese uice consumunt; nam si non sit risibile,
homo non erit, si homo non sit, risibile non manebit, consumunt igitur genera
sub se positas species, non uero ab his inuicem consumuntur, species uero et
proprium inuicem perimuntur et perimunt. 1 supponitur]
(sub- HP ) CHm2Lp.c.P praeponitur cett., recte? 2
enim om. C locus risibilis est—quidem speciebus (p. 315, 7)
bis in E scriptus, pag. 229—231 (E I ), ubi deletus est, et p. 232—234 (E II
) 3 etiam om. R, del. Lm1 , enim m2 autem etiam
H a genere pro- prium C a om. R 4 speciei
s. l. Hm2 5 uero] quidem E I qui- dem duo CNB , om .
quidem E I 7 haeret propriis] E III GL
haeret (ł inerit m2 ) tantum propriis P erat (erit R )
tantum propriis (proprii N ) esse CNR heret propriis uel
aliter hoc enim erat tantum H; ad haeret cf. p. 298, 4
tantum species—quidem singulas om. E I tan- tum del. Lm2, s.
l. Pm2 , post species NR 8 continerent CHm2
con- tineret N contineant Pm2 10 soli///// E
I solius E II G 11 sed] et HN soli homini
NP 13 inrationalia H auferamus EGLPR 14 interi-
mantur L erit] est N 19 sub se positas] sibi (om.
H) suppositas HN 21 perimuntur] consumuntur Lm2
perimunt] perimuntur Lm2 pereunt HNPm2
Generis uero et accidentis commune est de pluri- bus, quemadmodum dictum
est, praedicari, siue separa- bilium sit siue inseparabilium; etenim moueri
de pluribus et nigrum de coruis et de hominibus Aethio- pibus et
aliquibus inanimatis. Nihil est quod inter cetera ita sit a generis
ratione dis- iunctum, sicut est accidens, nam cum genus cuiuslibet sub-
stantiam monstret, accidens uero a substantia longe disiunctum sit et
extrinsecus ueniens, nihil fere notius commune potest habere cum genere quam de
pluribus praedicari, genus enim de pluribus praedicatur speciebus, accidens
uero de pluribus non modo speciebus, uerum etiam generibus animatis atque
inanimatis, ut nigrum dicitur de rationabili homine, de inra- tionabili
coruo et de inanijmato hebeno, album etiam de cygnoj p. 102 et
marmore, moneri de homine, de equo et de stellis ac de sagitta, quae sunt
separabilis accidentis exempla. 1—6] Porph. p. 16, 19—17, 2
(Boeth. p. 44, 12—16). 1 GENERIBVS ACCIDENTIBVS E I
E II m1 ACCIDENTI R de Porph. cf. ad p. 102,
7 2 Commune uero est generis et accidentis 2 Generi N
Generibus E I accidentibus E I m1 3
praedicari ante quemadmodum L siue—pluribus et] LR Q , om.
cett . separabile 2 m1 4 sit] sit accidens 2
inseparabile 2 m1 5 post et om. R de
om . E II HNR ΑΦ , recte? homine E III
omnibus L A ( ras. ex hominibus) hominibus om. brm, delend.
uid. Bussio; cf. p. 116, 5. 123, 22. 131, 2 homine Aethiope; Porph. p.
17, 1 κατά κοράκων καί Αίθ·ιοπων aethiopus EIII et (et de G, del. m2 )
aethiopibus GPm2 T2 6 ante aliquibus add. de Gm2 in
animis E I , ante inanimatis add . naturis H
(del. m2), post CN , praedicari Γ ( in mg . praedicatur) Φ
; Porph. καί tivmv άψΰχων 7 in ceteris E
III GLm1P 9 a om. R 10 uere GR uero
ha- bere potest C 11 enim] uero C 14 rationabile
E III a. c. Gm1 rationali HNP post homine
add . et N irrationali HNP 15 ebeno E III 16
marmore] de marmore P post homine add . et
N 17 sagitta] CHLm1NPm1 (sagittis m2 ) agitatis E
III GR edd . ał de agitatis scil, rebus id est mobilibus
Lm2 Differt autem genus ab accidenti, quoniam genus ante
species est, accidentia uero speciebus posteriora sunt; nam si etiam
inseparabile sumatur accidens, sed tamen prius est illud cui accidit quam
accidens, et genere quidem quae participant, aequaliter partici- pant,
accidenti uero non aequaliter; intentionem enim et remissionem suscipit
accidentium participatio, generum uero minime, et accidentia quidem in indi-
uiduis principaliter subsistunt, genera uero et species naturaliter
priora sunt indiuiduis substantiis, et genera quidem in eo quod quid sit praedicantur
de bis quae sub ipsis sunt, accidentia uero in eo quod quale aliquid sit uel
quomodo se habeat unum quod- que; qualis est enim Aethiops interrogatus
dices ‘niger’, et quemadmodum se Socrates habeat, dices quoniam sedet uel
ambulat. 1—17] Porph. p. 17, 3-13 (Boeth. p. 44, 17—45, 9).
1 PROPRIIS] DIFFERENTIA C; de Porph. cf. ad p. 105, 16 QVID
INTER GENVS ET ACCIDENS SIT Φ (ex p. 116, 10) 2
genus s. l. Hm2 ab om . HRE III Δ
accidenti] Δ accidente cett . 3 speciem ΧΦ
posteriora ante speciebus C inferiora XA m1 AS 4
nam—unum quodque (14) ] LR Q , om. cett . si etiam] etsi
etiam ΓΦ sed om . Γ si Σ 5 prius]
plus S 6 genere] A m2 Busse genera
cett. codd. edd . quae] quibus A m1 aeque Δ 7
accidenti] p Busse accidentia codd. brm; ad 5 et— 7 cf.
Porph. p. 17, 6 s. et infra p. 315, 12—14 enim om. L in mg: figuram
quandam habet Δ , aliam (cf. ad p. 320,17)
Γ 9 uero om. R in om . Γ Busse,
s. l . Rm2 A m2 K ; cf. p. 315, 21; Porph. p. 17, 9 έπΐ
τών άτομων 10 nero om . Δ 11 post
naturaliter add. non principaliter LR AΑΦ ; om. Porph.
p. 17, 9 12 sit] est LR A ante de
add. et, sed del. ΓΔ 13 hiis Φ
14 ante quale add. et R sit] cod. Q
Bussii edd . est cett. codd . quomodo om. R quodammodo
A m2 se s. l. A m2 habet A m1 15
eat ante aethiops ΔΑ , post HΝ ΤΣΦ enim om.
L interrogatur Φ dices] LRT dicis cett.
codd. edd. Busse, cf. p. 317, 15 respondebimus; Porph. p. 17,
12 έρεΐς 16 quo- modo Δ habeat ante
socrates A habet ΗR Φ dices] K m2
dicis cett. codd. edd. Busse, cf. p. 317, 16 dicemus; Porph
. έρείς 17 ambulet La.c.N Differentiam generis et
accidentis hanc primam proponit, quod genus quidem ante species sit, quippe
quod materiae loco est et differentiis informatum species gignit, at uero
accidens post species inuenitur. oportet enim prius esse cui aliquid
accidat, post uero ipsum accidens superuenire; nam si subiectum non sit quod
suscipiat, accidens esse non poterit, quodsi genus quidem speciebus subiectum
est nec possunt esse species, nisi eis genus ueluti materia supponatur, acci-
dentia uero esse non possunt, nisi eis species supponantur. manifestum
est genus quidem esse ante species, accidentia uero post species. Rursus alia
differentia, quoniam genus neque intentionem neque remissionem suscipere
potest, quo fit ut quae participant genere, aequaliter eius nomen defini-
tionemque suscipiant; omnes enim homines aequaliter animalia sunt
eodemque modo equi, nec non inter se homo atque equus et cetera animalia
comparata aeque animalia praedicantur, accidentis uero participatio et
intenditur et remittitur, inuenies enim quemlibet paulo diutius ambulantem,
paulo amplius nigrum et in ipsis Aethiopibus considerabis omnes non aeque
nigro colore obductos. Alia quoque differentia est, quoniam omne accidens in
indiuiduis principaliter subsistit, genera uero et species indiuiduis priora
sunt; nisi enim singuli corui 1 et accidentis] ab accidentibus
HN ponit C 2 pr. quod] quid C
quoniam (del. m2) quod E II 4 post
esse add . aliquid P, s. l. Lm2 5 si—sit] nisi sit
subiectum HN nisi subiectum sit R 6 quid
Cm1 potest H 7 speciei HN est] sit N nec]
non CEGLP 8 uelut CEGLP uel R
supponitur C 9 supponatur ( uel subp-) EGH 10
ante manifestum add . nam EGLP 11 post
Rursus add . uero C post alia add . est CGP
13 generi CEGP 15 eodem EHLR 18 paulo amplius nigrum paulo
diutius ambulantem HN post ambulantem add . et LR 19
et] et si (si s. l, Lm2 ) LR si EGP omnis
GLm2R aequa nigredine coloris (coloris del. Lm2 ) HLNP
20 obductus EGLm1R , post obd. add . esse C
est EGLR est om. HN 21 in om. CG
genera—priora sunt] C species uero et genera indiuiduis priora sunt
HLm1N genera uero speciebus et indiuiduis priora sunt GP
genera nero et speciebus et indiuiduis posteriora sunt Lm2 genera
indiuiduis priora sunt E et indiuiduis posteriora sunt R 22
singulariter EGPR nigredine infecti essent, comi species
nigra esse minime dicere- tur. ita fit ut accidentia post indiuidua esse
uideantur. nam si prius est id cui aliquid accidit quam illud quod accidit, nop
est dubium prius esse indiuidua, posterius uero accidens, genera uero et
species supra indiuidua considerantur; hoc idcirco, quoniam de his
omnibus praedicantur eorumque sub- stantiam propria praedicatione constituunt,
sed dici potest genera quoque ipsa et species posteriora indiuiduis inueniri;
nam nisi sint singuli homines singulique equi, hominis atque equi species esse
non possunt, et nisi singulae species sint, eorum genus animal esse non
poterit, sed meminisse debemus superius dictum esse genus non ex his sumere
substantiam de quibus praedicatur, sed de eo potius, quod differentiis con-
stitutiuis eorum substantia formaque perficitur, itaque si genus quidem
diuisiuis differentiis interemptis non perimitur, sed manet in his quae
eius constitutiuae sunt eiusque formam definitionemque perficiunt, cumque
differentiae diuisiuae generis speciebus sint priores — ipsae enim species conformant
atque constituunt —, non est dubium quin genus etiam pereuntibus speciebus
possit in propria manere substantia, idem de spe- ciebus dictum sit;
species enim superioribus differentiis, non posterioribus indiuiduis
informantur, quae cum ita sint, species quoque ante indiuidua subsistunt,
accidentia uero nisi sint 12 superius] p. 300, 7—16. 1
essent in ras. Lm2 , sunt N sint R 2 esse
om. EGR 4 indiui- duum CHN 5 super CN 8 genera]
de genere R quoque om. R quaeque EGP
ipsa om. EGPR et species] atque species (specie R )
LR specieaque N 9 nam nisi] nisi enim EGR nara
nisi enim (enim del. m2 ) C homines—nisi singulae (10)
in mg. Em2 homi- nes EN 10 et om. EG
singulis E singuli G singulares Lm2R 11
eorumque Lm2 earum brm 12 ex del ., his om.
E 13 de eo] eo Hm1N ex eis Hm2 de eis
Lm2 quod del. Hm2, er. L , quo GPR 14 eorum om.
Lm1 eius R edd . quae eius Hm2 de quibus eius Lm2
substantiam formamque perficiunt Hm2 normaque N 15
diuisiuae ( post differentiae N ) differentiae interemptae non
perimunt HLN 16 eius- que] quae eius C quaeque
eius EGP 17 speciebus generis LNR 20 permanere
Lm2R 23 quaeque EG quibus accidant, esse non possunt,
nullis uero prius accidunt quam indiuiduis; haec enim generationi et
corru|ptioni sup- p, 103· posita uariis semper accidentibus permutantur.
Illam quoque adnumerat differentiam quae est superius dicta, quod genus
quidem, quia rem demonstrat et de substantia praedicatur, in eo quod quid est
dicitur, accidens uero in eo quod quale est aut in eo quod quomodo sese habet
res. nam si qualitatem interroges, accidens respondebitur, ut si qualis est
coruus, ‘niger’, si quomodo sese habeat, aliud rursus accidens, aut
‘sedet’ aut ‘uolat’ aut ‘crocitat’. nam cum accidens in nouem praedicamenta
diuidatur, qualitatem, quantitatem, ad aliquid, ubi, quando, situm, habitum,
facere, pati, cetera quidem omnia in ‘quomodo se habeat’ interrogatione
ponuntur, qualitas uero in qualitatis sciscitatione responderi solet. nam si
interrogemur qualis est Aethiops, respondebimus accidens, id est ‘niger’,
si quomodo se habeat Socrates, tunc dicemus aut ‘sedet’ aut ‘ambulat’ aut
superiorum aliquid accidentium. Genus uero quo ab aliis quattuor
differat, dictum 4 superius] p. 189, 4 ss. 195, 1 ss. 18—p. 319, 14]
Porph. p. 17, 14—18, 9 (Boeth. p. 45, 10—46, 9). 1 pr.
accidunt Lm1 accident N prius post accidunt
C 2 post indi- uiduis add. quia indiuidna prima sunt quantum
ad praedicationem P, in mg. Lm2 4 adnumera ( ann- G)
EG annumerant Hm1 dicta est superius R est sepius
(corr. m2) dicta C sepius (corr. Hm2) dicta
est HN 5 quidem om. EGR 6 dicitur om. N, s. l.
Hm2 post uero add. aut P 7se H post habet
add. res CLm1, del. m2 9se EGHN habet
Clm1 aliud rursus accidens] aliud uero accidens rursus C aut
uolat aut sedet HLN 10 croccit Hm1 groccitat N,
post add . egrotat P nam] at EGLm1 ac (ut uid.)
R 12 quanto Em1 quan- tum G situm habitum
quando C post omnia add. id est VIIII Hm1, del.
m2 13 habeant Ep.c. Lm2P interrogationem EGR 14 inter-
rogemur] C edd. (cf.p. 314, 15) interrogemus cett., recte?
cf.p. 58, ss. 99, 23 15 respondemus HNR 16 dicimus EHLRbrm
17 aliquod ELa.c.N 18 uero] uerus Pa.c. ergo CHL
(in ras. m2) R Φ enim A ; Porph. p. 17, 14
uiv ουν quod EGPm1Rm1 T<l> ab] ΔΣΨ ,
s. l. Il m2, om. cett. quattuor om. G, s. l.
Δ m2 est. contingit autem etiam unum quodque aliorum differre
ab aliis quattuor, ut cum quinque quidem sint, unum quodque autem ab aliis
quattuor differat, quater quinque, uiginti fiant omnes differentiae, sed semper
posterioribus enumeratis et secundis quidem una differentia superatis,
prop(??)terea quia iam sumpta est, tertiis uero duabus, quartis uero tribus, quintis
uero quattuor, decem omnes fiunt, quattuor, tres, duae, una. genus enim differt
a differentia et specie et pro- prio et accidenti; quattuor igitur sunt omnes
diffe- rentiae. differentia uero quo differat a genere dictum est, quando
quo differret genus ab ea dicebatur; relinquitur igitur quo differat ab specie
et proprio et accidenti dicere, et fiunt tres. rursus species quo 1
contingit—ad accidens (p. 319,12) ] LR Q , om. cett. contigit
R A m1 Y m1 2 aliis om. Porph. p. 17, 15 quidem om. L K
Busse; Porph. μεν 3 post sint
add. res L unum quodque autem] il m2 xP p
Busse unum autem Β ΤΜΙ m1 Σ una autem L ΑΦ et
unumquodque brm; Porph. p. 17, 16 ίνος ϊέ εκάοτοο
aliis om. Porph. differt Δ 4 uiginti del.
A , pos t XX add. uel quinquies quattuor
Rm1 quater V. XX uel del. et post fiant add.
uiginti m2 fient ΑΑ m1 Φ fuerint Γ
post differentiae add. sed non sic se res ( res
om. p) habet edd. cum Porph. p. 17, 17 άλλ’ οοχ οδτως
εχει set om. Γ 6 superatis] subtractis
ΓΦ (ex substr- ) quia] quoniam L A
Busse sumpta] subtracta Γ 7 uero] autem LR
T<l' duobus R 8 omnes om. L post fiunt
add. differentiae Γ (s. l.) Π m2 edd. Busse
(sed om. etiam eius codd. LP) cum Porph. p. 17, 20 9 enim] autem
Γ a om. Σ , s. l. A m2 et specie et proprio] a
specie a pro- prio R specie proprio Σ 10 et
om. Σ accidente R Σ igitur quatuor R
differentiae omnes La.c. generis differentiae R; Porph. p.
17, 22 at διοφοραί 11 quo om. R differat]
La.c. ( a del.) Σ differret R differt
cett. a om. R 12 quo] quid L A Busse
quod m1, om. A ; ubi quo est (hic et 11.
13. 14. 319, 1. 2. 3. 5. 7 bis), Porphyrius π-j
scripsit (p. 17, 23 et 22. 24. 25. 26 bis. 18, 1. 2. 3. 4)
differret] LR Ψ (alt. r s. l.) differre Λ
differt ΓΙIΣΦ 13 igitur] ergo 2 quod R A
differt A a.c. ab Brandt a LR il , s. l. A
m2, om. cett. et om. Β ΤΑΣ a L 14 accidente
R ΓΔ2Φ post tres add. differentiae Λ ( ei
fiunt tres differentiae. rursus in mg. m2) 11 m2 (
species m1) Γ ( rursus differentiae pos.)
Busse (cum duobus suis codd.), om. cett. codd. edd. Porph. p. 17, 25 quidem
quo ΓΔ2Φ ; Porph. π-jj έν quidem differat a
differentia dictum est, quando quo differret differentia ab specie, dicebatur;
quo autem differat species a genere, dictum est, quando quo differret genus ab
specie dicebatur; reliquum est igitur, ut quo differat a proprio et
accidenti dicatur. duae igitur etiam istae sunt differentiae. proprium autem
quo differat ab accidenti relinquitur; nam quo ab specie et differentia et
genere differat, praedictum est in illorum ad ipsum differentia. quattuor
igitur sumptis generis ad alia differentiis, tribus uero dif- ferentiae,
duabus autem speciei, una autem proprii ad accidens, decem erunt omnes, quarum
quattuor, quae erant generis ad reliqua, superius demonstraui- mus.
Quoniam differentias atque communitates generis ad diffe- rentiam, ad
speciem, ad proprium atque accidens persecutus est, idem quoque ad ceteras
facere contendens praedicit, quot omnes differentiae possint esse quae inter se
comparatis com- 1 differt R A quo] quid A
Russe quod Lm1 \ 2 differret] Lm2 Rm2 Aß p.c. tfl
p.c. differet Lm1Rm Uα a. c. ΦΨ a.c. differt Δ2
differtur Γ differentia ab specie] ΓΦΨ ( sed
a, scr. ab Brandt), a (s. l. A m2)
specie (s. l. et add. Δ m2) differentia ΔΔΣ
edd. Busse species a ( et Ώ ) differen- tia
L H differentia ab ea R; Porph. p. 17, 26 ή διαφορά τού
είδους quod A m1 3 differat] L differt
cett. (ex differet V ) a om. R ϋϊ quo] quid
Δ Busse quod A 4 differret] L yAIW
differet R Φ differt ΓΑ2 4 ab specie] Γ a
specie L ΔIΙΔΦΦ specie 2 ab ea R 5
differt R, add. species ΓΑΠΨΨ , s. l. Lm2; om. Porph.
p. 18, 2 a om. 2 accidenti] L acci-
dente cett. dicitur R 6 igitur om.
2 7 autem om. R, s. l. h m2 ab om.
Σ accidenti] edd. accidente codd. fort.
relinquetur; cf. Porph. p. 18, 3 χαταλειφθήσεται 8
ab Brandt a ΓΦ , om. cett. pr. et om.
R differet Λ m1 differret m2 differt A m1 2
, s. l. proprium add. Lm2 dic- tum Σ 9
differentia ante ad ipsum Σ differentiis Β ΓΑΦ ;
Porph. p. 18, 5 ... διαφορά 11 pr. autem] uero A
ad accidens] et accidentis ΓΔ«ι7ΠΦ ; Porph. p. 18, 7
πρός τδ σορβεβηχος 13 erant] erunt N reliqua] N
Λm1ίΣΦΨ reliquas cett. (in mg. ad aliquas T m2); Porph.
p. 18, 8 πρός τά άλλα 16 utrumque ad om. NR 17
idem quoque] idemque Lm1NR ad cetera C de ceteris
HLN praedicit om. R nunc dicit H 18 possunt
CHLm1N commissisque N mixtisque rebus his quae supra
propositae sunt efficiantur. sunt autem uiginti. nam cum quinque sint res, una
quaeque res earum si a quattuor aliis differat, quinquies quater, uiginti differentiae
fiunt, quod appositarum litterarum manifestatur exemplo. sint quinque res
ueluti quinque litterae A B C D E. differat igitur A quidem ab aliis
quattuor, id est B C D E, fient quattuor differentiae. rursus B differat ab
aliis quattuor, id est A C D E, erunt rursus quattuor; quae superioribus
iunctae octo coniungunt. C uero tertia ab reliquis differt quattuor, scilicet A
B D E; quae quattuor differentiae supe- rioribus octo copulatae duodecim
reddunt. quarta D reliquis quattuor comparetur differatque ab eisdem, id est A
B C E, fient igitur rursus quattuor; quae superioribus duodecim ap- positae
sedecim copulant. quodsi ultima E ab aliis quattuor differat, scilicet A B C D,
fient aliae quattuor differentiae; quae compositae prioribus uiginti perficiunt.
et sit quidem p.104] huiusmodi descriptio : | 1
positae EHLNP efficiuntur HN 2 ante
una add. et HLNPR res om. HN 3 si om.
HN a om. R uiginti om. E 4 fiant Rm2
5 uel E 6 aliis] reliquis HN 7 fiant R
differt Ha.c.LN aliis] reliquis L 8 id est om.
HN 9 ab] codd. reliquis] aliis L 11 ante
reliquis add. si L, s. l. Pm2 12 differatque] differat
aeque EGP ( differt m2) R eis GHNPm1R 13
fiunt N fiant R igitur om. HN post
quattuor add. differentiae HN 15 fiant R
faciat L faciet HN aliae om. H alias
LN differentias HLN 16 superi- oribus C et sit
quidem] CGP et quidem sit R et sic (ex si
) quidem est E quarum ( quorum LN) quidem
sit HLN 17 discriptio C figu- ram om. G (duae lineae uacuae)
Hm1N, supra depictam dedimus ex E, eandem uarie exornatam habent R (post
uerba quattuor differentiae supra 7) Γ (in
mg ad locum p. 314, 7 ss.), litteras tantum omissis lineis Quae cum
ita sint, in generibus quoque et speciebus et ceteris idem considerabitur.
erunt ergo quattuor differentiae, quibus genus a differentia, specie, proprio
accidentique dis- iungitur; aliae rursus quattuor, quibus differentia a
genere, specie, proprio atque accidenti discrepat; rursus quattuor spe-
ciei ad genus ac differentiam, proprium atque accidens; quat- tuor etiam
proprii ad genus, differentiam, speciem atque acci- dens; quattuor insuper
accidentis ad genus, differentiam, spe- ciem atque proprium. quae coniunctae
omnes uiginti explicant diflferentias. sed hoc, si ad numeri referatur
naturam compara- tionisque alternationem; nam si ad ipsas differentiarum
naturas uigilans lector aspiciat, easdem saepe differentias inueniet sumptas.
quo enim genus differt a differentia, eodem differentia distat a genere, et quo
differentia distat ab specie, eodem species a differentia disgregatur, et
in ceteris eodem modo. in hac igitur dispositione differentiarum, quam supra
disposui, easdem saepius adnumeraui. atque si differentiarum similitudines
detrahamus, decem fiunt omnino differentiae, quas ad prae- sentem tractatum
uelut diuersas atque dissimiles oportet assu- mere. age enim differat
genus a differentia, specie, proprio in mg. sup. add. Hm2, quaternas
litteras ( B C D E cett.) infra singulis litteris A cett.
positas quadratis inclusas exhibet L; in C in mg. (litt. minusc.) hae duae
figurae sunt, quarum posterior spectat ad p. 321, 20 ss. 323, 9 ss:
in P figura est per quinque ob- longa deorsum continuata, quorum primum
hic proponitur : 3 ab CEGHP accidentique] atque
accidenti ( -te N) HN 4 dif- ferentiae G ab
CEGHNP 6 ac om. N ad LP 10 post
hoc add. fiet E (s. l. m2) fit H (s. l. m2)
niget L (in mg.) R 13 adsumptas R differat
C 14 ab] a R 17 saepius om. EGPR, s. l. Cm2, post
ad- numeraui L adnumerauit Cm2GP atque) EGP
at CR itaque HLN si om. N
multitudines, s. l. ał similitudines L 18 fient
edd. atque accidenti, quattuor differentiis, quas supra iam
diximus. item sumamus differentiam, distabit haec a genere primum, dehinc ab
specie, proprio atque accident. sed quo discrepet a genere, iam superius
explicatum est, cum diceremus quo genus a differentia discreparet.
detracta igitur hac comparatione, quoniam supra commemorata est, relinquuntur
tres distantiae quibus differentia ab specie, proprio accidentique disiungitur;
quae iunctae cum superioribus quattuor septem differentias reddunt. post hanc
species si sumatur, quattuor quidem eius essent differentiae secundum
numeri diuersitatem, cum ad genus, differentiam, proprium atque accidens
comparatur, sed priores duae comparationes iam dictae sunt. nam quo species
differat a genere tunc dictum est, cum quid genus differret ab specie
dicebamus, quid uero species a differentia distet commemo- ratum est, cum
differentiae ab specie dissimilitudines redde- remus. quibus detractis duae
supersunt integrae atque intactae speciei ad proprium atque accidens
discrepantiae; quae iunctae cum septem nouem differentias copulant. proprii
uero si ad numerum differentiae considerentur, quattuor erunt, scilicet
ad genus, differentiam, speciem atque accidens comparati, quarum quidem
tres superiores differentiae iam dictae sunt. nam quid proprium distet a
genere, tunc dictum est, cum quid genus a proprio distaret ostendimus, rursus
quid proprium a differentia discrepet, in colligenda distantia differentiae
propriique superius 1 accidente N 3 ab] HN
a cett. accidente HN quod L dis- crepet]
distet HN 5 hac igitur C 6 distantiae]
differentiae L 7 a LN accidenti C accidenteque
H disiungitur ante ab specie C 8 reddunt
differentiae C 9 sumatur] mutatur E 11 ante
differentiam add. et HLNP ante proprium add.
et P cõpararetur C cõparantur N 12
differat post genere EN 13 a om. EGHNP
differret] GLm2Pm2R differet ΕLm1 differat
HNPm1 differt C ad speciem R ad specie
C 15 ab specie] CG a specie EHLm2NP ad
speciem Lm1R 17 post speciei add. id
est EGP 18 differentias copulant] complent differen- tias
C 20 comparatae Ep.c. (ex-ti) GHm2PR quorum EGLm1R 21
quod C 22 proprium—cum quid om. EGR distaret a pro-
prio H demonstratum est, quid uero proprium distet ab specie,
tunc expositura est, cum quid species distaret a proprio dicebatur. restat
igitur una differentia proprii ad accidens, quae superio- ribus iuncta decem
differentias claudit. accidentis nero ad cetera possent quidem esse
quattuor, nisi iam omnes proba- rentur esse consumptae. nam quid differat uel
genus uel dif- ferentia uel species uel proprium ab accidenti, supra mon-
stratum est, nec sunt diuersae differentiae accidentis ad cetera quam ceterorum
ad accidens. itaque fit, ut cum sit quinque rerum numerus, si prima
assumatur, quattuor fiant differentiae, si secunda, tres, uincanturque secundae
rei ad ceteras difte– rentiae a prima ad ceteras una tantum distantia; nam cum
prima habuerit quattuor, secunda retinet tres. tertia uero si sumatur, duas
habebit differentias, quae uincantur a primis quattuor differentiis
duabus; quarta si sumatur, unam habebit differentiam, quae uincitur a primis
quattuor differentiis tribus, quinta uero quoniam nullam omnino habebit
differentiam nouam, totis quattuor a prima differentiis superatur. atque hoc
nume- rorum gradu quidem usque ad denarium numerum tenditur : quattuor,
tres, duae, una, ut generis quidem quattuor, diffe- rentiae uero tres, speciei
duae, proprii una, | accidentis nullap p. 105 sit. et primae quidem
generis comparationes quattuor nouas tenent differentias, secundae uero
differentiae comparationes 1 uero om. EGR a EGLR
2 cum] quando R 5 cetera] extera Cm1 6 differret
H differet N 7 accidente CHN monstrauimus
H 8 ante diuersae add. plus R, s. l.
Lm2 10 ad prima s. l. ł una res Hm2
sumatur HN fient C 11 uincanturque] C (pr.
n om.) Lm1 (iungantur m2) N, m2 in HPR ( iungenturque
Rm1) , uincantur EGHm1Pm1 12 primis L 13 habuerat
C habeat Lm2NP retineat Lm2 14 diffe- rentias
habebit C uincuntur Lm1R 15 duabus (s. l.
E) differentiis EHN post duabus add. distantiis
GR post quarta add. nero R, s. l. autem Pm2
16 post tribus add. subdistantiis E
distantiis G 17 habet HL 18 primis brm hoc]
ex hoc HLN numeri HN 19 gradus HLm1N
quidam HN 20 post post. quattuor add. sint
CHm2L (del. m2) P sunt Hm1N 22 sit] Rbrm
est CEGLP, om. HN et om. EGR quidem s. l. Em2L,
post generis C 23 teneant HLm1NR tres nouas
tenent; una enim superius adnumerata est, uincitur autem a primis quattuor
nouis differentiis una tantum. speciei uero tertia comparatio duas tantum habet
differentias nouas, duas quippe superius adnumeratas agnoscimus, et uincitur
a quattuor primis duabus tantum differentiis nouis. proprium uero unam
retineat nouam, quoniam tres habet superius ad- numeratas, uincaturque a prima
nouis tribus differentiis, quinti uero accidentis comparationes quoniam nullam
retinent nouam differentiam, totis quattuor a primis generis
transcendantur. atque ad hunc modum ex uiginti differentiis secundum
numerum decem secundum dissimilitudinem contrahuntur. ut tamen has secundum
dissimilitudinem differentias non in quinario tan- tum numero, uerum in ceteris
notas habere possimus, talis dabitur regula quae plenam differentiarum
dissimilitudinem in qualibet numeri pluralitate reperiat. propositarum enim
rerum numero si unum dempseris atque id quod dempto uno relin- quitur, in totam
summam numeri multiplicaueris, eius quod ex multiplicatione factum est dimidium
coaequabitur ei plura- litati quam propositarum rerum differentiae continebunt.
sint igitur res quattuor A B C D; his aufero unum, fiunt tres; has igitur
quater multiplico, fient duodecim; horum dimidium 1 teneant
HLm1NR ten. post nouas CR adnumera
(tamen eat ) C uincitur autem] et uincatur HLm1 ( et
del., uincitur m2) N 2 nouis quattuor primis HN 4
adnumeratas om., in mg. enumeratas G uin- catur
Lm1 uincantur HN uincuntur C 6 ante
unam add. tantum L, post EGPR retinet Lm2Pm2
edd. 7 uincanturque N uincatur qua re EG uincitur
haec R uinciturque edd. quinta N 8
comparatio Lm2N retinet HLN, post nouam HN
9 primis] CLPH a.r. primi EGHp.r.NR
transcendentur Lm2 transcendatur N transgrediantur
C transcenduntur edd. 11 tamen er. uid. E
non G (etiam post diffe- rentias est non ) 13 uerum] uerum
etiam C ceteris quoque brm notas] Lm1N
notis CEGHm2 ( totas m1) Lm2PR 15 reperiat] pariat
Cm2Hm1N 17 post numeri add. si CHP
simul EG 18 ei om. EGN 19 sunt Lm1R 20
igitur] ergo CEN fiant LR 21 hos EGLPR post
igitur add. si N tres H per totam
summam R multiplica C multipli- cato E
fiunt HN fiant R post horum add. si
L teneo, sex erunt. tot igitur erunt differentiae inter se rebus
quattuor comparatis : A quippe ad B et C et D tres retinet differentias, rursus
B ad C et D duas, C uero ad D unam; quae iunctae senarium numerum complent.
atque hanc quidem regulam simpliciter ac sine demonstratione nunc dedisse
suffi- ciat, in Praedicamentorum uero expositione ratio quoque cur ita sit
explicabitur. Commune ergo differentiae et speciei est
aequaliter participari; homine enim aequaliter participant par- ticulares
homines et rationali differentia. commune uero est et semper adesse his quae
participant; sem- per enim Socrates rationalis et semper Socrates homo.
Dictum est saepius ea quae substantiam formant, nec remissione
contrahi nec intentione produci; uni cuique enim id quod est, unum atque idem
est. quodsi differentia spe- cierum substantiam monstret, species uero
indiuiduorum, aequa- liter utraque ab intentione et remissione seiuncta sunt;
quo 6 in Praedicamentorum expositione] p. 272 C. B—l3] Porph. p. 18,
10—14 (Boeth. p. 46, 10—14). 14 saepius] cf. infra. 1 teneo]
sumo N sumo tenens ( tenens del. m2) H si
(ex sumo m2) teneo L pr. erunt ante
sex N, s. l. Hm2 post. erunt ante igitur ( ergo
H) HL 2 detinet HN 4 complent numerum H 5 dedisse
nunc HN 8 DIFFERENTIAE ET SPECIEI] plerique codd. fort. ex 9
sumptum, om. Δ , SPECIEI ET DIFFERENTIAE Γ2Φ , r ecte ut
aid.; Porph. p. 18, 10 Περί τής κοινωνίας τής διαφοράς καί τοΰ
είδοος , cod. Μ Περί κοινών είδους καί διαφοράς 9
est add. Hm2 10 homine—parti- cipant (12) ] LR Q , om.
cett. homini R T a.c. hominem L \ 11 ratio- nalem
differentiam L \ , post differentia add. nam omnes homines
aequa- liter homines sunt et aequaliter rationales Σ 12 et
del. uid. Δ , om. Ψ his adesse LR <t>
post quae add. eorum ΓΔΠΦ 13 enim om. R
rationabilis CEGPR U Busse, add. est ΓΔΦ , s.
l. A m2 14 saepius i. e. p. 250, 24 ss. 314, 5 ss. ;
saepe de duobus locis etiam p. 293, 18 dictum; superius P,
fort. recte, cf. ad p. 317, 4. 337, 8 17 monstrat HLNP 18
utraeque CP seiunctae CGPR fit ut aequaliter participentur.
omnes enim indiuidui mortales aeque sunt atque rationales sicut homines. nam si
idem est ‘esse’ homini quod est ‘esse rationale’, cum omnes homines aeque sint
homines, necesse est ut sint aequaliter rationales. Aliud quoque commune habent
quoniam ita differentiae sui partici- pantia non relinquunt ut species.
semper enim Socrates rationalis est—Socrates enim rationabilitate participat —,
semper homo est, quia scilicet humanitate participat. ut igitur differentiae
sui participantia non relinquunt, ita species his quae ea parti- cipant, semper
adiuncta est. Proprium autem differentiae quidem est in eo
quod quale sit praedicari, speciei uero in eo quod quid est : nam et si homo
uelut qualitas accipiatur, non sim- 11— p. 327, 16] Porph. p. 18, 15—19,
3 (Boeth. p. 46, 15-47, 11). 1 mortales—sicut homines] (
sunt ex sint Lm2, add. homines Lm1, del.
m2, sunt del. Pm2; atque Lm1Pm2 et HLm2Pm1;
sicut del. et sunt scr. Pm2) HLP aeque mortales atque
rationabiles sunt ut homines C aeque (s. l. m2)
mortales (ex -lis m2) sunt atque rationabilis
(sic) sunt (part. ras. ex sicut m2) homines
E mortales sunt atque ( atque sint N) rationales sicut
homines NR mortalis atque rationabilis sicut homines G
2 nam—homines (4) om. N idem est] E ( est in mg.)
HR idẽ CL id est ( ẽ G) GP est del.
Lm2 3 esse post ration. EL, repetit. post ration.
P, om. CH rationali R rationalis Lm1
rationabile G rationa- bili E rationabilis Lm2P
5 ante commune add. est H habent om.
HR, s. l. EL ( n del. m2) differentia R 6
relinquit R relinquent Pm1 derelinquunt Lm1
rationabilis EG 7 rationabilitati CGP
rationalitate HN post semper add. enim G 8
quia ex qua Em2 humanitati EGLP
differentia HLNR 9 relinquit HLNR par- ticipent
E 11 SPECIEI ET DIFFERENTIAE ( DIFFERENTIIS E) ΕG ΤΖΦ , recte
ut uid. , DE PROPRIIS EORVM ( EORYNDEM Ψ ) Ρ Ψ ; Porph. p.
18, 15 Περί τής διαφοράς τού εϊδοος και τής διαφοράς , cod.
Μ Περί τών ιδίων ειδοος και διαφοράς 12 autem om. Η
uero C Q quod ex quid C 13 species
EGHNP uero om. H autem Busse eo quod] quo
Γ est] sit R 14 nam—generationem (p. 327, 15) ]
LR Q , om. cett. accipitur A m1 non] R ΓΔΈ
cum Porph. p. 18, 17 hic non L non hic A m2 H
Busse non sic Λ m1 Σ non homo Φ pliciter
erit qualitas, sed secundum id quod generi aduenientes differentiae eam
constituerunt. amplius differentia quidem in pluribus saepe speciebus con-
sideratur, quemadmodum quadrupes in pluribus ani- malibus specie
differentibus, species uero in solis his quae sub specie sunt indiuiduis est.
amplius diffe- rentia prima eat ab ea specie quae est secundum ipsam; simul
enim ablatura rationale interimit homi- nem, homo uero interemptus non aufert
rationale, cum sit deus. amplius differentia quidem componitur cum alia
differentia — rationale enim et mortale compositum est in substantia hominis —,
species uero speciei non componitur, ut gignat aliam aliquam speciem; qui- dam
enim | equus cuidam asino permiscetur ad muli p. 106
generationem, equus autem simpliciter asino num- quam conueniens
perficiet mulum. Expositis communitatibus quantum ad institutionem per-
tinebat differentiae et speciei, eorundem nunc dissimilitudines colligit dicens
quoniam differunt, quod species in eo quod quid sit praedicatur, differentia
uero in eo quod quale sit. huic differentiae poterat occurri. nam si humanitas
ipsa, quae species est, qualitas quaedam est, cur dicatur species in eo quod
quid sit praedicari, cum propter quandam suae naturae 1 sed] id
(del.) R 3 considerantur Δ 4 pluribus] Porph. p. 18,
20 πλείστων , cod. B πλειόνων 6 specie] una
specie R Γ ( sunt ante specie ) ΛΨ ; Porph.
p. 18, 21 άκο το είδος 7 prima ante
differentia Δ prior edd.fort· recte cum Porph.
κροτέρα; cf. p. 328, 32 superioris ab ea] et
Γ ab ea—ipsam] ab ea quae est secundum se specie 2 8
post ipsam add. differentiam Δ (del.
m2) Λ 10 deus] angelus LR ponitur Δ
12 sub- stantiam edd. cum Porph. p. 19, 1 εις οπδστοσιν
speciei] specie R 13 aliquam ante aliam T\A
, post speciem 2 14 equus] asinus Σ
asinae Φ equae Σ 15 equus] asinus 2
autem om. N enim C ΔΛ2 asinae Pm2 conueniens
numquam 2 16 mulum perficiet CEG perfici ad mulum
R 17 Positis N instructionem H 18 eorum L
earundem edd.; cf. indicem Meiseri s. neutrum 20 differentiae
C uero om. CGP autem R post sit add.
qua inter se differunt differentia et species Hm1, del. m2 21 huic]
nunc G differentia G 22 dicitur CLm2
praedicatur GR proprietatem quaedam qualitas esse uideatur?
huic respondemus, quia differentia solum qualitas est, humanitas uero non est
solum qualitas, sed tantum qualitate perficitur. differentia enim superueniens
generi speciem fecit; ergo genus quadam differentiae qualitate formatum est, ut
procederet in speciem, species uero ipsa, qualis quidem est, secundum
differentiam illius quae est pura ac simplex qualitas, qua scilicet perficitur
et conformatur, qualitas uero ipsa pura simplexque nullo modo est, sed ex
qualitatibus effecta substantia. itaque iure diffe- rentia, quae pure ac
simpliciter qualitas est, in eo quod quale est sciscitantibus
respondetur, species uero in eo quod quid sit, licet ipsa quoque quaedam
qualitas sit non simplex, sed aliis qualitatibus informata. Rursus illa quoque
differentia est, quia plures sub se species differentia continet, species uero
tantum indiuiduis praesunt. rationabilitas enim et hominem claudit et
deum, quadrupes equum, bouem, canem et cetera, homo uero solos indiuiduos.
atque in aliis speciebus eadem ratio est. idcirco enim definitiones quoque
secutae sunt, ut differentia uocaretur quod in pluribus specie differentibus in
eo quod quale sit praedicatur, species uero quod de pluribus numero
differentibus in eo quod quid sit praedicatur. Ideo etiam superioris naturae
sunt differentiae, quoniam continentes sunt specierum. nam si quis auferat
differentiam, speciem 1 respondebimus G 3 tantum om.
EG solum, s. l. ał tantum L 4 facit
CLN 5 formatum est s. l. Gm2 6 ad qualis s.
l. ł quali- tas Hm2 post quidem add. non
EGP (del. m2), in mg. Hm2 9 post sed s. l.
hec L iure itaque C 11 species—quid sit in mg.
Gm2 12 sit] est HN, add. iure respondetur CG (in mg.
m2) LP 13 rursum E, add. differentiae et speciei
C illa om. E ipsa CGP post quoque
add. his HN differentia est] differunt in ras. E est
om. P in hoc a specie distat G 15 uero om. CEGP
rationalitas HΝ 16 post quadrupes add.
enim P, s. l. Lm2 canem om. C camelum R 17
sola indiuidua Lm2R 19 pr. in] de Pm2 20
praedicetur HLN species—praedicatur om. E 21 praedicatur]
dicatur GHLPm1 22 post differentiae add.
quam species CLP speciebus N post quoniam
add. enim HLN 23 sunt ( erunt L) post
specierum EGL, ante conti- nentes R nam om. LR,
post quis s. l. enim Lm2 quoque sustulerit,
ut si quis auferat rationabilitatem, hominem deumque consumpserit, si uero
hominem tollat, rationabilitas manet in speciebus reliquis constituta. est
igitur differentiae specieique distantia quod una differentia plures species
con- tinere potest, species uero nullo modo. Alia rursus est differentia,
quoniam ex pluribus differentiis una saepe species iungitur, ex pluribus
speciobus nulla speciei substantia copu- latur. iunctis enim differentiis
mortali ac rationali factus est homo, iunctis uero speciebus nulla umquam
species infor- matur. quodsi quis occurrat dicens quoniam permixtus
asino- equus efficit mulum, non recte dixerit. indiuidua enim indi- uiduis
iuncta indiuidua rursus alia fortasse perficiunt, ipse uero equus simpliciter,
id est uniuersaliter, et asinus uniuer- saliter neque permisceri possunt neque
aliquid, si cogitatione misceantur, efficiunt, constat igitur
differentias quidem plurimas ad unius speciei substantiam conuenire, species
uero in alterius speciei naturam nullo modo posse congruere.
Differentia uero et proprium commune quidem habent aequaliter
participari ab his quae eorum par- ticipant; aequaliter enim rationalia
rationalia sunt et risibilia risibilia. et semper et omni adesse com-
18—p. 330, 4] Porph. p. 19, 4—9 (Boeth. p. 47, 12—19). 1
rationalitatem HN 2 aero] quis R rationalitas
HLa.c.N 3 est om. CEGP 4 specieqne R et species
C distant C distantia est EGP species]
significationes Em1 5 differentia est C 6 saepe
om. EGR post pluribus add. uero R 8 enim]
etiam Lm1 igitur Lm2Pm1 10 asinae HLm2 11
perficit GP 12 perficiant Lm1R 14 nec.. nec
C neque permisceri possunt om. EGR neque aliquid] non
aliquid EGR cogi- tatione si HN 18 COMMVNIBVS] d e
Porph. cf. ad p. 102, 7 20 par- ticipari] praedicari L ab
his—dicitur (p. 330, 2) ] LR Q , om. cett. ab om.
Σ , del. A m2 21 post enim s. l. quae T m2
rationalia rationalia] Tk m2 <t>W m2 edd. rationalia rationabilia
Π rationalia A2<V m1 rationabilia LR & m1
rationabilia rationabilia Busse sunt om. R, s. l. h
m2 22 et er. uid. Δ post. risibilia om. LR
\2 , post add. sunt codd., om. L cum Porph. p. 19, 6
mune utriusque est. si enim curtetur qui est bipes, sed ad id quod natum
est semper dicitur; nam et risibile in eo quod natum est habet id quod est
semper, sed non in eo quod semper rideat. Nunc differentiae
propriique communia continua ratione per- -sequitur. commune enim dicit
esse proprio ac differentiae quod aequaliter participantur — aeque enim omnes
homines rationa- biles sunt, aeque risibiles —, illud, quia substantiam
monstrat, istud, quia est aequum proprium speciei et subiectam speciem non
relinquit. Aliud etiam his commune subiungit : aequa- liter enim semper
differentia subiectis adest ut proprium; semper enim homines rationabiles sunt,
ut semper quoque risibiles. sed obici poterat non semper esse bipedem hominem,
cum sit bipes differentia, si unius pedis perfectione curtetur. quam tali modo
soluimus quaestionem. propria et differentiae non in eo quod semper
habeantur, sed in eo quod semper naturaliter haberi possunt, semper dicuntur
adesse subiectis. 1 utrisque ΓΛΣΦ si] sine R ΓΦ
qui est] quies R quidem L A post bipes add.
non substantiam ( substantia ΑΦ ) perimit (
perimitur Ψ ) L ΑΨ Busse (in adn. deleri mauult) , non substantia
perit ( peribit Σ ) ΓΠΣΦ p , om. Rbrm, Porph. p.
19, 8, Boeth. in comment. 2 sed] ta- men R ad id quod] ad
quod L AΠ (post est repet. ad id )
Σ Busse ad id ad quod Ψ , ad id post
est h m1 post est add. habet et id quod est L
A (del. m2) 2 , ‘fortasse id quod est recipiendum’
Russe : Porph. p. 19, 8 αλλά πρός το πεοοχένοι το (
το om. Μ) άει λέγεται nam -om. R 3 in eo]
eo EGLR A m1 ad C 72 id Ρ Π ad id
*F aliquod N habet id quod est semper] C ( id s.
l. m1?) L hA ( "habet—est del. m2), pro id
exhib. hoc H et id Σ , est om. N habet
semper Ρ Π habet EG semper dicitur ΓΦΨ , om.
R 4 sed—rideat] in om. C, in mg. Hm2, in quod semper
rideat EG non quod semper rideat R Ψ ; Porph. έπε'ι ναι
τό γελαστικόν τώ πεφυχέναι έχει τό αεί, άλλ' ο όχι τώ γελάν άει 6 enim]
autem Lm2P dicitur CEGR proprii C 7
rationales Cm2ELm2P 8 atque NR 9 istud] illud
EGHN (add. risibilis ) P aequum om. H aeque EG,
recte? propriae EGLPR et om. EG ac N
subiectam om. C subiectum EGPm1 10 reliquit
ELa.c. etiam his] hic etiam HN 11 subiectis s. l.
Gm2 12 rationales Cm2HN 15 ante propria
add. et HNP (del. m2), s. l. Lm2 propriae CEGPm2
proprii R et om. CE, del. Pm2 16 post in]
ex HN si enim quis curtetur pede, nihil attinet ad naturam,
sicut nihil ad detrahendum proprium ualet, si homo non rideat. haec enim non in
eo quod adsint, sed in eo quod per naturam adesse possint, semper adesse |
dicuntur. ipsum enim semper; p. 107 non actu esse dicimus,
sed natura. numquam enim fieri potest, ut per naturae ipsius proprietatem non
semper homo bipes sit, etiamsi potest fieri, ut pede curtetur, etiam si
deminuto pede sit natus; in his enim non speciei atque substantiae, sed
nascenti indiuiduo derogatur. Proprium autem differentiae
est quoniam haec qui- dem de pluribus speciebus dicitur saepe, ut rationale de
homine et de deo, proprium uero de una sola spe- cie, cuius est proprium. et
differentia quidem illis est consequens quorum est differentia, sed non
con- uertitur, propria uero conuersim praedicantur quorum sunt propria, idcirco
quoniam conuertuntur. Distat a proprio differentia, quia
differentia plurimas species 10—17] Porph. p. 19, 10—15 (Boeth. p. 48,
1—7). 1 curtetur quis N nil C attinet
s. l. Lm2, post naturam R 2 ad om. EG ualet
om. EGR 3 pr. in om. CEH, s. l. Lm2Pm2 , ab Gm1,
del. m2 post. in om. EGNP, s. l. Lm2 4 possunt HN
dicuntur semper adesse R 5 actum... naturam E
umquam Ea.c.G 7 potest om. EG, post fieri L ,
postea (om. fieri ut ) HN pede] HLm1N ambo
pede Em1GR utroque pede Em2Lm2P; ambobus curtetur pedi-
bus C ante etiam (om. C) add. uel CL (s. l. m2)
R diminuto CEGLPR 8 pede om. C sit natus]
nascatur C 10 de inscript. ap. Porphyr. cf. ad p. 105,
16 11 autem] uero Δ quoniam] quod ΓΦ 12 saepe—
conuertitur (15) ] LR Q , om. cett. saepe om. Lm1R,
ante dicitur Lm22 ; Porph. p. 19, 11 λέγεται
πολλά*ις rationabile R 13 post , de] A ,
om. cett.; cf. Porph. p. 19, 12 et infra p. 332, 3 deo] ii
angelo R deo et angelo L; cf. Porph. p. 19, 12 adn.
ante proprium add. et Δ uero om. R de
una] L 4 m2 4' in una R ΓΔ m1 ΠΣ una Φ ;
Porph. έφ’ ένός post specie add.
dicitur Δ 16 post praedicantur add. de his
Δ (s. l. m2) edd. ex his Σ hiis Φ ,
om. Porph. p. 19, 14 18 post. diffe- rentia om. C
plurimis R plures L pluribus EG speciebus
Em2GR claudit ac de his omnibus praedicatur, proprium uero uni
tantum speciei cui iungitur adaequatur. rationale enim de homine atque de deo,
quadrupes de equo et ceteris animalibus, risibile uero unam tantum tenet
speciem, id est hominem. unde fit ut differentia semper speciem consequatur,
species uero differentiam minime. proprium uero ac species alternis sese
uicibus aequa praedicatione comitantur. sequi uero dicitur, quotiens quolibet
prius nominato posterius reliquum conuenit nuncupari, ut si dicam ‘omnis homo
rationabilis est’, prius hominem, posterius apposui differentiam; sequitur ergo
dif- ferentia speciem. at si conuertam nomina dicamque ‘omne rationabile
homo est’, propositio non tenet ueritatem; igitur species differentiam nulla
ratione comitatur. proprium uero et species quia conuerti possunt, mutuo se
secuntur : omnis homo risibilis est et omne risibile homo est.
Differentiae autem et accidenti commune quidem est de pluribus dici,
commune uero ad ea quae sunt 16—p. 333, 3] Porph. p. 19, 16—19 (Boeth. p.
48, 8—12). 1 clauditur EGRm2 claude his (sic)
ml 2 cui iungitur] coniungitur Lm1N, add. et L
rationabile CGLPR 3 pr. de om. CH, er. L
post deo add. praedicatur R, s. l. Lm2 post
quadrupes add. uero R et ceteris] ceteris E
ceterisqne GP 6 ac] et E 7 aeque G R ( -(??)e )
comitentur HN comitatur ex commitetur Rm2
sequi] si quid EGPm1 8 quotiens om. EG, s. 1. Pm2 qualibet
re ( re s. l. Pm2) prius nominata HLNPm2R
reliquam HLm2NPm2 reliqua Lm1Rm2 uero qua
m1 9 rationalis Cm2HN est om. N 10
posterius ex prius Em2 opposui EG
posui Lm1R ergo] enim E 11 at] et Hm1
nomina] ut (in ras. Lm2) prius differentiam nominem HNP, in
mg. Lm2 12 rationale HN propositi CG proposita
oratio in ras. E 13 nulla ratione differentiam C
proprium—secantur in mg. sup. Hm2 14 sequuntur PRm2
sequntur E ante omnis add. ut L, post add.
enim HNP 15 et om. EG, s. l. Lm2 est om. R
16 ACCI- DENTIS ET DIFFERENTIAE E ΕΤ] uel P
ACCIDENTI C de in- script. ap. Porphyr. cf. ad p. 102, 7 17
accidentis Cm2 il commune— adesse om. N 18 post
uero add. est Ρ ΑΠ Busse, om. Porph. p. 19, 18
inseparabilia accidentia, semper et omnibus adesse; bipes enim semper
adest omnibus coruis et nigrum esse similiter. Duo quidem
differentiae et accidentis communia proponit, quorum unum separabilibus
et inseparabilibus accidentibus cum differentia commune est, ab altero uero
separabile acci- dens segregatur. tantum uero inseparabile secundo communi
concluditur. est enim commune differentiae cum omnibus acci- dentibus de
pluribus praedicari; nam et separabilia et inse- parabilia accidentia
sicut differentia de pluribus speciebus et indiuiduis praedicantur, ut bipes de
coruo atque cygno et de his indiuiduis quae sub coruo et cygno sunt,
nuncupatur. item de eodem coruo atque cygno album et nigrum, quae sunt
inseparabilia accidentia, praedicantur. ambulare enim uel stare, dormire
ac uigilare de eisdem dicimus, quae sunt acci- dentia separabilia, reliqua uero
communitas ea tantum acci- dentia uidetur includere quae sunt inseparabilia.
nam sicut differentia somper subiectis speciebus adhaerescit, ita etiam
inseparabilia accidentia numquam uidentur deserere subiectum. ut enim
bipes, quod est differentia, numquam coruorum spe- ciem derelinquit, ita nec
nigrum, quod accidens inseparabile est. differentia enim idcirco non relinquit
subiectum, quoniam eius substantiam complet ac perficit, accidens uero
huiusmodi, 1 post semper add. in eodem
genere P omni R; Porph. p. 19, 18 παντί
post omnibus add. hominibus et L hominibus
Λ (del. m2) 2 nigrum esse] ΓΛ»ηίΨ nigris (
nigros Hm2) esse EGHm1 nigredo esse L
nigrum adest \A m2 nigrum CNΡR ΙΙΣΦ Russe; Porph. p.
19, 19 τότε μέλαν είναι (sic Μ, μέλασιν
είναι Βm2 μέλαν eett.) 4 quaedam HΝ et]
atque ΗΝ 5 sepa- rabilibus om. G, s. l. Em2 6 uero]
autem E 7 uero] enim R, recte? post inseparabile
add. accidens L accidens cum inseparabilibus differentiis in
mg. Hm2 secunda communione HLP 10 differentiae CEGLm2P
11 et de his—cygno om. H, —cygno sunt om. EGR 12
nuncupantur G praedicatur uel nuncupatur C 14 praedicantur—separabilia
(16) om. N enim s. l. C etiam H 15 isdem
CPm2 hisdem ER dicitur LP 17 post
inseparabilia add. accidentia C 19 accidentia
inseparabilia HN de- serere uidentur C 20 corui
N 21 est inseparabile C 22 subiectum non relinquit
C derelinquit Lm1 23 post huiusmodi
add. est edd. quia non potest separari; neque enim
possit esse accidens inseparabile, si subiectum aliquando relinquit.
Differunt autem quoniam differentia quidem con- tinet et non
continetur — continet enim rationabi- litas hominem —, accidentia uero
quodam quidem modo continent eo quod in pluribus sunt, quodam uero modo
continentur eo quod non unius accidentis sus- ceptibilia sunt subiecta, sed
plurimorum, et differen- tia quidem inintentibilis est et inremissibilis,
acci- dentia uero magis et minus recipiunt. et inpermixtae quidem sunt
contrariae differentiae, mixta uero con- traria accidentia.
Huiusmodi quidem communiones et proprietates dif- ferentiae et ceterorum sunt,
species uero quo quidem p. 108 differat a genere et differen|tia, dictum
est in eo quod dicebamus, quo genus differret a ceteris et quo dif- ferentia
differret a ceteris. Post differentiae et accidentis redditas
communitates nunc de eorum differentiis tractat. ac primum quidem talem
proponit. 3—18] Porph. p. 19, 20—20, 10 (Boeth. p. 48, 13—49, 4).
1 post. posset Lm1 potest HLm2NPR
post accidens repet. esse G , 3 uel 4 litt.
er. L 2 reliquerit H relinqueret N 3 ACCIDENTIS
ET DIFFERENTIAE Γ EARVNDEM C EORYNDEM E de inscript.
ap. Poiphyr. ef. ad p. 105, 16 4 Different Cm1 Differt L
ΣΐΑηιΐ m1 Φ post autem add. differentia ab
accidenti Γ 5 et om. GHP continet— sunt (15)
] LR il , om. cett. enim] autem L rationalitas ΓΑ
a.c. Π2ΦΨ 6 quidem om. Δ2 7 sint L ΓΔΛΠΦ»ιί
m1 | ·uero post modo Ψ , del. ΓΦ
(ut uid.) 9 sint A 10 intentibilis ΓΣ
Busse inintensibilis edd.; Porph. p. 20, 4
άνεπίτατος; ef. Roensch, Collect. phil. p. 299 12 post
uero add. sunt ΛΦ 14 Huiuscemodi Δ 15
quod EGR quidem om. 2 quidam
Em2G 16 a om. EGH 2 differentiae E est om.
C 17 quo] quod R A m1 differet R differt
CEGP 2 a om. ΕGΗΡR ΤΠ,ΣΦ quod EGR is m1 18
differet R differat L A differt G 2 a
om. EGHR TWZ 19 reddit has E communicantes Rm1
communiones m2 20 primam HN quidem om. HN
tale C differentia, inquit, omnis speciem continet.
rationabilitas enim continet hominem, quoniam plus rationabilitas quam species,
id est homo, praedicatur : supergressa enim substantiam hominis in deum usque
diffunditur. accidentia uero aliquando quidem continent, aliquando
continentur. continent quidem, quia quodlibet unum accidens speciebus adesse
pluribus con- sueuit, ut album cygno et lapidi, nigrum coruo, Aethiopi atque
hebeno, continentur uero, quoniam plura accidentia uni accidunt speciei, ut
uideatur illa species plurima accidentia continere. cum enim Aethiopi
accidit ut sit niger, accidit ut sit simus, ut crispus, quae cuncta sunt
accidentia Aethiopis, species, quod est homo, omnia quae habet intra se plurima
accidentia uidetur includere. huic occurri potest : quoniam differentiae quoque
aliquo modo continentur, aliquo modo continent, ut rationabilitas
continet hominem—plus enim quam de homine praedicatur —, continetur quoque ab
homine, quia non solum hanc differentiam homo continet, uerum etiam mortalem.
re- spondebimus : omnia quaecumque substantialiter de pluribus praedicantur, ab
his de quibus dicuntur non poterunt conti- neri; quo fit ut differentiae
quidem non contineantur ab specie, etsi sint differentiae plures quae speciem
forment. accidentia uero continentur, quoniam accidentia speciei substantiam
nulla praedicatione constituunt; nam nec proprie uniuersalia dicuntur 1
omnis speciem] species R rationalitas HNP 2
rationalitas HNP 3 substantia N 4 aliquando—aliquando]
aliquo modo quid N 7 ante lapidi s. l.
pario Em2 post nigrum add. ut CEGLP, ante edd.
ante Aethiopi add. et E 8 continentur uero]
HLm2NP continentur- que cett. 9 plura HN 10 enim]
etenim N ad simus s. l. naribus pressis E
12 ex quod part. ras. quae Cm2 quod est]
quidẽ G ante intra add. et E plurima om.
EGH 13 occurri] opponi HN 14 pr. aliquo modo]
aliquando EGLm2P post. aliquo modo om. N aliquando
Em2Lm2P 15 rationalitas H 17 homo] nomen hominis HN
mortale edd. respondemus HN respondebimus contra
haec GLPR 18 praedicantur de pluribus C 20 a
R 21 sunt H differentiae om. HN speciem
forment] CEGP speciem formant Lm(??) ( informent m2
hrm) N formant speciem H informant speciem R 22
con- tineantur HN 23 ad constituunt in mg. ał
subsistunt Hm2 accidentia, cum de speciebus pluribus
dicuntur, differentiae uero maxime. quae enim quorumlibet uniuersalia sunt, ea
neoesee est eorum quorum sunt uniuersalia, etiam substantiam continere. qno fit
ut quia differentiae substantiam monstrant, intentione ac remissione careant —
una enim quaeque substantia neque contrahi neque remitti potest —, at
uero accidentia quoniam nullam constitutionem substantiae profitentur,
intentione cre- scunt et remissione decrescunt. Illa quoque eorum est dif-
ferentia, quod differentiae contrariae permisceri, ut ex his fiat aliquid, non
queunt, accidentia uero contraria miscentur et quaedam medietas ex
alterutra contrarietate coniungitur. ex rationabili enim et inrationabili nihil
in unum iungi potest, ex albo uero et nigro coniunctis fit aliquis medius
color. Expositis igitur distantiis differentiae ad cetera restat
de specie dicere, cuius quidem differentias ad genus ante colle- gimus,
cum generis ad speciem differentias dicebamus. eiusdem etiam speciei distantias
ad differentiam diximus, cum differentiae ad species dissimilitudines
monstrabamus. restat igitur speciem proprii et accidentium communioni
coniungere, tum differentia segregare. Speciei autem et proprii
commune est de se intri- cem praedicari; nam si homo, risibile est, et si
risi- 21—p. 337, 4] Porph. p. 20, 11—15 (Boeth. p. 49, 5—10).
1 pluribus speciebus HN 2 maximae EH, add.
dicuntur uniuersalia et ( et om. R) proprie Lm2 (in
mg.) R 4 ut om. CG, s. l. Lm2 5 una quaeque enim HNR 6
quoniam] quia E 7 profitentur] monstrant R ante
intentione add. et HN 9 his] se C 10
misceantur N permiscen- tur R et] ut C 11
coniunguntur LN fiat C 12 rationali C ( bi
s. l. er.) HN inrationali HN in unum] L in
om. cett.; cf. indicem Meiseri s. unus 13 post color s. l. ut
uenetns Pm2 15 ad genus— differentias om. EG 16
dicebamus] diximus EGP 17 diximus] dice- bamus C 19
proprio HLm1NP accidenti Lm1 accidenti tum
HPm2 accidentique (om. et ) N communione
HLm1NP tunc R 20 disgre- gare N 21 de
inscript. ap. Porph. cf. ad p. 102, 7 23 nam—dictum est (p. 337, 4)
] LR Q , om. cett. post homo add. est ΔΣ ,
s. l. A m2 et si] ΔΕΈ et L ΓΛΠΦ ita
et R post risibile add. est ΔΣΨ bile,
homo est – risibile uero quoniam secundum id quod natum est sumi oportet, saepe
iam dictum est —; aequaliter enim sunt species his quae eorum partici- pant et
propria quorum sunt propria. Commune, inquit, habent propria atque
species ad se ipsa praedicationes habere conuersas. nam sicut species de
proprio, ita proprium de specie praedicatur; namque ut est homo risi- bilis,
ita risibile homo est; idque iam saepius dictum esse commemorat. cuius
communitatis rationem subdidit, eam scilicet, quia aequaliter species
indiuiduis participantur, sicut eadem propria his quorum sunt propria. quae
ratio non uidetur ad conuersionem praedicationis accommoda, sed potius ad illam
aliam similitudinem, quia sicut species aequaliter indiuiduis participantur,
ita etiam propria; aeque enim Socrates et Plato homines sunt, sicut etiam
risibiles. itaque tamquam aliam communionem debemus accipere quod est additum :
aequaliter enim sunt species his quae eorum participant et pro- pria quorum
sunt propria. an magis intellegendum est hoc modo dictum, tamquam si diceret
‘aequalia enim sunt species et propria’? nam quia species eorum sunt
species quae spe- ciebus ipsis participant, et propria eorum propria
quae|pro- p.109 priis participant, proprium atque species
aequaliter utrisque sunt, id est neque species superuadit ea quae specie
parti- 8 saepius] cf. infra. 1 est om. R ante
secundum add. et A (s. l.) Busse, om. Porph. p.
20, 13 id om. J! 2 natum] Porph. p. 20,
14 κατά τό πεοοχέναι γελάν sumi oportet] LR
dicitur Q ; Porph. ληπτεον 3 sunt om.
Φ , post spe- cies P earum R, ex
eorum ut uid. 5 m2 7 ita—est homo in mg. Hm2
praedicamus EGHm2P p.c.R namque om. N nam R
8 ita homo risibile est E ita est risibile homo R iam]
etiam C saepius] HN superius cett. (recte?);
cf. saepe 2, et ad p. 317, 4. 325, 14 10 qua CGLP
eadem] eodem modo E 11 ratio] puto Em2 12 accommo-
data edd. 13 qua CGEm1P ante indiuiduis
add. ab HNR, s. l. Lm2 14 participatur H 18
ac Lp,c.Pm2 est om. C 19 aequa- liter N 20
post propria add. quorum sunt propria C 21 et
propria— atque species] atque proprium species N 23
post. speciei EGLP cipant, neque propria superuadunt ea
quae propriis participant. cumque haec propria specierum sint. propria, species
ac pro- pria aequalia esse necesse est atque inuicem praedicari.
Differt autem species a proprio, quoniam species quidem potest et aliis
genus esse, proprium uero et aliarum specierum esse inpossibile est. et species
quidem ante subsistit quam proprium, proprium uero postea fit in specie;
oportet enim hominem esse, ut sit risibile. amplius species quidem semper actu
adest subiecto, proprium uero aliquando potestate; homo enim semper actu
est Socrates, non uero semper ridet, quamuis sit natus semper risibilis.
amplius quorum termini differentes, et ipsa sunt differentia; est autem speciei
quidem sub genere esse et de plu- 4—p. 339, 3] Porph. p. 20, 16—21, 3
(Boeth. p. 49, 11—50, 2). 14 quorum—differentia] Abaelardus II, Introduct. ad
theolog. p. 94; Theo- log. christ. p. 488; De unit, et trinit. diuina p. 58
Stoelzle. 1 nec CELN 2 haec om. LN, del. uid.
E sunt EHa.c.N, add. et CE (del.) GH (del.) P (del.
m2) propriis (post sint ) E (del.) G proprii
Ha.c. 4 DE PROPRIETATIBVS Δ DE DIFFERENTIA C; de Porph.
cf. ad p. 105, 16 5 a om. GHLNR, s. l. Pm2 il m2 6 et
om R SΣ ; Porph. p. 20, 17 cod. BM χαί proprium—praedicari
(p. 339, 2) ] LR Q , om. cett. et om. Porph. 9
post R Σ post enim add. ante L
ut] Porph. p. 20, 20 Ινα xai ( Voti om. cod.
M) ut sit s. l. \ m2 11 potestate] Porph. p. 20,
21 xol δονάμε: 12 enim] uero L est om. R
non uero semper] ΔΛΠΨ edd. Busse non semper autem
Γ2Φ semper autem non LR; Porph. p. 20, 22 γελά δέ oix
αεί ; cf. infra p. 340, 4 13 quamquam (uel quan-
) L ΓΦ natura in ras. A m2 14 termini]
definitiones (uel diff- ) LR ΓΦ , ad termini s.
l. ł diffinitiones \ m2 differentes] ΓΑ differentes
sunt Δ»ιίΠ2Φ differunt LR s m2 ii} ; Porph. p. 20, 23
ων οί οροί διάφοροι ; quo- rum termini, id est diffinitiones ( id
est diff. om. p. 94) sunt differentes ( sunt
differentiae p. 488) , ipsa quoque sunt differentia Abaelard.
15 spe- cies R, post speciei s. l. diffinicio A
m2 quidem] R T\ m2 (in ras.) Ψ brm Busse in adn.,
semper \ m1 (ut uid.) All/ p Busse in contextu , esse semper
L quidam terminus Σ ; quidem sub genere semper esse Φ
ante sub add. et L A Busse; Porph.
εατιν δέ ειδοος uev το οπδ τό γένος είνα: ribus et
differentibus numero in eo quod quid est praedicari et cetera huiusmodi,
proprii uero quod est soli et semper et omni adesse. Primam
proprii et speciei differentiam dicit quoniam species potest aliquando in
alias species deriuari, id est potest esse genus, ut animal, cum sit species
animati, potest esse hominis genus. sed nunc non de his speciebus loquitur quae
sunt specialissimae, atque hunc confundere uidetur errorem, quod cum de his
speciebus dicere proposuerit quae essent ultimae, nunc de his quae sunt
subalternae et saepe locum generis optineant disserit. propria uero nullo modo
esse genera possunt, quoniam specialissimis adaequantur; quae quoniam genera
esse non queunt, nec propria quae sibi sunt aequalia, genera esse permittuntur.
Rursus species semper ante subsistit quam proprium—nisi enim sit homo,
risibile esse non poterit —, et cum ista simul sint, tamen substantiae
cogitatio praecedit proprii rationem. omne enim proprium in accidentis genere
collocatur, eo uero differt ab accidenti, quia circa omnem solam quamlibet unam
speciem uim propriae praedicationis continet. quodsi pviores sunt
substantiae quam accidentia, species uero substantia est, proprium uero
accidens, non est dubium quin prior sit species, proprium uero posterius. Dis-
1 est] sit 2 edd.; cf. p. 340, 13. 341, 22 2
praedicari] Porph. p. 21, 2 ■κατηγορούμενον είναι post
huiusmodi add. praedicari I m1, del. m2 pro- prium
R quod est om. ΓΦΨ , del. \ m2;Porph. τό
μονω προοείνα;. 3 soli et omni et semper Λ semper et soli et
omni 2 scilicet semper et omni Gm1, ante scilicet
in mg. sali et semper m2 4 ad dicit s.
l. dicunt Έ 5 diriuari EGNPR 7 specialissimae
sunt H 8 hunc s. l. L nunc N hinc
C hic Em2 uidetur confundere C 9 essent]
sunt L 11 genera s. l. Lm2, ante esse HRS
13 non queunt] nequeunt L non pos- sunt NR 14
permiitunt C ( ur er.) N species—subsistit] species est
semper ante C 15 homo sit LPR 16 ista] ita
CLa.c. 18 uero] Brandt enim codd. edd.
accidente CNR quia] quod L 19 speciem om. H
propriae del. Lm2 20 post continet add.
accidens autem quando continet, ad multas species potest diffundi EL. (in
mg. inf. m2) Pbrm 21 accidens—proprium uero om. R 22 uero
om. EG, s. l. Pm2 Decernuntur GHLP Disterminantur
E cernuntur etiam species a propriis actus potestatisque natura;
species enim actu semper indiuiduis adest, propria uero ali- quotiens actu,
potestate autem semper. Socrates enim et Plato actu sunt homines, non uero
semper actu rident, sed risibiles esse dicuntur, quia tametsi non rideant,
ridere tamen poterunt. natura itaque species et proprium semper subiectis
adest, sed actu species, proprium uero non semper actu, uelut dictum est. At
rursus quoniam definitio substantiam monstrat, quorum diuersae sunt
definitiones, diuersas necesse est esse substantias; speciei uero et proprii
diuersae sunt definitio- nes, diuersae sunt igitur substantiae. est autem
speciei definitio esse sub genere et de pluribus numero differentibus in eo
quod quid sit praedicari; quam superius frequenter expositam nunc iterare non
opus est. proprium uero non ita : definitur : proprium est quod uni et omni et
semper speciei adest. quodsi definitiones diuersae sunt, non est dubium
spe- ciem ac proprium secundum naturae suae terminos discrepare.
Speciei uero et accidentis commune quidem est de pluribus praedicari;
rarae uero aliae sunt communi-20 18—p. 341, 2] Porph. p. 21, 4-7 (Boeth.
p. 50, 3—6). 1 species om. EHP, s. l. Lm2, ante
etiam G a propriis in ras. Lm2, a (om. R)
proprio Pm2R actu CHLm1N 2 post uero
add. non semper ( actu s. l. add. Lm2) sed EGLPR
3 actu om. EG, del. R, s. l. Lm2 autem semper om. EGR
4 ante sunt add. semper N 5 quia om.
HN, s. l. Lm2 tametsi] etiamsi C potuerunt N pos-
sunt R non (del. E) poterunt EG 6
ante species add. e(??) R, ras. L ad- est]
adsunt H 7 uelut] ut NR 9 diuersas—definitiones
(10) om. N 11 igitur—speciei] substantiae igitur. est speciei autem
H substantiae— de pluribus in mg. inf. Gm2 speciei definitio]
diffinitio speciei spe- cies C 12 sub genere esse HΝ 14
opus non H ita definitur, om. non Hbrm, er.
E; ita, <sed> definitur Brandt, cf. p. 347, 4 15 spe-
ciei om. H 18 de inscript. ap. Porph. cf. ad p. 102, 7
19 uero] autem H est quidem C 20 sunt aliae
HRT tates propterea, quoniam quam plurimum a se distant accidens et
id cui accidit. Speciei atque accidentis similitudinem communem
dicit de pluribus praedicari; de pluribus enim dicitur species, sicut et
accidens. raras uero dicit esse alias eorum communiones idcirco, quoniam longe
diuersum est id quod accidit et cui accidit. cui enim accidit, subiectum est
atque suppositum, quod uero accidit, superpositum est atque aduenientis
naturae. item quod supponitur substantia est, quod uero uelut accidens
praedicatur, extrinsecus uenit. quae omnia multam eius quod est subiectum et
eius quod est accidens differentiam faciunt. tamen inueniri etiam aliae possunt
speciei et accidentis inse- parabilis communitates, ut semper adesse subiectis
— aeque enim homo singulis hominibus | semper adest et inseparabilia p.
110 accidentia singulis indiuiduis praesto sunt —, et quod sicut
spe- cies de his quae indiuidua continet, aeque de pluribus accidentia
indiuiduis praedicantur; nam homo de Socrate et Platone, nigrum uero atque
album de pluribus coruis et cygnis quibus accidit nuncupatur.
Propria uero utriusque sunt, speciei quidem in eo quod quid est
praedicari de his quorum est species, 20—p. 342, 15] Porph. p. 21, 8—19
(Boeth. p. 50, 7—20). 1 quam om. ΗL ΣΑΛ'Ψ (recte?), s.
l. Π m2 , quem R qui (ut uid.) N; Porph. p. 21,
6 itXststov distant ante a se Δ
(s. l. m2) A , a se om. N 2 ante
accidens add. et Γ id om. 12 , s. l.
Pm2 , hoc Σ ; Porph. p. 21, 7 *a\ το m οομβέβηχβν
accidunt Em1P 3 atque] et HL accidens Έ
dicit om. E, s. l. Lm2Pm2 de s. l. Lm2 5 dicit
alias, post er. esse uid. C 7 atque] et H 8
est om. EGHP adueniens EPm1 accidentis N 11
et eius] eius est E 12 possunt) sunt E insepa-
rabiles Cm1GP 13 subiectis semper adesse HN post
adesse add. possunt E 15 sicut] L (s. l. m2)
Rbrm, om. cett. codd. p 16 conti- nent H ante
accidentia add. ut CH 17 praedicatur G
et om. EGHPR 20 ET om. R de inscript. ap. Porph. cf. ad p.
105, 16 21 in] et C 22 est] sunt Hm1 sit Σ
praedicare EGm1P , praedi- catur 2 de his om.
Σ hiis Φ quorum—in eo] in eo accidentis autem quorum
est species Φ accidentis autem in eo quod quale quiddam est
uel aliquo modo se habens; et unam quamque substantiam una quidem specie
participare, pluribus autem acci- dentibus et separabilibus et inseparabilibus;
et spe- cies quidem ante subintellegi quam accidentia, uel si sint
inseparabilia — oportet enim esse subiectum, ut illi aliquid accidat —,
accidentia uero posterioris generis sunt et aduenticiae naturae. et speciei
quidem participatio aequaliter est, accidentis uero, uel si inseparabile sit,
non aequaliter; Aethiops enim alio Aethiope habebit colorem uel intentum
amplius uel remissum secundum nigredinem. Restat igitur de proprio
et accidenti dicere; quo enim proprium ab specie et differentia et genere
differt, dictum est. Quod nunc proprium speciei et accidentis se
exequi polli- cetur, tale proprium intellegendum est quod, ut superius dictum
est, ad comparationem dicitur differentium rerum. species enim in eo quod quid
est praedicatur, accidens uero in eo quod quale est. qua differentia non ab
accidentibus solis species 2 unam quamque—4 inseparabilibus] Abaelardns
II, Introduci. ad theolog. p. 89; Theolog. christ. p. 479. 17 superius] p. 297,
9. 301, 5. 1 quale] quale est N quidem CEm1
quidam m2 uel—habens om. CEGHN 2 aliquo modo]
quomodo ΓΦ ; Porph. p. 21, 10 πώς ; cf. supra
p.128, 10 adn. et—nigredinem (12) ] LR Q , om. cett. 3
unam R qui- dem om. Abaelard. participari L ΓΔΣ
a.c. Φ praedicari \ m1 autem] uero L Abaelard. 4
tert. et om. Γ 5 post quidem add.
sane L ΓΛ (s. l. m2) ΙIΣΦ Busse, om. R ΛΨ cum
Porph. p. 21, 12 post subintel- legi add. potest
Lpr possunt bm; Porph. w\ τά piv είδη
προεπινοεΐται uel om. Φ ad uel
si s. l. etiamsi K m2 6 inseparabilibus R 8
generis om. R aduentiuae R 9 aequalis Λ
accidens L T m1 A m1 10 alio Aethiope] Porph. p. 21, 16
ΑίίΚοπος 13 accidente HNR ΔΣ , ante er. de
P 14 enim] etiam H a] cod. Q Bussii (om. cett.) edd. (cf.p.
344, 9), ab scr. Brandt speciei Ca.r.EGR et
om. CEGHPR differen- tiae GR 15 differt om. L
differat ΦΣ distat R est dictum H, add. in
illorum differentiis ad ipsum 2 18 dicatur R 20
est om. GP, post add. praedicatur H discernitur,
uerum etiam a differentiis ac propriis, nec solum species ab eisdem, uerum
etiam genus. praeterea quod species in eo quod quid est praedicatur, accidens
uero in eo quod quomodo sese habeat, id quoque commune est cum genere;
genus quippe ab accidenti in eo quod quid est et quomodo se habeat
praedicatione diuiditur. Item unam quamque substantiam una uidetur species
continere, ut Socratem homo, atque ideo Socrati una tantum propinquitas est
species hominis. rursus indiuiduo equo una species equi est proxima,
itemque in ceteris; uni cuique enim substantiae una species praeest. at
uero uni cuique substantiae non unum accidens iungitur; uni cuique enim
substantiae plura semper accidentia super- ueniunt, ut Socrati quod caluus,
quod simus, quod glaucus, quod propenso uentre, et in aliis quidem substantiis
de numero accidentium idem conuenit. Dehinc semper ante accidentia
species intelleguntur. nisi enim sit homo cui accidat aliquid, accidens esse
non poterit, et nisi sit quaelibet substantia cui accidens possit adiungi,
accidens non erit. omnis autem sub- stantia propria specie continetur. recte
igitur prius species, accidentia uero posterius intelleguntur;
posterioris enim sunt, ut ait, generis et aduenticiae naturae. nam quae
substantiam non informant, recte aduenticiae naturae esse dicuntur et
posterioris generis; his enim substantiis adsunt quae ante dif- ferentiis
informatae sunt. Rursus quoniam species substantiam 1 decernitur
Rm2 ac s. l. Lm2 a EGH et a P 3
praedicatur post species H quod om. E, s. l.
Gm2 4 se EP habet LR id—habeat (6) om.
R est commune H post est add. speciei
L (s. l. m2) brm 5 accidenti] edd.
accidente codd. quod om. E 8 propinquitate
EPm1 propinqua L species est LR 9 est equi
H item H 10 una—substantiae in mg. Hm2 13 quod
simus om. C 15 accidentium ex accommodantium Hm2
post conuenit add. dicere R ante om. C 16
accidit CHLNPR, recte? 18 autem del. Lm2 enim
P 20 uero om. R, in mg. Lm2 posterius] postremo R
enim] uero CE 21 generis ut ait CR nam quae] nam
Rm1 namque EG nam quia CN 22 ante
recte add. ideo EGL (s. l. m2) P (del. m2) esse
om. H monstrat, substantia uero, ut dictum est, intentione ac
remis- sione caret, speciei participatio intentionem remissionemque non
suscipit. accidens uero uel si inseparabile sit, potest inten- tionis
remissionisque cremento et detrimento uariari, ut ipsum inseparabile accidens
quod Aethiopibus inest, nigredo. potest enim quibusdam talis adesse, ut
sit fuscis proxima, aliis uero talis, ut sit nigerrima. Restat
nunc proprii communiones ac differentias persequi. sed quo proprium differat a
genere uel specie uel differentia. superius demonstratum est, cum quid genus
uel species uel differentia a proprio distaret ostendimus. nunc reliqua
ad com- munitatem uel differentiam consideratio est, quid proprium accidentibus
aut iungat aut segreget. Commune autem proprii et
inseparabilis accidentis est quod praeter ea numquam constant illa in
quibus considerantur; quemadmodum enim praeter risibile non subsistit homo, ita
nec praeter nigredinem sub- 14—p. 345, 2] Porph. p. 21, 20-22, 3 (Boeth.
p, 51. 1—6). 1 demonstrat H ac] et H 2
remissionemque] ac remissionem H 3 si s. l. CLm2 4
in (del. m2) incremento H decremento R edd.
uti R ita E 5 ante nigredo add.
ut Hm1N id est s. l. Hm2 6 fu- scis] La.c.
edd. fuscus Lp.c. et cett. aliis uero] edd. uero
aliis codd. ( uero s. l. Lm2) 8 post
proprii add. et accidentis N ac] ad EGLm1 9
quo] Cm2 (part. ras. corr.) quod Cm1EGLm1NPR quid
HLm2; cf. p. 342, 13 10 quid] quod N quicquid E
uel differentia uel species H 11 a s. l. Lm2 12 uel]
et N quod E quae Hm2LR 13 iungit
EGHm1LPm1R segregat LPR separet N 14 ACCIDEN-
TIS] Porph. p. 21, 20 cod. Μ σομβεβηχοτος , cett.
τοδ άχωρίστοο σομβεβη- αότος ; de Porph. cf. etiam ad p. 102,
7 16 est post commune L, ante accidentis AA
m1 accidentis inseparabilis est m2 praeter ea] prop-
terea Φ constant] CH Busse (coll. p. 159, 7)
consistant EGNPR h m1 A p.c. W edd. consistunt L
A a. c. 112Φ consistent r\ m2 illa
post quibus N 17 quemadmodum—Aethiops (p. 345, 1)
] LR Q , om. cett. 18 ita om. 2 , s.
l. A m2 subsistit] non subsistit A m2; Porph. p. 22,
1 ΰποσταίη dv sistit Aethiops, et quemadmodum semper et
omni adest proprium, sic et inseparabile accidens. Quoniam
proprium semper adest speciebus nec eas ullo p. 111 modo relinquit
quoniamque inseparabile accidens a subiecto non potest segregari, hoc
illis inter se uidetur esse commune, quod ea in quibus insunt, praeter propria
uel inseparabilia accidentia esse non possint. inseparabilia uero accidentia
com- parat, quoniam, ut in specie dictum est, rarissimae sunt speciei atque
accidentis similitudines. quocirca multo magis proprii atque accidentis
communitates difficile reperiuntur. accidens enim in contrarium diuidi solet,
in separabile accidens atque in inseparabile, quae uero sub genere in
contrarium diuiduntur, ea nullo alio nisi tantum generis praedicatione
participant. quodsi proprium inseparabile quoddam accidens est, a
separabili accidenti plurimum differt, atque ideo nullas proprii et
separa- bilis accidentis similitudines quaerit. sed quia ipsum proprium certis
quibusdam causis ab inseparabilibus accidentibus differt, horum et communitates
inueniri possunt et inter se differentiae. quarum una quidem ea est quam
superius exposuimus, secunda uero quoniam sicut proprium semper et omni
speciei adest, ita etiam inseparabile accidens; nam sicut risibile omni homini
et semper adest, ita etiam nigredo omni coruo et semper adiuncta est.
8 ut in specie dictum est] p, 340. 20. 1 et omni om.
H et om. R; Porph. p. 22, 2 παντι και άεί 2
sic om. P sicut C et om. R 3 semper
om. H 4 quodque Hm1 5 inter se post commune
H 6 ea in] eam (m del. m2) H insunt] sunt R, add.
ipsa propria et inseparabilia accidentia sunt E (del. et s. l.
glosa est scr. m2) L (in mg. m2, om. sunt) P (om. sunt)
uel] et LNR 7 possunt EHLm2NP uero s. l. Cm2
ante comparat s. l. proprio Cm2, post s. l. scil.
proprio L 8 sunt post accidentis H 10
ante accidens add. scilicet E 11 enim] uero
R 12 sub genere om HΝΡ, del. Lm2 14 quiddam CL
quoddam post est H 16 simili-
tudines—accidentibus in mg. Em2 17 causis om. EG
rationibus Lm2PR 18 differentiae] dissentiae uel differentiae
H 19 est ea H 21 post accidens add.
est H 22 et semper om. H et semper adest s. l.
Gm2 post. et] N edd., om. cett. Differt autem
quoniam proprium uni soli speciei adest, quemadmodum risibile homini,
inseparabile uero accidens, ut nigrum, non solum Aethiopi, sed etiam coruo
adest et carboni et hebeno et quibusdam aliis. quare proprium conuersim
praedicatur de eo cuius est proprium et est aequaliter, inseparabile autem
accidens conuersim non praedicatur. et pro- priorum quidem aequaliter est
participatio, acciden- tium uero haec quidem magis, illa uero minus.
Sunt quidem etiam aliae communitates uel proprie- tates eorum quae dicta
sunt, sed sufficiunt etiam haec ad discretionem eorum communitatisque
traditionem. Proprii atque accidentis prima quidem differentia est
quia proprium semper de una tantum specie dicitur, accidens uero minime,
sed eius praedicatio in plurimas diuersi generis sub- stantias speciesque
diffunditur. risibile enim de nullo alio nisi de homine praedicatur, nigrum
uero, quod est inseparabile quibusdam accidens, tam coruo quam Aethiopi, quae
diuersa sunt specie, tum coruo atque hebeno, quae differunt generi- bus,
non tantum specie, praesto est. quo fit ut propriis quidem 1—13] Porph.
p. 22, 4—13 (Boeth. p. 51, 7—17). 1 PROPRII ET ACCIDENTIS] CP
W , item Porph. p. 22, 4 cod. M ( των αυτών plerique
cett. ), ACCIDENTIS ET PROPRII cett., nisi quod EORV II
EORVNDEM Ψ ; de Porph. cf. etiam ad p. 105, 16 2 Dif-
ferunt CG ΔΣΦ ; Porph. p. 22, 5 διενήνοχεν
proprium om. Σ 3 risi- bili N
inseparabile—minus (10) ] LR Q , om. cett. 4 soli
L A‘l> 5 etiam] aeque R hebeno plerique codd., item
20. p. 347, 7 6 proprium est ΓΦ 7 post.
est] ΓΔ (del. uid.) ΙΙΣΦΨ cum Porph.
p. 22, 8, om. LR A Busse 8 autem] uero ΔΛ Busse
conuersim non] nec conuersim A proprii R A m2 2
proprium uero Φ 9 aequaliter] R 2 , coni. Busse ,
aequalis cett.; Porph. p. 22, 9 και τών μέν ιδίων έπίτης ή
μετοχή 10 hae Δ 11 uel] Porph. p. 22, 11 τέ
καί 12 earum C dictae CEGHP hae N
et R 13 traditionem ex distractionem E
contradictionem Gm1 14 est om. H 16 praedicatio
eius H 17 species Cm1 19 diuersae HLNPm2
diuisae m1 20 speciei H (ante sunt) N
tunc R nec non Lm1 sed tum m2 21 tantum
specie] uni tantum speciei P conuersio aequa seruetur, in
accidentibus uero minime. quoniam enim propria in singulis esse possunt atque
omnes continent, species conuerso ordine praedicantur; nam quod risibile est.
homo est, et quod homo, risibile. nigrum uero non ita, sed ipsum quidem
de his praedicari potest quibus inest, illa uero ad huius praedicationem
conuerti retrahique non possunt; nigrum enim de carbone. hebeno, homine atque
coruo prae- dicatur, haec uero de nigro minime, nam quae plurima con- tinent,
de his quae continent praedicari possunt, ea uero quae continentur, de
sese continentibus nullo modo nuncupantur. Rur- sus proprium quidem aequaliter
participatur, accidens remis- sionibus atque intentionibus permutatur. omnis
enim homo aeque risibilis est, Aethiops uero non aequaliter niger est, sed, ut
dictum est. alius quidem paulo minus alius uero taeterrimus
inuenitur. Et de proprii quidem atque accidentis differentiis satis
dictum est. restabat uero accidentis ad cetera communiones proprie- tatesque
explicare, sed iam superius adnumeratae sunt, cum generis, differentiae,
speciei et proprii ad accidens similitudines ac differentias
adsignauimus. fortasse autem his institutus animus et sollertior factus alias
praeter eas quas nunc diximus com- munitates uel differentias quinque rerum
quae superius sunt positae reperiet, sed ad discretionem atque eorum
similitudines comparandas ea fere quae sunt dicta sufficiunt. nos etiam,
quoniam promissi operis portum tenemus atque huius libri seriem primo quidem ab
rhetore Victorino, post uero a nobis 1 conseruetur (con s. l. m2 )
aequa conuersio H 2 esse presunt (pre- sunt del. m2) H
esse Lm1 esse habent Lm2R 4 post post.
homo add. est CLR post risibile add.
est LPR 5 quibus] in quibus R 7 ante
hebeno add. de H, er. uid. L 9 continentur HN 11
proprium post quidem H (s. l. m2) quidem om.
G 12 permittatur E 15 deter- rimus CLN 16 proprii
* (s er.) HL differentiis om. G proprietate
E 17 accidens G 18 replicare EGLPR iam]
etiam EG enumeratae La.c. 19 speciei] et speciei
NR ad accidens] et accidentis Em1La.c.R 20 his om.
NR 23 ante eorum add. ad EGLPR 24
sufficiant HR 26 ab in a mut. ut uid. C Latina
oratione conuersam gemina expositione patefecimus, hic terminum longo statuimus
operi continenti quinque rerum dis- putationem et ad Praedicamenta
seruanti. 1 conuersa ELm1 2 continenti om.
C quinque] V L (in ras. m1?) edd., om. cett. 3 et om.
C seruienti brm ANICII MALLII SEVERINI BOETII LIBER QVINTVS
EXPLICIT SECVNDI SVPER YSAGOGAS COMMENTI P ; FINIT. EXPLICIT EDITIONIS
SECVNDAE COMMENTARIORV LIBER QVINTVS FELICITER. AMEN (er. uid.) DEO
GRATIAS C ; ANICII MANLII SEVERINI POETII (sic) ILLV- STRIS
CONSVLIS EXPLICIT LIBER L ; ANICII. MANLII. SEVERINI. BOETII. (A. M. S.
B. N ) V. C. ET ILL. (I LL S. N ) EXCONS. (EXCS N ) ORD.
PATRICII. (ΈΧC.—PATR. om. G) IN ISAGOGAS (YS- EG)
PORPHYRII (I pro Y N) IDE. INTRODVCTIONES (-NE
E) IN CATE- GORIAS (KATH- N) A SE (om. N)
TRANSLATAS. (-TĘ E , IDE— TRANSL. om. G) EDITIONIS
(EDΙCΤ- E , AED- N) SCDĘ LIBER V (QVINTVS N)
EXPLICIT EGN, add. TIBI PAX. AMEN. E ; QVINQVAE (sic)
FIT OPTATVS HIC FINIS ISAGOGARV R; subscriptione caret H, item e codd.
Isagogen tantum a Boethio translatam continentibus ΓΛΣΦΊ’ (nisi
quod in Φ recens quaedam est); post
traditionem p. 346, 13 habent EXPLIC. LIB. HISAGOGARV
PORPHIRII Δ , EXPLICIT Π. gradatimfoliacontrahit.Videturhæcnonminusdilatatio ne,contra
ionesfoliorumhonoraresolem,quamhominesgenarumgestu,moru labiorum.No
folumuero'inplantis,quæueftigiumhabentuitæ,fedetiaminlapidibusaspicerelicet,imitations,
& participationemquandamluminumsupernorum,quemadmodumhelicislapisradijsaureisso
laresradiosimitatur.lapisautem ,quiuocaturcælioculus,uelsolisoculus,figuram
habetfimilēpu
pillæoculi,atqsexmediapupillaemicatradius.lapisquoqueselenitus,idestlunaris,figuralung
cornicularisimilis,quadamsuimutationelunaremfequiturmotum.Lapisdeindeheliofelenus,id
estsolaris,lunarisózimitaturquodãmodocongreffum
folis,&lunæ,figuratcscolore.Sicdiuinornm omniaplenafunt, terrenaquidemcælestium,
cæleftiauerosupercælestium p,roceditæquilibetor d o r e r u m u s o a d u l t i
m u m . Q u æ e n i m s u p e r o r d i n e m r e r ü c o l l i g ū c u r i n u
n o , h æ c d e i n c e p s dilatan
turindescendendo,ubialiæanimæsubnuminibusalñsordinantur.Deinde&
animaliafuntsolana multa,uelutleones,& galli, numiniscuiusdamsolarisprofuanaturaparticipes,
undemirum est,quantum inferioraineodem
ordinecedantsuperioribus,quamuismagnitudine,potentias n o n c e d a n t. h i n
c f e r u n t g a l l u m t i m e r i å l e o n e q u a m p l u r i m u m ,
& q u a f i c o l i . c u i u s r e i c a u s a m a m a tería, sensuueassignarenonpossumus,sedsolumabordinissupernicontemplatione.
quoni amuidelicetpræsentiafolarisuirtutisconuenitgaltomagisquamleoni:quod&
indeappare 1928 Marfil. Ficin.in InterpreteMarsilioFicinoFlorentino.
Vemadmodum amatoresabipsapulchritudine,quæcircasensumapparet,addiuinam
paulatimpulchritudinemrationeprogrediuntur:fic& sacerdotesantiqui,cùmconli,
derarentinrebusnaturalibuscognacionemquandamcompassionemç;aliorumadalia
&manifestorum aduiresoccultas,& omniainomnibusinuenirent,facrameorumscien
quicquidest,pulchrumeft,&bonum
eft.etiamsiindecorporissequaturincommodum.Corpus enim nonparshominis, fedinftrumentum:instrumentiuero'malumnonpertinetadutentem.
Quomododifferantduohæc,fcilicetfecundumfeipfum,& quaipsum.
Ietioneseiusmodi,fcilicetsecundum feipsum,& quaipsum
,etiamapudAristotelemdistin, D g u u n t u r . Q u o d e n i m s e c u n d u m
s e i p s u m a l i c u i c o m p e t i t , p o t e s t e i n o n c o m p e t e
r e p r i m o. Quodautemquaipsumconuenispræterid,quodconuenit,secundumseipfumeciam
primo
competitei,atqueadæquatur.Pulchrumigitur,ficommensurationisanimæcausaest,atq;obhoc
ipsumdiciturpulchrum,efficito,utmeliusinanimadomineturdeceriori,perficitąnos,&
animæ deformitatempurgat:hacipfarationebonum est, nonquidemperaccidens,fedquarationepul.
chrum .fienim qua pulchrum estcommensuratum ,eft& bonum.Bonãenim estmensura
cercéquá pulchrum est,exiftit& bonum.Similiter turpe,qua turpe,malum est.N
a m qua curpe eft,informe est qui 1
quiagallus,quafiquibufdáhymnisapplauditfurgentisoli,&
quafiaduocat,quãdoexantipodum mediocæloadnosdeflectitur,& quando
nonnullisolaresangeliapparueruntformiseiusmodi p r æ d i c i , a r c f, c u m i
p f i i n s e f i n e f o r m a e s s e n t, n o b i s t a m e n , q u i f o r
m a t i s u m u s , o c c u r r e r e f o r m a t i. N o nunquam tione.
Quæfecundumfefuntincorporea,nonlocalicerpræsentiacorporibus,adsunt
eis,quotiescunqueuolunt, adillauergentia, atquedeclinantià,quatenusuidelicetnaturaliteradea
uergunt,arqueinclinantur. Sed enim cum nonadfintlocaliaconditionecorporibus,habitudine
quadam
eisadfunt.Quæfecundumsesuntincorporea,certenonpersubstantiam,&peressentiam
corporibusadsunt.Non enim
corporibuscómifcentur.ueruntamenexipsainclinatione,quasimo
mentouisquædamsubfiftitindecomunicataiam propinquacorporibus.Ipsanamqinclinatiose.
cundamquandamuimsubstituítcorporibusiampropinquam. mæ,fecundữcorporafuntdiuisibiles.Nonomne,quodagitinaliudappropinquatione,&ta
&ufacit,quodfacit,fedetiam qupæropinquarido,&
tangendofaciuntaliquidfecundumaccidens, nonutunturpropinquirate.Animacorporialligaturconuersionequadam
adpassionesprouenien resacorpore.Rursum
foluiturquatenusacorporenihilpatitur.Quodnaturaligauit,hoc&ipsa
naturasoluit.Rursusquodconciliauitanima,hoc& animadirimit.Naturaquidem
corpusinanimadeuincit,animaueroseipsamincorpore.Quamobrem natura corpusab anima
separaczanimaueroseipsam àcorporesegregat, saclia usmodi .Qui 1 Proc.De
Sacrif.& Magia. 1929 ICOR bada mler : in: no.N enlos ur,but aliano compiz
quider Locum siuecausisadintelligibilianosducentibus. MARSILIO FICINO
INTERPRETE. Denatura,e alligatione,o solutioneanime.
Nimaquidemmediüquiddameftintereffentiam indiuiduam,arqueessentiamueracorpora A
diuisibilem.Intellectusautem essentiaest,indiuiduafolum
.Sedqualitates,materialesqfor lael,ea 703 ncense garia 1,fiu ucent oxd zateni
XOM etiam dæmones nisisuntsolares leoninafronte.quibuscum
gallusoböceretur,repente disparuerunt.Quodquidemindeprocedit,semperquæineodem
ordineconstitutainferiorafunt, reuerentursuperiora:quemadmodum
plerişintuentesuirorumimaginesdiuinorum,hocipsoas.
pe&uuererisolentturpealiquidperpretare.Vtautemsummatimdicam,aliaadreuolucionessolis
correuoluuntur,ficutplantæ,quasdiximus:aliafiguramsolariumradiorumquodammodoimitan
tur, utpalma,dactylus:aliaigneamsolisnaturam,utlaurus:aliaaliudquiddam uideresanelicetpro
prietates,quxcolligunturinsole,passimdistribucasinsequentib.insolariordineconstitutis,scilicet
angelis,dæmonibus,animis,animalibus,plantisatque
lapidibus.Quocircasacerdotijueterisautho resàrebusapparentibussuperiorum
uiriumcultumadinuenerunt,dum aliamiscerent,aliapurifi c a r e n t. M i s c e b
a n t a u t e m p l u r a i n u i c e m , q u i a u i d e b a n t f i m p l i c
i a n o n n u l l a m h a b e r e n u m i n i s p r o
prieratem,nontamenfingulatim,sufficientemadnuminisiliusaduocationem.Quamobrem
ipfa multorum comixtioneattrahebantsupernosinfluxus: acßquodipficomponendounumexmul
tisconficiebant,assimilabantipfiuni,quodestsupermulta,constituebantæftatuasexmaterñismul
tispermixtas:odoresquoqcompositoscolligentes:arceinunum diuinafymbola,reddentesísun
um tale,qualediuinumexiftitsecundum
effentiam,comprehendens,uidelicetuiresquamplurimas. Quorum
quidemdiuisiounamquamg debilitauit,mixtiouerorestituitinexemplarisideam.Non
nunquam ueroherbauna,uellapisunus,addiuinumsufficitopus.SufficicenimCnebison,ideftcar
duus,ad fubitam numinis alicuius aparacionem ,ad custodiam uerò laurus.Raccinum
,ideftgenus
uirgultispinosum,cepa,squilla,corallus,adamas,laspis,fedadpræsagiumcortalpæ,adpurificatio.
nem uerosulfur,&atosmarina.Ergosacerdotespermutuam rerumcognationem,compassionem'.
conducebant inunum,perrepugnantiam expellebantpurificantes,cum
oportebat,sulfure,atque
asphalto,idestbitumine,aquaaspergentesmarina,purificatenimsulfurquidempropterodorisa
cumen,aquaueromarinapropterigneamportionem,& animaliadrjsindeorum
cultucongruaad hibebant,cxtera'tsimiliter.Quamobrem
abës,atoßsimilibusrecipientesprimumpotentiasdemo num
,cognouerunt,uideliceceasesseproximasrebus.actionibus
naturalibus:atq;perhæcnatura lia,quibus
propinquantinpræsentiamconuocarunt.Deindeàdæmonibusadipfasdeorumuires
actiones&processerunt,partimquidemdocentibusdæmonibusaddiscentes,partim
ueroindustria propriainterpretantesconuenienciafymbola,inpropriam
deorumintelligentiamascendentes, a c d e n i q p o f t h a b i t i s n a t u r
a l i b u s r e b u s, a c t i o n i b u s q u e , a c m a g n a e x p a r t e
d æ m o n i b u s in d e o r u m feconfortium receperunt. PORPHYRIVS DE
OCCASIONIBVS, Denaturacorporeorum,atqueincorporeorum.
Mnecorpuseftinloco,nullumuerocorum ,quæfecundūsesuntincorporea,uelaliquid tale,
estinloco.Quæ secundumsesuntincorporea,eoipso, quodpræstantiusestomni
corpore,atqueloco,ubiquesunt,nondistantiquidem,sedindiuiduaquadam condi USCE
inuss sdina labor Pt,imi adns aberi is,fip liol Sicdi liatiei ,unto 10,p Omnia
MMM $ Omniaquodammodosuntinomnibusproconditionecorum,quibusinfunt.
On fimiliteromniainomnibusintelligimus,sedpropriesehabetadomniauniuscuíused
sentia:intellectuquidem
intelle&ualiter,inanimauero'rationaliter:inplantisseminarie,in
corporibusimaginariè:ineodem (quodhisomnibussuperiuseft,modoquodamfuper
intellectuali,atquesuperessentiali. essentiæ,aliatandem naturx supe
rioris,aliaanimæ,aliaintele&ualis:uiuuntenim&
ila:etfinullumeorum,quæabiplisexi ftunt,uirameisfimilemsorciatur.
aliaueropartimquidemfle&tunturadila,partimetiamnonflestuntur.aliacandem
folumde flectunturadgenituras,neqzinterimadsereflectuntur. p e r , e d u c e r
e. A n i m a q u i d é h a b e t o m n i u m r a t i o n e s . A g i t a u t ē
s e c u n d ã e a s ,u e l a b a l i o a d e x peditionemeiusmodiprouocata,uelipfafeipfamintusconuertensadrationes,&
cum abaliopro uocatur,tanquamadexternacommititintroducerefensus:cum
uero'ingredicurinseipsam,adintel
ligentiasperuenit:necigitursensusextraimaginationemfunt,necß,utdixeritaliquis,intelligence
quatenus competuntanimali Animaeftimmortalis.
ANimaeftessenciainextensa,immaterialis,immortalis,in'yitahabenteaseipsauiuere,arosese
fimiliterpossidente. Passioanimæ,atquecorporisestlongediuersa.
Liudestpaticorpora,aliudincorporea.passioenim corporụm cum
transmutationecötingit passiouero'animęestaccommodatioquædam,'&affe&ioadremipfam,&a&ioquædã,nullo
modofimiliscalefationi,frigefactioniącorporum,quamobrem sipassiocorporū,cũtrans
mutatione fit,dicendum eftomnia incorporea essepassionisexpertia.Quæ enim
a'materia,corporf busipfeparatasuntadu,eadempermanent:quæueromateriæcorporibus
propinquant,ipsaqui d e m n o ns u n t p a s s i u a , s e d i l l a , i n q u
i b u s h æ c a p p a r e n t , p a t i u n t u r , q u á d o e n i m a n i m a
l s e n d t , a n i m a quidam fimilis esseuideturharmoniæ cuidam separatæ ex
seipsam chordas mouenti cötemperatas Corpusaữrsimileharmonię,quæ
inseparabilisinestchordis,fedcausamouendieffeuideturanimal
proptereaquodfitanimatū, quodquidemsimileeftmufico,exeoquodfitcõcinnum
,corporaueros quæperpassionesensualempulfantur,fimiliacontemperatischordisapparent.Etenim
ibinonhar m o n i c a q u i d é s e p a r a t a p a t i t u r , f e d c h o r d
a . & m o u e t f a n e m u f i c u s p i p f a m , q u æ s i b i i n e f t
,h a r m o n i ā: newtamenchordarationemusicamouereturetiam
,fiuelletmusicus,nifiharmoniaipsaiddixit. nataestquemadmodum corpora,sed
fecundum nudam ad corporapriuationem .Quãobrenihil
prohibetinterila,aliaquidemesseessentia,aliauerònonessentia:&
aliarursusantecorpora,alia ueròunacumcorporibus:itemaliaacorporibusseparata,aliauerònonseparata.Prætereaaliasecun
dum
sesubfiftentia,aliaueroalijs,utsintindigentia:aliadeniqa&tionibus,uitisfexfemobilibuse
adem ,sedaliauitis,&qualibusa&tionibusquodammodo
permutata,nempefecundumnegatione corum ,quæ ipfanon sunt,non secundum
assistentiameorum ,quæ sunt, appellatur.
PussionesmaterieprimeassignatesimiliteràPlotino.
Ateriaepropriaapudantiquoshæcfuntincorporeaquidem,diuerfaenimeftàcorporibus,
prætereauitæexpers,negintelle&tus,neckanima,nequealiquidfecundum seuiuens.Itêin,
formis,permutabilis,infinita,impotens.Quapropternec ens,feduerum nõens,imagomol
lisapparens, quoniãqd primo estinmole,eftipfum impotens,itéappetitio
fubfiftentia.& ftansno instacuprætereafempinseapparens,tum paruum,rum magnữ,tūminus,tūmagis,tūdeficiens,cī
excedens,quoduefiatfemp,maneatuerònunquã,nec tamen aufugere
potens,quippecútotius entisfitdefectus.Quamobrēquicqd
pmittat,mentitur:aciimagnūappareant,interimeuadirparo
uũ,quafienimludusquidãeftinnõensaufugiés,Fugaenimeiusnófitloco,seddūabencedeficis,
Quamobren M 1930 Marsil. Ficin.in
infummiseftunitascumuirtute:ininfimismultitudocumdebilitate.
Ncorporeæfubftantiædescendentesquidemdijudicentur,atqßinsingulapotentiædefe&umul
tiplicantur, adscendentesautemutuntur,atæfimulrecurruntinunumcopiapoteftatis.
Quegenerant,partimconuertunturadgenita,partimminimè.
Mne,quodsuaessentiagenerat,aliquidsedeteriusgenerat,atqomnegenitüadgenitorina O
curaconuertitur,eorumuero,quægenerant,aliaquidēnullomodoconuertunturadgenitas
Sensus,imaginatio,memoria intelligentia. Emorianonestimaginationüconferuatio
quædã,ámdtāmpastwintorspobaristalevias'spoluéwata,
sedeftipfaspropofitiones,fiueproductionesina&um
corū,quæmedicatuseftanimusnu :nec rurfusabsq inftrumentorum sensualium
passionesuntfenfus, lic& intelligentiænon abfqimaginatione,nisianalogaconditiofit:quemadmodumfiguraconse
quensquiddam
estadanimalsensuale,ficphantasmaaliquidconsequensadintelligentiamanima
intelligentisinanimali. 1 N Despeciebusuite. On
solumincorporib.æquiuocaconditioest,sedipsaetiãuitamultipliciterprædicatur
eftenimuitaplantæ,animalisalia:aliarursusintellectualis Alia IN N > M
Dedifferentijsincorporeorum.
Pfaincorporeorīappellationõfecundumcommunicatēunius,eiusdemişgeneris,siccognomi.
quamobremquæineasuntimagines,insuntindeteriorirursusimagine,quemadmodüinspeculo
idquodalibilitumeft,apparetalibi,&ipsumspeculumplenumeseuidetur,nihilqzhabet,dumom
nia uidetur habere.
funt,autnonfunt,quappternullacorūpaticur:quodempatienseft,nonoportetitafehabere,
fedefetale,ütalterariqueat,atointeriminqualitatibus eorī,quaeingrediuntur,ficásinferuntpas
fionem.Eiñamos
quodinestalterationonaqualibecaccidit,nexigicurimaceriapacítur.Nāsecun dum
feipfam
qualitatisestexpers,nesprorsusformx,quaefuntinca,ingrediences;uicissim'sexe,
untes,fedpassioficcircacompofitum,&uniuselseincomposicioneconfiftit,hocenim
incontrarijs uiribus& qualitatib.ingredientiữzinferentiumąpassioneperfeuerareinfubfiftendouidetur.Quá
o b r e m e a q u o r u um i u e r e e f t a b e x t e r n i s , n e c a s c i
p l i s , n i m i r u m & u i u e r e , & n o n u i u e r e p a t i p o
f l u n t. S e d e a , q u o r u m e s s e i n u i t a c o n f i f t i t, p a s
s i o n i s e x p e r t e , n e c e f f a r i u m e f t p e r m a n e r e s e c
u n d u um i t a m , quemadmodūuitäuacuitaticonuenit& non pac,quarenus&
uitæuacuicas.Icaqficutpermutari, acpaticöpofitoexmateria,forma
côtingit,ideftcorpori,neqstamenidmateriæ accidic,ficujuere,
areinterire,patiofecundumhocipfum incompofitum
exanima,corporeæperspicitur,neqstamé animæidcontingit,quoniam
animanoneftaliquidexuita,& nonuitaconflatum,seduicafolum
constatquippe,cumfimplexessenciafit,ipfaqsanimæ ratiofitnaturaipfasemouens.
Omnisintellectuseftomniformis.
Ntelle&ualisesentiaficinpartibuseftconfimilis,ut&
inparticulariquolibetintelle&u,uniuer soosintelle&ufintentia:fedintele&u
quidem uniuerfaliendaeciam particulariauniuersalifint
ratione:inparticulariautčincellectueciāmiuniuersaliafimulacosparticulariasintconditionequa
dam particulari: Omnisuitaincorporeaquocunq;mütetur,permanetimmortalis.
Nuicisincorporeispcessusmanentibusprioribusinsefirmisefficiuntur,dūnihilfuiõdunt,neos
pmutantadsubstantiâinferiorib.exhibendam,quappternedquæindesubfiftūccũaliquagdi
tioneueltráfmutationesubsistûr,nechoc
qdēefficitur,ficutgeneratiointeritus,gmutationisą
particeps,ingéciaigitur,&incorruptibiliafuntaroingčitæ,incorrupcx'ssecīdūhocipfumeffecta.
Quomodointelligaturquodeftfuperiusintelectus
uigilantiãmultadicatur,fedperfomnūipsum
cognitioeius,peritia'oshabetur,fimilinãque f i m i l e c o g n o s c i f o l e
t, q u o n i ã o m n i s c o g n i t i o , a s s i m i l a t i o q u æ d á e f
t a d h o c i p f u m, q d c o g n o f c i t u r. ens
uelutfalsamconcipimuspassionecă,
ingentemuidelicetili,quidigrediturextraseipsum,ipfeenimquisquequemadmodumexistenter
deftuere,atokperseipfumpoteftreduciadipfumnonensentesuperius,ficabence,sepsipfodigres
diensiam traducituradnonens,quodentisipfiuseftcasusatqzruinia.
Substantiaincorporeaestubicunqueuult.
Aturacorporisnihilimpedit,quinquodfecundum feincorporeum
eft,ficubicung,&quò modocunque.Sicucenimcorporiincomprehensibileest,quodmoliseftexpers,
nihilą adip Porphyr de Occasionib. 1931 Quidpatiatur,quidnon.
Afsionescircaidfuntomnes,circaqdaccidit&interitus.Víaenim
adinteritãeftadmissiopas
fionis,acohuiusestinterirecuiuseftpaci.Incerireaūcincorporeūnullű,sedquædãinterilaaur
Animaquiapereffentiameftuita,nonmoritur.
yIrcaessentiam,cuiusefeconfifticinuita,&
cuiuspassionesuitaquædãfunt,nimirum& morg
inqualialiquauitauersatur,noninpriuationeuitæfimultota.Quoniamneqspassio,seuuita
est omnino, illicadnon uiuendum ,iplaqzillicacciditorbitas. .
Silloquodeftmentesuperius,perintelligentiamquidem multa dicuntur:considerantur
D temuacuitatequadăintelligentiæ intelligentiameliore;quemadmodum
dedormienteper NonensauteftfuperiusenteutDeus,aütinferiuscummateria.
Vodnonensdicitur,auciplínosmachinamurab ipsoentealiquandoseparaci,autsuperin
telligimus,dum enspossidemus.quapropterfiseparamurabente,ensipsumnon superine
telligimusnon enssuperensipsum,fediamnon N
sumpertiner:sicincorporeoipsum,quodmollediftenditur,nonficobftaculum &
quafinon acec,nequeenim quod incorporeum eftlocalicondicionequo uulc
discurritlocusenim cum mole
simulexiftit,neqsrurfuscorporumlimitibuscoercecur,quodenimquomodocūqiiacetinmole,in
angustumcohiberipoteft,& conditionelocalitransmutacionemagere, quodaucemestamole,mag
nitudine
prorsusexemptū,hocabójs,quæfuntinmole.continerinonpoteft,a'motuşilocaliper
manetliberum.Igiturqualiquadam,certaquedisposicionereperituribi,ubicunquedisponitur,lo.
cointereatumubique,tumnusquam
simulexiftens,quapropterqualiquadamcertaqueaffe&ione uelsupercælum
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,n o n o c u l i s q u i d e m a f p i c i t u r, s e d e x o p e r i b u s e i
u s p r æ s e n c i a s u a fit h o m i n i b u s m a n i f e s t a s
Substantiaincorporeinullocorporecohibetur,fedproducitescamincorporeperquamse
corporiapplicát.
Vodeftincorpóreū,liquandoincorporecomprehendatur,nonopuseftutitaconcludatur, Q
quemadmoduminparcoferæclauduntur,nullumnamquecorpuspoteftipsumficinfeco
-hibere,nequeficutüterliquoremaliquemtrahit,&
cohibet,autfacum,fedoportetipsum ia nd C TO MmM 4 13. fubftituere cavite
Vniaersalescausenonconuertunturadefe&tus,fedeosadfeconuertunt. V l l
a s u b s t a n t i a r u m , q u æ u n i u e r f æ s u n t, a t æ p e r f e c
t æ a d f u a m c o n u e r t i t u r g e n i c u r ă . O m n e s
autéperfe&tæsubftantiæadgenerantiarediguntur, & idquidemadcorpusufo
mundanum. 1. Quomododifferenterestubiq;DeusintelleĀus,animas Euseftubiq
,quianusquamintelle&usest:ubiq etiã,quianufquam anima.deníqueubiqet EX
PORPHYRIO DE AB ftinentiaanimalium. . quinetiamcognoscitipsum,quod in
feest,naturaliterperpetuo uigilans, atquefom/ num,quohicopprimitur,deprehendit.
Cuinonsaneeducationem,nutritionemque trademus consentancã,tūhuius locinaturæ
,tum suiipsiuscognitioni conuenientem,
Beatitudononeftdiuinorumcognitio,feduitadiuina.
Eatanobiscontemplationonestuerborum accumulatio,disciplinarūquemultitudo,quemad
Bmodum aliquisforteputauerit:nequeenim
iracomponitur,nequeproquantitaterationūac quare perfectioquidêaprioribusfecundafubftituitcõferuanseadeadprioraconuersa,
defectusautempri oraetiam
adpofterioradefledit,eficitqzuthæcipfadiligantasuperioreinterim differentia
1932 Marsil. Ficin -in
substitucreuiresabipsainseipsumunioneextramanantes,quibusdescendenscorporiaplícatur,co
pulaitaßeiusad
corpusperineffabilēquandāsuiipsiusimpleturextenfioné,quamobrénõaliud adem
ultūipfuamlligat,fedipfumcerteseipfum,nec igiturefoluitipsum
corpusquãdofrangitur autinterit,fèdipsum
pociusfemetipsumcnodat,quádoafamiliariergasubiectâaffectionediuercio
Quodquidemcūsitperfe&umadanimāestreda&um,animam
inquãintellectualem,ideoas círculouoluitur, animaueromundiadintellectumattollitur,intelle&usauteerigituradprincipio
Omniaitaqperueniuntadhocipsumab extremisexordientia,quatenus
facultassuppecitunicuic perueniūtinquam eleuationeadprimū, illucusą
perducta:quæ quidēautexpropinquo,autex.lon
ginquoeficifolet.HæcitasnonsolumappetereDeūdicipossunt,sedetiam
prouiribusafequizin
lubstancijsueroparticularibus,&admultalabipotentibusineftprocliuitasdeflectēsadgenicuras:
ideoiginhisdeli&um
dicituraccidissezinhisinfidelitaseftdamnata.Hasigiturcontaminatiplama
teria,proptereaquodadhácdefledipossint,cũtamenintereaaddiuinūseualeantcôuertisse:
quoniãeft&nufquā:fedDeus quidem ubique& nusquãeftcorum omnium ,quæ
funtpoft ipsum.Suiueròipfiuseftfolum,ficutest,atqueuult.Intelle&usautem
inDeoquidemubica eft,fedineis, quæfuntpoftipsum ,existirnusquapariter, &ubiqueanimatandeminincele&tu,acor
Deo ,fimilitereftubiq ,incorporeuero'ubiqeftfimul & nusquá.Corpusaūt&
inanima,& inintels lectu , & in D e o , omnia profe & o cūentia,t u
m non entia ex D e o sunt,& ideonec tamēipfeDeus eft,cum entia,tum
nonentia,necexistitineis.Sienimessetduntaxatubiq ipfequidéomnia,& in o m n
i b u s e s s e t. A t q u o n i a m e f t , & n u s q u ã , o m n i a s a
n e p e r i p s u m f i u n c f i u n t á ž r u r s u s i n i p f o , q n i a m
ipfeexistitubios:diuersarursusabipfo,quoniãipsenusqua.Similiterintele&usubicexistens,atqs
n u s q u ã , c a u s a e f t a n i m a r ã , a n i m a s æ s e q u e n t i ū
:n e q s i p s e a n i m a e f t , n e g q u æ p o f t a n i m a m , n e q u e
i n cisexistic:quoniamuidelicetnon folum
ubiqueest,eorumque,quæfuntpoftipsum,sed&nusquã.
Rursusanimanequecorpuseft,nequeestincorpore,fedcausacorporis,quoniam dum ubiq
eftper corpussimuleft,&incorporenusquam
,processusdeniquniuersiinilluddefinit,quodnec ubiqfi mui, nequenusquamesseualet,sedalternisquibusdamuicibusutriusquefitparticeps.
Giustino (filosofo) filosofo e martire cristiano Lingua Segui Modifica Nota
disambigua.svg Disambiguazione – "Giustino martire" rimanda qui. Se
stai cercando altri martiri con questo nome, vedi San Giustino. San Giustino
Justin filozof.jpg Icona russa di san Giustino Padre della Chiesa e
martire Nascita Flavia
Neapolis, 100 MorteRoma, 163/167 Venerato daTutte le Chiese che ammettono il
culto dei santi Santuario principaleCollegiata di San Silvestro Papa, Fabrica
di Roma (VT) Ricorrenza1º giugno, 14 aprile (1882–1968) Attributi palma,
libro Patrono difilosofi Giustino, conosciuto come Giustino martire o Giustino
filosofo (Flavia Neapolis, 100 – Roma, 163/167), è stato un martire cristiano,
filosofo e apologeta di lingua greca e latina, autore del Dialogo con Trifone,
della Prima apologia dei cristiani e della Seconda apologia dei cristiani. A lui
dobbiamo anche la più antica descrizione del rito eucaristico.
Iustini Philosophi et martyris Opera, 1636 Fu uno dei primi filosofi
cristiani, e venerato come santo e Padre della Chiesa dai cattolici e dagli
ortodossi. La memoria si celebra il 1º giugno. La Chiesa Cattolica
lo considera anche santo patronodei filosofi insieme a Caterina d'Alessandria,
pur non essendo nessuno dei due nel novero dei Dottori della Chiesa.
BiografiaModifica Giustino, che spesso si dichiarava in verità samaritano,
visto il suo nome e il nome di suo padre - Bacheio - sembra piuttosto di
origini latine o greche. La sua famiglia probabilmente si era stabilita da poco
in Palestina, al seguito degli eserciti romani che qualche anno prima avevano
sconfitto gli Ebrei e distrutto il Tempio di Gerusalemme. Come
riferisce Giustino stesso nel Dialogo con Trifone, venne educato nel paganesimo
ed ebbe un'ottima educazione che lo portò ad approfondire i problemi che gli
stavano più a cuore, quelli riguardanti la filosofia. Racconta che la sua
smania di verità lo portò a frequentare molte scuole filosofiche. Presso gli
stoicinon trovò giovamento, in quanto il problema di Dio, per questa filosofia,
non era essenziale. Poi frequentò la scuola peripatetica, ma anche presso
questi filosofi non trovò quanto cercava. Si recò presso un filosofo pitagorico
che lo sollecitò dunque ad approfondire le arti della musica, dell'astronomia e
della geometria. Ma Giustino, troppo concentrato nel voler raggiungere la
"verità" e la "conoscenza di Dio", reputava tempo sprecato
il soffermarsi su tali materie. Approdo al platonismoModifica Da
ultimo frequentò una scuola platonica; un maestro di questa filosofia era da
poco giunto nel suo paese e presso questa corrente filosofica trovò quanto
credeva di cercare. «Le conoscenze delle realtà incorporee e la contemplazione
delle Idee eccitava la mia mente...», dice Giustino. Si convinse che questo lo
avrebbe portato presto alla "visione di Dio", che considerava essere
lo scopo della filosofia. Decise di ritirarsi in solitudine lontano dalla
città, ma in questo luogo appartato, secondo quanto racconta nel prologo del
Dialogo con Trifone, incontra un anziano, con cui inizia un serrato dialogo,
incentrato su Dio e su cosa fare della propria vita. Dopo aver dichiarato all'anziano
la sua idea di Dio «Ciò che è sempre uguale a sé stesso e che è causa di
esistenza per tutte le altre realtà, questo è Dio», l'anziano lo porta a
ragionare su di un aspetto che forse a Giustino era sfuggito: come possono i
filosofi elaborare da soli un pensiero corretto su Dio se non l'hanno né visto
né udito? E porta il giovane a meditare sulle persone considerate "gradite
a Dio" e dallo stesso "illuminate", i Profeti, che nel tempo
avevano parlato di Dio e "profetizzato in Suo nome", in particolare
la "venuta del Figlio nel mondo" e la possibilità "attraverso di
Lui" di avere una "vera conoscenza del divino".[1]
Conversione al cristianesimoModifica Dopo questa esperienza, Giustino si
converte al Cristianesimo e per tutto il resto della sua vita educherà i
discepoli, utilizzando gli stessi schemi usati dalle altre scuole filosofiche.
Oltre a questo incontro, che fu decisivo per la sua conversione, Giustino
indica anche un altro fatto che lo rinfrancava nella fede: «Infatti io stesso,
che mi ritenevo soddisfatto delle dottrine di Platone, sentendo che i cristiani
erano accusati ma vedendoli impavidi dinanzi alla morte ed a tutti i tormenti
ritenuti terribili, mi convincevo che era impossibile che essi vivessero nel
vizio e nella concupiscenza». Giustino viaggiò molto, andò a Roma
una prima volta e quando ritornò vi aprì una scuola filosofica a impronta
cristiana, i suoi insegnamenti insistevano molto sui fondamenti razionali della
fede cristiana. Questo approccio, molto diverso da quelli tradizionali, suscitò
numerose controversie sia con gli stessi cristiani sia con alcuni filosofi,
specialmente con Crescenzio il cinico. La sua fede lo porterà a
subire una morte violenta. Fu condannato a morte da Giunio Rustico che era
prefetto di Roma e amico dell'imperatore Marco Aurelio, fra il 163 e il 167,
con queste parole: «Coloro che si sono rifiutati di sacrificare
agli dèi e di sottomettersi all'editto dell'imperatore, siano flagellati e
condotti al supplizio della pena capitale, secondo le vigenti leggi.» Di
questo processo esiste ancora il verbale: Martyrium SS.Justini et sociorum VI.
Giustino venne decapitato assieme a sei dei suoi discepoli, Caritone e sua
sorella Carito, Evelpisto di Cappadocia, Gerace di Frigia (schiavo della corte
imperiale), Peone e Liberiano. Le sue reliquie furono traslate da
Roma il 22 settembre 1791, e si trovano attualmente sotto l'altare maggiore
della Collegiata di San Silvestro Papa a Fabrica di Roma, in provincia di
Viterbo.[2] Giustino fu il primo di una serie di autori cristiani che
intravide in Eraclito, Socrate, Platone e negli stoicidegli autori
precristiani, precursori del Cristo e da esso ispirati.[3] Anche lo Spirito
Santo è identificato con Dio stesso. A suo avviso, la nozione trinitaria fu
introdotta già dal platonismo.[4] A Giustino si deve la più antica
descrizione della liturgia eucaristica. Egli fu il primo ad utilizzare la
terminologia filosofica nel pensiero cristiano ed a tentare di conciliare fede
e ragione. Si schierò duramente contro la religione pagana ed i suoi miti
mentre privilegiò l'incontro con il pensiero filosofico. La figura
di Giustino attrasse l'attenzione di Lev Tolstojil quale nel 1874 dedicò al
santo cristiano una breve agiografia, Vita e passione di Giustino filosofo martire[5].
OpereModifica Dialogo con Trifone, Edizioni Paoline, Milano 1988. Le due
apologie, Edizioni Paoline, Milano 2004. ( LA ) [Opere], Parisiis, apud Carolum
Morellum typographum regium, via Iacobaea ad insigne Fontis, 1636. Il Dialogo
con Trifone, la Prima apologia dei cristiani e la Seconda apologia dei
cristiani, ci sono pervenute in un manoscritto del 1364, conservato a
Parigi.[6] La Prima apologia dei cristianiModifica «Io, Giustino, di
Prisco, figlio di Baccheio, nativi di Flavia Neapoli, città della Siria di
Palestina, ho composto questo discorso e questa supplica, in difesa degli
uomini di ogni stirpe ingiustamente odiati e perseguitati, io che sono uno di
loro.» (Apologia Prima, I, 2) La Prima apologia dei cristiani è
indirizzata all'imperatore Antonino Pio e al Senato romano. In essa compare un
tema che sarà ampiamente sviluppato dall'apologetica cristiana, cioè la critica
della prassi diffusa presso i tribunali romani, per la quale il solo fatto di
appartenere alla religione cristiana era motivo sufficiente di condanna.
Giustino inoltre polemizza con i pagani riguardo ad alcune contraddizioni
interne alla società romana, per esempio fa notare come, mentre i cristiani
sono condannati a morte perché ritenuti atei, vari filosofi greci e latini
sostengono apertamente l'ateismo senza conseguenze. Interessante,
poi, è il fatto che Giustino citi abbondantemente vari brani dei vangeli
sinottici per esporre le dottrine cristiane; ancor più notevoli sono i
tentativi dell'apologeta per convincere i pagani della verità del Cristianesimo
attraverso le citazioni di autori classici sia di filosofia (come Socrate e
Platone) che di mitologia (come Omero e la Sibilla) che vengono accostati a
brani dei vangeli o dell'Antico Testamento. «Sia la Sibilla sia Istaspe
profetarono la distruzione, attraverso il fuoco, di ciò che è
corruttibile. I filosofi chiamati Stoici insegnano che anche Dio
stesso si dissolve nel fuoco, ed affermano che il mondo, dopo una
trasformazione, risorgerà. [...] Se dunque noi sosteniamo alcune
teorie simili ai poeti ed ai filosofi da voi onorati [...] perché siamo
ingiustamente odiati più di tutti? Quando diciamo che tutto è stato
ordinato e prodotto da Dio, sembreremo sostenere una dottrina di Platone;
quando parliamo di distruzione nel fuoco, quella degli Stoici; quando diciamo
che le anime degli iniqui sono punitemantenendo la sensibilità anche dopo la
morte, e che le anime dei buoni, liberate dalle pene, vivono felici, sembreremo
sostenere le stesse teorie di poeti e di filosofi [...] Quando noi
diciamo che il Logos, che è il primogenito di Dio,[7] Gesù Cristo il nostro
Maestro, è stato generato senza connubio, e che è stato crocifisso ed è morto
e, risorto, è salito al cielo, non portiamo alcuna novità rispetto a quelli
che, presso di voi, sono chiamati figli di Zeus. Voi sapete infatti
di quanti figli di Zeus parlino gli scrittori onorati da voi: Ermete, il Logos
[...]; Asclepio, che [...] ascese al cielo; Dioniso, che fu dilaniato; Eracle,
che si gettò nel fuoco [...] e Bellerofonte, che di tra gli uomini ascese con
il cavallo Pegaso. Se poi, come abbiamo affermato sopra, noi
affermiamo che Egli è stato generato da Dio come Logos di Dio stesso, in modo
speciale e fuori dalla normale generazione, questa concezione è comune alla
vostra, quando dite che Ermete è il Logos messaggero di Zeus. Se
poi qualcuno ci rimproverasse il fatto che Egli fu crocifisso anche questo è
comune ai figli di Zeus annoverati prima, i quali, secondo voi, furono soggetti
a sofferenze. [...] Se poi diciamo che è stato generato da una
vergine, anche questo sia per voi un elemento comune con Perseo.
Quando affermiamo che Egli ha risanato zoppi e paralitici ed infelici
dalla nascita, e che ha resuscitato dei morti, anche in queste affermazioni appariremo
concordare con le azioni che la tradizione attribuisce ad Asclepio.»
(Apologia Prima, XX-XXII) L'opera si conclude con una petizione che contiene
una lettera dell'imperatore Adriano,[8] la quale serve a Giustino per mostrare
come anche un'autorità imperiale era del parere di giudicare i cristiani in
base alle loro azioni e non in base a dei pregiudizi; ed una lettera
dell'Imperatore Marco Aurelio e del "Miracolo della pioggia" durante
le guerre marcomanniche.[9] Il Dialogo con TrifoneModifica «La filosofia
in effetti è il più grande dei beni e il più prezioso agli occhi di Dio,
l'unico che a lui ci conduce e a lui ci unisce, e sono davvero uomini di Dio
coloro che han volto l'animo alla filosofia [...]» (Dialogo con
Trifone[10]) Oltre alle già citate Prima apologia dei cristiani (grecoἈπολογία
πρώτη ὑπὲρ Χριστιανῶν πρὸς Ἀντωνῖνον τὸν Εὐσεβῆ; latino Apologia prima pro
Christianis ad Antoninum Pium) e Seconda apologia dei cristiani(greco Ἀπολογία
δευτέρα ὑπὲρ τῶν Χριστιανῶν πρὸς τὴν Ρωμαίων σύγκλητον, latino Apologia secunda
pro Christianis ad Senatum Romanum), Giustino scrisse il Dialogo con Trifone
(greco Πρὸς τρυφῶνα Ἰουδαῖον διάλογος, latino Cum Tryphone Judueo Dialogus),
opera dedicata a un certo Marco Pompeo. Il tema è il confronto con il
giudaismo, con il quale i cristiani avevano in comune l'Antico Testamento, un
terreno utile per un dialogo. Si tratta di un dibattito che si svolge ad Efeso
nell'arco di due giorni e vede protagonisti Giustino e Trifone, nel quale è
stata individuata da alcuni storici la personalità di un rabbino realmente
esistito. Lo scopo di questo dialogo è mostrare la verità del cristianesimo,
rispondendo alle principali obiezioni mosse dagli ambienti giudaici. In
particolare, Giustino vuole dimostrare che il culto di Gesù non mette in discussione
il monoteismo e che le profezie descritte nell'Antico Testamento si siano
avverate con l'avvento di Cristo. Il dialogo assume toni sempre rispettosi e
amichevoli e non si conclude, com'era consuetudine per gli scritti cristiani,
con la richiesta da parte del giudeo del battesimo. A tal proposito, alcuni
studiosi si sono chiesti se effettivamente le motivazioni portate avanti da
Giustino in questo dialogo fossero valide a convertire un giudeo. Sembra
piuttosto verosimile, invece, che quest'opera sia una risposta di Giustino ai
dubbi che i cristiani stessi del tempo nutrivano verso la loro fede.
L'opera presenta anche un prologo, in cui Giustino racconta di un suo
incontro con un vecchio saggio che lo introdusse al cristianesimo.[11] Giustino
lo interroga tra l'altro sulla dottrina, da lui professata, della
trasmigrazione delle anime anche dentro corpi animali, esposta nel Timeo
platonico. L'interlocutore gli risponde che una tale possibilità non avrebbe
senso, perché non darebbe nessuna reminiscenza delle colpe passate e quindi
neppure la capacità di pentirsi.[12] In secondo luogo, il vegliardo passa a
confutare la dottrina dell'immortalità dell'anima.[13] Note Modifica ^
Philippe Bobichon, "Filiation divine du Christ et filiation divine des
chrétiens dans les écrits de Justin Martyr" in P. de Navascués Benlloch,
M. Crespo Losada, A. Sáez Gutiérrez (dir.), Filiación. Cultura pagana, religión
de Israel, orígenes del cristianismo, vol. III, Madrid, 2011, pp. 337-378
online ^ La reliquia di San Giustino Martire ( PDF ), su parrocchiafabrica.it.
^ Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo, BUR saggi, p.17, OCLC 1088865057 ^
Giuseppe Girgenti, Giustino Martire: il primo cristiano platonico : con in
appendice "Atti del martirio di San Giustino", Pubblicazioni del
Centro di Ricerche di Metafisica, Platonismo e filosofia patristica, n. 7,
Milano, Vita e pensiero, 1995, p. 108, OCLC 1014519733. URL consultato il 19
novembre 2020. ^ Lev Tolstoj, «Vita e passione di Giustino filosofo martire».
In: Lev Tolstòj, Tutti i racconti, a cura di Igor Sibaldi, Milano: Mondadori,
Vol. I, pp. 808-810, Collana I Meridiani, III ed., aprile 1998, ISBN
88-04-34454-7 ^ Philippe Bobichon, "Œuvres de Justin Martyr : Le manuscrit
de Londres (Musei Britannici Loan 36/13) apographon du manuscrit de Paris
(Parisinus Graecus 450)", Scriptorium 57/2 (2004), pp. 157-172 art. online
^ Francesco Barbaro, Apologia seconda di S. Giustino filosofo e martire in
favor de' Cristiani al Senato romano traduzione dal greco nell'italiano pubblicata
in occasione che mette fine alla sua quaresimale predicazione l'anno 1814.,
Treviso, Tipografia Trento, 1812, p. 29. URL consultato il 19 novembre 2020.
Citazione. Essendo manifesto da tutte l'opere di san Giustino, ch'egli ben
sapeva e confessava l'equalità del Verbo col Padre... ^ ( EN ) Lettera di
Adriano. ^ ( EN ) Lettera di Marco Aurelio al Senato. ^ Cit. in Jacques
Liébaert, Michel Spanneut, Antonio Zani, Introduzione generale allo studio dei
Padri della Chiesa, Queriniana, Brescia 1998, p. 47. ISBN 88-399-0101-9. ^
Giuseppe Visonà, introduzione a Saint Justin, Dialogo con Trifone, Paoline,
1988. ^ Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo, BUR Rizzoli.Saggi, n. 5, 6ª
edizione, Milano, BUR Rizzoli, marzo 2019, pp. 14,12, OCLC 1088865057. ^
Giuseppe Girgenti, Giustino Martire: il primo cristiano platonico, Vita e
Pensiero, 1995, p. 124. BibliografiaModifica Mario Niccoli, GIUSTINO, santo, in
Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1933.
Modifica su Wikidata Arthur J. Bellinzoni, The Sayings of Jesus in the Writings
of Justin Martyr, Leiden, Brill, 1967. Philippe Bobichon, Dialogue avec
Tryphon, édition critique. Editions universitaires de Fribourg, 2003, Vol. I:
Introduction, Texte grec, Traduction ; Vol. II: Commentaires, Appendices,
Indices Étienne Gilson, La Philosophie au Moyen Âge. Des origines patristiques
a la fin du XIV siècle, Payot, Paris 1952 (trad. it. La filosofia nel Medioevo.
Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, La Nuova Italia, Scandicci
1997). Johannes Quasten. Patrologia, Marietti, 1987, vol. I, pagine 175-194.
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14 agosto 2017 (archiviato dall' url originale il 14 agosto 2017).
Apologia Seconda, su monasterovirtuale.it. URL consultato il 14 agosto 2017
(archiviato dall' url originale il 14 agosto 2017). Santi Caritone e
compagni, discepoli di san Giustino, in Santi, beati e testimoni - Enciclopedia
dei santi, santiebeati.it. Catechesi, su w2.vatican.va. di papa Benedetto XVI
su Giustino tenuta durante l'Udienza generale di mercoledì 21 marzo 2007 Opera
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WikipediaGiuseppe Girgenti. Girgenti. Keywords: la parola che non s’incatena, Giustino
martire, la traduzione di Boezio delle Categorie di Porfirio, traduzione di
Marsilio Ficino delle sentenze sugl’intelligibili di Porfirio, henologia
platonica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Girgenti” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757051548/in/dateposted-public/
Grice e
Girotti – la curva – la filosofia nella storia d’Italia – il caso Gentile -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Adria). Filosofo. Grice: “I like
Girotti; for one, he has explored the idea of ‘beauty,’ which Sibley should,
but did not!” Si laurea a Padova, sotto Santinello e Berti. Pubblica
“Filosofia” (La Scuola, Brescia). Pubblica: “Gouhier e la sua storia storica
della filosofia” (Unipress, Padova). “Comunicazione filosofica” “Società
Filosofica Italiana.” Altre saggi: “Aristotele, dal platonismo all’autonomi” (Polaris,
Faenza); “Modelli di razionalità nella filosofia”, Sapere, Padova; Discorso sui
metodi, Pensa, Lecce; Medioevo vs oggi: tra tabula rasa e innatismo, Sapere,
Padova; Riforma Gelmini e filosofia Sapere, Padova; Essere e volere, Pensa
multimedia, Lecce; Siamo completamente liberi di volere ciò che vogliamo?, Il Giardino
dei Pensieri, Bologna); Bellezza e responsabilità, Diogene Multimedia, Bologna;
Cercasi anima disperatamente, Diogene Multimedia, Bologna; Giovanni Gentile;
Diogene Multimedia, Bologna); “Il fico proibito dell’Eden e la giustificazione
del male, Diogene Bologna; Un viaggio intorno all’io: Da Atene a Delfi
dialogando, Diogene, Bologna; Sul permesso di morire, Diogene Bologna; Comunità
di ricerca, Gouhier in Enciclopedia Filosofica Bompiani, La collana si chiama Briciole di Filosofia “una
storia storica che si fermi all’esibizione dei dati diventa semplice una ‘cronaca’;
infatti, nel momento in cui si espone la filosofia di Grice, per poter
abbracciare l'oggettività si dovrebbe rimanere all’interno di un'asettica descrizione,
quella che Girotti definisce como “fenomenologia dello spirito metafisico.”Girotti
distingue “la fenomenologia” (come metodo) e “lo spirito metafisico” (come
oggetto). Seguendo il metodo della fenomenologia, il filosofo-storiografo
sarebbe invitato a fermarsi alla lettura del dato per descrivere ciò che esso
mostra. Seguendo “lo spirito metafisico”, il filosofo- storiografo ritroverebbe
l'”oggetto” (topico) della sua ricerca, cioè il “fatto spirituale.” È su questo “fatto spirituale” che Girotti
refina Gouhier in quanto trova che Gouhier, quando ha messo le vesti dello “storico”
della “storia storica” della filosofia, sia scivolato in una loro descrizione
bergsoniana, ammessa anche da Gouhier. Cf. Grice on the longitudinal history of
philosophy. “We should treat those who are dead and great as if they were great
and living – it’s a matter of introjecting into his shoes, or sandals!” -- “La
distillazione filosofica” GENTILE , Giovanni. - Nacque a
Castelvetrano, provincia di Trapani, il 29 maggio 1875, ottavo di dieci
fratelli, due dei quali erano già morti quando egli vide la luce. Suo padre,
che si chiamava anche lui Giovanni, era farmacista; sua madre, Teresa Curti,
maestra elementare. Da quel poco, o non molto, di autobiografico che,
sempre restio alla confidenza e all'effusione dell'animo, pur si deduce dagli
scritti e, in particolare, dai carteggi con i suoi maestri pisani, Donato Jaja
e Alessandro D'Ancona, risulta che il rapporto con i genitori fu intenso,
nutrito di forti affetti; sebbene, per altro verso, travagliato, a causa
soprattutto, oltre che della morte del fratello Gaetano, delle disavventure
professionali del padre. Le quali derivarono dal forte e alquanto anarchico
convincimento di non dover sottostare, nella gestione della farmacia di cui era
proprietario e titolare, alle nuove regole introdotte dalla legge sanitaria
emanata dal governo di F. Crispi; e dalla sua decisione di chiudere perciò la
farmacia, che si trovava a Campobello, e ritirarsi con la famiglia nella vicina
Castelvetrano, quindi di riaprirla, nel 1897, tornando da solo là dove quella
si trovava e subendo un nuovo processo per il reiterato suo rifiuto di
sottostare alle nuove regole. È probabile che nell'animo sensibile, e più
impressionabile forse di quanto il G. fosse disposto ad ammettere, del
giovinetto che intanto attendeva agli studi scolastici, si formassero, nei
confronti della terra siciliana, ossia di un luogo così fortemente segnato da
dolori e umiliazioni, sentimenti contrastanti. Non che per le sofferenze che
involontariamente aveva inflitto al padre, egli prendesse allora a odiare, o
anche soltanto a disistimare, il siciliano Crispi, al quale sempre invece
guardò come a un grande personaggio, l'unico degno di rappresentare sul serio,
nella decadente Italia di fine secolo, lo spirito autentico del Risorgimento,
nelle cui battaglie era stato protagonista. Ma nei confronti della
piccola, e pur amata, patria siciliana, i suoi sentimenti furono in effetti
misti; e abbastanza presto si sublimarono, assumendo forma intellettuale, in
quelli che, se lo si legge con attenzione, si colgono al fondo del libro che, quando
era professore a Pisa e insegnava dalla cattedra che era stata del suo maestro
Jaja, egli dedicò a Il tramonto della cultura siciliana (Bologna 1918). Libro
singolare, in effetti; che, riboccante di passione e di affetti, concerne un
"tramonto" atteso e auspicato di "cose" che, profondamente
radicate nella storia e nelle tradizioni dell'isola, meritavano, a suo
giudizio, di "tramontare" per sempre risolvendosi in assai più ampio
e comprensivo orizzonte di pensieri e di cultura. Nella Sicilia
"moderna", con poche eccezioni, il G. non coglieva infatti se non
materialismo, illuminismo astratto, anticlericalismo estrinseco, e niente
romanticismo, niente idealismo, nessun serio sentimento della vita vissuta nel
segno di più alte idealità. E con questi "caratteri" spiegava le
difficoltà che l'isola aveva opposto al Risorgimento nazionale e, quindi, alla
vera cultura idealistica. Quando perciò, divenuto nel 1906 professore di storia
della filosofia nell'Università di Palermo, il G. dette inizio all'insegnamento
che doveva condurlo alla prima sistemazione del suo pensiero nell'idealismo
attuale, c'era nel suo impegno filosofico qualcosa di missionario, quasi che
nel fondo di sé sentisse di operare in partibus infidelium e il suo compito
consistesse nel riscattare nel suo idealismo gli assai diversi principî ai
quali la Sicilia era rimasta ferma. Nell'isola il G. non rimase se non il
tempo necessario al conseguimento dei primi traguardi scolastici; e quando,
finalmente, ottenuta, nel 1893, un anno prima della naturale scadenza, la
licenza liceale presso il liceo Ximenes di Trapani, fu ammesso, avendo vinto il
relativo concorso, a frequentare la Scuola normale superiore di Pisa, era uno
studente critico bensì di molti aspetti della cultura siciliana quello che approdava
alla sponda toscana, ma recante tuttavia in sé non pochi segni di quella. Il
positivismo che, colorandosi sotto l'influsso di R. Schiattarella di
materialismo e anticlericalismo, largamente dominava la cultura siciliana non
era passato sul suo animo e sulla sua mente senza lasciare qualche traccia; e
se non vi era passato intero, in parte almeno vi era passato: il che spiega
l'intransigenza con la quale, compiuta la sua più autentica formazione alla
scuola pisana dello Jaja, egli si impegnò a cancellarne, nel suo pensiero, ogni
possibile traccia. Nel componimento scolastico consacrato a U. Foscolo
con il quale ottenne la licenza liceale colpiscono in effetti le due tonalità
che lo caratterizzano: quella civile, che sarebbe poi rimasta, attraverso la trasfigurazione
risorgimentale, al centro dei suoi sentimenti e interessi, e l'altra,
antiromantica, appresa alla scuola del suo professore di italiano, V.
Pappalardo, e ribadita attraverso lo studio della Storia della letteratura
italiana di P. Emiliani Giudici. E si può e si deve, del resto, andare anche
oltre. Fu forse allora, infatti, negli anni in cui fu studente in Sicilia, che
il G. venne positivamente in contatto con la questione del "fatto";
che certo, nel corso del suo pensiero, subì, rispetto al punto di partenza,
trasformazioni così profonde da rendere questo quasi irriconoscibile nel
risultato conseguito. Quasi, tuttavia, e non del tutto: perché, assunto nella
prospettiva dell'atto, il "fatto" è bensì l'astratto che quello,
l'atto, perennemente supera conseguendo e conquistando la sua concretezza, ma,
oltre a esser anche la sua "determinatezza", si rivela altresì, nel
processo costitutivo dell'atto, indispensabile e necessario: con la conseguenza
che, nell'idealismo attuale, la sua è bensì una morte, caratterizzata tuttavia
nel senso, piuttosto, della "trasfigurazione". Non s'insisterà
mai abbastanza sull'importanza che, proprio per queste ragioni, la Scuola
normale ebbe, con i professori che vi insegnavano, lo Jaja e il D'Ancona, in
primo luogo, ma anche A. Crivellucci, nella formazione del giovane allievo
siciliano. E ai professori debbono aggiungersi i compagni che egli allora
v'incontrò, G. Volpe e F. Pintor, U. Congedo, A. Salza, G. Lombardo
Radice. Anche qui, per altro, avrebbe torto chi semplicemente ritenesse
che al fuoco dell'idealismo professato dallo Jaja il G. bruciasse ogni scoria
positivista e rapidamente acquistasse la fisionomia che in seguito sarebbe
stata la sua. È vero invece che la dicotomia determinatasi in lui quando, in
Sicilia, per un verso si accendeva di entusiasmo per il Foscolo e i valori
civili da lui rappresentati e per un altro si piegava al culto reverente dei
fatti, in qualche modo si ripropose anche a Pisa. Ed egli dovette subirla anche
qui perché alla filosofia senza storia né arte che gli veniva insegnata da Jaja
corrispondevano la storia e la letteratura senza filosofia che gli provenivano
dall'esempio di D'Ancona e di Crivellucci. Il che, naturalmente, non deve
sorprendere, perché a predominare, anche a Pisa, era allora il positivismo con
il congiunto metodo storico; e con il suo idealismo di derivazione spaventiana
Jaja costituiva, in quell'ambiente, piuttosto l'eccezione che non la
regola. La produzione scientifica in cui, senza abbandonare la rivista
Helios, che si pubblicava in Sicilia, a Castelvetrano, e alla quale seguitò
infatti a non far mancare la sua collaborazione, allora si impegnò appare
nettamente scissa fra l'erudizione pura, da una parte, e la filosofia,
altrettanto pura, da un'altra (anche se, nel ricercare e commentare i testi di
quest'ultima, il giovane G. mostrava chiari i segni del metodo che aveva
appreso dal D'Ancona e dal Crivellucci, e che dette del resto chiara prova di
sé nella dissertazione accademica Delle commedie di Antonfrancesco Grazzini,
detto il Lasca, pubblicata negli Annali della Scuola normale superiore di Pisa,
XII [1897]). Le cose più notevoli uscite tuttavia dalla sua penna a conclusione
del suo periodo pisano sono, com'è noto, la tesi su Rosmini e Gioberti (1898),
discussa con Jaja e quindi, discussa anch'essa con quest'ultimo, la più breve
indagine su La filosofia di Marx (1899). Di questi due libri, il primo
costituisce il documento, altrettanto precoce che maturo, di un'indagine
condotta nel segno di Bertrando Spaventa e della sua idea relativa alla
relazione intercorrente fra il pensiero italiano e quello europeo, fra A.
Rosmini e V. Gioberti, da una parte, I. Kant e G.W.F. Hegel da un'altra. Il
secondo è invece il documento della capacità dimostrata dal giovane studioso di
cogliere il carattere, che a lui sembrava nel fondo idealistico, della
filosofia di K. Marx, e altresì di entrare con autorevolezza in uno dei
dibattiti - quello concernente la "crisi" del marxismo - fra i più
vivi che allora si accendessero nella cultura dell'Europa contemporanea.
Lo studio dedicato a Rosmini e Gioberti, e alla loro polemica fu steso per il
conseguimento della laurea in filosofia, che il G. ottenne nel luglio del 1897
con il massimo dei voti e il diritto alla stampa. Quello dedicato a Marx fu
composto per la tesi di abilitazione all'insegnamento che egli conseguì l'anno
successivo e gli dette la possibilità di un ulteriore periodo di
perfezionamento da trascorrere presso l'Istituto di studi superiori di Firenze,
dove fu per un anno e dove ebbe modo di entrare in contatto con gli illustri
professori che allora vi insegnavano e che, fra gli altri, si chiamavano P.
Villari, G. Vitelli, P. Rajna. Fra questi era anche il professore di filosofia,
il neokantiano F. Tocco, con il quale i rapporti non furono né semplici né
facili, ma con il quale comunque conseguì un nuovo titolo, discutendo una tesi
sulla filosofia italiana del periodo che da A. Genovesi va fino a P. Galluppi,
e che poi divenne un volume, pubblicato, nelle edizioni de La Critica, da
Benedetto Croce (Dal Genovesi al Galluppi: ricerche storiche, Napoli
1903). Fu, anche quello trascorso a Firenze, un periodo importante; e se
il rapporto con il Tocco fu, malgrado asprezze e incomprensioni, proficuo
perché lo mise comunque in contatto con un Kant diverso da quello di Bertrando
Spaventa mediatogli dall'insegnamento di Jaja; se quello con Villari fu
alquanto burrascoso, dei grandi filologi, classico il primo, romanzo il
secondo, Vitelli e Rajna dovette conservare per sempre un grato ricordo, se è
vero che ancora negli ultimi anni progettò di ristampare, del secondo, il libro
su Le fonti dell'Orlando furioso, ossia uno dei monumenti più insigni della
vecchia scuola del metodo storico. Con l'anno trascorso a Firenze,
nell'estate 1898 i suoi Lehrjahre avevano termine; e gli anni che seguirono
furono non facili; anzi decisamente difficili, perché l'esigenza per lui
imperiosa di trovare un lavoro, e perciò un posto nell'insegnamento medio, era
pari a quella che egli avvertiva non meno viva e urgente di non interrompere
gli studi filosofici, nei quali aveva già realizzato un'impresa notevole, con
quei tre lavori, così ricchi di dottrina e di idee. Ma l'esigenza di proseguire
senza nocive interruzioni la intrapresa carriera dello studioso implicava
l'altra che l'eventuale sede non fosse dispersa nella lontana provincia
meridionale e lontana perciò dai centri vivi della cultura nazionale, dalle
università e dalla biblioteche. E la preoccupazione principale del G. fu
allora, in particolar modo, di non essere costretto a far ritorno nell'isola
dalla quale era partito anni innanzi: sì che quando, nell'ottobre 1898, ebbe la
sede di Campobasso, con l'incarico di filosofia al liceo Mario Pagano, non poté
dirsene del tutto scontento, perché di lì poteva raggiungere di tanto in tanto
Napoli, dove la frequentazione del filosofo hegeliano S. Maturi, professore al
liceo Umberto e, sopra tutto, di Benedetto Croce, con il quale era entrato in
contatto quando ancora era studente del terz'anno, largamente lo compensavano
dalla solitudine alla quale era invece, per il resto del tempo,
costretto. Del resto, non fu quello di Campobasso un periodo che si
protrasse nel tempo. E già nel novembre 1900 la fortuna girò in suo favore,
perché il G. poté ottenere un posto presso il liceo Vittorio Emanuele di
Napoli: il che gli dette la possibilità di rendere veramente intrinseci i
legami intellettuali con Croce, ossia con il già illustre studioso che, in
quello stesso anno, concluso il periodo degli studi soltanto eruditi, giunto al
termine della discussione intrapresa con i testi di Marx e dei marxisti, era
tornato alla filosofia e aveva dato all'estetica la sua prima
sistemazione. A ragione, e del resto non è un'osservazione peregrina, è
stato detto che, se senza Croce non s'intende il G., altrettanto è vero per
l'inverso. Ma ancor meglio potrebbe dirsi e ripetersi che, se si prescindesse
dalla collaborazione, stretta, intensa e anche conflittuale, che subito si
stabilì fra il libero studioso Benedetto Croce e il giovane ex normalista
siciliano, poco o niente si capirebbe della cultura italiana che nel bene
(secondo alcuni), nel male (secondo altri) per circa mezzo secolo fu dominata
dalle loro personalità e dalle loro opere, spesso intrecciate le une alle altre
nel segno prima della concordia discors e poi dell'aperta polemica. È difficile
decidere chi fra i due, se il più vecchio o il più giovane, giovasse all'altro
nella forma più decisiva. E forse, posta così, la questione è posta male,
perché, se è vero che dal G. Croce ricevette impulsi a cogliere nel pensiero
che si veniva formando in lui le difficoltà che ne nascevano e ad affrontarle
nel segno dell'unità, se è vero, d'altra parte, che la collaborazione prestata
dal giovane studioso alla formazione della "filosofia dello spirito"
non avvenne senza che egli ne traesse grande giovamento per le tante idee con
le quali veniva in contatto e la non comune dottrina storica e letteraria con
il cui carattere venivano al mondo, anche è vero che in questi
"bilanci" del dare e dell'avere c'è sempre qualcosa di angusto, di
gretto, di meschino: e conviene perciò, dalle parole "generali",
passare di volta in volta ai "fatti" determinati. Sta comunque
di fatto che, mentre il carteggio fra i due si faceva tanto intenso e frequente
che non c'era, si può dire, giorno senza che uno scambio intervenisse a
proporre osservazioni, suggerimenti, informazioni e, magari, contrasti; mentre
l'amicizia si approfondiva nella collaborazione, la diversa indole dei due
ingegni ne riusciva non soffocata, ma in qualche modo persino potenziata. E,
come si è detto, c'erano, meno infrequenti di quanto non si pensi, anche i
contrasti, anche le polemiche, garbate, amichevoli, ma ferme. Se, per
esempio, nella questione concernente il materialismo storico (una filosofia,
per il G., e non, come per Croce, un semplice "canone empirico": una
filosofia della storia, fondata per altro sullo scambio del trascendentale e
dell'empirico), il dissenso rimase senza soluzione, la discussione, che in
buona parte si svolse per lettera, su "forma" e "contenuto"
nell'estetica condusse i due filosofi a un accordo sempre più stretto; e anche
qui è, non solo alquanto meschino, ma sopra tutto difficile chiedersi, e quindi
rispondere al quesito, se a condurre il gioco fosse piuttosto il G., o se
invece fosse Croce che, via via che veniva impadronendosi dell'intero
territorio dell'estetica, suggeriva il tema e controllava lo svolgimento.
Intanto, nel 1903, la realizzazione del progetto di una rivista letteraria,
storica e filosofica, che si chiamò La Critica (il primo numero uscì il 20
gennaio), dette a Croce, e al G., lo strumento attraverso il quale la loro
collaborazione potesse rendersi visibile e concreta in risultati specifici,
attraendo altresì su di sé, fra consensi e dissensi, l'attenzione del mondo
culturale italiano e non soltanto italiano, perché l'anno precedente era uscita
la prima edizione dell'Estetica crociana e il successo travolgente del libro,
andato al di là di ogni previsione, non poteva non ripercuotere sulla rivista appena
agli inizi la sua positività. La Critica divenne così, velocemente, un
severo luogo di ricerche, di studi, e anche, spesso, di impietosi esami
critici; e, con il diverso accento caratterizzante lo stile del direttore e del
suo principale collaboratore, svolse un'opera della quale sarebbe vano voler
disconoscere l'importanza. L'oggetto della "critica" era costituito
dalla cultura positivistica, che era bensì in declino quando la rivista iniziò
la sua battaglia, ma non tanto, tuttavia, che se quell'urto violento e
sistematico non si fosse prodotto, avrebbe trovato così presto la via della sua
risoluzione. Al contrario, si direbbe: perché, malgrado la non eccelsa qualità
dei suoi pensatori, e certa loro tendenza a dividersi fra un alquanto volgare
materialismo e vacue accensioni mistiche e "spiritualistiche", il
positivismo aveva, nella sua forma di "metodo storico", non soltanto
prodotto alcune opere egregie e importanti, ma era penetrato in profondità
nella cultura e nel costume dei professori e della classe dirigente del paese.
E "positivista" era in sostanza il pensiero democratico e altresì,
malgrado il marxismo, quello socialista; positivisti altresì, con maggiore o
minore intensità, erano stati, e per qualche tratto ancora erano, gli stessi
Croce e G., che in quella tradizione, e non in un'altra, avevano compiuto i
primi passi. Con la conseguenza che quella loro battaglia antipositivistica,
esaltata, enfatizzata e mitizzata da alcuni, deprezzata e magari deplorata da
altri, fu, con le sue luci e le sue ombre, anche una battaglia che giorno dopo
giorno i due filosofi amici condussero contro quel loro "sé stesso"
che di essere emendato nel senso della nuova filosofia avesse avuto necessità.
E molte cose della vecchia "fede" certamente furono lasciate cadere,
che qui non occorre elencare. Ma alcune no; e, per fare qualche esempio, certo
si deve anche alla severa disciplina erudita appresa alla scuola dei maestri
del metodo storico se, come nessun altro ai suoi tempi, Croce esplorò gli
angoli più riposti della "regione" seicentesca, e, nel 1911, scrisse
il saggio su La novella di Andreuccio da Perugia (Bari), e il G. non disdegnò
le minute ricerche rinascimentali che sottese e affiancò ai grandi quadri
d'insieme, e rievocò le ombre dei suoi maestri toscani per scrivere il bel
libro dedicato a Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono
(1922). Il soggiorno a Napoli fu, nel rapporto con Croce, quale non
poteva non essere: importante, fondamentale perché ebbe per conseguenza di
renderlo sempre più stretto, sempre più profondo e, perciò, più stimolante. Il
che, trattandosi del rapporto di due pensatori che in quello impegnavano la
parte più delicata del loro essere, significa altresì che, per ciò stesso che
toccava il profondo, scopriva le differenze mentre celebrava le affinità e
persino le identità, e potenzialmente conteneva in sé il germe del suo
rovesciamento nell'inimicizia. La polemica sul marxismo contribuì a far meglio
conoscere a entrambi le rispettive, e diverse, fisionomie intellettuali; e i
due ne uscirono, sebbene avessero ciascuno mantenuto il proprio punto di vista,
rafforzati nell'amicizia. Ma nel 1907 la polemica epistolare, e rimasta perciò
privata, sulla questione della filosofia e della storia della filosofia, aveva
già, sotterraneamente, impresso qualche preoccupante vibrazione alla struttura
portante dell'edificio; perché a Croce, sebbene avesse alla fine dato il suo
consenso alla tesi del G., era anche sembrato di cogliervi qualche tratto di
vecchio hegelismo, il cui Idealtypus era rappresentato allora a Napoli da S.
Maturi; e questo il G. non l'aveva gradito. L'amicizia per allora rimase
salda, e anzi, via via, si approfondì, perché in realtà non solo la filosofia e
la scienza riguardava, ma anche le cose dell'anima e dell'esistenza, che nella
battaglia culturale non potevano, del resto, non essere coinvolte. E poiché
nella Critica il G. sistematicamente svolgeva il compito che si era assunto di
ricostruire le origini della filosofia contemporanea in Italia e intanto, al
margine, scriveva note e recensioni per lo più molto polemiche nell'atto stesso
in cui, su un altro fronte, conduceva la sua aspra battaglia, in nome della
filosofia che non può non essere immanentismo assoluto, contro quello che
perciò sembrava a lui l'equivoco del modernismo cattolico: delle eventuali
dispute che intanto i due filosofi svolgessero in privato la rivista non
risentì e non mostrò il segno. La collaborazione che essi vi svolgevano e
realizzavano fu perciò, per anni e anni, vista e avvertita come se i due
fossero quasi una sola persona che, di volta in volta, faceva prevalere il
rigore filosofico e l'eleganza letteraria, nutrita anch'essa di rigore. Si
aggiunga che allora, fra il 1902 e il 1909, Croce fu impegnato, fuori della
Critica, nella costruzione della Filosofia come scienza dello spirito; e che,
per parte sua, mentre svolgeva il suo lavoro e si impegnava a seguire i
progressi filosofici del suo amico, sul piano teoretico il G. mostrò in quei
primi anni la tendenza a restare in disparte. Avvertiva, e in una lettera
del 1908 inviata al Maturi lo scrisse anche in modo esplicito, che se avesse
dovuto esprimere intero il pensiero che intanto gli urgeva dentro con Croce
sarebbe giunto allo scontro, e avrebbe dovuto combatterlo. Sapeva, o riteneva di
sapere, che, svolto con rigore, il tratto spaventiano del suo pensiero avrebbe
dato luogo a conseguenze diverse da quelle che Croce stava allora ricavando
dalle sue premesse, e sistemando nei suoi libri; e della migliore qualità
filosofica di quelle era altrettanto convinto come della necessità che per
allora non convenisse mettere in crisi una collaborazione dalla quale frutti
copiosi la cultura italiana poteva ancora attendersi. Del resto, la cautela del
G. e la sua decisione di lavorare per, e non contro, l'alleanza con Croce non
potevano esser tali da impedire che, talvolta anche in pubblico, sebbene non
dichiarate, le differenze emergessero; e fu quel che puntualmente avvenne già
nel 1903, quando il G. scrisse (e per allora non pubblicò) la prolusione al suo
corso libero di filosofia teoretica nell'Università di Napoli. Da Napoli,
dove nell'insieme trascorse un sereno periodo (il 9 maggio 1901 aveva sposato
Erminia Nudi, una giovane maestra conosciuta a Campobasso), quasi per intero
consacrato all'insegnamento - nel 1902 aveva ottenuto la libera docenza che
esercitava nel corso libero di filosofia teoretica presso l'Università e dal
1904 aveva assunto anche un incarico di filosofia e pedagogia presso l'Istituto
superiore di magistero Suor Orsola Benincasa -, alla riflessione filosofica,
allo studio, nel 1906 il G. passò a Palermo, perché nel frattempo - dopo che un
primo concorso per la filosofia teoretica lo aveva visto soccombere per
l'ostilità dimostratagli da Tocco, e anche a causa della debole difesa fattane
da A. Labriola, gravemente ammalato e quasi impossibilitato a parlare - aveva
vinto la cattedra di storia della filosofia per quella Università. Così, senza
averlo sul serio desiderato, era di nuovo approdato alla sponda siciliana; e
meno che mai lo aveva desiderato Croce, che non solo vedeva interrotta una
consuetudine di vita, di collaborazione e di lavoro che doveva a ogni costo
essere difesa, ma anche temeva che il nuovo ambiente potesse distrarre in vario
modo l'amico e, sotto diversi punti di vista, allontanarlo da lui. Il
timore di Croce non aveva allora nessun altro fondamento che sé stesso e
l'intuizione di cui si alimentava. Era infatti qualcosa come una congettura,
una supposizione. Ma la congettura, la supposizione, e il timore, non si rivelarono
tuttavia per intero infondati; perché, come forse era inevitabile, nel nuovo
ambiente il G. non poteva non ottenere la posizione preminente e da
protagonista che non solo il prestigio di cui godeva, ma anche e sopra tutto la
forte personalità della quale era dotato, non potevano non assicurargli. La sua
posizione divenne preminente nell'Università e, quindi, nella Biblioteca
filosofica che, per le iniziative di G. Amato Pojero che ne aveva la cura
principale, divenne un centro vivo di dibattiti, nel quale l'idealismo attuale
definì per la prima volta sé stesso e vide la luce. Anticipato in modo più che
parziale con il breve saggio che nel 1909 il G. dedicò a Le forme assolute
dello spirito e, senza presentarlo in altra sede, incluse nel volume su Il
modernismo e i rapporti tra religione e filosofia (1909) come sua ideale
premessa (e conclusione), l'idealismo attuale trovò la sua prima espressione
nella memoria, letta presso la Biblioteca filosofica nel dicembre del 1911, su
L'atto del pensare come atto puro (Palermo 1912), quindi nell'altra su Il
metodo dell'immanenza, e ancora nelle pagine consacrate a La riforma della
dialettica hegeliana (1913) e a Bertrando Spaventa che l'aveva avviata, nonché
nel Sommario di pedagogia come scienza filosofica, il cui primo volume (1913)
contiene in effetti una sorta di teoria generale dello spirito sotto specie
pedagogica. Un volume, questo, che quando lo lesse in bozze Croce giudicò
con qualche severità, perché gli parve che non solo il G. si fosse espresso con
nettezza contro la possibilità che tra le forme dello spirito potesse darsi la
"distinzione", ma anche che, senza nominarlo e perciò con tanta
maggiore asprezza, avesse polemizzato proprio con lui che nella distinzione
aveva fatto e stava facendo consistere il criterio supremo dell'intelligenza
della realtà. Da queste dichiarazioni di autonomia e di indipendenza, che,
implicitamente (ma in modo per altro trasparente), contenevano qualcosa come
una sfida, Croce non poteva non essere preoccupato; e tanto più in quanto il
senso di indipendenza e di autonomia era confermato da quel che scrivevano gli
allievi siciliani del G.: V. Fazio-Allmayer e A. Omodeo, A. Saitta e F.
Albeggiani; e anche G. De Ruggiero, che siciliano e residente in Sicilia non
era, ma attualista sì, anzi ultrattualista, come ci teneva a dichiararsi e come
aveva del resto dimostrato con la memoria, pubblicata anch'essa nell'Annuario
della Biblioteca filosofica, su La scienza come esperienza assoluta
(1913). La pubblicazione degli scritti attualisti del G. e le varie
manifestazioni che allora innegabilmente si ebbero del formarsi di una
"scuola" che in quella forma d'idealismo riconosceva l'unica rigorosa
e, perciò, possibile, non potevano non provocare prima o poi la reazione di Croce.
Il quale aveva bensì, fra il 1908 e il 1909, fatto il possibile perché il G.
tornasse a Napoli come professore nell'Università, convinto che in tal modo la
collaborazione sarebbe tornata alle vecchie forme senza le perturbazioni
provocate dalla "scuola" e dagli spiriti non sempre positivi che, in
effetti, vi si formano o tendono a formarvisi. Ma il suo tentativo non ebbe,
com'è noto, successo, perché forti e insormontabili furono le resistenze che
l'ambiente accademico napoletano dimostrò all'accettazione della sua proposta.
E così accadde che, persa quella battaglia nella quale aveva speso molto del
suo prestigio e delle sue energie, quando una grave sciagura privata gli dette
il senso che tutto ormai, nella sua vita dovesse giungere all'estremo
chiarimento, Croce decidesse di rendere pubblico il "dissidio"
filosofico che lo divideva dall'idealismo attuale; e scrisse, per la Voce di G.
Prezzolini, un articolo in forma di lettera (ottobre 1913), nel quale i termini
del dissenso erano definiti con amichevole fermezza. La scelta della Voce
significava, nelle intenzioni crociane, che la disputa non riguardava
LaCritica, ossia il luogo della loro comune opera culturale; e si svolgeva, per
così dire, al margine di questa. Ma la decisione di mettere in piazza il loro
dissenso ferì in modo particolare il G.: anche se, decisa nella sostanza e
orientata non a sanare, bensì a ulteriormente precisare, il dissenso, la
replica che anche lui affidò alla Voce, si presentasse come la risposta
amichevole a un'amichevole richiesta di chiarimenti teoretici. Il dissenso era
comunque stato dichiarato; e non mancò di suscitare molta impressione: tanto
più che, replicando a sua volta (dicembre 1913), con fermezza, Croce prese atto
di un divario che concerneva non la periferia, ma il centro stesso delle loro
filosofie. Il periodo siciliano fu comunque fecondo di molto lavoro. E
oltre ad aver gettato le basi dell'idealismo attuale, il G. svolse infatti e
approfondì alcuni essenziali aspetti della scolastica e del Rinascimento; e
scrisse di G. Bruno, di Bernardino Telesio, di G. Vico, mentre la
collaborazione alla Criticacontinuava con il consueto ritmo e, dopo la tempesta
teoretica del 1913, nei rapporti con Croce era tornata la calma. Deve anzi
dirsi che, malgrado varie traversie di natura familiare e qualche apprensione
per la sua salute, fu quello un periodo nella sostanza sereno, sebbene non
possa escludersi che egli lo considerasse provvisorio e in cuor suo non
desiderasse una sede diversa e migliore. Quando infatti, nel 1913, a Napoli e a
Roma si liberarono due cattedre, la prima università fu subito scartata, perché
vivo era ancora il ricordo della sconfitta patitavi quattro anni prima, ma la
seconda no; e fu invece presa in seria considerazione. Il G. riteneva infatti
che l'opposizione di G. Barzellotti, titolare della cattedra di storia della
filosofia, potesse essere in qualche modo aggirata e vinta. Ma il calcolo
risultò errato: a Roma per allora non fu chiamato; e dopo un tentativo,
esperito senza troppa convinzione, di essere chiamato a Torino, città molto
amata da Croce, che non avrebbe visto male un suo trasferimento colà, ma assai
meno da lui, che la considerava lontana, fredda ed estranea ai suoi gusti e
alle sue abitudini, scelse infine di andare a Pisa, dove sarebbe succeduto a D.
Jaja e, con l'atmosfera della giovinezza, anche avrebbe ritrovato la Scuola
normale, luogo e fonte inesausta di cari e intensi ricordi. A Pisa tornò
con un piglio e una convinzione ben diversi da quelli con i quali vi era
approdato, giovane e sperduto studente siciliano, tanti anni prima. Vi approdò
con il piglio del pensatore che, ormai sicuro di sé e delle sue forze, sente di
dover svolgere una missione non solo filosofica, ma anche, lato sensu, civile e
politica. La forte accentuazione teoretica che nei precedenti anni aveva
conferito alle sue pagine, anche di storia della filosofia, non aveva mai
spento in lui, se mai aveva rafforzata, la convinzione spaventiana che
ricostruire la filosofia italiana nella sua storia significasse in realtà
contribuire, con le armi della cultura, alla prosecuzione del Risorgimento,
riaccenderne negli animi la consapevolezza, battersi contro la corruzione
letteraria che in Italia si era per secoli fatalmente intrecciata con lo
splendore delle arti. Egli faceva insomma vibrare e risuonare un corda che a
Jaja era rimasta sostanzialmente estranea, ma non a D'Ancona, ebreo e fervente
patriota risorgimentale, e nemmeno, nei suoi modi particolari, al Crivellucci.
Del resto, la prolusione pisana è del 1914; e con gli avvenimenti che lo
caratterizzarono e con quelli che ne sarebbero seguiti, quell'anno fatale
avrebbe ben presto provveduto a trasformare dal di dentro atteggiamenti,
abitudini, costumi, ad accelerare il ritmo delle passioni, talvolta in
superficie, altre volte in profondità, a rendere esplicito e visibile quel che
per l'innanzi fosse rimasto chiuso nel segreto delle coscienze. A Pisa,
per altro, il G. non stette a lungo, perché già nel 1918 egli passava
all'Università di Roma per ricoprirvi la cattedra di storia della filosofia,
dalla quale, sempre nella stessa Università, sarebbe passato, nel 1925, a
quella di filosofia teoretica, lasciata libera da Bernardino Varisco. Ma,
a parte le passioni e anche le incertezze e le angosce politiche che li
caratterizzarono, quelli pisani furono anni importanti: per i risultati
filosofici innanzi tutto, che il G. vi conseguì. Fu allora, infatti, che, dopo
averne offerto un primo saggio nel Sommario di pedagogia, e quindi nelle
memorie palermitane, egli procedette senz'altro a tracciare le linee della
Teoria generale dello spirito come atto puro, nata dalla scuola nel 1916 e
pubblicata la prima volta quello stesso anno: così come dalla scuola nacquero
in quel medesimo tempo i Fondamenti della filosofia del diritto, nei quali,
espressione suprema dell'unità, e unità esso stesso, l'atto era indagato nella
sua dimensione, oltre che teoretica, pratica, senza che fra l'una e l'altra
potesse operarsi la distinzione per la quale, in Croce, i distinti erano i
distinti. Ma a Pisa il G. avviò anche la composizione del Sistema di logica
come teoria del conoscere, la sua opera in ogni senso più rilevante: della
quale scrisse il primo volume che, nato anch'esso dalla scuola, vide la luce
nel 1917 e dovette attendere fino al 1923 per avere il suo compimento nel
secondo volume, dedicato alla logica del concreto. Agli anni di Pisa
appartiene anche, con sicurezza, Il tramonto della cultura siciliana, un libro
del quale si è già avuto modo di accennare come presenti un duplice carattere,
di condanna della cultura siciliana positivistica, materialistica e, deteriori
sensu, illuministica; e di speranza: la speranza che nel segno dell'idealismo
attuale, nato nell'isola per virtù di un siciliano, quella si riscattasse ed
entrasse a pieno titolo nella civiltà moderna. Gli anni pisani furono
quelli del primo conflitto mondiale, di quel dramma, anzi di quella tragedia,
dopo la cui conclusione niente sarebbe più stato come prima. Il G. li visse con
passione, fra esaltazioni e depressioni, come ogni altro italiano del suo ceto,
della sua condizione e della sua cultura; ma anche con il sempre più netto
convincimento che, all'inizio, non era stato scevro di dubbi anche forti, che
quella di entrare in guerra a fianco della Francia e della Gran Bretagna contro
gli Imperi centrali fosse stata una giusta decisione, una sorta di chiamata del
destino risorgimentale della nazione. Il G. non era nazionalista, e meno che
mai era disposto a vedere nell'evento bellico la manifestazione delle forze
sanamente irrazionali che spezzano l'ordine stabilito dalla logica,
sconvolgendo i suoi concetti. Dalle deteriori manifestazioni di misticismo e
vario sensualismo, così frequenti allora nella "cultura" italiana e
non soltanto italiana, si tenne sempre discosto. Ma quando gli indugi diplomatici
furono rotti e la guerra fu dichiarata, egli scoprì in sé l'interventista che
all'inizio non era stato, e progressivamente venne intensificando e
attualizzando le critiche che nei confronti dell'Italia e dell'assetto politico
e morale che si era dato dopo la conclusione del Risorgimento erano già in lui,
allo stato potenziale e, in qualche caso, più che potenziale. Le essenzializzò
e attualizzò perché, senza con ciò diventare nazionalista e seguitando anzi a
oppugnare ogni idea della nazione che attingesse a concezioni naturalistiche o,
peggio, razzistiche, il suo principio, gli parve tuttavia che la prova
terribile alla quale l'Italia aveva deciso di sottoporsi richiedeva che di lì
in avanti i piccoli pensieri cedessero a pensieri grandi e che quel che s'era
ottenuto sui campi di battaglia non fosse poi amministrato dai politici di
sempre, maestri non di drammi, ma di mediocri commedie. Di qui, anche in
questo campo così pericolosamente esposto ai venti violenti delle passioni,
delle "cupidigie", per dirla con il poeta, e dei "brividi",
la ragione profonda dell'ulteriore distacco che allora, giorno dopo giorno, si
venne compiendo da Croce. Il quale, come si sa, non solo era stato contrario
alla guerra, condividendo le realistiche preoccupazioni di G. Giolitti e di
quanti, come lui, erano persuasi che, vinta o persa, la guerra avrebbe comunque
rappresentato per l'Italia un troppo grave rischio. Ma anche aveva dichiarato
che avrebbe considerato una grave onta per il popolo italiano se all'improvviso
i suoi governanti avessero stracciati i trattati e si fossero schierati dalla
parte di coloro contro i quali avrebbero, semmai, dovuto combattere. Anche nei
confronti della guerra che, quando fu dichiarata, li vide entrambi consapevoli
che il loro posto non potesse essere se non quello che l'Italia aveva scelto
per sé, l'atteggiamento dei due filosofi fu, nella sostanza, assai diverso. E
Croce considerava la guerra alla stregua di un evento irresistibile della
natura, ne vedeva la trama violentemente economica e utilitaria, così che
sempre il suo monito fu che non si sottomettesse alla sua particolare logica la
logica dei superiori valori della verità e della cultura, del pensiero e
dell'arte. Diverso fu, invece l'atteggiamento del Gentile. Senza che perciò
si inducesse a passare il segno e a "farsi", come Croce diceva,
"l'animo di guerra", egli la considerò tuttavia come una grande
occasione rigeneratrice, come un evento assoluto, recante in sé il segno di una
tal quale superiore provvidenzialità. Mentre Croce confidava, o quanto meno
sperava, che nell'Europa di domani il meglio dell'Europa di ieri fosse
conservato e potenziato, e nella religione degli studi, nella civiltà dei
rapporti intellettuali, nell'universalità delle idee, gli odi nazionali si
placassero e depurassero, il G. inclinava viceversa, lui che nazionalista non
era mai stato e nemmeno a rigore era diventato, verso i toni dell'esaltazione
nazionale. E fu allora che, per la forza di queste sue convinzioni e passioni,
si preparò la sua futura adesione al fascismo, nel quale, mettendo come fra
parentesi le molte cose che certo non appartenevano al suo costume, egli
credette di scorgere, e in questo convincimento fu poi irremovibile, lo
strumento del riscatto "risorgimentale" dell'Italia. Il sistema
filosofico che fino a quel punto il G. aveva elaborato negli scritti dei quali
qui sopra si è detto era per intero incentrato su questo concetto: che, come la
filosofia antica e quella medievale e moderna (che non riusciva perciò a esser
tale), era rimasta ferma, anche nelle sue dimensioni idealistiche, a un
concetto intellettualistico e soltanto descrittivo del concetto, del soggetto e
della sua attività, con la conseguenza che il concetto non era autoconcetto, e
cioè la sua eterna autogenerazione e autoproduzione, nell'idealismo invece, che
per questa ragione meritava di essere definito "attuale", questo
proprio avveniva. E il concetto era autoconcetto, il soggetto, soggetto, e non
concetto (astratto) del soggetto: non era una sorta di res naturalis che il
concetto appunto si limiti a contemplare, a descrivere nel suo astratto
organismo logico, e non a produrre nell'atto del suo atto. Di qui la tesi,
caratteristica di questo idealismo, che nella sua concretezza e attualità,
l'atto non può trascendere il suo atto, questa trascendenza dell'atto non
potendo essere se non, essa stessa, atto; e l'altra tesi secondo cui la teoria
che dell'atto intendesse darsi è perciò una teoria vera (secondo il G.) ma
astratta: una teoria astratta del concreto (vero anch'esso, naturalmente: e a
fortiori). E di qui l'interna, forte tensione di questa filosofia; che, per un
verso (e sopra tutto nelle sue prime formulazioni) era orientata a svalutare e
criticare ogni teoria che, in quanto soltanto contemplativa e descrittiva, fosse
perciò incapace di cogliere l'atto se non come un "fatto", e dunque
come il suo opposto, falsità ed errore, se l'atto era viceversa verità e
concretezza. Ma per un verso (e questo accade sopra tutto nel secondo volume
del Sistema di logica, non senza che per tale via il G. provasse a rispondere
al rilievo di ineffabilità e misticismo rivoltogli da Croce fin dal 1913) la
questione dell'astratto e del fatto assumeva un altro volto, e l'atto era bensì
celebrato nella sua non obiettivabile attualità, ma il fatto e l'astratto gli
si rivelavano a loro volta indispensabili, erano (per dirla in modo tecnico) il
suo opposto, ma anche il suo diverso, un grado attraverso il quale, sia pure
dissolvendolo, il concreto era, nel e per il suo costituirsi, costretto a idealmente
passare. Il punto critico di questa filosofia sta qui: nel suo essere, non,
come tante volte si è detto, misticismo e indistinzione, ma nel porsi come una
sintesi, attuale e intrascendibile, di opposti, senza poter rinunziare - donde
l'ambiguità - a trattare gli opposti come "gradi", e cioè come
"diversi" o "distinti": nell'essere insomma una teoria
dell'unità che in eterno supera la distinzione, e della distinzione che,
proprio perché è in eterno superata, non può veramente uscire dal quadro e si
rivela come la condizione insostituibile della sua possibilità. Verità
del concreto, dunque: ma anche dell'astratto; che nelle opere del secondo
attualismo, e cioè nel Sistema di logica e oltre, si rivela non, quale
all'inizio era, come natura, immobilità, impenetrabile assenza di coscienza, ma
come circolo e mediazione, punto semovente che parte da sé e per fare ritorno a
sé: come circolo, e perché no, dunque, come esso stesso logo concreto? Come
logo concreto; e perché no, dunque, come logo astratto, se questo è mediazione
e coscienza, e niente più di questo il logo concreto può essere? A Pisa,
negli anni della Grande Guerra, il G. rivelò a sé stesso la passione politica
che gli stava dentro come assopita; e assunse perciò una dimensione che non era
più soltanto quella del professore che parla dalla cattedra e magari fa
conferenze, ma era bensì quella dell'"intellettuale" militante, che
si rivela al grande pubblico attraverso i giornali quotidiani. Ai quali in
effetti, assumendo una consuetudine che avrebbe, con diversa intensità (nel
tempo), mantenuta fino alla fine della sua vita, il G. allora prese a
collaborare: tanto che quando, a guerra finita, raccolse in un volume che
intitolò Guerra e fede (Napoli 1919) quanto aveva scritto durante il suo corso,
il libro risultò tutt'altro che smilzo, e comunque più consistente di quello
che lo seguì, e nel quale, con il titolo Dopo la vittoria (Roma 1920), sistemò
gli articoli composti nei due anni iniziali dell'agitato, inquieto, drammatico
dopoguerra. Un periodo, quest'ultimo, nel quale sempre più decisamente il G.
cercò la sua parte e venne via via inasprendo la sua posizione, perché l'idea
natagli nei passati anni, durante le sue meditazioni sulla storia d'Italia e
sulla fatale dicotomia che nell'età del Rinascimento si era prodotta fra lo
splendore artistico e la decadenza politica e morale, quest'idea doveva ora
essere messa alla prova della realtà, doveva diventare uno strumento forte e
tagliente di lotta e di azione politica. Il che implicava che, pur seguitando a
dichiararsi liberale, sempre più egli sentiva di doversi opporre al liberalismo
quale si era riflesso nel costume politico italiano, nella degenerazione dei
metodi parlamentari, nell'arte del compromesso e del perenne rinvio delle
decisioni: un'arte nella quale maestro insuperabile gli sembrava fosse il
Giolitti, che per lui fu allora non il ministro, come G. Salvemini l'aveva in
precedenza definito, della "malavita", ma l'artista di ogni cosa che
fosse mediocre, si contentasse della mediocrità e rinunziasse a volare alto nei
cieli della grande politica. Furono, questi, mesi drammatici, che egli
visse in uno stato d'animo teso e agitato, e nel segno di un'attività senza
soste, che dette a tratti l'impressione di essersi risolta in frenetico attivismo.
Che certo non si placò quando nel 1920 Croce fu chiamato da Giolitti a
ricoprire nel governo la carica di ministro dell'Istruzione pubblica e dette la
sua opera alla riforma della scuola media e introdusse sia l'esame di Stato,
sia l'insegnamento della religione. Alle cose della scuola il G. aveva, per
parte sua, cominciato a interessarsi da molto tempo: ossia fin da quando,
giovane professore nel liceo di Campobasso, s'era reso conto di quante
manchevolezze l'affliggessero. E poi nel 1913 aveva pubblicato il Sommario di
pedagogia, così che a giusto titolo era, in quel campo, considerato
un'autorità; che, divenuto ministro, Croce non tardò a riconoscere, chiamandolo
a presiedere "la commissione per lo studio dell'autonomia universitaria e
dell'esame di Stato", nonché "a far parte di quella per la riforma
dei programmi presieduta da Vitelli", nominandolo commissario
dell'Istituto femminile superiore di magistero di Roma e confermandolo, nel
1921, nel Consiglio superiore dell'istruzione pubblica (Turi, p. 294). A
Croce, del resto, il G. non fece mancare il suo appoggio, pieno e
incondizionato. Almeno nei risultati da raggiungere, e nelle conseguenze che
occorreva trarre da alcune generali premesse, i due filosofi amici concordavano
senza riserve. E nel sostenere, per esempio, la tesi che la religione dovesse
costituire materia d'insegnamento, il suo pensiero non differiva da quello di
Croce se non per il "modo" e per la diversa posizione che alla
religione egli riserva nel sistema dello spirito. La sua idea era insomma che,
come per pervenire alla pienezza del suo sé nella filosofia, lo spirito passa
attraverso le fasi ideali, e contrapposte, dell'arte (soggetto) e della
religione (oggetto), così anche nella scuola questo ritmo dovesse trovare una
sorta di trascrizione temporale o fenomenologica, quasi che, per giungere alla
filosofia, anche lì si dovesse percorrere la regione del mito di cui le
religioni s'interessano. Ma la religione della quale il progetto ministeriale
prevedeva l'insegnamento era quella cristiana e cattolica, la più perfetta, per
il G., di tutte le religioni quando, appunto, proprio nella forma assunta dal
cattolicesimo la si fosse considerata. Era, questa, della perfezione cattolica,
un'idea che il G. aveva sostenuto quando, nei primi anni del secolo
vigorosamente aveva polemizzato con i modernisti cattolici. E, per questo
riguardo (oltre che per quello concernente la struttura dello spirito), il suo
accordo con Croce era piuttosto sulle conclusioni che non sul
"metodo". Che è poi quello stesso che si dà a vedere nell'idea che
presiedette all'introduzione dell'esame di Stato, perché se, nel propugnarlo,
il G. vi implicava il concetto secondo cui in esso lo Stato realizzava una
delle dimensioni della sua "eticità", Croce non vi vedeva se non uno
strumento di controllo e a questa luce ne interpretava la necessità. La
cosa più singolare fu allora che, nell'atto in cui più stretto si rivelava il
legame dei due filosofi impegnati in una importante impresa pratica, il loro
dissenso filosofico tornò invece a farsi acuto e a complicarsi con quello
politico generale, perché nei confronti del fascismo la reazione di Croce fu
bensì, agli inizi, cauta e anche esitante, ma certo in quel movimento egli non
vide nemmeno una piccola parte delle idealità che il G. riteneva gli fossero
intrinseche e immanenti. Del resto, nel 1920, dopo due anni che era
salito sulla cattedra romana, il G. fondò, assumendone la direzione, il
Giornale critico della filosofia italiana: una rivista di sola filosofia che
anche per questo suo carattere non si contrapponeva in ogni senso alla Critica,
ma in un certo senso sì, anche perché nella nuova rivista gli scolari che
subito si erano stretti intorno al nuovo professore, e in lui vedevano il sole
della filosofia mondiale, riconobbero l'organo della scuola. E questo, come si
sa, era il punto che Croce meno apprezzava ed era disposto a perdonare.
Il momento decisivo della vita del G. venne quando, caduto il governo del
Giolitti nel quale Croce aveva ricoperto l'incarico di ministro, e succedutogli
uno presieduto da I. Bonomi con O.M. Corbino all'Istruzione pubblica, egli ebbe
modo di riflettere sulle mille difficoltà che dal mondo politico e parlamentare
sempre sarebbero state opposte a ogni tentativo che si fosse fatto d'introdurre
nella scuola una seria riforma. La disistima che, in linea generale, già da
molto tempo il G. nutriva nei confronti della classe dirigente italiana trovava
così, nella recente esperienza fatta quando Croce era al governo con Giolitti,
nuovo alimento. E può ben darsi che anche da questo egli fosse indotto a
guardare con sempre più grande favore al movimento fascista e a considerare con
politica indulgenza la violenza e le illegalità di cui nutriva la sua
azione. I documenti necessari a rendere certezza questa, che è solo una
congettura, mancano, che si sappia. Ma non è improbabile che, appunto,
riflettendo sulle recenti esperienze, il G. allora si persuadesse che, nella
questione della scuola come, in generale, in quella concernente il governo del
paese, il regime parlamentare dovesse cedere il campo a un sistema politico
diverso, fondato sulla rapidità delle decisioni e sulla forza necessaria a
tradurle nella realtà. E altresì deve aggiungersi che, nel pensare così e
nell'orientare in questa direzione le sue scelte politiche, come molti altri
egli fu forse tratto in inganno dalla scarsa esperienza che, nel complesso,
aveva non solo della politica, ma anche della storia; che, se gli fosse stata
meglio nota, gli avrebbe con ogni probabilità in segnato che la politica è
un'arte difficile, complessa e insidiosa, non in quanto si svolga in un
Parlamento e da questo attenda il consenso, ma perché è politica, e ha a che
fare con le passioni e gli interessi, nonché con il loro governo. Come
che sia, l'occasione di mettere alla prova i convincimenti che via via gli si
erano formati dentro venne quando, avendo ricevuto dal sovrano l'incarico di
formare il suo governo, che succedeva così a quello per breve tempo presieduto
da L. Facta, Benito Mussolini scelse infine come ministro della Pubblica
Istruzione proprio il Gentile. È stato detto da taluni che, entrando in quel
governo come indipendente e soltanto per le sue competenze non politiche ma
tecniche, il G. accettava da Mussolini quel che avrebbe benissimo potuto
accettare da Giolitti e da chiunque gli avesse offerto un'analoga occasione.
Ma, sebbene egli non avesse ancora dichiarato il suo consenso esplicito al
fascismo, e fascista ancora non potesse perciò essere detto, è pur vero che
quel che pensava di Giolitti e della tradizionale classe politica italiana non
gli avrebbe forse consentito di collaborare nel governo con uomini per i quali
nutriva disprezzo, e non stima. Nel governo in cui entrava il G. poteva infatti
contare sugli ampi poteri che, nel dargli fiducia, il Parlamento aveva concesso
a Mussolini, che governò infatti soprattutto con i decreti legge e con facilità
poteva aggirare le opposizioni; e di questo, che considerava un vantaggio, egli
si giovò con larghezza e altrettanta fermezza, perché, appunto, al governo era
andato con l'idea di realizzare comunque la riforma; e a realizzarla era
deciso. Non è possibile, in poco spazio, raccontare le vicende complesse
e intricate alle quali il progetto gentiliano della riforma dette luogo. E
basteranno due rilievi: uno rivolto a ricordare la struttura a cui la riforma
tendeva e alla quale infine mise capo, l'altro diretto a rievocare le fiere
critiche che essa suscitò, non solo nel mondo politico, ma anche in quello
della scuola. La struttura della scuola riformata prevedeva una scuola
elementare obbligatoria per tutti, nella quale il senso della tradizione
nazionale, della religione e della letteratura tenessero il centro e
costituissero il criterio per la formazione del giovane, al quale certo non
sarebbero mancate le nozioni elementari dell'aritmetica e della scienza.
Accanto al ginnasio-liceo, destinato a formare le future élites dirigenti e,
comunque, gli strati più alti della popolazione, la scuola riformata prevedeva
quattro indirizzi fondamentali a cui, come ha scritto S. Romano,
corrispondevano "quattro distinti ruoli sociali" (p. 174); e altresì
prevedeva che l'educazione impartita nelle elementari sarebbe stata completata,
per i figli del popolo, con tre anni di complementare, mentre una scuola industriale
e tecnico-commerciale, integrata da un istituto tecnico per chi avesse inteso
proseguire nello studio, avrebbe corrisposto alle esigenze formative di queste
professioni, insieme con una scuola magistrale, proseguibile in un magistero
universitario, per certe parti analogo alla facoltà di lettere e
filosofia. Le critiche che a questo modello di scuola, qui sommariamente
descritto, furono rivolte posero subito in rilievo il carattere conservatore,
statico e anche classista di una struttura a cui faceva in effetti riscontro
l'idea di una società immodificabile nei suoi equilibri politici ed economici.
E forti furono subito, da parte di non pochi, le riserve avanzate circa il
ruolo riservato al ginnasio-liceo, nel quale lo studio delle due lingue
classiche, il latino e il greco, prevaleva su quello delle lingue moderne e,
nel complesso, la parte riservata alle lettere appariva rispetto a quella fatta
alle scienze naturali, predominante. Si aggiungano le critiche rivolte
all'abbinamento, nel liceo, della filosofia e della storia, e anche della
matematica e della fisica; e sopra tutto al primo, che sconvolgeva antiche
abitudini sia degli storici, sia dei filosofi, alquanto astrattamente dedotto
da una teoria e che in concreto non aveva, e non ebbe, il potere di rendere filosofi
gli storici, e storici i filosofi. E infine non si dimentichi che la riforma
non piacque a molti cattolici, scontenti del potere che lo Stato veniva a
esercitare sulle scuole private, e a non pochi laici, scontenti essi pure che
la religione cattolica fosse diventata materia obbligatoria per tutti i giovani
cittadini dello Stato italiano. Accanto alle molte critiche, occorre
tuttavia anche ricordare e sottolineare che la riforma gentiliana nasceva da
una visione coerentemente unitaria, e certo non era la veste di Arlecchino che
altrimenti (e come poi è accaduto) avrebbe rischiato di essere: tante idee di
diversa provenienza mal combinate e peggio tenute insieme dallo spirito
deteriore del compromesso politico. Per quanto concerne il rilievo (certo non
infondato) di elitismo e persino di classismo, conviene dimenticare il
"nodo" che, per parafrasare Dante, tiene al di qua di ogni
ragionevole traguardo chi, ripugnando all'idea di fare delle classi economiche
più forti le vere destinatarie dell'alta cultura, intesa perciò come strumento
di conservazione e di trasmissione del potere, con alquanta semplicità di
spirito ritenga che la difficile questione si risolva col
"democratizzare" la cultura, ossia con l'estenderne l'ambito e
abbassarne il livello. L'esigenza che il G. (e questo non può essere negato)
cercava di realizzare, e che per alcuni versi si traduceva in istituti
didattici inadeguati, era diretta a far entrare nelle menti che
"cultura" significa, in primo luogo, la grande difficoltà che
s'incontra nel tentativo che si faccia di conseguirla: un tentativo che va a
buon segno soltanto se ci si impegna nell'acquisizione degli strumenti tecnici,
storici, linguistici, filosofici, scientifici, senza i quali il mondo del
sapere non dischiude i suoi tesori. Ma qui, su questo difficile problema, che
tende a tornare insoluto dinanzi a chi pur lavori nel tentativo di risolverlo,
occorre non insistere. Nel maggio 1923, all'apparenza con una decisione
improvvisa, che non fu comunicata se non a Mussolini, che doveva essere
informato, e della quale nemmeno Croce fu messo al corrente, il G. si iscriveva
al Partito nazionale fascista. E sulle ragioni che lo indussero, mentre era
ministro, a compiere questo passo, che certo non era privo di gravi
conseguenze, si è molto discusso; e da alcuni si è avanzata l'ipotesi che a
prendere questa decisione, che rese contenti i suoi allievi romani, ma non
altri che ne rimasero invece alquanto sgomenti, egli fosse indotto da due
diverse, ma convergenti, persuasioni. La prima, che quello fosse
l'esito necessario non tanto dell'idealismo attuale, che con il fascismo in
quanto tale poco aveva in comune, quanto piuttosto della riflessione da lui
condotta nei passati anni sulla storia d'Italia e sulla possibilità che ora il
fascismo aveva nelle mani di reintegrarne in unità le secolari scissioni e
lacerazioni, la politica imbelle e la letteratura vuota, compiendo il
Risorgimento. L'altra, immediatamente pratica e politica, che la riforma
sarebbe stata meglio difesa, e altrimenti non potesse esserlo, se il liberale
che egli era, ed era considerato, avesse mostrato di condividere senza riserve
la convinzione mussoliniana e fascista e avesse così posto termine, o almeno un
freno, alle critiche che gli si muovevano e alle diffidenze da cui era
circondato. In ogni caso, il passo che doveva decidere il destino del G.
era compiuto. Ed è quanto meno dubbio che, se lo compì anche per salvare la
riforma dalle forze che l'avversavano e minacciavano di impedirne l'attuazione,
quel passo servisse veramente allo scopo. I mesi che precedettero l'assassinio
di G. Matteotti, avvenuto il 10 giugno 1924 e che videro quattro giorni dopo le
sue dimissioni dal governo, furono drammaticamente segnati da gravi difficoltà,
a superare le quali non bastarono né il tattico appoggio datogli dal capo del
governo, né gli inviti alla resistenza provenienti dai suoi scolari e amici
romani, né il sostegno deciso di Croce che, malgrado il sempre più netto
incrinarsi dei loro rapporti e la frattura che entrambi sapevano, in cuor loro,
inevitabile, non glielo fece mancare e, nella sua impresa di ministro, lo
sostenne. Le dimissioni dal governo non furono un atto di autonomia, di
distacco dal fascismo che si era macchiato di un gravissimo delitto, di
opposizione alla sua politica. Furono, infatti, da lui motivate con pure
ragioni di opportunità politica e nell'interesse sia del governo, sia di colui
che lo presiedeva: ossia con l'argomento secondo cui le opposizioni delle quali
la sua riforma era da tempo l'oggetto potessero diventare un pretesto per
colpire Mussolini o avessero comunque, pretesto o no, a indebolire la posizione
politica di lui che, all'improvviso, era venuto a trovarsi in una situazione
obiettivamente molto difficile. Accusato apertamente dalle opposizioni di
essere il responsabile e il materiale mandante del delitto, Mussolini era
allora non solo in pericolo, ma sembrava altresì aver perduto la sicurezza e la
spregiudicatezza che, in momenti non altrettanto gravi, erano sembrate la dote
precipua del suo essere un politico nuovo, estraneo alle astuzie deteriori e
alle infinite mediazioni della prassi parlamentare. E, proprio perché
sull'indecisione dimostrata da Mussolini egli ebbe allora, in lettere private,
a formulare critiche precise - nonché il timore che quello smarrisse la via e
naufragasse -, proprio per questo il proposito di rendergli il più possibile
sgombro di ostacoli il cammino dovette sembrargli l'unico che un seguace fedele
dovesse preoccuparsi di tradurre in comportamenti conseguenti. Al fascismo,
dunque, con quel gesto il G. non tolse il suo consenso, ma piuttosto lo rinnovò
in un momento in cui non mancarono, fra i suoi allievi, quelli che, delusi
dall'indecisione mussoliniana, lo esortavano a prender lui la guida effettiva,
e cioè politica, del fascismo in crisi. Furono quelle settimane drammatiche,
perché, oltre gli elementi obiettivi che rendevano tale la crisi, a coloro che,
nel campo fascista, lo spingevano verso posizioni estreme si contrapponevano
gli amici che, o antifascisti o in via di diventar tali, gli davano il
consiglio opposto: non di rimanere nel partito di Mussolini, ma, decisamente,
di uscirne, mettendo in salvo una volta per tutte il suo "nome
onorato". Drammatiche sono, in questo senso, le lettere che allora gli scrissero
G. Lombardo Radice, collaboratore fedele e amico fraterno, e A. Omodeo, uno
degli allievi prediletti della scuola palermitana. Furono giorni, settimane,
mesi molto difficili anche perché il dissidio con Croce, che, come si è detto,
mai si era sul serio ricomposto e, come il fuoco la cenere, sempre aveva
seguitato a sottendere i loro rapporti, giunse allora, finalmente, alla sua
definitiva espressione. E quali, a determinare la rottura che in sostanza si
consumò alla fine dell'ottobre 1924, possano essere stati gli episodi e le
circostanze specifiche, sta di fatto che era la logica delle cose a rendere
grave ogni episodio, ogni circostanza che, se tale logica non fosse appunto
stata così forte e imperiosa, avrebbero, con ogni probabilità, potuto avere un
esito diverso. Sulle ragioni profonde che la determinarono e misero fine
a un sodalizio durato quasi trent'anni, molte cose si dissero allora, molte
sono state dette poi, quando parve che il distacco cronologico consentisse la
serenità necessaria alla formulazione del giudizio. E questa non è la sede dove
la questione possa essere analizzata in ciascuno dei suoi aspetti, filosofici,
politici, psicologici; e si può ben dire che, per quanto attiene al suo
concreto e determinato delinearsi e decidersi nel tardo autunno del 1924, essa
risulti definita dalle due lettere che il G. e Croce si scambiarono: essendo
tuttavia quest'ultimo che, di fronte alla dolorosa meraviglia espressa
dall'altro nell'apprendere che certi suoi comportamenti avevano seriamente
messo in pericolo la prosecuzione, non solo del loro sodalizio scientifico, ma,
addirittura, della loro amicizia, obiettò che al dissidio mentale nel quale da
tempo si trovavano se n'era aggiunto un altro, di natura pratica e politica; e
che le cose dovevano perciò fare il loro corso necessario, fino alle estreme
conseguenze. Le dimissioni che il G. presentò e che Mussolini accettò,
nominando al suo posto il liberale, e grande amico di Croce, A. Casati,
segnarono nella sua vita una svolta importante. Nella sua vita, s'intende dire,
pubblica e politica; e non nei suoi sentimenti e convincimenti politici che, a
quanto risulta, fino all'ultimo dei suoi giorni rimasero quelli che nel 1923 lo
avevano indotto a chiedere la tessera del partito fascista. Non nei sentimenti
e nei convincimenti, dunque. Ma nella vita pubblica e politica, sì. Al governo
infatti il G. non tornò più. E alla politica del paese partecipò bensì, nei
primi tempi, come presidente della Commissione dei quindici (divenuta poi dei
diciotto), il cui compito fu di svolgere una revisione costituzionale in senso
autoritario dello Stato. Partecipò bensì come vicepresidente del Consiglio
superiore della pubblica istruzione: una carica importante, questa, che gli
consentiva di vegliare sull'integrità della riforma, proteggendola da quanti
avevano interesse a intervenirvi per alterarla e stravolgerla. Ma, intesa in
senso stretto, dalla politica, in sostanza, egli allora uscì. E la sua
partecipazione alla vita del regime fascista si realizzò nelle istituzioni
culturali (per esempio, l'Istituto nazionale fascista di cultura, poi di
cultura fascista) delle quali ebbe la cura e che presiedette; e se nei giornali
e nelle riviste politiche alle quali normalmente collaborava non perse
occasione per dire il suo parere su ciò che più da vicino lo toccava,
l'argomento prescelto fu quasi sempre culturale, anche se mai egli mancò di
collocarlo nel quadro costituito della sua fede fascista e della sua fedeltà al
regime mussoliniano. Almeno su due episodi occorre tuttavia, non essendo
possibile in questa sede un più largo discorso, soffermarsi. E di questi uno
era bensì di natura anche filosofica e culturale, perché implicava in modo
preminente l'idea che da anni ormai egli aveva elaborato della filosofia e
dello Stato che, identico alla filosofia, rappresenta il vertice stesso
dell'autocoscienza; ma anche era di natura politica, e persino diplomatica,
coinvolgendo direttamente l'azione del governo e del suo capo. Si allude al
concordato con la S. Sede dell'11 febbr. 1929. E il G. lo avversò in un
pubblico discorso, che non ebbe conseguenze pratiche perché sulla via
concordataria Mussolini era deciso ad andare fino in fondo, e l'opposizione del
filosofo formalmente rientrò: sebbene quell'episodio dovesse seguitare ad agire
dentro di lui che, forse anche per questo, quasi volesse rinverdire dentro di
sé quel gesto di autonomia non andato a segno, per tutta la vita polemizzò con
i filosofi cattolici e, in modo particolare, con gli ambienti dell'Università
cattolica del S. Cuore di Milano, in primis con padre A. Gemelli, che egli
trattò con la mano rude che riservava a certe sue battaglie culturali e
filosofiche. L'altro episodio è costituito dalla battaglia che egli
sostenne perché ai professori universitari fosse imposto il giuramento di
fedeltà al regime fascista. E a parte le modalità con le quali e attraverso le
quali si svolse; a parte il nesso con le vicende della replica che, per
iniziativa di G. Amendola, e a nome di tanti e tanti intellettuali, Croce dette
al Manifesto degli intellettuali fascisti redatto dal G.; a parte le tragiche
ferite che questa imposizione apriva nella coscienza di tanti che innanzi a sé
videro o la prospettiva della miseria o quella dell'abdicazione ai dettami
dell'etica, c'è qualcosa che a questo riguardo merita di essere notato. E
questo è il singolare concetto della "concordia" a cui, com'era
accaduto persino nei giorni cupi della crisi aperta dell'assassinio Matteotti
(e come ancora sarebbe accaduto vent'anni dopo nei mesi della Repubblica sociale),
anche in quel caso il G. si appellò per sostenere che, se l'opposizione resa
evidente e, anzi, drammatizzata dal conflitto dei due manifesti, il suo e
quello di Croce, fosse stata superata da un formale atto di fedeltà al regime,
l'unità sarebbe stata ristabilita e nessuna discriminazione avrebbe più avuto
alcuna ragione d'essere nei confronti di dissenzienti che non erano, ormai, più
tali. E la cosa singolare è che, nell'argomentare così, non solo egli mostrava
di credere che, se il giuramento fosse stato dato, le ragioni del dissidio
politico che ai suoi occhi lo aveva reso necessario sarebbero venute meno; ma
addirittura riteneva che potesse essere e definirsi unità autentica quella che
fosse stata conseguita per la via della coercizione e non per quella, da lui
tante volte definita come l'unica possibile, della libertà, mediante la quale
lo spirito costituisce sé stesso. Quella dell'Enciclopedia Italiana fu
l'impresa alla quale, fra il 1925 e il 1943, il G. dedicò la parte più viva
della sua energia di grande organizzatore culturale. La parte più viva, e anche
la più grande, la più impegnata e costante, quella con la quale il suo
"tutto" quasi per intero giunse a coincidere. Quasi per intero;
perché, accanto all'opera dell'Enciclopedia, occorre non dimenticare l'altro
grande suo impegno, che fu costituito dalla Scuola normale superiore di Pisa,
della quale fu, dal 1928, commissario, quindi, dal 1932, direttore, e che nella
sua stessa persona difese, nel 1935, dall'attacco mosso da C.M. De Vecchi di
Val Cismon che, divenuto ministro dell'Educazione nazionale (gennaio 1935), gli
mostrò intera la sua ostilità, giungendo anche a destituirlo (giugno 1936). Il
provvedimento del ministro fu presto ritirato perché, sollecitato dal G., nella
controversia intervenne direttamente il capo del governo, che rimise al suo
posto il filosofo; che poté così continuare la sua opera di potenziamento e di
ammodernamento della Scuola, e rendere assai più agevole il soggiorno, e
migliori le condizioni di studio, agli studenti interni. Dai quali, sopra tutto
negli anni Trenta e Quaranta, dovette sopportare non poche manifestazioni di
antifascismo, perché, fra La Sapienza e la Normale, per opera di alcuni giovani
professori, e in primo luogo di G. Calogero, Pisa era diventata un centro assai
vivo di opposizione al regime fascista. Il consenso del quale questo
aveva goduto fin verso la metà degli anni Trenta era andato impallidendo
quando, con la guerra di Spagna e poi, nel 1938, con le leggi razziali, si ebbe
netta l'impressione che l'allineamento alla Germania nazionalsocialista avrebbe
avuto per conseguenza la tragedia di una seconda guerra europea e mondiale. E,
ancora una volta, il G. si trovò a dover affrontare un conflitto, difficile e
penoso, con i giovani che, direttamente o no, erano anche suoi allievi e non
poco, comunque, avevano ricevuto da lui. Le testimonianze, scritte e anche
orali, che rimangono di quegli anni pisani dicono di un suo atteggiamento
incerto fra paternalismo e autoritarismo, fra benevole indulgenze e improvvise
durezze. Un atteggiamento, questo, tipico di un uomo generoso e, nello stesso
tempo, incapace di comprendere le ragioni del dissenso; e che, su un piano di
ben altra drammaticità, si ripeté quando, avendo accolto e cercato di
"sistemare" alcuni intellettuali tedeschi che, dopo il 1933, avevano
dovuto lasciare la loro terra perché ebrei (P.O. Kristeller, K. Löwith, N.
Rubinstein, per citarne solo tre), la medesima questione gli si presentò, per
gli ebrei italiani, in seguito alla promulgazione delle già ricordate leggi
razziali del 1938. Anche in questo caso, infatti, quanto fu benevolo e
comprensivo nei confronti dei perseguitati, altrettanto il suo atteggiamento fu
debole nei confronti di chi di quella persecuzione si era reso responsabile. E
se niente egli disse in quegli anni in difesa di provvedimenti che non potevano
non ripugnargli profondamente, in pubblico non se ne dissociò. Ma si
diceva dell'Enciclopedia, nell'organizzare la quale, nel dirigerla,
nell'avviarla alla sua realizzazione, il G. seppe altresì formare, nella sede
romana di piazza Paganica, un luogo di lavoro affatto particolare, segnato in
profondità dalla sua energia, ma anche dal suo vivo senso della libertà della
scienza, che in sostanza, tenendosi in difficile equilibrio fra il censore
ecclesiastico e quello politico, egli seppe per lo più garantire agli studiosi
che vi collaboravano e che, se non certo in maggioranza, in buon numero erano
antifascisti o non fascisti. Si pensi, per fare qualche nome, a G. De
Sanctis, che all'Enciclopedia seguitò a collaborare anche dopo che, per non
aver voluto prestare il giuramento di fedeltà al regime, aveva dovuto
rinunziare alla cattedra romana. Si pensi a G. Calogero, a W. Giusti, a U. La
Malfa, a C. Antoni, e ad altri che, se, come si è detto, non erano propriamente
ostili al fascismo, nemmeno gli erano amici incondizionati; e qui si possono,
per esempio, fare i nomi di F. Chabod, di E. Sestan, di W. Maturi. A
proposito dell'Enciclopedia sono state poste, tra le altre, due questioni: se il
G. la concepisse come un grande monumento, fascista, da innalzare al fascismo,
o se da questa idea si tenesse tanto lontano quanto per contro era convinto che
quello dovesse essere un monumento italiano, frutto e documento dell'unica,
ossia della più alta, cultura italiana; e, inoltre, se l'Enciclopedia, quale il
G. la concepì e disegnò, abbia patito la conseguenza della chiusura e
dell'angustia della cultura idealistica e fosse perciò poco disposta a
concedere alle scienze naturali, fisiche e matematiche, lo spazio che queste
avrebbero richiesto e, beninteso, meritato. Alla prima deve rispondersi che,
certo, nata in quegli anni e resa possibile dal fascismo, l'Enciclopedia
appartiene al numero delle opere che allora si produssero. Ma
"fascista" non fu nella concezione, perché esplicitamente il G.
sostenne il suo carattere in primo luogo scientifico, culturale e non politico.
E "fascista" non fu nel contenuto, perché, oltre a essere
"scritta" da molti che fascisti non erano, e anzi al regime erano
avversi, anche gli studiosi che aderivano al regime vi scrissero per lo più da
studiosi e non da fascisti. Sì che, al riguardo, occorre distinguere e
mantenere le distinzioni: aggiungendo (e con questo si passa all'altra
questione) che, come non fu fascista nella concezione, così nemmeno fu
"idealistica" nel senso vulgato, per il quale si dice
"idealismo" e s'intende qualcosa come un oltraggio recato alla
scienza. In realtà, come accanto a studiosi idealisti tanti altri vi scrissero
che idealisti non erano affatto, così non sarebbe giusto dire che in generale
le scienze vi fossero depresse, e che le relative voci non fossero affidate a
studiosi di provato e, spesso, di grande valore. Il lavoro svolto nelle
Università di Roma e di Pisa, l'Enciclopedia, e quindi l'Università Bocconi di
Milano, l'Istituto per il Medio e l'Estremo Oriente, il Centro nazionale di
studi manzoniani (di cui il G. era stato nominato commissario nel 1937, e che
fu affidato alle cure sapienti di M. Barbi e del suo collaboratore F.
Ghisalberti) non resero però meno intensa la sua attività di studioso. Certo,
dopo il 1920-21, venne meno nel G. la possibilità e, con questa, anche
l'interesse, di coltivare la ricerca storica nelle forme che questa aveva
assunto, presso di lui, negli anni precedenti. Ma nel 1931, rielaborazione di
un corso tenuto nel 1927-28 nell'Università di Roma, dove (come già si è
ricordato) era succeduto al Varisco sulla cattedra di filosofia teoretica, il
G. pubblicava La filosofia dell'arte, documento di aspra polemica anticrociana,
ma anche, nello stesso tempo, rielaborazione dell'idealismo attuale dal punto
di vista del sentimento, interpretato ora come una sorta di grande Grundakkord,
presentante tratti di essenzialità e precategorialità della stessa vita
spirituale. E quindi pubblicava l'Introduzione alla filosofia (1933), raccolta
di scritti concernenti l'esame dei concetti fondamentali della filosofia,
studiati e prospettati dal punto di vista conseguito dall'idealismo attuale. E
senza la pretesa di ricordare tutti i tanti scritti, spesso di varia occasione,
che egli allora compose e con i quali fu presente nel dibattito e nella vita
culturale del paese, converrà tuttavia far menzione degli scritti dedicati ai
poeti, e cioè, in pratica, a Dante (La profezia di Dante, Roma 1933; Il canto
VI del Purgatorio, Firenze 1940), a Manzoni e infine a Leopardi, il più amato,
e quello altresì al quale dette forse il contributo, in questo campo della
critica letteraria, più notevole (Manzoni e Leopardi, Milano 1928;
Commemorazione di G. Leopardi, Roma 1937; Poesia e filosofia di G. Leopardi,
Firenze 1939). Se la si osserva dall'alto, e la si scruta nel non breve
periodo seguito alle battaglie per la riforma della scuola, contro il
concordato, per l'istituzione del giuramento da imporre ai professori delle
università, la vita del G. sembra, come si è detto, svolgersi prevalentemente
all'interno delle istituzioni culturali delle quali ebbe la cura. E qui, fra le
luci e le ombre di queste molteplici attività, che lo condussero anche
all'acquisto nel 1936 della casa editrice Sansoni, si ha quasi l'impressione
che il personaggio sfugga a una definizione; che, malgrado la sua spesso
ingombrante presenza, ci fosse in lui qualcosa di segreto, di irriducibile, con
il quale egli era forse il primo a non voler prendere, fino in fondo,
contatto. L'uomo era orgoglioso, sicuro di sé: tollerante, come si è
detto, ma anche deciso e prepotente. E non avrebbe mai consentito che qualcuno
spingesse, o provasse a spingere, lo sguardo per andare al di là di quella spessa
corazza attivistica, dietro la quale si muovevano forse più cose di quante
amici, nemici, egli stesso supponessero. Mentre impediva che altri penetrasse
nel suo animo, non era certo lui quello che fosse disposto ad aprirlo perché
egli stesso vi guardasse dentro. Un contributo gentiliano alla
"critica" di sé stesso sembra, francamente inconcepibile. Non senza
perciò che un moto di stupore si determinasse nell'ambito di chi vi conduceva
qualche ricerca, dal suo archivio sono emersi alcuni inediti dedicati alla
questione della morte, ossia a un tema, per il teorico dell'idealismo attuale,
insidioso fin quasi al limite dello "scandalo" (filosofico). Da
qualche altro indizio documentario può desumersi che se la fedeltà che lo
legava al fascismo non venne meno e intatta rimase l'ammirazione per Mussolini
e inconcussa la fiducia in lui, nei confronti del razzistico nazionalsocialismo
il G. mostrò tutt'altro che inclinazione o simpatia. Il che peraltro non gli
impedì di accettare senza discussione alcuna la guerra che, scoppiata nel
settembre 1939, coinvolse tragicamente, nel giugno del successivo anno, anche
l'Italia. Nei tre anni successivi, dal 10 giugno 1940 all'8 sett. 1943 - in
quei tre anni così gravi di disastri, di distruzioni, di sconfitte, e anche di
dolorosi lutti familiari, mentre il nesso che aveva unito le coscienze alla
patria si spezzava, perché la difesa di questa non s'identificava più, per
molti, con la difesa della libertà, da vent'anni perduta -, in questi tre anni
il G. scelse il silenzio; che fu rotto solo in poche occasioni: nel 1942,
quando esaltò in un articolo il Giappone guerriero, che, nei modi noti era
entrato in guerra attaccando gli Stati Uniti d'America; e quindi con il famoso
discorso agli Italiani del 24 giugno 1943. È difficile dire come, dentro
di sé, il G. valutasse il dissenso politico sempre più vivo nei confronti del
regime, e che egli non poteva non cogliere nei giovani con i quali, a Roma e a
Pisa, aveva frequente contatto: anche se è indiscutibile che di quel dissenso,
di quell'avversione, del progressivo distacco dal fascismo di molti che pure in
questo avevano creduto e riposto speranze, egli non partecipò, chiuso nel suo
sentimento di fedeltà come in una fortezza della quale convenisse non
abbassare, bensì, piuttosto, tenere ben alzati i ponti levatoi. Fu
questa, come si sa, la ragione per la quale egli accettò l'invito rivoltogli
dal segretario del partito fascista, C. Scorza, di pronunziare dal Campidoglio
un discorso che si rivolgesse agli Italiani, impegnati nella terribile prova
della guerra e che, da qualche settimana avevano ormai il nemico in casa,
fortemente attestato nella terra siciliana. Accettò l'invito che altri,
interpellati prima di lui, avevano declinato. Salì sul Campidoglio, e pronunziò
il suo discorso, che alcuni lodarono per il coraggio che aveva dimostrato e per
il rischio al quale aveva in tal modo esposto la sua persona, e altri invece
fortemente deplorarono e criticarono, cogliendovi come il segno della sua
perdizione, del suo ribadito essersi reso estraneo a quel suo più profondo
"sé stesso" dal quale non pochi avevano tratto una lezione di
libertà. Certo, con quel suo discorso, così teso, così eloquente e così,
politicamente, ingenuo, il G. mostrò intero il dramma, anzi rivelò la tragedia
nella quale, forse al di là della sua stessa consapevolezza, si
dibatteva. Poi vennero il 25 luglio, la caduta di Mussolini e del
fascismo, le umiliazioni che egli dovette subire quando il suo antico
segretario al ministero della Pubblica Istruzione, L. Severi, divenuto a sua
volta ministro nel governo formato da P. Badoglio, rese, senza alcuna seria
ragione, pubbliche tre lettere che gli erano state da lui privatamente
indirizzate a proposito, sopra tutto, di questioni concernenti la Scuola
normale superiore di Pisa. Il che provocò giudizi aspri su di lui sia da parte
dei fascisti che lo ritennero pronto a mettersi al servizio dei nuovi
governanti, sia da parte di non pochi antifascisti uniti ai primi, in questo
caso, da un non diverso giudizio. Poi venne l'8 settembre, la cui notizia
il G. apprese mentre si trovava a Roma, dove si era recato uno o due giorni
prima, per affari personali, da Troghi, un piccolo paese sito a pochi
chilometri da Firenze, nel quale, in una casa di campagna messa a disposizione
sua e della sua famiglia dall'amico G. Casoni, aveva trascorso i mesi estivi,
occupato a scrivere Genesi e struttura della società, il suo ultimo libro,
estremo frutto di un corso di lezioni tenute all'Università di Roma. E le
settimane successive furono quelle in cui, liberato Mussolini, e formatosi, con
la proclamazione della Repubblica sociale, un governo fascista con sede a Salò,
egli ricevette, tramite C.A. Biggini, divenuto ministro dell'Educazione
nazionale, l'invito a recarsi al Nord per un incontro con il capo del governo,
il "vecchio amico" al quale, ancora una volta, non poté non concedere
quel che quello gli chiedeva. Così fu nominato presidente dell'Accademia
d'Italia, trasferita da Roma a Firenze, dove fu sistemata a palazzo Serristori.
E qui, dopo che il "commovente" incontro con il "vecchio
amico" Mussolini aveva come riacceso in lui il desiderio di non starsene
in disparte e, invece, di combattere la sua ultima battaglia, egli riprese il
lavoro, cercando di riorganizzare l'Accademia e lavorando con i pochi soci che
vi si recavano, assumendo la direzione della Nuova Antologia, cercando di
riprendere contatti, e rapporti, per avviare nuove imprese. Ridette vita e
autonomia, e questa è una circostanza singolare, la cui genesi richiederebbe
qualche studio e attenzione, all'Accademia dei Lincei che infine era stata in
parte assorbita nell'Accademia d'Italia, e quindi soppressa. E riprese ancora a
collaborare ai giornali, perché, mentre gli eserciti alleati risalivano la
penisola e alla guerra che investiva le città e le campagne un'altra si
aggiungeva, di Italiani contro Italiani, gli sembrò che non si potesse non far
di nuovo risuonare il tema della concordia e dell'unità. Era un suo
vecchio tema, una sua convinzione tenace che, nel livido e tragico teatro che
era allora l'Italia, fu qual era stata durante la crisi seguita all'assassinio
di Matteotti, e quindi al tempo del giuramento fascista imposto ai professori
universitari, anche se, risuonando nella solitudine e nel gelo che circondavano
la sua persona, il suo accento risultasse ancora più livido, ancora più
tragico. Il G. riprese quel tema nel fosco crepuscolo dell'Italia fascista,
forte lui della convinzione che gli Italiani sarebbero tornati a esistere come
soggetti politici solo se fossero retroceduti al di qua delle ideologie e qui,
in questo luogo ideale, avessero ritrovato la loro unità e identità di
Italiani. Era una convinzione nutrita di illusione; e che fosse tale, si
comprende non solo se le sue parole siano ripensate nel clima di quel tragico
inverno, ma anche se si riflette sullo scambio logico sul quale, ancora una
volta, si fondavano, e che si rivela non appena si consideri che per un verso
sembrava che la conciliazione, la concordia, la ritrovata unità e identità
dovessero realizzarsi in un luogo ideale, irraggiungibile dalle ideologie, dal
fascismo, dunque, e dall'antifascismo, mentre per un altro era la Repubblica
sociale a rappresentare, nel segno dell'italianità, quel luogo ideale.
Ancora una volta le diverse componenti della sua anima, quelle che, nel loro
contrasto, conferiscono alla sua personalità un'inconfondibile dimensione
tragica, urtarono violentemente l'una contro l'altra. E la fedeltà mantenuta
usque ad mortem al fascismo si accompagnò alla protesta che egli più volte elevò
contro le atrocità alle quali intanto si dava luogo, da parte dei fascisti, con
torture, uccisioni, gravi violenze. La sua morte, avvenuta per mano di un
commando partigiano comunista, che lo attese nei pressi della Villa Montalto al
Salviatino, sulle colline di Firenze dalla parte di Fiesole, nella tarda
mattina del 15 apr. 1944, al suo ritorno a casa dopo la mattina trascorsa al
lavoro a palazzo Serristori, fu perciò anch'essa una morte violenta. E suscitò
molta emozione, anche fra coloro che lo avevano combattuto e mai avevano
perdonato a lui, filosofo dell'atto e della sua assoluta libertà, la scelta
fascista, cui era rimasto fedele. Due domande, semplici, ovvie e
altrettanto inevitabili, si pongono, e sono state poste, a proposito della sua
ultima scelta politica e sulle ragioni che determinarono la decisione di
ucciderlo. E la risposta non è, per quanto concerne la seconda, altrettanto
semplice di quella che può e deve darsi alla prima. Alla Repubblica sociale il
G. aderì per le ragioni da lui stesso addotte; perché si trattava non di
scegliere di nuovo, ma di ribadire, nel momento del supremo pericolo, la scelta
fatta vent'anni innanzi. E non c'era calcolo politico che bastasse a mettere in
crisi questa decisione, perché l'intero universo si concentra e vive nell'atto
puro, e quel che resta fuori non è se non calcolo, astuzia: ossia, a rigore,
niente. Alla seconda domanda rispondere si potrà in modo adeguato quando nuovi
documenti interverranno a far luce nelle molte zone oscure che tuttora impediscono
di vedere tutta la verità; che emergerà quando e se emergerà: e allora si vedrà
fino a che punto nella decisione di uccidere il G. che aveva rinnovato il suo
legame con il fascismo e con Mussolini siano entrate anche valutazioni
politiche non direttamente note a quanti, sulla collina fiorentina, spezzarono
il filo della sua vita. Qui basterà ricordare che nella chiesa di S. Croce, in
Firenze, il nome del G. indica, sul pavimento, il luogo della sua
sepoltura. Opere. Le opere complete del G., raccolte via via durante la
vita dell'autore, prima da Laterza (Bari), poi da Treves-Tumminelli (Milano e
Roma), quindi da Sansoni (Firenze), furono riprogettate e stampate dopo la
morte del G. e la fine della guerra mondiale da questo medesimo editore, al
quale subentrò negli ultimi anni, ma senza alcuna mutazione di veste
tipografica e di caratteri, l'editrice Le Lettere, sempre di Firenze.
L'edizione definitiva rispetta fondamentalmente le partizioni già previste dal
G., e cioè: I, Opere sistematiche; II, Opere storiche; III, Opere varie alle
quali due si aggiungono, una IV, Frammenti, e una V, Epistolari. A queste
cinque partizioni si è unita di recente, una VI di Scritti inediti e vari,
nella quale sono apparsi fin qui Eraclito. Vita e frammenti (con il facsimile del
manoscritto della traduzione di H. Diels), a cura di H.A. Cavallera, premessa
di F. Adorno, Firenze 1996, e La filosofia della storia. Saggi e inediti, a
cura di A. Schinaia, premessa di E. Garin, ibid. 1996. A parte questi due
ultimi, i volumi fin qui pubblicati delle Opere complete sono quarantanove,
perché ancora in preparazione risulta il XXIX, dedicato a B. Spaventa; e
aumenteranno, negli anni a venire, nella sezione comprendente i Carteggi,
alcuni dei quali sono già in lavorazione, come quello con G. Calogero, a cura
di C. Farnetti, e l'altro con G. Chiavacci, a cura di M. Simoncelli.
Qui converrà ricordare in quanto inserite nel testo della voce le
principali opere del G.: Rosmini e Gioberti, Pisa 1898; La filosofia di Marx,
ibid. 1899; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, Bari 1909; I
problemi della scolastica e il pensiero italiano, ibid. 1913; La riforma della
dialettica hegeliana, Messina 1913; Sommario di pedagogia come scienza
filosofica, I, Pedagogia generale, Bari 1913; II, Didattica, ibid. 1914; Teoria
generale dello spirito come atto puro, Pisa 1916; I fondamenti della filosofia
del diritto, ibid. 1916; Sistema di logica come teoria del conoscere, I, La
logica dell'astratto, ibid. 1917; II, La logica del concreto, Bari 1923; Le
origini della filosofia contemporanea in Italia, I-IV, Messina 1917-23; Gino
Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono, Firenze 1922; La filosofia
dell'arte, Milano 1931; Introduzione alla filosofia, ibid. 1933; Genesi e
struttura della società, Firenze 1944. Fra i carteggi, quello con
Croce, comprendente le sole lettere del G., è raccolto in Lettere a B. Croce,
I-V, a cura di S. Giannantoni, Firenze 1972-90 (il testo di riferimento è B.
Croce, Lettere a Giovanni Gentile, a cura di A. Croce, con introd. di G. Sasso,
Milano 1980). Ma sono anche usciti: G. Gentile - D. Jaja, Carteggio, a cura di
M. Sandirocco, I-II, Firenze 1969; G. Gentile - A. Omodeo, Carteggio, a cura di
S. Giannantoni, ibid. 1974; G. Gentile - S. Maturi, Carteggio, a cura di A.
Schinaia, ibid. 1987; G. Gentile - F. Pintor, Carteggio, a cura di E.
Campochiaro, ibid. 1993. Fonti e Bibl.: Tre sono le biografie fin qui
dedicate al G.: M. Di Lalla, Vita di G. G., Firenze 1975; S. Romano, G. G.: la
filosofia al potere, Milano 1984; G. Turi, G. G.: una biografia, Firenze 1995.
Si aggiungano i ricordi e le testimonianze di B. Gentile: G. G.: dal Discorso
agli Italiani alla morte (24 giugno 1943 - 15 aprile 1944), Firenze 1954;
Ricordi e affetti, Firenze 1988. Sulla uccisione del G., v. L. Canfora, La
sentenza. C. Marchesi e G. G., Palermo 1985, dove si troverà l'indicazione
della precedente bibliografia relativa a questa pagina non ancora
definitivamente scritta. Cfr. anche G. Sasso, La fedeltà e l'esperimento,
Bologna 1993, pp. 73-117. La bibliografia sul G. è assai ampia: per gli scritti
del G. ci si deve ancora servire della Bibliografia degli scritti di G. G., a
cura di V.A. Bellezza, in G. G.: la vita e il pensiero, III, Firenze 1950, e
anche di Il pensiero di G. Gentile. Atti del Convegno 1976-1977, Roma 1977, II,
pp. 903-1011. Per gli scritti dal 1980 al 1993, si veda: S. Bonechi, B. Croce -
G. G.: bibliografia 1980-1993, in Giornale critico della filosofia italiana,
LXXV (1994), pp. 632-660. In questo ambito per un primo orientamento si può
innanzi tutto cercar di distinguere fra quanto di e sul G. è stato scritto dai
principali discepoli delle sue due scuole, la palermitana e la romana, e cioè
da V. Fazio-Allmayer, da A. Omodeo, F. Albeggiani, il giovane G. De Ruggiero, e
quindi U. Spirito, A. e L. Volpicelli, G. Calogero, G. Chiavacci, lo stesso A.
Carlini, ecc. in ciascuna delle loro opere, e quanto invece al pensatore
siciliano è stato dedicato con esplicita intenzione storiografica. Non sempre
agevole da rispettare, la distinzione può tuttavia essere di qualche utilità; e
qui si indicheranno gli scritti appartenenti alla seconda classe (mentre per la
storia "filosofica" dell'attualismo, può vedersi A. Negri, G. G.,
I-II, Firenze 1975; cfr. anche A. Lo Schiavo, Introduzione a G., Bari 1974).
Sono, innanzi tutto, da tener presenti gli studi raccolti nei quattordici
volumi della serie G. G.: la vita e il pensiero, Firenze 1948-72. Si veda
quindi: G. De Ruggiero, La filosofia contemporanea, Bari 1912; U. Spirito, Il
nuovo idealismo italiano, Roma 1923; Id., L'idealismo italiano e i suoi
critici, Firenze 1930; V. La Via, L'idealismo attuale di G. G., Trani 1925; F.
De Sarlo, G. e Croce. Lettere filosofiche di un superato, Firenze 1925; G.
Calogero, Il neohegelismo nel pensiero contemporaneo, in Nuova Antologia, 16
ag. 1930, pp. 3-20; R.W. Holmes, The idealism of G. G., New York 1937; P.
Carabellese, L'idealismo italiano, Roma 1938; A. Guzzo, Sguardi sulla filosofia
contemporanea, Roma 1940; M. Ciardo, Un fallito tentativo di riforma dello
hegelismo: l'idealismo attuale, Bari 1949; E. Garin, Cronache di filosofia
italiana (1900-1943), Bari 1955; H.S. Harris, The special philosophy of G. G.,
Urbana, IL, 1960; A. Guzzo, Cinquant'anni di esperienza idealistica in Italia,
Padova 1964; U. Spirito, G. G., Firenze 1969; A. Del Noce, Il suicidio della
rivoluzione, Milano 1978; V.A. Bellezza, La problematica gentiliana della
storia, Roma 1983; A. Del Noce, G. G.: per una interpretazione filosofica della
storia contemporanea, Bologna 1990; A. Negri, L'inquietudine del divenire. G.
G., Firenze 1992; G. Sasso, Filosofia e idealismo, II, G. G., Napoli 1995.Armando
Girotti. Girotti. Keywords: la curva, la curva della bellezza, la linea, la
linea della bellezza, storia storica, non filosofica – unita longitudinale –
longamiranza, distillizione filosofica – Gentile, il Gentile di Girotti. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Girotti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755915192/in/dateposted-public/
Grice e
Giudice – l’implicatura di Bruno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo. Grice: Grice: “Giudice amply proves my trust in the worth of the
longitudinal unity of philosophy, for Giudice has unearthed some philosophical
minutiae in Bruno – like his tract to Sir Philip Sidney on ‘Atteone,’ which are
jewels of implicature!” -- “For Italian philosophy, Bruno is interesting: it’s
not all saints like Aquinas; they had hereetics, too – and usually the heretics
had a better philosophical background – into what the Italians called the
lovely ‘hermetic tradition’ – we used to have one at Oxford in pre-lib days!”
-- Grice: “If I am a Griceian, Giudice is a Brunoian – the Italians prefer
‘brunista’ or ‘bruniano,’ but I follow Katz is respecting the full surname – if
it is ‘bruno,’ you add things, you don’t substract things!” Essential Italian philosopherwho has studied in depth
the origin of philosophy in the Eleatic school. Guido del Giudice (Napoli), filosofo. Si
laurea a Napoli e studia Bruno e la filosofia del rinascimento. Fonda la
Societa Giordano Bruno. Altre opera: “Bruno” (Marotta e Cafiero Editori,
Napoli); “La coincidenza degli opposti” (Di Renzo Editore, Roma); “Bruno,
Rabelais e Apollonio di Tiana, Di Renzo Editore, Roma); “Due Orazioni. Oratio
Valedictoria e Oratio Consolatoria, Di Renzo Editore, Roma, “La disputa di
Cambrai. Camoeracensis acrotismus, Di Renzo Editore, Roma); “Il Dio dei
Geometri” quattro dialoghi, Di Renzo Editore, Roma); “Somma dei termini
metafisici”; “Tra alchimisti e Rosacroce, Di Renzo Editore,Roma, “Io dirò la
verità. Intervista a Giordano Bruno, Di Renzo Editore, Roma, “Contro i
matematici, Di Renzo Editore, Roma, “Il profeta dell'universo finite” – “Epistole
latine, Fondazione Mario Luzi,. Scintille d'infinito” (Di Renzo Editore). BRUNO,
Giordano (Philippus Brunus Nolanus; Iordanus Brunus Nolanus, il Nolano). -
Nacque a Nola, nel Regno di Napoli, nel gennaio o febbraio 1548, figlio di
Giovanni Bruno, uomo d'arme, e di Fraulisa Savolino: fu battezzato con il nome
Filippo. Della città natale, dove trascorse l'infanzia e iniziò i primi studi,
conservò poi sempre un ricordo nostalgico. Nel 1562 si recò a Napoli per
studiare lettere, logica e dialettica: in quello Studio ebbe come maestri il
Sarnese (Giovan Vincenzo Colle), filosofo di tendenze averroiste, e fra'
Teofilo da Vairano, agostiniano, da lui ricordato in seguito con sincera
ammirazione. La lettura di uno scritto di Pietro Ravennate suscitò fin da
allora in lui l'interesse per la mnemotecnica. Il 15 luglio 1565, a
diciassette anni compiuti e con una incipiente formazione laica, entrò come chierico
nel convento napoletano di S. Domenico Maggiore, dove assunse il nome Giordano
(forse in onore del domenicano fra' Giordano Crispo, maestro allo Studio) e
quel nome ritenne poi sempre, salvo che per una breve parentesi. Mal
compatibile, per carattere e prima formazione, con la regola conventuale, tra
il 1566 e il 1567 incorse nelle prime infrazioni per aver spregiato il culto di
Maria, nonché quello dei santi (una denuncia contro di lui venne allora
stracciata dal maestro dei novizi). Con cautela va accolta la notizia da
lui in seguito fornita (Doc. parigini, V) di un invito a Roma per mostrare la
propria abilità mnemonica a Pio V (viaggio che lo Spampanato pone tra il 1568 e
il 1569):va però notato che allo stesso pontefice il B. dichiarò di aver
dedicato L'arca di Noè,operetta smarrita di argomento morale (Dialoghi
italiani, p. 842). Ordinato suddiacono (principio del 1570) e poi diacono
(principio del 1571), venne consacrato sacerdote dopo aver compiuto i
ventiquattro anni, e celebrò la prima messa nella chiesa del convento
domenicano di S. Bartolomeo a Campagna, presso Salerno. Nella seconda metà del
1572, dopo aver soggiornato in altri conventi del Napoletano, fece ritorno allo
Studio di S. Domenico Maggiore in Napoli come studente formale di teologia: il
curriculum quadriennale comprendeva un corso speculativo (prima e terza parte
della Summa tomista) e un corso morale (seconda parte della Summa,alternabile
con il quarto libro delle Sentenze di Pietro Lombardo esposte da fra' Giovanni
Capreolo). È da ritenere che il B. abbia superato gli esami annuali, e nel
luglio 1575 quelli di licenza, per cui sostenne le tesi "Verum est
quicquid dicit D. Thomas in Summa contra Gentiles" e "Verum est
quicquid dicit Magister Sententiarum" (Doc.parigini, II). Tali studi,
se da una parte suscitarono in lui una non mai smentita ammirazione per l'opera
di s. Tommaso, d'altra parte dovettero ingenerargli quel fastidio per "les
subtilitez des scholastiques, des Sacrements et mesmement de
l'Eucharistie" (Doc. parigini,II), con il conseguente disinteresse per la
problematica teologica manifestato in seguito nelle proprie opere come pure,
più tardi, in sede processuale. Fin dagli anni conventuali mostrò per contro
interesse per opere estranee al curriculum, nonché decisamente vietate, quali i
"libri delle opere di S. Grisostomo e di S. Ieronimo con li scolii di
Erasmo" (Doc. veneti, XIII).Ciò che, unitamente all'espressione dei propri
dubbi circa il dogma della Trinità durante una discussione sulla eresia ariana,
portò all'istruzione di un processo a suo carico da parte del padre provinciale
(con l'occasione venne ricostruito anche il precedente atto d'accusa già
distrutto): in una scrittura smarrita inviata a Roma egli doveva figurare come
sospetto di eresia. Mentre il processo veniva iniziato, il B. non esitò
ad abbandonare il convento e la città, probabilmente nel febbraio 1576, e nello
stesso mese dové giungere a Roma, dove prese alloggio nel convento di S. Maria
sopra Minerva, confidando forse che il proprio caso passasse ignorato tra i
disordini che turbavano la città. Egli stesso venne però coinvolto in tali
disordini e imputato di "aver gettato in Tevere chi l'accusò, o chi
credette lui che l'avesse accusato a l'inquisizione" (Doc. veneti, I):
imputazione infondata (come è mostrato dal mancato riferimento ad essa nelle
successive vicende processuali), con tutto che un secondo processo contro di
lui venne istruito nel 1576 dall'Ordine dei predicatori. Dopo i primi mesi di
quell'anno, saputo che i propri libri erasmiani erano stati rintracciati a
Napoli, il B., deposto l'abito, abbandonò Roma, raggiunse Genova (circa 15
aprile) e si trattenne a Noli fino al principio del 1577 "insegnando la
grammatica a figliuoli e leggendo la Sfera a certi gentilomini" (Doc.
veneti, IX). Da Noli passò a Savona e quindi a Torino; di lì, non avendovi
trovato "trattenimento a sua satisfazione", si recò a Venezia, dove
si trattenne non più di due mesi, facendovi stampare, allo scopo di guadagnare
qualcosa, "un certo libretto intitolato De' segni de' tempi", da lui
fatto esaminare dal domenicano Remigio Nannini: opera pur questa smarrita. A
Padova fu persuaso da alcuni domenicani a indossare l'abito pur quando non
avesse voluto rientrare nell'Ordine: ciò che il B. fece dopo essersi recato,
per Brescia, a Bergamo. Toccata Milano, nel 1578 lasciò l'Italia attraverso la
Savoia, diretto a Lione: giunto a Chambéry e avvertito dai domenicani locali
dell'ostilità che avrebbe incontrato nella regione, si trasferì a Ginevra, dove
fin dal 1552 una comunità evangelica italiana era stata fondata dal marchese
Gian Galeazzo Caracciolo di Vico. A Ginevra, dimesso nuovamente l'abito,
il B. si guadagnò da vivere come correttore di bozze tipografiche. Risulta
tuttavia che egli aderì formalmente al calvinismo, come provato non tanto dalla
immatricolazione universitaria autografa del 20 maggio 1579, quanto da un
processo per diffamazione ai danni del titolare di filosofia Antoine de la
Faye, istruito contro di lui dal concistoro nell'agosto 1579: il giorno 13 il
B. venne riconosciuto colpevole e virtualmente scomunicato. Dopo un debole
tentativo di difesa, egli si riconobbe colpevole, pregò di essere riammesso
alla cena, e il giorno 27 venne prosciolto dalla scomunica. Tale episodio (che
avrebbe lasciato tracce durevoli nelle sue opere mediante la propria polemica
anticalvinista) determinò la sua partenza da Ginevra. Recatosi questa
volta a Lione, non avendovi trovato modo di sostentarsi, vi si trattenne solo
un mese (forse tra il settembre e l'ottobre 1579) e si recò quindi a Tolosa,
che era proprio in quel tempo uno dei baluardi della ortodossia cattolica: ciò
che dimostra la portata della sua reazione anticalvinista, confermata anche dal
tentativo che allora fece di ottenere l'assoluzione da un padre gesuita. La
mancata assoluzione, "per esser apostata" (Doc. veneti, XII), non gli
impedì di essere invitato "a legger a diversi scolari la Sfera, la qual
lesse con altre lezioni de filosofia forse sei mesi" (Doc. veneti, IX),
nonché di conseguire il titolo di magister artium: ed ottenere per concorso il
posto allora vacante di lettore ordinario di filosofia: onde lesse, "doi
anni continui, il testo de Aristotele De anima ed altre lezioni de
filosofia". Da accenni fatti più tardi dallo stesso B., è dato inferire
che il suo insegnamento incluse lezioni di fisica, matematica e lulliane.
Risale a quest'epoca la composizione della Clavis magna, trattato
mnemotecnico-lulliano rimasto inedito e smarrito. Nell'estate del 1581 si
delineò una ripresa della lotta tra cattolici e ugonotti, e il B. dové lasciare
Tolosa "a causa delle guerre civili" (Doc. veneti, IX). Trasferitosi
a Parigi, vi intraprese "una lezion straordinaria", cioè un corso di
trenta lezioni su altrettanti "attributi divini, tolti da S. Tommaso dalla
prima parte", che alcuni vogliono costituisse l'operetta inedita e
smarrita "di Dio, per la deduzion di certi suoi predicati universali"
(Doc. veneti, I). A Parigi non poté accettare un lettorato ordinario per
l'obbligo - che, come apostata, non volle assumersi - di frequentare la messa;
tuttavia conseguì tale rinomanza mediante il lettorato straordinario, che, come
ebbe a dichiarare egli stesso, "il re Enrico terzo mi fece chiamare un
giorno, ricercandomi se la memoria che avevo e che professava, era naturale o
pur per arte magica; al qual diedi sodisfazione; e con quello che li dissi e
feci provare a lui medesimo, conobbe che non era per arte magica ma per
scienza" (Doc. veneti, IX): episodio che ben si comprende tenendo conto
del fatto che la corte francese era frequentata da intellettuali come J. D. du
Perron e Pontus de Tyard di cui sono noti gli interessi per il sapere
enciclopedico e l'arte della memoria come strumenti per un piano di riforma
culturale. Tuttavia i rapporti del B. con la corte - che sarebbero durati, direttamente
o indirettamente, per circa un quinquennio - si spiegano altresì sul piano
ideologico-politico, ove si tenga conto dell'analogia tra l'equidistanza
bruniana dal rigorismo cattolico e da quello protestante, e la posizione
mediana dei politiques, che controllavano la corte, tra l'estremismo cattolico
dei ligueurs e quello protestante degli ugonotti. Durante questo primo
soggiorno parigino apparvero a stampa le prime operette bruniane a noi
pervenute: il Deumbris idearumcon raggiunta dell'Arsmemoriae, opera
mnemotecnica e lulliana stampata da E. Gourbin nel 1582, dal B. dedicata ad
Enrico III, il quale "con questa occasione lo fece lettor straordinario e
provisionato" (Doc. veneti, IX: egli venne cioè a far parte del gruppo dei
lecteurs royaux, tendenzialmente contrari al conformismo aristotelico della
Sorbonne); seguì, nello stesso anno, il Cantus circaeus, operetta mnemotecnica
stampata da E. Gilles e dedicata, per conto del B., da J. Regnault a Henri
d'Angoulême, fratello naturale del re, essendo il B. stesso "gravioribus
negociis intentus" (Opera, II, 1, p. 182); quindi il De compendiosa
architectura et complemento Artis Lullii (Gourbin, 1582) dedicata dal B.
all'ambasciatore veneto Giovanni Moro. La prima parte del De umbris
rielabora materiale lulliano e mnemotecnico ai fini di una ricerca gnoseologica
che presuppone, platonicamente, una corrispondenza tra mondo fisico e mondo
ideale; la seconda e terza parte costituiscono un manuale mnemotecnico per cui
il B. attinge in particolare al ravennate (l'impostazione didascalica è ripresa
nell'Ars memoriae, in cui elementi della tradizione astrologico-ermetica si
inseriscono nella elaborazione lulliana e mnemotecnica, fermo restando
l'intento gnoseologico). Il Cantus circaeus, in due dialoghi, presenta un'applicazione
concreta dell'ars esposta nel De umbris, non senza un'intenzione satirica che
sarà poi sviluppata nello Spaccio. Il De compendiosa architecturarielabora gli
elementi tecnici del lullismo allo scopo di offrire uno strumento gnoseologico
per cui l'ordine universale risulta riflesso nello schema simbolico.
Nell'agosto del 1582 il B. terminava la composizione dell'unica sua commedia,
il Candelaio, stampata prima della fine dell'anno (anteriormente forse al De
compendiosaarchitectura) da Guillaume Julien figlio. Sul frontespizio l'autore
si definiva "Academico di nulla Academia, detto il Fastidito, in tristitia
hilaris, in hilaritate tristis. Il Candelaio, scritto in un volgare
popolaresco ricco di napoletanismi plebei, ma non senza echi della tradizione
burlesca rinascimentale (Aretino, Berni, ecc.) accanto a moduli parodici della
retorica classica, riflette sul piano morale il momento di rottura con
l'Ordine, né è da escludere che la composizione ne fosse stata iniziata prima
dell'allontanamento dall'Italia. Dedicata Alla signora Morgana B., personaggio
napoletano di non sicura identificazione, la commedia, di ambientazione appunto
napoletana - la cui azione si svolge nel 1576, "vicino al seggio di
Nilo" - investe satiricamente "tre materie principali" e
"l'amor di Bonifacio, l'alchimia di Bartolomeo e la pedanteria di
Manfurio", in una sorta di applicazione alla vita morale del principio
bruniano della corrispondenza e identificazione dei distinti nell'uno. Fin
dalle pagine preliminari si notano del resto motivi che, riallacciandosi alla
base teoretica dell'elaborazione lulliana e mnemotecnica delle operette latine,
anticipano alcuni presupposti dei più tardi dialoghi filosofici ("Il tempo
tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s'annichila; è un solo che
non può mutarsi..."). Dalla dedica del Candelaio si sono desunti due
titoli di presunte opere smarrite del B. (Gli pensier gai e Il troncod'acqua
viva), mentre nell'atto I, scena II, si trova citata un'ottava ("Don'a' rapidi
fiumi in su ritorno") di un "poema" inedito e smarrito, cui
appartiene forse anche l'ottava "Convien ch'il sol, donde parte,
raggiri" citata tre anni dopo negli Eroici furori. Il 28 marzo 1583
l'ambasciatore inglese a Parigi, H. Cobham, inviava un preoccupato messaggio al
primo segretario del Regno d'Inghilterra, F. Walsingham, informandolo
dell'intenzione del B. di passare in Inghilterra: la preoccupazione concerneva
l'ambigua posizione bruniana in fatto di religione. L'arrivo del B. in
Inghilterra, con lettere di raccomandazione di Enrico III per il proprio
ambasciatore presso Elisabetta - il tollerante Michel de Castelnau (cui era
affidato il compito delicato di sostenere la causa di Maria di Scozia presso la
regina) -, è da porre nell'aprile. Da una parte il B. poté essere indotto a
lasciare Parigi "per li tumulti che nacquero" (Doc. veneti, IX) - o
più esattamente per il delinearsi di quella reazione cattolica che due anni più
tardi avrebbe indotto il re a revocare gli editti di pacificazione con i protestanti
-; d'altra parte non è da escludere che il suo viaggio in Inghilterra potesse
rientrare in un piano dei moderati francesi inteso a mobilitare la corrente
politique inglese ai fini di una distensione politico-religiosa in Europa. Ma
non è certo da trascurare la personale urgenza bruniana per una sua
affermazione sul piano accademico-speculativo dopo i tentativi compiuti a
Tolosa e a Parigi. Al suo arrivo in Inghilterra il B. prese dimora nella
casa del Castelnau, a Butcher Row, dove "non faceva altro, se non che
stava per suo gentilomo" (Doc.veneti, IX). Tra il 10 e il 13 giugno 1583
fece una prima visita a Oxford, al seguito del conte palatino polacco Alberto
Laski: in tale occasione, pur non facendo parte degli oratori designati,
sostenne un pubblico dibattito con i dottori oxoniensi, in particolare con il
teologo John Underhill, richiamandosi alla logica aristotelica in polemica con
le posizioni ramiste. Rientrato a Londra, è da ritenere che indirizzasse allora
la sua pomposa lettera Ad excellentissimum Oxoniensis Academiae
Procancellarium,clarissimos doctores atque celeberrimos magistros (allegata ad
alcuni esemplari della Explicatio triginta sigillorum), con la quale faceva
istanza per l'ottenimento di una lettura a Oxford. Sebbene dai registri
universitari non risulti che il B. abbia tenuto un corso formale in quella
sede, la sua stessa testimonianza di avervi tenuto "pubbliche letture, e
quelle de immortalitate animae, e quelle de quintuplici sphaera" (Dialoghi
italiani, p. 134: vedi Doc. parigini, I, e Opera, II, 2, p. 232), risulta
confermata dalla pur ostile testimonianza di George Abbot (cfr. McNulty), il
futuro arcivescovo di Canterbury, allora membro del Balliol College, da cui si
apprende che, dopo la prima visita a Oxford, il B. vi tornò nel corso della
stessa estate e vi iniziò un corso in latino sostenendo, tra l'altro, la teoria
copernicana del movimento della Terra e della immobilità dei cieli: anticipando
quindi pubblicamente quanto da lui elaborato nei dialoghi londinesi stampati
l'anno seguente. Così il B. come l'Abbot concordano nell'affermare che tale
corso venne interrotto per pressioni esterne (stando all'Abbot, il medico
Martin Culpepper, guardiano di New College, e Tobie Matthew, decano di Christ
Church, avrebbero rilevato un plagio bruniano nei confronti del ficiniano De
vita coelitus comparanda: ciò che può essere inteso con riferimento ai prestiti
ficiniani nella terminologia bruniana). Interrotto il corso dopo la terza
lezione, rientrò a Londra, presso il Castelnau, ribadendo il proprio atteggiamento
antiaccademico, in direzione quindi antiaristotelica e insieme
antiumanistica. A Londra il B. condusse la propria polemica culturale e
speculativa sia in discussioni nell'ambito dei circoli paraccademici di corte,
sia mediante la divulgazione a stampa delle proprie teorie già respinte dal
pubblico universitario inglese. La prima opera pubblicata a Londra, nel 1583, è
un volumetto contenente l'Ars reminiscendi, l'Explicatio triginta sigillorum
(preceduta in alcuni esemplari dalla già citata lettera agli Oxoniensi) e il
Sigillus sigillorum. Solo per l'Explicatio e per la lettera è possibile
precisare l'officina tipografica, che è quella di John Charlewood, dalla quale
sarebbero uscite tutte le rimanenti opere londinesi. L'Ars reminiscendi
è, con lievi varianti, una riproduzione dell'ultima parte del Cantus circaeus.
Gli scritti che seguono portano la dedica all'ambasciatore francese, con parole
di riconoscenza per la familiare ospitalità. L'elencazione dei "triginta
sigilli" mostra che questi rappresentano la sintesi formale dei segni
ovvero ombre delle cose e delle idee. Dalla Triginta sigillorum explicatio
appare manifesto il presupposto gnoseologico del complesso simbolismo
mnemotecnico bruniano. Nel Sigillus sigillorum si manifesta la fede del B.
nell'unità del processo conoscitivo, cui corrisponde, sul piano ontologico, la
fondamentale unità dell'universo. Alla innegabile utilizzazione di elementi
propri alla tradizione platonico-alchimistica, fa qui riscontro l'assenza di
preoccupazioni e tendenze d'ordine mistico-religioso: il carattere
"speculativo" del Sigillusfa di quest'opera il legittimo antecedente
della serie dialogica italiana. Il 14 febbraio del 1584, mercoledì delle
Ceneri, il B. venne invitato a illustrare la propria teoria sul moto della
Terra nella "onorata stanza" di sir Fulke Greville, a Whitehall, in
compagnia di Giovanni Florio e del medico gallese Matthew Gwinne, essendo
presenti due dottori oxoniensi sostenitori del sistema geocentrico e un
cavaliere di nome Brown (in sede processuale tale riunione venne dichiarata
come avvenuta invece in casa del Castelnau). La conversazione degenerò presto
in un diverbio causato dalla intolleranza dei due dottori oxoniensi: sdegnato,
il B. si licenziò dall'ospite e di lì a qualche giorno iniziò la stesura della
Cena de le Ceneri (stampata nello stesso anno). Tramite il resoconto
della sfortunata discussione, il B. enuncia in questi dialoghi la propria
cosmografia: movendo dall'eliocentrismo copernicano, egli approda
intuitivamente a una concezione originale dell'universo che per molti rispetti
sembra anticipare i postulati della scienza moderna. Già prima dell'arrivo del
B. in Inghilterra, la corrente scientifica distaccatasi dalle università e
sostenuta dalla corte elisabettiana (Robert Recorde, John Dee, John Field,
Thomas Digges) aveva mostrato un certo interesse per le teorie copernicane: è
in questa corrente appunto che si inserisce ormai l'attività inglese del B.,
sia per le istanze "scientifiche" (elaborazione di una moderna teoria
astronomica), sia per quelle letterarie (ripudio del latino e adozione del
volgare per trattazioni scientifico-speculative) e perfino politiche (adesione
alla moderata fazione puritana capeggiata da Robert Dudley, conte di Leicester,
nei contrasti tra questo e il tesoriere elisabettiano William Cecil: ciò che ci
è rivelato dal confronto tra la prima e la seconda redazione del dialogo II
della Cena). Suddivisa in cinque dialoghi, dedicati all'ambasciatore
francese, la Cena è in sostanza un'opera cosmografica che, se da una parte
contrasta il geocentrismo aristotelico e tolemaico, d'altra parte trascende
l'eliocentrismo copernicano con l'affermazione della pluralità dei mondi
nell'universo infinito (non senza la suggestione implicita della definizione
ermetica di Dio, come sfera infinita il cui centro è ovunque e la cui
circonferenza non si trova in alcun luogo): sul piano teologico ne deriva
l'affermazione dell'infinito effetto della causa infinita, nonché
l'interpretazione prammatica di quei passi delle Scritture che concordano con
la concezione vulgata dell'universo. L'impostazione polemica dell'opera
investe, nel dialogo II, tutti gli strati della contemporanea società inglese
mediante una rappresentazione vivacemente realistica. Il B., pur adottando la
forma dialogica della tradizione speculativa rinascimentale, la piega alle
esigenze della propria polemica, accostandosi non di rado alla maniera parodica
della tradizione aretiniana: onde non manca la satira della pedanteria
grammaticale oltre che di quella peripatetica. Gli attacchi contenuti
nella Cena alla università di Oxford e alla società inglese suscitarono una
forte reazione negli ambienti accademici e cittadini: reazione che coincise con
una serie di offese, anche materiali, del pubblico londinese contro gli addetti
all'ambasciata francese e contro, la stessa sede diplomatica. Nell'emozione del
momento il B. poté ritenersi oggetto diretto di quella reazione anticattolica:
è certo tuttavia che la pubblicazione della Cena gli fece perdere molte di quelle
simpatie che era riuscito ad accattivarsi a Londra. Di qui l'esigenza di
premettere ai già composti quattro dialoghi speculativi De la causa, principio
et uno, un dialogo "apologetico" che si risolse però,
caratteristicamente, in un ribadimento della propria polemica, salvo un
riconoscimento esplicito della validità della tradizione speculativa oxoniense
anteriore alla Riforma e la lode di alcuni personaggi conosciuti a Oxford (in
particolare Martin Culpepper e Tobie Matthew). La pubblicazione dei nuovi dialoghi,
dedicati anch'essi al Castelnau, seguì di poco quella della Cena. Il
primo dialogo della Causa si distingue dai rimanenti quattro anche per i
diversi interlocutori (tra questi "Elitropio" è G. Florio, mentre
"Armesso" sembra identificabile con M. Gwinne); notevole, tra gli
interlocutori dei rimanenti dialoghi, lo scozzese Alexander Dicson
"Arelio" (nativo di Errol), discepolo londinese del B. e autore di
un'opera mnemotecnica, De umbra rationis et iudicii (1584) ispirata al De
umbris bruniano: l'opera era stata attaccata da William Perkins, ramista di
Cambridge, il quale non mancò di accomunare i nomi del B. e del Dicson nella
sua riprovazione del metodo mnemonico classico considerato in opposizione a
quello ramista. La presenza di questo interlocutore, insieme con l'attacco
frontale a Ramo nel dialogo III, può valere a farci considerare la Causa come
opera di letteratura militante nell'ambito della contemporanea polemica ramista
(per l'aspetto politico non va dimenticato che l'attività del Dicson era in
linea con il programma politique). I quattro dialoghi più propriamente
speculativi della Causa concernono la definizione dei tre termini enunciati nel
titolo: "causa" e "principio" sono intesi, rispettivamente,
come la "forma" e la "materia" che, indissolubilmente
unite, costituiscono l'"uno", cioè il "tutto". Movendo
dalla critica dei postulati della tradizione aristotelica, e non senza ricorso
alle formulazioni di stampo neoplatonico ed ermetico, il B. giunge in tal modo
a fornire una originale base teoretica alla propria cosmologia già in parte
enunciata nella Cena e di lì a poco elaborata nei dialoghi De l'infinito.
Il motivo della satira antipedantesca si accentua nella Causa con una aderenza
polemica alle posizioni culturali delle due università inglesi. Il ritmo
serrato con cui alla pubblicazione della Cena e della Causa seguì, sempre nel
1584, quella dei dialoghi De l'infinito, universo e mondi e dello Spaccio de la
bestia trionfante si spiega tenendo conto del fatto che già nell'estate del 1583
il B. doveva aver elaborato buona parte del materiale confluito poi nei tre
dialoghi cosmologici. Anche l'Infinito porta la dedica al Castelnau, mentre lo
Spaccio è dedicato a sir Philip Sidney, nipote del Leicester, mostrandoci in
tal modo la portata dei contatti letterari, oltre che politici, dal B. avuti in
Inghilterra. Nei cinque dialoghi De l'infinito, in polemica con la fisica
aristotelica, il B. rigetta la teoria della divisibilità all'infinito e
ribadisce la propria teoria della infinità dell'universo e della pluralità dei
mondi. In questa opera risulta enunciato il pensiero bruniano sul rapporto tra
filosofia e religione conforme alla teoria averroista esposta dal Pomponazzi.
Tra gli interlocutori figura Girolamo Fracastoro, tracce delle cui dottrine
sono reperibili nel dialogo III; discutibile rimane l'identificazione di
"Albertino" con Alberigo Gentili (dal B. certamente incontrato a
Oxford): potrebbe trattarsi invece di personaggio nolano. La nuova
concezione dell'universo esposta nei tre dialoghi cosmologici si riflette sul
piano etico con la trilogia dei dialoghi tradizionalmente definiti
"morali", a cominciare dallo Spaccio, il cui tono satirico ravviva
un'invenzione che risale, letterariamente, ai dialoghi "piacevoli" di
Niccolò Franco. Lo Spaccio espone un piano di riforma morale che implica
la critica all'etica cristiana delle Chiese riformate non meno che di quella
cattolica, in nome di un attivismo umanistico contrapposto al tradizionale
umanesimo misticheggiante e retorico. L'ispirazione acristiana dell'etica
bruniana sembra trovare conferma nella critica - metaforicamente condotta -
della duplice natura della persona del Cristo. Non è escluso che questa opera
sia da identificare con il Purgatorio de l'inferno,titolo fornito dal B. nella
Cena. Le allusioni politiche contenute nello Spaccio sono compatibili con
l'orientamento brumano favorevole ai politiques e che risale al suo soggiorno
parigino: c'è chi pur oggi continua a ritenere che la "bestia
trionfante" spodestata nello Spaccio sia da identificare con
l'intransigente Sisto V. Ma, a parte la cronologia, sembrerebbe contrastare
all'interpretazione il quadro tracciato nella Cabala del cavallo pegaseo, con
l'aggiunta dell'Asino cillenico (pubbl. 1585), in cui l'"asino", identificabile
con la "bestia" dello Spaccio, riassume il suo posto nel cielo: né
sembra possibile supporre che la Cabala sia posteriore al 21 sett. 1585, data
della bolla con cui Sisto V scomunicò il re di Navarra. Al di là del
possibile significato politico-religioso, la Cabala interessa sia per
l'accentuata satira morale rispetto allo Spaccio,sia per gli spunti speculativi
(quali il problema del rapporto tra le anime individuali e l'anima universale,
risolventesi nella negazione dell'assoluta individualità delle anime) che
valgono a meglio illuminare questa fase del pensiero bruniano. L'operetta
è scherzosamente dedicata a un personaggio nolano, don Sabatino Savolino, della
stessa famiglia materna del B. cui pure appartiene l'interlocutore
"Saulino" presente già nello Spaccio. Il B.ebbe a dichiarare in
seguito, di aver soppresso questa opera in quanto non piacque al volgo e ai
sapienti "propter sinistrum sensum": essa è infatti la più rara tra
le superstiti opere a stampa di Bruno. Il soggiorno inglese del B. non poteva
concludersi in maniera più degna che con la pubblicazione dei dialoghi De gli
eroici furori (1585), dedicati al Sidney, in cui risultano poeticamente
esaltati i principî fondamentali della filosofia bruniana esposti nei tre
dialoghi cosmologici, mentre vi si sviluppa e precisa la portata della satira
morale contenuta nei due dialoghi etici. I dieci dialoghi De gli eroici
furori hanno come tema il conseguimento della consapevolezza dell'unione con
l'Uno infinito da parte dell'anima umana. La terminologia di estrazione
ficiniana (risalente a Platone, Plotino, Dionigi l'Areopagita, lamblico,
Proclo, ecc.) rischia di far perdere di vista il carattere "naturale e
fisico" del discorso bruniano, quale dall'autore stesso enunciato nella
dedicatoria. La stessa adozione dei moduli platonici ("ente, vero e buono
son presi per medesimo significante circa medesima cosa significata") va
in realtà ricondotta a una sfera etica in cui si risolve ogni apparente residuo
di trascendenza: infatti "le cause e principii motivi" sono
"intrinseci" e la "divina luce è sempre presente";
"ogni contrarietà si riduce a l'amicizia", "le cose alte si
fanno basse, e le basse dovegnono alte". Notevole nei Furori
l'esposizione della poetica bruniana che, movendo dalla critica delle poetiche
rinascimentali nella loro interpretazione normativa della poetica aristotelica,
approda a una concezione della poesia come letteratura applicata: di qui il
ripudio della tradizione lirica petrarchesca, pur nell'adozione prammatica di
rime intonate al gusto del tardo petrarchismo (ivi inclusi prestiti dal
Tansillo e dalla Cecaria di M. A. Epicuro). Gli interlocutori sono tutti
nolani, ovvero, come il Tansillo, amici della famiglia del Bruno. Notevole,
come dato biografico dell'infanzia, la presenza di due figure femminili:
Laodamia e Giulia. Nell'ottobre del 1585 il B. rientrava in Francia al
seguito dell'ambasciatore Castelnau: il quale ai primi di novembre si trovava
già a Parigi; durante il viaggio la comitiva era stata vittima di una grassazione.
Al suo rientro a Parigi il B. veniva a trovare un clima politico mutato (nel
luglio Enrico III aveva revocato gli editti di pacificazione e nel settembre
era stata pubblicata la bolla contro il re di Navarra): di qui forse il suo
tentativo infruttuoso "de ritornar nella religione" (Doc. veneti,
XII) tramite il nunzio apostolico Girolamo Ragazzoni. Dedicò al filonavarrese
P. Del Bene, abate di Belleville, la Figuratio Aristotelici physici auditus
(1586), esposizione mnemonico-mitologica del pensiero aristotelico; entrò in
contatto con gli italiani di Parigi, tra i quali Giovanni Botero, stringendo
amicizia con Iacopo Corbinelli che lo definì "piacevol compagnietto,
epicuro per la vita" (cfr. Yates), e dal 6 dic. 1585 prese a frequentare
l'abbazia di St. Victor, dove quel giorno prese a prestito l'edizione di
Lucrezio curata da H. van Giffen e confidò al bibliotecario Guillaume Cotin (il
cui diario ci conserva le notizie fornitegli dal B.) l'intenzione di pubblicare
l'Arbor philosophorum, del quale nulla sappiamo a parte il titolo
lulliano. Due episodi clamorosi neutralizzarono in quel tempo il residuo
d'appoggio in cui il B. poteva ancora sperare presso il partito politique. Dopo
aver assistito a una pubblica dimostrazione del compasso di riduzione inventato
dal geometra salernitano Fabrizio Mordente, uomo senza lettere, il B.
acconsentì a divulgare in latino la scoperta - parendogli atta a dimostrare il
limite fisico della divisibilità, conforme alla propria incipiente monadologia
-: pubblicò infatti, prima del 14 apr. 1586, i Dialogi duo de Fabricii
Mordentis Salernitani prope divina adinventione (seguiti dall'Insomnium),
presso P. Chevillot: opera ambiguamente laudatoria che irritò il Mordente, alla
cui polemica verbale il B. rispose con i sarcastici dialoghi Idiota triumphans
e De somnii interpretatione,dedicati al Del Bene e fatti stampare prima del 6
giugno insieme con i due precedenti dialoghi mordentiani. Il B. veniva così ad
attaccare apertamente un cattolico fautore dei Guisa, reclamando per sé l'ormai
vacillante protezione politique. Atale imprudenza si aggiunse una disputa dal
B. tenuta il 28 maggio al Collège de Cambrai, in presenza dei lecteurs royaux,
sulla base di Centum et viginti articuli de naturaet mundo adversus
peripateticos: programma da lui fatto stampare sotto il nome del discepolo J.
Hennequin. Secondo il Cotin il B. non avrebbe preso la parola, neppur dopo che
allo Hennequin ebbe risposto R. Callier, giovane avvocato politique (il B.
venne dunque sconfessato dal suo stesso partito), e, riconosciutosi battuto,
avrebbe abbandonato Parigi. Secondo Corbinelli, il B. "s'andò con Dio per
paura di qualche affronto, tanto haveva lavato il capo al povero
Aristotele", mentre il Mordente decideva di ricorrere al Guisa.
Lasciata Parigi, il B. giunse in Germania nel giugno 1586;toccata Magonza e
Wiesbaden, il 25 luglio veniva immatricolato all'università di Marburgo come
"theologiae doctor romanensis" (Doc. tedeschi, I). L'insegnamento
bruniano si dovette mostrare incompatibile con l'aristotelismo ramista di
quella università: gli fu infatti negato il permesso di leggere pubblicamente;
a una protesta formale il B. fece seguire le proprie dimissioni. Nella stessa
estate passò a Wittenberg, nella cui università venne introdotto da A. Gentili
e immatricolato (20 agosto) come "doctor italus" (Doc.
tedeschi,II).Per circa due anni poté insegnare indisturbato (lesse, tra
l'altro, l'Organon di Aristotele) e fece stampare il De lampade combinatoria
lulliana (1587) - commentario dell'Arsmagna - cui premise una lettera alle
autorità accademiche mostrandosi riconoscente per la liberale accoglienza.
Seguì la pubblicazione del De progressu et lampade venatoria logicorum, sorta
di compendio della Topica aristotelica, dedicato a G. Mylins, cancelliere
dell'università. Allo stesso anno risale il suo corso privato sulla Rhetorica
adAlexandrum (pubbl. post. da H. Alstedt: Artificium perorandi, Francofurti
1612), come il frammento delle Animadversiones circa lampadem lullianam e la
Lampas triginta statuarum, amplificazione dell'Arsmagna lulliana (post.: negli
Opera: 1890, 1891), con cui si conclude la trilogia delle "lampade".
L'anno seguente, per i tipi di Zaccaria Cratone, uscì nella stessa città una
seconda edizione dei Centum et viginti articuli (ridotti a ottanta, con le relative
rationes), con un discorso apologetico di J. Hennequin: Iordani Bruni Nolani
Camoeracensis Acrotismus. Allostesso periodo, sembra, risalgono i commentari
aristotelici ai primi cinque libri della Fisica, al De generatione et
corruptione e al quarto libro Meteorologicon (pubblicati negli Opera postumi:
Libri physicorum Aristotelis explanati, 1891). L'8 marzo 1588 ilB. si
accomiatava dall'università con una Oratio valedictoria stampata dal Cratone:
va notato che il vecchio duca Augusto era morto prima dell'arrivo del B., e che
il successore Cristiano I favorì progressivamente il calvinismo, giungendo a
proibire, nel 1588, ogni polemica a questo contraria; di qui la rinnovata
precarietà della posizione di Bruno. Partito da Wittenberg, il B. giunse
a Praga nella primavera del 1588e vi si trattenne fino al principio
dell'autunno, attrattovi forse dal mecenatismo dell'imperatore Rodolfo II, il
cui cattolicesimo moderato poté sembrargli incoraggiante; non sappiamo comunque
se fu registrato all'università. A Praga il B. ripubblicò, presso G. Nigrinus,
il De lampade combinatoria R. Lullii preceduto dal De lulliano specierum
scrutinio: nuovo commentario dell'Arsmagna dedicato all'ambasciatore spagnolo
don Guglielmo de Haro; con dedica all'imperatore, presso G. Daczicenus, gli
Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque
philosophos, in cui riprendeva la propria polemica contro l'interpretazione
meccanica della natura (già anticipata nei dialoghi mordentiani e poi svolta
nel De minimo):notevole, nella dedicatoria, la dichiarazione della religio
bruniana, interpretabile come teoria della tolleranza religiosa e
speculativa. Ricevuta in dono dall'imperatore la somma di "trecento
talari" (Doc. veneti, IX), al principio d'autunno del 1588 ilB. si recò a
Helmstedt, attrattovi dalla "Academia Iulia" (fondata dal duca
protestante Giulio di Brunswick), dove fu registrato il 13 genn. 1589, e dove
il 1º luglio lesse l'Oratio consolatoria (stampata da Iacobus Lucius) per la
morte del duca avvenuta il 3 maggio. Il B. fu remunerato dal nuovo duca, Enrico
Giulio, con "ottanta scudi de quelle parti" (Doc. veneti, IX), ma non
gli mancarono seri fastidi: fu infatti scomunicato dal sovrintendente della
locale Chiesa luterana, Gilbert Voët, per motivi che il B. definì di natura
privata in una sua lettera di protesta alle autorità accademiche, ma che
avranno avuto giustificazione formale per sospetto filocalvinismo (è comunque
significativo che alla originaria scomunica cattolica e a quella calvinista
ginevrina si aggiungesse ora la scomunica luterana). Il B. rimase tuttavia
nella città fino almeno all'aprile 1590. Durante l'anno e mezzo ivi trascorso
lavorò alle opere poi stampate a Francoforte e compose il gruppo di opere
"magiche" stampate postume negli Opera (1891), De magia e Theses de
magia (concernenti la magia naturale), De magia mathematica (parzialmente
tuttora inedita nel "codice di Mosca"), De rerum principiis et
elementis et causis;trattati tutti che tendono a dimostrare la possibilità
dell'utilizzazione pratica delle forze naturali occulte. Il 10 aprile
intervenne a una disputa tenuta dal dottor Heidenreich e il 13 - avendo
riscossi a Wolfenbüttel 50 fiorini assegnatigli dal duca - si accomiatò
dall'università con l'intenzione di passare per Magdeburgo (dove risiedeva W.
Zeileisen, zio del discepolo norimberghese Girolamo Besler, di cui si era
servito come copista) allo scopo di farvi stampare qualcosa di suo in onore del
duca. La partenza fu ritardata fin oltre il 22: ed è probabile che il B. si recasse
direttamente a Francoforte sul Meno (allo scopo di farvi stampare la trilogia
poetica latina, sua opera di maggior rilievo dopo i dialoghi londinesi), dove
giunse al più tardi nel giugno. Il 2 luglio il Senato della città rigettò una
sua richiesta di poter alloggiare presso lo stampatore J. Wechel, il quale
tuttavia gli procurò alloggio presso il convento dei carmelitani. Il B. attese
soprattutto alla pubblicazione dei tre poemi: i Detriplici minimo et mensura...
libri V e il De monade, numero et figura liber unito ai De innumerabilibus,
immenso et infigurabili... libri octo, opere dedicate al duca di Brunswick, per
le quali il B. curò la stampa e intagliò i legni, salvo che per l'ultimo foglio
del De minimo a causa di un repentino allontanamento dalla città (per cui la
dedica relativa fu composta dal Wechel). Stampati con la data del 1591, ilDe
minimo fu posto in vendita nella primavera; il De monade con il De
immenso,nell'autunno. Nei poemi francofortesi - composti alla maniera di
Lucrezio - il B. sviluppa in senso decisamente atomistico la propria concezione
della materia già esposta nei dialoghi londinesi. Nel De minimo sicontiene la
definizione dell'atomo bruniano: pars ultimadella materia, minimum fisico
assoluto, sostrato di tutti i corpi, impenetrabile. La discontinuità degli
atomi lascia aperto il problema dello spazio tramezzante (con tutto che il B.
riconosce l'esigenza di una materia che "agglutina" gli atomi). Se
l'"atomo" è l'elemento materiale insecabile, il "minimo" è
l'essere o la figura minima in un dato genere, mentre la "monade" è
l'unità di un genere determinato: l'atomo, che è di forma sferica, è anche
minimo e monade. Gli atomi sono infiniti essendo infinita la materia. In tale
concezione non v'è posto per una forza esteriore che regoli o determini le
combinazioni materiali. Nel De monade il B. dà una spiegazione aritmologica
delle diverse qualità degli oggetti sensibili, i cui elementi vengono mossi -
come già sostenuto nella Causa rispetto alla materia infinita - da un principio
intrinseco. Così l'atomismo dei poemi francofortesi si riallaccia all'animismo
dei dialoghi londinesi, dei quali il De immenso riprende esplicitamente
l'esposizione cosmologica, con una aderenza a tratti letterale (tanto che il
Fiorentino fu indotto a riportare al periodo inglese l'inizio della
composizione del poema). In quest'ultimo il B. ripercorre il cammino della
propria speculazione, rinnovandone la polemica contro la fisica aristotelica e
ribadendone il superamento intuitivo dell'eliocentrismo copernicano.
Applicato l'ordine di estradizione del Senato francofortese poco prima del 13
febbr. 1591, il B. riparò a Zurigo, dove tenne lezioni di filosofia scolastica
raccolte e pubblicate poi da Raphael Egli (la Summa terminorum metaphysicorum a
Zurigo nel 1595; la Summa con la Praxis descensus seu applicatio entis a
Marburgo nel 1609). Ritornato per breve tempo a Francoforte, il B. pubblicò
presso il Wechel i De imaginum,signorum,et idearum compositione ad omnia
inventionum,dispositionum et memoriae genera libri tres (1591), dedicati a J.
H. Heinzel, patrizio di Augusta da lui conosciuto a Zurigo. Durante il secondo
soggiorno francofortese il B. fu raggiunto da lettere del patrizio veneziano
Giovanni Mocenigo, il quale, letto il De minimo, lo invitava a Venezia affinché
gli "insegnasse l'arte della memoria ed inventiva" (Doc. veneti
VIII). Il B. giunse a Venezia prima della fine d'agosto del 1591. I
motivi soggettivi dell'imprudente rientro in Italia sono stati variamente
definiti: imponderabile è la componente nostalgica, mentre è ormai da escludere
il proposito di una azione di riforma religiosa con l'ausilio delle proprie
nozioni magiche (con tutto che l'accessione del Borbone al trono di Francia e
la presenza del mite Gregorio XIV sul soglio pontificio ravvivavano allora le
speranze conciliatrici in Europa); sul piano contingente, più che
dell'occasionale invito del Mocenigo, va tenuto conto delle aspirazioni
magistrali dal B. non mai dimesse nel corso dei suoi soggiorni francesi,
inglese e tedesco. Infatti, soffermatosi qualche giorno a Venezia "a
camera locanda" (Doc. veneti, VII), il B. proseguì per Padova, dove già si
trovava al principio di settembre e dove si trattenne, con brevi interruzioni,
per almeno tre mesi. Qui impartì lezioni "a certi scolari tedeschi",
tra i quali sarà da includere Girolamo Besler, che era allora procuratore degli
studenti tedeschi (il Besler gli trascrisse, tra il 1º settembre e il 21
ottobre, la Lampas triginta statuarum composta nel 1587, il De vinculis in
genere, abbozzato l'anno precedente, e il non bruniano De sigillis Hermetis,
inedito e smarrito). All'insegnamento patavino vanno riferite le Praelectiones
geometricae e l'Ars deformationum, lezioni, rinvenute solo nel 1962, in cui il
B. illustra geometricamente postulati ed enunciazioni del De minimo. L'attività
del B. a Padova induce a ritenere che, con l'appoggio del Besler, egli mirasse
alla vacante cattedra di matematica, che fu assegnata l'anno seguente a
Galileo. Rivelatosi infruttuoso l'insegnamento padovano, al principio
dell'inverno il B. si trasferì a Venezia, prendendo dimora, almeno dal marzo
1592, in contrada S. Samuele, presso il Mocenigo. Incominciò a frequentare il
"ridotto" Morosini, sul Canal Grande, dove, in un clima di
"civile e libera creanza", si disputava di cose che avevano "per
fine la cognizione della verità" (F. Micanzio, Vita di Paolo Sarpi, Leida
1646). Verso la metà di maggio 1592, nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo,
confidò al domenicano fra' Domenico da Nocera il proprio desiderio di "quetarsi"
e di comporre un libro da offrire al neoeletto Clemente VIII, con lo scopo
ultimo di trasferirsi a Roma, ed ivi "accapare forsi alcuna lettura"
(Doc. veneti, X): programma illusorio, suggeritogli forse dalla politica papale
e dalla contemporanea esperienza di Francesco Patrizi. Il 21 maggio, allo scopo
di far stampare a Francoforte alcune sue opere, inedite e smarrite, "delle
sette arte liberali e sette altre inventive, e dedicar queste... al Papa"
(Doc. veneti, XVII), il B. chiese licenza al Mocenigo. Costui, deluso
dall'insegnamento ricevuto, la notte del 22lo fece arrestare dai suoi e il
giorn 23 presentò una denuncia per eresia (allegando tre libri a stampa del B.
e l'autografo della smarrita operetta "di Dio, per la deduzion di certi
suoi predicati universali", nonché i nomi di due contesti: i librai G. B.
Ciotti e G. Britano) all'inquisitore veneto fra' Gabriele da Saluzzo: la sera
stessa il B. veniva prelevato dagli sbirri e condotto alle carceri di S.
Domenico di Castello. Si apriva così la fase veneta del processo, che si doveva
concludere nove mesi dopo con la sua estradizione a Roma. Gli episodi
principali del processo veneto sono i seguenti: 25 maggio 1592: seconda
denuncia del Mocenigo; 29 maggio: terza denuncia (il B. era complessivamente
accusato di disprezzare le religioni, di non ammettere la "distinzione in
Dio di persone", di avere opinioni blasfeme sul Cristo, di non
credere alla transustanziazione, di sostenere che il mondo è eterno e che vi
sono mondi infiniti, di credere alla metempsicosi, di attendere all'arte
divinatoria e magica, di negare la verginità di Maria, di disprezzare i dottori
della Chiesa, di ritenere che i peccati non vengano puniti, di essere già stato
processato a Roma, di indulgere al peccato della carne); 26maggio:
interrogatorio dei contesti (favorevoli al B.) e primo costituto del B.; 30
maggio: secondo costituto e ulteriore accusa (di aver soggiornato in paesi di
eretici vivendo alla loro maniera); 2, 3 e 4 giugno: interrogatorio sui capi
d'accusa (a proposito dei propri libri il B. dichiarò: "io ho sempre
diffinito filosoficamente e secondo li principii e lume naturale, non avendo
riguardo principal a quel che secondo la fede deve essere tenuto...", Doc.
veneti, XI); 23 giugno: interrogatorio di Andrea Morosini e seconda deposizione
del Ciotti (favorevoli al B.); 30 luglio: ultimo costituto veneto del B.
(ammissione di dubbi marginali già dichiarati e sottomissione al tribunale) e
trasmissione del processo al card. di Santa Severina, inquisitore supremo in
Roma (il quale già prima dell'ultimo costituto interferiva nella causa);
12settembre: richiesta formale di avocazione della causa a Roma; 17 settembre:
consenso del tribunale veneto; 28settembre: trasmissione della richiesta romana
al Collegio presieduto dal doge; 3 ottobre: parere sfavorevole del Collegio
trasmesso al Senato; comunicata a Roma la risposta negativa; 22 dicembre:
rinnovata richiesta al Collegio motivata con precedenti; 9 genn. 1593:
comunicazione a Roma dell'approvazione del Senato.Il 19 febbr. 1593 il B.
usciva dal carcere veneziano e, fatto salpare per Ancona, il giorno 27 faceva
ingresso nel carcere del S . Uffizio di Roma da cui, dopo lungo e intermittente
processo, sarebbe uscito sette anni più tardi per subire l'orrendo
supplizio. Gli episodi noti e salienti del processo romano sono così
riassumibili: estate 1593: nuova grave denuncia da parte di fra' Celestino da
Verona, concarcerato a Venezia (imputazione di aver sostenuto che Cristo peccò
mortalmente, che l'inferno non esiste, che Caino fu migliore di Abele, che Mosè
era un mago e inventò la legge, che i profeti furono uomini astuti e ben
meritarono la morte, che i dogmi della Chiesa sono infondati, che il culto dei
santi è riprovevole, che il breviario è opera indegna; di aver bestemmiato; di
aver intenzioni sovversive ove fosse costretto a rientrare nell'Ordine);
interrogagatorio a Venezia dei contesti fra' Giulio da Salò, Francesco Vaia,
Matteo de Silvestris (attenuazione delle responsabilità bruniane e nuova
accusa: l'avere in spregio le sante reliquie); interrogatorio del conteste
Francesco Graziano (ribadimento della credenza bruniana nella pluralità dei
mondi e nuova accusa: riprovazione del culto delle immagini). Prima della fine
del 1593:otto costituti bruniani (dall'ottavo al quindicesimo dell'intero
processo) e conclusione del processo offensivo. Il B. mantenne la linea
difensiva già adottata a Venezia (attenuò la portata dei dubbi circa la
Trinità, disponendosi ad accettare il dogma; negò le accuse circa l'inferno,
Cristo, i propositi sovversivi, l'ateismo, le manifestazioni blasfeme; precisò
il significato di "magia" con riferimento a Mosè, e la propria
opinione, ritenuta "filosoficamente" e ipoteticamente, circa la
metempsicosi; negò l'opinione attribuitagli circa Caino, e precisò quella
relativa alla pluralità dei mondi; negò le pratiche superstiziose, precisando
il proprio interesse per l'astrologia). Gennaio-marzo 1594: a Venezia, esami
ripetitivi dei testi (Mocenigo, Ciotti, Graziano, De Silvestris): confermate
nel complesso le precedenti deposizioni, solo la sospetta integrità dei testi
poté far differire la conclusione del processo; giugno: supplemento di denuncia
da parte del Mocenigo (accusa di aver irriso il papa nel Cantus circaeus);
estate 1594: sedicesimo costituto (il B. si difese sull'ultima accusa, su
quella relativa ai Magi, e forse anche sull'altra relativa alla verginità di
Maria; sporse denunce contro il Graziano e Francesco Maria Vialardi
concarcerato a Roma); 20 dicembre: il B. presentò una difesa scritta, non pervenutaci.
Il 16 febbraio 1595si stabilì che una lista dei libri bruniani fosse presentata
al papa. Tra il maggio 1594 e i primi del 1595 il B. fu raggiunto nel
carcere da Francesco Pucci, Tommaso Campanella e Cola Antonio Stigliola. Il 18
sett. 1596 la Congregazione stabilì una commissione con lo scopo di censurare
le proposizioni eretiche contenute nei libri. Il 24 marzo 1597 il B. fu
ammonito di abbandonare la sua teoria della pluralità dei mondi; si stabilì
inoltre che egli fosse interrogato stricte (forse con applicazione della
tortura): ciò che avvenne con il diciassettesimo costituto, circa la Trinità e
l'incarnazione (il B. precisò il carattere speculativo dei dubbi passati),
nonché la pluralità dei mondi (che il B. persistette a sostenere). Nel corso
del 1597 ebbe luogo, forse oralmente, la risposta del B. alle censure, otto
delle quali sono rilevabili dal Sommario del processo: "circa rerum
generationem"; circa il principio che a causa infinita debba corrispondere
effetto infinito; circa il rapporto tra anima universale e anima individuale;
circa il principio che nulla si genera e nulla si corrompe; circa il moto della
terra; circa la definizione degli astri come angeli; circa l'attribuzione di
un'anima sensitiva e razionale alla terra; circa l'affermazione che l'anima non
è forma del corpo umano (due altre censure, rilevabili da una lettera di K.
Schopp [Doc. romani, XXX], concernono l'identificazione dello Spirito Santo con
l'animamundi, e la credenza nei preadamiti). Il 18 gennaio del 1599, a istanza
di Roberto Bellarmino, venivano sottoposte al B., per la sua dichiarazione di
abiura, otto proposizioni eretiche (ci è nota la prima, "de haeresi
Novatiana", e la settima, estratta dal De la causa, "ubi tractat an
anima sit in corpore sicut nauta in navi"). Il 15 febbraio (ventesimo
costituto) il B. si dichiarò disposto all'abiura incondizionata; ma il 24agosto
tornò a manifestare esitazioni sulla prima e la settima. Il 9 settembre, in
mancanza della prova giuridica della colpevolezza, i consultori si dichiararono
in favore dell'applicazione della tortura, che tuttavia non fu approvata da
Clemente VIII. Il 10 settembre il B. si dichiarò disposto all'abiura (21º
costituto), ma il 16, con un memoriale al papa, rimetteva in discussione le
proposizioni incriminate. Intanto al S. Uffizio di Vercelli perveniva una terza
delazione (dovuta, sembra, a un reduce dall'Inghilterra) con cui il B. era di
nuovo accusato di irriverenza verso il papa (lo Spaccio) e di aver lasciato
fama di ateo in Inghilterra. Settembre-ottobre 1599: il tribunale ordinò il
termine di quaranta giorni per il riconoscimento degli errori. Il 21 dicembre
(ventiduesimo costituto) il B. rifiutava la ritrattazione: vano fu l'intervento
del generale e del procuratore dei domenicani. Il 20 genn. 1600il papa ordinò
che il B. fosse sentenziato come eretico formale, impenitente e pertinace, e
consegnato al braccio secolare. Un estremo memoriale del B. al pontefice venne
aperto ma non letto dal tribunale. L'8 febbr. 1600 il B. veniva condotto
dal carcere del S. Uffizio al palazzo del cardinale Madruzzi, in piazza Navona,
dove la sentenza gli fu letta pubblicamente. Delle trenta o più imputazioni
contenute nella sentenza, risultano accertate quelle concernenti la
transustanziazione, la verginità di Maria, la vita eretica, lo Spaccio, la
pluralità dei mondi, la metempsicosi, l'anima umana, l'eternità del mondo,
Mosè, le Sacre Scritture, i preadamiti, Cristo, i profeti e gli apostoli.
Riconosciuto "eretico impenitente pertinace ed ostinato" (Doc.
romani, XXVI), il B. era condannato alla degradazione dagli ordini,
all'espulsione dal foro ecclesiastico e a essere consegnato alla corte secolare
per la debita punizione; i suoi libri dovevano essere bruciati in piazza S.
Pietro e le opere tutte incluse nell'Indice. Il B. ascoltò in ginocchio la
sentenza; quindi, levatosi in piedi, esclamò rivolto ai giudici: "Maiori
forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam" (Doc. romani,
XXX). Trasferito al carcere di Tor di Nona, e visitato ancora nei giorni seguenti
da teologi e confortatori, la mattina del giovedì 17 febbraio fu condotto a
Campo di Fiori, dove, "spogliato nudo e legato a un palo, fu bruciato vivo
(Doc. romani, XXIX). La portata speculativa della vicenda bruniana è
implicita nella storia del moderno pensiero europeo; per il lato culturale e
biografico, pur dopo ricerche secolari, quella vicenda è tuttora al vaglio
della filologia contemporanea. Fonti e Bibl.: Per la biografia bruniana
le fonti sono costituite dalle opere e da una serie di documenti coevi.
Edizioni complete delle opere: Iordani Bruni Nolani Opera Latine Conscripta:
Facsimile - Neudruck der Ausgabe von Fiorentino,Tocco und anderen,Neapel und
Florenz,1879-1891. Drei Bände in acht Teilen,Stuttgart-Bad Cannstatt 1962 (da
integrare con le seguenti pubblicazioni: V. P. Zubov, Rukopisnoe nasledie
Džordano Bruno,"MoskovskijKodeks" Gosudarstvennoj Biblioteki SSSR im.
V. I. Lenina, in Zapiski Otdela rukopisej, Moskva 1950, n. II, pp. 164-182; G.
Bruno, Due dialoghi sconosciuti e due dialoghi noti: "Idiota
triumphans", "De somnii interpretatione", "Mordentiu",
"De Mordentii circino", a cura di G. Aquilecchia, Roma 1957, con
Errata-corrige stampate a parte; Id., "Praelectiones geometricae" e
"Ars deformationum": Testi inediti, a cura di G. Aquilecchia, Roma
1964); Le opere italiane di G. B., a cura di P. de Lagarde, Gottinga 1888 (ma
1889), edizione paradiplomatica, per le opere italiane in edizione moderna: G.
Bruno, Candelaio: commedia, a cura di V. Spampanato, Bari 1923; Id., Dialoghi italiani:
"Dialoghi metafisici" e "Dialoghi morali" nuovamente
ristampati con note da G. Gentile, a cura di G. Aquilecchia, Firenze 1958; Id.,
Lacena de le ceneri, a cura di G. Aquilecchia, Torino 1955 (da tenere presente
R. Tissoni, Sulla redazione definitiva della "Cena de le ceneri", in
Giorn. stor. della letter. ital., CXXXVI [1959], pp. 558-563). Pregevoli le
sillogi antologiche in Opere di G. B. e di Tommaso Campanella, a cura di A.
Guzzo e R. Amerio, Milano - Napoli 1956, e in Scritti scelti di G. B. e di T.
Campanella, a cura di L. Firpo, Torino 1968. I documenti coevi in V.
Spampanato, Documenti della vita di G. B., Firenze 1933, suddivisi in sei
sezioni: I. Documenti napoletani, II. Documenti ginevrini, III.Documenti
parigini, IV. Documenti tedeschi, V.Documenti veneti, VI, Documenti romani (da
integrare con O. Elton, Modern Studies,London 1907, p. 334; G. Harvey,
Marginalia, a cura di G. G. Moore Smith, Stratford-upon-Avon 1913, p. 156; Chr.
Sigwart, Kleine Schriften, I, Freiburg i. B. 1899, p. 120; A. Mercati,
Ilsommario del processo di G. B., Città del Vaticano 1942; L. Firpo, Ilprocesso
di G. B., Napoli 1949; F. A. Yates, G. B.: some new documents, in Revue
internationale de philosophie, XVI [1951], 2, pp. 174-199; G. Aquilecchia, Un
autografo sconosciuto di G. B., in Giorn. stor. della letter. ital., CXXXIV
[1957], pp. 333-338; Id., Un nuovo documento del processo di G. B., ibid.,
CXXXVI [1959], pp. 91-96; R. McNulty, B. at Oxford, in Renaissance News,
XIII[1960], pp. 300-305; A. Nowicki, Un autografo inedito di G. B. in Polonia,
in Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche... in Napoli, LXXVII
[1967], pp. 262-268; Id., Una poesia "Ad Iordanum: Brunum", in La
Ragione, LII [1970], 4, p. 2; J. Korzan, Praski Kra̢g humanistów wokóù Giordana
Bruna, in Euhemer, LXXI-LXXII [1969], 1-2, pp. 81-93). La biografia più
estesa, sebbene in parte invecchiata, rimane quella di V. Spampanato, Vita di
G. B. con documenti editi e inediti,Messina 1921. Biografie sintetiche recenti
sono dovute a E. Garin, B., Roma-Milano 1966, e a G. Aquilecchia, G. B., Roma
1971, da cui dipende la presente "voce". La bibliografia
bruniana è vastissima: fino al 1950 va fatto riferimento a V. Salvestrini,
Bibliografia di G. B. (1582-1950), a cura di L. Firpo, Firenze 1958: opera
monumentale di inestimabile utilità, aggiornata poi essenzialmente, Quanto ai
titoli, fino ai primi mesi del 1970 con l'appendice bibliografica alla citata
monografia di G. Aquilecchia. A questi due strumenti si fa qui riferimento,
rispettivamente, per opere critiche di tradizionale autorità (F. Tocco, E.
Troilo, G. Gentile, E. Namer, E. Garin, A. Corsano, ecc.), e per studi più
recenti, che propongono un ridimensionamento della problematica bruniana
conforme a diverse metodologie (N. Badaloni, P.-H. Michel, F. A. Yates, A. K.
Gorfunkel', A. Nowicki, F. Papi, ecc.).Guido del Giudice. Giudice. Refs.: Luigi Speranza, "Grice,
del Giudice, e la filosofia greco-romana," per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Keywords: l’implicatura di
Giudice, universe finite, infinito, geometrici, alchimisti, matematici –
rinascimento – scintilla d’infinito” -- Refs: Luigi Speranza, “Grice e Giudice:
implicatura e scintilla” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51685227726/in/photolist-2mRmv36-2mRfyWo-2mQHwBB-2mQ81kz-2mPyn68-2mPoRfW-2mN35cA-2mLKtaD-2mPu6xB-2mLH24C-2mPYoE5-2mKfivY-2mJqjKS-2mJq2uE-2mGnP2f-E4u3XA-Bq6mau-Bq5PrV
Grice e
Giudice – l’implicatura di Telesio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucera).
Filosofo. Grice: “Riccardo del Giudice is a philosopher; he wrote an essay on
Telesio.” Allievo e collaboratore di Gentile,
si laurea in filosofia, rivelando i suoi vasti e solidi interessi culturali,
che, insieme ad una rara volontà di studio e ad una seria attività politica
formarono il suo principale merito. Apprezzato per le doti oratorie e
l'accuratezza nella scrittura, fu parlamentare di chiara fama nella Camera dei Deputati. Di profonda ed esemplare
preparazione filosofica. Insegna a Roma. Del Giudice Riccardo Lucera (Foggia)
1900 lug. 16 - Roma 1985 feb. 16 Intestazioni: Del Giudice, Riccardo,
filosofo, sindacalista, politico, SIUSA. Iscrittosi al movimento nazionalista mentre
frequenta nell'ateneo romano i corsi di Gentile. Si tessera al Partito
fascista, del quale apprezza l'interesse per le questioni sindacali. E' appunto
nell'organizzazione fascista dei lavoratori, diretta da Rossoni, che muove i
primi passi nella politica militante. Nominato responsabile dei sindacati in
provincia di Foggia, distinguendosi per la dura opposizione nei confronti
dell'apparato del Pnf guidato dal conservatore Giuseppe Caradonna. Espulso dal
partito viene nominato da Rossoni Segretario della Federazione sindacale di
Torino. Passato nella Federazione di Bari si oppone allo
"sbloccamento" dei sindacati. Si occupa di studi sulla legislazione
del lavoro e sul corporativismo, partecipando attivamente alle riunioni del
Consiglio nazionale delle corporazioni e viene nominato Presidente della
Confederazione fascista dei lavoratori del commercio. Dopo una intensa attività
nel settore sindacale - celebri le sue polemiche con Spirito sul rapporto tra
sindacato e corporazione - è nominato Sottosegretario al Ministero
dell'educazione nazionale, allora retto da Giuseppe Bottai. Si occupa
soprattutto di sviluppare i rapporti tra la scuola e il mondo del lavoro,
seguendo le indicazioni contenute nella Carta della scuola di Bottai. Lasciato
il ministero in seguito alla sostituzione del ministro Bottai con Biggini, è
nominato Presidente dell'Ente Nazionale per l'Oganizzazione Scientifica del
lavoro (Enios). Non aderisce alla Rsi e viene arrestato dagl’alleati e inviato
nel campo di concentramento di Padula dove scrive le "Memorie".
Epurato dall'insegnamento universitario, vi ritorna come docente prima di
Diritto della navigazione, poi di Diritto del lavoro, presso l'ateneo
romano. Complessi archivistici prodotti: Del Giudice Riccardo
(fondo) Bibliografia: G. PARLATO, Il sindacalismo fascista. IDalla
"grande crisi" alla caduta del regime, Roma, Bonacci. 1989 G.
PARLATO, Riccardo Del Giudice: dal sindacato al governo, Roma, Fondazione Ugo
Spirito, G. PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato,
Bologna, Il Mulino. Wikipedia Ricerca Sindacalismo fascista Lingua Segui
Modifica Ulteriori informazioni La neutralità di questa voce o sezione sugli
argomenti fascismo e politica è stata messa in dubbio. Con sindacalismo
fascista si intende quel settore del sindacalismo improntato sui principi della
dottrina fascista del lavoro. Storia Modifica
Filippo Corridoni con Benito Mussolini durante una manifestazione interventista
del 1915 a Milano. I primordiModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso
argomento in dettaglio: Sindacalismo rivoluzionario. Fontana sulla cui
lapide marmorea era scolpito il discorso che Benito Mussolini pronunciò il 20
marzo 1919 presso lo stabilimento di Dalmine, in occasione dell'autogestione
operaia. Il sindacalismo fascista ha i suoi primordi nel magma del movimentismo
sindacale dei primi due decenni del XX secolo: in particolare esso trova i suoi
riferimenti culturali prima nella componente rivoluzionaria del sindacalismo
socialista, che portò alla dirigenza del partito diversi esponenti e Benito
Mussolini alla direzione dell'Avanti!, poi nelle sezioni più agguerrite del
sindacalismo interventista, in particolare l'attivissima sezione milanese retta
da Filippo Corridoni, nate in seno all'Unione Sindacale Italiana[1]ma da cui
saranno espulse già nel 1915, per incompatibilità con i principi
antimilitaristi e antistatalisti dell'USI[2]. Numerosi, pur con alcuni bassi,
sono gli scioperi, le manifestazioni di piazza, gli scontri ed i comizi cui
parteciparono Mussolini ed i dirigenti del fascismo a fianco, o anche in
qualità stessa, di sindacalisti rivoluzionari.[3] «In Italia non sarà
possibile nessuna forma di sindacalismo fino a quando il Partito Socialistanon
sarà abbattuto.» (Filippo Corridoni a Curzio Malaparte a Milano poco
prima di partire per il Carso, giugno 1915[4]) Un altro forte legame fu, dal
1915-1916 e fino al 1919-1920, quello con la Unione Italiana del Lavoro
(UIL)[5], da essi creata e di ispirazione sindacalista rivoluzionaria, diretta
inizialmente da Edmondo Rossoni.[6] La nuova formazione sindacale, nel fermento
dell'interventismo nei confronti della Grande Guerra, tentò di operare una
prima sintesi all'interno dell'immenso magma rivoluzionario italiano,
combattuto ormai da anni tra le esigenze sociali e quelle nazionaliste del
popolo. In particolare si verificò una congiunzione con le teorie di
imperialismo operaiodi Enrico Corradini (Associazione Nazionalista Italiana) e
lo sviluppo del produttivismo nazionale, grazie anche al Popolo d'Italia di Benito
Mussolini[7], pervenendo all'idea non tanto di negare la lotta di classe per
difendere gli interessi di categoria, quanto di ricomporli tutti all'interno
del comune interesse superiore nazionale. Al suo interno la UIL portava però
già i sintomi di quella che fu una battaglia destinata a concludersi più tardi,
durante il sindacalismo fascista vero e proprio: quella tra la visione di un
sindacalismo legato all'azione politica, appoggiata principalmente da Edmondo
Rossoni, e quella "indipendentista" di Alceste De Ambris.[6][8]
Primo sfogo di queste evoluzioni avvenne il 16 marzo 1919 al Dalmine, dove si
verificò la prima occupazionecon autogestione operaia della storia italiana,
organizzata dai sindacalisti rivoluzionari. Il fatto eclatante che destò scalpore
fu però soprattutto la continuazione della produzione, d'accordo con l'ottica
produttivista che aveva acquisito il movimento: gli operai autorganizzati
continuarono infatti il lavoro, issando sulla fabbrica il tricolore
nazionale.[9][10] Due giorni dopo lo stesso Mussolini fu in visita agli
stabilimenti: «Voi oscuri lavoratori del Dalmine, avete aperto
l'orizzonte. È il lavoro che parla in voi, non il dogma idiota o la chiesa
intollerante, anche se rossa, è il lavoro che ha consacrato nelle trincee il
suo diritto a non essere più fatica, miseria o disperazione, perché deve
diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi nella patria
libera e grande oltre i confini» (Benito Mussolini, Discorso del Dalmine,
20 marzo 1919, in "Tutti i discorsi - anno 1919") In un primo momento
la posizione di De Ambris e della sua UIL fu la più apprezzata da Mussolini,
aprendo nel periodo 1919-1920 una forte convergenza tra i due, con il secondo
che sostenne apertamente la UIL dalle colonne de Il Popolo d'Italia[11] ed il
primo che dette un apporto considerevole al programma dei Fasci Italiani di
Combattimento, costituiti il 23 marzo 1919 e dai quali prenderà spunto il
fascismo durante la fase governativa.[12] Il nucleo iniziale Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento
in dettaglio: Sansepolcrismoe Squadrismo. Benito Mussolini a Dalmine con
gli operai dello stabilimento autogestito. Dino Grandi. È da questo
connubio che, infatti, si costituisce in maniera strutturata il sindacalismo fascista,
i cui protagonisti, dapprima immersi nei movimenti sindacalisti di varia
estrazione sopra descritti, andarono a creare l'ossatura del nuovo movimento
insieme agli interventisti futuristi, ad Arditi e reduci di guerra,
nazionalisti e squadristi.[12] Fra i maggiori esponenti di questo
"sindacalismo squadrista", che affiancò i sindacalisti
"puri", a cavallo tra gli anni dieci e venti Italo Balbo, Michele
Bianchi, Gino Baroncini ma, soprattutto, Dino Grandi e lo squadrismo bolognese
vicino agli ambienti de "L'Assalto", portatori di uno dei più genuini
tratti del fascismo di sinistra, basato particolarmente (a Bologna) sulle
rivendicazioni contadine, l'allargamento della piccola proprietà agricola ed al
concetto de "la terra a chi la lavora".[13] Alla fine del 1920
l'armonia tra sindacalismo rivoluzionario e fascismo sansepolcrista si spezzò
quando, in conseguenza della grave sconfitta elettorale della fine del 1919,
Mussolini operò la strategia della virata a destra per aprirsi maggiori spazi
politici e, staccandoli dalla UIL, creò i Sindacati economici, che nel gennaio
1922 diventeranno poi la Confederazione nazionale delle corporazioni
sindacalifasciste dirette da Rossoni.[14] La crisi tra i due movimenti si
attuò essenzialmente sul nodo della concezione del rapporto tra economia e
politica. Da una parte il fascismo, che riteneva fondamentale che ogni dinamica
attraverso la nazione sia controllata dallo Stato, dall'altra i sindacalisti
rivoluzionari, che vedevano questa posizione come antitetica ai propri canoni
libertari ed autonomisti[15], concependo la nazione come identità e sostanza
storica di un popolo, ma lo Stato come sistema di potere di una classe
esclusiva.[16] «Il sindacalismo rivoluzionario, portando il suo
contributo decisivo alla determinazione dell'Italia per l'intervento nella
guerra, salvò l'onore dei lavoratori italiani e gettò le premesse in virtù
delle quali l'organizzazione del lavoro è oggi, su piede di uguaglianza con
tutte le altre forze economiche, elemento fondamentale dello Stato Corporativo.
In questo senso soltanto può essere affermata la derivazione del movimento
sindacale fascista dal vecchio sindacalismo rivoluzionario.» (Tullio
Masotti[17]) Rossoni e la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali
fasciste Modifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Confederazione nazionale delle corporazioni
sindacali. Edmondo Rossoni. I quadrumviri e Benito Mussolini(da
sinistra a destra: Emilio De Bono, Michele Bianchi, Mussolini, Cesare Maria De
Vecchi e Italo Balbo). Il primo, il terzo ed il quinto furono sindacalisti. Nel
gennaio 1922 si tenne il I Convegno sindacale di Bologna, in cui si
scontrarono le due visioni principali, già emerse in passato, riguardanti il
grado di dipendenza dei sindacati nei confronti della politica e, in questo
caso, del neocostituito Partito Nazionale Fascista (PNF). Si scontrarono quindi
la visione "autonomista" di Edmondo Rossoni e di Dino Grandi e quella
"politica" di Massimo Rocca e Michele Bianchi, tra le quali sarà
vincente la seconda[18]. A Bologna vennero inoltre affermati i principi
basilari della politica corporativa, con la conferma del superamento della
lotta di classe nei confronti della collaborazione e dell'interesse nazionale
su quello individuale o di settore, e la nascita della Confederazione nazionale
delle corporazioni sindacali[1], una nuova formazione antisocialista ed
anticattolica, costituita nella forma di sindacati autonomi formati da cinque
Corporazioni suddivise per categorie lavorative e non ancora (lo saranno nel
1934) sindacati misti lavoratori-datori di lavoro. Come nel sindacalismo
rivoluzionario, inoltre, le corporazioni dovevano riunire tutte le attività
professionali che identificavano la loro "elevazione morale e economica
(...) con il dovere imprescindibile del cittadino verso la
Nazione".[11] «La nazione, sintesi superiore di tutti i valori
materiali e spirituali della razza, è al di sopra degli individui, dei gruppi e
delle classi. Individui, gruppi e classi sono gli strumenti di cui la nazione
si serve per migliorare le proprie condizioni. Gli interessi individuali e di
gruppo acquistano legittimità a condizione che si realizzino nell'ambito dei
superiori interessi nazionali.» (Articolo 4 della Carta dei principi delle
corporazioni[19]) Sulla Confederazione si svilupparono polemiche anche negli
ambienti del sindacalismo internazionale: la sinistra operaia internazionale,
in sede di Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), contestava il titolo
alla rappresentanza operaia alle corporazioni fasciste e, quindi, la
possibilità di partecipare all'assemblea. La polemica non venne però accettata,
e l'ILO permise alle Corporazioni di partecipare alle sedute senza interruzioni
nel rinnovo del mandato.[20] In sede congressuale Rossoni dichiarò
l'esistenza di una linea di continuità tra il sindacalismo rivoluzionario, il
sindacalismo fascista ed il corporativismo: per il sindacalismo fascista,
infatti, l'ultimo era legato al primo sia per il comune intendimento del
concetto di "rivoluzione" che, al di là dell'aspetto della rivolta
popolare, in ambito lavorativo ritenevano rivestisse il significato di
"sopravvento di superiori capacità produttive"; inoltre, ugualmente,
avevano l'obbiettivo di innalzare il "proletario" (nell'accezione
negativa del termine) al rango di "lavoratore" inserito a pieno
titolo nella vita nazionale.[21] «Il sindacalismo deve essere nazionale
ma non può essere nazionale per metà: esso deve comprendere capitale e lavoro
(...) e sostituire al vecchio termine proletariato, quello di lavoratore ed
all'altro, di padrone, la parola dirigente, che più alta, più intellettuale,
più grande.» (Edmondo Rossoni, 18 gennaio 1926, Congresso dei Sindacati
intellettuali fascisti.[22]) Nei mesi successivi, in concomitanza con il
termine del biennio rosso e l'avanzata dell'offensiva militare del fascismo
imperniata sulle squadre d'azione, ebbe luogo lo sfondamento politico in campo
sindacale, con il passaggio di interi settori operai dalle strutture del
Partito Socialista Italiano e della CGdL al fascismo. Tanto che, nell'estate
del 1922, la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali contava
800.000 iscritti.[23] Ciò evidenziava il successo dei progetti di Rossoni, che
aveva pensato di creare da una parte una base contadina potente ed affidabile
che appoggiasse e facesse da riserva strategica allo squadrismo, dall'altra di
fare del sindacalismo una delle pietre angolari dello Stato fascista.[24]
Con la Marcia su Roma, l'affermazione del sindacalismo fascista fu quasi definitiva[25]
e l'inizio della costruzione del nuovo Stato portò quindi una relativa
tranquillità nell'ambiente del sindacalismo stesso che, con il termine degli
scontri e delle tensioni politiche, poté incentrarsi sul proprio sviluppo
culturale e la propria evoluzione politica.[1] Emondo Rossoni così ne spiega
definizione e scopo principale: «(...) la salvaguardia della salute
spirituale del popolo (...) Sindacato vuol dire: unione di interessi omogenei.
Sindacalismo: azione che deve disciplinare e tutelare gli interessi omogenei
(...) Noi rivendichiamo la concezione italiana del Sindacalismo alle
corporazioni italianissime che sono nate ancor prima che la parola
'sindacalismo' fosse pronunciata.» (Edmondo Rossoni, La Marcia su Roma e
il compito dei sindacati, Napoli, 1922[26]) Caratteristiche principali, che
evidenziavano la differenza del sindacalismo fascista rispetto a quello
socialista, furono anche la mancanza di dogmatismo, teologismo e perseguimento
di finalità remote, come ad esempio il prefiggersi in anticipo un determinato
tipo di obbiettivo finale, come il tipo di economia da instaurare, ma tentando
sempre di adeguarsi alla realtà del mondo.[27] Questo clima non portò
fine al dibattito interno, che anzi aumentò decisamente, tanto che gli stessi
vecchi sindacalisti rivoluzionari come Edmondo Rossoni, Agostino Lanzillo,
Sergio Panunzio e Angelo Oliviero Olivetti, discutevano e si dividevano spesso
e volentieri tra loro.[28] In tutti però[29] un'evoluzione era avvenuta: il
sindacalismo non era più considerato propulsore del libero mercato ma, aderendo
al concetto di nazione come unità organica d'intenti, ritenevano che il
sindacato - come gli imprenditori - dovesse trovare il suo limite nel superiore
interesse della patria, rigettando il concetto di libero mercato stesso e
giungendo al tal punto da definire che "la nazione è il più grande
sindacato".[30] Le prime forti tensioni con i conservatori ed il
padronatoModifica Roberto Farinacci nel 1925. Renato Ricci con la
sua squadra d'azione carrarese impegnata a S. Terenzio nello sgombero delle
macerie del forte di Falconara 1922 Immediatamente dopo l'apice della Marcia su
Roma si accese però lo scontro tra il fascismo di sinistra ed i settori più
conservatori dello Stato. Tra il 1921 ed il 1923 avvennero alcuni episodi
chiave: la creazione dei gruppi di competenza,[31] da parte di Massimo
Rocca, limitanti lo spazio sindacale della Confederazione nazionale delle
corporazioni sindacali[32]; il tentativo di bloccare il corporativismo da parte
di Confindustria e Confagricoltura, contrapposti alla minaccia di Rossoni di
assalti, scontri ed occupazione delle fabbriche da parte dei lavoratori
fascisti[32]; l'appoggio diretto al sindacalismo fascista da parte di tutta la
sinistra fascista nazionale, compresi Michele Bianchi e Roberto Farinacci[33];
il lancio del sindacalismo integrale (1923) da parte di Rossoni, che puntava ad
inglobare nelle corporazioni Confindustria e Confagricoltura (ossia le
rappresentanze sindacali dei datori di lavoro)[34]; la creazione della
Federazione italiana dei sindacati agricoltori (FISA) e della Corporazione
dell'Industria e del Commercio da parte di Rossoni; i primi tentativi di
trasformare le organizzazioni sindacali da associazioni di fatto in organi di
diritto pubblico da parte di Armando Casalini[35]; il patto siglato tra
Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali e Confindustria nel
dicembre del 1923 a Palazzo Chigi, in ottica di limitazione dei conflitti di
classe[13]. «(Sia il Capitale sia il Lavoro, ndr) devono essere disciplinati.
L'appetito all'infinito è malefico e assurdo. Per queste ragioni il
sindacalismo fascista è per la collaborazione (...) ma con gli industriali che
si impuntano e dicono comandiamo noi, occorre lottare decisamente per dare ai
lavoratori il posto degno nella vita della nazione» (Edmondo Rossoni,
adunata al Teatro Regio di Torino, 16 gennaio 1926[36]) In questo periodo di
tensioni tra industriali e sindacati fascisti, difficile per l'attecchimento
della collaborazione di classe vagheggiata dal fascismo per il mondo del
lavoro, assurgono agli onori del sindacalismo fascista le personalità di Mario
Gianpaoli, sindacalista e federale del PNF di Milano, e di Domenico Bagnasco,
segretario dei sindacati fascisti di Torino. Organizzatore e combattente di
piazza, Bagnasco fu deciso a prendere di petto gli industriali, accusando il
padronato di "spietata intransigenza antioperaia". Spesso i
sindacalisti fascisti di questo periodo pagarono con la fine della propria
carriera politica l'attivismo sfrenato, a causa di un fascismo ancora non
abbastanza forte da poter far fronte ad uno scontro con la grande industria,
appoggiata dai molti uomini del precedente regime ancora posizionati nelle
istituzioni dello Stato. Essi ebbero però il merito di infondere risolutezza in
molti sindacalisti di periferia.[37] La seconda fase del sindacalismo
fascistaModifica Monumento a Luigi Razza. Enrico Corradini. Si
entra quindi in quella che viene chiamata "la seconda fase del
sindacalismo fascista"[38], durante la quale il sindacalismo e tutte le
componenti della sinistra fascista tornarono all'attivismo ed alla tensione del
periodo rivoluzionario. Sergio Panunzio ricominciò a tuonare a favore della
ripresa dell'anima rivoluzionaria del fascismo e del recupero del programma del
'19[39], esprimendosi per la creazione di una Camera sindacale e del lavoro e
di un Senato politico.[40] Nel febbraio 1924 cadde la Confagricoltura,
inglobata dalla fascista Federazione italiana sindacati agricoli, riunendo in
un'unica corporazione i lavoratori con i grandi e piccoli proprietari
agricoli.[34] Il nuovo spostamento a sinistra dello schieramento
fascista, questa volta apertamente appoggiato da Mussolini stesso, portò ad un
conseguente irrigidimento degli industriali sulle tradizionali posizioni
reazionarie, decretando l'inizio di un'escalation. Si verificò quindi anche la
ripresa militante dello squadrismo in appoggio all'azione sindacale fascista,
dando luogo ad un'ondata di scioperi su tutto il territorio nazionale, i più
infuocati dei quali in Valdarno, Lunigiana e ad Orbetello. In Valdarno lo
sciopero venne organizzato dal dirigente Bramante Cucini, seguace di Sergio
Panunzio, e finanziato direttamente dai Comuni amministrati dal Partito
Nazionale Fascistae da uno stanziamento apposito del Direttorio generale del
PNF, con la pubblica approvazione di Mussolini.[41] Al termine dello sciopero
si ebbe perfino la nomina statale di una commissione straordinaria di
lavoratori per gestire le miniere, destando comprensibile spavento tra il
padronato.[42] Nel novembre del 1924 si tenne a Roma il II Congresso
nazionale delle corporazioni. Qui venne messa momentaneamente da parte la
strada della collaborazione di classe, per riprendere quella della lotta in
difesa dell'unità dei lavoratori e dell'istituzionalizzazione delle
corporazioni, quest'ultimo aspetto chiesto a gran voce durante tutto il
congresso dalla maggioranza degli esponenti, soprattutto quelli rappresentanti
i sindacati agricoli provinciali, come Mario Racheli.[32] «Nei riflessi
della politica economica non v'è chi non afferri l'utilità nazionale di rendere
responsabili le organizzazioni sindacali e di creare discipline contrattuali
garantite dalla legge.» (Edmondo Rossoni, intervento al II Congresso
nazionale delle corporazioni.[43]) In questo quadro ha luogo, come in altri
casi era avvenuto, un'avversione crescente nei confronti dell'inerzia e
dell'inattivismo di Mussolini verso la situazione generale, legato alla fase ed
alle operazioni di consolidamento del potere del fascismo all'interno della
formazione statale. Ciò generò, in diversi casi, il concepimento e la presa di
decisioni autonome da parte dei capisquadra, dei leader sindacali e dell'ala
movimentista[44][45] e la messa in evidenza della natura anticapitalista che permeava
il fascismo provinciale nei confronti di quello cittadino, dove il movimentismo
si scontrava coi circoli conservatori. Questa natura emerse visibilmente e
prepotentemente con lo sciopero carrarese organizzato da Renato Ricci, capo
delle squadre d'azione della Lunigiana. In tale frangente lo sciopero fascista
(autunno-inverno del 1924) portò ad una radicalizzazione estrema dello scontro
con "i baroni del marmo", imperanti nel carrarese, da portare
all'occupazione ed all'autogestione delle cave e delle industrie di
lavorazione, ma soprattutto (dato che lo sciopero non si risolse con una vera e
propria vittoria) a divenire una delle cause fondamentali della nascita di una
corrente di dissidenti all'interno del fascismo "ufficiale".[46][47]
Il 3 gennaio 1925 ha luogo il discorso alla Camera con cui Mussolini si prende
carico della responsabilità politica della vicenda Matteotti. L'8 gennaio
il Direttorio delle corporazioni e quello del Partito Nazionale Fascista si
riuniscono congiuntamente studiando una serie di problemi da risolvere per
valorizzare il ruolo delle classi lavoratrici ed il loro inserimento a pieno
titolo nella vita nazionale, producendo poi un ordine del giorno in cui si
autorizzavano i sindacati fascisti a ricorrere alla "lotta economica"
contro industriali e capitalisti, rei di "colpevole incomprensione"
dei fini e della prospettiva sociale e nazionale del fascismo. Ciò determina,
insieme all'entusiasmo per l'intransigenza insita nel discorso di Mussolini,
l'instaurazione di un clima da "seconda ondata", rimettendo
nuovamente in moto la rivoluzione da sinistra e accendendo nuovamente
l'entusiasmo del fascismo movimentista.[32] Nel marzo del 1925 avviene
quindi l'ultima grande azione di forza della Confederazione nazionale delle
corporazioni sindacali, che scavalcò le vertenze sindacali in corso tra la O.M.
di Brescia e la FIOMindicendo uno sciopero a sorpresa, scatenato da una serie
di multe e licenziamenti inflitti agli operai fascisti che, per protesta,
abbandonarono i posti di lavoro. Le agitazioni ottennero l'appoggio di Roberto
Farinacci, in quel periodo segretario nazionale del Partito, e, di contrasto,
gli appelli alla moderazione di Mussolini, che consigliò cautela a Rossoni per
non ripetere le vittorie di Pirro degli scioperi valdarnesi e carraresi.[32]Le
agitazioni dei metallurgici riuscirono però ad allargarsi fino a Milano, dove
gli operai socialisti e comunisti vennero invitati ad aderire; le attività di
contestazione cominciarono poi ad interessare anche carovita ed altri argomenti,
estendendosi a tutta la Lombardia ed assumendo, soprattutto con il
sindacalfascista Luigi Razza caratteri indipendenti dal governo e di aperta
minaccia e violenza nei confronti degli industriali, terrorizzati dalla
possibilità di combinazioni politiche unitarie impreviste.[48] Dopo lunghe
trattative le agitazioni rientrarono, decretando un grosso insuccesso per gli
industriali, che dovettero fare buone concessioni, sebbene non totali, agli
operai tramite i sindacati fascisti, e l'emarginazione completa della FIOM, i
cui rappresentati si spostarono in massa nelle Corporazioni.[1] «Per ben
tre anni l'esistenza di un sindacalismo fascista, cioè di un movimento
sindacale guidato da fascisti e orientato verso le idee del fascismo, fu
ostinatamente negata. Ci voleva, per dissuggellare gli occhi dei ciechi
volontari e fanatici, il fatto clamoroso: lo sciopero che mettesse in campo le
forze sindacali del fascismo e che desse in pari tempo allo stesso sindacalismo
fascista una più risoluta nozione della sua forza e delle sue possibilità di
azione.» (Benito Mussolini, Fascismo e sindacalismo, a seguito degli
scioperi metallurgici organizzati dai sindacati fascisti in Nord
Italia[27][49]) Altro commento che rivela il momento infuocato fu quello di
Corradini, sindacalista nazionale: «Il superamento del socialismo, non la
dispersione, non la distruzione dell'opera socialista. Questo è buono
affermare, in occasione dello sciopero dei sindacati fascisti (...) Vi è fra
socialismo e fascismo un nesso storico, oso dire una continuazione storica
(...) Il fascismo supera il socialismo, ma raccoglie i buoni frutti dell'opera
socialista e secondo la sua propria legge, quando occorra, tale opera
continua» (Enrico Corradini, su Il Popolo d'Italia[41]) La trasformazione
in organi di diritto pubblicoModifica Edmondo Rossoni in Piazza del
Popolo (Roma) annuncia la promulgazione della Carta del Lavoro. Ugo
Spirito. La conseguenza principale di questi avvenimenti furono però gli
accordi di Palazzo Vidoni (2 ottobre 1925), in cui venne riconosciuto dalla
Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali e da Confindustria la
reciproca esclusività di rappresentanza di lavoratori e datori di lavoro, con
l'impegno al conseguimento prioritario dell'interesse nazionale.[1] Va
però evidenziata soprattutto la legge del 3 aprile 1926: con questa legge
vennero infatti, tra l'altro, realizzata l'istituzionalizzazione dei sindacati
fascisti e legalizzato il loro monopolio per la rappresentanza dei lavoratori
con la nascita della contrattazione collettiva del lavoro. Ciò andava a
significare che le Corporazioni divennero organi di diritto pubblico
dell'amministrazione statale, con "funzioni di conciliazione, di
coordinamento ed organizzazione della produzione". All'interno di questa
legge era inoltre presente l'articolo 42, che prevedeva una direzione comune
tra le associazioni di categoria delle due parti, contenendo in nuce il
progetto corporativo a sindacato misto che verrà realizzato negli anni
trenta.[50] Dopo questa vittoria, per Rossoni si ebbe la redazione della
Carta del Lavoro (1927), testo fondamentale della politica sociale fascista in
ottica di eliminazione della dicotomia tra le classi sociali[51] ma, dall'anno
successivo, con Farinacci non più alla segreteria nazionale del PNF, ebbero
sfogo gli attacchi alla Conferenza nazionale delle corporazioni sindacali, che
venne smembrata dai circoli conservatori (novembre 1928), capeggiati da
Giuseppe Bottai (sottosegretario al Ministero delle corporazioni) ed Augusto
Turati(nuovo segretario del partito), in sei separate confederazioni di
sindacati, facendo diminuire il potere contrattuale dell'organismo,
disperdendolo in strutture più piccole e limitate.[52] Il secondo
Convegno di Studi sindacali e corporativiModifica Nel periodo che intercorse da
questo momento alla legge del 5 febbraio 1934, istitutiva delle corporazioni,
si ebbe uno blocco totale dell'azione nel settore, in cui intervenne
positivamente soltanto il II Convegno di Studi sindacali e corporativi,
tenutosi a Ferrara nel maggio del 1932, nel quale emerse il concetto di
corporazione proprietaria proposta da Ugo Spirito[53], nei confronti della
quale il sindacalismo fascista si trovò su posizioni contrastanti a causa di un
arroccamento di tipo ideologico: rimasti su posizioni classiste nel passaggio
dal socialismo eterodosso al fascismo, molti degli esponenti pre-rivoluzionari
del sindacalismo fascista (Lanzillo, Giampaoli, Bagnasco, ecc.) videro il
progetto di annullare il sindacalismo nel corporativismo come un progetto reazionario,
rimanendo ancorati alla concezione della lotta di classe come uno scontro
benefico per gli interessi individuali e nazionali.[54] L'incapacità di
accettare la proposta di Spirito da parte dei primi sindacalisti fascisti, ma
anche i "nuovi" come Luigi Razza e Pietro Capoferri, fu dovuta quindi
essenzialmente al rigetto totale della visione statalista che andava formandosi
nel fascismo ed al cui finalismo erano sempre stati avversi: per loro "la
corporazione è il sindacato, e dire Stato corporativo è come dire Stato
sindacale"[54][55] L'esaurimento del sindacalismo fascista nelle
CorporazioniModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in
dettaglio: Corporativismo. Sede dell'Opera Nazionale Dopolavoro. Nel 1934
viene approvata la creazione dello Stato corporativo che, con le nomine
dall'alto al posto delle cariche elettive e l'abolizione (fino al 1939) del
fiduciario di fabbrica, aveva dato tra l'altro alle corporazioni, divenute veri
e propri sindacati formati dai rappresentanti dei lavoratori e dei datori di
lavoro ed istituzionalizzati nello Stato, la facoltà di stipulare i contratti
collettivi di lavoro.[27][56] In ogni caso il cambiamento di assetto
istituzionale e la rivoluzione nel mondo del lavoro, non pregiudicarono i risultati
effettivi che il sindacalismo fascista aveva ottenuto negli anni. Tra le più
importanti si possono elencare: ferie pagate; indennità di licenziamento;
conservazione del posto in caso di malattia; divieto di licenziamento in caso
di maternità; assegni familiari; diffusione delle casse mutue aziendali;
assistenza sociale dell'Opera Nazionale Dopolavoro(ad es. centri ricreativi,
viaggi collettivi a prezzo simbolico, manifestazioni teatrali, etc).[50] Il 21
aprile 1930 fu Mussolini stesso a rivendicare alle corporazioni la funzione di
esaurire in sé il compito del sindacalismo fascista, superando ed andando oltre
al sindacalismo stesso, inserendosi nel solco della Rivoluzione continua:
«È nella corporazione che il sindacalismo fascista trova infatti la sua meta.
Il sindacalismo, di ogni scuola, ha un decorso che potrebbe dirsi comune, salvo
i metodi: s'incomincia con l'educazione dei singoli alla vita associativa; si
continua con la stipulazione dei contratti collettivi; si attua la solidarietà
assistenziale o mutualistica; si perfeziona l'abilità professionale. Ma mentre
il sindacalismo socialista, per la strada della lotta di classe, sfocia sul
terreno politico, avente a programma finale la soppressione della proprietà
privata e dell'iniziativa individuale, il sindacalismo fascista, attraverso la
collaborazione di classe, sbocca nella corporazione, che tale collaborazione
deve rendere sistematica e armonica, salvaguardando la proprietà, ma elevandola
a funzione sociale, rispettando l'iniziativa individuale, ma nell'ambito della
vita e dell'economia della Nazione. Il sindacalismo non può essere fine a sé
stesso: o si esaurisce nel socialismo politico o nella corporazione fascista. È
solo nella corporazione che si realizza l'unità economica nei suoi diversi elementi:
capitale, lavoro, tecnica; è solo attraverso la corporazione, cioè attraverso
la collaborazione di tutte le forze convergenti a un solo fine, che la vitalità
del sindacalismo è assicurata.» (Benito Mussolini, discorso inaugurale
del Consiglio Nazionale delle corporazioni[57]) Maggiori esponenti ed
ispiratori Modifica
Filippo Corridoni Enrico Corradini Alceste De Ambris Sergio Panunzio Angelo
Oliviero Olivetti Ottavio Dinale Agostino Lanzillo Dino Grandi Luigi Fontanelli
Riccardo Del Giudice Michele Bianchi Gino Baroncini Tullio Cianetti Edmondo
Rossoni Luigi Razza Mario Racheli Domenico Bagnasco Bramante Cucini Pietro
Capoferri Giuseppe Landi Alcide Aimi RivisteModifica La Stirpe Il Lavoro
Fascista (poi organo ufficiale del Partito Fascista Repubblicano) Il Lavoro
d'Italia Cultura Sindacale Rivista del Lavoro L'Idea Sindacalista Il Lavoro I
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comunisti soprattutto tra metallurgici e metalmeccanici del nord-ovest e lo
rimarranno fino allo sciopero fascista della OM di Brescia, espansosi poi in
tutto il nord Italia, del 1925. In Luca Leonello Rimbotti, Il Fascismo di
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Parlato, Il sindacalismo fascista. Dalla grande crisi alla vigilia dello Stato
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che continuò pericolosamente a portare avanti idee liberiste anche durante il
regime. ^ Angelo Oliviero Olivetti, Bolscevismo, comunismo e sindacalismo,
Editrice Rivista Nazionale, Milano, 1919. ^ Deliberazione congiunta del 6
luglio 1922 del PNF e del Gruppo parlamentare del partito ^ a b c d e
Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Laterza, 1974. ^
Espressosi esplicitamente, in particolare, nella seduta del Gran Consiglio del
Fascismo del 15 marzo 1923, occupatasi dell'analisi dei problemi sindacali. In
questo ambito Michele Bianchi definì "dittatoriale" la
"procedura introdotta dal sindacalismo fascista", mentre il
sindacalista nazionale Maraviglia ribadì che "la doppia organizzazione,
cioè quella dei datori di lavoro e quella dei lavoratori, allontana ogni
pericolo che anche il Fascismo, per le pressioni e l'influenza delle
organizzazioni sindacali, possa diventare un partito di classe". In
Claudio Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia, Milano, 1972. ^ a b
Francesca Tacchi, Storia illustrata del fascismo, Giunti, Firenze, 2000. ^ Luca
Leonello Rimbotti, Il Fascismo di sinistra, Edizioni Settimo Sigillo, Roma,
1989 ^ Corriere della Sera, 18 gennaio 1926 ^ AA. VV., Uomini e volti del
fascismo, Bulzoni, Roma, 1980. ^ "(...) contrassegnata da un parziale
ritorno alla teoria e alla pratica del conflitto di classe", in Adrian
Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza,
Bari, 1974 ^ "Il fascismo è una dottrina, una fede, una civiltà nuova.
Riemerge ora l'anima rivoluzionaria del Fascismo. Il Fascismo deve
immediatamente tornare, non per opportunismo, ma per necessità storica, al
programma del '19 (...) L'anima del Fascismo è, ricordiamolo sempre, il Sindacalismo
Nazionale, la cui formula Mussolini lanciò prima del 1918, prima di Vittorio
Veneto". In Sergio Panunzio, La méta del Fascismo, in Il Popolo d'Italia,
22 giugno 1924 ^ Attilio Tamaro, Venti anni di storia, Editrice Tiber, Roma,
1953. ^ a b Claudio Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia, Milano,
1972. ^ Il Mondo, 1924 ^ Rossoni stava, nel suo intervento, illustrando le
future battaglie del sindacalismo fascista sui contratti collettivi di lavoro.
In Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Laterza, 1974. ^
"In questo periodo - fine '24 - continuarono ad affiorare, in seno al
sindacalismo fascista, tendenze centrifughe verso Mussolini e il partito, la
cui sorte pareva a molti gravemente compromessa" in Alberto Acquarone, La
politica sindacale del fascismo ^ Alberto Aquarone e Maurizio Vernassa, Il
regime fascista, Il Mulino, Bologna, 1974. ^ Che rientrò poi in breve tempo
nell'alveo della sinistra fascista ufficiale. ^ Sandro Setta, Renato Ricci:
dallo squadrismo alla Repubblica sociale italiana, Il Mulino, 1986. ^ Bruno
Uva, La nascita dello stato corporativo e sindacale fascista, Carucci,
Assisi-Roma, 1974. ^ Gerarchia n° 5, maggio 1925 ^ a b Alberto Acquarone,
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Italian Fascism, Columbia University Press, New York, 1938. (EN) David D.
Roberts, The Syndacalist Tradition and Italian Fascism, University of North
Carolina Press, Chapel Hill, 1979. Voci correlateModifica Camera dei fasci e
delle corporazioni Carta del Lavoro Corporativismo Corporazione proprietaria
Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali Collaborazione di classe
Fasci Italiani di Combattimento Interventismo Leggi fascistissime Politica
economica fascista Politica sociale (fascismo) Dalmine Rivoluzione fascista
Squadrismo Sindacalismo rivoluzionario Sindacato fascista dei giornalisti
Controllo di autoritàThesaurusBNCF 36490 Portale Fascismo
Portale Politica Portale Storia d'Italia Ultima modifica 2
mesi fa di Tytire PAGINE CORRELATE Edmondo Rossoni sindacalista, giornalista e
politico italiano Angelo Oliviero Olivetti politico, politologo e
giornalista italiano Confederazione nazionale delle corporazioni
sindacali WikipediaRiccardo Del Giudice. Giudice. Keywords: l’implicatura di
Telesio, Telesio, polemica con Spirito su la distinzione tra sindacato e
corporazione, le corporazione nell aroma papale, I diritti dello stato
pontificio, il diritto della navegazione, contratto, gentile, la scuola al
lavoro – ‘dottrina e prassi corporativa” -- – la tesi di telesio – consiglio nazionale
delle corporazioni. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Giudice: l’implicatura di Telesio” -- The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755870847/in/dateposted-public/
Grice e
Giudice – corpi ed espressioni – filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi
Speranza (Antillo). Filosofo. Grice:
“Giudice has written an essay that poses a conceptual query for Austin’s
conceptual query. It’s “Sull pudore” – “But do we have that in ordinary
language?”” – Grice: “Giudice has also written on more standard forms of
philosophy of language, and Nietzsche.” Dopo aver espletato studi classici si
laurea con la tesi “Ideologia e Sociologia” -- Ricercatore all'Istituto di
Filosofia di Messina. Direttore della collana "Filosofia Teoretica". Altre
saggi: “La Nuova Filosofia, Messina, Sortino “Il discorso filosofico” “Gli echi
del corpo” Verona,Paniere, “Il lessico di Nietzsche” Roma, Armando, Nietzscheana.
Esercizi di lettura, Messina, Alfa, “Il tribunale filosofico” I simboli delle
cose più alte, Fedeltà alla terra, Profili della contemporaneità, Cosenza,
Pellegrini, “Stare insieme” Cosenza, Pellegrini, La filosofia del finito,
Cosenza, Pellegrini, Gl’echi, Cosenza, Pellegrini Editore, Il corpo e l'espressione,
Cosenza, Pellegrini, Scritti di filosofia ed etica, Cosenza, Pellegrini, Emozioni
e cognitività: Un approccio fisiologico, Cosenza, Pellegrini Sul pudore -- Sul
pudore e sull'osceno, Cosenza, Pellegrini Breve documento sulla "nuova
filosofia", Cosenza, Pellegrini, Scritti di filosofia ed etica, Cosenza,
Pellegrini, Su Messina e altri scritti, Cosenza, Pellegrini, Morelli, Puoi
fidarti di te, Milano, Mondadori, Battaglia, Storia e cultura in Popper,
Cosenza, L. Pellegrino, Battaglia, Guicciardini tra scienza etica e politica,
Cosenza, L. Pellegrino,, varie Giovanni
Coglitore, Kant: cristianesimo come impegno morale, in Il contributo, L'Espresso, Studi etno-antropologici e
sociologici,. Fisiologia branca della biologia che studia il
funzionamento degli organismi viventi Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg
Disambiguazione – "Fisiologo" rimanda qui. Se stai cercando l'omonimo
trattato antico, vedi Il Fisiologo. La fisiologia (dal greco φύσις, physis,
'natura', e λόγος, logos, 'discorso', quindi 'studio dei fenomeni naturali') è
la branca della biologia che studia il funzionamento degli organismi
viventi[1], analizzando i principi chimico-fisici del funzionamento degli
esseri viventi, siano essi mono o pluricellulari, animali o vegetali.
L'Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci, un'importante prima tappa nello
studio della fisiologia. È detta "condizione fisiologica" lo stato in
cui si verificano le normali funzioni corporee, mentre una condizione
patologica è caratterizzata da anomalie che si traducono in malattie.[2]. Data
l'estensione del campo di studi, la fisiologia si divide, fra gli altri, in
fisiologia animale, fisiologia vegetale, fisiologia cellulare, fisiologia
microbica, batterica e virale.[3] Il Premio Nobel per la Fisiologia o la
Medicina è assegnato dall'Accademia reale svedese delle scienzea coloro che
raggiungono risultati significativi in questa disciplina. StoriaModifica
Claude Bernard e i suoi aiutanti. Olio su tela di Leon-Augus Wellcome. I primi
studi fisiologici risalgono alle antiche civiltà dell'India e all'Egitto,[4][5]
dove venivano condotti insieme agli studi anatomici, senza l'utilizzo della
dissezione o della vivisezione.[6] Lo studio della fisiologia umana come
campo medico risale almeno al 420 a.C. ai tempi di Ippocrate, noto come il
padre della medicina.[7] Ippocrate incorpora questa scienza alla sua teoria
degli umori, che si basa su quattro sostanze fondamentali: terra, acqua, aria e
fuoco; associate ad un corrispondente humor (bile nera, flegma, sangue e bile
gialla, rispettivamente). Ippocrate nota alcune connessioni emotive ai quattro
umori, che Claudio Galeno avrebbe poi ripreso nei suoi studi. Il pensiero
criticodi Aristotele e la sua teoria sulla correlazione tra struttura e
funzione ha segnato l'inizio dello studio della fisiologia nella Grecia antica.
Come Ippocrate, Aristotele riprende la teoria umorale, che per lui consisteva
in quattro qualità primarie: caldo, freddo, umido e secco.[8] Claudio Galeno è
stato il primo ad utilizzare degli esperimenti per sondare le funzioni del
corpo. A differenza di Ippocrate, però, Galeno sostiene che gli squilibri
umorali siano situati in organi specifici, o nell'intero corpo.[9] Galeno ha
poi introdotto la nozione di temperamento: sanguigno corrisponde al sangue; il
flemmatico è legato al catarro; la bile gialla è collegata alla collera; e la
bile nera corrisponde alla malinconia. Galeno afferma che il corpo umano è
composto da tre sistemi collegati: il cervello e i nervi, responsabili dei
pensieri e sensazioni; il cuore e le arterie, che danno la vita; e il fegato
con le vene, che sono collegati alla nutrizione e la crescita.[9] Galeno è
anche il fondatore della fisiologia sperimentale.[10] Per i successivi 1.400
anni, la fisiologia galenica influenza l'intera medicina.[9] Jean Fernel
(1497-1558), un medico francese, ha introdotto per primo il termine
"fisiologia".[11] Nel 1820, il fisiologo francese Henri
Milne-Edwardsintroduce il concetto di divisione fisiologica del lavoro, che ha
permesso di "confrontare e studiare le cose viventi come se fossero
macchine create dall'industria dell'uomo". Ispirato dal lavoro di Adam
Smith, Milne-Edwards ha scritto che il "corpo di tutti gli esseri viventi,
animali o piante, assomiglia ad una fabbrica ... in cui gli organi,
paragonabili ai lavoratori, lavorano incessantemente per produrre i fenomeni
che costituiscono la vita dell'individuo." Negli organismi più differenziati,
il lavoro può essere ripartito tra diversi strumenti o sistemi (chiamati da lui
appareils).[12] Nel 1858, Joseph Lister studia le cause della
coagulazione del sangue e l'infiammazione. Le sue scoperte portano
all'implemento di antisettici in sala operatoria, con conseguente diminuzione
del tasso di mortalità degli interventi chirurgici.[2][13] Nel XIX
secolo, la conoscenza fisiologica ha iniziato a crescere ad un ritmo rapido, in
particolare nel 1838, grazie alla teoria cellulare di Matthias Schleiden e
Theodor Schwann, nella quale si afferma per la prima volta che gli organismi
sono costituiti da unità chiamate celle. Le scoperte di Claude Bernard
(1813-1878) hanno portato al concetto di milieu interieur(ambiente interno),
che sarà poi ripreso e definito "omeostasi" dal fisiologo americano
Walter B. Cannonnel 1929. Con omeostasi, Cannon intendeva "il mantenimento
di stati stazionari nel corpo e i processi fisiologici con cui sono
regolati."[14] In altre parole, la capacità dell'organismo di regolare
l'ambiente interno. Va notato che, William Beaumont è stato il primo americano
ad utilizzare l'applicazione pratica della fisiologia. I fisiologi del
XIX secolo come Michael Foster, Max Verworn, e Alfred Binet, sulla base delle
idee di Haeckel, elaborano il concetto di fisiologia generale, una scienza
unificata che studia le cellule,[15]ribattezzata biologia cellulare nel 900.
Nel XX secolo, i biologi iniziano ad interessarsi agli organismi diversi dagli
esseri umani, e nascono i campi della fisiologia comparata ed
ecofisiologia.[16] Più di recente, la fisiologia evolutiva è diventata un
sotto-disciplina distinta.[17] DescrizioneModifica La fisiologia opera su
diversi livelli, occupandosi sia dei meccanismi di base a livello molecolare
sia di funzioni di cellule e organi, come pure dell'integrazione delle funzioni
d'organo negli organismi complessi. A seconda dell'ambito
specialistico, la fisiologia si avvale delle conoscenze di numerose discipline,
oltre alle già citate chimica e fisica, alcune branche della biologia quali:
biochimica, biologia molecolare, anatomia, citologia e istologia e costituisce
anche la base fondamentale per numerose discipline mediche quali la patologia,
la farmacologia e la tossicologia. Esistono diversi metodi per classificare
la fisiologia[18] In base al taxon: Fisiologia animale: studia i fenomeni
e i meccanismi associati alle funzioni degli animali. Fisiologia vegetale:
studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni dei vegetali.
Fisiologia umana: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni
degli esseri umani Fisiologia microbica e virale. In base al livello di
organizzazione: Fisiologia cellulare: studia i meccanismi associati al
funzionamento delle cellule e le loro interazioni con l'ambiente. Fisiologia
molecolare: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni delle
molecole Neurofisiologia: studia il funzionamento del sistema nervoso sia a
livello cellulare che sistemico Fisiologia sistemica Fisiologia ecologica
Fisiologia integrativa In base ai processi che causano variazioni fisiologiche:
Fisiologia ambientale: studia le reazioni e l'adattamento dell'organismo
sottoposto a differenti ambienti (temperatura, altitudine, inquinamento,
ecc..). Fisiologia patologica: studia le modificazioni delle funzioni in
seguito ad una patologia. Fisiologia dello sviluppo: studia i meccanismi e le
fasi che conducono un organismo alla maturità riproduttiva. In base agli
obiettivi finali della ricerca: Fisiologia applicata: studia la capacità umana
d'interagire con l'ambiente esterno. Fisiologia comparata: studia le
somiglianze e le differenze delle diverse specie animali. Fisiologia
dell'esercizio: studia i meccanismi che interessano l'attività motoria e
sportiva e come migliorare le prestazioni con l'allenamento. NoteModifica ^
Prosser, C. Ladd (1991).Comparative Animal Physiology, ambientale Environmental
and Metabolic Animal Physiology(4 ° ed.).Hoboken, NJ: Wiley-Liss.pp. 1-12.ISBN
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URL consultato il 26 maggio 2017. ^ Wilbur Applebaum. Encyclopedia of the
Scientific Revolution: From Copernicus to Newton. Routledge. p. 344. ^ R. M.
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. Seattle: University of Washington Press, 2015. 384 pp. ^ Milestones in
Physiology (1822-2013)"Archiviato il 20 maggio 2017 in Internet Archive.
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10, 27 maggio 2017, pp. 1594–1595. URL consultato il 27 maggio 2017. ^ ( EN )
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Fin-de-Sicle Europe, University of Washington Press, 1º maggio 2015, ISBN
978-0-295-80578-8. URL consultato il 27 maggio 2017. ^ Feder, ME; Bennett, AF;
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P.M. Principles of Animal Physiology, second edition. Pearson/Benjamin
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studia la vita Storia della biologia Equilibrio idro-salino WikipediaSanti
Lo Giudice. Giudice. Keywords: corpi ed espressioni, corpo, espressione,
pudore, osceno, l’osceno nella Roma antica, l’osceno nella italia antica, fisiologia,
fisiologico, natura -- Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Giudice: corpi ed espressioni” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756657916/in/dateposted-public/
Grice e
Giuliano – filosofia italiana – Luigi Speranza – Grice:
“When I think Giuliano, I think Donizetti – and Poliuto’s lions!” -- Flavio
Claudio Giuliano (in latino: Flavius Claudius Iulianus; Costantinopoli),
filosofo. L’ultimo sovrano dichiaratamente pagano, che tenta, senza successo,
di riformare e di restaurare la religione romana dopo che essa era caduta in
decadenza di fronte alla diffusione del cristianesimo. Giuliano. Keywords:
pagano, ennico, prima Roma, terza Roma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Giuliano” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/23245055244/in/photolist-2mQzBiv-2mQxzwE-2mQjVch-2mPQGvz-2mPC6Zb-2mN36eA-2mLLZRD-2mLNi1Z-2mLznXk-2mKC3nj-2mKk6t5-2mKgN49-2mJ4GHU-Bq5Z5y-CfbuaM-Bm5FTy-BUPaNy-B24BWv-nup62f-ncSD5f-mMFu8i-mPMvEo-mMFf9t-mMFixn-mMFtDV-mMFsxp-mMH8r5-mMQAmK-mPMhv7-mMFmrM-my8CQ1-mwcBH4-mwc4Gc-mwc6XV-mwcxz4-mwctYM-mwdQhS
Grice e
Giussani – dell’amicizia – il comune,
fraternita, liberazione -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Desio).
Filosofo. Grice: “I like Giussiani; of course at Oxford he would be a no-no,
being a Catholic; but he understands the pragmatics of conversation!” Ricevette
la prima introduzione dalla madre Angelina Gelosa, operaia tessile; il padre
Beniamino, disegnatore e intagliatore, era un socialista. Entra nel
seminario diocesano San Pietro Martire di Seveso dove frequenta i primi quattro
anni di ginnasio. Si trasferì a Venegono Inferiore, nella sede principale del
seminario dove frequenta l'ultimo anno di ginnasio, i tre anni del liceo e dove
svolse i successivi studi di filosofia. Ebbe come docenti, fra gli altri,
Colombo, Corti, Carlo, e Figini. In quella sede conobbe i compagni di studio Manfredini
e Biffi. Si interessò di Leopardi e delle chiese ortodosse. Il 26 maggio
1945 Giussani, ventitreenne, ricevette l'ordinazione sacerdotale dal cardinale
Ildefonso Schuster. Dopo l'ordinazione, rimase nel seminario di Venegono
come insegnante e si specializzò nello studio della teologia orientale (specie
sugli slavofili), della teologia protestante e della motivazione razionale
dell'adesione alla Chiesa. Lascia l'insegnamento in seminario per quello
nelle scuole superiori. Inizia l'insegnamento della religione nelle scuole
superiori a Milano dove fu suo alunno Giorello. Le riunioni di suoi studenti si
tennero con il nome di Gioventù Studentesca (GS), che fonda insieme a Ricci e
che fece parte dell'Azione Cattolica. Inizia anche un'attività
pubblicistica volta a porre attenzione sulla questione educativa. Redasse la
voce "Educazione" per l'Enciclopedia Cattolica. Sotto Colombo continuò gli studi di teologia
protestante per i quali soggiornò per cinque mesi negli Stati Uniti. Ottenne la
cattedra di Introduzione alla Teologia a Milano.:Lo Spirito Santo ha suscitato
nella Chiesa, attraverso di lui, un Movimento, il vostro, che testimoniasse la
bellezza di essere cristiani in un'epoca in cui andava diffondendosi l'opinione
che il cristianesimo fosse qualcosa di faticoso e di opprimente da vivere. Giussani
s'impegnò allora a ridestare nei giovani l'amore verso Cristo "Via, Verità
e Vita", ripetendo che solo Lui è la strada verso la realizzazione dei
desideri più profondi del cuore dell'uomo, e che Cristo non ci salva a dispetto
della nostra umanità, ma attraverso di essa. Il movimento da lui creato prese
il nome di Comunione e Liberazione; ne assunse la guida presiedendone il
consiglio generale. Il Pontificio Consiglio per i Laici riconobbe la
Fraternità di Comunione e Liberazione e Giussani ne guidò la Diaconia
Centrale. Contribuì alla costituzione della Fondazione Banco Alimentare.
Fra le sue numerose opere vi è la trilogia del Per Corso, redatta a partire
dagli appunti delle lezioni di religione che aveva tenuto negli anni cinquanta
al liceo Berchet e in seguito all'Università Cattolica. L'opera, pubblicata in
successive edizioni prima da Jaca e poi da Rizzoli, è composta da “Il senso
religioso, All'origine della pretesa cristiana e Perché la Chiesa. Propone la
concezione della fede e dell'esperienza cristiana come incontro con Cristo
attraverso la Chiesa cattolica. La fede è un «riconoscere una Presenza» ed
occupa ogni singolo spazio della vita individuale (i rapporti umani,
l'esperienza lavorativa, la vita sociale e politica). Da ciò nasce anche una
critica alla ragione illuminista. L'idea della ragione come principale
strumento offerto all'uomo nel rapporto con la realtà e della fede come metodo
di conoscenza sono le premesse metodologiche per un'analisi dell'esperienza
religiosa. Dopo la morte, sono stati dedicati a Giussani: Desio:
nel paese natale di Giussani, la piazza retrostante il municipio e un monumento
opera di Cristina Mariani a Milano: parcoGiussani, in predenza parco Solari
Trivolzio: il piazzale adibito all'accoglienza delle auto dei pellegrini alla
chiesa parrocchiale che ospita le spoglie di San Riccardo Pampuri. Finale
Ligure: l'ultimo tratto del sentiero che porta all'antica chiesa di San Lorenzo
di Varigotti: lì si tennero alcuni dei primi incontri di Comunione e Liberazione,
che ancora si chiamava Gioventù Studentesca Castronno (VA): un largo presso la
rotatoria all'uscita dell'Autostrada dei laghi. Ascoli Piceno: la scuola
primaria e dell'infanzia "Giussani". Portofino: la piazzetta del faro
Kampala (Uganda): la scuola secondaria Giussani Pozzolengo: il parco comunale
adiacente al castello San Leo: un basso-rilievo in bronzo, opera dell'artista
riminese Ceccarellia, sulla facciata del convento di Sant'Igne Rimini: la
rotonda davanti al Palacongressi, nei pressi dell'area della demolita Fiera
dove si sono svolte le prime edizioni del Meeting per l'amicizia fra i popoli Chiavari:
un tratto del lungoporto Verona: i giardini presso ponte Garibaldi a Borgo
Trento Cinisello Balsamo: un largo urbano nei pressi del comune Segrate: il
centro sportivo della frazione di Redecesio Strade comunali sono state
intitolate a don Giussani a Cagliari, Morrovalle, Rapallo, Treviglio, Mestre,
ecc. La maggior parte delle opere deriva dalla trascrizione di dialoghi,
conversazioni e lezioni svolte in pubblico durante raduni, convegni, esercizi
spirituali. I suoi libri sono stati pubblicati dall'editore milanese Jaca. Rizzoli
ha iniziato a rieditare i testi di Giussani in nuove edizioni aggiornate dotate
spesso di un nuovo apparato di note e di nuovi contenuti editoriali e a volte
con titoli diversi. Rizzoli ha anche pubblicato le opere inedited e volumi
antologici di conversazioni precedentemente disponibili sotto forma di
fascicoli pro manuscripto o di redazionali per varie riviste. Volumi di inediti
o di riedizioni di testi sono poi usciti
anche per altri editori, tra i quali Marietti,
San Paolo, SEI, Piemme e Messaggero di Sant'Antonio. Trascrizioni di
conversazioni e lezioni nel corso di incontri con i responsabili di Comunione e
Liberazione, di esercizi spirituali e di incontri con appartenenti ai Memores
Domini sono state di norma pubblicate come inserti redazionali o allegate come
fascicoletti nelle riviste Tracce (precedentemente nota come CL-Littere
Communionis, organo ufficiale del movimento), Il Sabato e 30 giorni nella
Chiesa e nel mondo. Un gran numero di questi testi è stato poi pubblicato in
volumi antologici. -- è iniziata la catalogazione sistematica dei testi e
degli scritti di Giussani. Giussani Scritti, curato dalla Fraternità di
Comunione e Liberazione, inizia la pubblicazione di schede riassuntive dei
testi. Ha diretto la collana editoriale I libri dello spirito cristiano per la
Biblioteca Universale Rizzoli. La collana e poi sostituita da un'analoga
iniziativa sotto il nome di Biblioteca della spirito cristiano, ha pubblicato titoli
scelti fra quelli che più hanno segnato l'esperienza di Giussani e di Comunione
e Liberazione. Ha diretto la collana discografica Spirto gentil, CD musicali di
«introduzione alla musica» con allegato un booklet di norma contenente una nota
introduttiva di Giussani, una scheda storica sui compositori o sui musicisti e
una guida all'ascolto. Saggi: “Il senso religioso: all'origine della pretesa
cristiana, Perché la Chiesa e Il rischio educativo. “Il senso religioso, Jaca, Reinhold
Niebuhr, Jaca Teologia protestante, La Scuola Cattolica, Jaca Marietti, “L'impegno
del cristiano nel mondo, Jaca, Tracce di esperienza e appunti di metodo
cristiano, Jaca Dalla liturgia vissuta: una testimonianza, Jaca, San Paolo, Il
rischio educativo, Jaca, SEI, Rizzoli, Tracce d'esperienza cristiana, Jaca Decisione
per l'esistenza, Jaca L'alleanza, Jaca Il senso della nascita, colloquio con Testori,
BUR Rizzoli, Moralità: memoria e desiderio, Jaca, Alla ricerca del volto umano,
Jaca Rizzoli, Pregare, illustrazioni di Marina
Molino, Jaca La fede e le sue immagini, illustrazioni di Marina Molino, Jaca La
coscienza religiosa nell'uomo moderno, Jaca, Il senso religioso, PerCorso, Jaca Rizzoli, All'origine
della pretesa Cristiana, Jaca Rizzoli, Perché la Chiesa, Jaca, Rizzoli, Un
avvenimento di vita, cioè una storia, EDITIl Sabato L'avvenimento cristiano,
BUR Rizzoli, Il senso di Dio e l'uomo moderno, BUR Rizzoli, Si può vivere così?,
BUR Rizzoli, Rizzoli Il PerCorso, Jaca, Opere: Jaca Book, Il tempo e il tempio,
BUR Rizzoli, Realtà e giovinezza: la sfida, SEI; Rizzoli, Il cammino al vero è
un'esperienza, SEI, Rizzoli, Le mie letture, Rizzoli, Si può (veramente?!) vivere
così?, BUR Rizzoli, Porta la speranza, Marietti Riconoscere una presenza, San
Paolo, Lettere di fede e di amicizia a Majo, San Paolo, Generare tracce nella
storia del mondo, con Alberto e Prades, Rizzoli, L'uomo e il suo destino,
Marietti Scuola di Religione, SEI, L'io, il potere, le opere, Marietti Tutta la
terra desidera il Tuo volto, San Paolo, Che cos'è l'uomo perché te ne curi?,
San Paolo, Avvenimento di libertà, Marietti L'opera del movimento. La
Fraternità di Comunione e Liberazione, San Paolo, Il miracolo dell'ospitalità,
Piemme,Il Santo Rosario, San Paolo, Egli solo è. Via Crucis, San Paolo, La
libertà di Dio, Marietti, Come si diventa cristiani, Marietti La familiarità
con Cristo, San Paolo, Vivere intensamente il reale, La Scuola,. Spirto gentil,
BUR Rizzoli,. Cristo compagnia di Dio all'uomo, EMessaggero Padova, Collana
Quasi Tischreden "Tu" (o dell'amicizia), BUR Rizzoli, Vivendo nella
carne, BUR Rizzoli, L'attrattiva Gesù, BUR Rizzoli, L'auto-coscienza del cosmo,
BUR Rizzoli, Affezione e dimora, BUR Rizzoli, Dal temperamento un metodo, BUR
Rizzoli, Una presenza che cambia, BUR Rizzoli, Collana L'Equipe Dall'utopia
alla presenza BUR Rizzoli, Certi di
alcune grandi cose, BUR Rizzoli, Uomini senza patria BUR Rizzoli, Qui e ora BUR
Rizzoli, “L'io rinasce in un incontro” BUR Rizzoli, Ciò che abbiamo di più
caro, BUR Rizzoli, Un evento reale nella vita dell'uomo BUR Rizzoli, In cammino
BUR Rizzoli, Collana Cristianesimo alla prova Una strana compagnia, BUR
Rizzoli, La convenienza umana della fede, BUR Rizzoli, La verità nasce dalla
carne, BUR Rizzoli, Un avvenimento nella vita dell'uomo, BUR Rizzoli, Interviste Comunione e Liberazione.
Interviste Robi Ronza, Milano, Jaca Book, Un caffè in compagnia. Conversazioni
sul presente e sul destino, colloqui conFarina, Milano, Rizzoli. Il fondatore: Comunione
e Liberazione. Camisasca "C’altro Sessantotto", da
"L'Osservatore Romano" ORIGINE, in Banco Alimentare, Elemedia
S.p.A.Area Internet, Il mistero di don Giussani. Rivelato dai suoi scritti, su
chiesa.espresso.repubblica. Oggi l'addio a don Giussani Il Tirreno, in
ArchivioIl Tirreno. Società Coop. Edit. Nuovo Mondo Via Porpora, Milano Tracce
, «Cristo è veramente tutto, è il compiersi dell’umano», su tracce. Repubblica
» politica » Milano, i funerali di Don Giussani, su repubblica Milano,
profanata la tomba di don Giussani, Corriere della Sera su corriere. Chiesta l'apertura
della causa di beatificazione e canonizzazione, in Tracce, Società Coop. Edit.
Nuovo Mondo, Passo avanti verso la beatificazione di don Giussani, in Tempi,
Società Coop. Edit. Nuovo Mondo, Savorana, Don Luigi Giussani, fondatore di CL,
nominato monsignore, in Avvenire, Don Giussani: vince il premio della cultura
cattolica, in Adnkronos, Mia giovinezza, in Tracce, Coop. Editoriale Nuovo
Mondo, Premio Isimbardi Città metropolitana di Milano.Tettamanzi, La famiglia a
scuola, in Tracce, Coop. Editoriale Nuovo Mondo, La Festa dello StatutoEdizione
Sigilli longobardi, su Consiglio Regionale della Lombardia. Desio, rinasce il
monumento per don Giussani a dieci anni dalla scomparsa, in Il Cottadino, Il parco Solari sarà dedicato a Giussani, in
Il Giornale, Tornielli, Don Giussani nel solco di San Pampuri, in La Provincia
Pavese, Finale: intitolazione strada a Giussani, in Savona News, Castronno, intitolata a Don Giussani la
nuova rotonda, in Varese News, Emidio Cagnucci, al musicista ascolano intitolata
una scuola, in il Quotidiano,Francesca Nacini, Don Giussani «faro» di
Portofino, in Il Giornale, Uganda. La Luigi Giussani High School inaugurata a
Kampala tra i canti delle donne del Meeting Point, su AVSI, 1Pozzolengo, raid
vandalici nei parchi, in qui Brescia, Un bassorilievo per don Giussani a San Leo,
in Rimini Today, Rotatoria del Palacongressi dedicata a Don Luigi Giussani, in
Altarimini, Chiavari, lungoporto don Giussani per il fondatore di Cl, in Il
Secolo XIX, In Borgo Trento giardini intitolati al fondatore di CL, in Verona
Notte, Melati, Jaca Santa editrice della rivoluzione, in Il Venerdì di
Repubblica, Gruppo Editoriale L'Espresso SpA, Le opere di Comunione e Liberazione. Chi siamo, su Giussani
Scritti, Fraternità di Comunione e Liberazione. Collana I libri dello spirito cristiano, Comunione
e Liberazione. Collana musicale Spirto gentil, di Comunione e Liberazione. Bosco,
Giussani, Torino, Elledici, Guy Bedouelle; Graziano Borgonovo; Olivier Clément;
Antonio Olinto; Julien Ries, Gli uomini vivi si incontrano: scritti per
Giussani, Milanok, Camisasca, Comunione e Liberazione: Le origini Cinisello
Balsamo, Edizioni San Paolo, Massimo Camisasca, Comunione e Liberazione: La
ripresa, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo,Elisa Buzzi, Scola, Un pensiero
sorgivo, Marietti DPerillo, Caro Giussani. Dieci anni di lettere a un padre, Piemme,
Camisasca, Comunione e Liberazione: Il riconoscimento, Appendice, Cinisello
Balsamo, Edizioni San Paolo, Farina, Giussani. Vita di un amico, Piemme, Farina, Maestri. Incontri e dialoghi sul senso
della vita, Piemme, Ceglie, Giussani. Una religione per l'uomo, 1ª ed., Cantagalli,
AGamba, Allargare la ragione, Vita e Pensiero, Massimo Camisasca, Giussani. La
sua esperienza dell'uomo e di Dio,Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo,Savorana,
Vita di don Giussani, Milano, Rizzoli Editore, Savorana, Un'attrattiva che
muove, 1ª ed., Milano, BUR Saggi, Scholz-Zappa, Giussani e Guardini. Una lettura
originale, Milano, Jaca Book, Marta Busani, Gioventù studentesca. Storia di un
movimento cattolico dalla ricostruzione alla contestazione, Roma, Edizioni
Studium, Massimo Camisasca, L'avventura di Gioventù Studentesca, fotografie di
Elio Ciol, Milano, Mondadori Electa, G. Paximadi, E. Prato, R. Roux e A. Tombolini,
Giussani. Il percorso teologico e l'apertura ecumenica, Siena, Cantagalli
Eupress FTL. Scritti di Giussani, su Giussani
Scritti, Fraternità di Comunione e Liberazione. Giussani su Comunione e
Liberazione, Fraternità di Comunione e Liberazione. Luigi Giovanni Giussani. Giussiani.
Keywords: dell’amicizia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giussani” – The
Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756555485/in/photolist-2mRxSLV-2mJe9QJ
Grice e
Giusso – gl’eroi – filosofia fascista -- il mistico dell’azione -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: “I like Giusso: he has explored
philosophers from his country like Leopardi and Bruno, and tdhe whole
‘tradizione ermetica nella filosofia italiana,’ but also French – Bergson – and
especially “Dutch,” i. e. Deutsche or tedesca – Spengler, and Nietsche – All
very Italian!” Nato in una famiglia aristocratica, dal conte Antonio Giusso e
da Maria Imperiali d'Afflitto. La sua maturazione culturale avvenne in un
terreno fertile, costituito da un ambiente familiare che aveva contribuito allo
sviluppo non solo culturale della città (il nonno, Girolamo Giusso, uno dei
fondatori del quartiere Bagnoli, ne era stato sindaco). Si laurea in filosofia
a Napoli sotto Aliotta. Seguì con passione l'attualismo gentiliano e proprio il
suo carattere passionale lo portò anche nel campo filosofico ad un tipo di
critica "scenografica", così come fu definita. Le sue
"frizioni" con Croce, inizialmente orientate su temi politici,
presero più tardi una forma "sotterranea", genericamente orientata
contro l'idealism. Giusso si richiamava al fatalismo di Leopardi, al demiurgo
di Nietzsche, allo storicismo di Dilthey, al nichilismo dello Spengler: e a
causa di quest'ultimo, oltre che per la sua interpretazione della Scienza nuova
vichiana (che si attirò una severa recensione dello stesso Croce, Giusso fu
criticato dall'ambiente crociano. Giusso critico e storico delle idee
s'identificava con la visione della vita di autori che sentiva a lui vicini per
temperamento ed interessi come Bruno, Vico (dall'analisi degli scritti del
quale nacque l'infastidita reazione di Croce), Giacomo, Bacchelli, Barilli,
Papini, Soffici, Palazzeschi, Borgese, Gozzano, che molto ispirò la sua
composizione poetica Don Giovanni ammalato. I suoi Tafferugli a Montecavallo
meriterebbero forse di essere più conosciuti. Tra le due guerre, egli partecipò
all'atmosfera culturale della Napoli segnata dal cenacolo di Croce, da cui
molto presto si distaccò (comeTilgher, che egli difese e mostrò di apprezzare)
assumendo posizioni "eretiche" e ispirandosi piuttosto a un ideale di
vitalismo romantico che risulta evidente dai numerosi autori e dalle molte
opere cui dedicò la sua attenzione: in particolare in una fase iniziale, Spengler
e Nietzsche. Intelligenza precoce, prima
di intraprendere l'insegnamento universitario che lo avrebbe allontanato da
Napoli portandolo ad insegnare Filosofia a Bologna, Pisa, e Cagliari, Giusso
avviò una copiosa pubblicazione di articoli, collaborando con numerosi
quotidiani icome Il Popolo d'Italia, Il Secolo, Il Mattino, Il Resto del
Carlino, ed ancora il Giornale, Il Tempo, Il Messaggero, La Gazzetta di
Sicilia, La Stampa ed altri ancora.
Giornali questi dove fu autore di elzeviri, volti alla diffusione dei
più diversi aspetti della cultura europea e alla conoscenza dei suoi principali
esponenti, soprattutto scrittori. Nel dopoguerra, superati i miti
dell'irrazionalismo e dell'energia vitalistica, si riavvicinò alla fede
Cristiana. Era sua intenzione realizzare una revisione del pensiero italiano
dal Rinascimento all'età barocca, approfondendo in particolare lo studio e
l'interpretazione dell'umanesimo, inteso come vasto tentativo sincretistico
volto a ravvicinare la filosofia della Roma antica e quello cristiano. In chiave revisionista rispetto alla
tradizione laica si era avvicinato anche alla figura di Bruno. Di ritorno da un
viaggio nella sua adorata Spagna morì a A Napoli gli venne intitolata una
strada. Saggi: “Le dittature
democratiche dell'Italia” (Milano, Alpes); “Leopardi” (Napoli, Guida); “Idealismo
e prospettivismo” (Napoli, Guida); “Leopardi e le sue due ideologie” (Firenze,
Sansoni); Spengler, Roma, società anonima La nuova antologia, Cadenze di
Sigismondo nella Torre, Modena, Guanda); “Vico fra l'Umanesimo e l'Occasionalismo”
(Roma, Perrella); “La visione della vita” (Napoli, R. Ricciardi); “Elegie del
torso della saggezza mutilata, Milano, Corbaccio); “Il viandante e le statue:
saggi sulla letteratura contemporanea, Roma, Cremonese); “Lo storicismo, Milano,
Bocca, Gioberti, Milano, A. Garzanti, L'anima e il cosmo, Milano, Bocca, “La tradizione ermetica nella filosofia
italiana” (Milano, Bocca); Due scritti sul nazionalsocialismo, Roma, Settimo
Sigillo, Quaderno, Napoli, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa,.
Tafferugli a Montecavallo, La Finestra, Lavis, Il fascismo e Benedetto Croce, "Gerarchia",
"La Critica", rist. in Nuove
pagine sparse, Panteismo e magia in Bruno (Sassari, Scienze e filosofia in
Bruno, Napoli Roma,Enciclopedia Italiana, Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Corriere della sera, La Fiera letteraria, Giornale di
metafisica, F. Bruno,Italia che scrive, Filiasi Carcano, in Logos, IE. Falqui,
Di noi contemporanei, Firenze 1940, ad indicem; G. Villaroel, Gente di ieri e
di oggi, Bologna, ad indicem; L. Fiumi, Giunta a Parnaso, Bergamo 1954, ad
indicem; G. Artieri, Romantico napoletano, in Il Tempo, R. Maran, L. G. e la
ricerca d'un sistema, in Sophia, A. Spaini, Ricordo di L. G., in Il Messaggero,
1° febbr. 1960; G. Toffanin, Nuova Antologia, Boni Fellini, L'Osservatore politico
letterario, Diz. della letteratura mondiale, Enciclopedia Italiana, Dizionario
biografico degli italiano. L’Illuminismo oscuro Lorenzo Giusso,
autore e studioso multidisciplinare, ha lasciato ai posteri una sterminata
produzione intellettuale, tenuta tuttavia troppo poco in considerazione dal
mondo accademico contemporaneo. Stefano Chemelli 10 articoli
Lorenzo Giusso fu studioso di filosofia. Recinto riduttivo si dirà, ma per lui
invece parco multiforme. Ispanista, germanista, francesista. Nato a Napoli il
25 giugno 1900, allievo di Aliotta e Battaglia è precoce critico letterario, si
laurea nel 1924, ottiene la libera docenza in Filosofia teoretica e morale ma
insegna anche letteratura italiana e francese, storia delle religioni, lingua e
letteratura spagnola in diversificate sedi europee. “Tafferugli a Montecavallo”
pubblicato da Cappelli nel 1955, uno studio sul barocco romano e il Bernini,
“La tradizione ermetica nella filosofia italiana”, le straordinarie
conversazioni radiofoniche di “Autoritratto spagnolo” sono appena un accenno a
una sterminata produzione redatta nel breve arco di cinquantasette anni.
Sodale di Unamuno e Ortega con i quali ha condiviso amabili conversari, Giusso
si è occupato a fondo di Goethe, Leopardi, Stendhal, Nietzsche, Dostoevskij,
Freud, Dilthey, Simmel, Bergson Gioberti, Vico, Bruno. Inoltre fu di Spengler
uno dei primissimi esegeti italiani. Dotato di una conversazione che incantava
anche il grande Edoardo, complice in gustosi siparietti nei quali De Filippo si
trasformava in spettatore, basterebbero le pagine dedicate al Bernini per
intuire la rabdomantica agilità di scrittura sempre corroborata da una cultura
che poteva reggere l’impulso filologico di un Croce. Nel 1927 dona un’analisi
storica poderosa in “Le dittature democratiche dell’Italia”, dal 1876
all’ascesa del fascismo, seguito dalla prima raccolta di scritti letterari che
ne connotano le capacità di “viandante” nei diversi giardini del sapere; “Il
ritorno di Faust” è del 1929, “Figure di Capri” del 1931, a ruota seguono le
pagine sopra Freud, Ortega, Dostoevskij, e soprattutto lo studio su
Leopardi. Copia de "La tradizione ermetica nella filosofia
italiana"Copia de “La tradizione ermetica nella filosofia italiana”
Stendhal e Nietzsche non escludono l’impegno anche poetico che troverà sfogo in
tre raccolte che molto dicono del Giusso più segreto (“Musica in piazza”,
“Cadenze di Sigismondo nella torre”, “Elegie del torso della saggezza
mutilata”). “Spengler e la dottrina degli universali formali” restituisce in
forma autonoma un approfondimento più volte ripreso da Giusso nel decennio dei
trenta che costituisce la decade dell’approfondimento filosofico più intenso
(Dilthey e Ortega tra gli altri…) e preparatorio al grande volume “Filosofia e
immagine cosmica” del 1942 dedicato a Gentile. Due traduzioni spagnole
coinvolgeranno gli studi di Giusso rivolte a Vico ma sarebbe urgente dare
attenzione alla tradizione ermetica, magari per scoprire che Eugenio Garin l’ha
sicuramente letta e ripresa molto più tardi. “Kulturkritiker universale”
lo definì il giovane Piero Buscaroli, allievo devoto a Bologna quando Giusso strabiliava
un manipolo di arditi fuoricorso in Estetica e Letteratura spagnola, che mai
avrebbero rinunciato alle sue esibizioni in diretta presso l’Alma Mater
bolognese, fugacemente ospitati. Un grande romantico della ispecie dei
Kleist, degli Hoederlin, dei Novalis però, poeta dei talami dissacrati che
trova negli articoli, nelle corrispondenze, nei taccuini di viaggio infinite
suggestioni, il tono di un Giusso confidenziale e descrittivo vicino al lettore
non specialista ma disposto a calarsi nell’ambiente e nell’aria, nella luce
chiara e tersa di un respiro curioso sino al dettaglio minuto. Filosofia
ed imagine cosmica (1942)Filosofia ed immagine cosmica (1942) Pubblicati
recentemente i quaderni spagnoli dalla Università Benincasa, sono ancora inedite
le pagine tedesche e austriache, ma esistono anche reportage francesi, nei
quali uomini e cose sbalzano con la modestia e la versatilità del carattere e
la magnificenza della scrittura. La vita di ognuno non elide né la circostanza
né l’astrazione, Giusso è uno dei protagonisti del teatro del mondo che abbiamo
ignorato, noi italiani, lui, molto napoletano, ma già europeo, ben oltre
l’amatissima Spagna. Un europeo immerso nella musica delle lingue (francese,
spagnolo, tedesco…), in Vico e Spengler. Adriano Tilgher, Corrado Alvaro,
Giuseppe Toffanin, furono amici veri, fidati, ammirati di un uomo al quale era
sconosciuta l’invidia e al contrario era profferta a piene mani una generosa e
prodiga liberalità in nome di una poetica propensione al dialogo di un sapere
trasversale, comunicativo e incantato nella magia della parola libera,
circostanziata, esatta. Una studiosa di letteratura italiana ha affermato
che il più bel libro di Giusso è il quaderno spagnolo, ed ha pure aggiunto che
quaderno spagnolo e autoritratto spagnolo coincidono. Alberto Spaini, ma pure
Piero Buscaroli che con Maria Giulia Rispoli del Galdo Giusso sono stati tra i
conoscitori più profondi di Lorenzo Giusso, difficilmente concorderebbero. Le
pagine spagnole, tedesche, austriache servono a entrare nel mondo giussiano,
consentono di accedere a una dimensione della cultura che non conosce
omologazioni di sorta, schieramenti, posizionamenti di rendita. Permettono di
sorridere a fronte di un esteta armato solo di una generosità speciale: cogliendo
l’anima dell’umanità in una minuzia necessaria a ritrovare un sentiero
precario, attraverso il quale condurre a una visione più ampia, senza
dimenticare la poesia della vita. Gioberti come uomo del risorgimento – serie:
Uomini del risorgimento. “U=Il fascismo di Benedetto Croce” Gerarchia – “Croce
contro Croce” – da Critica fascista – “Gentile, mistico dell’azione, tratto da
“Il lavoro d’Italia” – “Gentile, “La Nazione” . GIUSSO, Lorenzo. -
Nacque a Napoli, il 25 giugno 1899, in una famiglia aristocratica, dal conte
Antonio e da Maria Imperiali d'Afflitto. La sua maturazione culturale avvenne
in un terreno fertile, costituito da un ambiente familiare che aveva contribuito
allo sviluppo non solo culturale della città (il nonno, Girolamo Giusso, ne era
stato sindaco). Tra il 1917 e il 1924 gli studi del G. presso
l'Università di Napoli (dove fu allievo, fra gli altri, di A. Aliotta),
coronati dalla laurea in lettere e filosofia, si svilupparono in molteplici
direzioni. Pur destinato a diventare prevalentemente filosofo e storico
della filosofia, i suoi non dilettanteschi interessi spaziarono dalla
letteratura alla musica, dalla pittura alla filosofia, secondo un percorso eclettico
ed estroso, fondato sull'istinto piuttosto che sul metodo, che lo portò a una
conoscenza approfondita ed estesissima nei settori più diversi. Tra le
due guerre, egli partecipò all'atmosfera culturale della Napoli segnata dal
cenacolo di B. Croce, da cui molto presto si distaccò (come A. Tilgher, che
egli mostrò di apprezzare) assumendo posizioni "eretiche" e
ispirandosi piuttosto a un ideale di vitalismo romantico che risulta evidente
dai numerosi autori e dalle molte opere cui dedicò la sua attenzione: in
particolare, in una fase iniziale, O. Spengler e F. Nietzsche.
Intelligenza precoce, prima di intraprendere l'insegnamento universitario, che
lo avrebbe allontanato da Napoli, il G. avviò una copiosa pubblicazione di
articoli, collaborando con numerosi quotidiani italiani come autore di
elzeviri, volti alla diffusione dei più diversi aspetti della cultura europea e
alla conoscenza dei suoi principali esponenti, soprattutto scrittori.
L'attività giornalistica si sviluppò particolarmente negli anni Venti, quando
il G., ancora molto giovane, iniziò a collaborare con L'Idea nazionale, Il
Popolo d'Italia e Il Secolo, quindi con Il Mattino, come critico letterario; fu
poi autore di articoli di viaggio, per il Corriere della sera, e tenne un
"Diario critico" per Il Resto del Carlino, pubblicando nel corso
degli anni sulla terza pagina di molti quotidiani italiani (Il Giornale, Il
Tempo, Il Messaggero, La Gazzetta di Sicilia, La Stampa e altri ancora), anche
se il lavoro propriamente giornalistico rallentò quando prevalse quello
universitario. Nel 1936 ottenne la libera docenza in filosofia teoretica
a Napoli, dove l'anno successivo insegnò filosofia morale; le principali tappe
del suo percorso universitario - molteplice anche per le numerose discipline di
cui si occupò - furono: Cagliari, dove dal 1938 al 1943 insegnò come professore
incaricato, ricoprendo, secondo un percorso abbastanza inconsueto e irregolare,
le cattedre di filosofia teoretica, letteratura italiana e francese, storia
delle religioni; quindi, Bologna, dove, sempre come incaricato, insegnò lingua
e letteratura spagnola, infine Pisa. La carriera universitaria del G. non si
limitò, comunque, all'Italia: insegnò letteratura italiana a Monaco, a Nizza, a
Breslavia, a Debreczen in Ungheria, a Madrid, dove fu "accademico
d'onore", e a Barcellona. Proprio al ritorno da un viaggio in terra
spagnola venne colpito dalla malattia che lo avrebbe condotto alla morte.
Il G. morì a Roma l'11 apr. 1957. Oltre all'attività come giornalista e
saggista, il G. aveva pubblicato anche alcune raccolte di poesie: Musica in
piazza (Napoli 1930) e Don Giovanni ammalato (ibid. 1932), una rifusione,
accresciuta, del primo volume; Cadenze di Sigismondo nella torre, Modena 1939;
e, infine, Elegie del torso della saggezza mutilata, Milano 1941: d'intonazione
prossima ai crepuscolari le prime, percorse dal senso di una discrepanza tra la
piattezza della vita quale ci è data e il desiderio di viverla in modo più
libero e pieno; maggiormente legate all'estetismo dannunziano, e insieme non
dimentiche del clima d'avanguardia in cui era avvenuta la prima formazione del
G., le ultime due. Saggista acuto, ottimo conversatore, spirito brillante
e fortemente antiaccademico, caratterizzato da un sapere enciclopedico, il G.
non si legò ad alcuna scelta politica, non appartenne a nessuna scuola di
pensiero e non ebbe maestri diretti né discepoli. Dal suo asistematico sforzo
di interpretazione della cultura moderna non si può trarre una dottrina
unitaria ma soltanto il profilo di un cammino variegato e intenso, che trae
origine dalla ricerca di una visione totale dell'esistenza nel fondamentale
intento di realizzare un ideale di vita, problema con cui il G. non smise mai
di misurarsi, secondo una prospettiva antirazionalista (e implicitamente
antidealista). Allontanatosi molto presto, come si è detto, dal
crocianesimo imperante nell'ambiente napoletano, il primo interesse del giovane
G. fu per i protagonisti dell'irrazionalismo e del vitalismo eroico, e per il
pessimismo cosmico di G. Leopardi (Il ritorno di Faust, Napoli 1929; Leopardi,
Stendhal, Nietzsche, ibid. 1933; Tre profili: Dostoevskij, Freud, Ortega y
Gasset, ibid. 1933; Leopardi e le sue due ideologie, Firenze 1935); in tempi
diversi riunì in raccolte i ritratti degli autori e dei personaggi che più lo
avevano interessato (Il viandante e le statue. Saggi sulla letteratura
contemporanea, s. 1, Milano 1929; s. 2, Roma 1942). Nell'ambito di una
ricerca più propriamente filosofica, i principali autori di riferimento del G.
- che costituirono anche l'oggetto dei suoi studi - furono W. Dilthey (Dilthey
e la filosofia come visione della vita, Napoli 1940; Dilthey, Simmel, Spengler,
Milano 1944); i già ricordati Nietzsche (Nietzsche, Napoli 1936), Spengler
(Spengler e la dottrina degli universali formali, Napoli 1935), e J. Ortega y
Gasset. Il rapporto tra razionalismo e irrazionalismo (e il superamento
della loro opposizione) e quello tra scienza e filosofia e vita sono il tema di
fondo di quella che probabilmente rimane una delle sue opere più significative,
Filosofia ed imagine cosmica (Roma 1940), in cui, in diretto riferimento a G.
Vico (si veda anche: G.B. Vico tra umanesimo e occasionalismo, Roma 1940; La
filosofia di G.B. Vico e l'età barocca, ibid. 1943), egli delinea una genealogia
della filosofia, e in generale dell'attività razionale, a partire dalle istanze
vitali e concrete dell'uomo. In Vico, secondo il G., non c'è una filosofia
intesa come ontologia e come organo di un conoscere razionale perché i sistemi
filosofici riflettono il tentativo di appropriazione verbale del mondo in
rapporto a un'originaria intuizione cosmica, così come le scienze e le tecniche
non procedono da una razionalità astratta ma dai bisogni dell'uomo sociale,
rimandando a un sentimento che è espressione del primitivo legame, non
specificamente conoscitivo, che unisce uomo e mondo. Nel dopoguerra,
approfondendo questa tematica e superati i miti dell'irrazionalismo e
dell'energia vitalistica, il G. si riavvicinò alla fede cristiana; era sua intenzione
realizzare una revisione della storia del pensiero italiano dal Rinascimento
all'età barocca, approfondendo in particolare lo studio e l'interpretazione
dell'umanesimo, inteso come vasto tentativo sincretistico volto a ravvicinare
il pensiero dell'antichità greco-romana e quello cristiano. In chiave
revisionista rispetto alla tradizione laica si era avvicinato anche alla figura
di G. Bruno (Scienza e filosofia in Giordano Bruno, Napoli-Roma 1955).
Tra le opere del G., oltre a quelle già citate, si ricordano: Le dittature
democratiche d'Italia, Milano 1927; Idealismo e prospettivismo, Napoli 1934; Lo
storicismo tedesco: l'anima e il cosmo, Roma 1947; Bergson, Milano 1948;
Vincenzo Gioberti, ibid. 1948; Spagna e antispagna: saggisti e moralisti
spagnoli, Mazara del Vallo 1952; La tradizione ermetica nella filosofia
italiana, Trapani 1955; Tafferugli a Montecavallo, Bologna, 1955; Origene e il
Rinascimento, Roma 1957; postumo: Autoritratto spagnolo, a cura di A. Spaini,
Torino 1959. Fonti e Bibl.: Necr. in Corriere della sera, 12 apr. 1957;
La Fiera letteraria, 21 apr. 1957; Giornale di metafisica, XI (1957), 5, p.
634; F. Bruno, L. G., in Italia che scrive, IV (1934); P. Filiasi Carcano, in
Logos, II (1940); E. Falqui, Di noi contemporanei, Firenze 1940, ad indicem; G.
Villaroel, Gente di ieri e di oggi, Bologna 1954, ad indicem; L. Fiumi, Giunta
a Parnaso, Bergamo 1954, ad indicem; G. Artieri, Romantico napoletano, in Il
Tempo, 11 maggio 1957; R. Maran, L. G. e la ricerca d'un sistema, in Sophia,
XXV (1958), 3-4, pp. 265-267; A. Spaini, Ricordo di L. G., in Il Messaggero, 1°
febbr. 1960; G. Toffanin, G. e Ortega, in Nuova Antologia, ottobre 1960, pp.
262 ss.; P. Boni Fellini, G. dieci anni dopo, in L'Osservatore politico
letterario, giugno 1967; Diz. della letteratura mondiale del '900, sub voce.
Panteismo tipo di teismo Lingua Segui Modifica Il panteismo (πάν (pán) =
tutto e θεός (theós) = Dio, vuol dire letteralmente "Dio è Tutto" e
"Tutto è Dio") è una visione del reale per cui ogni cosa è permeata
da un Dio immanente o per cui l'Universo o la natura sono equivalenti a Dio
(Deus sive Natura). Definizioni più dettagliate tendono ad enfatizzare
l'idea che la legge naturale, l'esistenza e l'universo (la somma di tutto ciò
che è e che sarà) siano rappresentati nel principio teologico di un 'dio'
astratto piuttosto che una o più divinità personificate di qualsiasi tipo.
Questa è la caratteristica chiave che distingue il panteismo dal panenteismo e
dal pandeismo. Ne deriva che molte religioni, pur reclamando elementi
panteistici, sono in realtà per natura più panenteiste e pandeiste.
Michael Levine, nel suo libro Panteismo, lo definisce «una concezione
non-teistica della divinità».[1] In senso lato, con "panteismo" si
intende ogni dottrina filosofica che identifichi Dio con il mondo o con il
principio che lo regge. Per l'esattezza, il concetto di Dio-Uno-Tutto si
presenta in due versioni: quella "cosmistica", la quale afferma
"Dio è nel Tutto", e quella "acosmistica" (il termine è di
Hegel), la quale afferma "Il Tutto è in Dio". Nel primo caso, come
nello stoicismo, Dio impregna e pervade l'universo in ogni sua parte; nel
secondo caso, come nello spinozismo, l'universo in ogni sua parte rifluisce e
si scioglie in Dio, quale Uno-Tutto. Storia del panteismoModifica Il
termine "panteista" (dal quale la parola "panteismo" è
derivata) fu usato propriamente per la prima volta dal filosofo irlandese John
Toland nella sua opera Socinianism Truly Stated, by a pantheist, del 1705.
Comunque, il concetto era stato discusso già al tempo dei filosofi della Grecia
antica, da Talete, Parmenide ed Eraclito. I presupposti ebraici del panteismo
possono essere ricercati nella Torah stessa, nel racconto della Genesi e nei
suoi primi materiali profetici, nei quali chiaramente gli "atti di
natura" (come inondazioni, tempeste, vulcani, etc.) sono tutti
identificati come "la mano di Dio" attraverso idiomi di
personificazione, così spiegando gli aperti riferimenti al concetto, sia nel
Nuovo Testamento, che nella letteratura cabalistica. Nel 1785 sorse una
consistente controversia tra Friedrich Heinrich Jacobi e Moses Mendelssohn, che
infine coinvolse molte importanti persone del tempo. Jacobi affermava che il
panteismo di Lessing era materialistico, per il fatto che considerava tutta la
natura e Dio come una sola sostanza estesa. Per Jacobi, esso non era altro che
il risultato della devozione alla ragione, tipicamente illuminista, che avrebbe
condotto all'ateismo. Mendelssohn espresse il suo disaccordo, asserendo che il
panteismo era teistico. Il Panteismo di EraclitoModifica Magnifying glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Eraclito. Il panteismo è un
componente della dottrina del filosofo greco Eraclito, secondo cui il divino è
in tutte le cose ed è identico al mondo nella sua interezza. Questa concezione
porta a identificare il divino con l'Universo, facendolo divenire quindi
l'Unità di tutti i contrari, il Fuoco generatore. Il Dio-tutto di
Eraclito ha in sé tutte le cose ed è una realtà eterna. Eraclito sembra rifarsi
alla teoria della cosmologia ciclica, poiché la sua concezione della realtà è
simile a un insieme di fasi alterne: un ciclo distruttivo-produttivo, che verrà
sviluppato in seguito dagli Stoici. Il Panteismo degli StoiciModifica
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Stoicismo. Il panteismo stoico è una delle più
compiute espressioni di esso, dove Dio è la ragione e l'intelligenza che lo
determina e lo permea. Il Dio stoico, quindi, non si identifica con l'universo,
ma lo permea come suo fondamento e ragion d'essere. Il Panteismo di
PlotinoModifica Si è parlato spesso impropriamente di panteismo in Plotino. In
realtà, secondo Plotino, Dio non è solo immanente, ma anche trascendente. Come
ha evidenziato anche Giovanni Reale, l'Uno, il Dio plotiniano, pur permeando di
sé ogni realtà, ne è superiore. Plotino dice infatti chiaramente che l'Uno, «in
quanto principio di tutto, non è il tutto». Con questa affermazione egli sembra
prendere in contropiede, quasi le prevedesse, le interpretazioni immanentistiche
e panteiste del suo pensiero. Il Panteismo di BrunoModifica Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Giordano Bruno. La visione
di Bruno può essere considerata un panteismo del Dio-Infinità ed ha alcuni
caratteri del panpsichismo. Nella filosofia di Giordano Bruno, i cinque
dialoghi del De la causa, principio et uno intendono stabilire i princìpi della
realtà naturale. Forma universale del mondo è l'anima del mondo, la cui
prima e principale facoltà è l'intelletto universale, il quale «empie il tutto,
illumina l'universo e indirizza la natura a produrre le sue specie». La
materia è il secondo principio della natura, dalla quale ogni cosa è formata:
«come nell'arte, variandosi in infinito le forme, è sempre una materia medesima
che persevera sotto quella, come la forma dell'albore è una forma di tronco,
poi di trave, poi di tavolo, poi di sgabello, e così via discorrendo,
tuttavolta l'esser legno sempre persevera; non altrimenti nella natura,
variandosi in infinito e succedendo l'una all'altra le forme, è sempre una
medesma la materia». Discende da questa considerazione l'elemento
fondamentale della filosofia bruniana: tutta la vita è materia, materia
infinita. Nella sua concezione, anche la Terra è dotata di anima. Egli in
De l'infinito, universo e mondi scrive: «Io dico Dio tutto
infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo attributo è uno ed
infinito; e dico Dio totalmente infinito, perché tutto lui è in tutto il mondo,
ed in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente: al contrario dell'infinità
dell'universo, la quale è totalmente in tutto, e non in queste parti (se pur,
referendosi all'infinito, possono esser chiamate parti) che noi possiamo
comprendere in quello.» (G. Bruno, Dialoghi metafisici, Firenze, Sansoni
1985, p. 382) Il Panteismo di SpinozaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Baruch Spinozae Monismo panteistico. La tesi
centrale del pensiero di Baruch Spinoza è l'identificazione panteistica o,
meglio, immanentistica di Dio con la Natura (Deus sive Natura) ed in essa
convergono i temi ed i motivi appartenenti alle tradizioni culturali più
disparate, la teologia giudaica, la filosofia ellenistica, la filosofia
neoplatonica-naturalistica del Rinascimento, il razionalismocartesiano ed il
pensiero arabo, ed infine le sfumature di Thomas Hobbes. Spinoza
concepisce un Dio coniugato con l'unità e la necessità e perciò:
«Dio, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei
quali esprime un'essenza eterna ed infinita, esiste necessariamente. Se lo
neghi, concepisci, se è possibile, che Dio non esista. Dunque (per l'As.7) la
sua essenza non implica l'esistenza. Ma questo (per la Prop.7) è assurdo:
dunque Dio esiste necessariamente.» (B. Spinoza, Etica, Roma, Editori
Riuniti 2004, p.94) Ne consegue la dimostrazione di ciò che Dio è:
«Tutto ciò che è, è in Dio: Dio però non si può dire cosa contingente.
Infatti esiste necessariamente, e non in modo contingente. Inoltre, i modi
della divina natura sono seguiti da essa anche necessariamente e non in modo
contingente e ciò o in quanto si considera la divina natura assolutamente
oppure in quanto la si considera determinata ad agire in un certo modo.
Inoltre, di questi modi Dio è causa non soltanto perché semplicemente esistono
in quanto li si considera determinati a fare qualcosa. Poiché se non sono
determinati da Dio, è impossibile e non contingente che determinino se stessi;
e al contrario se sono determinati da Dio, è impossibile, e non contingente, che
rendano se stessi indeterminati. Per cui tutte le cose sono determinate dalla
necessità della divina natura non soltanto ad esistere, ma anche ad esistere e
agire in un certo modo, e non si dà nulla di contingente.» (B. Spinoza,
Etica, cit., p. 110) Questa concezione fa sì che il Dio di Spinoza (ma non meno
quello degli Stoici), per qualche filosofo contemporaneo, risulti
essenzialmente un impersonale Dio-Necessità, contrapponibile al Dio-Volontà
come persona divina tipica dei monoteismi. DescrizioneModifica Tipi di
panteismoModifica Si possono distinguere tre gruppi di panteisti:
panteismo classico, che si esprime attraverso l'immanente Dio del Giudaismo,
Induismo, Monismo, neopaganesimo e delle dottrine New Age, generalmente
considerando Dio come personificazione o manifestazione cosmica; panteismo
biblico, che è espresso negli scritti della Bibbia; panteismo naturalistico,
basato sulle, relativamente recenti, visioni di Baruch Spinoza (che potrebbe
essere stato influenzato dal panteismo biblico) e John Toland (che coniò il
termine "panteismo"), così come sulle influenze contemporanee. La
maggioranza delle persone che possono identificarsi come "panteiste"
appartengono al tipo classico (come gli Indù, i Sufi, gli Unitaristi, i neopagani,
i seguaci della New Age, etc), mentre molte persone che identificano se stesse
come panteiste (non essendo membri di un'altra religione) appartengono al tipo
naturalista. La divisione tra le tre branche del panteismo non sono
completamente chiare in tutte le situazioni, rimanendo dei punti di
controversia nei circoli panteisti. I panteisti classici generalmente accettano
la dottrina religiosa secondo cui ci sarebbe una base spirituale per tutta la
realtà; mentre i panteisti naturalisti generalmente non concordano, piuttosto
intendendo il mondo in termini più naturalistici. La confusione tra i concetti
di panteismo e ateismo è un problema antico in linguistica. Gli antichi romani
si riferivano ai primi cristiani come atei e le spiegazioni di questo fenomeno
semantico possono variare. Metodi di spiegazioneModifica Una
caratteristica spesso citata del panteismo è che ogni essere umano, essendo
parte dell'universo o della natura, è parte di Dio. Uno dei problemi discussi
dai panteisti è come possa esistere il libero arbitrio in un contesto simile.
In risposta, qualche volta è data la seguente analogia (particolarmente dai
panteisti classici): "stai a Dio come una tua singola cellula sta a
te". L'analogia sostiene anche che, sebbene una cellula possa essere
cosciente del suo ambiente e abbia persino qualche scelta (libero arbitrio) tra
giusto e sbagliato (uccidere un batterio, divenire cancerogena o non fare
semplicemente niente), ha presumibilmente una comprensione limitata dell'essere
più grande, di cui fa parte. Un altro modo di comprendere questo tipo di
relazione è tramite la frase indù tat tvam asi - "quello che sei", in
cui l'anima/essenza umana o Ātmanè intesa medesima di Dio o Brahman. Nel
contesto indù, si crede che il singolo debba essere liberato attraverso l'illuminazione
(moksha), in modo da sperimentare e capire pienamente questa relazione: la
parte diventa non dissimile dal tutto. Non tutti i panteisti accettano
l'idea del libero arbitrio, dato che il determinismo è largamente diffuso,
particolarmente presso i panteisti naturalistici. Sebbene le interpretazioni
individuali del panteismo possano suggerire certe implicazioni per la natura e
l'esistenza del libero arbitrio e/o determinismo, il panteismo non implica il
requisito di credere in entrambi. Comunque, il problema è largamente discusso
ed è presente in molte altre religioni e filosofie. DibattitoModifica
Alcuni sostengono che il panteismo è poco più che una ridefinizione della
parola "Dio" per definire "esistenza", "vita" o "realtà".
Molti panteisti direbbero che, se fosse così, un tale cambiamento nel modo in
cui pensiamo a queste idee servirebbe a creare una nuova e potenzialmente più
perspicace concezione sia dell'esistenza, che di Dio. Forse il più
significativo dibattito all'interno della comunità panteistica è quello
riguardante la natura di Dio. Il panteismo classico crede in un Dio personale,
cosciente e onnisciente e vede questo Dio come unificante di tutte le vere
religioni. Il panteismo naturalistico crede invece in un Universo non cosciente
e non senziente che, sebbene sacro e meraviglioso, è visto come un Dio in senso
non tradizionale e non personale. I punti di vista compresi all'interno
della comunità panteista sono necessariamente diversi, ma l'idea centrale, che
vede l'Universo come un'unità onnicomprensiva e la sacralità sia della natura
che delle sue leggi, è comune. Alcuni panteisti sostengono, inoltre, un fine
comune di natura e uomo, sebbene altri rifiutino l'idea di un fine e vedano
l'esistenza come esistente di per sé. Concetti panteistici nella
religioneModifica InduismoModifica È generalmente riconosciuto che i testi
religiosi indù sono i più antichi conosciuti in letteratura contenenti idee
panteistiche.[2] Nella teologia indù, Brahman è la realtà infinita, immutabile,
immanente e trascendente che è il Divino Terreno di tutte le cose nell'Universo
e che è anche la somma totale di tutte le cose che sono, sono state e saranno.
Questa idea di panteismo è rintracciabile in alcuni testi più antichi come i
Veda e gli Upanishad e nella più tarda filosofia Advaita. Tutti i Mahāvākya
degli Upanishad, in un modo o nell'altro, sembrano indicare l'unità del modo
con Brahman. Chāndogya Upanishad dice "Tutto in questo Universo in
realtà è Brahman; da lui esso procede; all'interno di lui è dissolto; in lui
respira, così lasciate che ognuno lo adori tranquillamente". Inoltre dice:
"Tutto l'Universo è Brahman, da Brahman a una zolla di terra. Brahman è la
causa efficiente e materiale del mondo. Egli è il vasaio da cui si forma il
vaso; egli è la creta con il quale è fabbricato. Tutto proviene da Lui, senza
perdita o diminuzione della fonte, come la luce irradiata dal sole. Ogni cosa è
unita entro Lui ancora, come le bolle che esplodono si uniscono all'aria, come
i fiumi sfociano negli oceani. Tutto proviene e ritorna a Lui, come la tela di
un ragno è fabbricata e ritratta dal ragno stesso."[3] Negli inni del Rig
Veda, una traccia di pensiero panteista può essere riconosciuta nel libro
decimo (10-121). Questa concezione di Dio lo vede come l'unità, con gli dei
personali e individuali aspetto dell'Unico, sebbene differenti divinità siano
viste da diversi fedeli come particolarmente adatte alle loro preghiere. Come
il sole emana raggi di luce che provengono dalla stessa fonte, lo stesso
avviene dagli sfaccettati aspetti di Dio emanati da Brahman, come più colori
dallo stesso prisma. Il Vedānta, specificatamente l'Advaita, è una branca della
filosofia indù che pone grande accento su questa materia. Molti aderente
vedantici sono monistio "non-dualisti, vedendo le molteplici
manifestazioni di un solo Dio o della fonte dell'essere, una visione che è
spesso considerata dai non induisti come politeista. Il panteismo è la
componente chiave della filosofia Advaita. Altre suddivisione dei Vedanta non
sostengono in maniera peculiare le stesse istanze. Per esempio, la scuola
Dvaita di Madhvacharya ritiene che Brahman sia il Dio esterno personale Vishnu,
laddove invece le scuole Rāmānuja sposano il Panenteismo.
EbraismoModifica Il senso radicalmente immanente del divino nella mistica
ebraica (Kabbalah) si ritiene abbia ispirato la formulazione del panteismo da
parte di Spinoza. Nonostante ciò, la teoria di Spinoza non è stata recepita
dall'Ebraismo ortodosso. D'altro canto, Schopenhauer sosteneva che il panteismo
spinoziano fosse una conseguenza della lettura di Nicolas Malebranche da parte
del filosofo olandese: Malebranche insegna che tutto ciò che osserviamo è in
Dio stesso. Ciò equivale a voler spiegare qualcosa di ignoto mediante qualcosa
di ancor più oscuro. Inoltre, secondo Malebranche noi non solo vediamo tutto in
Dio, ma Dio è anche l'unica attività, sicché le cause fisiche sono mere
occasionalità (Ricerca della verità, Libro VI, seconda parte, cap. 3.). E così
qui rinveniamo essenzialmente il panteismo di Spinoza che pare abbia appreso
più da Malebranche che da Descartes. (Schopenhauer, Parerga e paralipomena,
Vol. I, "Schizzo di una storia della teoria dell'ideale e del
reale"). Inoltre, Israel ben Eliezer, fondatore dello Chassidismo, aveva
un senso mistico del divino che può essere definito come Panenteismo.
Secondo l'ebraismo biblico l'origine dell'Universo si è basata sulla Torah
(legge) della natura. Pertanto la Torah originale non è rinvenibile negli
scritti di Mosè, bensì nella natura stessa. "Interpretare" la Torah
della natura equivale ad "interpretare" la Torah della rivelazione e
teoricamente alla fin fine coincideranno l'una con l'altra [come si dimostra ad
esempio con la scoperta del Big Bang nel 1965]. L'ortodossia rabbinica
considerando questa posizione come una discrepanza, allo scopo di porre la
Torah scritta al di sopra di quella data per prima in natura, ha sostenuto che
la Torah scritta precedette la creazione, infatti a partire dalla Torah scritta
che Dio "ha parlato" nella creazione. Questa posizione non è accolta
dai panteisti biblici. Maimonide, benché Ortodosso, nei suoi scritti
sulla riconciliazione fra le sacre scritture e la scienza, accolse l'opinione
dell'equivalenza fra la Torah della natura e la Torah delle scritture e trovò
la sua logica come inevitabile. Queste tesi, senza dubbio, servirono da sfondo
per lo sviluppo delle teorie di Baruch Spinoza. CristianesimoModifica Vi
è un certo numero di tradizioni minori nell'ambito della storia del
Cristianesimo secondo le quali le origini del loro credo panteistico sono da
rintracciare nel Nuovo Testamento ed in altre correlate tradizioni
ecclesiastiche. La diversità di questo punto di vista è rintracciabile a
partire dai primi Quaccheri sino ai successivi Unitaristi e fino ad arrivare
alle stesse principali denominazioni del cattolicesimo tradizionale e del
protestantesimo liberale. Altre fonti includono la Teologia del
processo, la Spiritualità della Creazione, i Fratelli del libero spirito, altri
ancora ne sostengono la presenza fra gli Gnostici. Tale idea ha avuto, per
qualche tempo, aderenti in vari segmenti del Cristianesimo. Alcuni
Cristiani considerano la Trinità in questo significato: lo Spirito Santo tiene
insieme l'Universo e personifica se stesso come il Padre, che a sua volta personifica
se stesso come il Figlio dentro questo Universo (ciò significa che il Padre è
al di fuori dell'Universo, del Tempo e dello Spazio). Secondo altri, lo Spirito
Santo è consapevole e utilizzabile e per questo è usato da Dio per benedire la
gente con i Doni dello Spirito Santo. Tutti i poteri sovrannaturali si ritiene
che siano possibili anche dal binomio Universo/Spirito Santo. I panteisti
di religione cristiana asseriscono che l'origine del loro credo è
rintracciabile nelle Sacre Scritture, nel Vecchio Testamento come nel Nuovo ed
attenuano le difficoltà che i teologi della Chiesa Apostolica Romana hanno
sempre cercato di "risolvere" nei concili sul tema della Trinità e
della Natura di Cristo come il Verbo (solo il panteismo fornisce una formulazione
per il Cristo come "Verbo" di Dio e per l'unità del
Monoteismo). Il parificare nella Bibbia Dio agli atti della natura e la
definizione di Dio data nello stesso Nuovo Testamento forniscono un persuasivo
richiamo verso questo sistema di credenze. I panteisti cristiani
sostengono che la definizione cattolica di Dio fu pesantemente influenzata da
fonti non bibliche, tra queste in particolar modo il Neo-Platonismo, che
consideravano Dio come qualcosa che "esiste" fuori dalla
"esistenza", pertanto la definizione di "Dio" si riferiva
ad un qualcosa "che non esiste", cioè, ad un Dio non-esistente. È
proprio questa basilare definizione neo-platonica di non-esistenza che i
panteisti cristiani ritengono biasimevole e contraria alle scritture.
Agostino rigettò il panteismo per i seguenti motivi: Ma c'è un motivo
che, al di là di ogni passione polemica, deve indurre uomini intelligenti o
comunque siano, perché all'occorrenza non si richiede un'alta intelligenza, a
fare una riflessione. Se Dio è la mente del mondo e se il mondo è come un corpo
a questa mente, sicché è un solo vivente composto di mente e di corpo ed esso è
Dio che contiene in se stesso tutte le cose come in un grembo della natura; se
inoltre dalla sua anima, da cui ha vita tutto l'universo sensibile, vengono
derivate la vita e l'anima di tutti i viventi secondo le varie specie, non
rimane nulla che non sia parte di Dio. Ma se questa è la loro tesi, tutti
possono capire l'empietà e la irreligiosità che ne conseguono. Qualsiasi cosa
si pesti, si pesterebbe una parte di Dio; nell'uccidere qualsiasi animale, si
ucciderebbe una parte di Dio. Non voglio dir tutte le cose che possono balzare
al pensiero. Non è possibile dirle senza vergogna.[4] come pure: Riguardo
allo stesso animale ragionevole, cioè l'uomo, la cosa più banale è ritenere che
una parte divina prende le botte quando le prende un fanciullo. E soltanto un
pazzo può sopportare che le parti divine divengano dissolute, ingiuste, empie e
in definitiva degne di condanna. Infine perché il dio si arrabbierebbe con
coloro che non lo onorano se sono le sue parti a non onorarlo?[5] Nel Vangelo
secondo Tommaso (considerato apocrifodai Cristiani), Gesù disse: Io sono
la Luce: quella che sta sopra ogni cosa; io sono il Tutto: il Tutto è uscito da
me e il Tutto è ritornato in me. Fendi il legno, e io sono là; solleva la
pietra e là mi troverai.[6] Tuttavia questa è un'affermazione dell'onnipresenza
di Dio, non in senso panteistico, ma in armonia con l'insegnamento che ogni
apparenza fenomenica è riflesso della luce divina. Islam Modifica
Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento religione non cita
le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. La maggioranza dei
Musulmani condanna il concetto di panteismo e lo considera come un insegnamento
non-Islamico. Tuttavia, il Sufismo è ritenuto dai musulmani contenere
insegnamenti panteistici. Il Sufismo può essere suddiviso nelle seguenti
categorie: Sufismo originario - Sincretico: Mescola insieme dottrine e
concetti dell'Islam con credenze e pratiche religiose locali dei paesi
Orientali e Occidentali. Lo si pratica in paesi non-Islamici. Sufismo ḥadīth -
Tradizionale: è l'Islam con un'enfasi sulle forme ortodosse della spiritualità
e del misticismo Islamico. Essenzialmente ortodosso e considerato
prevalentemente come una subcultura nei paesi Islamici. Sunniti o Sciiti.
Sufismo Coranico - Coranico: Si attiene strettamente a quanto scritto nel
Corano compreso il profetismo e non accetta i più recenti ḥadīth come
altrettanto ispirati dalla tradizione. È considerato non-ortodosso o come una
forma di neo-ortodossia ed è praticato soprattutto nell'occidente islamico. Ha
subito influenze dal concetto di riforma e restaurazione del Protestantesimo.
Né il Sunnismoné il Sciismo sono da considerare come forme di ḥadīth. Il
concetto di Panteismo si può rinvenire in ciascuno dei suddetti tipi di
Sufismo, a differenza della maggioranza ortodossa dell'Islam, esso è molto
diverso ed accentua l'esperienza e la conoscenza spirituale personale ed
individuale. Le fonti dell'interpretazione panteistica differirebbero a seconda
della tradizione cui fanno capo. Il Sufismo originario risentirebbe ovviamente
dei testi orientali, il Sufismo ḥadīth sarebbe influenzato dagli studiosi
Islamici del regno del Solimano, il Sufismo Coranico vedrebbe lo stesso Corano
come la continua rivelazione e la personificazione linguistica è interpretata
in modo coerente con i profeti biblici. La maggioranza dei Musulmani Ismailiti
è panteista, o per essere più precisi, Panenteista. Gli scritti di Seth e
il PanteismoModifica Il concetto di Panteismo è parte integrante di molte delle
credenze religiose e delle filosofie della New Age; la sua differenza rispetto
al panenteismo è sostenuta in modo specifico negli scritti di Seth come presentati
dalla medium Jane Roberts (1929-1984). Seth, l'"entità" cui da voce
la Roberts, diceva che Dio è formato di energia mentale, e questa energia
mentale è la sostanza che dà vita a tutti gli esseri e a tutte le cose; la
coscienza di Dio è veicolata da questa energia, per cui la coscienza di Dio è
onnipresente. Seth spesso si riferiva a Dio come a "Tutto ciò che è"
e diceva che "Tutte le facce appartengono a Dio". Seth descriveva Dio
come una forma contenente tutti gli individui al suo interno; inoltre aggiungeva
che Dio si conosce come è, ma anche si conosce come ciascun individuo.
Tuttavia, questo insegnamento ha molto in comune con il correlato concetto di
panenteismo, dato che pone in risalto la personificazione di Dio e quindi si
trasforma in un teismo. Altre religioniModifica Molti elementi
panteistici sono presenti in alcune forme di Buddismo, Neopaganesimo, e
Teosofiainsieme a molte variabili denominazioni. Si veda anche la Neopagana
Gaia e la Church of All Worlds. Molti Universalisti si considerano panteisti.
Il filosofo Paul Carus si definiva "un ateista che ama Dio". Egli
criticò ogni forma di monismo che cercava l'unità del mondo non nell'unità
della verità bensì nella unicità di una logica supposizione di idee. Carus
definiva tali concetti come "henismo". Il Taoismo propugna una
visione panteistica. Il "Tao" potrebbe essere paragonato al
"Deus-sive-Natura" di Spinoza. Concetti connessiModifica
PanenteismoModifica Il Panteismo e il panenteismo presentano aspetti comuni ma
non coincidono: il primo vede l'universo pieno di Dio il secondo lo vede come
parte di Dio. Filosoficamente, però, i due concetti sono ben distinti. Mentre
per il panteismo Dio è sinonimo della natura, per il panenteismo, invece, Dio è
superiore alla natura e la include. È la ragione per cui Hegel definiva quello
spinoziano un panteismo acosmistico (senza mondo). Per alcuni tale
distinzione è inutile, mentre altri la considerano un significativo punto di
divisione. Molte delle maggiori fedi descritte come panteistiche potrebbero essere
descritte anche come panenteistiche, al contrario ciò non è possibile per il
panteismo naturalistico (perché non considera Dio come superiore alla sola
natura). Per esempio, elementi appartenenti al panenteismo ed al panteismo si
rinvengono nell'Induismo. Certe interpretazioni dei testi Bhagavad Gita e Shri
Rudram Chamakam sostengono questo punto di vista. Cosmismo Modifica Magnifying glass icon
mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Cosmismo e World Brain. Ulteriori informazioni
Questa voce o sezione sull'argomento filosofia è priva o carente di note e
riferimenti bibliografici puntuali. Mentre questo termine è raramente usato, e
molto spesso è solo un sinonimo di Panteismo, l'insolita filosofia da esso
indicata è stata utilizzata in modo piuttosto differente, ma in ogni caso con
essa si vuole esprimere il concetto che Dio è un qualcosa creato dalla mente
umana, forse rappresenta uno stadio finale della evoluzione dell'uomo,
raggiunto attraverso la pianificazione sociale, l'eugenetica e altre forme di
ingegneria genetica. H. G. Wells diede vita a una forma di cosmismo, che
denominò World Brain ("Cervello mondiale"), rifacendosi a un saggio
da lui pubblicato nel 1937, in cui viene tra l'altro descritta la creazione di
una biblioteca-enciclopedia. Tale idea venne ripresa nel libro God the
Invisible King,[7] in cui l'autore consiglia all'umanità di istituire un
sistema socialista, strutturandolo sui dati statistici sociali ed eugenetici,
sull'istruzione e l'eugenetica, in modo che un giorno idealmente possa essere
alla pari e possibilmente anche fondersi con la stessa divinità panteista, e
anche in alcuni paragrafi di Outline of History, che richiamavano tali credenze
dell'autore e le sue ricerche sull'insegnamento di Gesù e di Buddha. Queste
idee vengono riprese nel suo libro Shape of Things to Come e nel film da esso
tratto nel 1936 Things to Come; in essi viene descritta l'umanità che,
sopravvivendo ad una guerra apocalittica e a un prolungato periodo Feudale, si
unisce per dar vita ad una utopia collettivista. In Israele, il Cosmismo
è stato oggetto di studio da parte di Mordekhay Nesiyahu, uno dei primi
ideologi del Movimento Laburista Israeliano e docente presso l'Università di
Beit Berl. Secondo questo autore Dio è qualcosa che non esisteva prima
dell'uomo, ma era una entità secolare. Infatti fu la ricostruzione del Tempio
di Gerusalemme ad avere un ruolo nell'"invenzione" di questa
entità. Nel XX secolo, lo statunitense William Luther Pierce, un
nazionalista bianco iscritto nel Partito Nazista Americano e, a sua volta,
fondatore del movimento Alleanza Nazionale, utilizzò il termine
"Cosmismo". Per Pierce (così come per Wells), Dio sarebbe il
risultato finale dell'eugenetica e dell'igiene razziale (Si veda: Nazismo,
Francis Galton e Teosofia). La "Noosfera" descritta da Vladimir
Vernadsky e da Pierre Teilhard de Chardin potrebbe essere considerata come la
descrizione di una divinità Cosmistica, come anche la coscienza collettiva di
Émile Durkheim e l'inconscio collettivo di Carl Gustav Jung. Arthur C.
Clarke fa un possibile riferimento alla Noosfera Cosmista nel suo libro del
1953 Childhood's End (tradotto in italiano con il titolo Le guide del
tramonto), riferendosi ad essa come la "Overmind", una mente alveare
interstellare. PandeismoModifica Il Pandeismo è una specie di
Panteismo che include una forma di Deismo, sostenendo che l'Universo è identico
a Dio, ma anche che Dio precedentemente fu una forza cosciente e senziente
ovvero una entità che progettò e creò l'Universo. Diventando l'Universo, Dio
divenne inconscio e non senziente. A parte questa distinzione (e la possibilità
che l'Universo un giorno ritornerà ad essere Dio), le credenze Pandeistiche
sono identiche a quelle del Panteismo. EticaModifica Secondo
Schopenhauer, nel panteismo non vi è etica. Il panteismo, nel suo complesso,
naufragherebbe a fronte delle inevitabili esigenze etiche e quindi non avrebbe
risposte sul male e sulle sofferenze del mondo. Se il mondo è una teofania,
allora ogni cosa fatta dagli uomini, ed anche dagli animali, è da considerarsi
parimenti divina ed eccellente; niente può essere giudicato più censurabile e
più meritevole rispetto ad ogni altra cosa; quindi non vi è etica. (Il mondo
come volontà e rappresentazione, Vol. II, Cap. XLVII) Tuttavia, alcuni
panteisti sostengono che il punto di vista panteista è molto più etico,
evidenziando che ogni danno arrecato all'altro è come fare male a se stessi,
perché arrecare danno ad uno è come arrecare danno a tutti. Ciò che è bene e
ciò che è male non dipende da qualcosa al di fuori di noi, ma è il risultato di
come ci rapportiamo gli uni con gli altri. Il fare bene non si deve basare
sulla paura di una punizione da parte di Dio, bensì deve scaturire da un
reciproco di tutti verso tutto. Le forme tradizionali e le varie
definizioni di panteismo, comunque, rinviano ai loro testi sacri e ai loro
maestri per le definizioni di ordine etico. NoteModifica ^ ( EN ) Michael
P. Levine, Pantheism: A Non-Theistic Concept of Deity, Londra e New York,
Routledge, 1994. Trad. italiana Il Panteismo. Una concezione non-teistica della
divinità, Genova, ECIG, 1995, ISBN 88-7545-671-2. ^ Constance E. Plumptre,
General Sketch of the History of Pantheism, Londra, W. W. Gibbings, 1878, vol.
1, p. 29. ^ Chandogya Upanishad 3-14 traduzione di Monier-Williams ^ La Città
di Dio, Libro 4, Cap. 12. ^ La Città di Dio, Libro 4, Cap. 13. ^ Testo del
Vangelo secondo Tommaso ^ God the Invisible King Voci correlateModifica Dio
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Collegamenti esterniModifica panteismo, in Dizionario di filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Panteismo, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata (
EN ) Panteismo, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su
Wikidata ( EN ) William Mander, Pantheism, in Edward N. Zalta (a cura di),
Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and
Information (CSLI), Università di Stanford. Giuseppe Tanzella-Nitti, Panteismo
del Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, su disf.org. Controllo di
autoritàThesaurus BNCF 29848 · LCCN( EN ) sh85097492 · GND ( DE ) 4173188-8
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Wikipedia Lorenzo Giusso. Giusso. Keywords: gl’eroi, il vico di giusso, la
tradizione ermetica nella filosofia italiana, nazionalsocialismo, bruno,
panteismo, leopardi, occasionalismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giusso” –
The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756533855/in/dateposted-public/
Grice e
Givone – fanes – filosofia italiana – Luigi Speranza -- Givone
(Buronzo). Filosofo. Grice: “I like
Givone, especially his two essays on ‘eros’: ‘eros and ethos’ and the more
controversial, ‘eros and knowledge.’ Si laurea Torino sotto Pareyson. Insegnato
a Perugia, Torino e Firenze. Alcuni suoi lavori riguardano la poetica e
l’estetica all’ombra del nichilismo. Da questa riflessione nasce anche la sua
ricerca sulla “Storia naturale del nulla” -- e sulle implicazioni sullo tragico. In sua
estetica e forte è ancora il richiamo filosofico. Il malinconico, ‘l’ibrido – Saggi:
“La storia della filosofia secondo Kant” (Milano, Mursia); “Hybris e malinconia:
Studi sulle poetiche del Novecento” (Milano, Mursia); “William Blake. Arte e religione,
Milano, Mursia, “Ermeneutica e romanticismo, Milano, Mursia, Dostoevskij e la
filosofia, Roma, Laterza, Storia dell'estetica, Roma, Laterza, Disincanto del
mondo e il tragico, Milano, Il Saggiatore, La questione romantica, Roma, Laterza, Storia del
nulla, Roma, Laterza, Favola delle cose ultime, Torino, Einaudi, Eros/ethos,
Torino, Einaudi, Nel nome di un dio barbaro, Torino, Einaudi, Prima lezione di estetica, Roma, Laterza, Il
bibliotecario di Leibniz. Torino, Einaudi, Non c'è più tempo, Torino, Einaudi, Metafisica
della peste. Colpa e destino, Torino, Einaudi, Luce d'addio. Dialoghi
dell'amore ferito, Firenze, Olschki, Sull'infinito,
il Mulino, Pantragismo. Treccani. Grice: “I like Givone; he philosophises on
‘eros,’ but fails to notice that for Butler there’s self-love and other love;
instead, Givone prefers to contrast ‘eros’ with ‘ethos’!” “His ramblings on
Phanes are fun, though!” – Grice: “Not satisfied with metaphysics, Givone goes
to criticize Marinetti’s hybris, or superbia, i. e. lack of moderation. His
ottimismo notably contrasts with the decadentismo of the croposcolaristi. Futurismo
movimento artistico, culturale, musicale e letterario italiano Lingua Segui
Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri
significati, vedi Futurismo (disambigua). Ulteriori informazioni Questa voce o
sezione sull'argomento arte è priva o carente di note e riferimenti bibliografici
puntuali. Il Futurismo è stato un movimento letterario, culturale, artistico e
musicale italiano dell'inizio del XX secolo[1], nonché una delle prime
avanguardieeuropee. Ebbe influenza su movimenti affini che si svilupparono in
altri paesi d'Europa, in Russia, Francia, negli Stati Uniti d'America e in
Asia. I futuristi esplorarono ogni forma di espressione: la pittura, la
scultura, la letteratura (poesia) al teatro, la musica, l'architettura, la
danza, la fotografia, il cinema e persino la gastronomia. La denominazione del
movimento si deve al poeta italiano Filippo Tommaso Marinetti[1].
Umberto Boccioni La città che sale, bozzetto, 1910 Museum of Modern Art,
New York OriginiIl manifesto del Futurismo pubblicato su Le Figaro del 20 febbraio
1909 (qui evidenziato in giallo) Il Futurismo nasce in Italia, in un periodo di
notevole fase evolutiva dove tutto il mondo dell'arte e della cultura era
stimolato da numerosi fattori determinanti: le guerre, la trasformazione
sociale dei popoli, i grandi cambiamenti politici e le nuove scoperte
tecnologichee di comunicazione, come il telegrafo senza fili, la radio, gli
aeroplani e le prime cineprese; tutti fattori che arrivarono a cambiare
completamente la percezione delle distanze e del tempo, "avvicinando"
fra loro i continenti, creando nuove connessioni. Il XX secolo era quindi
invaso da un nuovo vento, che portava una nuova realtà: la velocità. I
futuristi intendevano idealmente "bruciare i musei e le biblioteche"
in modo da non avere più rapporti con il passato per concentrarsi così sul
dinamico presente; tutto questo, come è ovvio, in senso ideologico. Le catene
di montaggio abbattevano i tempi di produzione, le automobili aumentavano ogni
giorno, le strade iniziarono a riempirsi di luci artificiali, si avvertiva
questa nuova sensazione di futuro[1] e velocità sia nel tempo impiegato per
produrre o arrivare a una destinazione, sia nei nuovi spazi che potevano essere
percorsi, sia nelle nuove possibilità di comunicazione.[2] Gino
Severini racconta che quando venne in contatto con Marinetti per decidere se
aderire o meno al Futurismo parlò anche con Amedeo Modigliani, che egli avrebbe
voluto nel gruppo, ma il pittore declinò l'offerta perché come scrisse:
«Queste manifestazioni non gli andavano, il complementarismo congenito lo
fece ridere, e con ragione, perciò invece di aderire mi sconsigliò di mettermi
in quelle storie; ma io avevo troppa affezione fraterna per Boccioni, inoltre
ero, e sono sempre stato pronto ad accettare l'avventura […]» (Gino Severini,
Vita di un pittore) Primo Futurismo «Compagni! Noi vi dichiariamo che il
trionfante progresso delle scienze ha determinato nell'umanità mutamenti tanto
profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi,
noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro…» (dal Manifesto dei
pittori futuristi, febbraio 1910) Una scazzottata futurista A seguito di una
serie di articoli critici di Ardengo Sofficisu La Voce vi fu una reazione
violenta dei futuristi: Marinetti, Boccioni e Carrà raggiunsero Soffici a
Firenze e lo aggredirono mentre sedeva al caffè delle "Giubbe Rosse"
in compagnia dell'amico Medardo Rosso. Ne nacque una grande pubblicità e un
grande tumulto rinnovatosi alla sera, alla stazione di Santa Maria Novella,
quando Soffici, accompagnato dagli amici Giuseppe Prezzolini, Scipio Slataper e
Alberto Spaini, volle rendere la contropartita. «Fu una vera
spedizione punitiva, che mi fu raccontata da Boccioni e, più tardi, da Soffici.
I futuristi appena arrivati a Firenze vanno al Caffè delle Giubbe Rosse, dove
sapevano di trovare Soffici, Papini, Prezzolini, Slataper, e tutti redattori
della Voce. Boccioni domanda ad un cameriere: «Chi è Soffici?»;
sull'indicazione ottenuta si avvicina Soffici e senza spiegazioni gli appioppa
un paio di schiaffoni; Soffici per niente smontato si alza risponde con una
scarica di pugni. Parapiglia generale, tavole seggiole per terra, bicchieri
rotti e questurini che portano tutti al commissariato. Per fortuna caddero in
un commissario intelligente che capisce con chi aveva a che fare; visto che
Soffici e quelli della Voce non volevano far querela d'aggressione, li rimandò
tutti fuori come se niente fosse stato. I futuristi, vendicate le ingiurie,
andarono alla stazione dove un treno, pressappoco a quell'ora, doveva
riportarli a Milano. Ma quelli della Voce, malgrado si fossero ben difesi, non
erano contenti affatto, perciò si recarono in fretta anch'essi alla stazione.
Mentre il treno stava per arrivare ebbe luogo un altro incontro, e un altro
violento pugilato, che, per poco, faceva restare a piedi futuristi. Ma fecero
in tempo a prendere il treno, un po' ammaccati, ma soddisfatti.» (Gino
Severini, Vita di un pittore) Nel Manifesto Futurista (1909), pubblicato
inizialmente in vari giornali italiani (la Tavola Rotonda di Napoli, la
Gazzetta dell'Emilia di Bologna, la Gazzetta di Mantovae L'Arena di Verona) e,
definitivamente, due settimane dopo sul quotidiano francese Le Figaro il 20
febbraio 1909[3], Filippo Tommaso Marinetti espose i principi-base del movimento.
Poco tempo dopo a Milano nel febbraio 1910 i pittori Umberto Boccioni, Carlo
Carrà, Giacomo Balla, Gino Severini e Luigi Russolo firmarono il Manifesto dei
pittori futuristi e nell'aprile dello stesso anno il Manifesto tecnico della
pittura futurista[4]. Nei manifesti si esaltava la tecnica e si dichiarava una
fiducia illimitata nel progresso, si decretava la fine delle vecchie ideologie
(bollate con l'etichetta di "passatismo", tra cui figura anche il
Parsifal di Wagner, che a partire dal 1914 cominciò a essere rappresentato nei
teatri d'Europa). Si esaltavano inoltre il dinamismo, la velocità, l'industria,
il militarismo, il nazionalismo e la guerra, che veniva definita come
"sola igiene del mondo". Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni
e Severini a Parigi per l'inaugurazione della prima mostra del 1912 La prima
importante esposizione futurista si tenne a Parigi presso la galleria
Bernheim-Jeune dal 5 al 24 febbraio 1912. All'inaugurazione della mostra erano
presenti Marinetti, Boccioni, Carrà, Severini e Russolo. L'accoglienza iniziale
fu fredda, ma nelle settimane successive il movimento suscitò un certo
interesse divenendo presto oggetto di attenzioni internazionali tanto da
favorire la riproposizione della mostra anche in altre città europee come Berlino[5].
La riconciliazione con i futuristi avvenne in seguito, grazie alla mediazione
dell'amico Aldo Palazzeschi. Nel 1913 infatti, Soffici e Papini uscendo da La
Vocedecisero di fondare la rivista Lacerba appoggiando così il movimento
futurista[6]. Alla morte di Umberto Boccioni nel 1916, Carrà e Severini
si ritrovarono in una fase di evoluzione verso la pittura cubista, di
conseguenza il gruppo milanese si sciolse spostando la sede del movimento da
Milano a Roma, con la conseguente nascita del "secondo
Futurismo". Secondo FuturismoIn prima fila Depero, Marinetti e
Cangiullo nel 1924 con panciotti "futuristi" Il secondo Futurismo fu
sostanzialmente diviso in due fasi. La prima andava dal 1918, due anni dopo la
morte di Umberto Boccioni, al 1928 e fu caratterizzata da un forte legame con
la cultura post-cubista e costruttivista; la seconda invece, dal 1929 al 1939,
fu molto più legata alle idee del surrealismo. Di questa corrente - che si
concluse attraverso il cosiddetto "terzo Futurismo", portando anche
all'epilogo del Futurismo stesso - fecero parte molti pittori fra cui Fillia
(Luigi Colombo), Enrico Prampolini, Filiberto Sbardella[7], Nicolay
Diulgheroff, Wladimiro Tulli ma anche Mario Sironi, Ardengo Soffici, Ottone
Rosai, Carlo Vittorio Testi e la moglie Fides Stagni.[8] Se la prima fase
del Futurismo fu caratterizzata da un'ideologia guerrafondaia e fanatica (in
pieno contrasto con altre avanguardie) ma spesso anche anarchica, la seconda
stagione ebbe un effettivo legame con il regime fascista, nel senso che
abbracciò gli stilemi della comunicazione governativa dell'epoca e si valse di
speciali favori. I futuristi di sinistra, generalmente meno noti nel
panorama culturale italiano dell'epoca, comunque, costituirono quella parte del
Futurismo collocata politicamente su posizioni vicine all'anarchismo e al
bolscevismo anche quando il movimento con i suoi fondatori e personaggi
ritenuti principali fu fagocitato dal fascismo. Anche se la gerarchia
fascista riservò ai futuristi coevi una sottovalutazione talvolta sprezzante,
l'osservazione dei principi autoritaristici e la poetica interventista del
Futurismo furono quasi sempre presenti negli artisti del gruppo, fino a che
alcuni di questi non abbracciarono altri movimenti e presero le distanze dall'ideologia
fascista (Carlo Carrà, ad esempio, abbracciò la metafisica). Altri ancora, come
il giovane pittore maceratese Wladimiro Tulli, mantennero costantemente un
approccio giocoso e libertario, che poco aveva a che fare con l'estetica
fascista, anche nelle successive esperienze di pittura informale.[9]
Futurismo russoNatalia Goncharova Il ciclista, 1913 Museo russo, San
Pietroburgo Manifesto futurista di Marinetti era stato pubblicato a San
Pietroburgo appena un mese dopo l'uscita su Le Figaro, e già negli anni 1911 e
1912 Natal'ja Sergeevna Gončarova e Michail Fëdorovič Larionov, che in patria
verrà definito il "padre del Futurismo russo", furono i concreti
iniziatori del movimento in Russia. Nel 1913 il pittore Kazimir
Severinovič Malevič, il compositore Michail Matjušin e lo scrittore Aleksej
Eliseevič Kručënych redassero il manifesto del Primo congresso Futurista russo.
Al movimento, conosciuto anche come Cubofuturismo o Raggismo, aderirono
personalità come il poeta e drammaturgo Vladimir Vladimirovič
Majakovskij. Nel gennaio 1914 Marinetti stesso si recò a Mosca. Dal
movimento d'avanguardia futurista nacquero negli anni immediatamente precedenti
la rivoluzione del 1917 due importanti avanguardie artistiche, il
Costruttivismo e il Suprematismo. L'attenzione che i giornali e il pubblico
dedicarono a Marinetti fu enorme, ma non ci fu la stessa attenzione da parte
dei futuristi russi, alcuni dei quali tentarono anche di ostacolare la visita
di Marinetti. Altri invece, come Sersenevič, furono più ospitali e cordiali. Il
temperamento e le declamazioni di Marinetti riscossero successo ovunque; ma
Marinetti tentò invano di chiamare i futuristi russi ad unire le forze con i
futuristi italiani, perché i maggiori poeti russi, Chlebnikov, Livsič,
Majakovskij e anche il regista Larionov criticarono Marinetti.[senza fonte]
L'ultima "mostra futurista" si tenne nel 1915 a Pietrogrado. In
Russia il movimento non fu caratterizzato dal bellicismo come quello dei
futuristi italiani, criticato da Majakovskij, ma fu accompagnato da un'utopica
idea di pace e libertà, sia individuale (dell'artista), sia collettiva (del
mondo), che si sarebbe concluso con l'adesione di una parte del gruppo al
bolscevismo. Dopo la rivoluzione d'ottobre molti futuristi confluirono nel
cubismo e nell'astrattismo. Futurismo francese In Francia il Futurismo
non si organizzò mai come movimento, ma ebbe almeno due nomi degni di nota:
Guillaume Apollinaire e Valentine de Saint-Point. Apollinaire scrisse il
manifesto L'antitradition futuriste(29 giugno 1913), pubblicato su Lacerba solo
il 25 settembre dopo le aggiunte e le correzioni di Marinetti. I successivi
Calligrammes (1918) rivelano la chiara influenza del paroliberismo futurista
sul poeta francese. Valentine de Saint Point, nipote di Lamartine, scrisse
il Manifesto della donna futurista, (1912) con il sottotitolo “Risposta a F. T.
Marinetti”, in un volantino pubblicato simultaneamente a Parigi e a Milano. Del
1913 è il Manifesto futurista della lussuria. Orientamenti artistici
Nelle opere futuriste è quasi sempre costante la ricerca del dinamismo; cioè il
soggetto non appare mai fermo, ma in movimento: ad esempio, per loro un cavallo
in movimento non ha quattro gambe, ne ha venti. Così la simultaneità della
visione diventa il tratto principale dei quadri futuristi; lo spettatore non
guarda passivamente l'oggetto statico, ma ne è come avvolto, testimone di
un'azione rappresentata durante il suo svolgimento. Per rendere l'idea
del moto nelle arti visive tradizionali, immobili per costituzione, il Futurismo
si serve, nella pittura e nella scultura, principalmente delle “linee-forza”;
poiché la linea agisce psicologicamente sull'osservatore con significato
direzionale, essa, collocandosi in varie posizioni, supera la sua essenza di
semplice segmento e diventa “forza” centrifuga e centripeta, mentre oggetti,
colori e piani si sospingono in una catena di “contrasti simultanei”,
determinando la resa del “dinamismo universale”. PitturaJoseph Stella
Battle of Lights, Coney Island, Mardi Gras, 1913-14 Yale University Art Gallery
Nel 1910 a Milano i giovani artisti d'Italia avevano pubblicato i manifesti
sulla pittura futurista. Boccioni si occupò principalmente del dinamismo
plastico e sintetico e del superamento del cubismo, mentre Balla passò dallo
studio delle vibrazioni luminose (divisionismo) alla rappresentazione sintetica
del moto[10]. Nel 1912 Boccioni, Carrà e Russolo esposero a Milano le prime
opere futuriste alla "Mostra d'arte libera" nella fabbrica
Ricordi. Il Futurismo diede il meglio di sé nelle espressioni artistiche
legate alla pittura, al mosaico e alla scultura, mentre le opere letterarie e
teatrali, ma anche architettoniche, non ebbero la stessa immediata capacità
espressiva. Le radici del fermento che portò alla declinazione del Futurismo
nell'arte si possono riconoscere, artisticamente parlando, già nella
Scapigliatura - corrente tipicamente milanese e borghese della seconda metà
dell'Ottocento - laddove il Futurismo distoglie con disprezzo l'attenzione
dalla raffinata borghesia per concentrarsi sulla rivoluzione industriale, sulle
fabbriche. Dal punto di vista stilistico il Futurismo - in particolare
quello boccioniano - si basa sui concetti del divisionismo che però riesce ad
adattare per esprimere al meglio gli amati concetti di velocità e di
simultaneità: è grazie ad artisti come Giovanni Segantini e Pellizza da Volpedo
che, pochi anni dopo, il futurista Umberto Boccioni poté realizzare dipinti
come La città che sale. Opera futurista di Emma Marpillero Corradi
Dal punto di vista concettuale, il Futurismo naturalmente non ignora i principi
cubisti di scomposizione della forma secondo piani visivi e rappresentazione di
essi sulla tela. Cubista è senz'altro la tecnica che prevede di suddividere la
superficie pittorica in tanti piani che registrino ognuno una diversa
prospettiva spaziale. Tuttavia, mentre per il cubismo la scomposizione rende
possibile una visione del soggetto fermo lungo una quarta dimensione
esclusivamente spaziale (il pittore ruota intorno al soggetto fermo cogliendone
ogni aspetto), il Futurismo utilizza la scomposizione per rendere la dimensione
temporale, il movimento. Altrettanto interessanti sono i rapporti
stilistici tra il Futurismo boccioniano e il cubismo orfico di Robert
Delaunay. Non mancarono relazioni complesse tra i futuristi italiani e i
più importanti esponenti delle avanguardie russe e tedesche.[11]
Equiparare, infine, la ricerca futurista dell'attimo con quella impressionista,
come è stato fatto in passato, è ormai considerato profondamente errato. Se è
vero infatti che gli impressionisti fecero dell'"attimalità" il
nucleo della loro ricerca - loro scopo era fermare sulla tela un istante
luminoso, unico e irripetibile - la ricerca futurista si muoveva in senso quasi
opposto: suo scopo era rappresentare sulla tela non un istante di movimento ma
il movimento stesso, nel suo svolgersi nello spazio e nel suo impatto
emozionale. Come conseguenza dell'"estetica della velocità",
nelle opere futuriste a prevalere è l'elemento dinamico: il movimento coinvolge
infatti l'oggetto e lo spazio in cui esso si muove. Il dinamismo dei treni,
degli aeroplani (Aeropittura), delle masse multicolori e polifoniche e delle
azioni quotidiane (del cane che scodinzola andando a spasso con la padrona,
della bimba che corre sul terrazzo, delle ballerine) è sottolineato da colori e
pennellate che mettano in evidenza le spinte propulsive delle forme. La
costruzione può essere composta da linee spezzate, spigolose e veloci, ma anche
da pennellate lineari, intense e fluide se il moto è più armonioso. Tra
gli epigoni più interessanti del Futurismo, l'avanguardia russa del raggismo e
del costruttivismo. Le tecniche pittoriche futuriste sono state riassunte nei
due manifesti sulla pittura dei primi mesi del 1912. Due tra i principali
esponenti del movimento pittorico, Umberto Boccioni e Giacomo Balla, furono
presenti anche nella scultura. La pittura di Boccioni è stata definita
"simbolica": il dipinto La città che sale (1910), per esempio, è una
chiara metafora del progresso, dettato dal titolo e dalle scene di cantiere
edile sullo sfondo, esemplificate nella loro vorticosa crescita dalla potenza
del cavallo imbizzarrito, un vortice di materia che si scompone per piani. Se
Boccioni è simbolico, Balla è fotografico e analitico. Ancora legato a principi
cubisti, non è raro che realizzi sequenze fotogrammetriche di una scena, per
rendere il movimento, piuttosto che affidarsi a impetuosi vortici di pittura: è
il caso del posato Bambina che corre al balcone (1912). SculturaUmberto
Boccioni Forme uniche della continuità nello spazio, 1913 New York, Museum of
Modern Art L'artista futurista più attivo nel campo della scultura è Umberto
Boccioni, la cui ricerca pittorica corre sempre parallela a quella
plastica. Nel 1912, lo stesso Boccioni pubblica il Manifesto tecnico
della scultura futurista. Punto di arrivo di questa ricerca può essere
considerato Forme uniche della continuità nello spazio, del 1913: l'immagine,
applicando le dichiarazioni poetiche di Boccioni stesso, è tutt'uno con lo
spazio circostante, dilatandosi, contraendosi, frammentandosi e accogliendolo
in sé stessa. Anche in L'Antigrazioso o La madre, immediatamente
precedente, sono presenti parametri scultorei simili a Forme uniche nella
continuità dello spazio, ma con ancora non risolti alcuni problemi di
plasticità derivanti da influssi naturalistici. MosaicLa tecnica del
mosaico, basata sull'utilizzo di tessere ceramiche e vitree, si è prestata
molto bene a esprimere i modi e il dinamismo intesi dall'arte futurista.
Enrico Prampolini e Fillia eseguono l'importante mosaico dedicato al tema delle
Comunicazioniall'interno della torre del Palazzo delle Poste di La Spezia
(1933). Alcuni anni più tardi Gino Severini esegue altri mosaici per le
Poste di Alessandria. La tradizione musiva di Ravenna continua con mosaici
futuristi di autori vari (Palazzo del Mutilato, fine anni quaranta).
ArchitetturaMagnifying glass icon mgx2.svg. Lo stesso argomento in dettaglio:
Architettura futurista. «Il problema dell'architettura moderna non è un problema
di rimaneggiamento lineare. Non si tratta di dover trovare nuove sagome, nuove
marginature di finestre e di porte, di sostituire colonne, pilastri, mensole
con cariatidi, mosconi, rane (…): ma di creare di sana pianta la casanuova,
costruita tesoreggiando ogni risorsa della scienza e della tecnica…»
(Antonio Sant'Elia, dal Messaggio posto a prefazione della mostra del gruppo
Nuove Tendenze del 1914) Antonio Sant'Elia, una veduta prospettica della
Città Nuova. 1914 Sant'Elia, Casa a Gradinate la Città Nuova. 1914
Arnaldo Dell'Ira lampada "a grattacielo", 1929 Giuseppe
Pettazzi Stazione di servizio "Fiat Tagliero", 1938 Asmara Nel
1912 Antonio Sant'Elia, che divenne l'architetto più rappresentativo del
movimento, era ancora distante dai futuristi ed era piuttosto legato nel
movimento del cosiddetto Stile floreale. In quegli stessi anni a Milanoera
attivo Giuseppe Sommaruga e questi sembra che avesse esercitato una grande
influenza sulla formazione del Sant'Elia, infatti, per esempio, molti elementi dinamici
del futurista furono anticipati nel Grand Hotel Campo dei Fiori di
Varese[12]. All'inizio del 1914 Sant'Elia pubblicò il Manifesto
dell'Architettura futurista, dove esponeva i principi di questa corrente. Al
centro dell'attenzione c'è la città, vista come simbolo della dinamicità e
della modernità. Tutti i progetti creati da Sant'Elia si riferiscono a città
del futuro: in contrapposizione all'architettura tradizionale, vista come
inadeguata, le città idealizzatedagli architetti futuristi hanno come
caratteristica fondamentale il movimento, i trasporti e le grandi strutture. I
futuristi, infatti, compresero immediatamente il ruolo centrale che i trasporti
avrebbero assunto successivamente nella vita delle città. Nei progetti di
questo periodo si cercavano sviluppi e scopi di questa novità. L'utopia
futurista è una città in perenne mutamento, agile e mobile in ogni sua parte,
un continuo cantiere in costruzione, e la casa futurista allo stesso modo è
impregnata di dinamicità. Anche l'utilizzo di linee ellittiche e oblique
simboleggia questo rifiuto della staticità per una maggior dinamicità dei
progetti futuristi, privi di una simmetriaclassicamente intesa. Le teorie
futuriste sull'architettura erano principalmente ideologiche ed erano espressione
di un atteggiamento intellettualistico ma senza riferimenti a metodi formali e
tecnici, tuttavia anticiparono i grandi temi e le visioni dell'architettura e
della città che saranno proprie del Movimento Moderno[13]. A causa della
guerra e dopo la morte di Boccioni e Sant'Elia il movimento futurista in Italia
perse il suo slancio. Dopo il 1919 l'originaria proposta futurista dei primi
tempi fu raccolta piuttosto dai costruttivisti russi. Il movimento razionalista
italiano cercherà di proporre gli scenari della Città Nuova delle utopie
futuriste ma il regime fascista smorzerà questi tentativi privilegiando un
monumentalismo legato alla tradizione classicista. Lo stesso avvenne in Unione
Sovietica con il sopravvento del regime totalitario. Tra i grandi esponenti
dell'architettura da ricordare Mario Chiattone, che visse con Sant'Elia a
Milano, condividendone le linee teoriche e sviluppando straordinarie visioni di
città del futuro, prima di trasferirsi in Svizzera e abbandonare la militanza.
E infine Virgilio Marchi, che operò anche come scenografo. Al Secondo
Futurismo appartengono le architetture di Angiolo Mazzoni, autore di notevoli
edifici postali e ferroviari, ancora oggi validamente in funzione in diverse
città italiane. CeramicaPer le sue possibilità espressive, anche la
ceramica interessa il movimento futurista. In particolare i ceramisti dell'ISIA
espressero lavori in sintonia con il nuovo movimento. Il 7 settembre 1938 sulla
Gazzetta del Popolo a firma Filippo Tommaso Marinetti e di Tullio d'Albisola viene
pubblicato il Manifesto futurista della Ceramica e Aereoceramica. Fin dal 1925
il centro propulsore della ceramica futurista italiana fu Albissola
Marina. Musica Modifica In campo musicale gli unici rappresentanti di
rilievo furono Francesco Balilla Pratella e Luigi Russolo, pittore, musicista e
scrittore, autore del saggio L'arte dei rumori pubblicato nel 1916. L'arte dei
rumori è considerata da alcuni autori uno dei testi più importanti e influenti
nell'estetica musicale del XX secolo.[14] A Russolo si deve l'invenzione
dell'Intonarumori, uno strumento che usava per mettere in pratica la sua teoria
del rumorismo, ovvero di una musica nella quale ai suoni dovevano essere
sostituiti i rumori. Essi erano formati da generatori di suoni acustici che permettevano
di controllare la dinamica e il volume. Letteratura Modifica Da
sinistra: Aldo Palazzeschi, Carlo Carrà, Giovanni Papini, Umberto Boccioni,
Filippo Tommaso Marinetti, 1914 Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso
argomento in dettaglio: Letteratura futurista e Filippo Tommaso Marinetti. A
fine gennaio 1909 Filippo Tommaso Marinetti inviava il Manifesto del Futurismo
ai principali giornali italiani, ma è la pubblicazione su Le Figaro il 20
febbraio 1909a garantirgli risonanza europea. Nel 1912, sulla rivista
fiorentina "Lacerba", comparve il "Manifesto tecnico della
letteratura futurista"[15]. Del 1914 è il volume Zang Tumb Tumb, miglior
esempio delle futuriste Parole in libertà. Poesia. I poeti futuristi si
riuniranno attorno alla rivista Poesiafondata da Marinetti qualche anno prima.
Nei componimenti si trova generalmente l'esaltazione del futuro e delle
sensazioni forti associate alla velocità e alla guerra. Gli esponenti più noti,
oltre al Marinetti, sono: Aldo Palazzeschi, autore della raccolta poetica
L'incendiario[16] (che include "La fontana malata", "E
lasciatemi divertire" e "La passeggiata"); Ardengo Soffici,
autore di Bif& ZF + 18 = Simultaneità – Chimismi lirici; Paolo Buzzi,
autore di Aeroplani. Canti alati. Anche Salvatore Quasimodo aderì, in gioventù,
al Futurismo (ricordiamo la sua poesia "Sera d'estate")[17]. A un
successivo momento del Futurismo marinettiano appartiene l'Aeropoesia.
TeatroModifica Magnifying glass icon mgx2.svLo stesso argomento in dettaglio:
Teatro futurista. I futuristi perseguirono la rifondazione del concetto stesso
di comunicazione teatrale. Promossero un teatro «sintetico, atecnico, dinamico,
simultaneo, autonomo, alogico e irreale», dove « è stupido» non ribellarsi al
pregiudizio della teatralità, soddisfare la primitività delle folle, curarsi
della verosimiglianza, voler spiegare con una logica minuziosa tutto ciò che si
rappresenta, sottostare alle imposizioni del crescendo, della preparazione e
del massimo effetto alla fine, lasciare imporre alla propria genialità il peso
di una tecnica che tutti possono acquisire, rinunciare «al dinamico salto nel
vuoto della creazione totale». I futuristi, infatti, possedettero una
«invincibile ripugnanza» per il lavoro studiato a tavolino, a priori,
sostenendo l'improvvisazione, il teatro come «serbatoio inesauribile di
ispirazioni». «Tutto è teatrale quando ha valore» (Il teatro
futurista sintetico di Marinetti, Settimelli e Corra[18]) Il teatro futurista
promosse anche la commedia e la farsa, anziché la tragedia, o il dramma
borghese. Tuttavia, nelle serate futuriste, non era inusuale vedere il pubblico
adirato a causa di spettacoli fatti di azioni deliranti. Le cronache dell'epoca
riportano notizie relative agli attori futuristi che sfuggono all'ira degli
spettatori, spesso provocata ad arte secondo gli intenti espressi nel Manifesto
futurista del teatro di varietà. CinemaMagnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Cinema futurista. Nel 1916 venne pubblicato il
Manifesto della Cinematografia futurista, firmato da Filippo Marinetti, Bruno
Corra, Arnaldo Ginna, Giacomo Balla, Remo Chiti ed Emilio Settimelli, che
sosteneva come il cinema fosse "per natura" arte futurista, grazie
alla mancanza di un passato e di tradizioni. Essi non apprezzavano il cinema
narrativo "passatissimo", cercando invece un cinema fatto di
"viaggi, cacce e guerre", all'insegna di uno spettacolo
"antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico,
parolibero". Nelle loro parole c'è tutto un entusiasmo verso la ricerca di
un linguaggio nuovo slegato dall'estetica tradizionale, che era percepita come
un retaggio vecchio. I futuristi, per allontanare il cinema dal passato,
ripudiavano tutto ciò che era convenzionalmente accettato come affascinante e
bellissimo dalla borghesia, usando quindi come soggetti figure distorte (che
verranno riprese anche dall'espressionismo tedesco come manifestazione della
perdita di speranza della popolazione dopo la prima guerra mondiale), colori
forti ecc. Molte opere cinematografiche futuriste sono andate perdute durante
la guerra, tra cui Vita futurista, pellicola nella quale alcuni uomini
disturbavano e poi scappavano velocemente alcuni turisti nei bar di
Firenze. Tra le opere rinvenute di questo movimento, ci è pervenuta la
tragedia Tahïs del 1916 di Bargaglia e la romantica Amor pedestre del 1914 del
comico Marcel Fabre, nel quale viene proposta una relazione non corrisposta
tutta raccontata inquadrando i protagonisti dal ginocchio in giù (cortometraggi
rintracciabili su YouTube). Gastronomia Magnifying glass icon mgx2.svg Lo
stesso argomento in dettaglio: Cucina futurista. Grazie alla completezza di
questo movimento, ne venne influenzata anche la gastronomia. Nel 1914 il cuoco
francese Jules Maincave aderì al Futurismo, proponendo quindi l'accostamento di
nuovi sapori ed elementi fino ad allora "separati senza serio
fondamento". Questo comprendeva accostamenti come filetto di montone e
salsa di gamberi, noce di vitello e assenzio, banana e groviera, aringa e
gelatinadi fragola. Il 20 gennaio 1931 Marinetti pubblicò il Manifesto
della cucina futurista sulla rivista Comoedia. Secondo Marinetti bisognava
eliminare la pastasciutta, così come forchetta e coltello e condimenti
tradizionali, e incoraggiare l'accostamento ai piatti di musiche, poesie e
profumi. Scrive Marinetti: «(...) vi annuncio il prossimo
lanciamento della cucina futurista per il rinnovamento totale del sistema
alimentare italiano, da rendere al più presto adatto alle necessità dei nuovi
sforzi eroici e dinamici imposti dalla razza. La cucina futurista sarà liberata
dalla vecchia ossessione del volume e del peso e avrà, per uno dei suoi
principi, l'abolizione della pastasciutta. La pastasciutta, per quanto gradita
al palato, è una vivanda passatista perché appesantisce, abbrutisce, illude
sulla sua capacità nutritiva, rende scettici, lenti, pessimisti. È d'altra
parte patriottico favorire in sostituzione il riso.» Nel suo tempo È
normale che il Futurismo, nascendo in un'epoca di transizione, abbia avuto
molteplici contraddizioni. All'immobilismo scolastico e accademico ereditato
dalle "tre corone" della poesia decadente (Carducci, Pascoli e
D'Annunzio) i futuristi oppongono la dinamicità, la demolizione all'armonia, e
alla raffinatezza contrappongono il disordine delle parole. Gli elementi
suddetti richiamano alle caratteristiche del Futurismo più importanti[19]: esse
rientrano appieno nello spirito culturale della belle époque che precedette lo
scoppio della Prima Guerra Mondiale. Secondo i futuristi, questi poeti devono
essere completamente rinnegati perché incarnano esattamente i quattro
ingredienti intellettuali che il Futurismo vuole abolire: la poesia
morbosa e nostalgica; il sentimento romantico; l'ossessione della lussuria; la
passione per il passato. In contraddizione con il Futurismo è stata anche la
corrente crepuscolare. Infatti il crepuscolarismo, nonostante condivida con il
Futurismo l'idea di interartisticità, ha però una concezione della vita
completamente diversa: i futuristi inneggiano alle innovazioni, i crepuscolari
sono avversi a una modernità che aliena l'individuo i futuristi sono
prepotenti, dinamici, chiassosi, i crepuscolari assumono toni dimessi, pacifici
e malinconici i futuristi esaltano il caos e le attività delle grandi città, i
crepuscolari amano l'intimità, le "piccole cose di pessimo gusto",
gli affetti familiari e una vita tranquilla i futuristi sono sempre protesi
verso un "domani" esaltante, i crepuscolari guardano al passato e
alle piccole cose quotidiane. Scultura futurista esposta a Milano
in Piazzetta Reale per il centenario del movimento Nelle arti figurative invece
si presenta il confronto con le altre avanguardie, Cubismo, Astrattismo, Dada,
Surrealismo, Metafisica, ognuna delle quali caratterizzata da propri temi e
propri linguaggi espressivi. L'opera futurista è in evidente contrasto per
alcuni temi con molte delle altre avanguardie sebbene condividano tutte
l'intuizione di trasmettere attraverso l'arte un impulso di trasformazione
della società e di rinnovamento. Aspetto specifico del Futurismo è quello di
non limitare la propria azione alle espressioni artistiche (come il Cubismo o
la Metafisica), ma di prospettare la re-invenzione dell'intera vita, in ogni
suo aspetto (e uno dei manifesti maggiormente rilevanti fu infatti "Ricostruzione
futurista dell'universo" di Balla e Depero). Tra i contemporanei dei
futuristi che criticarono il movimento ricordiamo Giandante X, che nel 1929, a
Milano, all'apertura dei festeggiamenti per il ventennale del Futurismo,
contestò apertamente Filippo Tommaso Marinetti, sostenendo che "l’uomo si
deve affrancare dalla macchina ed è un errore lasciare sussistere lo scombinato
movimento artistico"[20]. Nella critica del dopoguerra Il Futurismo
ha influenzato tutta l'arte d'avanguardia del Novecento. Gli artisti futuristi
che sopravvissero alla morte di Marinetti (21 dicembre del 1944) e alla seconda
guerra mondiale caddero in disgrazia come tutto il Futurismo, con l'accusa di
aver fiancheggiato il fascismo. Nel secondo Novecento nuovi studi di Luciano
De Maria, Mario Verdone, Enrico Crispolti, Maurizio Calvesi, Claudia Salaris,
Giordano Bruno Guerri hanno parzialmente corretto l'accusa di collusione
fascista, rilanciando l'interesse artistico-sociale verso il futurismo. Studi
sul futurismo di sinistra (i contatti con gli ambienti anarchici, e persino
comunisti) mostravano contemporaneamente che l'avanguardia futurista italiana
era stata troppo sommariamente giudicata. Nel corso del tempo diverse
sono state le esposizioni riguardanti il Futurismo. Di indubbia rilevanza è
stata quella del 2009 presso il Palazzo Reale di Milano per il centenario del
movimento. La mostra si intitolava Futurismo 1909-2009
Velocità+Arte+Azione[21]. Nel 2014, il Futurismo italiano, con una grande
esposizione retrospettiva fino al 1944 al Guggenheim Museum di New York a cura
di Vivien Greene[22], è tornato alla ribalta internazionale. Il centenario del
Futurismo ha anche contribuito al rilancio internazionale degli studi sulle
artiste del Futurismo e sulla visione della donna nel Movimento. Nel 2018
è stato pubblicato il Manifesto del Fumetto Futurista redatto da Massimo Bonura
e uno dei primi, se non il primo, fumetti futuristi programmatici, cioè
seguente esplicitamente uno schema scritto e definito, dal titolo "Il brutto
anatroccolo. Ma che Wow!!" di Claudio S. Gnoffo, a significare
l'importanza che il movimento futurista ha avuto come influenza nel delineare
nuovi stili d'arte di rottura e sperimentali.[23] Principali esponenti
del futurisModifica Futuristi italiani Filippo Tommaso Marinetti Enrico
Allimandi Adone Asinari Franco Asinari Antonio Asturi Fedele Azari Roberto Iras
Baldessari Giacomo Balla Enzo Benedetto Umberto Boccioni Vittorio Bodini Uberto
Bonetti Oswaldo Bot, pseudonimo di Osvaldo Barbieri Anton Giulio Bragaglia
Alessandro Bruschetti Paolo Buzzi Francesco Cangiullo Benedetta Cappa Mario
Carli Enrico Carmassi Sebastiano Carta Carlo Carrà Gianni Carramusa Giuseppe
Caselli Riccardo Castagnedi Enrico Cavacchioli Arturo Ciacelli Remo Chiti Primo
Conti Vittorio Corona Bruno Corra, pseudonimo di Bruno Ginanni Corradini Tullio
Crali Auro D'Alba, pseudonimo di Umberto Bottone Giulio D'Anna Luigi De Giudici
Mino Delle Site Fortunato Depero Gerardo Dottori Leonardo Dudreville Carlo Erba
Julius Evola Farfa, pseudonimo di Vittorio Osvaldo Tommasini Fillia, pseudonimo
di Luigi Enrico Colombo Luciano Folgore Gesualdo Manzella Frontini Achille Funi
Ivanhoe Gambini Giacomo Giardina Arnaldo Ginna, pseudonimo di Arnaldo Ginanni
Corradini Giovanni Governato Corrado Govoni Guglielmo Jannelli Giovanni
Korompay Krimer Mimì Maria Lazzaro Escodamè, pseudonimo di Michele Leskovic
Osvaldo Licini Gian Pietro Lucini Alberto Magnelli Vincenzo Mai Enzo Mainardi
Giorgio Michetti Antonio Marasco Oreste Marchesi Emma Marpillero Pino Masnata
Silvio Mix Sante Monachesi Marisa Mori Bruno Munari Benito Mussolini Emilio
Notte Renzo Novatore, pseudonimo di Abele Ricieri Ferrari Nello Voltolina Pippo
Oriani Nino Oxilia Ivo Pannaggi Giovanni Papini Luigi Pepe Diaz Osvaldo Peruzzi
Vittorio Piscopo Enrico Prampolini Francesco Balilla Pratella Giuseppe Preziosi
Salvatore Quasimodo Renato Righetti Romolo Romani Ottone Rosai Pippo Rizzo
Angelo Rognoni Umberto Luigi Ronco Mino Rosso Luigi Russolo Bruno Giordano
Sanzin Alberto Sartoris Antonio Sant'Elia Filiberto Sbardella Gino Severini
Ardengo Soffici Fides Stagni Tato (Guglielmo Sansoni) Mario Sironi Fides Stagni
Joseph Stella Mario Sturani Italo Tavolato Geppo Tedeschi Thayaht, pseudonimo
di Ernesto Michahelles Wladimiro Tulli Giuseppe Ungaretti Vann'Antò Ruggero
Vasari Lucio Venna, pseudonimo di Giuseppe Landsmann Mario Mirko Vucetich
Futuristi russi Makov Černichov Velimir Chlebnikov Natal'ja Sergeevna Gončarova
Michail Larionov Vladimir Majakovskij Kazimir Severinovič Malevič Aleksandr
Rodčenko Aleksej Kručënych Futuristi ucraini Davyd, Mykola, Volodymyr Burljuk
Futuristi francesi Robert Delaunay Marcel Duchamp Paul Fort Fernand Léger Jules
Maincave Georges Bernanos Guillaume Apollinaire Futuristi cechi Růžena Zátková
Futuristi ungheresi Béla Kádár Lajos
Kassák Hugó Scheiber Futuristi portoghesi Fernando Pessoa, divulgò aspetti del
movimento attraverso le riviste Orpheu (1915) e Portugal Futurista (1917)
Guilherme de Santa-Rita, pittore, ideatore della rivista Portugal Futurista
(1917) Futuristi spagnoli Joan Salvat-Papasseit Futuristi brasiliani Oswald de
Andrade Futuristi argentini Alberto Hidalgo Emilio Pettoruti Principali
manifesti Manifesto del futurismo, (Pubblicato da "Le Figaro" il 20
febbraio 1909), Marinetti Uccidiamo il Chiaro di luna, (aprile 1909), Marinetti
Manifesto dei Pittori futuristi, (11 febbraio 1910), Boccioni, Carrà, Russolo,
Balla e Severini La pittura futurista - Manifesto tecnico, (11 aprile 1910),
Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini Contro Venezia passatista, (27
aprile 1910), Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo Manifesto dei drammaturghi
futuristi, (11 gennaio 1911), Marinetti Manifesto dei Musicisti futuristi, (11
gennaio 1911), Pratella La musica futurista-Manifesto tecnico, (29 marzo 1911),
Pratella Manifesto della Donna futurista, (25 marzo 1912), Valentine de
Saint-Point Manifesto della Scultura futurista, (11 aprile 1912), Boccioni
Manifesto tecnico della letteratura futurista, (11 maggio 1912), Marinetti
L'arte dei Rumori, (11 marzo 1913), Russolo Distruzione della sintassi.
L'immaginazione senza fili e le Parole in libertà, (11 maggio 1913), Marinetti
L'Antitradizione futurista, (29 giugno 1913), Guillaume Apollinaire La pittura
dei suoni, rumori e odori, (11 agosto 1913), Carrà Il Teatro di Varietà, (1º
ottobre 1913), Marinetti Il controdolore, (29 dicembre 1913), Palazzeschi
Pittura e scultura futuriste, (1914), Boccioni Manifesto dell'Architettura
futurista, (1914), Sant'Elia Il teatro futurista sintetico, (1915), Corra,
Settimelli, Marinetti La ricostruzione futurista dell'universo, (1915), Balla,
Depero La Scenografia futurista, (1915), Prampolini Manifesto del cinema
futurista, (1916), Marinetti, Corra, Settimelli Manifesto della danza
futurista, (1917), Marinetti Manifesto dell'Aeropittura futurista, (1929)
Manifesto della Fotografia futurista, (16 aprile 1930, Tato (pseudonimo di
Guglielmo Sansoni), Filippo Tommaso Marinetti Manifesto della cucina futurista,
(1931), Marinetti. Manifesto futurista della Ceramica e Aereoceramica(1938),
Filippo Tommaso Marinetti e Tullio d'Albisola Opere principali Pittura Umberto
Boccioni, Tre donne (1909-1910); Umberto Boccioni, La città che sale
(1910-1911); Carlo Carrà, Notturno a Piazza Beccaria (1910); Umberto Boccioni,
La risata (1911); Umberto Boccioni, Stati d'animo, gli addii (1911); Carlo
Carrà, I funerali dell'anarchico Galli (1911); Umberto Boccioni, Materia
(1912); Giacomo Balla, Ragazza che corre al balcone (1912); Giacomo Balla,
Dinamismo di un cane al guinzaglio(1912); Giacomo Balla, Lampada ad arco
(1911); Umberto Boccioni, Elasticità (1912); Gino Severini, La chahuteause
(1912); Luigi Russolo, Dinamismo di un'automobile (1912-1913); Carlo Carrà,
Cavaliere rosso (1913); Giacomo Balla, Automobile + velocità + luce (1913).
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"superuomo" (oltreuomo) di Friedrich Nietzsche, l'anarchismo di Max
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violenza), lo slancio vitale di Henri Bergson(cfr. "Futurismo"
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su elapsuswebzine.blogspot.it. URL consultato il 14 febbraio 2017. ^ Vivien
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Edizioni Ex Libris, 2018. Per il Manifesto del Fumetto Futurista si vedano le
pp. 68-69, per le tavole del Fumetto Futurista di Claudio S. Gnoffo si vedano
le pp. 70-71. Ulteriori informazioni
Questa voce o sezione ha problemi di struttura e di organizzazione delle
informazioni. Giulio Carlo Argan, L'arte moderna 1770/1970, Firenze, Sansoni,
1970, SBN IT\ICCU\RLZ\0058303. Giovanni Lista e Ada Masoero (a cura di),
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contiene in appendice alcuni manifesti futuristi. Giovanni Antonucci, Storia
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Sconfinamento nel trasumano. Vuoto mitico e affollamento mediale nell'arte
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1724-1596 (WC · ACNP). Giovanni Lista, Photographie Futuriste Italienne, 1981,
Catalogo della Mostra al MAMVP, Parigi. Claudio S. Gnoffo, Tavole del Fumetto
Futurista Il brutto anatroccolo ma che Wow!!, in M. Bonura, Il fumetto come
Arte e altri saggi, Palermo, Edizioni Ex Libris, 2018, pp. 70–71. Massimo
Bonura, Per un Manifesto del Fumetto Futurista: relazioni con il Manifesto del
Cinema, della Pittura e della Cucina futurista, in M. Bonura, Il fumetto come
Arte e altri saggi, Palermo, Edizioni Ex Libris, 2018, pp. 65–67. Zeno Birolli
(a cura di), Pittura e scultura futuriste, Abscondita, 2006, ISBN
88-8416-141-X. Daniel Warner e CChristoph Cox, Audio Culture: Readings in
Modern Music, Londra, Continiuum International Publishing Group LTD, 2004, pp.
10–14, ISBN 0-8264-1615-2. Didier Ottinger , Le Futurisme a Paris , une
avant-garde explosive , Editions Centre Pompidou , (2008) , Parigi , (Catalogo
della Mostra al Centre Pompidou(ott.2008-gen.2009) ISBN 978-2-84426-359-9
Barbara Meazzi, Il fantasma del romanzo. Le futurisme italien et l'écriture
romanesque (1909-1929), Chambéry, Presses universitaires Savoie Mont Blanc,
2021, 430 pp., ISBN 9782377410590 Voci correlate Avanguardia Battaglione
Lombardo Volontari Ciclisti Automobilisti III Biennale di Monza La Spezia
L'Eroica (periodico) Parole in libertà (futurismo) Partito Politico Futurista
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futurismo, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Modifica su Wikidata futurismo, in Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata futurismo, su sapere.it,
De Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Futurismo, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Il portale sul Futurismo,
futurismo.org LA VERA STORIA DEL FUTURISMO, la parola a Gesualdo Manzella
Frontini Il "Discorso contro i Veneziani" di Marinetti, su
paginadelleidee.net. URL consultato l'8 aprile 2009(archiviato dall' url
originale il 7 ottobre 2007). Il Cerchio: Rivista di Cultura con
particolari approfondimenti sul Futurismo, su cerchionapoli.it. "Luigi
Russolo: Frammenti di un discorso rumoroso - La rivoluzione musicale
futurista": monografia sul sito Sentireascoltare Recensioni delle mostre
del centenario futurista a Roma e a Milano avanguardie russe, su
chimera.roma1.infn.it. Viva il Futurismo! Iniziativa culturale e artistica per
il centenario del Futurismo, su kulturserver-nrw.de. Principi e filosofia del
Futurismo in arte, poesia e politica, su manentscripta.wordpress.com.
Architettura Futurista Italiana 1909-1944, su architetturafuturista.it. Il
futurismo e le arti applicate, sul portale RAI Arte, su arte.rai.it. Controllo
di autorita Thesaurus BNCF 5573 · LCCN( EN ) sh85052619 · GND ( DE ) 4019036-5
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giorni fa di LukeWiller PAGINE CORRELATE Carlo Carrà Pittore e docente
italiano Manifesto dei pittori futuristi Manifesto futurista pagina di
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temi principali del mio libro, intitolato “Eros ethos”: la contraddizione, la
violenza, la domanda di salvezza, che è poi la domanda di senso, il silenzio di
Dio. Ma, effettivamente, questi temi fanno da sfondo, perché “ Eros ethos”,
questo nesso su cui dobbiamo riflettere, riguarda piuttosto le cose prossime
che non le cose ultime come la domanda di senso, la domanda che appunto ruota
interamente intorno a ciò che era al principio. Che cos’era il principio? Era
il senso, era il logos, o non era piuttosto come Nice, in modo sprezzante, ma
anche polemico e profondo, ebbe a dire: “ in principio era il non senso”? Ecco,
cos’ hanno a che fare queste domande sulle cose ultime con le cose prossime?
Eros ethos: che cosa c’è di più prossimo alle esperienze che noi facciamo, che
questa? Esperienza erotica ed esperienza etica. Questo è il quadro, questo è
l’orizzonte problematico dentro il quale vorrei insieme con voi procedere per
alcuni passi, e allora incomincerei col dire che, davvero, la domanda da cui
partire è la domanda sull’origine: una domanda che ai non filosofi può sembrare
di scarsa rilevanza. Perché la domanda sull’origine? E che cosa vuol dire
domanda sull’origine? Vuol dire, se la vogliamo tradurre, interrogarsi sul da
dove veniamo, da dove il male, la violenza che patiamo. “Unde malum?” questa è
la domanda sull’origine. Ma a questa domanda sull’origine, così perentoria e
così grave di implicazioni, come risponde il pensiero contemporaneo? Il
pensiero contemporaneo risponde rimovendola, come se non esistesse, meglio come
se non la potessimo, né la dovessimo porre. E questo perché? Perché alla
domanda ha già risposto la scienza. Sappiamo da dove veniamo, di chi siamo
figli: siamo figli del caos, e se è vero che leggi che possono essere accertate
scientificamente governano questo caos, del caos noi siamo figli, o, se non del
caos, di quel suo riflesso che è il caso. Siamo figli del caso. La violenza è
un fatto. Certo che c’è violenza nel mondo, ma c’è come c’è quell’ultimo
orizzonte che non possiamo trascendere. Ci appartiene la violenza, è in noi,
sempre di nuovo la evochiamo, basta un niente ed ecco esplode, come se un fondo
sub umano ci abitasse, come se da questa brutalità naturale noi provenissimo,
come se appunto questo fondo sub umano, questa brutalità naturale, sempre
pronta ad esplodere, costituisse un orizzonte intrascendibile. Non è forse vero
che veniamo di lì, non ci dice la scienza che veniamo dalla “selva antiqua?”
Dallo stato di natura? E che cos’è lo stato di natura se non lo stato in cui la
violenza ci fa simili, anzi identici, a quegli esseri che abitano la natura e
l’abitano inconsapevolmente, producendo la violenza appunto come produzione
inconsapevole di quella volontà di vivere che abita tutti gli esseri naturali?
Sembra essere questa la grande parola della filosofia moderna e poi
contemporanea, perchè troviamo in essa quasi un vero e proprio ritornello: il
risalimento all’origine è precluso, la filosofia pensa a partire da una
situazione, da un trovarsi ad essere in un certo modo, a partire da cui soltanto
il pensiero è pensiero. Che cosa significa risalire alle origini, ipotizzare
fondamenti ultimi? Tutto questo appartiene all’ontoteologia cioè alla pretesa
appunto di ragionare ricostruendo il fondamento, la ragione ultima di tutte le
cose, in una parola l’origine, quell’origine che non è, o meglio non è se non
nella forma che ci è data, e di cui noi facciamo esperienza sapendo di essere
quello che siamo, ossia esseri naturali che dallo stato di natura provengono e
che nello stato di natura trovano una sorta di ultimo orizzonte, di estremo
confine intrascendibile, assolutamente intrascendibile. Da questo punto di
vista abbiamo la parola di Hobbes da una parte( lo stato di natura), e la
parola di Rousseau dall’altra( lo stato di natura come 1 stato di
pura violenza che si tratta di controllare attraverso un patto, i cui
contraenti autolimitano la propria libertà in nome del controllo di ciò che è
dato: lo stato di natura). Da una parte Hobbes( il Leviatano), e dall’altra
Rousseau dicono la stessa cosa anche se sembrerebbero dire due cose
completamente diverse. Che cosa dice Rousseau? Dice che lo stato di natura non
è il regno del Leviatano, il regno della violenza, è il regno della gioia, è il
regno della libertà, è il regno della giustizia. Eppure dicono la stessa cosa.
Che cosa? Dicono che quello, lo stato di natura, è un orizzonte che non
possiamo trascendere. Lì ci troviamo a vivere. Che questo stato di natura sia
uno stato di violenza, o che questo stato di natura sia uno stato tornando nel
quale noi ci liberiamo dalla violenza stessa, in definitiva è la stessa cosa,
perché è questo stato, questa condizione intrascendibile, e non possiamo
affacciarci, per così dire, sulla soglia, su questo stesso orizzonte, e
guardare al di là e chiederci: “ Ma noi da dove veniamo? Chi ci ha gettati
qui?” O nella lotta o nella gioia edenica: domanda senza senso. Risalire non è
possibile. L’orizzonte è chiuso. La violenza non è nient’altro che questo,
quella violenza di cui ci parlano anche le cronache, ma che noi conosciamo
anzitutto in noi stessi, perciò della violenza non resta che prendere atto come
qualche cosa che è connaturato, stato di natura appunto, e che non ci resta che
controllare. Sempre di nuovo l’uomo ricade nella violenza, sempre di nuovo
l’uomo deve, se non liberarsene totalmente, elaborare delle strategie di
controllo. Auschwitz non deve più accadere e invece è accaduto e probabilmente
sempre di nuovo accadrà. Questo lo sappiamo, lo sappiamo nei nostri giorni
violentissimi, crudelissimi. Su questo non possiamo chiudere gli occhi: sul
fatto che Auschwitz sempre di nuovo accade, che sempre di nuovo l’uomo cade
dentro quello stato di natura dal quale proviene e dal quale non può evadere.
E’ la parola più dura della filosofia contemporanea, nascosta spesso dentro
strategie di pensiero molto sofisticate, molto raffinate, ma che questo dicono:
l’intrascendibilità della nostra provenienza, dell’orizzonte dal quale
proveniamo, tanto è vero che sempre di nuovo cadiamo dentro a questo orizzonte.
Difficile immaginare, appunto, una risposta più cupamente ateistica e
nichilistica di questa, ma anche più vera, con una sua verità che sembrerebbe
difficilmente controvertibile. Non è forse vero che la violenza è in noi, che
veniamo di lì? Non ci dice la scienza che in noi ci sono forze che se non
teniamo sotto controllo fanno di noi, di chiunque di noi, il peggiore dei
delinquenti, e che ciascuno ha in sé questa virtualità negativa e terribile?
Ciascuno di noi. Lo vediamo, non solo per le guerre, ma per i casi che la vita
ci mette sotto gli occhi: gli adolescenti che uccidono i genitori, il mobbing
tra le persone, questo bisogno di farsi reciprocamente male, che cos’è questo
se non una radice? Maligna, ma nello stesso tempo naturale, maligna, ma in
questa prospettiva senza nessuna ascendenza teologica, perché appunto è lo
stato di natura dal quale proveniamo, dentro il quale sempre di nuovo ricadiamo
in quanto l’orizzonte è intrascendibile. Che questo sia detto nei termini di
Hobbes, o sia detto nei termini di Rousseau, che a partire da Hobbes si
elaborino teorie dello stato come strumento, il solo che l’uomo ha per tenere
sotto controllo la violenza, che a partire da Rousseau si elaborino invece
teorie della emancipazione, della liberazione, del ritorno alla natura, però questo
ci dice l’intrascendibilità dello stato di natura. E’ una tesi che ha mille
sfaccettature naturalmente, ma molto forte. A questa tesi della
intrascendibilità radicale dello stato di natura io credo ci sia una sola
obiezione, ma forte, altrettanto forte che la tesi stessa. E questa obiezione è
che la violenza dell’uomo sull’uomo, quella violenza che fa dell’uomo un bruto,
che lo ricaccia sempre di nuovo nella brutalità dello stato di natura, questa
violenza è sempre qualche cosa di più, è sempre qualche cosa di meno che
espressione dello stato di natura. Questa è la vera obiezione. E cioè, che
cos’è? E’ cosa umana. La violenza fatta dall’uomo non è infatti assolutamente
assimilabile alla violenza fatta dall’animale, da una tigre, da un leone
feroce. La ferocia che emerge, che affiora, e che trasforma un essere umano in
un animale 2 è altra cosa, non è vero che trasforma l’essere umano
in animale ( questo è un modo di dire assolutamente sviante, falsificante,
anche se sembra corrispondere all’esperienza che ciascuno di noi fa ), questa
violenza è altra cosa, perché la violenza dell’uomo ha, per così dire, un
segno, una segnatura, quella signatura rerum di cui parlavano gli alchimisti
che la vedevano nelle cose stesse, quasi le cose fossero portatrici di simboli
entrando in contatto con l’uomo. Ecco, la stessa cosa vale per la violenza
umana: essa ha una segnatura che ne fa qualcosa di altro rispetto alla violenza
dell’animale, di radicalmente altro, di ontologicamente altro. Perché la
violenza dell’uomo non è assimilabile a quella dell’animale? Perché la violenza
dell’uomo ha qualcosa come un valore aggiunto, e il valore aggiunto è quello
che ci mette l’uomo stesso. Pensate all’uomo, al soldato che uccide, deve
farlo, lo fa per difendersi, pensate alla violenza che esplode in una
situazione apparentemente normale: sempre c’è qualche cosa di più e di diverso
che l’espressione di una aggressività volta a raggiungere uno scopo, raggiunto
il quale la stessa violenza, per così dire, ritorna in una quiete, in una pace,
la pace del leone che ha divorato la gazzella e si ritrova in pace con sé
stesso e con la natura. La violenza dell’uomo, quale che sia, giustificata o
non giustificata, ( ma appunto la parola giustificazione è povera) , sempre ha
questo valore aggiunto: e il soldato sente il bisogno, ahimè, spesso di
sottolineare questo valore aggiunto , irridendo il nemico. Questo è
nell’Iliade, come nella cronaca di oggi, di ieri e dell’altro ieri.
Nell’Iliade, quando Achille strazia il cadavere di Ettore, sente il bisogno di
straziarlo sotto le mura di Ilio, sotto gli occhi delle persone care: ecco quel
di più, ecco ciò che fa della violenza umana qualche cosa di radicalmente
umano. Nel soldato che aggredisce e umilia l’aggredito, il vinto, il nemico
vinto, stuprando la sua donna, per esempio, non c’è mai una pura e semplice
espressione pulsionale di qualche cosa, come un bisogno bestiale o animalesco,
c’è invece il desiderio di segnare ( parlavo prima di segnatura, di valore
simbolico) , c’è il bisogno di umiliare, c’è, in altre parole, l’impossibilità
di ricadere nella quiete della violenza che ha raggiunto il suo scopo. Allora,
se la violenza dell’uomo non è assimilabile alla violenza della natura, se
questo valore aggiunto fa sì che la violenza dell’uomo riveli una sua
irriducibilità all’ordine naturale delle cose, allora non è vero che lo stato
di natura non può essere trasceso, non è vero che non è possibile affacciarsi
sull’ultimo orizzonte e chiedersi: “ Ma da dove vengo io?” Allora non basta
dire: “ Io vengo da lì, cioè dalla natura e dalla sua brutalità, io vengo da un
altrove”. E’ una contraddizione, perché, se vogliamo dirla con una formula
filosofica, la intrascendibilità dello stato di natura chiede di essere
trascesa. Il riconoscimento che di lì vengo, che sono impastato di quella
pasta, che sono fatto di quel fango, che in me agiscono forze brutali,
bestiali, non basta. Non basta perché quelle forze dicono non soltanto la mia
provenienza dallo stato di natura, ma da un al di là, che non so che cosa sia,
che la filosofia non può dire naturalmente, ma deve cercare. Non mi basta
riconoscermi parte della natura, perché questo mio riconoscimento fa cenno, sia
pure nella forma della contraddizione, ad un altrove, come se io fossi caduto,
come se io di là venissi, e come se soltanto questo movimento potesse spiegare
il valore aggiunto che è nella violenza. Ho fatto due esempi, di due grandi
filosofi della modernità, Hobbes e Rousseau, i teorici della intrascendibilità
dello stato di natura. Farò altri due esempi di grandi filosofi della modernità
i quali sostengono quello verso cui sto cercando di condurvi e cioè che
l’intrascendibilità dello stato di natura è contraddittoria. Certo l’uomo, con
le sue categorie, con i suoi concetti, con ciò di cui dispone, non può uscire
dall’orizzonte in cui è venuto a trovarsi, ma patisce, soffre, vive questo suo
trovarsi in un orizzonte che è come un carcere per lui, appunto come un essere
cacciato lì dentro. Diceva Pascal: “ Io mi guardo intorno, e tutto è
confusione, un orribile caos, cerco Dio, ma Dio tace ( il silenzio di Dio), e
non solo Dio tace, ma tutto è terribilmente silenzioso, e il silenzio degli
spazi infiniti è eterno. Che cosa mi resta, se voglio in questo orribile
3 caos muovermi e sopravvivere? Che cosa mi resta da fare? Prendere
atto che le cose stanno così, seguire le leggi del mio paese. Già, ma le leggi
del tuo paese sono esattamente l’opposto delle leggi del paese accanto. Che
fare? Questa è appunto la prova del caos in cui versiamo. Ma il mio sovrano mi
ha ordinato di uccidere quello che sta al di là del fiume. E perché? Perché sta
al di là del fiume. Ma è una ragione questa? Eppure lo devo fare, perché, se
non mi attenessi alle leggi del mio paese, cadrei in un disordine ancora più
grande, non vivrei più”. L’abbiamo visto: l’unica forma di sopravvivenza è
quella garantita dall’accettazione dello status quo. Dice: “ Ma io mi guardo
intorno. Questo è giusto, che cosa è sbagliato? Nulla è giusto, nulla è
sbagliato, tutto lo è. E infatti non c’è atto, non c’è gesto, non c’è
comportamento umano, anche il più abietto, che non abbia trovato il suo altare.
Sull’altare è stato messo l’incesto, sull’altare è stato messo l’omicidio,
sull’altare è stato messo il furto, e così via. Un orribile caos, è quello nel
quale l’uomo naturaliter viene a trovarsi: intrascendibilità dello stato di
natura”. Ecco allora la contraddizione, ecco il passo in più che fa Pascal:
l’intrascendibilità dello stato di natura è inaccettabile, l’intrascendibilità
dello stato di natura non può essere vissuta se non come una condanna, e quale
maggiore condanna che quella di chi vede che ogni atto, anche il più nefasto,
il più delittuoso, ha trovato il suo altare? Quale condanna peggiore di chi
constata che è costretto a compiere atti profondamente ingiusti e tuttavia
giustificati? “ Vai, uccidi”. “ Perché?” “Perché il tuo sovrano te lo ordina”.
Ed è giusto così, o meglio giustificato così, pena un disordine ancora
maggiore. Questa è una realtà che non si può non accettare, una realtà che ci
dice il nostro essere vincolati ad essa, l’intrascendibilità dello stato di
natura, ma una realtà nello stesso tempo vissuta come iniqua, come
inaccettabile: non la posso che accettare, ma è inaccettabile. Ecco la
contraddizione, e se volessimo dirla filosoficamente, dovremmo dire:
“l’intrascendibilità dello stato di natura impone il suo trascendimento”. Da
dove vengo io? Da quale paradiso perduto, se soffro così tanto all’interno di
una situazione per la quale non vedo via d’uscita? L’intrascendibilità chiede
di essere trascesa. Qui la filosofia deve tacere, la filosofia non può che
aprirsi ad una dimensione altra. E’ una risposta, come vedete, ben diversa da
quella di Hobbes, ed anche da quella di Rousseau. Nasce da Pascal una filosofia
religiosa, laddove da Hobbes e da Rousseau nasce una filosofia irreligiosa. Le
fedi private dell’uno e dell’altro non sono più in questione, ma è
profondamente irreligiosa una filosofia che dice: “ La violenza c’è e non resta
che tenerla sotto controllo. Noi non possiamo guardare al di là”. E’ una
filosofia profondamente irreligiosa quella che dice che la violenza c’è perché
c’è la società. Togliamo questo elemento storico sociale, che inquina, con gli
apparati repressivi che la società mette in atto, liberiamoci da tutto ciò, e
ritroviamo quella gioia che è lo stato originario dell’uomo: filosofia, in
entrambi i casi, con tutte le loro propaggini, da Rousseau a Marcuse, oppure da
Hobbes a Smith, filosofia profondamente irreligiosa quella
dell’intrascendibilità dello stato di natura, laddove è filosofia profondamente
religiosa quella di un Pascal che dalla stessa intrascendibilità ricava,
attraverso la contraddizione, l’idea di non poter non trascendere. Anche Vico,
che viene spesso interpretato, e giustamente, come il padre dello storicismo,
ma è anzitutto teologo cristiano, dice la stessa cosa, cent’anni dopo Pascal, e
la dice attraverso l’idea che la menzogna in cui l’uomo si trova a vivere sia
l’illusione che “ omnia Iovis plena” , che gli alberi siano dei, che tutto gli
parli, che l’universo sia animato da presenze. Se un fulmine cade nella selva
antiqua e apre la radura e l’ uomo si illude che un dio gli abbia parlato, non
è vero, è un’illusione, è pura idolatria credere che lì si sia avuta una
epifania, e tuttavia questa che è la condizione idolatrica che l’uomo non può
trascendere. Vico dice: “ Cos’è più vero? Lo stato di natura, dove l’uomo è e
non è se non cacciatore e preda? Oppure lo stato di cultura?” Quello stato di
cultura che l’uomo costruisce in base ad una simulazione, cioè in base ad una
menzogna, illudendosi che gli dei gli abbiano parlato e 4 sulla
base di questo messaggio, di questa rivelazione, costruisce appunto le
istituzioni, le famiglie, gli stati, la cultura, insomma. Che cos’è più vero?
E’ il puro e semplice abitare la natura come l’abitano i bruti, brutalità dello
stato di natura, oppure è, attraverso la finzione, diventare uomini? Accedere
ad una verità propriamente umana? Anche lì, attraverso la contraddizione,
l’uomo è costretto a vedere nella natura una sorta di deiezione, di caduta. Da
dove? La filosofia non lo dice, lo dice la rivelazione. Come vedete queste sono
ipotesi molto diverse, opzioni filosofiche che sono alla radice del mondo
moderno. Voi vi chiederete: “ Tutto questo che cosa c’entra con Eros ethos?”
C’entra perché c’entra la contraddizione. E’ la contraddizione che dobbiamo
cercare, che dobbiamo interrogare, per capire appunto se noi siamo consegnati
ad un destino umano e soltanto umano o se invece questa stessa umanità del
nostro destino impone un trascendimento della condizione nella quale ci
troviamo: dobbiamo cercare l’origine, ciò che è in principio ma anche ciò che
è, per dirla con sant’Agostino, “intimior intimo meo”, più intimo a me stesso
di quanto non lo sia io a me. Come sappiamo, Agostino identificava Dio con
questo movimento, con l’intimior intimo meo: è Dio che è più intimo a me di
quanto io non lo sia a me stesso. Potremmo, parafrasando Agostino, vedere
precisamente nel nodo di contraddizione che nello stesso tempo lega e separa eros
ethos qualche cosa che può essere definito negli stessi termini. Che eros ed
ethos si contraddicano, o meglio si oppongano( l’opposizione e la
contraddizione sono due cose diverse) lo so bene, che eros ed ethos si
oppongano è cosa abbastanza ovvia. Che cosa indica eros se non l’immediatezza,
diciamo pure la gioia di vivere, quella gioia di vivere che non ammette
ostacoli di nessun tipo, che chiede soltanto di essere espressa? Eros i Greci,
e non soltanto i Greci, lo presentavano come un fanciullo, la divina innocenza,
eros come espansione vitale, o per dirla con Kierkegaard come vita immediata,
vita che non dà ragione di sé, e noi diremmo oggi ( figli volenti o nolenti,
tutti figli di Freud ) “vita pulsionale”, e le pulsioni sono le pulsioni, il
bene e il male appartengono ad un altro ordine, ad un’altra dimensione. Ethos è
il contrario. Ethos è il “Tu devi”. Ethos è la serietà della vita. Ethos è il
dover rispondere di tutto nei confronti di tutti, o quanto meno di sé nei
confronti di coloro coi quali si è stretto un patto. Quale opposizione maggiore
che quella tra eros ed ethos? Tra l’immediatezza e la mediazione? Tra la libera
e gioiosa espansione di sé che non dà ragione, perché è quello che è, è vita
immediata, tra la gioia, se vogliamo dire così, e la serietà della vita, ossia
il “Tu devi”, questo sì e questo no, perché tu devi rispondere di te nei
confronti di tutti gli altri? Ma appunto siamo ancora sul piano
dell’opposizione, non ancora della contraddizione. Per scorgere la
contraddizione dobbiamo renderci conto che c’è dissidio, cioè c’è intima
opposizione sia in eros, sia in ethos. Ed è solo a partire da un’analisi
separata delle due forme di esperienza, esperienza erotica ed esperienza etica,
che capiremo come l’opposizione diventi una vera e propria contraddizione e
capiremo come la contraddizione che abita in ciò che è “intimior intimo meo”,
così prossimo a noi da costituire davvero la nostra anima, la nostra carne ( e
che cosa se non eros ed ethos? ), come la contraddizione sia proprio in questa prossimità.
Ma lo scopriremo appunto esaminando separatamente le due forme. Perché c’è
opposizione in eros? L’abbiamo definito come gioioso, libero, come espressione
di una vitalità che non conosce ostacoli. Non è forse vero che eros è
trasgressione? Ma non carichiamo subito questa parola di un significato morale:
no, siamo prima, siamo al di qua della morale. Parliamo dunque di trasgressione
nel senso letterale del termine, nel senso di una spinta, di un movimento teso
a rompere tutti i vincoli. Quindi siamo ancora sul piano di una fenomenologia
che non chiama in causa la morale. Eros è questo transgredior, questo superare
il limite che eros stesso pone a sé stesso per essere quello che è. Cosa
c’entra la morale con eros, se eros è questo? Come è pensabile un intimo
dissidio di eros con eros? I Greci lo hanno pensato. Quando ci troviamo di
fronte a queste difficoltà, definita filosoficamente la categoria, 5
sembrerebbe non si dovesse più procedere oltre, invece sappiamo che
l’esperienza erotica è molto più complessa, che non è questa pura e semplice,
come qualcuno vorrebbe, espressione pulsionale di sé che non dà ragione di sé,
bensì un’esperienza terribilmente complessa. E allora come la mettiamo? La
filosofia ci dice che è trasgressione, movimento libero verso la liberazione da
tutti i vincoli. Il mito, e di nuovo la religione, ci dice che è cosa molto,
molto più complessa. E come avevano rappresentato questa complessità i Greci?
Attraverso i miti, come sappiamo. I miti sono questo: servono a dire delle cose
che la filosofia non riesce a dire, o che il linguaggio comune non riesce a
dire. Ci sono tanti miti nella cultura greca che parlano di eros, infiniti, ma
non soltanto nella cultura greca, anche in quella indiana, anche in tante
altre. Ma alcuni in particolare: intanto quello che identifica eros con Fanes
Protogono. Chi è Fanes Protogono? Fanes Protogono è qualcuno, qualche cosa che
viene prima della stessa formazione del mondo, e quindi del costituirsi di
figure archetipiche nel mondo che sono gli dei; Fanes ( “ fainetai”) è questa
accensione originale che fa sì che il mondo, che era, secondo il mito di Fanes
Protogono, tutto raccolto in un nucleo simile ad un punto ( pensate a quale
profondità di intuizione erano arrivati i Greci), per questa improvvisa
accensione si spacchi, si scinda come sotto una spinta, una forza assolutamente
sorgiva, che non è governata da figure archetipiche, dagli dei, ma che è
assolutamente iniziale. Questa realtà tutta compressa, tutta compresa in un
unico punto, per così dire a seguito di questa cosiddetta accensione, esplode,
e questa esplosione dà luogo alla terra e al cielo, perciò la terra e il cielo,
a partire da questa esplosione, non potranno che sempre di nuovo cercare di
ricongiungersi. Urano e Gea, il cielo e la terra, originariamente uniti, a
seguito della esplosione cercano di ricongiungersi, grazie a eros, Fanes
Protogono, cioè il principio primo, il principio originariamente generatore,
che è la luce. Eros è questa accensione, questa forza ricongiungente dei due. Dentro
questo mito che cosa scopriamo? Il carattere assolutamente non morale di eros.
Eros è quello che è, non è neppure un dio, è luce, è manifestazione, è pura
forza esondante, quella pura forza esondante che ciascuno di noi prova in sé,
nelle varie forme in cui eros si manifesta, che, come sapevano i Greci, sono
infinite. Basta leggere il Simposio per capire come Platone sapesse delle varie
forme di eros. Ma che cosa accade? Accade qualche cosa di tremendo, il tremendo
che è in eros: accade che nel momento in cui la terra e il cielo si scindono in
due, in una sorta di mattino del mondo nasce Afrodite che è la dea dell’amore,
che è la dea, a seguito di questa vicenda, chiamata a incarnare, a
personificare, la forza originariamente creatrice. Ma chi è Afrodite? E’ la dea
della doppiezza, e i poeti greci così l’ hanno descritta: è la dea della
felicità, della gioia, della gioia di vivere che non dà ragioni di sé, è la dea
al di là del bene e del male, è la dea al di qua del bene e del male. Ma
Afrodite è anche la dea che nasconde il tremendo da cui proviene, tanto è vero
che lo stesso mito greco ci parla di questo mattino del mondo: e cosa c’è di
più bello che il sorgere di Afrodite dalla spuma del mare, che cosa c’è di più
innocente, di più incantevole? E tuttavia quella spuma del mare è memoria di un
atto di sangue: la spuma del mare è il sangue stilato, e anzi sangue- liquido
seminale, stilato dal sesso di Urano, castrato dal suo stesso figlio. Capite
che cosa dicono i Greci? Che cosa tiene insieme nell’idea di eros l’uomo greco?
Gli opposti: l’innocenza, la perfezione in quanto è l’emergere della vita da sé
stessa, la vita che non dà ragione di sé, la vita che è quello che è, al di là
del bene e del male, tuttavia su uno sfondo cupo di sangue. Il fanciullo innocente
è nello stesso tempo colui che ha memoria del tremendum, con buona pace dei
teorici, quanti sono oggi, delle emancipazioni a buon mercato: “Liberatevi dai
tabù, abbandonatevi!” Tutte cose belle, per carità, non voglio dire che non ci
si debba anche liberare dai tabù, però le cose sono un po’ più complicate: la
liberazione( tesi) è necessaria, e tuttavia sta a fronte( antitesi) di qualche
cosa come gli orrori delle origini. Quando ci si interroga sul fatto, sul
rapporto eros e violenza, per esempio, perché chiudere gli occhi di fronte a
6 questa che è realtà umana, più che umana? Bisogna pensare come
hanno pensato i Greci, o come hanno pensato gli Indiani in modo forse meno
cupo, in modo meno metafisico, ma altrettanto espressivo, con la figura della
donna che volge lo sguardo, dell’amante che raggiunge l’amato ( che è un tema
iconografico di molta arte indiana, di molta arte erotica dell’India ), della
donna che si butta nel fiume per raggiungere l’amato, ma volge lo sguardo, e
questo sguardo è pieno di malinconia per tutto ciò che lascia: siamo fatti di
una irriducibile doppiezza, ci dice il mito. Certo che è necessario gettarsi,
raggiungere l’amato, ma non ci è dato di farlo ( è la dinamica della
trasgressione ), se non volgendo lo sguardo verso tutto ciò che abbiamo perso,
che stiamo perdendo, che potrebbe essere la rottura del patto. E questo che
cosa vuol dire? Vuol dire che eros, l’innocenza stessa, in modo del tutto
contraddittorio, si lega al suo contrario, a qualcosa come la colpa: ecco come
eros è portatore di una contraddizione. Ma lo stesso vale per ethos. Ethos è in
sé stesso contraddittorio, e sono ancora una volta i Greci che ci dicono
questo. Della profondità del mito greco si era accorto Aristotele, per primo,
che io sappia, quando, guardando al mito, ha scoperto che la parola greca ethos
( da cui etica, naturalmente, ) si dice in due modi, o meglio si dice in un
modo solo ma si scrive in due ( è una anomalia del Greco che forse non ha altri
esempi così clamorosi ): ethos in greco si scrive con la ipsilon, e con la eta,
e se scritta con la ipsilon vuol dire una cosa, se scritta con la eta vuol dire
un’altra cosa, o meglio, vuol dire la stessa cosa , ma un po’ diversa . Se
scritta con la eta , ethos fa riferimento alla dimora, alla casa. E allora che
cos’è ethos? Ethos è la convenzione, sono gli usi, i costumi, le abitudini, da
cui abitus, le virtù, come abiti che indossiamo che ci portano a compiere certe
cose, a comportarci in un certo modo. Ma perché ci comportiamo in un certo
modo? Perché siamo stati educati, perché abbiamo accolto in noi, essendo stati
accolti da una comunità e cioè dalla casa anzitutto, quelle leggi, quei
comportamenti, quel modo di vedere, che è proprio di ethos con la eta. Qui a
essere privilegiato è il riferimento al sentire comune, alla comunità: ethos
come appartenenza ad una comunità, che mi impone di non pensare tanto a me
stesso quanto agli altri, di riconoscermi all’interno di una tradizione e così
via. Ma se io lo scrivo con la ipsilon, allora vuol dire carattere, che
appartiene a me, è solo mio : l’ethos è il mio demone, è qualche cosa che mi
dice: “ Tu devi fare questo”. “No”. “ Ma sei contraddetto da tutti, non è
accettabile che tu non faccia questo, la società ti condanna”. “ Che mi
importa, lo devo fare, perché so, ma in base a quale sapere?” “In base ad un
sapere demonico, cioè che non dà ragioni di sé. Sapere di cui io mi faccio
carico, costi quello che costi”. Guai se ethos fosse solo sapere demonico, se
fosse solo carattere, perché allora l’etica sarebbe una cosa terribile, sarebbe
cosa tragica, darebbe luogo a scontri senza fine, senza un terzo che faccia da
medio, se è giusto quello che io sento giusto. L’io, la coscienza: se ethos
fosse solo questo sarebbe terribile. Ma guai se ethos fosse soltanto quell’altro:
abitudine, tradizione, leggi e così via. Facciamo il caso che la società alla
quale appartengo, nella quale mi riconosco, mi condanni legalmente e in base a
dei principi riconosciuti come giusti, mi condanni per esempio a essere
deportato. Immaginate un’ etica che sia soltanto etica pubblica, un’ etica
della tradizione condivisa, immaginate di togliere a me o a chi per me il
diritto di dire no, anche se la società alla quale appartengo mi condanna, di
rivolgermi al mio Dio, per invocarlo, o per bestemmiarlo, dicendo:” Non è
giusto”. Non dimentichiamo mai Auschwitz, ma non dimentichiamo mai che tutto
quello che è accaduto in quegli anni è accaduto legalmente: le deportazioni
erano leggi dello stato tedesco, non si tratta di qualcosa avvenuto nascostamente,
bensì di leggi dello stato tedesco. L’etica che fosse soltanto l’etica, la casa
della comunità di appartenenza, della polis, dello stato, potrebbe non essere
un’etica a sua volta monca, terribilmente manchevole? Già, ma come fanno a
stare insieme ethos ed ethos, ethos con la eta e ethos con la ipsilon? Come far
stare insieme le leggi della pietà, per esempio, come sa bene Antigone, e le
leggi 7 della città? Le leggi di coloro che stanno sotto la luce
del sole e le leggi sotterranee, degli dei, che stanno sotto? Contraddizione,
la contraddizione di ethos. Voi direte, ma che cosa c’entra questo discorso con
la violenza? E’ lo stesso discorso. In che senso? Abbiamo visto, e mi avvio
alla conclusione, come la violenza sia un dato di natura, anzi, è la natura che
è in noi, è uno stato, tanto è vero che si parla di stato di natura: è
quell’emergere di forze oscure, che ci riportano al luogo da cui proveniamo,
che è la selva. E’ la linea maestra del pensiero moderno e contemporaneo, e
abbiamo visto che non basta dire questo. Le cose non stanno così, perché qui
c’è una contraddizione . La contraddizione è sollevata dalla affermazione che
la violenza dell’uomo sull’uomo è sì qualche cosa che lo accomuna alla bestia
feroce, ma nello stesso tempo è qualche cosa che lo rende irriducibilmente
diverso dalla bestia feroce. La violenza è sì cosa che implica la non
trascendibilità dello stato di natura, ma questa non può che essere vissuta
come condanna che implica il trascendimento. Lo stato di natura è uno stato che
io posso pensare solo come stato di gettatezza, avrebbe detto Heidegger.
Senonché per Heidegger la gettatezza, la deiezione, il mio trovarmi come
gettato in questo mondo, non ha più né capo né coda, non ha più un da dove sono
gettato e un verso dove vado. E in questo senso Heidegger in fondo resta
all’interno della tradizione tipicamente moderna che ritiene intrascendibile
questo stato. Non così là dove questo stato venga vissuto, venga letto, nel suo
valore simbolico. Lo dice bene Pascal: “ Tutto è simbolo, quella natura
caotica, così confusa, non fa che ricordarmi che questo non può essere il mio
mondo, è il mio mondo e per viverci lo devo accettare, e tra questo mondo, e
l’infinito, e l’assoluto, un abisso mi separa: non c’è verso, filosoficamente, di
costruire un ponte tra il qui e ora, il qui di leggi contraddittorie, e
l’origine. Tuttavia, in questo mondo io vivo come uno straniero, come uno che è
stato gettato da un altrove, la cui chiave la possiede non la filosofia ma la
religione: la caduta, il peccato originale.” Lo stesso discorso vale per la
contraddizione, il rapporto contraddittorio di eros ed ethos. Noi vorremmo
potere riferirci, così come nel caso della violenza ci siamo riferiti, a
qualche cosa di ultimo, qui riferirci a qualche cosa di primo, eros ethos, di
prossimo, di propriamente nostro a cui ancorarci, vorremmo poterlo fare. E che
cosa se non ancorarci a eros, se non ancorarci a ethos? E’ esperienza che tutti
fanno, se pure in forme molto diverse: l’esperienza che vorremmo gioiosa di eros
e seria di ethos, e lì restare, restare in questa prossimità, in questa
intimità di noi con noi stessi, in definitiva rassicurante. Eros è la gioia: “
Abbandonati”; ethos è il dovere: “ Rispetta”. Già, ma questa intimità, di noi
con noi stessi, è contraddittoria, ovvero “intimior intimo meo”. Nel punto in
cui noi ci troviamo più intimi con noi stessi, noi siamo per così dire
scavalcati, trascesi da un movimento che fa cenno a qualche cosa che è
assolutamente altro rispetto a questa pretesa di raccoglierci in una certezza,
la certezza di eros e la certezza di ethos. Tanto è vero che non solo eros ed
ethos stanno tra loro in opposizione, ma è una opposizione contraddittoria
perché il dissidio è sia nella forma dell’esperienza erotica, sia nella forma
dell’esperienza etica. “Intimior intimo meo”: qui davvero varrebbe la pena di
parafrasare Agostino, e ricordare che nel momento in cui io sono più prossimo a
me stesso in realtà sono infinitamente lontano, sono per così dire costretto a
trascendere, trascendere me stesso.Sergio Givone. Givone. Keywords: phanes, eros/ethos;
phanes protogono, convito di platone, pareyson. storia naturale dell nulla,
unelongated history of negation; Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Givone” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755894963/in/dateposted-public/
Grice e
Gobetti – il partito liberale italiano – il partito socialista italiano –
filosofi contro il regime -- (Torino). Filosofo. Grice: “Italian philosophy
is political in a way pinko Oxonian one ain’t: Gobetti is the exception that
DISproves the rule!” -- “Lo Stato non professa un'etica, ma esercita un'azione
politica.” (La Rivoluzione Liberale.) Considerato un degno erede della
tradizione filosofico-politica post-illuminista e liberale che aveva guidato
molte delle migliori menti dell'Italia dal Risorgimento fino a poco tempo
prima, purtuttavia di stampo profondamente sociale e sensibile alle istanze del
socialismo e di conseguenza alle rivendicazioni del movimento operaio, fondò e
diresse le riviste Energie Nove, La Rivoluzione liberale e Il Baretti, dando
fondamentali contributi alla vita politica e culturale, prima che le sue
condizioni di salute, aggravate dalle aggressioni subite, ne provocassero la
morte prematura a nemmeno 25 anni durante l'esilio francese. Gaetano Salvemini
«Era alto e sottile, disdegnava l'eleganza della persona, portava occhiali a
stanghetta, da modesto studioso: i lunghi capelli arruffati dai riflessi rossi
gli ombreggiavano la fronte. (Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di
Gobetti»,). Figlio unico di Giovanni Battista, commerciante, e di Angela
Canuto, una «piccola donna bruna e tonda, gentile e modesta, capace tuttavia
non solo di grande abnegazione per il figlio unico che adorava, ma anche di
strenuo lavoro e di sagace giudizio». I suoi genitori, originari entrambi di
Andezeno, avevano aperto nel capoluogo piemontese una drogheria nella centrale
via XX Settembre. “Mio padre e mia madre avevano un piccolo commercio.
Lavoravano diciotto ore al giorno. Il mio avvenire era il loro pensiero
dominante. L'impegno del loro lavoro era di arricchire permettersi e
permettermi una vita dignitosa. In quanto a me pensavano di dovermi dare
un'istruzione, quella che essi non avevano potuto avere.” Dopo gli studi
elementari presso la scuola Giacinto Pacchiotti, s'iscrive al ginnasio Cesare
Balbo: scrive di sé di quegli anni, in terza persona, che «gli pesava
un'amarezza, uno sconforto, che nei ragazzi di dodici anni segnano inquietudini
fruttuose. Si vedeva troppo poco stimato, troppo solo, troppo malsicuro del
domani. Aveva dei dubbi strani sulle sue stesse attitudini. Un'adolescenza che
s'ispirava a motivi così integrali doveva dargli una tragica forza. Trasferitosi
poi presso il liceo classicoVincenzo Gioberti, dove conosce Prospero, sua
futura moglie, ha per professori Cosmo e Giuliano, un gentiliano che collabora
alla rivista L'Unità Salvemini. Questi
gli ispira quei sentimenti di patriottismo e di interventismo democratico che
sono propri del Salvemini, spingendolo ad anticipare di un anno l'esame di
maturità per poter così andare, libero da impegni, volontario nella prima
guerra mondiale. Luigi Einaudi La guerra è ormai conclusa s'iscrive a Torino,
la stessa che egli aveva già frequentato, ancora liceale, per seguirvi alcuni
corsi di filosofia. Tra i suoi insegnanti vi sono Einaudi, da cui «rafforza il
suo primitivo, spontaneo anti-statalismo, in cui s'incontrano liberalismo,
liberismo e quello stesso libertarismo che gli è congeniale --, Farinelli,
Mosca, Prato, Ruffini e Solari, con il quale sosterrà la tesi di laurea, “La
filosofia politica di VAlfieri. Non solo: a settembre aveva scritto
all'amica Ada di aver deciso di fondare un periodico che s'occuperà di filosofia,
questioni sociali è fatto di soli giovani si tratta di opera di intensificazione
di cultura e di azione e tutti i giovani devono aiutarla. Esce il primo numero
del quindicinale “Energie Nove” nel quale scrive di voler «ortare una fresca
onda di spiritualità nella gretta cultura di oggi non c'è mai momento inopportuno
per lavorare seriamente. Ispirata alle
idee liberali di Einaudi, è vicina all'Unità di Salvemini, del quale riporta,
nel secondo numero, l'aspra critica alla classe dirigente. L'Italia ha vinto.
Ma se avesse avuto una classe dirigente meno incolta, più consapevole delle sue
tradizioni e dei suoi doveri, meno avida moralmente, l'Italia avrebbe vinto
assai prima e assai meglio. È finita o sta per finire una guerra. Ne comincia
un'altra. Più lunga, più aspra, più spietata. L'altra «guerra più lunga e
spietata è quella della riforma del Paese, una riforma che dev'essere, nelle sue
intenzioni Gobetti, innanzi tutto culturale e morale, e per la quale occorre
serietà e intensità al lavoro secondo i motivi di quellidealismo militante che
ha animato La Voce di Prezzolini, altro nume ispiratorei. Era doveroso
partecipare in prima persona al dibattito politico e intellettuale
contemporaneo. Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di Piero Gobetti. Sospende
la pubblicazione della rivista per poter partecipare, a Firenze, al I Congresso
degli Unitari, i sostenitori della rivista di Salvemini, della quale egli è
fondatore e rappresentante del Gruppo torinese. Può così conoscere di
persona l'intellettuale pugliese e ne è entusiasta. “Salvemini è un
genio.” “Me lo immaginavo proprio così. L'uomo che sviscerale questioni, che la
fa smettere agli importuni e ti presenta tutte le soluzioni in due minuti,
definitive.” “Un'altra persona di cui sono entusiasta è Prezzolini, franco, semplice,
pratico.” “Editore propriamente come lo pensavo io.” “L'editore più intelligente
d'Italia.” A seguito del Congresso, gli Unitari fondano la Lega democratica per
il rinnovamento della politica nazionale, una formazione politica che non
riuscirà nemmeno a presentarsi alle elezioni e avrà vita breve. Alle elezioni
politiche dell'anno seguente, Salvemini si candiderà con successoin una
formazione di ex-combattenti. Salvemini deve aver compreso le qualità di
Gobetti se arriva a offrirgli la direzione de L'Unità, una proposta che però,
lascia cadere. Non si sente pronto per tanto impegno, come scrive nel suo
diario: “Com'è vasta la cultura che devo conquistare!” E non basta conquistare
il vecchio. Sono giovane e devo anche produrre, creare quel po' che si può
creare. Ho tutta la vita davanti per sedermi in campagna, davanti al camino, a
mangiare pane e noci. Ho una responsabilità. Devo espormi in prima persona.
Perciò faccio la rivista. Voglio impormi nel lavoro». E s'impone un piano di
studi. “Gentile, ciò che non conosco ancora, rileggerò Croce avvierò lo studio
del Marxismo. Per ora non mi preme. Basta che mi formi un'idea generale di Marx
e della critica marxista (Sorel, Labriola, ecc.). “D'altra parte studio il
bolscevismo, minutamente». Un suo grande ispiratore fu certamente il socialista
Jaurès. Il primo numero di Energie Nove Queste note sembrano
riflettere anche la polemica che, appena riprese le pubblicazioni, Energie Nove
aveva avuto con L'Ordine Nuovo al tempo sprezzantemente definito dallo stesso
Gobetti un «giornaletto torinese di propaganda» di Togliatti, che aveva accusato
Gobetti di idealismo astratto, e di Gramsci, che aveva definito velleitaria la
Lega democratica, un ricettario per cucinare la lepre alla cacciatora senza la
leper. Ora ivi è il segno di un'inquietudine nuova, provocatagli
dall'esperienza della rivoluzione russa e dallo sviluppo del movimento operaio,
molto attivo a Torino. Pubblica due numeri unici sul socialismo, conosce
personalmente Gramsci, stimandolo e venendone apprezzato, del quale pubblica un
articolo, studia il russo con la fidanzata Ada insieme curano “Il figlio
dell'uomo” di Andreev, pubblicato dall'editore Sonzogno ed scrive, criticando
la politica sviluppata da d'Annunzio in forma di retorica, che la politica oggi
deve essere realizzata come forma di educazione. La simpatia che io provo per
Trotzchi [sic] e Lenin sta nel fatto che essi in un certo modo sono riusciti a
realizzare questo valore. Sebbene restio a sposarla (emblematica fu la risposta
«Grazie, non fumo…»), nella considerazione del rapporto con la fidanzata si
rivela anche la sua profonda maturità e serietà morale: Ho dovuto rifarmi un
senso morale, un senso della vita forte a sedici anni, in gran parte a
diciassette, e siccome me lo son fatto pensando a lei, gliene sarò grato
sempre. Una fanciulla come io la sognavo sola poteva darmi un senso immediato
di elevazione. Ho creduto in lei e la amo tanto perché mi fa credere ancora
adesso. La rivista Energie Nove cessa le pubblicazioni. Sentivo bisogno di
maggiore raccoglimento e pensavo una elaborazione politica assolutamente nuova,
le cui linee mi apparvero di fatto nel settembre al tempo dell'occupazione
delle fabbriche. Devo la mia rinnovazione dell'esperienza salveminiana al
movimento dei comunisti torinesi da una parte (vivi di un concreto spirito
marxista) e dall'altra agli studi sul Risorgimento e sulla rivoluzione russa
che ero venuto compiendo in quel tempo», e in giugno si consuma anche il
distacco con la Lega democratica degli amici di Salvemini. Continua le
traduzioni dal russo ed intraprende quelle dal francese dei modernisti Blondel
e Laberthonnière lo studio sulla filosofia di quest'ultimo gli è suggerito da Solarie
cerca di rintracciare le radici del Risorgimento italiano studiando la cultura
piemontese del Sette-Ottocento. Io seguo con simpatia gli sforzi degli
operai che realmente costruiscono un ordine nuovo. Non sento in me la forza di
seguirli nell'opera loro, almeno per ora. Ma mi par di vedere che a poco a poco
si chiarisca e si imposti la più grande battaglia del secolo. Allora il mio
posto sarebbe dalla parte che ha più religiosità e spirito di sacrificio.
(Piero Gobetti, lettera ad Ada Prospero). Quando, ai primi di settembre, la
FIAT e le altre maggiori fabbriche torinesi sono occupate dagli operai, Gobetti
scrive: Qui siamo in piena rivoluzione. Io seguo con simpatia gli sforzi degli
operai che realmente costruiscono un mondo nuovo il mio posto sarebbe
necessariamente dalla parte che ha più religiosità e volontà di sacrificio. La
rivoluzione si pone oggi in tutto il suo carattere religioso. Si tratta di un
vero e proprio grande tentativo di realizzare non il collettivismo ma una
organizzazione del lavoro in cui gli operai o almeno i migliori di essi siano
quel che sono oggi gli industriali». Si tratta, a suo avviso, di una
rivoluzione che se non rinnoverà gli uomini, e perciò neanche la nazione, potrà
almeno rinnovare lo Stato, creando una nuova classe dirigente: «si può
rinnovare lo Stato solo se la nazione ha in sé certe energie (come ora appunto
accade) che improvvisamente da oscure si fanno chiare e acquistano possibilità
e volontà di espansione». La presa di distanza dall'azione politica di
Salveminila sua ammirazione personale nei suoi confronti resterà comunque
intattaè ora piena: gli rimprovera, come scriverà pochi anni dopo, diintendere l'azione
politica unicamente come «una questione di morale e di educazione»: il suo
«moralismo solenne, mentre costituisce il suo più intimo fascino, appare il segreto
delle sue debolezze, La sua concezione razionalista si risolve in un'azione di
illuminismo e di propagandismo, che può riuscire utile a una società di
cultura, non a un partito». Prosegue i suoi studi sul Risorgimento e
sulla Russia, terminando in ottobre La Russia dei Soviet: è la volontà di
comprendere funzioni e limiti di due esperienze rivoluzionarie, al cui centro è
sempre il problema della formazione della classe politica che diriga un Paese e
dei suoi rapporti con la popolazione. Ne conclude che il Risorgimento non può
considerarsi un'esperienza rivoluzionaria, dal momento che i dirigenti politici
che espresse rimasero estranei rispetto al popolo, diversamente dalla
rivoluzione sovietica che, a suo avviso, ha espresso dirigenti come Lenin e
Trotskij, che non sono soltanto dei bolscevichi, ma «uomini d'azioni che hanno
destato un popolo e gli vanno ricreando un'anima» e, del resto, la creazione
dal basso di un nuovo Stato, nel quale il popolo abbia fiducia proprio in
quanto avvertito come opera propria, «è essenzialmente un'affermazione di
liberalismo» Sono concetti ripresi in un articolo pubblicato su
L'Educazione nazionale, il Discorso ai collaboratori di Energie Nove, nel quale
individua nel movimento operaio un «valore nazionale»: la novità, venuta dalla
Russia e che sembra farsi strada anche in Italia, consiste nel fatto che «il
popolo diventa Stato. Nessun pregiudizio del nostro passato ci può impedire la
visione del miracolo. Questo non avrebbero fatto i liberali, questo non possono
fare dei marxisti. Il movimento operaio è un'affermazione che ha trasceso tutte
le premesse. È il primo movimento laico d'Italia. È la libertà che
s'instaura». Il suo avvicinamento alle posizioni dei giovani comunisti
dell'Ordine Nuovo ha anche il concreto effetto di una collaborazione e Gobetti
diventa il critico teatrale della rivista. A luglio, a Torino, deve assolvere
gli obblighi di leva: «la vita militare è la consacrazione di tutti gli egoismi
e di tutte le meschinità la meccanicità pervade ogni forma di vita; tutto si
riduce a elemento, a vegetazione. La caserma è l'antitesi del pensiero. Esce il
primo numero della sua nuova rivista settimanale, La Rivoluzione liberale, in
cui collaboreranno spesso anche Fortunato, Gramsci e Sturzo: l'obiettivo, come
indicato nell'Avviso ai lettori, è pur sempre quello di Energie Nove, ossia di
formare una classe politica nuova ma, ora si aggiunge, che sia cosciente delle
esigenze sociali nascenti dalla partecipazione del popolo alla vita dello Stato.
E poiché l'Unità di Salvemini ha cessato le pubblicazioni, La Rivoluzione Liberale
intende proseguire quegli sforzi di riorganizzazione morale che nell'Unità si
avvertirono. E nel Manifesto inaugurale espone il programma della rivista. La
Rivoluzione Liberale pone come base storica di giudizio una visione integrale e
rigorosa del nostro Risorgimento; contro l'astrattismo dei demagoghi e dei
falsi realisti esamina i problemi presenti nella loro genesi e nelle loro
relazioni con gli elementi tradizionali della vita italiana; e inverando le
formule empirico-tradizionaliste del liberismo classico all'inglese, afferma
una coscienza moderna dello Stato, che prenda in considerazione anche i più
sottili, ma non di certo trascurabili, trapassamenti dialettici della storia. Vi
pubblica la Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale e a maggio
dedica un numero intero all'emergente movimento fascista. Il mese successivo
consegue la laurea e, l'anno seguente, pubblicherà la sua tesi sull'Alfieri. E vivamente
colpito dagli scritti del patriota e federalista italiano Cattaneo, del quale è
uscita in quei giorni un'antologia curata da Salvemini, che egli incontra a
Torino. Su Cattaneo ci siamo intesi, egli è assai vicino alle idee che gli ho
espresso. Su Cattaneo scrive un articolo sull'Ordine Nuovo sono i giorni della
devastazione fascista della sede della rivista comunista firmandosi Giuseppe
Baretti: rappresentante della critica del processo unitario risorgimentale,
Cattaneo fu emarginato dalla classe dirigente moderata. Eppure Cattaneo avversò
non l'unità, ma l'illusione di risolvere con il mito dell'unità tutti i
problemi che invece si potevano intendere soltanto nella loro specifica realtà
autonoma, regionale senza atteggiarsi a profeta, senza l'enfasi dell'apostolo,
capì che il fondare una nazione non era impresa di letterati entusiasti, cercò
nelle tradizioni un linguaggio di serietà, un ammaestramento di cautela. E lo
condannarono alla solitudine e all'impopolarità, e diedero a lui, uomo positivo
e realista, un ufficio di Cassandra, predicante al deserto. Favorito
dall'inerzia dei Savoia e dalla complicità dei dirigenti liberali, il fascismo
procede alla conquista del potere e Gobetti non s'illude che con esso si possa
venire a compromessi e lo si possa acquistare alla causa democratica. Scrive
L'elogio della ghigliottina: bisogna sperare «che i tiranni siano tiranni, che
la reazione sia reazione, che ci sia chi abbia il coraggio di levare la
ghigliottina, che si mantengano le posizioni fino in fondo. Chiediamo le
frustate, perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia, perché si possa veder
chiaro» e che «noi siamo come la dura scorza di una noce: proteggeremo i nostri
ideali dalla sopraffazione con tutte le nostre forze e fin quando possibile».
Sposa Prospero: vanno ad abitare nella sua casa natale di via XX Settembre 60,
che diviene anche la sede della casa editrice che egli fonda, col suo nome: la Gobetti
editore, che pubblicherà, in poco più di due anni, oltre cento titoli. In
qualità d'editore, Gobetti porta in Italia, traducendoli, alcuni dei libri e
degli autori simbolo del pensiero liberale classico, come Mill. È tra i primi a pubblicare i libri di Einaudi
ed è lui a pubblicare la prima edizione di Ossi di seppia, una delle più famose
raccolte di poesia di Montale. I libri editi furono in molti casi dati alle
fiamme o comunque distrutti sotto il fascismo e, per questo motivo, sono in
molti casi introvabili, come il volume dedicato al socialista Matteotti, di cui
esistono pochissime copie. Tutti i suoi libri riportano in copertina un
motto liberale, scritto in greco antico in modo circolare, che recita
testualmente "Cosa ho a che fare io con gli schiavi?". Gobetti e Prospero
si trasferiranno poi in via Fabro 6, attuale sede del Centro di studi a lui
intitolato. E arrestato perché sospetto di appartenenza a gruppi sovversivi che
complottano contro lo Stato. Rilasciato cinque giorni dopo, subisce un nuovo
arresto, provocando un'interrogazione parlamentare alla quale il governo
risponde che era stato redattore dell'Ordine Nuovo di Torino, giornale anti-nazionale;
la rivista che egli dirige, conduce da tempo una campagna contro le istituzioni
e il governo fascista; il prefetto si è perciò sentito in diritto di far
operare una perquisizione e il fermo di Gobetti per misure di ordine
pubblico». Gobetti replica con una lettera ai giornali, ribadendo la sua
funzione di oppositore del fascismo, e aggiunge, nei libri stampati dalle sue
edizioni, il motto «Che ho a che fare io con gli schiavi?». Dopo aver preso le
distanze dal Prezzolini, che ha scelto il disimpegno di fronte al fascismo,
rinnega anche il suo originario gentilismo. Gentile è incapace di dar ragione
di ogni fatto politico, nel suo semplicismo pratico la filosofia gentiliana
mostra caratteristicamente i suoi limiti e la nessuna aderenza al reale. Le
tematiche liberali maggiormente sentite trovano una prima e ultima sistemazione
in La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, frutto
maturo delle esperienze giornalistiche precedenti, dato alle stampe. L'opera è
divisa in quattro parti: L'eredità del Risorgimento, La lotta politica in
Italia, La critica liberale, Il fascismo. La fretta con cui vuol dare alle
stampe questo saggio di lucida analisi politica gli impedisce di curare bene le
parti marginali. Così succede che "L'eredità del Risorgimento"
venga solo abbozzata: «Il problema italiano non è di autorità, ma di autonomia:
l'assenza di una vita libera fu attraverso i secoli l'ostacolo fondamentale per
la creazione di una classe dirigente, per il formarsi di un'attività economica
moderna e di una classe tecnica progredita. Un Risorgimento calato dall'alto,
che di popolare non aveva nulla. La sfida era riempire di liberalità le
istituzioni liberali formalmente create. Nel primo dopoguerra assiste a
qualcosa di assolutamente nuovo: la nascita dei partiti di massa (Partito
Popolare Italiano e Partito Comunista d’Italia saranno una prima versione dei
due partiti più importanti della cosiddetta Prima Repubblica. Ma questo non
basta. Per anni la lotta politica non riuscì a dare la misura della lotta
sociale. Una cosa erano le questioni politiche, un'altra le esigenze sociali,
ma queste «non possono essere separate dalla politica al pari di come un felino
astuto non si ciberà del formaggio ma ne farà da esca per il topo». La seconda
parte si divide in sei capitoli. Ciascun capitolo è un fattore della lotta
politica: sono presenti liberali e democratici, popolari (sviluppate le figure
di Toniolo, Meda e Sturzo), socialisti, comunisti (grande spazio dato a Antonio
Gramsci), nazionalisti (emblematico il pensiero di Alfredo Rocco) e repubblicani. La
terza parte è il cuore pulsante del saggio: una proposta concreta per fare
politica senza dimenticare la società. La lotta di classe è per Gobetti
strumento di formazione di una nuova élite, una via di rinnovamento popolare.
Insomma, la lotta politica deve essere lotta sociale. In politica
ecclesiastica, si rifà alla pregiudiziale cavouriana della laicità, come
necessità da mantenere (cosa che verrà invece negata dai Patti Lateranensi).
Per la discussione sulle modalità d'elezione, è convinto fautore della proporzionale. Il
collegio uni-nominale aveva corrotto il rappresentante in tribuno. Solo
con la proporzionale gli interessi si organizzano, così che l'economia venga
elaborata dalla politica. Di grandissima attualità è la parte dedicata al
problema dei contribuenti. Il contribuente italiano paga bestemmiando lo Stato.
Non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana.
L'imposta gli è imposta. Una rivoluzione di contribuenti in Italia in queste
condizioni non è possibile per la semplice ragione che non esistono
contribuenti. Era quindi necessario per lui raggiungere una maggiore maturità
economica e sociale. Il popolo doveva comprendere l'importanza di contribuire
nello Stato, e imparare il valore dell'onestà. Per questo richiama attenzione
sul problema scolastico. In un mondo fatto per grossa parte da analfabeti o
semi--analfabeti, la questione era fondamentale. Manca un numero sufficiente di
maestri, perciò si sarebbe dovuto mobilitare chiunque in grado di saper
insegnare (anche preti, massoni, bolscevichi e così via). La questione
non evita di trattare l'aspetto economico. Contro il parassitismo pensa che
fosse utile tagliare stipendi e investimenti, così da distinguere la vocazione
all'insegnamento dalla vocazione al parassitare. In politica estera prospetta
un ruolo importante per l'Italia a Versailles. E convinto della possibilità di
ottenere un buon accordo attraverso una mediazione. Nella quarta ed ultima
parte vi è una rapida esposizione del perché si oppone con ogni mezzo al fascismo.
Si è detto che per l'autore la lotta sociale deve essere portata in Parlamento
e dar vita a una lotta politica efficiente ed efficace. Mussolini invece
fece in modo da soffocare la lotta politica, quando questa più di ogni altra
cosa era necessaria all'Italia. Così il Duce e «l'eroe rappresentativo di
questa stanchezza e di questa aspirazione di riposo» che si esplicava nel
tacito consenso della popolazione allo sradicamento di ogni lotta politica
nella nazione. In modo profetico, da esperto conoscitore del pensiero di Hegel
qual era, prevede e mette in guardia delle conseguenze della concessione del
potere a Mussolini secondo le dinamiche della dialettica “servo-signore”
ipotizzando una guerra civile imminente. Il saggio è fortemente militante.
Nella nota a conclusion, è chiaro: cerca collaboratori, non lettori. vuole la
"rivoluzione liberale", cioè un nuovo liberalismo; nutre una forte
avversione per il fascismo, anche perché non è qualcosa di nuovo ma, anzi, il
risultato ottenuto da coloro che hanno governato l'Italia: è quindi una
condanna della vecchia classe dirigente liberale. Il fascismo nasce
dall'invadenza del cattolicesimo e dalla demagogia dell'Italia liberale: Fascismo
come autobiografia della nazione, il fascismo è, insomma, solo l'incancrenirsi
dei mali tradizionali della società italiana. La società tradizionale
italiana re-agisce sostenendo una forza conservatrice come quella del fascismo,
anche se in realtà qualcosa di buono nell'Italia del primo dopo-guerra vi era
stato: il proletariato (soprattutto quello torinese) che tenta di assumere su
di sé la responsabilità di mutare lo stato delle cose. La borghesia ha perso
ogni funzione propositiva. La borghersia è una classe parassitaria che si è
adagiata e aspetta tutto dallo Stato. Si blocca così ogni istanza di
rinnovamento. La funzione liberale e libertaria è assunta dal proletariato. Le
considerazioni politiche di risentono della sua opinione sulla storia italiana,
in “Risorgimento senza eroi” Gobetti descrive questo periodo come un'epopea
patriottarda di cui simbolo è Mazzini (tante parole, pochi fatti): al
Risorgimento sono mancati il pragmatismo e il realismo. Ci sono due eroi
nel Risorgimento e sono Cattaneo e Cavour, due figure assai distanti tra loro
ma accomunabili per il loro pragmatismo: Cattaneo gli piace a per la sua
volontà di operare, per la capacità di propugnare istanze pragmatiche e vuote
di retorica. Cavour è uomo che media per raggiungere degli obiettivi, ha mire
di lungo periodo. Il Risorgimento di Cattaneo è sconfitto, ma non quello di
Cavour. Entrambi, però, hanno instillato nella società italiana lo spirito
della competizione e l'ideale di assunzione di responsabilità. La società
italiana si regge su ruoli e cariche già predefiniti, è statica e stagnante: il
proletariato, però, si ribella a ciò, rifugge situazioni già prestabilite per
costruire una società nuova in cui ciascuno sarà libero di esprimersi. La
persecuzione, l'esilio e la morte. Si reca in Francia, a Parigi e poi a Palermo,
per incontrare alcuni amici conosciuti durante il recente viaggio di nozze. I
suoi spostamenti sono seguiti dalla polizia italiana e, Mussolini telegrafa al
prefetto di Torino, Palmieri: “Mi si riferisce che noto Gobetti sia stato
recentemente a Parigi e che oggi sia a Palermo. Prego informarmi e vigilare per
rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore di governo.” Il
prefetto obbedisce. Viene percosso, la sua abitazione perquisita e le sue carte
sequestrate. Come scrive a Lussu, la polizia sospetta che egli intrattenga
rapporti in Italia e all'estero per organizzare le forze antif-asciste. È
il giorno che precede la scomparsa di Matteotti, il cui corpo verrà ritrovato
solo in agosto, ma subito si ha la certezza che si tratti di un omicidio
perpetrato da sicari fascisti. Ne traccia un profile. Non ostenta presunzioni
teoriche: dichiara candidamente di non aver tempo per risolvere i problemi
filosofici perché doveva studiare i bilanci e rivedere i conti degli amministratori
socialisti vide nascere nel Polesine il movimento fascista come schiavismo
agrario, come cortigianeria servile degli spostati verso chi li paga; come
medievale crudeltà e torbido oscurantismo Sente che per combattere utilmente il fascismo
nel campo politico occorre opporgli esempi di dignità con resistenza tenace.
Farne una questione di carattere, di intransigenza, di rigorismo. Auspica,
dalle colonne della sua rivista, la formazione di "Gruppi della
Rivoluzione Liberale", formati da uomini di tutti i partiti anti-fascisti,
che combattano il fascismo, questo fenomeno politico che trae i motivi del suo
successo e della sua conservazione dalla creazione di «un esercito di parassiti
dello Stato». Occorre, a questo scopo, formare un'economia moderna con
un'industria libera da ogni protezionism e da ogni paternalismo di Stato e con una
classe proletaria politicamente intransigente aiutare i partiti seri e moderni
a liberarsi dei costumi giolittiani. La guerra al fascismo è questione di
maturità storica, politica, economica. Questi articoli e quello in cui accusa
il deputato fascista, grande invalido di guerra, Delcroix, di manovre
parlamentari definite aborti morali, provocano il sequestro della rivista ed
una violenta aggressione da parte di uno squadrone fascista. Persino un
articolo di Fiore contro il criminale fascista Dumini, apparso su La Rivoluzione
Liberale, fornisce il pretesto al prefetto di Torino di sequestrare la rivista.
Con Fiore e conDorso pubblica un Appello ai meridionali e con il Saluto
all'altro Parlamento appoggia l'iniziativa aventiniana, dalla quale si aspetta
un'opposizione intransigente e un esempio di rinnovamento dei costumi
parlamentari italiani. Fonda una nuova rivista, Il Baretti, alla quale
collaborano, tra gli altri, Monti, Sapegno, Croce e Montale. Come La
Rivoluzione Liberale è dedicata a temi storico-politici, così la nuova rivista
vuole essere riservata alla critica letteraria e all'estetica. Il riferimento a
Baretti, letterato italiano vissuto a lungo all'estero, e alla sua Frusta
letteraria, esempio di polemica vivace e irriverente, sottintende, scrive nel
numero d'esordio, «una volontà di coerenza con le tradizioni di battaglia
contro culture e letterature costrette nei limiti della provincia, chiuse dalle
frontiere di dogmi angusti e di piccole patrie». In ossequio alle
direttive mussoliniane, proseguono i sequestri della sua rivista. Rimedieremo
ai sequestri rifacendo l'edizione, scrive Gobetti e anche quel numero viene sequestrato
con il pretesto di scritti diffamatori dei poteri dello Stato e tendenti a screditare
le forze nazionali. Cura La Libertà di Mill, con la prefazione di Einaudi, il
quale scrive che quando, per fiaccare la voce dei ribelli, si assevera dai
dominatori la unanimità del consenso, giova rileggere i grandi libri sulla
libertà. Anche produrre citazioni di scrittori del passato che non collimino
col pensiero del Regime può essere tendenzioso e perciò provocare il sequestro
della rivista. E arrestato Salvemini, che ha pubblicato sul foglio clandestino
Non Mollare l'articolo Mussolini il mandante. Altri sequestri de La Rivoluzione
Liberale avvengono. Un periodo di serenità per Piero e la moglie Ada che
aspetta un bambino è rappresentato da un viaggio a Parigi e a Londra. A Parigi
pensa di stabilire una sua casa editrice: «Credo che solo da Parigi, solo in
francese, solo con la solidarietà dello spirito francese un italiano possa fare
con utilità un'opera pratica di intelligenza europea. S'intende senza
chauvinisme francese. D'altra parte, intende ancora rimanere in Italia. Rimarrò
in Italia fino all'ultimo. Sono deciso a non fare l'esule. A metà agosto fanno ritorno a Torino e è
nuovamente vittima dei pestaggi squadristi, ma è ancora intenzionato a rimanere
in Italia. Bisogna amare l'Italia con orgoglio di europei e con l'austera
passione dell'esule in patria, scrive nell'articolo Lettera a Parigi, per
capire con quale serena tristezza e inesorabile volontà di sacrificio noi
viviamo nella presente realtà fascista. Le nostre malattie e le nostre crisi di
coscienza non possiamo curarle che noi. Dobbiamo trovare da soli la nostra
giustizia. E questa è la nostra dignità di anti-fascisti. Per essere europei
dobbiamo su questo argomento sembrare, comunque la parola ci disgusti,
nazionalisti. Poiché i ripetuti
sequestri a nulla hanno valso, e che il periodico in parola, sotto l'aspetto di
critiche e di discussioni politiche, economiche, morali e religiose, che
vorrebbero assurgere ad affermazioni e sviluppi di principi dottrinari, mira in
realtà, con irriverenti richiami, alla menomazione delle Istituzioni
Monarchiche, della Chiesa, dei Poteri dello Stato, danneggiando il prestigio
nazionale, e nel complesso può dar motivo a reazioni pericolose per l'ordine
pubblico, persistendo in violazioni sempre più gravi ai vigenti decreti sulla
stampa», il prefetto d'Adamo diffida «il Direttore responsabile del periodico
La Rivoluzione Liberale, ai sensi e per
gli effetti di cui all'art.” ad adeguarsi alle direttive del Regime e poiché
l'8 novembre la rivista disattende l'ordine, il prefetto ingiunge la cessazione
definitiva delle pubblicazioni e la soppressione della stessa casa editrice per
attività nettamente anti-nazionale. D'ora in avanti sarò palesatamente costretto
all'infelice dissenso. La libertà d'opinione è stata soppressa come una rete che
viene sradicata: senza possibilità di dialogare sono destinato ad essere
sopraffatto. A cosa serve più, ora, fare finta? Gobetti, che ora soffre anche
di scompensi cardiaci,
provocati o aggravati dalle violenze subite, pensa di lasciare l'Italia per
proseguire in Francia l'attività editoriale. Nasce a Torino il figlio Paolo, che
durante la seconda guerra mondiale diventerà partigiano e poi giornalista per
l'Unità, oltreché storico del cinema. Scrive una lettera a Fortunato. Parto per
Parigi dove farò l'editore francese, ossia il mio mestiere che in Italia mi è
interdetto. A Parigi non intendo fare del libellismo, o della polemica
spicciola come i granduchi spodestati di Russia; vorrei fare un'opera di
cultura, nel senso del liberalismo europeo e della democrazia moderna. Parte da
solo per Parigi. Alla stazione di Genova viene a salutarlo Montale. Si ammala di una bronchite, che
esacerba gravemente i suoi problemi cardiaci. Trasportato in una clinica di
Neuilly-sur-Seine, vi muore assistito da Fausto, Nitti, Prezzolini e Emery. È
sepolto nel cimitero parigino di Père-Lachaise. Saggi:“La filosofia
politica di Alfieri” (Torino, Gobetti); “La frusta teatrale, Milano, Corbaccio,
Felice Casorati. Pittore, Torino, Gobetti, “Dal bolscevismo al fascismo: note
di cultura politica” (Torino, Gobetti); Il teatro di Enrico Pea, in Enrico Pea,
Rosa di Sion, Torino, Gobetti, Matteotti, Torino, Gobetti, Postfazione di M. Scavino,
Edizioni di Storia e Letteratura, col titolo Per Matteotti. Un ritratto, Il
Melangolo, Genova, “La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia,
Bologna, Cappelli, Opere edite e
inedited; “Risorgimento senza eroi” “Piemonte nel Risorgimento, Torino,
Baretti, Paradosso dello spirito russo, Torino, Baretti, Opera critica “Arte,
religione, filosofia, Torino, Baretti, Teatro, letteratura, storia, Torino,
Baretti, Scritti attuali, Roma,
Capriotti, Coscienza liberale e classe operaia, P. Spriano, Torino, Einaudi, Opere
complete, Scritti politici, P. Spriano, Torino, Einaudi, Scritti storici, letterari e filosofici, Spriano,
Torino, Einaudi, Critica teatrale, Guazzotti e Gobetti, Torino, Einaudi, L'editore
ideale. Frammenti autobiografici con iconografia, F. Antonicelli, Milano,
All'insegna del pesce d'oro, Energie nove, Torino, Bottega d'Erasmo, Baretti, Torino,
Bottega d'Erasmo, Lettere dalla Sicilia, nota di G. Chimirri, introduzione di N.
Sapegno, Palermo, Nuova editrice meridionale, Nella tua breve esistenza. Lettere on Ada
Gobetti, E. Perona, Collana NUE Torino, Einaudi, Collana Piccola Biblioteca. Nuova
serie, Einaudi, Con animo di liberale. Gobetti e i popolari. Carteggi Bartolo
Gariglio, Milano, F. Angeli, Dizionario delle idee, Bucchi, Roma, Riuniti, Antifascismo
etico. Elogio dell'intransigenza, M. Gervasoni, Milano, M&B Publishing,
Carteggio Ersilia Alessandrone Perona, Torino, Einaudi, Che ho a che fare io
con i servi? Zibaldone politico, Reggio Emilia, Aliberti, Il giornalista arido Articoli Collana Classici
idel giornalismo, Torino, Aragno, Carteggio Ersilia Alessandrone Perona, Torino,
Einaudi,, Biografia di Gobetti M. Brosio, Riflessioni su Gobetti, Gobetti, L'editore
ideale, P. Gobetti, L'editore ideale, c N. Bobbio, Italia fedele. Il mondo di
Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere Gobetti, Energie Nove, Lettera ad Ada Prospero, Nella tua breve
esistenza, Diario, L'editore ideale, Carlo
Levi, in «Introduzione agli Scritti politici Togliatti, I parassiti della
cultura, in «L'Ordine Nuovo», Gramsci, Contributi a una nuova dottrina dello stato
e del colpo di stato, in «L'Ordine Nuovo», Nella tua breve esistenza, cAlberto
Cabella, Elogio della libertà. Torino, Il Punto, L'editore ideale, Gobetti,
Rivoluzione liberale, Nella tua breve esistenza, Gobetti, La Rivoluzione
liberale, in «Scritti politici», Scritti politici, Nella tua breve esistenza, Manifesto della
Rivoluzione Liberale, Nella tua breve esistenza,
La rivoluzione Liberale, Elogio della Ghigliottina, Dizionario Biografico degli Italiani La Rivoluzione Liberale, I miei conti con
l'idealismo attuale, Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica
in Italia, C. Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di Gobetti», La
Rivoluzione Liberale, Gruppi della Rivoluzione Liberale, La Rivoluzione
Liberale, Come combattere il fascismo, A. Colombo, Hutchings, Gobetti, GOBETTI
AND MATTEOTTI, Il Politico, In, La
cultura francese nelle riviste e nelle iniziative editoriali di Gobetti, Lettera
ad Prospero, Basso, Anderlini, Le riviste di Gobetti, Feltrinelli, Prezzolini,
Gobetti e «La Voce», Firenze, Sansoni, M. Brosio, Riflessioni su Piero Gobetti,
Quaderni della Gioventù liberale italiana di Torino, G. Bergami, Guida
bibliografica degli scritti, Collana Opere diGobetti, Torino, Einaudi, P.
Spriano, Gramsci e Gobetti, Torino, Einaudi, A. Carlino, Politica e dialettica
in Gobetti, Lecce, Milella, P. Bagnoli, Gobetti.
Cultura e politica di un liberale del Novecento, Firenze, Passigli, U. Morra di
Lavriano, Vita, pref. di N. Bobbio,
Torino, Tipografico, Gobetti e la Francia, Milano, Franco Angeli, Luigi
Anderlini, Gobetti critico, in Letteratura italiana. I critici, Milano,
Marzorati, Gobetti e gl’intellettuali del Sud, Napoli, Bibliopolis, G. De
Marzi, Gobetti e Croce, Urbino, Quattroventi, A. Cabella, Elogio della libertà. Torino, Il
Punto, Marco Gervasoni, L'intellettuale come eroe. Piero Gobetti e le culture
del Novecento, Firenze, La Nuova Italia, Bagnoli, Il metodo della libertà. tra eresia e rivoluzione, Reggio Emilia,
Diabasis, Gariglio, Progettare il postfascismo. Gobetti e i cattolici, Milano,
Franco Angeli, Virgilio, Gobetti. La cultura etico-politica del primo Novecento
tra consonanze e concordanze leopardiane, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, Angelo
Fabrizi, «Che ho a che fare io con gli schiavi?». Gobetti e Alfieri, Firenze,
Società Editrice Fiorentina, Flavio Aliquò Mazzei, Piero Gobetti. Profilo di un
rivoluzionario liberale, Firenze, Pugliese, B. Gariglio, L'autunno delle libertà Lettere
ad Ada in morte di Gobetti, Torino, Bollati, Erba, Piero Gobetti, in Intellettuali
laici nel '900 italiano, Padova, Grasso, Ciampanella, Senza illusioni e senza
ottimismi. Prospettive e limiti di una rivoluzione liberale, Roma, Aracne, Socialismo
liberale Liberalismo socialeSalvemini Amendola Croce AlfieriMatteotti Il Baretti
La Rivoluzione liberale. Treccani Enciclopedie on line, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Opere di Centro Studi Piero
Gobetti, su centrogobetti. «La Rivoluzione Liberale» Gobetti, Il liberalismo in
Italia, G. Iacchini, Quando la libertà è rivoluzionaria: Piero Gobetti, su
radicalsocialismo. La casa di Gobetti in via XX Settembre a Torino, su
multimedia lastampa. Piero Gobetti. Gobetti. Keywords: implicatura. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Gobetti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51700266277/in/photolist-2mQBLt7-2mPGkBm-2mPvJmk-2mLznXk-2mLDpWX-2mKNNqN-2mKDGhr-2mKk6t5-2mPHbXQ
Gobbo -- Federico
Gobbo – esperantista -- He has collaborated with philosophers.
Grice e
Gonnella – filosofia del diritto romano – filosofia romana – Luigi Speranza
(Bari). Grice: “Like Foucault, and a few English philosophers who explored the
conceptual intricacies of the ‘justification’ of punishment, Gonnella’s oeuvre
is brilliant!” Saggi: “Il diritto (non) ci salverà, Il Manifesto, Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e
diritti, Scientifica,. Carceri. I confini della dignità, Jaca, La tortura in
Italia, Derive Approdi,. Jailhouse Rock, cento musicisti dietro le sbarre,
Arcana,. Il carcere spiegato ai ragazzi, Il Manifesto, Patrie galere, Carocci, Sviluppo
urbano e criminale, a Roma, Sinnos, Il
collasso delle carceri italiane. Sotto la lente degli ispettori europei, Sapere
Consiglio d'Europa, Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degl’anti-fascisti,
Edizioni dell’Asino,. I paradossi del diritto. Scritti in omaggio a Resta, Roma
TrE-Press, Giustizia e carceri secondo
papa Francesco, Jaca,. Onorare gli impegni. L'Italia e le norme contro la
tortura, Sinnos, Inchiesta sulle carceri italiane, Carocci, Il Carcere
trasparente. Primo rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione, Castelvecchi.
Patrizio Gonnella. Gonnella. Keywords: filosofia del diritto romano, sanction,
punishment. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gonella” – The Swimming-Pool
Library.
https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756498175/in/dateposted-public/
Grice e
Goretti – la coazione istituzionale – filosofia fascista -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Si laurea a Torino sotto Solari. Fequenta
Milano, dove incontra Martinetti. Segretario delCongresso Nazionale di
Filosofia, organizzato dalla Società filosofica italiana. Il Congresso è sciolto
dalle autorità dopo appena due giorni. Firmano la lettera di protesta
indirizzata al rettore Luigi Mangiagalli, nel quale si "protesta in nome
della libertà degli studi e della tradizione italiana contro un atto di
violenza che impedisce l'esercizio della discussione filosofica.” Al momento
del giuramento di fedeltà, necessario per entrare nella carriera universitaria
o per proseguirla, si rifiuta e resta così al di fuori della carriera
accademica; svolge attività professionale a Milano, e collabora alla
"Rivista di filosofia" (anche quale componente del comitato
direttivo). Frequenta Palazzo Fossati in Via Ciro Menotti a Milano. In
prossimità della morte, Martinetti lascia la sua biblioteca privata in legato a
Ruffini, Solari e Goretti. La Biblioteca verrà poi conferita dai rispettivi
eredi alla "Fondazione Piero Martinetti per gli studi di storia filosofica
" di Torino; oggi nel palazzo presso la Biblioteca della Facoltà di Filosofia. Goretti
è riammesso nel mondo universitario e assume per concorso la cattedra di
Filosofia del diritto; insegna all'Ferrara fino alla morte. Il Comune di
Ferrara ha intitolato una via a Cesare Goretti,
"filosofopatriota". L'animale come soggetto di diritto
Prolifico filosofo del diritto, autore di scritti su Kant, Sorel, Bradley, cura
Špir, Bradley, Green), a Goretti si deve il primo intervento che qualifica
l'animale come “soggetto di diritto”. Martinetti pubblica “L’animo del
animale” in cui aveva sottolineato che il animale possede intelletto e
coscienza e, in generale, un animo, come emergeva dagli lo studio dello “atteggiamento, gesto, la
fisionomia.” Questo animo e vita animale è “forse estremamente diversa e
lontana” da quella del homo sapiens” ma “ha anch'essa la carattere della
coscienza e non può essere ridotta ad un semplice meccanismo fisiologico. Goretti
va oltre, fino ad affermare che l’ animalee vero e proprio un “*soggetto*
(“soggetoodi diritto” e che l'animale ha una “coscienza giuridica” e una
percezione del giuridico. In tal modo, anticipa tematiche proprie della
bioetica e dell'etologia. Nonostante l'originalità e l'innovatività delle posizioni
assunte, il suo manifesto non ha avuto fortuna ed è stato del tutto trascurato
dal dibattito animalista e negli studi di etologia. Come non possiamo
negare all'animale in modo sia pure crepuscolare l'uso della categoria della
causalità, così non possiamo escludere che l'animale partecipando al nostro
mondo non abbia un senso di quello che può essere la proprietà e l'obbligazione.
Casi innumerevoli dimostrano come un cane e custode geloso della proprietà del
suo padrone e come ne compartecipa all'uso. Dve operare in esso questa visione
della realtà esteriore come cosa propria, che nell’homo sapinens arriva alle
costruzioni raffinate dei giuristi. È assurdo pensare che l'animale che rende
un servizio al suo padrone che lo mantiene agisca soltanto istintivamente. Deve
pure sentire in sé in modo sensibile questo rapporto di servizi resi e
scambiati – cf. Grice, lo scambio conversazionale --. Naturalmente l'animale
non potrà arrivare al concetto di ciò che è la proprietà e l'obbligazione.
Basta che dimostri di fare uso di questi principî che in lui operano ancora in
modo osensibile.» (“ L’animale quale soggetto – e soggeto di diritto”). Nella
filosofia del diritto si individuano tre teorie dell'"istituzionalità nel
giuridico": istitutismo: teoria del diritto quale insieme di istitutito e
concepito come una sorta di azione co-ordinata, costituente un equilibrio
tipico e costante di finalità che si fissa in un complesso di mezzi, una costruzione.
Per l istituzionalismo la istituzione (Romano, Hauriou). neo-istituzionalismo:
il diritto è rappresentato da un “fatto” istituzionale (McCormick, Weinberger).
Saggi: “La forma giuridica” (Isis, Milano); “Il sentimento giuridico” (Solco",
Città di Castello); “I fondamenti del diritto” (Lombarda, Milano); “Liberalismo”
(Pirola, Milano); “Norma giuridica, atto giuridico” (Bianciardi, Lodi); “Istituto
giuridico” (Bianciardi, Lodi); “Norma giuridica” (Milani, Padova); "Rivista
di filosofia", L'animale, soggetto, e soggeto di diritto, "Rivista di
filosofia", Recensione di Schmitt, Die Diktatur. Von den Anfängen des
modernen Souveränitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf,
Duncher & Humblot, München-Leipzig, "Rivista di Filosofia", Recensione di R. Smend, Verfassung und
Verfassungsrecht, "Rivista di Filosofia", Introduzione a A. Spir, La
giustizia, Lombarda, Milano, Il saggio politico sulla costituzione del
Württenberg, "Rivista di filosofia", “Legge e norma, "Rivista di
filosofia", La filosofia pratica W. Schuppe, "Rivista di
filosofia", “F. H. Bradley, "Rivista
di filosofia", “La conoscenza etica, "Rivista di filosofia", “L'idea
di patria”, "Rivista di filosofia", L'idealismo rappresentativo”,
"Rivista di filosofia", Recensione di Calamandrei, Elogio dei giudici
scritto da un avvocato, in "Rivista di filosofia", La metafisica della
conoscenza, "Rivista di filosofia", Il dolore nel pessimismo di A. Spir, "Rivista
di filosofia", L’individualità, "Rivista di filosofia", Il saintsimonismo,
"Rivista di filosofia", Diritti e doveri giuridici in relazione alla
norma giuridica, "Archivio della Cultura italiana", L'istituzione
dell'eforato in Sparta, "Archivio della Cultura italiana", “La valutazione
tecnica della realtà, "Archivio della Cultura italiana", Martinetti, "Archivio
della Cultura italiana", L'impiego delle categorie o dei concetti puri ed
il valore della co-azione e inter-azione -- e dei postulati nella filosofia
giuridica” "Annali della Ferrara",
Recensione di Candian, Avvocatura, Milano, in "Annali della Ferrara", Il
liberalismo, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", L’istituzione
in senso tecnico ed l’istituto giuridico nel realismo"Annali della
Ferrara", “Equità, "Scritti giuridici
in onore di Carnelutti", Filosofia
e teoria generale del diritto, Milani, Padova, L'umanesimo critico di France,
"Rivista di filosofia del diritto", Recensione di Erzbach,
"Rivista trimestrale di diritto e procedura civile", Rileggendo il
Filomusi Guelfi, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", La
filosofia di Martinetti, "Memorie dell'Accademia delle Scienze
dell'Istituto di Bologna. Classe di Scienze Morali", Bologna, Considerazioni
critiche sul diritto sociale, "Annali della Ferrara", Scienze Giuridiche. L’acquisto ideale nella filosofia giuridica di
Kant, "Rivista di filosofia del diritto", Sulla sociologia della
diada e del gruppo sociale”. "Scritti di sociologia e politica in onore di
Sturzo", Zanichelli, Bologna, Isu
luigisturzo, Scritti su Cesare Goretti Gioele Solari, Recensione, "Rivista
di filosofia", N. Bobbio, "Rivista internazionale di filosofia del
diritto", G. Roccia, Filosofia e
realizzazione spirituale” "Rivista internazionale di filosofia del
diritto", Orecchia, voce “Goretti” della Enciclopedia filosofica, Venezia-Roma, Istituto per la Collaborazione
culturale, Goretti, in Orecchia, Maestri italiani di filosofia del diritto, Bulzoni,
Roma, Castignone, I diritti animali: la prospettiva utilitaristica,
"Materiali per una storia della cultura giuridica", D'Agostino, I
diritti degl’animali, "Rivista internazionale di filosofia del
diritto", Pocar, Gli animali non umani, Laterza, Roma-Bari, Martinetti,
Pietà verso gl’animali (Alessandro Di Chiara), Il melangolo, Genova, Lucia,
Goretti e la bioetica e l'etologia, "Annuario di itinerari
filosofici", "Piacere, dolore, senso", Mimesis, Milano, Lorini,
Atti giuridici istituzionali, in Lorini, L’atto giuridico, Adriatica, Bari, Paolo
Di Lucia, Filosofia del diritto, Raffaello Cortina Milano); Colombo, La
filosofia come soteriologia: l'avventura spirituale e intellettuale di Martinetti,
Vita e Pensiero, Milano, C. Galli, Schmitt nella cultura italiana. Storia,
bilancio, prospettive di una presenza problematica, "Storicamente", G.
Lorini, Due a priori del diritto: l'a priori del giuridico”; Fenomenologia del
diritto. Adolf Reinach, Mimesis, Milano,
A. Pisanò, Diritti de-umanizzati:
animali, ambiente, generazioni future, specie umana, Giuffrè, Milano, Lettera, Martinetti
e Goretti a L. Mangiagalli in Martinetti Lettere Firenze, Massimo Mori, Rivista
di filosofia, -- "Segni e comprensione", Brixia Sacra. Memorie
storiche della Diocesi di Brescia, Solari, Fossati, Necrologio, "Rivista di
filosofia", Colombo, La filosofia come soteriologia: l'avventura
spirituale e intellettuale di
Martinetti, Vita e Pensiero, Milano, Luigi FossatiArchivi del Garda, in
Archivi del Garda. Paolo Di Lucia, Filosofia del diritto, Raffaello Cortina editore,
Milano, Attilio Pisanò, Diritti deumanizzati: animali, ambiente, generazioni
future, specie umana, Giuffrè, Milano, P. Martinetti, La psiche degli animali
in Saggi e discorsi, Paravia, Torino, ore in Pietà verso gli animali
(Alessandro De Chiara), Il Melangolo, Genova); “L'animale come soggetto di
diritto, in Rivista di filosofia, per estratto in P. Di Lucia, Filosofia del
diritto, Raffaello Cortina, Milano, P. Di Lucia, Filosofia del diritto,
Raffaello Cortina editore, Milano, A. Pisanò, Diritti deumanizzati: animali,
ambiente, generazioni future, specie umana, Giuffrè, Milano, “Istitutismo” è un
neologismo coniato da Piovani, Mobilità, sistematicità, istituzionalità della
lingua e del diritto, Giuffré, Milano, cfr. G. Lorini, Dimensioni giuridiche
dell'istituzionale, Milani, Padova, Lorini, “La dimensione giuridica
dell'istituzionale, Milani, Padova, Cosa resta dell'istituzionalismo, “L'ircocervo”,
L.
Glazel, “Tetracotomomia dell’ istituzionale” in R. Renard, "Saggi
in ricordo di Tanzi", Giuffré, Milano, M. Brutti, Alcuni usi del concetto
di struttura nella conoscenza giuridica, "Quaderni fiorentini per la
storia del pensiero giuridico", McCormick/Weinberger, Il diritto come
istituzione, M. La Torre, Milano, M. Torre, “Norma, l’istituzionale, il valore:
Per una teoria istituzionalistica del diritto, Bari. Il pensiero filosofico di
Cesare Goretti non è comprensibile se ricondotto solamente al suo aspetto
giuridico1, brillantemente espresso all’interno dei suoi Fondamenti del diritto
(Goretti 1930), ma necessita di un approfondimento che tocchi ogni ambito
speculativo della filosofia. Questo lavoro, quindi, pur mantenendo fermo il
fine di una delucidazione dei principi filosofici posti alla base della sua
concezione del diritto, fornirà un excursus preliminare sugli aspetti più
importanti del suo pensiero, conducendo il lettore all'interno del formalismo
gnoseologico kantiano, del volontarismo di Schopenhauer e dell’idealismo di
matrice britannica, esortando ulteriori approfondimenti su un autore il quale,
attraverso il proprio rigore morale (Goretti, così come il suo maestro Piero
Martinetti, risulta tra i non firmatari del 1 Un richiamo in nota al contesto
storico nel quale la filosofia del diritto di Goretti si sviluppa risulta
tuttavia necessario. Essa si inserisce all'interno di quell’indirizzo, chiamato
‘istituzionalismo’, che identifica nell’istituzione il fulcro attorno al quale
si crea e si espande la vita associata. Inaugurato con gli studi di Maurice Hauriou
in Francia e Santi Romano in Italia, esso si pone in netta contrapposizione con
la teoria normativista di Kelsen. Il particolare interesse di Goretti per
l’idealismo di matrice anglosassone conferisce però al suo giuridicismo
filosofico un taglio innovativo rispetto, ad esempio, al più celebre
istituzionalismo di Santi Romano, tanto da poterlo considerare come
‘istitutismo’. 160 Politics. Rivista di Studi
Politici n. 10, 2/2018 giuramento di fedeltà al fascismo del ‘31) ha dimostrato
l’autonomia dello spirito rispetto alla contingenza degli avvenimenti storici.
Nella trattazione delle sue opere non verrà seguito un ordine cronologico, ma
una sistematica ricostruzione della sua dottrina. Questo è il motivo per il
quale La metafisica della conoscenza in Thomas Hill Green (Goretti 1936) e
l’Introduzione alla sua Etica (Goretti 1925) rappresentano un punto di partenza
necessario per la successiva analisi del suo pensiero. È dunque dalle origini,
dall’aspetto gnoseologico, che questo lavoro prenderà le mosse, ed è proprio da
uno spunto, fornito dall’incompletezza della soluzione alla Ding an sich
kantiana fornita da Green, che Goretti elaborerà il suo impianto filosofico.
L’esigenza di ricongiungere forma e materia, di collegare il fenomeno con il
noumeno, ha condotto la filosofia, da Kant in poi, verso la strada di un
idealismo monistico. Quello che Goretti compie, invece, consiste in un’elegante
risoluzione del problema, la quale, pur non rinunciando al principio monistico,
mette al sicuro il formalismo kantiano da eventuali ricadute metafisiche. Per
fare ciò, egli si avvale del concetto di volontà elaborato da Schopenhauer,
evitando le sue derive pessimistiche e avvalorando il principio morale
delineato da Green. Quanto fin qui solamente accennato mette dunque in luce
l’aspetto poliedrico del pensiero di Goretti, in grado di spaziare tra gli
autori e i campi della filosofia più disparati, mantenendo comunque quel rigore
logico ed espositivo che lo rendono un autore unico nel suo genere. 1. Fenomeno
e relazione: da Kant a Green La filosofia di Green, come sottolinea Goretti,
rappresenta una fusione del pensiero critico di Kant e di Fichte (Goretti 1936,
97), una sintesi degli studi portati avanti a partire dalla sua Introduction to
Hume’s Treatise of Human Nature, contenuta all’interno dei Collected Works
(Green 1885-1888). Anche se i suoi Prolegomena to Ethics (1883), tradotti in
italiano dallo stesso Goretti (Green 1925), vengono di frequente considerati
come la «concezione definitiva dell’autore» (Goretti 1936, 98), portando spesso
ed erroneamente a giudicare la sua gnoseologia prettamente metafisica, la sua
capacità di analisi è riuscita ad andare ben oltre l’empirismo e il
razionalismo precedenti. È per questa ragione, dunque, che Goretti tornerà,
molto tempo dopo aver tradotto l’opera del Green, a dedicare ulteriori studi
volti a precisare e confutare alcune delle conclusioni avanzate dal filosofo
britannico. Attraverso un’accurata scomposizione del suo apparato
epistemologico, Goretti riesce a salvare l’apparente e vuoto formalismo
kantiano, che il Green aveva così ardentemente tentato di eliminare. La teoria
della conoscenza di Green si fonda sulle osservazioni kantiane inerenti
l’esistenza di una coscienza, in grado di unificare e sistematizzare i dati
dell’esperienza, considerati, fino ad allora, come unica realtà possibile. Per
Kant, ribadisce Goretti, è La volontà formale e il valore della norma
giuridica in Cesare Goretti solo grazie alla natura del nostro spirito che
l’esigenza unificatrice, chiamata con il nome di appercezione trascendentale,
si manifesta (Goretti 1936, 99). L’esperienza, dunque, rappresenta il complesso
di unificazioni che il nostro spirito pone in essere sulla molteplicità del
sensibile. Da ciò, la celebre distinzione kantiana tra prodotto della natura e
prodotto dell’intelletto, che porta la filosofia verso un «Umänderung der
Denkart» (Kant 1919, 24). Tutto ciò che possiamo conoscere è derivabile dalla
nostra esperienza, mentre la realtà, ciò che è posto al di fuori del mondo sensibile,
non può essere conosciuto, il che equivale ad affermarne il suo carattere a
priori, in quanto strumento inconoscibile atto a conoscere. È proprio su questo
punto, tuttavia, che Kant incontra le maggiori difficoltà. Tentando di superare
le aporie humeane, pone in essere quella distinzione tra fenomeno e cosa in sé
che occuperà gran parte della speculazione filosofica successiva. Nel tentativo
di fornire una risposta adeguata a questo dilemma, senza rientrare all’interno
delle conclusioni delineate dall’idealismo tedesco, si inserisce l’opera di
Green. Come sottolineato da Goretti, Green adopera un linguaggio differente
rispetto a quello utilizzato da Kant, il quale, secondo Green stesso, gli
permetterebbe di eludere il problema relativo alla cosa in sé. Egli
sostituisce, continua Goretti, la locuzione kantiana phenomena con quella di
relations. Per mezzo di questa distinzione, Green è convinto di poter esprimere
in maniera più marcata la facoltà unificatrice dello spirito, evitando così di
cadere all’interno delle problematiche del razionalismo kantiano. L’errore di
Kant, sottolinea Green, è rinvenibile proprio nella separazione che egli opera
tra natura formaliter spectata e natura materialiter spectata. Questo errore
non è altro che un refuso dell’empirismo lockeano, rinvenibile in Kant
attraverso l’espressione «Macht zwar der Verstand die Natur, aber er schafft
sie nicht» (Selsam 1930, 2). Come sostiene Green: If phenomena, as materialiter
spectata, have such another nature, it will follow [...] that there is no
ground for that conviction of there being some unity and totality in things,
from which the quest for knowledge proceeds. The cosmos of our experience, and
the order of things-in-themselves, will be two wholly unrelated worlds (Green
1883, § 39). Se si vuole considerare la materia, continua Green, dobbiamo
prendere in considerazione l’esistenza di forze che generano il loro movimento
comprese nella rappresentazione del fenomeno stesso (Goretti 1936, 100-101). Il
divenire, dunque, diventa veicolo attraverso il quale la realtà spirituale si
manifesta, una molteplicità con la quale il nostro spirito limitato coglie
l’unità. Esso rappresenta, per Green, il processo causale della molteplicità
stessa e non un prodotto della realtà assoluta. Alessandro Dividus 161
162 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 La posizione di Green è
molto particolare. Egli rinnega l’esistenza di due elementi distinti, forma e
materia, ma al tempo stesso, non ricade nella sintesi degli opposti sviluppata da
Hegel. Le cose che noi osserviamo non sono scisse e frammentarie, ma rivelano
l’esistenza di un assoluto che non si muove seguendo un movimento dialettico.
La realtà, secondo Green, è una progressione di gradi di relazione e per questo
motivo non può in alcun modo trovarsi fuori dallo spazio e dal tempo. La
molteplicità delle relazioni, dunque, assume per Green il significato di
qualità dello spirito, che il nostro Io attribuisce alle cose, ma che non si
trova nelle cose stesse (Goretti 1936, 108). Queste conclusioni, sottolinea
Goretti, sono per Green il modo di superare il dibattito intorno alla
distinzione lockeana tra qualità primarie e qualità secondarie. Mentre, per i
sostenitori dell’empirismo, la differenza tra qualità sussiste su di un piano
sostanziale, cioè appartenente alla natura delle cose, per Green, invece, essa
è puramente graduale. L’unica diversità che le caratterizza consiste
nell’apparente priorità temporale che le prime dimostrano nel manifestarsi.
Questo evento è dovuto, spiega Green, alla predominanza dell’elemento formale
rispetto a quello empirico. Ogni relazione, dunque, è per Green una qualità. Il
centro della realtà rimane sempre l’Io, ma l’elemento formale che Kant non era
riuscito ad eliminare viene sostituito da gradi di relazione. Queste
affermazioni sono avvalorate ancor più da Green attraverso la distinzione tra
giudizi sintetici e giudizi analitici. Utilizzando l’enunciato kantiano “ogni
corpo è esteso”, non ci troviamo di fronte ad un giudizio analitico, come Kant
suppone, data la presenza del predicato all’interno del soggetto, ma come per
il secondo enunciato “ogni corpo è pesante”, stiamo attribuendo al soggetto un
grado di relazione meno complesso rispetto al secondo (Green 1886, §§ 69-72).
La mera intuizione delle categorie di spazio e tempo non è sufficiente per
cogliere la distinzione tra diversi giudizi. Lo spazio offre solamente la
concezione di una figura, ma non di un corpo. Secondo Green, dunque, Kant
confonde il concetto di corpo con quello di figura. La conclusione di Green,
riporta Goretti, «è che ogni giudizio presuppone una sintesi che si può
scomporre in una analisi di relazioni, analisi che può portare ad ulteriori
sintesi» (Goretti 1936, 112). Ogni relazione è dunque un grado di realtà
maggiore o minore rispetto all’unità che essa contribuisce a formare
all'interno della nostra conoscenza. Quanto finora brevemente riportato mette
in luce l’atteggiamento critico di Green rispetto alle problematiche formali
espresse dalla filosofia kantiana. Naturalmente, quanto emerso rispecchia solo
una minima parte del pensiero greeniano, in questa sede appositamente
riassunto, ma fornisce gli strumenti necessari per comprendere il punto di
partenza attraverso il quale Goretti ripartirà per formulare la sua teoria.
Come sostiene Goretti «Non si può certo affermare che Green abbia sempre
esattamente compreso la filosofia di Kant» (Goretti 1936, 113). Le critiche che
Goretti muove nei La volontà formale e il valore della norma giuridica in
Cesare Goretti confronti del filosofo britannico riguardano proprio il suo
tentativo di eliminare, senza risolvere, il formalismo kantiano, ricadendo in
quella struttura monistica della quale già Fichte aveva tracciato le linee.
Secondo Goretti, la concezione metafisica di Green è prettamente religiosa
(Goretti 1936, 115; cfr. Seth 1887), in quanto ogni fenomeno, o relazione, è
per lui un riverbero dell’assoluto che non si esaurisce nella sua apparenza.
Così facendo, continua Goretti, Green non si accorge di aver identificato
l’assoluto stesso con la molteplicità delle sue relazioni, senza mettere in
conto la possibilità che un grado di realtà inferiore, rispetto ad uno
superiore, possa rappresentare solamente una negazione, un’apparenza
dell’assoluto (Goretti 1936, 115). Il dibattito sull’aspetto monistico, o meno,
della filosofia di Green è ovviamente molto ampio (vedi Tyler 2003) e le teorie
le più disparate. Il percorso tracciato dalle sue tesi trova il suo naturale
sviluppo nelle dottrine del Bradley, il quale riduce le relazioni stesse a provvisorie
apparenze riproponendo, ancora una volta, l’ombra di una realtà intellegibile
(Goretti 1933). Ma Goretti percorre una strada diversa, in qualche modo
innovativa rispetto al senso comune. Egli si serve di Schopenhauer per
liberarsi del rapporto dualistico tra realtà assoluta e materia, senza però
rinunciare alla categoria formale elaborata da Kant2. 2. Il concetto di volontà
in Cesare Goretti Secondo Goretti, l’unico ad aver intuito veramente cosa la
materia rappresenti è Schopenhauer (Goretti 1936, 105). Nella sua opera più
famosa, Die Welt als Wille und Vorstellung (1819), Schopenhauer definisce la
materia come apparenza sensibile della volontà. Questa volontà non è altro che
una forza che tende ad affermarsi e realizzarsi. Essa non è più semplice materia
inerte, come in Aristotele, ma forza, voluntas. Questa forza si oppone alla
conoscenza tanto da tramutarsi in una noluntas, mettendo in moto quel processo
che ci permette di conoscere le vere fattezze del reale, pur non rinunciando al
dualismo tra realtà fenomenica e realtà assoluta. La volontà di conoscere,
quindi, rischiara l’oscurità della materia e rende il mondo reale accessibile
all’uomo. Green aveva intuito questo principio attraverso la definizione di
dover essere e il suo concetto di moral will, ma non era riuscito, sostiene
Goretti, a renderlo completo. È con Schopenhauer, quindi, che la concezione
volontaristica acquista finalmente forma. 2 La strada percorsa da Goretti
risulta alquanto particolare poiché, pur rimanendo all’interno dei canoni
dell'idealismo (una sorta di idealismo religioso ispirato in Goretti dallo
studio delle opere del filosofo russo Afrikan Spir e del suo amico a maestro
Piero Martinetti), non ne segue la normale evoluzione tracciata da Fichte e
conclusasi con Hegel, della quale Croce e Gentile sono stati, in Italia, i due
massimi, seppur sotto molti aspetti critici, rappresentanti. Alessandro Dividus
163 164 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 Tuttavia,
Goretti diverge dalla definizione di voluntas fornita da Schopenhauer. Per il
filosofo tedesco la volontà si manifesta come impulso, energia, pura forza
cieca, in quanto posseduta anche dalla materia, che sussiste al di fuori della
forma dello spazio e del tempo ed è, quindi, indistruttibile ed eterna. Essa è
energia senza causa (Abbagnano 1923). La sua ragione può essere ricercata solo
nella sua manifestazione fenomenica, ma non nella volontà in sé. Per Goretti,
invece, la volontà non è energia senza un fine, ma è un collegamento tra mezzi
e fini. Essa ubbidisce alla categoria della finalità, mira a fini prescelti,
segue degli schemi prestabiliti (Roccia 1955, 6). La realtà esteriore, secondo
Goretti, rappresenta il complesso dei mezzi, gli oggetti e la materia che la
volontà utilizza per realizzarsi, per liberarsi e, quindi, per perseguire il
suo fine. La realtà limita il nostro egoismo, nel senso che pone al nostro
volere dei punti di orientamento comuni. Quando l’uomo cerca di prendere
possesso della realtà che lo circonda, non sorge in lui la visione di una
realtà trascendente, ma lo schema di un’esigenza unitaria, che è la stessa
limitazione del nostro egoismo (Goretti 1930, 75). La volontà, dunque, segue
degli schemi prestabiliti, creando una sintesi tra il nostro volere e una parte
della realtà esteriore. Nel volere del singolo si manifesta la sua propensione
verso l’assoluto. Al principio del divenire, dunque, Goretti riabilita e
sostituisce quel dualismo tra fenomeno e realtà che aveva messo in crisi la
filosofia di Kant. Con la sua concezione di volontà, inoltre, Goretti non solo
si allontana dal pensiero di Schopenhauer, ma trova anche il modo per rendere
possibile l’esistenza di una categoria formale della conoscenza. Come nel
collegamento tra mezzi e fini, la volontà guida la relazione immediata tra il
soggetto e l’oggetto, tentando di far prevalere il suo dominio sulle cose e
mettendo in mostra l’aspetto egoistico del suo movimento. Ma la volontà è
prerogativa di ciascuno e non si esplica solamente attraverso un individuo
determinato. Essa, dunque, incontra sul suo cammino gli atti volitivi di altri
soggetti. È grazie al contatto della volontà individuale con la realtà esterna
che l’egoismo nasce e scopre la sua ragion d’essere. La realtà pone dei limiti
all’assoluto tendere della volontà, alla sua brama unitaria, e circoscrive i
limiti delle differenti personalità individuali. La limitazione dell’egoismo è
dovuta proprio all’esigenza unitaria della volontà ed esso non è altro che il
prodotto della volontà stessa. In questo modo, Goretti è adesso in grado di
giustificare l’aspetto formale della volontà. Essa non è più forza cieca che
tende verso l’assoluto, ma, data la sua propensione unitaria, è forza costretta
a percorrere determinate direzioni: l’una conduce al dominio delle cose
(l’aspetto finalistico della volontà, cioè l’appropriazione del tutto),
l’altra, invece, porta al godimento delle cose che dipendono dalla volontà
degli altri (ciò che pone un freno alla categoria egoistica). Come riporta il
Roccia: La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare
Goretti Questi schemi, queste direzioni sono preordinate: non derivano cioè
dalla nostra esperienza, bensì sono esse medesime condizioni dell’esperienza: o
noi consideriamo il mondo esterno come un complesso di cose capaci di un possesso
immediato o noi lo consideriamo come un complesso di cose il cui godimento
dipende dall’attività di un altro soggetto (Roccia 1955, 7). L’aspetto formale
della volontà, per Goretti, non solo è in grado di riconciliare forma e
materia, fenomeno e realtà, ma è anche capace di fornire una risposta alla
problematica morale riguardante la finalità dell’azione. Se per i sostenitori
di una morale comune, come Kant o Green, l’azione del singolo deve essere
orientata verso un bene collettivo, un fine cioè che non tenga solamente conto
del concreto sviluppo del singolo, ma che rispetti l’insieme nel suo complesso,
per la corrente dell’utilitarismo, invece, l’azione morale deve prediligere
l’aspetto individuale, in primis, e solo in seguito condurre ad un accrescimento
del benessere comune. Quello che Goretti mette in risalto, invece, è l’aspetto
etico dell’egoismo. La sua è una posizione che si concilia perfettamente con
entrambe e richiama alla memoria le parole di Spinoza. Per lui, così come per
Goretti, il principio dell’utilità aveva un grande valore. Esso costituiva il
primo grado della ragione, in quanto essa opera sulla natura empirica dell’uomo
e ne mette in luce il suo carattere finito. L’utilità costringe il singolo a
ripiegare su se stesso e «a sentire tutta l’ostilità della nostra limitatezza»
(Goretti 1927, 238). È per questo motivo che la volontà, avendo fini egoistici
ma mezzi comuni, è costretta a limitare la sua azione sulla base di un accordo
sociale. La volontà, dunque, genera e limita l’egoismo, rendendo di fatto
l’utile come un primo passo verso l’etico. L’essere ragionevoli, quindi, il
perseguire la propria volontà, non rappresenta altro che una manifestazione del
fine ultimo dell’uomo, il quale, a sua volta, si caratterizza come aspetto
formale non solo della conoscenza, ma anche dell’appropriazione del reale. Date
queste premesse, è adesso possibile per Goretti enunciare la sua personale
interpretazione del diritto. Le condizioni a priori della conoscenza,
riabilitate del loro carattere formale, vengono trasposte da Goretti
all’interno della costituzione del diritto, nel campo cioè delle relazioni
umane. Quello di Goretti, quindi, si presenta come un idealismo volontaristico,
che non pretende «dedurre dalla volontà il diritto e tutto il diritto, intende
solo cercare nella volontà stessa le condizioni che rendono possibile il
diritto» (Roccia 1955, 7). Ci troviamo, dunque, di fronte a una tipologia di
diritto differente rispetto a quella di matrice kantiana, poiché non rende la
giuridicità stessa un elemento formale, ma identifica solamente alcuni schemi
preordinati verso i quali la volontà deve dirigersi e attraverso i quali,
grazie alla facoltà giuridica del reale, riesce a concretizzarsi. Solo il Green
era riuscito a intuire il principio fondante del diritto, cioè la sua capacità
strumentale di permettere una completa realizzazione Alessandro Dividus
165 166 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 dell’individuo
nella società. Ma egli aveva eliminato ogni residuo di carattere formale all’interno
della sua teoria, svilendo così la prerogativa finalistica della volontà.
Quella di Goretti, quindi, rappresenta una perfetta sintesi dei due autori, che
gli permetterà non solo di fornire una più completa riflessione sull’aspetto
filosofico della norma, ma anche di ampliare il diritto stesso ad un gruppo
sempre più ampio. 3. Il carattere strumentale del diritto La volontà deve
realizzare fini dettati dalla ragione e non dati della sensibilità. Solo
l’essere ragionevole è fine a se stesso. Ma per raggiungere un fine bisogna
possedere un mezzo, uno strumento. Questo strumento è il diritto, l’unico in
grado di ricongiungere il dover essere con la realtà fenomenica e fornire i
mezzi esterni per la realizzazione morale (Goretti 1922, 16-17). Il diritto è
quindi un mezzo, ciò che rende l’azione conforme al dovere. Esso è preordinato
da fini. Kant derivava il diritto dal dovere, mentre Green sottolineava come
l’uno non potesse esistere senza l’altro. In entrambi, però, il dovere
ricopriva un ruolo primario, qualcosa che, una volta realizzato nella sua
totalità, avrebbe reso vacuo il significato stesso del diritto. Per Goretti,
invece, il diritto è sì uno strumento, ma uno strumento che non nasce con lo
scopo di servire il dover essere, bensì è prodotto della realtà stessa che il
dover essere riscopre. Mezzi e fini sono presenti nel mondo reale e offerti a
chiunque possieda le capacità necessarie per farli propri. Queste possibilità
di possesso, come le chiama Goretti, non forniscono alcun contenuto storico e mutabile,
ma indicano solamente le linee guida attraverso le quali il nostro volere si
esplica (Goretti 1930). È grazie al tentativo di dominio del reale, che gli
schemi giuridici si manifestano. Essi rappresentano il collegamento diretto tra
volontà ed esteriorità, regolando aprioristicamente lo spazio giuridico nel
quale l’individuo si muove. Anche i Romani, sottolinea Goretti, avevano intuito
la realtà empirica degli schemi giuridici. Quando essi distinguevano le res in
mobiles, immobiles e semoventes non facevano altro che prendere coscienza della
distinzione esistente tra diritti reali, diritti di obbligazione e diritti di
asservimento (Goretti 1930, 90-91; cfr. Goretti 1922). La volontà, d’altronde,
non può che realizzarsi attraverso un rapporto tra il proprio volere e
l’oggetto desiderato (diritto reale), tra il proprio volere e l’attività di un
terzo dal quale si pretende una certa prestazione (diritto di obbligazione) e,
infine, tra il proprio volere e l’asservimento di tutta, o parte, della personalità
esteriore altrui (diritto di asservimento). Questa triplice ripartizione,
continua Goretti, esaurisce tutte le potenzialità «di sfruttamento e di dominio
della realtà esteriore» (Goretti 1930, 89). Come per Kant, nella teoria della
conoscenza, lo schematismo aveva reso possibile unificare le intuizioni
sensibili all’interno delle categorie, così per Goretti, in campo giuridico,
esso permette di riconoscere le tappe obbligate che la realtà empirica La
volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti fornisce al
nostro volere. Si potrebbe obbiettare una presunta arbitrarietà nella
tripartizione schematica effettuata dal Goretti, chiedendo come mai la volontà
si esaurisca solamente attraverso questi schemi e non altri. Ma al perché questi
schemi siano solamente tre, Goretti risponde: «L’uomo fin ad ora non ha altri
modi di sfruttamento della realtà esteriore; altra prova del valore intuitivo
degli schemi. [...] La realtà intuitiva non me ne fornisce altri allo stato
attuale del nostro sviluppo organico» (Goretti 1930, 104). La nostra stessa
esperienza e storia degli istituti giuridici, continua Goretti, dimostra il
ruolo che i concetti di proprietà e obbligazione rivestono. Essi sono generici,
originari, intuitivi e solo in seguito acquistano una valutazione razionale
della realtà alla quale l’uomo fornisce un contenuto etico e, quindi,
arbitrario. Essi, tende ancora a sottolineare Goretti, possiedono una natura
puramente intuitiva e ciò non esclude che la logica giuridica possa trarne concetti
giuridici corrispondenti, come la compravendita, il mandato, la proprietà ecc.
(Goretti 1930, 95). Non bisogna confondere il concetto della proprietà e
dell’obbligazione, che hanno un proprio contenuto storico e concreto, con lo
schema dell’impossessamento e dell’obbligazione, che rappresenta il loro
carattere intuitivo. Come afferma Goretti: Si dice: è il concetto di proprietà
il prius logico, l’antecedente che rende possibile allo spirito l’impossessarsi
della realtà. Al contrario è questo impossessarsi che permette l’elaborazione
del concetto di proprietà. In questo impossessarsi vi è un atto che deve
spiegarsi; e la spiegazione consiste nel fatto che il nostro egoismo, il nostro
volere si muove diversamente a seconda dello spazio. Il volere ubbidisce alla
categoria della finalità come l’intelletto a quella della causalità (Goretti
1930, 95-96). La nostra esigenza razionale, quindi, prende forma sensibile
attraverso questi schemi giuridici, condizione dei rispettivi istituti
giuridici. Per mezzo di questo atto intuitivo della realtà esteriore, il nostro
egoismo viene limitato e obbligato a prendere determinate direzioni comuni,
facendo trapelare una prima forma di unificazione dei voleri, di volontà
comune. Essa appare inizialmente come complesso di mezzi per le nostre
volizioni personali, ma lascia intuire la portata limitata di tali mezzi e,
dunque, la loro comune origine. Questo passaggio, dice Goretti, è una normale
conseguenza della visione unitaria della realtà da parte dei singoli, i quali
tendono a polarizzare la propria volontà intorno a un ideale condiviso,
acquisendo la consapevolezza della necessaria condivisione dei mezzi esteriori
(Goretti 1930, 113). Si sviluppa così la coscienza di quell’elemento
costituente il diritto: il principio di uguaglianza. Non si tratta, sostiene
Goretti, di un’uguaglianza di diritti e doveri, di un livellamento dei valori
individuali, ma di un’uguaglianza della nostra personalità di fronte alla
realtà esteriore: «È la posizione del nostro volere di fronte alle direzioni
che la realtà esteriore ci offre» (Goretti 1930, 113). L’umanità, dunque, non è
il risultato della somma di tutti gli individui, ma è l’idea Alessandro Dividus
167 168 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 alla quale il
singolo, in quanto essere razionale, partecipa. Così, ad esempio, l’idea della
proprietà originaria non rappresenta il complesso delle singole proprietà, ma è
il riconoscimento del diritto che l’umanità intera ha di impossessarsi della
realtà esteriore (Goretti 1930, 116). Senza il riconoscimento di questo
diritto, comune a tutti, non sarebbe possibile il conseguente riconoscimento
dei diritti dell’individualità, dell’egoismo. 4. Gli istituti giuridici e lo
Stato Quanto fino ad ora esposto mostra solamente la necessità degli schemi
giuridici per la creazione di un ponte tra realtà spirituale e realtà
fenomenica, mettendo in luce un’esigenza di volontà comune dettata dalla
comunione dei mezzi e dei fini. Gli schemi giuridici, tuttavia, non sono che la
base razionale, a priori, grazie alla quale poter dedurre l’esistenza dei
diversi istituti giuridici. Gli schemi rappresentano quindi le condizioni
formali che ne costituiscono la loro possibilità. Mentre il carattere
strumentale del diritto aveva sottolineato la necessità di una comunione di
mezzi, la storia del diritto stesso, e quindi la sua rappresentazione empirica
formalizzata nell’istituto giuridico, fa emergere le caratteristiche costanti
delle finalità umane. Gli istituti giuridici non sono che il riverbero di una
comunione di mezzi, i quali contengono, però, vere e proprie finalità concrete
(Goretti 1930, 204). Del resto, se non esistesse una comunione di mezzi, non
sarebbe possibile parlare di finalità condivise. Queste finalità, ovviamente,
non sono identiche in ciascuno, in quanto l’istituto giuridico non fa altro che
porre in essere scopi immediati coordinati gli uni con gli altri, ma convergono
tutte, sostiene Goretti, verso un punto di equilibrio: I moventi di ogni
singola persona che partecipa ad un atto, ad un negozio giuridico rimangono
sempre qualche cosa di irriducibilmente soggettivo, ma lo scopo dell’uno
diventa una funzione di quello dell’altro, i due scopi devono farsi equilibrio
intorno ad un punto comune (Goretti 1930, 204). Il fatto che una finalità presupponga
un movente individuale, non esclude la possibilità che la finalità di un
singolo possa incrociarsi con quella di un altro. Questo equilibrio di finalità
dà vita a differenti figure giuridiche, non deducibili a priori dai nostri
schemi, ma lasciate in balìa degli eventi storico-sociali. Ma il carattere
formale dei nostri schemi, e quindi dei nostri mezzi, giustifica la creazione
uniforme e costante degli istituti, e dunque dei nostri equilibri finali.
Pertanto, dalle diverse finalità umane è possibile derivare aprioristicamente
la figura giuridica della compravendita, che si richiama allo schema giuridico
dell’obbligazione. Non è, dunque, il lavoro speculativo del giurista che crea
le forme degli istituti giuridici, ma è la realtà sociale stessa. Essi La
volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti non sono
altro che realtà fenomenica, svelata dalla volontà individuale che si muove nel
mondo empirico attraverso le sue forme schematiche. Le istituzioni sociali, di
conseguenza, sono il risultato di un punto comune di equilibrio formatosi e
consolidatosi, nel tempo, intorno a un complesso di finalità umane.
L’ineludibilità di simili conclusioni, sostiene Goretti, può essere
ulteriormente avvalorata attraverso un esempio. Se esaminassimo il caso della
compravendita, ci troveremmo di fronte a due differenti finalità: quelle del
venditore, da una parte, e quelle del compratore, dall’altra. Naturalmente,
continua Goretti, queste finalità appaiono inizialmente diverse, ma il loro
punto di equilibrio è riscontrabile proprio negli asservimenti reciproci
esistenti nel fatto di vendere e di comprare, nei quali le finalità dell’uno si
incrociano con quelle dell’altro. Questo elemento comune è derivabile dallo
schema dell’obbligazione, per mezzo del quale le caratteristiche comuni delle
finalità tendono a convergere. Nel caso dei diritti reali, ad esempio, è la
fruizione della cosa da parte di un singolo, e dunque la sua finalità, che
tende a escludere l’uso del medesimo oggetto da parte di un terzo, facendo
arrestare la sua finalità di fronte al possesso del soggetto iniziale. Questo
arresto, continua Goretti, mostra già di per sé l’esistenza di un equilibrio
dei fini, ed è proprio questo equilibrio che rende possibile la formazione
degli istituti giuridici. Ciò che rende dunque costante nel tempo l’esistenza
di determinati istituti è proprio l’uniformità delle nostre forme e dei nostri
bisogni. Ecco come, quindi, da un accenno di volontà comune e di unificazione
di finalità, espresse nella forma dei singoli istituti giuridici, si assiste a
un progressivo ampliamento del principio di solidarietà sociale, che limita
automaticamente il nostro originario egoismo. Si passa, gradualmente, da
un’unificazione di finalità e bisogni elementari a un’unificazione più elevata
di natura spirituale. Questo è un fenomeno, dice Goretti, «storicamente
accertabile e inoppugnabile» (Goretti 1930, 218). L’egoismo si asserve così,
senza negarsi, a un criterio di uniformità, dando vita a unità sempre più
grandi e mostrando all’umanità il cammino della giustizia. Si potrebbe
sottolineare l’incoerenza pratica di tali affermazioni, mostrando le derive
violente ed ingiuste che molte istituzioni hanno posto in essere, ma simili
mostruosità sono solamente deformazioni storiche di suddette istituzioni, le
quali, in sé, non posseggono nessun concetto di giusto ed ingiusto, ma
rappresentano solamente un grado di realizzazione della volontà comune, ad uopo
strumentalizzata da egoismi irrazionali. Ma in che forma empirica si realizza
questa volontà comune, secondo il Goretti? La sua risposta è molto chiara: «Il
diritto come tale non può culminare nello Stato» (Goretti 1930, 228). Quella
che ad Hegel appare come la rappresentazione e lo stadio più completo della
volontà individuale, è invece per Goretti un’indebita ingerenza dell’egoismo
collettivo nei confronti di quello soggettivo, una volontà di potenza che non
ubbidisce a esigenze razionali, ma ad un mero potenziamento di se stessa,
tradendo quell’esigenza prettamente unitaria tipica della dialettica hegeliana.
Come Alessandro Dividus 169 170 Politics. Rivista di Studi Politici n.
10, 2/2018 all’interno della società civile si manifestano una molteplicità di
individualità e gruppi in contrasto tra loro, così anche lo Stato, non essendo
altro che un gruppo più ampio, non potrà rappresentare la realizzazione della
volontà comune, poiché anch’esso tenderà al conflitto con Stati terzi. Il suo
ruolo è, così per Goretti come lo era stato per il Green, puramente pratico,
nel senso di garante del rispetto del diritto e della potenzialità di sviluppo
della volontà comune. Lo Stato appare come la rappresentazione finale della
sovranità, politica e giuridica, ma essa è pura illusione. In ogni sovranità vi
è sempre un riverbero di ordinamento giuridico ideale, che non si esaurisce
nella sua forma storico-sociale, ma è assoluta spontaneità dei rapporti che
l’uomo instaura tra schemi e istituti. Lo Stato, nel suo processo evolutivo,
non rappresenta altro che un irrigidimento della volontà comune nel suo
percorso fenomenologico. Conclusioni Quanto esposto rappresenta una parte
dell’importantissimo contributo del Goretti nel campo della filosofia, che
tocca aspetti gnoseologici, giuridici e politici, mostrando il suo carattere
poliedrico e critico, senza però rinunciare al suo rigore logico. Le sue
intuizioni sono rimaste purtroppo vittime degli sfortunati eventi storici che
hanno accompagnato tutta la sua esistenza, lasciando ai più sconosciuta la sua
eredità intellettuale. Di non minore importanza, inoltre, è l’impegno che egli
ha dedicato in difesa dei diritti degli animali, per il quale si rimanda
all’articolo L'animale quale soggetto di diritto (Goretti 1928), che si
concilia perfettamente con la sua personale concezione del diritto e che
anticipa, in gran parte, molte delle speculazioni attuali sul tema. Ma lo scopo
di questo lavoro, data la limitatezza del contributo, non è stato quello di
approfondire ogni aspetto del suo pensiero, bensì di mostrare la profonda
capacità argomentativa di questo autore, il quale offre numerosi spunti in
altrettanto numerosi ambiti della filosofia. Oltre ad essere stato, in Italia,
il primo vero studioso e l’unico traduttore dell’opera del Green, Goretti ne ha
saputo cogliere la vera intuizione, proponendo una propria visione della
volontà, la quale rappresenta una geniale sintesi tra idealismo e razionalismo,
quasi come un proseguo degli studi, involontariamente interrotti, ai quali il
Green aveva dato origine. La riabilitazione, poi, del formalismo kantiano,
segnata da una propria interpretazione della volontà di Schopenhauer, mette in
evidenza un percorso innovativo rispetto al naturale interesse degli studiosi
successivi, il che conferma ulteriormente la necessità di riscoprire un autore
tanto grande quanto sfortunato. Bibliografia La volontà formale e il
valore della norma giuridica in Cesare Goretti Abbagnano, Nicola. 1923. Le
sorgenti razionali del pensiero. Napoli: Perrella. Bradley, Andrew Cecil. 1906.
Prolegomena to Ethics by the late Thomas Hill Green. Oxford: Oxford Clarendon
Press. Goretti, Cesare. 1922. Il carattere formale della filosofia giuridica
kantiana. Milano: Casa Editrice Isis. Goretti, Cesare. 1927. “Il trattato
politico di Spinoza.” Rivista di Filosofia XVIII, 3: 235- 247. Goretti, Cesare.
1928. “L’animale quale soggetto di diritto.” Rivista di Filosofia XIX, 4:
348-369. Goretti, Cesare. 1930. I fondamenti del diritto. Milano: Libreria
Editrice Lombarda. Goretti, Cesare. 1932. “Sulla distinzione fra legge e
norma.” Rivista di Filosofia XXIII, 2: 125-135. Goretti, Cesare. 1933. “Il
valore della filosofia di F. H. Bradley. Apparenza e Realtà.” Rivista di
Filosofia XXIV, 4: 332-352. Goretti, Cesare. 1935. “L'idea di patria.” Rivista
di Filosofia XXVI, 1: 66-82. Goretti, Cesare. 1936. “La metafisica della
conoscenza in Thomas Hill Green.” Rivista di Filosofia XVIII, 2: 97-117.
Goretti, Cesare. 1941. “L’istituzione dell’eforato.” Archivio della cultura
italiana III, 4: 251-264. Goretti, Cesare. 1951. Il pensiero filosofico di
Piero Martinetti. Bologna: Cooperativa Tipografica Azzoguidi. Green, Thomas
Hill. 1925. Etica. “L’istituzionale e una co-struzione, una sorta di
inter-azione, o co-azione co-ordinata, co-stitutente un equilibrio tipico o
co-stante di finalita che si fissa in un com-plesso di mezzi”. “Casi
innumerevoli dimostrano come il cane (o altro uomo) sia custde geloso della
proprieta del suo padrone e come ne compartecipi all’uso. Oscuramente deve
operare in esso questa visione della realta esteriore come cosa PROPRIA, che
nell’uomo civile U1 arriva alle costruzione raffinate dei giuristi. E assurdo
pensare che l’animale o l’uomo O2 che rende un servizio al suo padrene che lo
mantiene agisca soltanto istintivamente. Deve pure sentire in se per quantto
oscuramente e in modo sensible questo rapport di servizi resi e SCAMBIATI.
Naturalmente l’U2 o l’animale non potra arrivare al concetto di ci oche e la
proprieta, l’obbligazione. Basta cche dimostri esterioremente di fare uso di
questi principi che in lui operano ancora in modo oscuro e sensibile.” Cesare
Goretti. Grice: “I like Goretti: I rather casually referred to ‘the institution
of a decision’ as the end of a conversational exchange – notably involving
buletic conversational moves; Goretti makes a whole system out of this. His
example is his conversation with his dog: ‘Surely my dog knows that he is
providing me a service – guarding my territory – and he is rightly deemed as a
‘subject’ in my exchange with him – as we ‘institute a decision’ that there is
a reciprocity involved.” Goretti. Keywords: “the institution of decisions” --
l’istituzionale, A. C. Bradley, La massima d’equita; “segni e comprensione” il
concetto di patria, eforato—co-azione, co-operazione -- diada. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Goretti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755508026/in/dateposted-public/
Grice e
Gori – la filosofia di cabaret -- l’eroe e la falce – filosofia italiana – filosofia
futurista -- Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Grice: “My favourite Gori are “L’eroe e la
falce” and “Il mantello d’Arlecchino” – nothing can be italianita with that!”. Saggi:
“Il mantello di Arlecchino (Roma); “Il libbro rosso de la guerra” (Roma); “Le bruttezze
della Divina Commedia” (Alatri); “Le bellezze della Divina Commedia” (Milano);
“Estetica dell'irrazionale” (Milano); “Il mulino della luna (Milano) “L'irrazionale”;
“Filosofia ed estetica”, “Sistema di una nuova scienza del bello; “Il bello” – “L'eroe
e la falce” -- Scorcio architettonico di letteratura europea dalle origini ai
nostri giorni, Cagliostro (Milano); Il teatro contemporaneo e le sue correnti
caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni (Torino); L'oca
azzurra (Roma); Il grande amore (Firenze); Scenografia. La tradizione e la rivoluzione
contemporanea (Roma); Il grottesco (Milano).
P.D. Giovanelli, Gino Gori. L'irrazionale e il teatro, Roma, Bulzoni, U.
Piscopo, Gino Gori, in E. Godoli, Dizionario del futurismo, Firenze); Dizionario
biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Rassegna
della produzione teatrale e delle nuove tendenze del teatro italiano e mondiale
a cavallo tra il finire dell'800 e i primi decenni del '900. Partendo dalla
riforma dell'opera lirica di Wagner e dalla sua teoria dell'opera d'arte
totale, Gori passa a discorrere di Maeterlinck, Andreev, del teatro dell'Anima
di Schuré e Claudel, del teatro dell'esteriorismo (D'Annunzio, Wilde, Péladan,
Erdös), del teatro cinese e giapponese, di Tagore, Tolstoj, Gorkij, dell'Espressionismo,
di Shaw, di Ibsen, del teatro borghese, del teatro dialettale italiano, del
teatro delle nazioni europee minori (discorre anche del teatro dell'Islanda o
della Lituania o della Bulgaria), delle forme rudimentarie del teatro presso i
popoli selvaggi. Gino Gori (Roma, 1876-Sant'Ilario Ligure, 1952), poeta,
drammaturgo e critico letterario romano fiancheggiatore del Futurismo, aprì a
Roma il famoso Cabaret del Diavolo, realizzato da Fortunato Depero. "Nel
gennaio del 1921 Depero è protagonista con una grande mostra personale tenuta a
Palazzo Cova di Milano, che in seguito viene trasferita da Bragaglia a Roma,
dove nel settembre dello stesso anno, su incarico di Gino Gori, inizia i lavori
di allestimento del Cabaret del Diavolo, una sorta di bolgia dantesca
frequentata da futuristi, dadaisti, anarchici ed artisti in genere. Per il
cabaret, strutturato lungo un percorso discendente (a ritroso)
Paradiso-Purgatorio-Inferno, Depero realizzò tutto l'arredo e le decorazioni
murali. L'inaugurazione avvenne nell'aprile del 1922 ma, passato il primo
momento di gloria, i tempi si fecero difficili e il locale fu chiuso, e con
esso distrutto anche tutto il lavoro di Depero". (cfr. Catalogo mostra
Fortunato Depero, Fondazione Palazzo Bricherasio). Letterature moderne. Studi
diretti da Arturo Farinelli. Cammarota, Futurismo, Il Futurismo
applicato ai cabaret» «C’è stato in questi giorni, qui a Roma, un
improvviso e molteplice sboccio d’arte futurista: il futurismo applicato al
cabaret»,[26] annotava all’inizio degli anni Venti Massimo Bontempelli, che in
quel periodo simpatizzava con il Futurismo e da poco aveva rifiutato le opere
scritte prima della guerra. Fra il 1921 e il 1923, venivano infatti inaugurati
nella capitale diversi locali decorati dai futuristi, tutti situati nel centro
della città. Iniziava la serie, nel ’21, il Bal Tic Tac, situato in via Milano,
i cui ambienti considerati distrutti per oltre mezzo secolo, sono stati
recentemente ritrovati durante il restauro del palazzo. Alle sale, arredi e
lampade del cabaret aveva lavorato Balla: era «un grandioso locale per balli
notturni futuristicamente decorato», nel quale «per la prima volta, apparve
realizzata la nuova arte decorativa futurista. Forza, dinamismo, giocondità,
italianità, originalità» commentava il periodico Il Futurismo.[27] Per il
lavoro, ha ricordato la figlia dell’artista, Elica, Balla era stato contattato
da Vinicio Paladini, altro avanguardista della cerchia romana, in quegli anni
in procinto di lanciare con Ivo Pannaggi il movimento Immaginista.[28] Nel
1922, nei sotterranei dell’Hotel Élite et des Etrangers in Via Basilicata 13,
era stato aperto il Cabaret del Diavolo, uno dei più stravaganti ritrovi romani
di proprietà di Gino Gori, il quale intendeva farne il punto di incontro di
scrittori, pittori e intellettuali e aveva puntato sulla creatività di Depero,
chiamandolo a decorarne e ad arredarne gli interni. Le tre sale, denominate
Inferno, Purgatorio e Paradiso, avevano ognuna una specificità cromatica e
tipologica: i mobili del Paradiso, ad esempio, erano azzurri, quelli del
Purgatorio verdi e quelli dell’Inferno rossi. L’illuminazione era
bianco-rosa-azzurrina con immagini di angeli e cherubini nel Paradiso,
bianco-verde con una coorte di anime verdi nel Purgatorio, e rossa con diavoli e
dannati avvolti dalle fiamme nell’Inferno. Il locale era sede della Brigata
degli Indiavolati, composta da poeti e artisti. Nello stesso anno Balla,
che aveva anche decorato la sua celebre casa-galleria aperta al pubblico di Via
Nicolò Porpora 2 (poi seguita dall’altrettanto celebre abitazione di Via
Oslavia 34 b), realizzava il soffitto luminoso della sala futurista della nuova
sede allestita da Virgilio Marchi della Casa d’Arte di Bragaglia, trasferitasi
da Via Condotti 18 in Via degli Avignonesi 8. Nei locali ricavati nei
sotterranei dei Palazzi Tittoni e Vassalli che conservavano le terme pubbliche
romane di Settimio Severo, nel 1923 Bragaglia affiancava alla galleria anche il
Teatro degli Indipendenti per il quale Virgilio Marchi aveva realizzato il ridotto
e il bar: qui, per otto dense stagioni, Anton Giulio sperimentò la sua ‘riforma
teatrale’ e le sue idee di rinnovamento delle tecnica scenica mediante
l’introduzione di nuovi elementi quali una regia sperimentale, una recitazione
innovativa e una scenografia ‘cromatica’. Nel teatro vennero messi in scena
gran parte dei testi d’avanguardia italiani e stranieri prodotti in quegli anni
dagli artisti più vari, da Jarry ad Apollinaire, dai Futuristi agli
Immaginisti: nel 1921, la vecchia sede della Casa d’Arte aveva ospitato anche
la mostra di opere dadaiste facente parte della Grande Stagione Dada Romana che
aveva messo in programma esposizioni, declamazioni, esecuzioni di musiche
dadaiste e una conferenza di Evola su Tzara nell’Aula Magna dell’Università.
l testo di Braibanti è precedente rispetto a quelli di Kaiser e Bachtin,
risale al 1951, non può quindi giovarsi delle ricerche dei due autori ma, per
le sue finalità, la sorte del grottesco nella storia dell’arte è di importanza
relativa. Conosceva e cita altrove il testo di Gino Gori sul grottesco
nell’arte, ne apprezza l’impresa ma coglie i limiti della riduzione dello
spirito del grottesco all’ambito dell’artistico. Il luogo privilegiato del
grottesco è la vita, lo spazio interindividuale è dove si dispiegano le sue
epifanie. GORI GINO. Il teatro contemporaneo e le sue correnti
caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni. Torino, Fratelli
Bocca, 1924. In-8°, pp. (4), 282, (2), brossura editoriale con titolo in rosso
e nero entro bordura ornamentale anch'essa in bicromia. Gore al dorso. Una
piccola mancanza al margine superiore del piatto posteriore. Bella copia in
barbe e a fogli chiusi. Prima edizione. Rassegna della produzione teatrale e
delle nuove tendenze del teatro italiano e mondiale a cavallo tra il finire
dell'800 e i primi decenni del '900. Partendo dalla riforma dell'opera
lirica di Wagner e dalla sua teoria dell'opera d'arte totale, Gori passa
a discorrere di Maeterlinck, Andreev, del "teatro dell'Anima" di
Schuré e Claudel, del teatro dell'"esteriorismo" (D'Annunzio, Wilde,
Péladan, Erdös), del teatro cinese e giapponese, di Tagore, Tolstoj, Gorkij,
dell'Espressionismo, di Shaw, di Ibsen, del teatro borghese, del teatro
dialettale italiano, del teatro delle nazioni europee minori (discorre anche
del teatro dell'Islanda o della Lituania o della Bulgaria), delle "forme
rudimentarie" del teatro presso i popoli selvaggi. Gino Gori (Roma,
1876-Sant'Ilario Ligure, 1952), poeta, drammaturgo e critico letterario romano
fiancheggiatore del Futurismo, aprì a Roma il famoso Cabaret del Diavolo,
realizzato da Fortunato Depero. (cfr. Catalogo mostra Fortunato Depero,
Fondazione Palazzo Bricherasio). Letterature moderne. Studi diretti da Arturo
Farinelli. Cammarota, Futurismo, 248.2 GORI GINO. L'irrazionale. Volume primo.
Filosofia ed estetica. Sistema di una nuova scienza del bello. Volume secondo.
L'eroe e la falce. Scorcio architettonico di letteratura europea dalle origini
ai nostri giorni. Foligno, Campitelli, 1924. 2 voll. in-8° (200135mm), pp. XI;
182, (2); 183-550, (4) [paginazione continua]; brossure editoriali.
Bell'esemplare in parte intonso. Prima edizione e primo migliaio di questo
importante saggio di estetica suggestionato dalla poetica futurista GORI,
Gino. - Nacque a Roma, il 7 luglio 1876, da Vincenzo Guglielmo e Giovanna
Santi. Terminato il liceo, si laureò dapprima in giurisprudenza, iscrivendosi
poi a medicina, senza tuttavia nutrire particolare interesse neppure per questo
indirizzo di studi. Egli si sentiva piuttosto attratto dalla letteratura, dalla
filosofia e, in particolare, dal teatro, di cui prese a scrivere fin dai primi
anni del nuovo secolo. Collaboratore di vari giornali e riviste - tra cui
il Don Chisciotte, il Capitan Fracassa, La Vita, La Patria, il Don Marzio,
L'Ora, Il Tirso, di cui fu redattore capo nel 1912-13, Aprutium di Teramo, Noi
e il mondo, mensile illustrato de La Tribuna di Roma -, si fece presto la fama
di critico militante severo e intransigente. Amico di Trilussa e suo
ammiratore, compose poesie e canovacci teatrali in romanesco.
Anticlericale e massone, allo scoppio della Grande Guerra fu interventista e
irredentista. Nel primo dopoguerra e negli anni successivi prese a sostenere la
cultura modernista e il teatro sperimentale, gestendo il cabaret dell'hôtel
Majestic, di cui era proprietario. Viaggiò molto sia in Europa (Francia,
Spagna, Germania, Russia) sia in America (Messico, California). Il 30 nov. 1929
sposò Giulia Massobrio, vedova di G. Volante. Dopo il matrimonio il G. lasciò
Roma, interrompendo l'intensa attività letteraria cui si era dedicato, e si
trasferì a Chianciano, dove comprò e gestì l'albergo Excelsior. Sempre a
Chianciano fondò e diresse il periodico Il Giornale dell'albergatore.
Intellettuale e poligrafo - fu infatti poeta, romanziere, filosofo con
particolare attenzione all'estetica, saggista, critico militante, studioso di
teatro - il G., finché si dedicò ad attività culturali, si adoperò
principalmente a sostenere e diffondere, nell'Italia del primo Novecento, un
clima e un gusto più avanzati e moderni; i suoi maggiori e più significativi
contributi, tutti concentrati nel corso degli anni Venti, riguardano le teorie
e le pratiche poste a fondamento del processo di rinnovamento del teatro
contemporaneo. Dopo gli studi giuridici e di medicina, il G. aveva
provveduto a darsi una solida e rigorosa preparazione letteraria e filosofica,
coniugando l'educazione sui classici con un'informazione puntuale e aggiornata
sugli orientamenti e sugli esiti più attuali della poesia, della critica, della
narrativa, dell'editoria a livello nazionale ed europeo. Insofferente, come
molti suoi coetanei, nei confronti dei contenuti e dei metodi del positivismo e
degli indirizzi storico-filologici, fu convinto seguace dell'idealismo di B.
Croce e della rinascita dell'interesse per la critica di F. De Sanctis; la sua
attenzione si estese, da Croce e dai crociani, anche agli intellettuali che
dialogavano con Croce dall'esterno dell'idealismo. Di questa sua
posizione egli rende conto in Il mantello di Arlecchino (Roma 1914 [ma 1913]),
sostanziosa silloge ricca di indicazioni e di suggestioni critiche, in cui
traccia il panorama della letteratura italiana della belle époque. Se De
Sanctis e Croce forniscono modelli e suggerimenti, tuttavia il lavoro critico
del G. non è inteso come applicazione pedissequa della dottrina dei maestri:
egli integra, rilegge, propone nuove osservazioni. A complemento di questo
lavoro è poi allegato un esaustivo tracciato dell'attività editoriale in
Italia. Di umori nazionalisti e interventisti è intrisa la sua prima
raccolta di versi in dialetto romanesco, Er libbro rosso de la guera (Roma
1915; che contiene anche il canovaccio teatrale in dialetto Le maschere de la
guera, pp. 3-21) mentre, per Trieste italiana e contro il mondo tedesco, il G.
pubblicò in Aprutium(IV [1915], f. 8), una canzone, Sorella nostra!,
celebrativa della latinità assunta a valore contro la barbarie del "duro
settentrione". Fu, comunque, la Grande Guerra a far maturare in lui un
processo di piena conversione al moderno, inteso quale gusto, mimesi
linguistica, diegesi e strumentazione di idee e di stili fondati sul
nuovo. Si avvicinò a F.T. Marinetti, di cui tra i primi aveva dato un
profilo essenziale e pertinente (ne Il mantello di Arlecchino, pp. 193-211), e
ne divenne amico, ma corresse anche il giudizio nei confronti dei futuristi,
che nell'anteguerra egli aveva adeguato, sulla scorta di G. Papini, a
"marinettiani" (ibid., pp. 213-223), tra i quali, invece, venne
distinguendo posizioni diverse, sostenendo soprattutto alcuni di essi, come R.
Vasari, L. Folgore ed E. Prampolini. Meditò attentamente sul teatro di L.
Pirandello, si entusiasmò per il teatro del colore di A. Ricciardi, strinse
amicizia con i Bragaglia, con V. Orazi, con M. Bontempelli. Fu soprattutto
l'ispirazione poetica a farsi nel G. più avvolgente e convinta: la parola, che
nelle sue composizioni d'anteguerra si risolveva in veicolo di denunzia, di
argomentazione e di persuasione, o di descrizioni realistiche (vedi Er libbro
rosso de la guera), acquistò nuove sfumature, più allusive, e si dispose su
tramature in cui si riscontrano riflessi di G. Pascoli, di G. Gozzano, di C.
Govoni, di A. Palazzeschi, raggiungendo talora esito felice, come nelle tre
liriche Alla stazione, Ogni giorno così e Limbo, apparse in Le foglie
dell'orologio (Roma s.d.), poi riproposte con diverso titolo in Il grande amore
(Firenze 1926). In quest'ultima silloge, accanto alle tre citate,
figurano nuove composizioni, ispirate al realismo magico di Bontempelli (Sembra
una favola!, A teatro, Le tre vecchine, Orgoglio); e, di fatto, l'avvicinamento
a Bontempelli, sia sul versante saggistico-estetologico sia su quello poetico,
era iniziato da tempo: già la raccolta Il mulino della luna (Milano 1924; di
cui si ricordano in particolare Come un cipresso notturno, L'oca azzurra,
L'isola lontana, Pierrots, Si parte, Con la rete dei pensieri, È passato il re,
L'automa nella pioggia, Annunciazione, Epilogo), posta cronologicamente fra le
due summenzionate, poggiava sostanzialmente su una griglia di suggerimenti
metafisico-surreali ascrivibili all'ambito ideale di Bontempelli e ai suoi
immediati dintorni. Non altrettanto positivo e più scontato l'esito
raggiunto dal G. nel romanzo e nella novella (per lo più inediti) con l'eccezione
di L'oca azzurra (Roma 1925) - che riprende titolo e immagini della lirica de
Il mulino della luna, intrisa di un umorismo alla Folgore e di un magismo che
rinvia nuovamente a Bontempelli - e di Coriandoli, una raccolta, appunto
inedita, di novelle. Ma gli interventi più interessanti del G. sono
quelli legati al discorso critico sul teatro, riguardo al quale egli concordava
con avanguardisti e sperimentali sull'ineludibilità del rinnovamento delle sue
pratiche, delle sue strategie e dell'idea stessa su cui esso si costituisce. A
tal fine, si impegnò innanzitutto concretamente, fondando e gestendo in proprio
un laboratorio teatrale posto sotto il segno di un "antigrazioso"
irritante e provocatorio; infatti, nel 1921, a Roma, con un anno di anticipo
sul teatro degli Indipendenti di A.G. Bragaglia, egli aveva fondato e preso a
dirigere quel cabaret, La Bottega del diavolo, sito all'interno dell'hôtel
Élite et des étrangers, poi Majestic, di sua proprietà. Dell'albergo
erano frequentatori e gratuitamente ospiti numerosi futuristi, tra cui
Marinetti, giornalisti e scrittori; negli scantinati, detti
l'"inferno", arredati con mobili e manufatti realizzati da F. Depero,
da Prampolini e da altri, e decorati con immagini di diavoli danzanti, armati
di forconi e pronti a scaraventare nelle fiamme i dannati, si davano ogni
sabato spettacoli futuristi e modernisti. Ai programmi, e alla loro
realizzazione, presiedeva una commissione di esperti e primi attori, tra cui
erano lo stesso G., nel ruolo di Minosse, Trilussa quale Lucifero, Folgore come
Cerbero, e Bontempelli come Barbariccia (per una dettagliata testimonianza sul
cabaret, che andò avanti fino al 1927, si veda Un covo di diavoli nella Roma di
40 anni fa, in Il Tempo, 19 apr. 1967). Dietro la facciata di questo
underground ante litteram, il G. andava maturando la sua riflessione sul
rapporto tra teatro e corporeità, dionisismo, vitalismo, e sulla necessità di
accelerare il processo di rivitalizzazione e risignificazione del teatro stesso
e delle attività collegate. A monte di tale riflessione specificamente
orientata sul teatro, si collocavano i due volumi del saggio L'irrazionale (I,
Filosofia ed estetica. Sistema di una nuova scienza del bello; II, L'eroe e la
falce. Scorcio architettonico di letteratura europea dalle origini ai nostri
giorni, Foligno 1924), che s'inseriscono, con ogni evidenza, nel quadro
generale dell'avanguardia internazionale, impegnata a riconsiderare i
fondamenti dell'arte e dell'estetica nella chiave del notturno,
dell'inquietante, dell'anamorfico. Viceversa il discorso specifico sul
teatro s'innerva in tre opere successive: Il teatro contemporaneo e le sue
correnti caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni
(Torino-Milano-Roma 1924), che si propone di indagare sui nuovi linguaggi del
teatro nelle sue varie manifestazioni nazionali; Scenografia. La tradizione e
la rivoluzione contemporanea (Roma 1926), in cui il G. esamina, tramite lo
specifico della scenografia, le vie attraverso le quali si possa raggiungere e
comunicare la realtà "che si trova di là dall'apparenza" (p. 210), e
come si possa darne una rappresentazione, interrogandosi su intuizioni e
tentativi di alcuni tra i nomi più significativi della storia del teatro
moderno - a partire da R. Wagner e proseguendo con G. Craig, A. Appia, V.
Mejerchol´d - ma soprattutto dando conto delle esperienze del "teatro
della sorpresa" futurista - di Vasari in particolare (L'angoscia delle
macchine, Milano 1925), ma anche di Prampolini, V. Marchi, Folgore, oltre che
del "teatro del colore" di A. Ricciardi e del laboratorio di A.G.
Bragaglia -, e studiando le esperienze futuriste del dinamismo plastico, della
simultaneità e della sintesi. Seguì infine Il grottesco nell'arte e nella
letteratura (ibid. 1927), in cui, riproponendo anche alcuni studi di prima
della guerra (sul grottesco nell'Inferno di Dante, sulla maschera turca di
Karagöz), il G. approfondisce soprattutto lo studio sul teatro futurista
italiano nella chiave del grottesco e del fantastico (in particolare, E.
Cavacchioli, L. Chiarelli, L. Antonelli). Al termine dell'intensa
stagione intellettuale degli anni Venti, convinto di essere stato sfruttato e
trascurato dalla cultura ufficiale, il G. si appartò, allontanandosi da Roma,
senza tuttavia smettere di studiare e di scrivere: lasciò quindi numerosi
scritti inediti conservati presso gli eredi. Nel secondo dopoguerra, il
G. si stabilì in una località di mare, Sant'Ilario Ligure (Genova), dove morì
il 24 dic. 1952. Tra le opere del G., oltre a quelle citate nel testo, si
ricordano: per la narrativa: Cagliostro(Milano 1925); per la saggistica: Le
bruttezze della Divina Commedia (Alatri 1920); Le bellezze della Divina
Commedia (Milano s.d. [ma 1921]); Studi di estetica dell'irrazionale(ibid. s.d.
[ma 1921]). Fonti e Bibl.: M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Roma
1969, pp. 274-276 e passim; Id., Prosa e critica futurista, Milano 1973, pp.
314-317, 339; P.D. Giovanelli, G. G.: l'irrazionale e il teatro, Roma 1978; U.
Piscopo, G. G., in Dizionario del futurismo, a cura di E. Godoli, Firenze 2001,
sub voce.Gino Gori. Keywords: l’eroe e la falce, bello, eroe, falce,
irrazionale, mantello dell’arlecchino –
bellezza, futurismo – Refs: Luigi Speranza, “Grice e Gori” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51701334178/in/photolist-2mR9Kz4-2mPAWP1-2mN35cA-2mLKeCe-2mLP3hz-2mLERpq-2mKMuu9-2mKC3nj-2mKCMei-2mJ3q6x-FNptwK-ESZ2oh-ESYzUw-ETfeER-FGy1TZ-ETbJX6-ETbpBn-FEfv5Y-FGxVqp-ETe2Ut-FGCKMg-ETbawt-FohZR5-FNqpZT-FNpoR2-jkKjmQ-jrB3iu-nFTbv2-nHuSHb
Grice e Gramsci – contro Croce – partito socialista
italiano – il comune – l’elite – Mosca -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ales). Filosofo. Grice: “Some Italians don’t consider Gramsci
Italian on account of the fact that Gramsci is not an Italian last name!” Fu
tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia, divenendone esponente di primo
piano e segretario, ma venne ristretto dal regime fascista nel carcere di Turi.
In seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la
libertà condizionata e fu ricoverato in clinica, dove trascorse gli ultimi anni
di vita. Considerato uno dei più importanti pensatori del XX secolo, nei
suoi scritti, tra i più originali della tradizione filosofica marxista,
analizza la struttura culturale e politica di Italia. Elaborò in particolare il
concetto di egemonia, secondo il quale le classi dominanti impongono i propri
valori politici, intellettuali e morali a tutta la società, con l'obiettivo di
saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le
classi sociali, comprese quelle subalterne. Gli antenati paterni derano
originari della città di Gramshi in Albania, e potrebbero essere giunti in
Italia durante la diaspora albanese causata dall'invasione turca. Documenti
d'archivio attestano che nel Settecento il trisavolo Gennaro Gramsci, sposato
con Domenica Blajotta, possedeva a Plataci, comunità ‘’arbëreshë’’ del
distretto di Castrovillari, delle terre poi ereditate da Nicola Gramsci. Questi
sposò Maria Francesca Fabbricatore, e dal loro matrimonio nacque a Plataci
Gennaro Gramsci, che intraprese la carriera militare nella gendarmeria del
Regno di Napoli e, quando era di stanza a Gaeta, sposò Teresa Gonzales, figlia
di un avvocato napoletano. Il loro secondo figlio fu Francesco, il padre di
Antonio Gramsci. Le origini albanesi erano conosciute dallo stesso Gramsci,
che tuttavia le immaginava più recenti, come scriverà alla cognata Tatiana
Schucht dal carcere di Turi: «o stesso non ho alcuna razza; mio padre è di
origine albanese (la famiglia scappò dall'Epiro durante la guerra del 1821, ma
si italianizzò rapidamente). Tuttavia la mia cultura è italiana,
fondamentalmente questo è il mio mondo; non mi sono mai accorto di essere
dilaniato tra due mondi. L'essere io oriundo albanese non fu messo in giuoco
perché anche Crispi era albanese, educato in un collegio albanese.” Ghilarza:
casa museo Antonio Gramsci Francesco era studente in legge quando morì il
padre; dovendo trovare subito un lavoro, partì per la Sardegna per impiegarsi
nell'Ufficio del registro di Ghilarza. In questo paese, che allora contava
circa 2.200 abitanti, conobbe Marcias, figlia di un esattore delle imposte e
proprietario di alcune terre. La sposò malgrado l'opposizione dei familiari,
rimasti in Campania, che consideravano i Marcias una famiglia di rango
inferiore alla propria dal punto di vista sociale e culturale: Giuseppina aveva
studiato fino alla terza elementare. Dal matrimonio nascerà Gennaro e, dopo che
Francesco Gramsci fu trasferito da Ghilarza ad Ales, Grazietta ed Emma. Gramsci
nasce secondo il registro delle nascite dello stato civile del comune e
registrato con i nomi di Antonio, Francesco. Scondo il registro dei battesimi
della parrocchia di San Pietro nasce il giorno dopo, e viene registrato con i nomi di Antonio,
Sebastiano, Francesco. Il padre fu trasferito, come gerente dell'Ufficio
del Registro, a Sorgono e qui nacquero gli altri figli, Mario, Teresina, e
Carlo. Antonio si ammala del morbo di Pott, una tubercolosi ossea che in pochi
anni gli deformò la colonna vertebrale e gli impedì una normale crescita:
adulto, non supererà il metro e mezzo di altezza; i genitori pensavano che la
sua deformità fosse la conseguenza di una caduta e anche Antonio rimase
convinto di quella spiegazione. Ebbe sempre una salute delicate. Soffrendo di
emorragie e convulsioni, fu dato per spacciato dai medici, tanto che la madre
comprò la bara e il vestito per la sepoltura. Il padre Francesco fu
arrestato, con l'accusa di peculato, concussione e falsità in atti, e venne
condannato al minimo della pena con l'attenuante del «lieve valore»: 5 anni, 8
mesi e 22 giorni di carcere, da scontare a Gaeta. Priva del sostegno dello
stipendio del padre, la famiglia trascorse anni di estrema miseria, che la
madre affrontò vendendo la sua parte di eredità, tenendo a pensione il
veterinario del paese e guadagnando qualche soldo cucendo camicie. Proprio
per le sue delicate condizioni di salute Gramsci comincia a frequentare la
scuola elementare soltanto a sette anni: la concluse ncon il massimo dei voti,
ma la situazione familiare non gli permise di iscriversi al ginnasio. Già
dall'estate precedente aveva iniziato a dare il suo contributo all'economia
domestica lavorando 10 ore al giorno nell'Ufficio del catasto di Ghilarza per 9
lire al mese l'equivalente di un chilo di pane al giornos muovendo «registri
che pesavano più di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi doleva
tutto il corpo». Grazie a un'amnistia, il padre anticipò di tre mesi la
fine della sua pena: inizialmente guadagnò qualcosa come segretario in
un'assicurazione agricola, poi, riabilitato, fece il patrocinante in conciliatura
e infine fu riassunto come scrivano nel vecchio Ufficio del catasto, dove
lavorò per il resto della sua vita. Così, pur affrontando gli abituali
sacrifici, i genitori poterono iscrivere il quindicenne Antonio nel Ginnasio cdi
Santu Lussurgiu, «un piccolo ginnasio in cui tre sedicenti professori
sbrigavano, con molta faccia tosta, tutto l'insegnamento delle cinque
classi». Con tale preparazione un poco avventurosa, riuscì tuttavia a
prendere la licenza ginnasiale a Oristano e a iscriversi al Liceo classico
Giovanni Maria Dettori di Cagliari, stando a pensione, prima in un appartamento
in via Principe Amedeo 24, poi, l'anno dopo, in corso Vittorio Emanuele 149,
insieme con il fratello Gennaro, il quale, terminato il servizio di leva a
Torino, lavorava per cento lire al mese in una fabbrica di ghiaccio del
capoluogo sardo. La modesta preparazione ricevuta nel ginnasio si fece
sentire, perché inizialmente Gramsci nelle diverse materie ottenne appena la
sufficienza, ma riuscì a recuperare in fretta: del resto, leggere e studiare
erano i suoi impegni costanti. Non si concedeva distrazioni, non soltanto
perché avrebbe potuto permettersele solo con grandi sacrifici, ma anche perché
l'unico vestito che possedeva, per lo più liso, non lo incoraggiava a frequentare
né gli amici, né i locali pubblici. A scuola, mostrò uno spiccato interesse per
le discipline umanistiche e per lo studio della storia, anche perché il cattivo
insegnamento ricevuto in matematica gli fece perdere l'interesse per la
materia. Nel frattempo, il giovane Gramsci, iniziò a seguire le vicende
politiche. Il fratello Gennaro, che era tornato in Sardegna militante
socialista, divenne cassiere della Camera del lavoro e segretario della sezione
socialista di Cagliari: «Una grande quantità di materiale propagandistico,
libri, giornali, opuscoli, finiva a casa. Nino, che il più delle volte passava
le sere chiuso in casa senza neanche un'uscita di pochi momenti, ci metteva
poco a leggere quei libri e quei giornali». Leggeva anche i romanzi popolari di
Carolina Invernizio, di Barrili e quelli di Deledda, ma questi ultimi non li
apprezzava, considerando folkloristica la visione che della Sardegna aveva la
scrittrice sarda; leggeva Il Marzocco e La Voce di Prezzolini, Papini, Emilio Cecchi «ma in cima
alle sue raccomandazioni, quando mi chiedeva di ritagliare gli articoli e di
custodirli nella cartella, stavano sempre Croce e Salvemini». Alla fine
della seconda classe liceale, alla cattedra di lettere italiane del Liceo salì Garzia,
radicale e anticlericale, direttore de L'Unione Sarda, quotidiano legato alle
istanze sarde, rappresentate, in Parlamento da Cocco-Ortu, allora impegnato in
una dura opposizione al ministero di Luigi Luzzatti. Gramsci instaurò con il
Garzia un buon rapporto, che andava oltre il naturale discepolato: invitato
ogni tanto a visitare la redazione del giornale, ricevette la tessera di
giornalista, con l'invito a «inviare tutte le notizie di pubblico interesse. Ebbe
la soddisfazione di vedersi stampato il suo primo scritto pubblico, venticinque
righe di cronaca ironica su un fatto avvenuto nel paese di Aidomaggiore.
In un tema dell'ultimo anno di liceo, che ci è conservato, Gramsci scriveva,
tra l'altro, che «Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà la
Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi;
ma non ha fatto che sostituire una classe all'altra nel dominio. Però ha
lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali,
essendo prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate».
La sua concezione socialista, qui chiaramente espressa, va unita, in questo
periodo, all'adesione all'indipendentismo sardo, nel quale egli esprimeva,
insieme con la denuncia delle condizioni di arretratezza dell'isola e delle
disuguaglianze sociali, l'ostilità verso le classi privilegiate del continente,
fra le quali venivano compresi, secondo una polemica mentalità di origine
contadina, gli stessi operai, concepiti come una corporazione elitaria fra i
lavoratori salariati. Poco dopo Gramsci conoscerà da vicino la realtà
operaia di una grande città del Nord: il
conseguimento della licenza liceale con una buona votazione tutti otto e un
nove in italianogli prospetta la possibilità di continuare gli studi all'Università.
Il Collegio Carlo Alberto di Torino bandì un concorso, riservato a tutti gli
studenti poveri licenziati dai Licei del Regno, offrendo 39 borse di studio,
ciascuna equivalente a 70 lire al mese per 10 mesi, per poter frequentare Torino.
Fu uno dei due studenti di Cagliari ammessi a sostenere gli esami a
Torino. «Partii per Torino come se fossi in stato di sonnambulismo. Avevo
55 lire in tasca; avevo speso 45 lire per il viaggio in terza classe delle 100
avute da casa». Conclude gli esami: li supera classificandosi nono; al secondo
posto è uno studente genovese venuto da Sassari, Palmiro Togliatti. Si
iscrive alla Facoltà di Lettere, ma le settanta lire al mese non bastano
nemmeno per le spese di prima necessità: oltre alle tasse universitarie, deve
pagare venticinque lire al mese per l'affitto della stanza di Lungo Dora
Firenze 57, nel popolare quartiere di Porta Palazzo, e il costo della luce,
della pulizia della biancheria, della carta e dell'inchiostro, e ci sono i
pasti«non meno di due lire alla più modesta trattoria»e la legna e il carbone
per il riscaldamento: privo anche di un cappotto, «la preoccupazione del freddo
non mi permette di studiare, perché o passeggio nella camera per scaldarmi i
piedi oppure devo stare imbacuccato perché non riesco a sostenere la prima
gelata». Sono frequenti le richieste di denaro alla famiglia che però, da parte
sua, non se la passava di certo molto meglio. L'Università degli Studi di
Torino vantava professori di alto livello e di diversa formazione: Luigi
Einaudi, Ruffini, Manzini, Toesca, Loria, Solari e poi Bartoli, che si legò di
amicizia con Gramsci, come fece anche l'incaricato di letteratura italiana Cosmo, contro il quale indirizzò però un
articolo violentemente polemico. Anni dopo, durante la dura esperienza in
carcere, continuò comunque a ricordarlo con simpatia«serbo del Cosmo un ricordo
pieno di affetto e direi di venerazione era e credo sia tuttora di una grande
sincerità e dirittura morale con molte striature di quella ingenuità nativa che
è propria dei grandi eruditi e studiosi»ricordando anche che, con questi e con
molti altri intellettuali dei primi quindici anni del secolo, malgrado
divergenze di varia natura, egli avesse questo in comune: «partecipavamo in
tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in
Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno
può e deve vivere senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altro
si vuol dire. Questo punto anche oggi mi pare il maggior contributo alla
cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani. Si
ritrovò a casa per le elezioni politiche, dopo la fine della guerra italo-turca
contro l'Impero ottomano per la conquista della Libia; votavano per la prima
volta anche gli analfabeti, ma la corruzione e le intimidazioni erano le stesse
delle elezioni precedenti. In Sardegna, il timore che l'allargamento della base
elettorale favorisse i socialisti portò al blocco delle candidature di tutte le
forze politiche contro i candidati socialisti, indicati come il comune nemico
da battere. In quest'obiettivo, "sardisti" e "non-sardisti"
si trovarono d'accordo e deposero le vecchie polemiche. Gramsci scrisse di
quest'esperienza elettorale al compagno di studi Tasca, dirigente socialista torinese,
il quale affermò che Gramsci «era stato molto colpito dalla trasformazione
prodotta in quell'ambiente dalla partecipazione delle masse contadine alle
elezioni, benché non sapessero e non potessero ancora servirsi per conto loro
della nuova arma. Fu questo spettacolo, e la meditazione su di esso, che fece
definitivamente di Gramsci un socialista». Tornò a Torino, andando ad
affittare una stanza all'ultimo piano del palazzo di via San Massimo 14, oggi
Monumento nazionale; dovrebbe datarsi a questo periodo la sua iscrizione al
Partito socialista. Si trovò in ritardo con gli esami, con il rischio di
perdere il contributo della borsa di studio, a causa di «una forma di anemia
cerebrale che mi toglie la memoria, che mi devasta il cervello, che mi fa impazzire
ora per ora, senza che mi riesca di trovare requie né passeggiando, né disteso
sul letto, né disteso per terra a rotolarmi in certi momenti come un
furibondo». Riconosciuto «afflitto da grave nevrosi» gli fu concesso di
recuperare gli esami nella sessione di primavera. Prese anche lezioni di filosofia
da Pastore, il quale scrisse poi che «il suo orientamento era originalmente
crociano ma già mordeva il freno e non sapeva ancora come e perché staccarsi voleva
rendersi conto del processo formativo della cultura agli scopi della
rivoluzione come fa il pensare a far agire come le idee diventano forze
pratiche». Gramsci stesso scriverà di aver sentito anche la necessità di
«superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello che era proprio
di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi un modo di vivere e di
pensare non più regionale e da villaggio, ma nazionale» ma anche «di provocare
nella classe operaia il superamento di quel provincialismo alla rovescia della
palla di piombo come il Sud Italia e generalmente considerato nel Nord che
aveva le sue profonde radici nella tradizione riformistica e corporativa del
movimento socialista». L'iscrizione al partito gli permise di superare in parte
un lungo periodo di solitudine: ora frequentava i giovani compagni di partito,
fra i quali erano Tasca, Togliatti, Terracini. “Uscivamo spesso dalle riunioni
di partito mentre gli ultimi nottambuli si fermavano a sogguardarci continuavamo
le nostre discussioni, intramezzandole di propositi feroci, di scroscianti
risate, di galoppate nel regno dell'impossibile e del sogno». Nell'Italia che
ha dichiarato la propria neutralità nella Prima guerra mondiale in
corsoneutralità affermata anche dal Partito socialistascrive per la prima volta
sul settimanale socialista torinese Il Grido del Popolo l'articolo Neutralità
attiva e operante in risposta a quello apparso il 18 ottobre sull'Avanti! di
Mussolini Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante, senza
però poter comprendere quale svolta politica stesse preparando l'allora
importante e popolare esponente socialista. Sostenne quello che sarà, senza che lo sapesse ancora,
il suo ultimo esame all'Università; il suo impegno politico si fece crescente
con l'entrata in guerra dell'Italia e con il suo ingresso nella redazione
torinese dell'Avanti!. Trascorse gran parte delle sue giornate all'ultimo
piano nel palazzo dell'Alleanza Cooperativa Torinese al numero 12 di corso
Siccardi (oggi Galileo Ferraris), dove, in tre stanze, erano situate la sezione
giovanile del partito socialista e le redazioni de Il Grido del Popolo e del
foglio piemontese dell'Avanti!, che comprendeva la rubrica della cronaca
torinese, Sotto la Mole; in entrambi i giornali Gramsci pubblicava di tutto,
dai commenti sulla situazione interna ed estera agli interventi sulla vita di
partito, dagli articoli di polemica politica alle note di costume, dalle
recensioni dei libri alla critica teatrale. Dirà più tardi di aver scritto in
dieci anni di giornalismo «tante righe da poter costituire quindici o venti
volumi di quattrocento pagine, ma esse erano scritte alla giornata e dovevano
morire dopo la giornata» e di aver contribuito «molto prima di Tilgher» a
rendere popolare il teatro di Pirandello: «ho scritto sul Pirandello tanto da
mettere insieme un volumetto di duecento pagine e allora le mie affermazioni
erano originali e senza esempio: Pirandello era o sopportato amabilmente o
apertamente deriso». Della commedia di Pirandello Pensaci, Giacomino! scrisse
che «è tutto uno sfogo di virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii
discorsivi. I tre atti corrono su un solo binario. I personaggi sono oggetto di
fotografia piuttosto che di approfondimento psicologico: sono ritratti nella
loro esteriorità più che in una intima ricreazione del loro essere morale. È
questa del resto la caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello, che coglie
della vita la smorfia, più che il sorriso, il ridicolo, più che il comico: che
osserva la vita con l'occhio fisico del letterato, più che con l'occhio
simpatico dell'uomo artista e la deforma per un'abitudine ironica che è
l'abitudine professionale più che visione sincera e spontanea», mentre
considerò Liolà «il prodotto migliore
dell'energia letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a
spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per
partito preso troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a
sommergersi in una palude retorica di una moralità inconsciamente predicatoria,
e di molta verbosità inutile». Il fu Mattia Pascal, secondo Gramsci, è
una sorta di prima stesura del Liolà che, liberato dalla zavorra moralistica
della vita, si è rinnovato diventando una pura rappresentazione, «una farsa che
si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, e che ha il suo
corrispondente pittorico nell'arte figurativa vascolare è una vita ingenua, rudemente sincera una
efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita
è bella, il lavoro è un'opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da
tutta la materia organica». Severo fu invece il giudizio sul Così è (se
vi pare): dalla tesi pseudo-logistica che la verità in sé non esista,
Pirandello «non ha saputo trarre dramma e neppure motivo a rappresentazione
viva e artistica di caratteri, di persone vive che abbiano un significato
fantastico, se non logico. I tre atti di Pirandello sono un semplice fatto di
letteratura [puro e semplice aggregato di parole che non creano né una verità
né un'immagine il vero dramma l'autore l'ha solo adombrato, l'ha accennato: è
nei due pseudopazzi che non rappresentano però la loro vera vita, l'intima
necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono presentati come pedine
della dimostrazione logica». Rivolgendosi ai giovani, scrisse da solo il
numero unico del giornale dei giovani socialisti La Città future. Qui mostra la
sua intransigenza politica, la sua ironia, anche contro i socialisti
riformisti, il fastidio verso ogni espressione retorica ma anche la sua
formazione idealistica, i suoi debiti culturali nei confronti di Croce,
superiori perfino a quelli dovuti a Marx: «in quel tempo»scriverà«il concetto
di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica, non era chiaro in me e
io ero tendenzialmente crociano». Lo zar di Russia Nicola II è facilmente
rovesciato da pochi giorni di manifestazioni popolari, per lo più spontanee,
che chiedono pane e la fine dell'autocrazia: viene instaurato un moderato
governo liberale e, insieme, si ricostituiscono i Soviet, forme di rappresentanza
su base popolare già creati nella precedente Rivoluzione russa del 1905; le
notizie giungono in Italia parziali e confuse: i quotidiani «borghesi»
sostengono che si tratta dell'avviamento di un processo di democratizzazione in
Russia, sull'esempio della grande Rivoluzione francese, mentre Gramsci è
convinto che «la rivoluzione russa è un atto proletario ed essa naturalmente
deve sfociare nel regime socialista i
rivoluzionari socialisti non possono essere giacobini: essi in Russia hanno
solo attualmente il compito di controllare che gli organismi borghesi non facciano
essi del giacobinismo». Con il ritorno in Russia di Lenin, che pone subito il
problema della pace immediata e della consegna del potere ai Soviet, la lotta
politica si radicalizza. Gramsci è convinto che Lenin abbia «suscitato energie
che più non morranno. Egli e i suoi compagni bolscevichi sono persuasi che sia
possibile in ogni momento realizzare il socialismo». Gramsci nega
esplicitamente la necessità dell'esistenza di condizioni obiettive affinché una
rivoluzione trionfi, quando scrive che i bolscevichi «sono nutriti di pensiero
marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti. E il pensiero rivoluzionario
nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte le esperienze
intermedie tra la concezione del socialismo e la sua realizzazione debbano
avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e integrale». È
l'anticipazione dell'articolo, più famoso, che scriverà subito dopo la notizia
del successo della Rivoluzione d'ottobre. Anche in Italia la guerra
interminabile, costata già centinaia di migliaia di morti e di mutilati, la
penuria dei generi alimentari, la sconfitta di Caporetto e la stessa eco
provocata dalla rivoluzione russa portarono a insofferenze che a Torino
sfociarono in un'autentica sommossa spontanea duramente repressa dal governo:
oltre 50 morti, più di duecento feriti, la città dichiarata zona di guerra con
la conseguente applicazione della legge marziale, arresti a catena che
colpirono non solo i diretti responsabili ma, indiscriminatamente, anche gli
elementi politici d'opposizione e segnatamente l'intero nucleo della sezione
socialista, con l'accusa di istigazione alla rivoluzione. In conseguenza
dell'emergenza venutasi a creare, la direzione della Sezione socialista torinese
venne assunta da un comitato di dodici persone, del quale fece parte anche
Gramsci, il quale rimane l'unico redattore de Il Grido del Popolo che cesserà
le pubblicazioni. I bolscevichi avevano preso il potere in Russia ma per
settimane in Europa giunsero solo notizie deformate, confuse e censurate,
finché l'edizione nazionale dell'Avanti! uscì con un editoriale dal titolo La
rivoluzione contro il Capitale, firmato da Gramsci: «La rivoluzione dei
bolscevichi è materiata di ideologia più che di fatti essa è la rivoluzione
contro il Capitale di Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei
borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale
necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era
capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il
proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni
di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti
hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia
avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni
del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non
sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una
dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il
pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del
pensiero idealistico italiano e tedesco, che in Marx si era contaminato di
incrostazioni positivistiche e naturalistiche». In realtà Marx, almeno negli
ultimi anni, non aveva escluso che un Paese arretrato potesse giungere al
socialismo saltando fasi di sviluppo capitalistico: ma qui interessa rilevare
tanto la visione di Gramsci ancora idealistica, volontaristica, dell'azione
politica, quanto la critica che di fatto Gramsci rivolgeva ai dirigenti
socialisti europei, e italiani in particolare, di concepire lo sviluppo storico
in modo meccanicistico. Finita la guerra e usciti dal carcere i dirigenti
torinesi del partito, Gramsci lavorò unicamente all'edizione piemontese
dell'Avanti!, che allora si stampava in via Arcivescovado 3, insieme con alcuni
giovani colleghi: Giuseppe Amoretti, Alfonso Leonetti, Mario Montagnana, Felice
Platone; ma egli e altri giovani socialisti torinesi, come Tasca, Togliatti e
Terracini, intendevano ormai esprimere, dopo l'esperienza della rivoluzione
russa, esigenze nuove nell'attività politica, che non sentivano rappresentate
dalla Direzione nazionale del partito: «L'unico sentimento che ci unisse, in
quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga
cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza
un orientamento, tuffati nell'ardente vita di quei mesi dopo l'armistizio,
quando pareva immediato il cataclisma della società italiana». Uscì il primo
numero dell'Ordine nuovo con Gramsci segretario di redazione e animatore della
rivista. La rivista ebbe un avvio incerto: all'inizio «il programma fu
l'assenza di un programma concreto, per una vana e vaga aspirazione ai problemi
concreti nessuna idea centrale, nessuna organizzazione intima del materiale
letterario pubblicato» Tasca intendeva farne una pubblicazione culturale: «per
"cultura" intendeva "ricordare", non intendeva
"pensare", e intendeva "ricordare" cose fruste, cose
logore, la paccottiglia del pensiero operaio fu una rassegna di cultura
astratta, di informazione astratta, con la tendenza a pubblicare novelline
orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l'Ordine nuovo nei
suoi primi numeri». Gramsci intendeva invece definirlo su posizioni nettamente
operaistiche, ponendo all'ordine del giorno la necessità d'introdurre nelle
fabbriche italiane nuove forme di potere operaio, i consigli di fabbrica,
sull'esempio dei Soviet russi: «Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato
redazionale; il problema delle commissioni interne fu impostato esplicitamente
nel n. 7 della rassegna il problema dello sviluppo della commissione interna
divenne problema centrale, divenne l'idea dell'Ordine nuovo; era esso posto
come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della
"libertà" proletaria. L'Ordine nuovo divenne, per noi e per quanti ci
seguivano, "il giornale dei Consigli di fabbrica"; gli operai amarono
l'Ordine nuovo perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se
stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli
dell'Ordine nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore:
"Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?".
Perché gli articoli dell'Ordine nuovo non erano fredde architetture
intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori,
elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali». Diversamente dalle
Commissioni interne, già esistenti all'interno dalle fabbriche, che venivano
elette soltanto dagli operai iscritti ai diversi sindacati, i Consigli dovevano
essere eletti indistintamente da tutti gli operai e avrebbero dovuto, nel
progetto degli ordinovisti, non tanto occuparsi dei consueti problemi
sindacali, ma porsi problemi politici, fino al problema della stessa
organizzazione, della gestione operaia della fabbrica, sostituendosi al
capitalista: nel s, alla FIAT furono eletti i primi Consigli. La
Confindustria, nella sua Conferenza nazionale, espresse chiaramente «la
necessità che la borghesia del lavoro attinga in se stessa il mezzo per
un'energica azione contro deviazioni e illusioni» e il 20 marzo i tre maggiori
industriali torinesi, Olivetti, De Benedetti e Agnelli fecero presente al
prefetto Taddei la loro volontà di ricorrere all'arma della serrata delle
fabbriche contro «l'indisciplina e le continue esorbitanti pretese degli
operai». Così quando in occasione di una controversia sindacale nelle Industrie
Metallurgiche tre membri delle commissioni interne furono licenziati e gli
operai protestarono con lo sciopero, l'Associazione degli industriali
metalmeccanici rispose il 29 marzo con la serrata di tutte le fabbriche
torinesi. La lotta si estese fino allo sciopero generale proclamato a Torino e in alcune province piemontesi, mentre il
governo presidiava il capoluogo con migliaia di soldati. I tentativi degli
ordinovisti di allargare la protesta, se non in tutta l'Italia, almeno nei
maggiori centri industriali del paese, fallì e alla fine d'aprile gli operai
furono costretti a riprendere il lavoro senza avere ottenuto nulla. Lo
sciopero fallì per la resistenza degli industriali ma anche per l'isolamento in
cui la Camera del Lavoro, controllata dai socialisti riformisti, contrari alla
costituzione dei Consigli operai, e lo stesso Partito socialista lasciarono i
lavoratori torinesi; l'8 maggio Gramsci pubblicò sull'Ordine Nuovo una sua
relazione, approvata dalla Federazione torinese, che denunciava l'inefficienza
e l'inerzia del Partito. Dopo aver sostenuto che era matura la trasformazione
dell'«ordine attuale di produzione e di distribuzione» in un nuovo ordine che
desse «alla classe degli operai industriali e agricoli il potere di iniziativa
nella produzione», alla quale si opponevano gli industriali e i proprietari
terrieri, appoggiati dallo Stato, Gramsci rilevava che «le forze operaie e
contadine mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché
gli organismi direttivi del Partito socialista hanno rivelato di non
comprendere assolutamente nulla della fase di sviluppo che la storia nazionale
e internazionale attraversa nell'attuale periodo il Partito socialista assiste
da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai un'opinione sua da
esprimere non lancia parole d'ordine che possano essere raccolte dalle masse,
dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l'azione rivoluzionaria il
Partito socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero
partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della
democrazia borghese». Il numero dell'11 dicembre 1920 Rilevò la
mancanza di omogeneità nella composizione del partito, in cui continuavano a
essere presenti riformisti e «opportunisti», contrari agli indirizzi della III
Internazionale. Non solo: «mentre la maggioranza rivoluzionaria del partito non
ha avuto una espressione del suo pensiero e un esecutore della sua volontà
nella direzione e nel giornale, gli elementi opportunisti invece si sono
fortemente organizzati e hanno sfruttato il prestigio e l'autorità del Partito
per consolidare le loro posizioni parlamentari e sindacali se il Partito non
realizza l'unità e la simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un
mero organismo burocratico, senza anima e senza volontà, la classe operaia
istintivamente tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso tendenze
anarchiche ». Il Partito socialista non svolge alcuna funzione di
educazione e di spiegazione di quanto sta avvenendo nella scena internazionale,
dalla quale esso è assente, non partecipando nemmeno alle riunioni
dell'Internazionale comunista, le cui tesi non sono riportate nell'Avanti!.
Analogamente, le edizioni socialiste non stampano le pubblicazioni comuniste:
«valga per tutte il volume di Lenin Stato e rivoluzione». Occorre pertanto,
secondo Gramsci, che il Partito socialista acquisti «una sua figura precisa e
distinta: da partito parlamentare piccolo borghese deve diventare il partito
del proletariato rivoluzionario che lotta per l'avvenire della società
comunista i non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito ogni
avvenimento della vita proletaria nazionale e internazionale deve essere immediatamente
commentata per trarne argomenti di propaganda comunista e di educazione delle
coscienze rivoluzionarie le sezioni devono promuovere in tutte le fabbriche,
nei sindacati, nelle cooperative, nelle caserme la costituzione di gruppi
comunisti l'esistenza di un Partito comunista coeso e fortemente disciplinato
[.è la condizione fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi
esperimento di Soviet il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la
conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito ». La
risoluzione dell'Internazionale comunista che chiedeva ai partiti socialisti
l'allontanamento dei riformisti, venne disattesa dal Partito Socialista
Italiano. Infatti, a dispetto dell'approvazione e dell'avallo ottenuto dagli
ordinovisti da parte di Lenin nel corso del II Congresso dell'Internazionale, alla
quale il PSI aveva aderito con il congresso di Bologna tenuto nell'ottobre del
1919, i vecchi dirigenti del partito erano riluttanti di fronte alla svolta
politica e sociale realizzatasi nel dopoguerra. In Italia, le
rivendicazioni salariali, rese necessarie dall'elevato indice d'inflazione, non
trovavano accoglienza presso gli industriali. Il 30 agosto 1920, a Milano, a seguito
della serrata dell'Alfa Romeo, 300 fabbriche furono occupate dagli operai: la
FIOM appoggiò l'iniziativa, ordinando l'occupazione di tutte le fabbriche
metalmeccaniche d'Italia, con la speranza che una tale, estrema iniziativa
provocasse l'intervento del governo a favore di una soluzione delle trattative.
All'inizio di settembre tutte le maggiori fabbriche d'Italia erano occupate da
mezzo milione di operai, parte dei quali armati, sia pure in modo rudimentale;
alla FIAT di Torino, tuttavia, ci fu una novità: dell'ufficio di Giovanni
Agnelli prese possesso l'operaio comunista Giovanni Parodi e i Consigli di
fabbrica decisero di continuare la produzione, per dimostrare che una grande
fabbrica poteva funzionare anche in assenza del proprietario. Giovanni
Giolitti Di fronte alla neutralità del governo Giolitti e alla decisione della
Confindustria di non cedere, il 10 settembre, nell'assemblea milanese che vide
riuniti i dirigenti del Partito socialista e della Camera del Lavoro, questi
ultimi si dimisero lasciando la gestione della difficile situazione al Partito,
che tuttavia non aveva alcuna intenzione di prolungare l'agitazione: la
proposta estrema dell'allargamento delle occupazioni a tutte le fabbriche del
paese e alle campagne fu respinta dalla maggioranza dei rappresentanti. Un
accordo salariale raggiunto con la mediazione di Giolitti pose termine, alla
fine di settembre, alle occupazioni delle fabbriche. Quell'esperienza
dimostrò tanto la mancanza di una strategia dei dirigenti socialisti quanto l'impreparazione
degli stessi operai a iniziative rivoluzionarie, per le quali occorrevano
organizzazione e disciplina. In previsione del prossimo XVII Congresso del
Partito socialista, Gramsci scrisse che «la costituzione del Partito comunista
crea le condizioni per intensificare e approfondire l'opera nostra: liberati
dal peso morto degli scettici, dei chiacchieroni, degli irresponsabili,
liberati dall'assillo di dover continuamente, nel seno del Partito, lottare
contro i riformisti e gli opportunisti, di dover sventare le loro insidie, di
dover analizzare e criticare i loro atteggiamenti equivoci e la loro
fraseologia pseudo-rivoluzionaria, noi potremo dedicarci interamente al lavoro
positivo, all'espansione del nostro programma di rinnovamento, di organizzazione,
di risveglio delle coscienze e delle volontà». NSi riunì a Milano il
gruppo favorevole alla costituzione di un partito comunista e Amadeo Bordiga,
Luigi Repossi, Bruno Fortichiari, Gramsci, Nicola Bombacci, Francesco Misiano e
Umberto Terracini costituirono il Comitato provvisorio della frazione comunista
del Partito Socialista. La fondazione del Partito comunista Il
congresso di Livorno La scissione si realizzò, nel Teatro San Marco di Livorno,
con la nascita del «Partito Comunista d'Italia, sezione italiana
dell'Internazionale». Il comitato centrale fu composto dagli astensionisti
(Amadeo Bordiga, Ruggero Grieco, Giovanni Parodi, Cesare Sessa, Ludovico Tarsia
e Bruno Fortichiari), dagli ex-massimalisti (Nicola Bombacci, Ambrogio Belloni,
Egidio Gennari, Francesco Misiano, Anselmo Marabini, Luigi Repossi e Luigi
Polano) e dagli ordinovisti Gramsci e Terracini. Diresse l'Ordine nuovo,
divenuto ora uno dei quotidiani comunisti insieme con Il Lavoratore di Trieste
e Il Comunista di Roma, quest'ultimo diretto da Togliatti. Non venne eletto
deputato alle elezioni: Gramsci non ha capacità oratorie, è ancora giovane e
anche la sua conformazione fisica non lo agevola nell'apprezzamento di molti
elettori. Alla fine di maggio partì per Mosca, designato a rappresentare
il Partito italiano nell'esecutivo dell'Internazionale comunista. Vi arrivò già
malato e nell'estate fu ricoverato in un sanatorio per malattie nervose di
Mosca. Qui conobbe una degente russa, Eugenia Schucht, membro del Partito, figlia
di Apollon Schucht, dirigente del Pcus e amico personale di Lenin, che aveva
vissuto alcuni anni in Italia e, attraverso di lei, la sorella Giulia (Julka) che, violinista, aveva abitato diversi anni a
Roma diplomandosi al Conservatorio Santa Cecilia. Giulia, ventiseienne, è
bella, alta, ha un aspetto romantico; Gramsci ne è conquistato: ricorderà «il
primo giorno che non osavo entrare nella tua stanza perché mi avevi intimidito al
giorno che sei partita a piedi e io ti ho accompagnato fino alla grande strada
attraverso la foresta e sono rimasto tanto tempo fermo per vederti allontanare
tutta sola, col tuo carico da viandante, per la grande strada, verso il mondo
grande e terribile ho molto pensato a te, che sei entrata nella mia vita e mi
hai dato l'amore e mi hai dato ciò che mi era sempre mancato e mi faceva spesso
cattivo e torbido. E quell'immagine di
lei, viandante in un mondo grande e terribile, con il suo senso doloroso di
distacco, ritornerà ancora dal carcere: «Ricordi quando sei ripartita dal bosco
d'argento ti ho accompagnata fino all'orlo della strada maestra e sono rimasto
a lungo a vederti allontanare così ti vedo sempre mentre ti allontani a passi
brevi, col violino in una mano e nell'altra la tua borsa da viaggio, così
pittoresca». Si sposano e avranno due figli, Delio e Giuliano. Il figlio di
quest'ultimo porta il nome del nonno, vive a Mosca e pratica la musica
medievale. Giulia membro della OGPU, il servizio di Sicurezza sovietico. La
moglie di Gramsci e i figli Delio e Giuliano A differenza di Bordiga, tutto
inteso a salvaguardare la «purezza» programmatica del partito, e perciò
contrario a qualunque iniziativa al di fuori della dittatura del proletariato,
Gramsci guardava anche a obiettivi democratici, intermedi, raggiungibili utilizzando
le contraddizioni presenti negli strati sociali e le forze che potevano
rappresentare elementi di rottura, come il movimento sindacale cattolico di
Guido Miglioli e l'intellettualità progressista liberale di cui Piero Gobetti è
allora tra i maggiori rappresentanti. Tuttavia nei suoi scritti fino al 1926
ribadisce che l'obiettivo finale era la eliminazione dello stato borghese e la
dittatura del proletariato e anche nei suoi scritti successivi non si
riscontrano critiche al regime sovietico. Nel III Congresso
dell'Internazionale comunista, di fronte al riflusso dell'ondata rivoluzionaria
rappresentata dalle sconfitte delle esperienze comuniste in Germania e in
Ungheria, si decise la tattica del fronte unito con la socialdemocrazia.
Bordiga e la maggioranza dei dirigenti comunisti italiani si oppose, elaborando
le Tesi di Roma, base programmatica del II Congresso del Partito, tenuto a Roma.
Gramsci vi aderì ma scrisse di aver «accettato le tesi di Amadeo perché esse
erano presentate come una opinione per il Quarto Congresso [dell'Internazionale
comunista] e non come un indirizzo di azione. Ritenevamo di mantenere così
unito il partito attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse
fare ad Amadeo questa concessione senza nuove crisi e nuove minacce di
scissione nel seno del nostro movimento». Nel IV Congresso dell'Internazionale,
di fronte all'avvento al potere di Mussolini, ai delegati comunisti italiani fu
posta con ancora maggior forza la necessità di fondersi con corrente socialista
degli internazionalisti, capeggiata da Giacinto Menotti Serrati, e di
costituire un nuovo Esecutivo, mettendo in minoranza Bordiga, sempre contrario
a ogni accordo. Lo stesso Bordiga fu arrestato al suo rientro in Italia nel
febbraio 1923 e, in settembre, a Milano, furono incarcerati anche i
rappresentanti del nuovo Esecutivo: Gramsci restò così il massimo dirigente del
Partito e si trasferì a Vienna per seguire più da vicino la situazione
italiana. Fu allora che egli ritenne necessario rompere con la politica di
Bordiga: «Il suo stesso carattere inflessibile e tenace fino all'assurdo ci
obbliga a prospettarci il problema di costruire il partito ed il centro di esso
anche senza di lui e contro di lui. Penso che sulle quistioni di principio non
dobbiamo più fare compromessi come nel passato: vale meglio la polemica chiara,
leale, fino in fondo, che giova al partito e lo prepara ad ogni evenienza». Uscì
a Milano il primo numero del nuovo quotidiano comunista l'Unità e dal primo
marzo la nuova serie del quindicinale l'Ordine nuovo. Il titolo del giornale,
da lui scelto, venne giustificato dalla necessità dell'«unità di tutta la
classe operaia intorno al partito, unità degli operai e dei contadini, unità
del Nord e del Mezzogiorno, unità di tutto il popolo italiano nella lotta
contro il fascismo».Alle elezioni venne eletto deputato al parlamento, potendo
così rientrare a Roma, protetto dall'immunità parlamentare. Quello stesso mese,
nei dintorni di Como, si tenne un convegno illegale dei dirigenti delle
Federazioni comuniste italiane: pubblicamente, si fingevano dipendenti di
un'azienda milanese in gita turistica, con tanto di pubblici discorsi fascisti
e inni a Mussolini, mentre, a parte, discutevano dei problemi del
partito. Nel convegno si affrontò il «caso Bordiga», il quale aveva
rifiutato la candidatura al Parlamento, era in rotta con la maggioranza
dell'Internazionale e rifiutava ogni azione politica comune con le altre forze
politiche di sinistra. Delle tre mozioni presentate, che rispecchiavano le tre
correnti in seno al Partito, la corrente di destra di Tasca, di centro di
Gramsci e Togliatti, e di sinistra di Bordiga, questa raccolse l'adesione della
grande maggioranza dei delegati, confermando la notevole importanza di cui il
rivoluzionario napoletano godeva nel Partito. Il 10 giugno un gruppo di
fascisti rapì e uccise il deputato socialista Giacomo Matteotti; sembrò allora
che il fascismo stesse per crollare per l'indignazione morale che in quei
giorni percorse il Paese, ma non fu così; l'opposizione parlamentare scelse la
linea sterile di abbandonare il Parlamento, dando luogo alla cosiddetta
Secessione dell'Aventino: i liberali speravano in un appoggio della Monarchia,
che non venne, i cattolici erano ostili tanto ai fascisti che ai socialisti e
questi ultimi erano ostili a tutti, comunisti compresi. Gramsci avanzò al
«Comitato dei sedici»il nucleo dirigente dei gruppi aventinianila proposta di proclamare
lo sciopero generale che però fu respinta; i comunisti uscirono allora dal
«Comitato delle opposizioni» aventiniane il quale, secondo Gramsci, non aveva
alcuna volontà di agire: ha una «paura incredibile che noi prendessimo la mano
e quindi manovra per costringerci ad abbandonare la riunione». Giacomo
Matteotti Malgrado le divisioni dell'opposizione antifascista, Gramsci credeva
che la caduta del regime fosse imminente: «Il regime fascista muore perché non
solo non è riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi
delle classi medie iniziatasi dopo la guerra. L'aspetto economico di questa
crisi consiste nella rovina della piccola e media azienda il monopolio del
credito, il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la
piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di
ricchezza si è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia. L'apparato
industriale ristretto ha potuto salvarsi dal completo sfacelo solo per un
abbassamento del livello di vita della classe operaia premuta dalla diminuzione
dei salari, dall'aumento della giornata di lavoro. La disgregazione sociale e
politica del regime fascista ha avuto la sua piena manifestazione di massa
nelle elezioni del 6 aprile. Il fascismo è stato messo nettamente in minoranza
nella zona industrial. Le elezioni del 6 aprile segnarono l'inizio di quella
ondata democratica che culminò nei giorni immediatamente successivi all'assassinio
dell'on. Matteotti le opposizioni avevano acquistato dopo le elezioni
un'importanza politica enorme; l'agitazione da esse condotta nei giornali e nel
Parlamento per discutere e negare la legittimità del governo fascista si
ripercuoteva nel seno dello stesso Partito nazionale fascista, incrinava la
maggioranza parlamentare. Di qui l'inaudita campagna di minacce contro le
opposizioni e l'assassinio del deputato unitario”. “Il delitto Matteotti dette
la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un
normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del
dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori; egli non è un elemento
della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare
alla storia nell'ordine delle diverse maschere provinciali italiane, più che
nell'ordine dei Cromwell, dei Bolívar, dei Garibaldi». S'ingannava, perché
l'inerzia dell'opposizione non riuscì a dare alternative del blocco sociale in
cui la piccola borghesia teme il «salto nel buio» della caduta del regime e i
fascisti riprendono coraggio e ricominciano le violenze squadriste: in una
delle tante viene aggredito anche Gobetti. E dopo il 12 settembre, quando il
militante comunista Giovanni Corvi uccide in un tram il deputato fascista
Armando Casalini, per vendicare la morte di Matteotti, la repressione
s'inasprisce. Il 20 ottobre Gramsci propose vanamente che l'opposizione
aventiniana si costituisca in «Antiparlamento», in modo da segnare nettamente
la distanza e svuotare di significato un Parlamento di soli fascisti; ipartì
per la Sardegna, per intervenire al Congresso regionale del partito e per
rivedere i famigliari. Il 6 novembre si congedò dalla madre, che non avrebbe più
rivisto. Il deputato comunista Repossi rientrò in Parlamento, dove sedevano
solo i deputati fascisti e i loro alleati, per commemorare Matteotti a nome di
tutto il suo partito; il 26 vi rientrò anche tutto il gruppo parlamentare
comunista, a segnare l'inutilità dell'esperienza aventiniana. Il quotidiano di
Giovanni Amendola Il Mondo pubblicò le dichiarazioni di Cesare Rossi, già capo
ufficio stampa di Mussolini, a proposito del delitto Matteotti: «Tutto quanto è
successo è avvenuto sempre per la volontà diretta o per l'approvazione o per la
complicità del duce» e Mussolini, in un discorso rimasto famoso, a confermare
quella testimonianza, dichiara alla Camera dei deputati di assumersi «la
responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto», dando il
via a una nuova azione repressiva. In febbraio Gramsci andò a Mosca, per
stare con la moglie e conoscere finalmente il figlio Delio. Tornato in Italia a
maggio, il 16 tenne il suo primoe unicodiscorso in Parlamento, davanti all'ex
compagno di partito Mussolini, ora Primo ministro, che aveva descritto l'anno
prima come un capo che «è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato
organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Conosciamo quel
viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato
dovevano, con la loro ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e
oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia.
Mussolini è il tipo concentrato del piccolo-borghese italiano, rabbioso, feroce
impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di
dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del
proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci
quando ridiventa borbonica». Con il pretesto di colpire la Massoneria, il
governo aveva predisposto un disegno di legge per disciplinare l'attività di
associazioni, enti e istituti: continuamente interrotto, Gramsci respinse il
pretesto che il governo si era dato, «perché la Massoneria passerà in massa al
Partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa legge
voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e
contadine». E ironizzando: «Qualche fascista ricorda ancora nebulosamente
gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri, di quando era rivoluzionario e
socialista, e crede che una classe non possa rimanere tale permanentemente e
svilupparsi fino alla conquista del potere, senza che essa abbia un partito e
un'organizzazione che ne riassuma la parte migliore e più cosciente. C'è
qualcosa di vero, in questa torbida perversione degli insegnamenti
marxisti». Concluse: «Voi potete conquistare lo Stato, potete modificare
i codici, potete cercar di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma
in cui sono esistite fino adesso ma non potete prevalere sulle condizioni
obbiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il
proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fin oggi più diffuso
nel campo dell'organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e
alle masse contadine italiane, da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie
italiane non si lasceranno schiantare, il vostro torbido sogno non riuscirà a
realizzarsi». Si svolse clandestinamente a Lione il III Congresso del
Partito. Vi parteciparono 70 delegati, con tutti i maggiori responsabili,
Bordiga, Gramsci, Tasca, Togliatti, Grieco, Leonetti, Scoccimarro: vi era anche
Serrati, che aveva lasciato da poco il Partito socialista di cui era stato a
lungo dirigente di primo piano. Assisteva, a nome dell'Internazionale, Jules
Humbert-Droz. Gramsci presentò le Tesi congressuali elaborate insieme con
Togliatti. Con un capitalismo debole e l'agricoltura base dell'economia
nazionale, in Italia si assiste al compromesso fra industriali del Nord e
proprietari fondiari del Sud, ai danni degli interessi generali della
maggioranza della popolazione. Il proletariato, in quanto forza sociale
omogenea e organizzata rispetto alla piccola borghesia urbana e rurale, che ha
interessi differenziati, viene visto, nelle Tesi, «come l'unico elemento che
per la sua natura ha una funzione unificatrice e coordinatrice di tutta la
società.» Secondo Gramsci il fascismo non è, come invece ritiene Bordiga,
l'espressione di tutta la classe dominante, ma è il frutto politico della
piccola borghesia urbana e della reazione degli agrari che ha consegnato il
potere alla grande borghesia, e la sua tendenza imperialistica è l'espressione
della necessità, da parte delle classi industriali e agrarie, «di trovare fuori
del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società
italiana» che tuttavia permette, per la sua natura oppressiva e reazionaria,
una soluzione rivoluzionaria delle contraddizioni sociali e politiche; le due
forze sociali idonee a dar luogo a questa soluzione sono il proletariato del
Nord e i contadini del Mezzogiorno. A questo scopo, il Partito andrà
bolscevizzato, ossia organizzato per cellule di fabbrica caratterizzate da una
"disciplina di ferro" negando al suo interno la possibilità
dell'esistenza delle frazioni. Il Congresso approvò le Tesi a grande
maggioranza (oltre il 90%) ed elesse il Comitato centrale con Gramsci segretario
del Partito. Da allora, la sinistra comunista di Bordiga non ebbe più un ruolo
influente nel Partito. Le Tesi di Lione, realizzate da Gramsci, ribadirono con
una certa durezza le posizioni del Pcd’I «la socialdemocrazia sebbene abbia
ancora la sua base sociale, per gran parte, nel proletariato per quanto
riguarda la sua ideologia e la sua funzione politica cui adempie, deve essere
considerata non come un'ala destra del movimento operaio, ma come un'ala
sinistra della borghesia e come tale deve essere smascherata». In questa
relazione venne sviluppata la cosiddetta bolscevizzazione del partito: «spetti
al partito russo una funzione predominante e direttiva nella costruzione di una
Internazionale communista. La organizzazione di un partito bolscevico deve
essere, in ogni momento della vita del partito, una organizzazione
centralizzata, diretta dal Comitato centrale non solo a parole, ma nei fatti.
Una disciplina proletaria di ferro deve regnare nelle sue file. La
centralizzazione e la compattezza del partito esigono che non esistano nel suo
seno gruppi organizzati i quali assumano carattere di frazione. Un partito
bolscevico si differenzia per questo profondamente dai partiti
socialdemocratici».Tornato a Romada via Vesalio si era trasferito in via
Morgagniebbe il tempo di passare alcuni mesi con la famigliala moglie Giulia e
il piccolo Delio, oltre alle cognate Eugenia e Tatianache abitano tuttavia in
un altro appartamento, in via Trapani: le squadre fasciste, superato da tempo
lo smarrimento provocato dal delitto Matteotti, avevano piena libertà d'azione
e non era prudente coinvolgere i familiari in loro possibili aggressioni; a
Firenze, era stato ucciso l'ex-deputato socialista Gaetano Pilati, la stessa
casa di Gramsci era stata messa a soqquadro dalla polizia il 20 ottobre. Mentre
gli esponenti dell'opposizione antifascista prendevano la via dell'emigrazione
Gobetti, che muore ia Parigi, in conseguenza delle bastonate squadriste,
Amendola, Salveminiun processo farsa condannava a una pena simbolica gli
assassini di Matteotti, difesi dal capo-squadrista Roberto Farinacci. La
moglie Giulia, che aspettava il secondo figlio Giuliano, lasciò l'Italia e il
mese dopo fu la volta della cognata Eugenia a tornare a Mosca con il figlio
Delio: Gramsci non l'avrebbe più rivisto. Giustino Fortunato
Elaborando temi già affrontati nelle Tesi di Lione, in settembre Gramsci iniziò
a scrivere un saggio sulla questione meridionale, intitolato Alcuni temi sulla
quistione meridionale, in cui analizzò il periodo dello sviluppo politico
italiano dal 1894, anno dei moti dei contadini siciliani, seguito nel 1898
dall'insurrezione di Milano repressa a cannonate dal governo Di Rudinì. Secondo
Gramsci, la borghesia italiana, impersonata politicamente da Giovanni Giolitti,
di fronte all'insofferenza delle classi emarginate dei contadini meridionali e
degli operai del Nord, piuttosto che allearsi con le forze agrarie, cosa che
avrebbe dovuto comportare una politica di libero scambio e di bassi prezzi
industriali, scelse di favorire il blocco industriale-operaio, con la
conseguente scelta del protezionismo doganale, unita a concessione di libertà
sindacali. Di fronte alla persistenza dell'opposizione operaia,
manifestatasi anche contro i dirigenti socialisti riformisti, Giolitti cercò un
accordo con i contadini cattolici del Centro-Nord. Il problema è allora di
perseguire una politica di opposizione che rompa l'alleanza
borghesia-contadini, facendo convergere questi ultimi in un'alleanza con la
classe operaia. La società meridionale, secondo Gramsci, è costituita da
tre classi fondamentali: braccianti e contadini poveri, politicamente
inconsapevoli; piccoli e medi contadini, che non lavorano la terra ma dalla
quale ricavano un reddito che permette loro di vivere in città, spesso come
impiegati statali: costoro disprezzano e temono il lavoratore della terra, e
fanno da intermediari al consenso fra i contadini poveri e la terza classe,
costituita dai grandi proprietari terrieri, i quali a loro volta contribuiscono
alla formazione dell'intellettualità nazionale, con personalità del valore di Croce
e di Fortunato e sono, con quelli, i principali e più raffinati sostenitori
della conservazione di questo blocco agrario. Croce e Fortunato sono, per
Gramsci, «i reazionari più operosi della penisola», «le chiavi di volta del
sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due più grandi figure della
reazione italiana». Per poter spezzare questo blocco occorrerebbe la formazione
di un ceto di intellettuali medi che interrompa il flusso del consenso fra le
due classi estreme, favorendo così l'alleanza dei contadini poveri con il
proletariato urbano. Tuttavia Gramsci non aveva un'opinione positiva sui contadini,
scrisse: «Il solo organizzatore possibile della massa contadina meridionale è
l'operaio industriale, rappresentato dal nostro partito» «Non ho mai voluto
mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a
stare in prigione vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non
potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta
devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro
onore e la loro dignità di uomini» (Antonio Gramsci, Lettera alla madre)
In Unione Sovietica è in corso la lotta fra la maggioranza di Stalin e Bucharin
e la minoranza di sinistra del Partito comunista, guidata da Trotskij, Zinov'ev
e Kamenev, che critica la politica della NEP, la quale favorisce i contadini
ricchi a svantaggio degli operai, e la rinuncia alla rivoluzione socialista
mondiale attraverso la costruzione del «socialismo in un solo paese» che
porterebbe all'involuzione del movimento rivoluzionario. Il dissidio, che porta
all'esclusione di Zinov'ev dall'Ufficio politico del Partito sovietico, si era
fatto sempre più aspro con la costituzione in frazione della minoranza e si era
esteso anche all'interno del Partito comunista tedesco, provocando una
scissione. Il New York Times, forse su ispirazione di Trotsky, pubblicava il
testamento di Lenin, con i suoi noti rilievi sul carattere di Stalin e sul
pericolo rappresentato dal troppo potere che la carica di segretario del
Partito gli concedeva. Su incarico dell'Ufficio politico, Gramsci scrisse a
metà ottobre una lettera al Comitato centrale del Partito sovietico. Egli si
mostra preoccupato per l'acutezza delle polemiche che potrebbero portare a una
scissione che «può avere le più gravi ripercussioni, non solo se la minoranza
di opposizione non accetta con la massima lealtà i principi fondamentali della
disciplina rivoluzionaria di Partito, ma anche se essa, nel condurre la sua
lotta, oltrepassa certi limiti che sono superiori a tutte le democrazie
formali». Riconosciuto ai dirigenti sovietici il merito di essere stati
«l'elemento organizzatore e propulsore delle forze rivoluzionarie di tutti i
paesi», li rimprovera di star «distruggendo l'opera vostra, voi degradate e
correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il partito comunista
dell'URSS aveva conquistato per l'impulso di Lenin: ci pare che la passione
violenta delle quistioni russe vi faccia perdere di vista gli aspetti
internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i vostri
doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel quadro
degli interessi del proletariato internazionale. Nel merito del fondamento del
contrastola contraddizione di un proletariato formalmente «dominante» in URSS,
ma in condizioni economiche molto inferiori alla classe «dominata»Gramsci
appoggia la posizione della maggioranza, rilevando che «è facile fare della
demagogia su questo terreno ed è difficile non farla quando la quistione è
stata messa nei termini dello spirito corporativo e non in quelli del
leninismo, della dottrina dell'egemonia del proletariato è in questo elemento
la radice degli errori del blocco delle opposizioni e l'origine dei pericoli
latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella ideologia e nella pratica
del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della
socialdemocrazia e del sindacalismo che ha impedito finora al proletariato
occidentale di organizzarsi in classe dirigente». Gramsci concludeva
esortando all'unità: «I compagni Zinov'ev, Trockij, Kamenev hanno contribuito
potentemente a educarci per la rivoluzione sono stati tra i nostri maestri. A
loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili dell'attuale
situazione perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del comitato
centrale del partito comunista dell'URSS non intenda stravincere nella lotta e
sia disposta a evitare le misure eccessive. L'untà del nostro partito fratello
di Russia è necessaria per lo sviluppo e il trionfo delle forze rivoluzionarie
mondiali; a questa necessità ogni comunista e internazionalista deve essere
disposto a fare maggiori sacrifizi. I danni di un errore compiuto dal partito
unito sono facilmente superabili; i danni di una scissione o di una prolungata
condizione di scissione latente possono essere irreparabili e mortali». Togliatti,
allora a Mosca quale rappresentante italiano all'Internazionale, criticò le
ultime considerazioni che ripartivano, seppure in modo diseguale, le
responsabilità delle due fazioni, credendo ancora nella illusoria possibilità
di una compattezza del gruppo dirigente sovietico: a suo avviso, invece, «d'ora
in poi l'unità della vecchia guardia leninista non sarà più o sarà assai
difficilmente realizzata in modo continuo». Non ci sarà tempo e occasione per
approfondire la questione: lo stesso giorno in cui il Comitato centrale
comunista doveva riunirsi clandestinamente a Genova, Mussolini subì a Bologna
un attentato senza conseguenze personali, che provoca una tale pressione
poliziesca da far fallire il convegno. L'attentato Zamboni costituì il pretesto
per l'eliminazione degli ultimi, minimi residui di democrazia: il governo
sciolse i partiti politici di opposizione e soppresse la libertà di stampa. L'8
novembre, in violazione dell'immunità parlamentare, Gramsci venne arrestato
nella sua casa e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Il giorno successivo fu
dichiarato decaduto, insieme agli altri deputati aventiniani. Dopo un periodo
di confino a Ustica, dove ritrovò, tra gli altri, Bordiga, fu detenuto nel
carcere milanese di San Vittore. Qui ricevette, in agosto, la visita del
fratello Mario, le cui scelte politiche erano state opposte alle suegià
federale di Varese, ora si occupava di commercioe, soprattutto, quella della
cognata Tatiana, la persona che si manterrà sempre, per quanto possibile, in
contatto con lui. L'istruttoria andò per le lunghe, perché vi erano difficoltà
a montare su di lui accuse credibili: fu anche fatto avvicinare da due agenti
provocatoriprima un tale Dante Romani e poi un certo Corrado Melanima senza
successo. Il processo a ventidue imputati comunisti, fra i quali Umberto
Terracini, Mauro Scoccimarro e Giovanni Roveda, iniziò finalmente a Roma;
Mussolini aveva istituito il Tribunale Speciale Fascista. Presidente è un
generale, Saporiti, giurati sono cinque consoli della milizia fascista,
relatore l'avvocato Buccafurri e accusatore l'avvocato Isgrò, tutti in
uniforme; intorno all'aula, «un doppio cordone di militi in elmetto nero, il
pugnale sul fianco ed i moschetti con la baionetta in canna» Gramsci è accusato
di attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e
incitamento all'odio di classe. Il pubblico ministero Isgrò concluse la sua
requisitoria con una frase rimasta famosa: «Bisogna impedire a questo cervello
di funzionare per venti anni»; e infatti Gramsci venne condannato a venti anni,
quattro mesi e cinque giorni di reclusione. Raggiunse il carcere di Turi, in
provincia di Bari. Fin da quando si trovava in carcere a Milano, era
intenzionato a occuparsi «intensamente e sistematicamente di qualche soggetto»
che lo «assorbisse e centralizzasse la sua vita interiore». Il detenuto 7.047
ottenne finalmente l'occorrente per scrivere e iniziò la stesura dei suoi
Quaderni del carcere. Il primo quaderno si apre proprio con una bozza di 16
argomenti, alcuni dei quali saranno abbandonati, altri inseriti e altri ancora
svolti solo in parte. Caratteristico era il suo modo di lavorare. Quasi tutti i
giorni, per alcune ore, camminando all'interno della cella, rifletteva sulle
frasi da scrivere e poi si chinava sul tavolino, scrivendo senza sedersi, un
ginocchio appoggiato sullo sgabello, per riprendere a camminare e a pensare. A
fare da tramite tra Gramsci e il mondo esterno, e in particolare con Sraffa e
tramite questi col Pcus e il PCd'I, fu la cognata Tatiana Schucht, essendo la
moglie di Gramsci tornata in Unione Sovietica. Intanto, il Congresso
dell'Internazionale comunista, tenutosi a Mosca aveva stabilito l'impossibilità
di accordi con la social-democrazia, che veniva anzi assimilata allo stesso
fascismo. Era la tesi di Stalin il quale, liquidata l'opposizione di Trockij,
eliminava anche l'influenza di Bucharin che, già suo alleato contro la sinistra
di Trockij, era rimasto il suo principale oppositore da destra. Al nuovo
orientamento dell'Internazionale, riaffermato nel X Plenum del Comitato esecutivo
ndovevano adeguarsi i Partiti nazionali, espellendo, se necessario, i
dissidenti. Il Partito comunista d'Italia si adeguò alle scelte
dell'Internazionale, espellendo Angelo Tasca in settembre e in successione, ma
con l'accusa di trotskismo, prima, iBordiga, poi, ifu la volta di Leonetti,
Tresso e Ravazzoli. Teneva, durante l'ora d'aria, dei
"colloqui-lezioni" con i compagni di partito: non esistono dirette
testimonianze delle opinioni espresse da Gramsci riguardo alla «svolta»
politica del movimento comunista, ma può costituire un indiretto riferimento un
rapporto che un suo compagno di carcere, Athos Lisa, amnistiato, inviò subito al
Centro estero comunista. Secondo quella relazione, riferì la teoria della
necessità dell'alleanza fra operai del Nord e contadini meridionali che già
stava elaborando nei suoi Quaderni: «L'azione per la conquista degli alleati
diviene per il proletariato cosa estremamente delicata e difficile. D'altra
parte, senza la conquista di questi alleati, è precluso al proletariato ogni
serio movimento rivoluzionario». Qui s'intende che il proletariatola classe
operaiadebba allearsi con i contadini e la piccola borghesia: «Se si tiene
conto delle particolari condizioni nei limiti delle quali va visto il grado di
sviluppo politico degli strati contadini e piccoli borghesi in Italia, è facile
comprendere come la conquista di questi strati sociali comporti per il partito
una particolare azione. La lotta per la conquista diretta del potere è un passo
al quale questi strati sociali potranno solo accedere per gradi il primo passo
attraverso il quale bisogna condurre questi strati sociali è quello che li
porti a pronunciarsi sul problema istituzionale e costituzionale. L'inutilità
della Monarchia è ormai compresa da tutti i lavoratori a questo obiettivo deve
improntarsi la tattica del partito senza tema di apparire poco rivoluzionario.
Deve fare sua prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo la parola
d'ordine della Costituente». Ma l'azione del partito «deve essere intesa a
svalutare tutti i programmi di riforma pacifica dimostrando alla classe
lavoratrice come la sola soluzione possibile in Italia risieda nella
rivoluzione proletaria». La richiesta di una Costituente, e dunque di
un'iniziativa politica che si ponesse obiettivi intermedi, avrebbe comportato
necessariamente una convergenza, per quanto temporanea, con altre forze
antifasciste, e se è difficile considerare tale linea politica come «social-democratica»,
durante le discussioni nel cortile del carcere qualche suo compagno arrivò a
sostenere che egli era ormai fuori del Partito comunista. Probabilmente le
reazioni di alcuni erano esasperate dal clima di detenzione» ma certo le
posizioni dovevano apparire in contrasto con la linea politica indicata in
quegli anni dal Partito comunista. È in questo periodo chevenne a contatto con
Pertini, esponente del PSI e detenuto anch'egli alla Casa Penale di Turi. I
due, nonostante i pensieri politici differenti, divennero grandi amici e
Pertini, anche dopo la scarcerazione, ricordò spesso nei suoi discorsi il
compagno di prigionia e le tristi condizioni di salute che lo stroncavano. Gramsci,
oltre al morbo di Pott di cui soffriva fin dall'infanzia, fu colpito da
arteriosclerosi e poté così ottenere una cella individuale; cercò di reagire alla
detenzione studiando ed elaborando le proprie riflessioni politiche,
filosofiche e storiche, tuttavia le condizioni di salute continuarono a
peggiorare e in agosto ebbe un'improvvisa e grave emorragia. Anche la
moglie, in Russia, era sofferente di una seria forma di depressione e rare
erano le sue lettere al marito che, all'oscuro dei motivi dei suoi lunghi
silenzi, sentiva crescere intorno a sé il senso di un opprimente isolamento.
Scriveva alla cognata: Non credere che il sentimento di essere personalmente
isolato mi getti nella disperazione io non ho mai sentito il bisogno di un
apporto esteriore di forze morali per vivere fortemente la mia vita tanto meno
oggi, quando sento che le mie forze volitive hanno acquistato un più alto grado
di concretezza e di validità. Ma mentre nel passato mi sentivo quasi orgoglioso
di sentirmi isolato, ora invece sento tutta la meschinità, l'aridità, la
grettezza di una vita che sia esclusivamente volontà. Quando la madre morì, i
familiari preferirono non informarlo. Ebbe una seconda grave crisi, con
allucinazioni e deliri. Si riprese a fatica, senza farsi illusioni sul suo
immediato futuro. Fino a qualche tempo fa io ero, per così dire, pessimista con
l'intelligenza e ottimista con la volontà. Oggi non penso più così. Ciò non
vuol dire che abbia deciso di arrendermi, per così dire. Ma significa che non
vedo più nessuna uscita concreta e non posso più contare su nessuna riserva di
forze». Eppure lo stesso codice penale dell'epoca, all'art. 176, prevedeva la
concessione della libertà condizionata ai carcerati in gravi condizioni di
salute. A Parigi si costituì un comitato, di cui fecero parte, fra gli altri,
Rolland e Barbusse, per ottenere la liberazione sua e di altri detenuti politici,
ma venne trasferito nell'infermeria del carcere di Civitavecchia e poi nella
clinica del dottor Cusumano a Formia, sorvegliato in camera e all'esterno. Mussolini
accolse finalmente la richiesta di libertà condizionata, ma Gramsci non rimase
libero nei suoi movimenti, tanto che gli fu impedito di andare a curarsi
altrove, perché il governo temeva una sua fuga all'estero; solo il poté essere
trasferito nella clinica "Quisisana" di Roma, dove giunse in gravi
condizioni, poiché oltre al morbo di Pott e all'arteriosclerosi soffriva di
ipertensione e di gotta. Passò dalla libertà condizionata alla piena
libertà, ma era ormai in gravissime condizioni: morì di emorragia cerebrale,
nella stessa clinica Quisisana. Il giorno seguente la cremazione si svolsero i
funerali, cui parteciparono soltanto il fratello Carlo e la cognata Tatiana. Le
ceneri, inumate nel cimitero del Verano, furono trasferite nel Cimitero
acattolico di Roma, nel Campo Cestio. I 33 Quaderni del carcere, non destinati
da Gramsci alla pubblicazione, contengono riflessioni e appunti elaborati
durante la reclusione. Furono definitivamente interrotti a causa della gravità
delle sue condizioni di salute. Furono numerati, senza tener conto della loro
cronologia, dalla cognata Schucht, che li affidò all'Ambasciata sovietica a Roma
da dove furono inviati a Mosca e, successivamente, conseg Palmiro Togliatti. Dopo
la fine della guerra i Quaderni, curati dal dirigente comunista Platone sotto
la supervisione di Togliatti, furono pubblicati dall'editore Einaudi unitamente
alle sue Lettere dal carcere indirizzate ai familiarii n sei volumi, ordinati
per argomenti omogenei, con i titoli “Il materialismo storico e la filosofia di
Croce”; “Gli intellettuali e l'organizzazione
della cultura”; “Il Risorgimento”; “Note sul Machiavelli, sulla politica e
sullo Stato moderno”; “Letteratura e vita nazionale”; “Passato e
presente”. I Quaderni furono pubblicati
Valentino Gerratana secondo l'ordine cronologico della loro elaborazione. Sono
stati raccolti in volume anche tutti gli articoli scritti da Gramsci
nell'Avanti!, ne Il Grido del Popolo e ne L'Ordine Nuovo. Conquistare la
maggioranza politica di un Paese vuol dire che le forze sociali, che di tale
maggioranza sono espressione, dirigono la politica di quel determinato paese e
dominano le forze sociali che a tale politica si oppongono: significa ottenere
l'egemonia. Vi è distinzione fra direzione egemonia intellettuale e
morale e dominio esercizio della forza repressive. Un gruppo sociale è
dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con
la forza armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale
può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo
(è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere. Dopo,
quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa
dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente. La crisi dell'egemonia
si manifesta quando, anche mantenendo il proprio dominio, le classi sociali politicamente
dominanti non riescono più a essere dirigenti di tutte le classi sociali, non
riuscendo più a risolvere i problemi di tutta la collettività e a imporre la
propria concezione del mondo. A quel punto, la classe sociale sub-alterna, se
riesce a indicare concrete soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla
classe dominante, può diventare dirigente e, allargando la propria concezione
del mondo anche ad altri strati sociali, può creare un nuovo «blocco sociale»,
cioè una nuova alleanza di forze sociali, divenendo “egemone.” Il cambiamento
dell'esercizio dell'egemonia è un momento rivoluzionario che inizialmente
avviene a livello della sovra-struttura in senso marxiano, ossia politico,
culturale, ideale, morale –, ma poi trapassa nella società nel suo complesso
investendo anche la struttura economica, e dunque tutto il «blocco storico»,
termine che indica l'insieme della struttura e della sovra-struttura, ossia i
rapporti sociali di produzione e i loro riflessi ideologici. Analizzando
la storia di Italia e il Risorgimento in particolare, rileva che la classe
popolare non trova un proprio spazio politico e una propria identità, poiché la
politica dei liberali di Cavour concepì l'unità nazionale come un allargamento
dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento
nazionale dal basso, ma come conquista regia. Rritiene che l'azione della
borghesia avrebbe potuto assumere un carattere rivoluzionario se avesse
acquisito l'appoggio di vaste masse popolari, in particolare dei contadini, che
costituivano la maggioranza della popolazione. Il limite della rivoluzione
borghese in Italia consistette nel non essere capeggiata da un partito
giacobino, come in Francia, dove le campagne, appoggiando la Rivoluzione,
furono decisive per la sconfitta delle forze della reazione aristocratica.
Il partito politico italiano allora più avanzato fu il “Partito d'Azione” di
Mazzini e Garibaldi, che non seppe impostare il problema dell'alleanza delle
forze borghesi progressive con la classe contadina. Garibaldi in Sicilia
distribuì le terre demaniali ai contadini, ma gli stessi garibaldini repressero
le rivolte contadine contro i baroni latifondisti. Per conquistare l'egemonia
contro i moderati guidati dal liberale Cavour, il “Partito d'Azione” avrebbe dovuto
legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere giacobino specialmente
per il contenuto economico-sociale. Il collegamento delle diverse classi rurali
che si realizza in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti
intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad
una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due
direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazione di base e
sugli intellettuali degli strati medi e inferiori». Al contrario, i cavourriani
liberali seppero mettersi alla testa della rivoluzione borghese, assorbendo
tanto i radicali che una parte dei loro stessi avversari. Questo avvenne perché
i moderati cavourriani ebbero un rapporto organico con i loro intellettuali che
erano proprietari terrieri e dirigenti industriali come i politici che essi
rappresentavano. Le masse popolari restarono passive nel raggiunto compromesso
fra i capitalisti del Nord e i latifondisti del Sud. Il Piemonte assunse
la funzione di classe dirigente, anche se esistevano altri nuclei di classe
dirigente favorevoli all'unificazione. Questi nuclei non volevano dirigere
nessuno, cioè non volevano accordare i loro interessi e aspirazioni con gli
interessi e aspirazioni di altri gruppi. Volevano dominare, non dirigere e
ancora. Volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè
volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione,
divenisse arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte, che ebbe una funzione
paragonabile a quella di un partito. Questo fatto è della massima importanza
per il concetto di “rivoluzione passive”, che cioè non un gruppo sociale sia il
dirigente di altri gruppi, ma che uno stato, sia pure limitato come potenza,
sia il dirigente del gruppo che di esso dovrebbe essere dirigente e possa porre
a disposizione di questo un esercito e una forza politica-diplomatica. Che uno
Stato si sostituisca ai gruppi sociali locali nel dirigere la lotta di
rinnovamento è uno dei casi in cui si ha la funzione di “dominio” e non di
dirigenza di questi gruppi: dittatura senza egemonia. Il concetto di “egemonia”
si distingue da quello di “dittatura”. La dittatura uesta è solo dominio,
quella è capacità di direzione. Non prese mai posizione contro la “dittatura
del proletariato” né espresse critiche significative al regime sovietico in
Russia. Le classi subalterne Gustave Courbet, Lo spaccapietre Le
classi subaltern esotto proletariato, proletariato urbano, rurale e anche parte
della piccola borghesianon sono unificate e la loro unificazione avviene solo
quando giungono a dirigere lo stato, altrimenti svolgono una funzione
discontinua e disgregata nella storia della società civile dei singoli stati,
subendo l'iniziativa dei gruppi dominanti anche quando ad essi si
ribellano. Il "blocco sociale", l'alleanza politica di classi
sociali diverse, formato, in Italia, da industriali, proprietari terrieri,
classi medie, parte della piccola borghesia, non è omogeneo, essendo
attraversato da interessi divergenti, ma una politica opportuna, una cultura e
un'ideologia o un sistema di ideologie impediscono che quei contrasti di
interessi, permanenti anche quando siano latenti, esplodano provocando la crisi
dell'ideologia dominante e la conseguente crisi politica dell'intero sistema di
potere. In Italia, l'esercizio dell'egemonia delle classi dominanti è ed
è stata parziale. Tra le forze che contribuiscono alla conservazione di tale
blocco sociale è la Chiesa, che si batte per mantenere l'unione dottrinale tra
fedeli colti e incolti, tra intellettuali e semplici, tra dominanti e dominati,
in modo da evitare fratture irrimediabili che tuttavia esistono e che essa non
è in realtà in grado di sanare, ma solo di controllare. La Chiesa è sempre
stata la più tenace nella lotta per impedire che ufficialmente si formino due
religioni, quella degli intellettuali e quella delle anime semplici, una lotta
che ha fatto risaltare la capacità organizzatrice nella sfera della cultura del
clero che ha dato derte soddisfazioni alle esigenze della scienza e della
filosofia, ma con un ritmo così lento e metodico che le mutazioni non sono
percepite dalla massa dei semplici, sebbene esse appaiano
"rivoluzionarie" e demagogiche agli "integralisti" ».Anche
la dominante cultura d'impronta idealistica, esercitata dalle scuole
filosofiche di Croce e Gentile, non ha «saputo creare una unità ideologica tra
il basso e l'alto, tra i semplici e gli intellettuali, tanto che essa, anche se
ha sempre considerato la religione una mitologia, non ha nemmeno «entato di
costruire una concezione che potesse sostituire la religione nell'educazione
infantile, e questi pedagogisti, pur essendo non religiosi, non confessionali e
atei, concedono l'insegnamento della religione perché la religione è la
filosofia dell'infanzia dell'umanità, che si rinnova in ogni infanzia non
metaforica. La cultura laica dominante utilizza la religione proprio perché non
si pone il problema di elevare le classi popolari al livello di quelle
dominanti ma, al contrario, intende mantenerle in una posizione di sub-alternità.
Le classi dominanti hanno derubricato a “folklore” la cultura della classe sub-alterna.
Annota nel I Quaderno, che il “folklore”
non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola,
una cosa tutt'al più pittoresca; ma deve essere concepito come una cosa molto seria
e da prendere sul serio, e va studiato in quanto «oncezione del mondo e della
vita di certi strati della società determi tempo e nello spazio, cioè del
popolo inteso come l'insieme della classi strumentale e sub-alterna di ogni
forma di società finora esistita». È dunque necessario mutare lo spirito delle
ricerche folkloriche, oltre che approfondirle ed estenderle. La frattura tra
gli intellettuali e i semplici può essere sanata da quella politica che non
tende a mantenere i semplici nella loro filosofia primitiva del senso comune,
ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. L'azione politica
realizzata dalla «filosofia della prassi» così chiama il marxismo, non solo per
l'esigenza di celare quanto scrive alla repressiva censura carceraria opponendosi
alle culture dominanti della Chiesa e dell'idealismo, può condurre i subalterni
a una superiore concezione della vita. Se afferma l'esigenza del contatto tra
intellettuali e semplici non è per limitare l'attività scientifica e per
mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un
blocco intellettuale e morale che renda politicamente possibile un progresso
intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali. La via che
conduce all'egemonia del proletariato passa dunque per una riforma culturale e
morale della società. Tuttavia l'uomo attivo di massa, cioè la classe
operaia, non è, in generale, consapevole né della funzione che può svolgere né
della sua condizione reale di sub-ordinazione, Il proletariat non ha una chiara
coscienza di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma.
La sua coscienza anzi può essere in contrasto col suo operare. Esso opera
praticamente e nello stesso tempo ha una coscienza ereditata dal passato,
accolta per lo più in modo acritico. La reale comprensione di sé avviene attraverso
una lotta di egemonie politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo
dell'etica, poi della politica per giungere a una elaborazione superiore della
propria concezione del reale. La coscienza politica, cioè l'essere parte di una
determinata forza egemonica, è la prima fase per una ulteriore e progressiva
auto-coscienza dove teoria e pratica finalmente si unificano. Ma auto-coscienza
significa creazione di un gruppo di intellettuali, organici alla classe, perché
per distinguersi e rendersi indipendenti occorre organizzarsi, e non esiste
organizzazione senza intellettuali, uno strato di persone specializzate
nell'elaborazione concettuale e filosofica. Già Machiavelli indica nei moderni
Stati unitari europei l'esperienza che l'Italia avrebbe dovuto far propria per
superare la drammatica crisi emersa nelle guerre che devastarono la penisola
dalla fine del Quattrocento. “Il Principe” di Machiavelli non esisteva nella
realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di
immediatezza obiettiva. E una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo,
del condottiero ideale. Ma gli elementi passionali, mitici si riassumono e diventano
vivi nella conclusione, nell'invocazione di un principe realmente esistente. In
Italia non si ebbe una monarchia assoluta che unificasse la nazione perché
dalla dissoluzione della borghesia comunale si creò una situazione interna
economico-corporativa, politicamente la peggiore delle forme di società
feudale, la forma meno progressiva e più stagnante. Mancò sempre, e non poteva
costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che a Francia ha
suscitato e organizzato la volontà collettiva nazional-popolare e ha fondato lo
stato moderno. A questa forza progressiva si oppose in Italia la «borghesia
rurale, eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo, come
classe, della borghesia comunale. Forze progressive sono i gruppi sociali
urbani con un determinato livello di cultura politica, ma non sarà possibile la
formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare, se le grandi masse dei
contadini lavoratori non irrompono simultaneamente nella vita politica. Ciò
intendeva Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i
giacobini nella Rivoluzione francese. In questa comprensione è da identificare
un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe, più o meno fecondo, della
sua concezione della rivoluzione nazionale. Modernamente, il Principe invocato
dal Machiavelli non può essere un individuo reale, concreto, ma un organismo e
questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico: la
prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono
a divenire universali e totali. Il partito è l'organizzatore di una riforma
intellettuale e morale, che concretamente si manifesta con un programma di riforma
economica, divenendo così la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione
di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume. Perché un partito esista, e
diventi storicamente necessario, devono confluire in esso tre elementi
fondamentali. Primo, un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui
partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito
creativo ed altamente organizzativo essi sono una forza in quanto c'è chi li
centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si
sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente. Secondo, L'elemento
coesivo principale dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e
disciplinatrice e anche, anzi forse per questo, inventiva da solo questo
elemento non formerebbe un partito, tuttavia lo formerebbe più che il primo
elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più
facile formare un esercito che formare dei capitani». Terzo, Un elemento medio,
che articoli il primo col secondo elemento, che li metta a contatto, non solo
fisico, ma morale e intellettuale. Gramsci negli scritti compresi ribadì i
principi espressi dalla Terza Internazionale, insistendo sulla disciplina
ferrea del partito e contestando qualsiasi forma di frazionismo. Socialisti e
sindacalisti venivano pesantemente criticati e messi sullo stesso piano del
regime fascista. Tutti gli uomini sono intellettuali, dal momento che non
c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale. Nn
si può separare l'homo faber dall'homo sapiens, in quanto, indipendentemente
della sua professione specifica, ognuno è a suo modo un filosofo, un artista,
un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole
linea di condotta morale, ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione
dell’ intellettuale. Storicamente si
formano particolari categorie di intellettuali, specialmente in connessione coi
gruppi sociali più importanti e subiscono elaborazioni più estese e complesse
in connessione col gruppo sociale dominante. Un gruppo sociale che tende
all'egemonia lotta per l'assimilazione e la conquista ideologica degli intellettuali
tradizionali tanto più rapida ed efficace quanto più il gruppo dato elabora
simultaneamente i propri intellettuali organici. L'intellettuale tradizionale è
il letterato, il filosofo, l'artista e perciò i giornalisti, che ritengono di
essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i veri
intellettuali, mentre modernamente è la formazione tecnica a formare la base
del nuovo tipo di intellettuale, un costruttore, organizzatore, persuasorema
non assolutamente il vecchio oratore, formatosi sullo studio dell'eloquenza motrice
esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni il quale deve giungere dalla
tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza
la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente. Il gruppo sociale
emergente, che lotta per conquistare l'egemonia politica, tende a conquistare
alla propria ideologia l'intellettuale tradizionale mentre, nello stesso tempo,
forma i propri intellettuali organici. L'organicità degli intellettuali si
misura con la maggiore o minore connessione con il gruppo sociale cui essi
fanno riferimento. Essi operano tanto nella società civilel'insieme degli
organismi privati in cui si dibattono e si diffondono le ideologie necessarie
all'acquisizione del consenso, apparentemente dato spontaneamente dalle grandi
masse della popolazione alle scelte del gruppo sociale dominante quanto nella
società politica, dove si esercita il dominio diretto o di comando che si
esprime nello Stato e nel governo giuridico. Gli intellettuali sono così i
commessi del gruppo dominante per l'esercizio delle funzioni sub-alterne
dell'egemonia sociale e del governo politico, cioè, primo, del consenso
spontaneo dato dalle grandi masse della popolazione all'indirizzo impresso alla
vita sociale dal gruppo fondamentale dominante; secondo, dell'apparato di
coercizione statale che assicura legalmente la disciplina di quei gruppi che
non consentono. Come lo Stato, nella società politica, tende a unificare gli
intellettuali tradizionali con quelli organici, così nella società civile il
partito politico, ancor più compiutamente e organicamente dello Stato, elabora i
propri componenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come
economico, fino a farli diventare intellettuali politici qualificati,
dirigenti, organizzatori di tutte le attività e le funzioni inerenti
all'organico sviluppo di una società integrale, civile e politica. Il compito
della riforma intellettuale e morale non potrà che essere ancora degli
intellettuali organici, non cristallizzati, che la determineranno e
organizzeranno, adeguando la cultura anche alle sue funzioni pratiche,
addivenendo a una nuova organizzazione della cultura. Il partito comunista si
pone come sintesi attiva di questo processo: intellettuale collettivo di
avanguardia, la direzione politica di classe lotterà per l'egemonia. Il partito
comunista, per Gramsci, è intellettuale collettivo; e l'intellettuale comunista
è organico alla classe e dunque a questo collettivo perché fa parte del blocco
storico-sociale che deve costruire il nuovo mondo. Pur essendo sempre
stati legati alle classi dominanti, ottenendone spesso onori e prestigio, gli
intellettuali italiani non si sono mai sentiti organici, hanno sempre
rifiutato, in nome di un loro astratto cosmopolitismo, ogni legame con il
popolo, del quale non hanno mai voluto riconoscere le esigenze né interpretare
i bisogni culturali. In molte linguein russo, in tedesco, in franceseil
significato dei termini «nazionale» e «popolare» coincidono: «in Italia, il
termine nazionale ha un significato molto ristretto ideologicamente e in ogni
caso non coincide con popolare, perché in Italia gli intellettuali sono lontani
dal popolo, cioè dalla nazione e sono invece legati a una tradizione di casta,
che non è mai stata rotta da un forte movimento popolare o nazionale dal basso:
la tradizione è libresca e astratta e l'intellettuale tipico moderno si sente
più legato ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese
o siciliano. Si è assistito a un fiorire della letteratura popolare, dai
romanzi di appendice del Sue o di Ponson du Terrail, ad Alexandre Dumas, ai
racconti polizieschi inglesi e americani; con maggior dignità artistica, alle
opere del Chesterton e di Dickens, a quelle di Victor Hugo, di Émile Zola e di
Honoré de Balzac, fino ai capolavori di Dostoevskij e di Tolstoj. Nulla di
tutto questo in Italia. In Italia, la letteratura non si è diffusa e non è
stata popolare, per la mancanza di un blocco nazionale intellettuale e morale
tanto che l'elemento intellettuale italiano è avvertito come “più straniero
degli stranieri stessi”. Fa eccezione,
per Gramsci, il melodrama verista (“Cavalleria rusticana”, “Pagliacci”), che ha
tenuto in qualche modo in Italia il ruolo nazionale-popolare sostenuto altrove
dalla letteratura. Il pubblico icerca la sua letteratura all'estero perché la sente
più sua di quella italiana: è questa la dimostrazione del distacco, in Italia,
fra pubblico e scrittori. Ogni popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli
da un altro popolo può essere subordinato all'egemonia intellettuale e morale
di altri popoli. È questo spesso il paradosso più stridente per molte tendenze
monopolistiche di carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si
costruiscono piani grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto
di una egemonia straniera. Così come, mentre si fanno piani imperialistici, in
realtà si è oggetto di altri imperialism.. Hanno fallito nel compito di
elaborare la coscienza morale del popolo, non diffondendo in esso un moderno
umanesimo. La insufficienza dell’intelletuale è «uno degli indizi più
espressivi dell'intima rottura che esiste tra la religione e il popolo. Questo
si trova in uno stato miserrimo di indifferentismo e di assenza di una vivace
vita spirituale. La religione è rimasta allo stato di superstizione l'Italia
popolare è ancora nelle condizioni create immediatamente dalla Contro-Riforma.
La religione, tutt'al più, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in
questo stadio. Sono rimaste famose le note di Gramsci sul Manzoni: lo scrittore
più autorevole, più studiato nelle scuole e probabilmente il più popolare, è una
dimostrazione del carattere elitista della letteratura italiana. Ecco le parole
dai Quaderni del carcere, confrontandolo con Tolstoj. Il carattere
aristocratico di Manzoni appare dal compatimento scherzoso verso le figure di
uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoj), come fra Galdino (in
confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa
Lucia i popolani, per Manzoni, non hanno vita interiore, non hanno personalità
morale profonda; essi sono animali. Manzoni è benevolo verso di loro proprio
della benevolenza di una società di protezione di animali niente dello spirito
popolare di Tolstoi, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo.
L'atteggiamento di Manzoni verso i suoi popolani è l'atteggiamento della Chiesa
Cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di immediatezza
umana vede con occhio severo tutto il popolo, mentre vede con occhio severo i
più di coloro che non sono popolo; egli trova magnanimità, alti pensieri,
grandi sentimenti, solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo non
c'è popolano che non venga preso in giro e canzonato. Vita interiore hanno solo
i signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l'Innominato, lo stesso don Rodrigo il
suo atteggiamento verso il popolo e elitista ed aristocratico. Una classe che
muova alla conquista dell'egemonia non può non creare una nuova cultura, che è
essa stessa espressione di una nuova vita morale, un nuovo modo di vedere e
rappresentare la realtà; naturalmente, non si possono creare artificialmente
artisti che interpretino questo nuovo mondo culturale, ma «un nuovo gruppo
sociale che entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una
sicurezza di sé che prima non aveva, non può non suscitare dal suo seno
personalità che prima non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi
compiutamente. Intanto, nella creazione di una nuova cultura, è parte la
critica della civiltà letteraria presente, e vede nella critica svolta da Sanctis
un esempio privilegiato. La critica di Sanctis è militante, non frigidamente
estetica, è la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra
concezioni della vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica
della struttura delle opere, cioè della coerenza logica e storica-attuale delle
masse di sentimenti rappresentati artisticamente, sono legate a questa lotta
culturale: proprio in ciò pare consista la profonda umanità e l'umanesimo di Sanctis.
Piace sentire in lui il fervore appassionato dell'uomo di parte che ha saldi
convincimenti morali e politici e non li nasconde. Sanctis opera nel periodo
risorgimentale, in cui si lotta per creare una nuova cultura: di qui la
differenza con Croce, che vive sì gli stessi motivi culturali, ma nel periodo
della loro affermazione, per cui la passione e il fervore romantico si sono
composti nella serenità superiore e nell'indulgenza piena di bonomia. Quando
poi quei valori culturali, così affermatisi, sono messi in discussione, allora
in Croce sub-entra una fase in cui la serenità e l'indulgenza s'incrinano e
affiora l'acrimonia e la collera a stento repressa: fase difensiva non
aggressiva e fervida, e pertanto non confrontabile con quella di Sanctis. Una
critica letteraria marxistica può avere nel critico campano un esempio, dal
momento che essa deve fondere, come Sanctis fece, la critica estetica con la
lotta per una cultura nuova, criticando il costume, i sentimenti e le ideologie
espresse nella storia della letteratura, individuandone le radici nella società
in cui quegli scrittori si trovavano a operare. Non a caso, progettava
nei suoi Quaderni un saggio che intendeva intitolare «I nipotini di padre Bresciani»,
dal nome di Bresciani, tra i fondatori e direttore della rivista La Civiltà
Cattolica e scrittore di romanzi popolari d'impronta reazionaria; uno di essi,
L'ebreo di Verona, fu stroncato in un famoso saggio di Sanctis. I nipotini di padre Bresciani sono gli
intellettuali e i letterati contemporanei portatori di una ideologia reazionaria
con un «carattere tendenzioso e propagandistico apertamente confessato». Fra i
«nipotini»individua, oltre a molti scrittori ormai dimenticati, Antonio
Beltramelli, Ugo Ojetti, la codardia intellettuale dell'uomo supera ogni misura
normale, Panzini, Bellonci, Bontempelli, Fracchia, Baratono -- l'agnosticismo
del Baratono non è altro che vigliaccheria morale e civile -- teorizza solo la
propria impotenza estetica e filosofica e la propria coniglieria – Bacchelli --
nel Bacchelli c'è molto brescianesimo, non solo politico-sociale, ma anche
letterario: la Ronda fu una manifestazione di gesuitismo artistico -- Salvator
Gotta --di Salvator Gotta si può dire ciò che il Carducci scrisse del
Rapisardi: Oremus sull'altare e flatulenze in sagrestia; tutta la sua
produzione letteraria è brescianesca», Ungaretti. La vecchia generazione
degli intellettuali è fallita (Papini, Prezzolini, Soffici, ecc.) ma ha avuto
una giovinezza. La generazione attuale non ha neanche questa età delle
brillanti promesse, Rosa, Angioletti, Malaparte, ecc.). Asini brutti anche da
piccoletti. Croce, il più autorevole intellettuale dell'epoca, da alla
borghesia italiana gli strumenti culturali più raffinati per delimitare i
confini fra gli intellettuali e la cultura italiana, da una parte, e il
movimento operaio e socialista dall'altra; è allora necessario mostrare e
combattere la sua funzione di maggior rappresentante dell'egemonia culturale
che il blocco sociale dominante esercita nei confronti del movimento operaio
italiano. Come tale, Croce combatte il marxismo, cercando di negarne validità
nell'elemento che egli individua come decisivo: quello dell'economia. Il Capitale
di Marx sarebbe per Croce un'opera di morale e non di scienza, un tentativo di
dimostrare che la società capitalistica è immorale, diversamente dalla
comunista, in cui si realizzerebbe la piena moralità umana e sociale. La non-scientificità
dell'opera maggiore di Marx sarebbe dimostrata dal concetto del “plusvalore.” Per
Croce, solo da un punto di vista morale si può parlare di “plusvalore” rispetto
al “valore”, legittimo concetto economico. Questa critica del Croce è in
realtà un semplice sofisma. Il “plusvalore” è esso stesso valore, è la
differenza tra il valore delle merci prodotte dal lavoratore e il valore della
forza-lavoro del lavoratore stesso. Del resto, la teoria del valore di Marx
deriva direttamente da quella dell'economista liberale Ricardo la cui teoria
del valore-lavoro non sollevò nessuno scandalo quando fu espressa, perché
allora non rappresentava nessun pericolo, appariva solo, come era, una
constatazione puramente oggettiva e scientifica. Il valore polemico e di
educazione morale e politica, pur senza perdere la sua oggettività, dove acquistarla
solo con la Economia critica. La filosofia crociana si qualifica come
storicismo, ossia, seguendo Vico, la realtà è storia e tutto ciò che esiste è
necessariamente storico ma, conformemente alla natura idealistica della sua
filosofia, la storia è storia dello Spirito, dunque storia speculativa, di astrazionistoria
della libertà, della cultura, del progresso non è la storia concreta delle
nazioni e delle classi. La storia speculativa può essere considerata come un
ritorno, in forme letterarie rese più scaltre e meno ingenue dallo sviluppo
della capacità critica, a modi di storia già caduti in discredito come vuoti e
retorici e registrati in diversi libri dello stesso Croce. La storia
etico-politica, in quanto prescinde dal concetto di blocco storico, in cui
contenuto economico-sociale e forma etico-politica si identificano
concretamente nella ricostruzione dei vari periodi storici, è niente altro che
una presentazione polemica di filosofemi più o meno interessanti, ma non è
storia la storia di Croce rappresenta figure disossate, senza scheletro, dalle
carni flaccide e cascanti anche sotto il belletto delle veneri letterarie dello
scrittore. L'operazione conservatrice di Croce storico fa il paio con quella di
Croce filosofo. Se la dialettica dell'idealista Hegel era una dialettica dei
contrariuno svolgimento della storia che procede per contraddizioni la
dialettica crociana è una dialettica dei distinti: commutare la contraddizione
in distinzione significa operare un'attenuazione, se non un annullamento dei
contrasti che nella storia, e dunque nelle società, si presentano. Tale
operazione si manifesta nelle opere storiche di Croce. La sua Storia d'Europa,
iniziando e tagliando fuori il periodo della Rivoluzione francese e quello
napoleonico, non è altro che un frammento di storia, l'aspetto passivo della
grande rivoluzione che si iniziò in Francia nel 1789, traboccò nel resto
d'Europa con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata
ai vecchi regimi e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma
la corrosione riformistica che durò fino al 1870. Analoga è l'operazione
operata dal Croce nella sua Storia d'Italia la quale affronta unicamente il
periodo del consolidamento del regime dell'Italia unita e si «prescinde dal
momento della lotta, dal momento in cui si elaborano e radunano e schierano le
forze in contrasto in cui un sistema etico-politico si dissolve e un altro si
elabora in cui un sistema di rapporti sociali si sconnette e decade e un altro
sistema sorge e si afferma, e invece Croce assume placidamente come storia il
momento dell'espansione culturale o etico-politico. Gramsci, fin dagli anni
universitari, fu un deciso oppositore di quella concezione fatalistica e
positivistica del marxismo, presente nel vecchio partito socialista, per la
quale il capitalismo necessariamente era destinato a crollare da sé, facendo
posto a una società socialista. Questa concezione mascherava l'impotenza
politica del partito della classe subalterna, incapace di prendere l'iniziativa
per la conquista dell'egemonia. Anche il manuale del bolscevico russo Nikolaj
Bucharin, eLa teoria del materialismo storico manuale popolare di sociologia,
si colloca nel filone positivistico. La sociologia è stata un tentativo di
creare un metodo della scienza storico-politica, in dipendenza di un sistema filosofico
già elaborato, il positivismo evoluzionistico è diventata la filosofia dei non
filosofi, un tentativo di descrivere e classificare schematicamente i fatti
storici, secondo criteri costruiti sul modello delle scienze naturali. La
sociologia è dunque un tentativo di ricavare sperimentalmente le leggi di
evoluzione della società umana in modo da prevedere l'avvenire con la stessa
certezza con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia.
L'evoluzionismo volgare è alla base della sociologia che non può conoscere il
principio dialettico col passaggio dalla quantità alla qualità, passaggio che
turba ogni evoluzione e ogni legge di uniformità intesa in senso volgarmente
evoluzionistico. La comprensione della realtà come sviluppo della storia umana
è solo possibile utilizzando la dialettica marxiana della quale non vi è
traccia nel Manuale del Bucharin perché essa coglie tanto il senso delle
vicende umane quanto la loro provvisorietà, la loro storicità determinata dalla
prassi, dall'azione politica che trasforma le società. Le società non si
trasformano da sé. Già Marx aveva rilevato come nessuna società si ponga
compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni almeno in via di
apparizione né essa si dissolve, se prima non ha svolto tutte le forme di vita
che le sono implicite. Il rivoluzionario si pone il problema di individuare
esattamente i rapporti tra struttura e sovrastruttura per giungere a una
corretta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato
periodo. L'azione politica rivoluzionaria, la prassi, è anche catarsi che segna
l passaggio dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento
etico-politico cioè l'elaborazione superiore della struttura in super-struttura
nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall'oggettivo
al soggettivo e dalla necessità alla libertà. La struttura, da forza esteriore
che schiaccia l'uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo
di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine
di nuove iniziative. La fissazione del momento catartico diventa così il punto di partenza di tutta la filosofia
della prassi; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono
risultate dallo svolgimento dialettico. La dialettica è dunque strumento di
indagine storica, che supera la visione naturalistica e meccanicistica della
realtà, è unione di teoria e prassi, di conoscenza e azione. La dialettica è dottrina
della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della scienza della
politica e può essere compresa solo concependo il marxismo come una filosofia
integrale e originale che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo
mondiale in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali)
sia l'idealismo che il materialismo tradizionali espressione delle vecchie
società. Se la filosofia della prassi [il marxismo] non è pensata che
subordinatamente a un'altra filosofia, non si può concepire la nuova
dialettica, nella quale appunto quel superamento si effettua e si esprime. Il
vecchio materialismo è metafisica; per il senso comune la realtà oggettiva,
esistente indipendentemente dall'uomo, è un ovvio assioma, confortato
dall'affermazione della religione per la quale il mondo, creato da Dio, si
trova già dato di fronte a noi. Ma va rifiutata «la concezione della realtà
oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e acritica» dal
momento che «a questa può essere mossa l'obbiezione di misticismo». Se noi
conosciamo la realtà in quanto uomini, ed essendo noi stessi un divenire
storico, anche la conoscenza e la realtà stessa sono un divenire. Come
potrebbe esistere un'oggettività extrastorica ed extraumana e chi giudicherà di
tale oggettività? La formulazione di Engels che l'unità del mondo consiste
nella sua materialità dimostrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia
e delle scienze naturali contiene appunto il germe della concezione giusta,
perché si ricorre alla storia e all'uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo
significa sempre umanamente oggettivo, ciò che può corrispondere esattamente a storicamente
soggettivo. L'uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per
tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario;
ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle
contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono
la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie. C'è
dunque una lotta per l'oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e
fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l'unificazione culturale del
genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano spirito non è un punto di partenza
ma di arrivo, l'insieme delle soprastrutture in divenire verso l'unificazione
concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario». La
formazione linguistica di Antonio Gramsci inizia durante gli anni universitari
a Torino con la frequentazione delle lezioni di Bartoli. Gramsci apprende che
la lingua è un prodotto “sociale" e che non può essere studiata senza
tenere conto della storia generale: ciò vuol dire che non è possibile comprendere
i mutamenti di una lingua senza riflettere sui mutamenti sociali, culturali e
politici della popolazione che la parla. È stato notato che fece aderire le
teorie apprese da Bartoli alle letture filosofiche che lo formarono
politicamente; in primo luogo all'Ideologia Tedesca di Marx, dove Marx afferma
che il tessco, come la coscienza dei tedesci, appartiene alla sfera degli
istituti sovra-strutturali, cioè al mondo dell'organizzazione politica e
giuridica della società. Le più interessanti riflessioni linguistiche
gramsciane sono contenute nei Quaderni del carcere e riguardano da una parte la
questione delle lingue in Italia, ovvero lo studio delle ragioni che hanno reso
difficile la diffusione di una lingua per la nazione o tutta la poppolazione,
dall'altra il tema dell'insegnamento linguistico nelle scuole primarie.
Soprattutto il secondo tema è di fondamentale importanza per Gramsci, perché
riguarda direttamente il riscatto culturale delle grandi masse popolari e la
creazione di uno spirito nazionale in grado di superare ogni forma di
particolarismo regionale. I Quaderni del carcere sono costellati in
maniera asistematica di molte note dedicate a problemi di caratteri
linguistico; queste note tracciano una vera e propria storia della lingua
italiana e racchiudono le riflessioni di Gramsci in merito alla cosiddetta
questione della lingua in Italia. Questo tipo di argomento si riallaccia a un
altro importante tema dei Quaderni ovvero lo studio delle responsabilità degli
intellettuali italiani per la formazione di uno spirito nazionale unitario. A
tal proposito Gramsci scrive: «mi pare che, intesa la lingua come elemento
della cultura e quindi della storia generale e come manifestazione precipua
della nazionalità e popolarità degli intellettuali, questo studio non sia ozioso
e puramente erudito». Nell'affrontare una ricostruzione storica delle vicende
linguistiche italiane Gramsci cerca dei termini di confronto con altri paesi
europei come la Francia: mentre in Francia il volgare viene usato per la prima
volta nella storia per redigere un documento ufficiale di carattere
politico-istituzionale, in Italia il volgare appare per la registrazione di
documenti privati legati al commercio o a questioni giuridiche:
«l'origine della differenziazione storica tra Italia e Francia si può trovare
testimoniata nel giuramento di Strasburgo, cioè nel fatto che il popolo
partecipa attivamente alla storia (il popolo-esercito) diventando il garante
dell'osservanza dei trattati tra i discendenti di Carlo Magno; il
popolo-esercito garantisce giurando in volgare, cioè introduce nella storia
nazionale la sua lingua, assumendo una funzione politica di primo piano,
presentandosi come volontà collettiva, come elemento di una democrazia
nazionale. Questo fatto demagogico dei Carolingi di appellarsi al popolo nella
loro politica estera è molto significativo per comprendere lo sviluppo della
storia francese e la funzione che vi ebbe la monarchia come fattore nazionale.
In Italia i primi documenti di volgare sono dei giuramenti individuali per
fissare la proprietà su certe terre dei conventi, o hanno un carattere
antipopolare («Traite, traite, fili de le putte»).» (Quaderni del
carcere, V. Gerratana, Torino, Einaudi) In Francia i gruppi dirigenti si
rendono conto dell'importanza del popolo negli affari di Stato: la demagogia di
cui parla Gramsci è da intendere, oltre che come strumento di propaganda, anche
come un nuovo atteggiamento politico in grado di crearsi «una propria civiltà
statale integrale», in cui si stabilisce un rapporto diretto tra governati e
governanti: il popolo diventa testimone di un fatto storico legittimato dal suo
giuramento. Ricorda nei suoi appunti come in Italia l'uso del volgare si
diffonda con l'avvento dell'età comunale, non solo per la redazione di
documenti privati, tipo atti notarili o giuramenti, ma anche per la creazione
di opere letterarie: in particolare, il volgare toscano, lingua della
borghesia, ottiene un certo successo anche nelle altre regioni. Firenze
esercita una egemonia culturale, connessa alla sua egemonia commerciale e
finanziaria. Bonifazio VIII dice che i fiorentini sono il quinto elemento del
mondo. C'è uno sviluppo linguistico unitario dal basso, dal popolo alle persone
colte, rinforzato dai grandi scrittori fiorentini e toscani. Dopo la decadenza
di Firenze, l'italiano diventa sempre più la lingua di una casta chiusa, senza
contatto vivo con una parlata storica.” Da questo momento si verifica una
cristallizzazione della lingua. I promotori del nuovo volgare, provenienti
dalla borghesia, non scrivono più nella lingua della loro classe d'origine perché
con essa non intrattengono più nessun rapporto, nella visione di Gramsci essi
“vengono assorbiti dalle classi reazionarie, dalle corti, non sono letterati
borghesi, ma aulici.” In questo senso, vede sciupata l'occasione di una
diffusione graduale del volgare toscano su scala nazionale, occasione
compromessa soprattutto dalla frammentazione politica della penisola e dal
carattere “elitario” del ceto intellettuale italianio. Affronta con maggior
vigore la questione delle lingue in relazione al periodo post-unitario. Nella
seconda metà dell'Ottocento, lo stato e per gran parte “dialettofono”, mentre
la lingua della nazione venne usata solo a livello letterario e come lingua
delle istituzioni. La scarsa diffusione di una lingua per la nazione testimonia
la frammentazione politica e culturale della popolazione italiana. Questo
fenomeno venne avvertito come un problema politico, soprattutto da molti
intellettuali di tendenze democratiche come Manzoni. Nella sua ricostruzione
storica Gramsci scrive che “anche la questione delle lingue posta da Manzoni riflette questo problema, il problema
della unità intellettuale e morale della nazione e dello stato, ricercato
nell'unità della lingua.” Eppure, sebbene Gramsci riconosca al Manzoni di aver
compreso la questione linguistica italiana come una questione politica e
sociale, si distingue da lui nel modo di interpretare la risoluzione del problema. Durante
il suo apprendistato glottologico presso Bartoli a Torino ha modo di
confrontare le posizioni del Manzoni con quelle di Ascoli, del “Archivio Glottologico.”
Mentre Manzoni prevede la diffusione di una lingua per la nazione sul modello
fiorentino imposta per decreto statale e per mezzo di maestri di scuola di
origine toscana, Ascoli concepiva la nascita di una lingua nazionale come il
frutto di un'unificazione culturale prima ancora che linguistica. Secondo
Ascoli l'unità culturale e linguistica, prima di tutto, deve avere un centro
irradiante, cioè un determinato 'municipio' in cui si concentrano e da cui
provengono gli elementi essenziali della vita nazionale: beni di consumo,
stimoli culturali, mode, ritrovati della tecnica, istituti statali e giuridici,
ecc. Se quel dato municipio riuscirà a stabilire un primato politico, economico
e culturale su tutta la nazione, riuscirà anche a diffondere, per conseguenza,
il suo particolare idioma. Per Ascoli, una lingua nazionale altro non può e non
deve essere, se non l'idioma vivo di una data città. Deve cioè per ogni parte
coincidere con l'idioma spontaneamente parlato dagli abitatori contemporanei di
quel dato municipio, che per questo capo viene a farsi principe, o quasi
stromento livellatore, dell'intiera nazione. Ascoli, nel suo Proemio, prende la
Francia come esempio per avvalorare la sua tesi. Infatti, l'unità linguistica
di Francia corrisponde all'egemonia politico-culturale di Parigi. La Francia
attinge da Parigi la unità della sua favella, perché Parigi è il gran crogiuolo
in cui si è fusa e si fonde l'intelligenza della Francia intera. Dal
vertiginoso movimento del municipio parigino parte ogni impulso dell'universa
civiltà francese. Viene da Parigi il nome, perché da Parigi vien la cosa. E la
Francia avendo in questo municipio l'unità assorbente del suo pensiero, vi ha
naturalmente pur quella dell'animo suo; e non solo studia e lavora, ma si
commuove, e in pianto e in riso, così come la metropoli vuole. E quindi è
necessariamente dell'intiera Francia l'intiera favella di Parigi. Gramsci
ricalca la lezione ascoliana nei suoi Quaderni. Poiché il processo di
formazione, di diffusione, e di sviluppo di una lingua nazionale unitaria
avviene attraverso tutto un complesso di processi molecolari, è utile avere
consapevolezza di tutto il processo nel suo complesso, per essere in grado di
intervenire attivamente in esso col massimo di risultato. Questo intervento non
bisogna considerarlo come decisivo e immaginare che i fini proposti saranno
tutti raggiunti nei loro particolari, che cioè si otterrà una determinata
lingua unitaria. Si otterrà una lingua unitaria, se essa è una necessità e l'intervento
organizzato accelera i tempi del processo già esistente. Quale sia per essere
questa lingua non si può prevedere e stabilire. Alla nota Focolai di
irradiazione linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico
nelle grandi masse, compila un elenco di tutti gli strumenti utili alla diffusione
di una lingua unitaria. Primo, La scuola. Secondo, i giornali. Terzo, gli scrittori d'arte e quelli popolari.
Quarto, il teatro e il cinematografo sonoro. Quinto, la radio. Sesto, le riunioni
pubbliche di ogni genere, comprese quelle religiose. Settimo, I rapporti di ‘conversazione’
tra i vari strati della popolazione più colti e meno colti. Ottavo, i dialetti
locali, intesi in sensi diversi (dai dialetti più localizzati a quelli che
abbracciano complessi regionali più o meno vasti: così il napoletano per
l'Italia meridionale, il palermitano o il catanese per la Sicilia ecc. Al primo
posto di questo elenco troviamo la scuola. Per tradizione, a scuola, gli
insegnanti introducono gli alunni allo studio di una lingua attraverso la
grammatica “normativa”. Gramsci definisce la grammatica normativa come una fase
esemplare, come la sola degna di diventare, organicamente e totalitarmente, la
lingua comune di una nazione, in lotta e in concorrenza con le altre fasi e
tipi o schemi che esistono già. Le riflessioni gramsciane in materia di
grammatica si pongono in netto contrasto con la riforma della scuola realizzata
da Gentile, di basi griceiana. La riforma, in linea con l'impianto idealista
gentiliano, prevede che l'apprendimento della lingua della nazione nelle classi
elementari si basasse su quello chi Gentile chiama la “espressione” viva o parlata
e non sulla grammatical normativa, considerata questa come una disciplina “astratta”
e meccanica. Nell'ottica di Gramsci il metodo apparentemente liberale di
Gentile-Grice, racchiude uno spiccato carattere “classista” o elitist, in
quanto gli scolari appartenenti alle classi sociali più alte sono avvantaggiati
dal fatto che apprendono l'italiano in famiglia, mentre gli scolari del basso
popolo possono contare su una comunicazione familiare realizzata esclusivamente
in “dialetto” --. In questo senso la grammatica normativa si presenta come uno
strumento in grado di livellare le differenze sociali permettendo a tutti la
conoscenza della lingua della nazione. Secondo Gramsci la conoscenza
della lingua della nazione presso le classi sub-alterne è fondamentale per la
loro organizzazione politica. Un proletariato “dialettofono” non può
partecipare alla vita politica di una nazione e non può sperare di crearsi un
ceto intellettuale in grado di competere con i ceti intellettuali tradizionali.
Il dialetto non deve sparire, ma restare funzionali a un tipo di comunicazione
familiare o locale che non può garantire, per cause interne al suo sistema, «la
comunicazione di un contenuto culturale ‘universale’, caratteristico della
nuova cultura esercitata dal proletariato. Gramsci prestò attenzione anche
alla lingua dell’impero romano. Espresse in più occasioni che lo studio del
latino fosse particolarmente utile nella formazione filosofica, in quanto
abituare il filosofo allo studio rigoroso e a pensare storicamente. Contesta il
“nazionalismo” degli studi e criticò ripetutamente gli intellettuali che,
durante la prima guerra mondiale, chiedevano che fossero messe al bando le
edizioni dei testi romani e la grammatica latina compilate da autori tedeschi! Anche
nei Quaderni del carcere si sofferma sulla questione e ribadì l'utilità intrinseca
della antica lingua romana, osservando che e uno strumento importante nella fase
della formazione filosofica nella quale è necessario un insegnamento
"disinteressato", cioè non legato a questioni pratiche. Però,
sottolineò anche che in futuro lo studio delle lingue morte avrebbe dovuto
essere sostituito da altre materie: era un cambiamento difficile, ma
necessario, per promuovere la formazione di un nuovo tipo di intellettuale.Scrisse
nel Quaderno 12: Bisognerà sostituire il latino e il greco come fulcro
della scuola formativa e lo si sostituirà, ma non sarà agevole disporre la
nuova materia o la nuova serie di materie in un ordine didattico che dia
risultati equivalenti di educazione e formazione generale della personalità, partendo
dal fanciullo fino alla soglia della scelta professionale. In questo periodo
infatti lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere (e apparire ai
discenti) disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati o troppo
immediati, deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni
concrete. Machiavelli influenzò fortemente la teoria dello Stato di
Gramsci. Marx, filosofo, storico, critico dell'economia politica e fondatore
del materialismo storico Engels Lenin, Labriola, primo notevole teorico
marxista italiano, riteneva che la principale caratteristica del marxismo fosse
quella di aver creato uno stretto nesso fra la storia e la filosofia. Sorel —
sindacalista che ha respinto il principio dell'inevitabilità del progresso storico.
Pareto — economista e sociologo italiano (nato a Parigi di madre francese),
noto per la sua teoria sull'interazione fra masse ed élite. Croce — liberale
italiano, filosofo anti-marxista e idealista il cui pensiero fu sottoposto da
Gramsci a critica attenta e approfondita. Pensatori influenzati da Gramsci. Gramscianesimo.
Zackie Achmat Eqbal Ahmad Jalal Al-e-Ahmad, Althusser Perry Anderson, Giulio
Angioni Michael Apple Giovanni Arrighi Zygmunt Bauman Homi K. Bhabha, Gordon
Brown Alberto Burgio, Butler Alex Callinicos Partha Chatterjee Marilena Chauí, Chomsky
Alberto Mario Cirese Hugo Costa Robert W. Cox Alain de Benoist Biagio de Giovanni
Ernesto de Martino, Eco John Fiske, Foucault Paulo Freire, Garin Eugene D.
Genovese Stephen Gill Paul Gottfried Stuart Hall Michael Hardt Chris Harman
David Harvey Hamish Henderson Eric Hobsbawm Samuel Huntington Alfredo Jaar Bob
Jessop, Laclau, Mariátegui, Mouffe, Negri, Nono, Omi, Pasolini, Pigliaru, Pira,
Portantiero, Poulantzas Gyan Prakash William I. Robinson Edward Saïd Ato
Sekyi-Otu Gayatri Chakravorty Spivak, Sraffa Edward Palmer Thompson Giuseppe
Vacca Paolo Virno Cornel West Raymond Williams Howard Winant, Wittgenstein Eric
Wolf Howard Zinn. Gramsci al cinema e in televisione Il delitto Matteotti,
regia di Vancini, Antonio GramsciI giorni del carcere, regia di Fra, Gramsci,
regia di Maielloserie TV, Gramsci, film in forma di rosa, regia di Gabriele
Morleocortometraggio, Gramsci, regia di Emiliano Barbucci, Nel mondo grande e
terribile, regia di Daniele Maggioni, Maria Grazia Perria e Laura Perini. Gramsci
nel teatro Compagno Gramsci, di Maricla Boggio e Franco Cuomo, regia di Maricla
Boggio, Gramsci nella musica Quello lì (compagno Gramsci), canzone di Claudio
Lolli contenuta nell'album Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita,
Piazza Fontana, canzone dei Yu Kung contenuta nell'album Pietre della mia gente
Nino, canzone dei Gang contenuta nell'album Sangue e Cenere () Gramsci, il
teatro e la musica È nota la passione di Gramsci per il teatro e per la musica,
che si può leggere nelle lettere scritte a Tania. Egli ha scritto circa il
melodrama “verdiano” che per lui segnava l’apertura dei teatri al pubblico,
svolgendo una funzione conoscitiva, pedagogica e politica in senso generale.
Per Gramsci l’opera diviene l’arte più popolare e i teatri aperti i luoghi dove
si esercitava parte del conflitto politico. Una frase quasi ironica di
Gramsci da citare, per quanto riguarda l’importanza dell’opera per l’Italia:
“siccome il popolo non è letterato e di letteratura conosce solo il libretto
d'opera ottocentesco, avviene che gli uomini del popolo melodrammatizzino”. Nelle
sue lettere si può leggere anche riguardo alla moda europea del jazz; egli
sostiene che questa musica aveva conquistato uno strato dell’Europa colta e
aveva creato un vero fanatismo: Opere: “Alcuni temi della questione
meridionale, in Lo Stato Operaio, Opere, Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, premio
Viareggio, con centodiciannove lettere inedite, I quaderni dal carcere, Il
materialismo storico e la filosofia di Croce” (Torino, Einaudi); “Gli
intellettuali e l'organizzazione della cultura” Torino, Einaudi, Il Risorgimento,
Torino, Einaudi, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo stato moderno,
Torino, Einaudi, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi,Passato e
presente, Torino, Einaudi, L'Ordine Nuovo. Torino, Einaudi, Scritti giovanili.
Torino, Einaudi, Sotto la mole. Torino, Einaudi, Socialismo e fascismo.
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Einaudi, Il nostro Marx. Torino, Einaudi, L'Ordine nuovo, Torino, Einaudi, Nuove
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Riuniti, Forse rimarrai lontana.... Lettere a Iulca, Roma, Editori Riuniti, Gramsci al confino di Ustica. Nelle lettere di
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Carocci, La nostra città futura. Scritti torinesi,Roma, Carocci, Pensare
l'Italia, Roma, Nuova iniziativa editoriale, Scritti sulla Sardegna. La memoria
familiare, l'analisi della questione sarda, Nuoro, Ilisso, Scritti
rivoluzionari. Dal biennio rosso al Congresso di Lione, O. Micucci, Camerano,
Gwynplaine, Quaderni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana-Cagliari-L'Unione
Sarda, Epistolario, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Epistolario, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Antologia, Antonio A. Santucci,
prefazione di Guido Liguori, Roma, Editori Riuniti university press,. Il teatro
lancia bombe nei cervelli. Articoli, critiche, recensioni, F. Francione,
Mimesis Edizioni. La taglia della storia. Idea e prassi della rivoluzione,
NovaEuropa Edizioni,.Note Luigi Manias, Antonio Sebastiano Francesco
Gramsci, Marmilla Cultura, International Gramsci Society, su international
gramsci society.org. Genealogia dei
Gramsci (JPG), su albanianews. Luigi Manias,
Ma quando è nato Gramsci?, Marmilla Cultura,
Manias, Ales. La sua storia. I suoi problemi, Marmilla Cultura, Così
Gramsci ricordava con ironia l'episodio, nella lettera dal carcere alla cognata
Tatiana, aggiungendo che «una zia sosteneva che ero risuscitato quando lei mi
unse i piedini con l'olio di una lampada dedicata a una Madonna e perciò,
quando mi rifiutavo di compiere gli atti religiosi, mi rimproverava aspramente,
ricordando che alla Madonna dovevo la vita»
«Noi eravamo tutti molto piccoli. Lei dunque doveva anche accudire alla
casa. Trovava il tempo per i lavori di cucito rinunziando al sonno». Così
ricordava quegli anni la sorella Teresina Gramsci, in Fiori, Lettera a Tatiana
Schucht, così scriveva per invitare la cognata a non eccedere nelle sue
preoccupazioni sulla sua vita di carcerato. La lettera prosegue infatti: «Ho
conosciuto quasi sempre solo l'aspetto più brutale della vita e me la sono
sempre cavata, bene o male» Lettera a
Tatiana Schucht, Numerose sono le richieste di denaro al padre: gli scrive di essere «proprio indecente con
questa giacca che ha già due anni ed è spelacchiata e lucida [oggi non sono
andato a scuola perché mi son dovuto risuolare le scarpe» e, il 16 febbraio,
che «per non farvi vergognare non sono uscito di casa per dieci giorni
interi» Fonzo, Testimonianza in Fiori, Testimonianza
della sorella Teresina in Fiori, Fiori, L'articolo è riportato in Fiori, Riportato
in A. Gramsci, Scritti politici Antonio
Gramsci, Dizionario di Storia, Treccani
[«io pensavo allora che bisognava lottare per l'indipendenza nazionale
della regione: "Al mare i continentali". Poi ho conosciuto la classe
operaia di una città industriale e ho capito ciò che realmente significavano le
cose di Marx che avevo letto prima per curiosità intellettuale». Cfr. A.
Gramsci, lettera a Giulia Schucht, in A. Gramsci, Lettere. Gramsci e l'isola
laboratorio, La Nuova Sardegna A.
Gramsci. Lettere. Progettando, in carcere, uno studio di linguistica comparata,
mai realizzato, in una lettera dal carcere dalla cognata Tatiana, ricorda come
«uno dei maggiori "rimorsi" intellettuali della mia vita è il dolore
profondo che ho procurato al mio buon professor Bartoli dell'Torino, il quale
era persuaso essere io l'arcangelo destinato a profligare definitivamente i
"neogrammatici"» della linguistica. Tuttavia già l'economista Amartya
Sen aveva avanzato l'ipotesi che il passaggio ai giochi linguistici di Ludwig
Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche fosse stato ispirato dai Quaderni dal
carcere. Nel suo recente studio Gramsci and Wittgenstein: an intriguing
connection, Pipero ha aggiunto nuovi elementi che dimostrano il collegamento
fra Gramsci e Wittgenstein tramite Sraffa. Infatti il filosofo viennese venne a
conoscenza del Quaderno 29, grazie proprio al suo amico Sraffa che aveva conosciuto
a Cambridge. Lettera dal carcere: in essa Gramsci ricorda ancora un simpatico e
patetico episodio. Dopo la rottura avvenuta a causa di quell'articolo che fece
«piangere come un bambino e stette chiuso in casa il Cosmo per alcuni giorni»,
essi s'incontrarono nel nell'Ambasciata d'Italia a Berlino, dove il professore
era segretario: «il Cosmo mi si precipitò addosso, inondandomi di lacrime e di
barba e dicendo a ogni momento: Tu capisci perché! Tu capisci perché! Era in
preda a una commozione che mi sbalordì, ma mi fece capire quanto dolore gli
avessi procurato nel 1920 e come egli intendesse l'amicizia per i suoi allievi
di scuola» Lettera dal carcere a TSchucht
In Fiori, In A. Gramsci, Scritti
politici, I56-59 Davico12. Lettera dal carcere a Tatiana Schucht Lettera
dal carcere a Tatiana Schucht, Recensione Recensione Recensione Spriano, Note
sulla rivoluzione russa, ne Il Grido del Popolo, in Gramsci, I massimalisti russi, ne Il Grido del Popolo, iSpriano,
La rivoluzione contro il «Capitale», nell'Avanti!, Nella lettera Marx scriveva
a Vera Zasulič che la tipica proprietà comune agricola russa poteva essere
salvata dalla distruzione minacciata dallo sviluppo dei rapporti capitalistici:
«Per salvare la comune russa, occorre una rivoluzione russa. Se la rivoluzione
scoppierà a tempo opportuno, se l'intelligencija concentrerà tutte le forze
«vive del paese» nell'assicurare alla comune agricola un libero spiegamento,
allora la comune ben presto evolverà come elemento di rigenerazione della
società russa e, insieme, di superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime
capitalistico». Inoltre, nella prefazione all'edizione russa del Manifesto,Marx
ed Engels avevano scritto che «l'odierna proprietà comune potrà servire di
partenza per una evoluzione comunista». È anche vero, tuttavia, almeno nel caso
della lettera alla Zasulič, che Gramsci all'epoca non poteva conoscerne il
contenuto. (Cfr. Cinella, L'altro Marx, Della Porta Editori, Pisa-Genova, A.
Gramsci, Ordine Nuovo, A. Gramsci, ibidem
Corriere della Sera, Archivio Centrale dello Stato, Min. Int., Dir. Gen.
PS, Ordine Nuovo, 8 maggio 1920, in Scritti politici, IConcluso con un ordine
del giorno che prospettava la conquista violenta del potere e la dittatura del
proletariato Per un rinnovamento del
Partito socialista, ne L’ordine Nuovo, in Gramsci, Lenin, nel suo discorso
all'Internazionale Comunista, invitando a espellere dal partito socialista
l'ala destra riformista, disse che «all'indirizzo dell'Internazionale Comunista
corrisponde l'indirizzo dei militanti dell'Ordine Nuovo e non l'indirizzo
dell'attuale maggioranza dei dirigenti del partito socialista e del loro gruppo
parlamentare». Lenin, Opere, Ordine Nuovo, in Scritti politici, GRAMSCI La
sposa mandata da Lenin Lettera, in A.
Gramsci, Lettere Lettera dal carcere. Un profilo di Antonio Gramsci junior, su
channelingstudio.ru. Su alcune note di
uno sconosciuto bolscevico Vladimir Diogotche sosteneva, fra l'altro, di essere
a conoscenza di un tentativo di rovesciamento della monarchia italiana da parte
di Nitti in accordo con i socialistilo storico Jaroslav Leontiev ha sostenuto nche
la conoscenza tra Gramsci e la Schucht sia stata "pilotata" da Lenin
in persona: cfr. Link archivio del Corriere
Amendola, In Togliatti, In
Togliatti, Lettera di Gramsci a Giulia Schucht, Lettera a Giulia Schucht, La crisi italiana,
ne L’Ordine Nuovo, 1º settembre 1924, in Gramsci, Camera dei Deputati, XXVII
legislatura del Regno d'Italia, "Capo", in L'Ordine Nuovo, pubblicato
successivamente col titolo di Lenin capo rivoluzionario, in l'Unità, «Capo», ne
L’ordine Nuovo, in Gramsci, Anche alle autorità francesi fu nascosto lo
svolgimento del Congresso. Sul III CongressoSpriano, Storia del Partito
comunista italiano, Spriano, Spriano, Spriano, Spriano, Antonio Gramsci, Tesi di Lione,
Lione, Antonio Gramsci, La questione meridionale, Editori Riuniti, «Alcuni temi della quistione meridionale».
Stato operaio, Citato in Rosario
Villari, Il Sud nella Storia d'Italia. Antologia della Questione meridionale,
Roma-Bari, Laterza, Antonio Gramsci, Cinque anni di vita del partito, L'Unità, Fiori, Spriano, Aurelio Lepre, Il
prigioniero. Vita di Antonio Gramsci, Editori Laterza, Bari, La lettera, non
datata, si ritiene sfu pubblicata per la prima volta in Francia da Tasca. Su
tutta la questione della lotta interna nel partito comunista sovietico di
questo periodoSpriano, cit., II, ca 3 e 5
A. Gramsci, Lettere Lettera di Togliatti a Gramsci, Commissione di
assegnazione al confino di Roma, ordinanza dcontro Antonio Gramsci (“Dirigenti
e deputati del PCd'I dichiarati decaduti”). In Pont, Carolini, L'Italia al
confino, Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni
provinciali (ANPPIA/La Pietra), Tornata Camera dei deputati Fiori, In Fiori, Sentenza contro Antonio Gramsci e
altri (“Ricostituzione di partito disciolto, propaganda, cospirazione,
istigazione alla lotta armata ecc.”). In Pont, Carolini, L'Italia dissidente e
antifascista. Le ordinanze, le Sentenze istruttorie e le Sentenze in Camera di
consiglio emesse dal Tribunale speciale fascista contro gli imputati di antifascismo,
Milano (ANPPIA/La Pietra),
Amendola142. Spriano, Lettera a
Tatiana Schucht, Fiori, Fiori, Fiori, Risoluzione
per l'espulsione di Amedeo Bordiga
Fiori, Pubblicato in «Rinascita», In «Rinascita», cit. Dalla biografia di Pertini pubblicata nel
sito web del Circolo Sandro Pertini di Genova: «Chiesi al maresciallo dei
carabinieri che comandava la scorta se poteva dirmi dove mi portavano. Quando questi
fece il nome di Turi me ne rallegrai. Ero contento perché sapevo che là avrei
incontrato Antonio Gramsci, un uomo che avevo sempre ammirato per il suo
coraggio». A Turi incontrai Gramsci in un angolo del cortile dove coltivava
un'aiuola di fiori; era piccolo di statura e con due gobbe: una davanti ed una
di dietro. Mi avvicinai a lui, mi presentai, gli affermai che venivo da Santo
Stefano e che ero onorato di fare la sua conoscenza. Gli davo del lei e lo
chiamavo Onorevole Gramsci. Lui si mise a ridere, dicendomi: "Perché mi dai
del lei? Siamo antifascisti, vittime del Tribunale speciale tutti e due. Io gli
ricordai che per loro, i comunisti, noi eravamo dei social-traditori. Disse di
lasciar stare quella polemica penosa. Ci vedemmo dopo qualche giorno e parlò di
Turati e Treves in maniera che mi sembrò offensiva ed io risposi con durezza.
Il giorno dopo si scusò, dicendo che il suo era un giudizio politico, non aveva
avuto intenzione di offendere le persone, e capiva la mia reazione in favore di
due compagni che si trovavano in Francia. Da allora diventammo buoni amici.
Parlavamo a lungo insieme anche perché era stato isolato dai suoi. Per certi
versi costoro lo consideravano un traditore e chiedevano la sua espulsione dal
partito, come poi fecero anche con Ravera. In cella Gramsci era perseguitato
dai carcerieri. L’ordine di non lasciarlo dormire arrivasse direttamente da
Roma. Io andai dal direttore del carcere a protestare perché i carcerieri, ogni
volta che Gramsci si addormentava, lo svegliavano facendo scorrere sulle sbarre
della finestra dei bastoni, con la scusa di controllare che le sbarre non
fossero state segate per un'evasione. Dissi al direttore che se la situazione
non fosse cambiata, avrei scritto una lettera al ministero. Il risultato fu che
Gramsci, già gravemente malato di tubercolosi poté dormire tranquillo. Le mie
proteste costrinsero il direttore del carcere di Turi a concedere a Gramsci
anche alcuni quaderni, delle matite, un tavolino ed una sedia. Così poterono
nascere i quaderni dal carcere. La mia amicizia mi mise in contrasto con il
direttore del carcere e forse non fu estraneo al mio trasferimento a Pianosa. Lettera
a Tatiana Schucht, Lettera a Tatiana Schucht,
Alla fine degli anni settanta cominciò a circolare la voce secondo la
quale Gramsci in punto di morte si sarebbe convertito alla fede cattolica. Tale
affermazione venne però ritrattata dallo stesso religioso che l’aveva
inavvertitamente messa in circolazione, chiamando a supporto della smentita
l’allora cappellano della clinica Quisisana. Nonostante le chiare
argomentazioni della rettifica, trent’anni dopo la medesima tesi fu riproposta
da un altro sacerdote. Essendo priva di riscontri documentali e di prove
testimoniali, la teoria della conversione di Gramsci non è mai stata avvalorata
dagli storici. Cfr. S.Fio., Gramsci e il sacerdote pentito, La Repubblica,
Il Vaticano: «Gramsci trovò la fede», Il Corriere della Sera, C. Daniele,
Togliatti editore di Gramsci, Carocci, Quaderni del carcere, Il Risorgimento,
Einaudi, Torino, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce Quaderni
del carcere, Quaderni del carcere, ed. Gerratana, Cirese, Baratta, Giulio Angioni, Gramsci e il
folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle
culture, Il Maestrale, Note sul Machiavelli,
Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Quaderni del carcere,
cLetteratura e vita nazionale, Il materialismo storico e la filosofia di Croce,
L. Rosiello, Problemi e orientamenti linguistici negli scritti di Antonio
Gramsci, Quaderni dell'Istituto di glottologia di Bologna,A. Gramsci, V. Gerratana,
Torino, Einaudi, A. Gramsci, Quaderni del carcere, V. Gerratana, Torino,
Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, Gramsci,
Gerratana, Torino, Einaudi, G. I. Ascoli, Proemio, AGI, Gramsci, 'Quaderni del
carcere', V. Gerratana, Torino, Einaudi, Quaderni del carcere, V. Gerratana,
Torino, Einaudi, 'Quaderni del carcere', V. Gerratana, Torino, Einaudi, L.
Rosiello, Lingua nazione egemonia, Rinascita Il Contemporaneo, Rapone,
Leonardo, Cinque anni che paiono secoli: Gramsci dal socialismo al comunismo, 1a
ed, Carocci,, Fonzo, Maria Luisa Bosi, Antonio Gramsci, su
scuolalo divecchio. giovannicarpinelli, Gramsci e la musica, su Palomar, La
passione sconosciuta di Gramsci per la musica, in L’Huffington Post. Premio
letterario Viareggio-Rèpaci, Amendola, Storia del Partito comunista italiano Roma,
Editori Riuniti, Perry Anderson, Ambiguità di Gramsci, Bari, Laterza, Giulio
Angioni, Gramsci e il folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire.
L'identico e il diverso nelle culture, Il Maestrale, Francesco Aqueci, Il
Gramsci di un nuovo inizio, Quaderno, Supplemento al n. 19 di «AGON», Rivista Internazionale di Studi
Culturali, Linguistici e Letterari, Francesco Aqueci, Ancora Gramsci, Roma,
Aracne,. Nicola Auciello, Socialismo ed egemonia in Gramsci e Togliatti, Bari,
De Donato, Nicola Badaloni e altri, Attualità di Gramsci, Milano, Il Saggiatore,
Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente, Roma, Carocci,
Bobbio, Saggi su Gramsci, Milano, Feltrinelli, Calamandrei e Calogero, La
conoscenza di Gramsci in Inghilterra. Una lettera di Guido Calogero e una nota
di Franco Calamandrei, in «L'Unità» Mauro Canali, Il tradimento. Gramsci,
Togliatti e la verità negata, Venezia, Marsilio,. Antonio Carrannante, Sull'uso
di 'galantuomo' in Gramsci, in "Studi novecenteschi", Antonio Carrannante, Antonio Gramsci e i
problemi della lingua italiana, in "Belfagor", Iain Chambers, Esercizi di potere. Gramsci,
Said e il postcoloniale, Roma, Meltemi editore, Cirese, Intellettuali,
folklore, istinto di classe, Torino, Einaudi, Marco Clementi, Le ceneri di
Gramsci in Stalinismo e Grande Terrore, Roma, Odradek, Guido Davico Bonino,
Gramsci e il teatro, Torino, Einaudi, Biagio De Giovanni e altri, Egemonia
Stato partito in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, D'Orsi, Gramsci. Una nuova
biografia, Torino, Einaudi,. Dubla,Giusto (a cura), Il Gramsci di Turi, Testimonianze
dal carcere, Chimienti editore, Michele Filippini, Gramsci globale. Guida
pratica agli usi di Gramsci nel mondo, Bologna, Odoya,.Giuseppe Fiori, Vita di Gramsci,
Bari, Laterza, Fiori, Gramsci Togliatti Stalin, Roma-Bari, Laterza, Erminio
Fonzo, Il mondo antico negli scritti di Gramsci, Salerno, Paguro, Eugenio
Garin, Con Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Valentino Gerratana, Gramsci.
Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti, Noemi Ghetti, Gramsci nel cieco
carcere degli eretici, Roma, L'Asino d'Oro Edizioni, Gramsci jr., La storia di
una famiglia rivoluzionaria, Roma, Editori Riuniti-University Press. Gruppi, Il
concetto di egemonia in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Hobsbawm, Gramsci in
Europa e in America, Roma-Bari, Laterza,Aurelio Lepre, Il prigioniero. Vita di
Antonio Gramsci, Bari, Laterza, Liguori e Voza, Dizionario Gramsciano, Roma,
Carocci, Piparo, “I due carceri di Gramsci”, Donzelli, Roma, Losurdo,Gramsci.
Dal liberalismo al comunismo critico, Roma, Gamberetti editrice, Mario
Alighiero Manacorda, Il principio educativo in Gramsci. Americanismo e
conformismo, Roma, Editori Riuniti, Michele Martelli, Gramsci filosofo della
politica, Milano, Unicopli, Mondolfo, Da Ardigò a Gramsci, Milano, Nuova
Accademia, Raul Mordenti, Gramsci e la rivoluzione necessaria, Roma, Editori
Riuniti University Press, Omar Onnis e Manuelle Mureddu, Illustres. Vita, morte
e miracoli di quaranta personalità sarde, Sestu, Domus de Janas, Paggi, Gramsci
e il moderno principe, Roma, Editori Riuniti, Pastore, Gramsci. Questione
sociale e questione sociologica, Livorno, Belforte, Portelli, Gramsci e il
blocco storico, Bari, Laterza,Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio
Gramsci dal socialismo al comunismo, Carocci, Roma, Rossi, Vacca, Gramsci tra
Mussolini e Stalin, Roma, Fazi editore, Angelo Rossi, Gramsci da eretico a
icona. Storia di un "cazzotto nell'occhio", Napoli, Guida editore,.
Angelo Rossi, Gramsci in carcere. L'itinerario dei Quaderni, Napoli, Guida
editore, Santhià, Con Gramsci all'Ordine Nuovo, Roma, Editori Riuniti, Santucci,
Gramsci. Palermo, Sellerio, Spriano, Storia di Torino operaia e socialista,
Torino, Einaudi, Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano,I,
Torino, Einaudi, Spriano, Storia del Partito comunista italiano,II, Torino,
Einaudi, Spriano, Gramsci e Gobetti. Introduzione alla vita e alle opere,
Torino, Einaudi, Paolo Spriano, Gramsci in carcere e il partito, Roma, Editori
Riuniti, Elettra Stamboulis, Gianluca Costantini, Cena con Gramsci, Padova,
Becco Giallo,. Giuseppe Tamburrano, Gramsci: la vita, il pensiero e l'azione,
Bari-Perugia, Lacaita, 1963. Palmiro Togliatti, La formazione del gruppo
dirigente del Partito comunista italiano Roma, Editori Riuniti, Togliatti,
Scritti su Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Vacca, Gramsci e Togliatti, Roma,
Editori Riuniti. Treccani, Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Casa museo Gramsci a Ghilarza, Fondazione Istituto
Gramsci. Antonio Sebastiano Francesco Gramsci. Antonio Gramsci. Grice: “When
Austin speaks of ‘ordinary language,’ he knows what he is talking about; when
Gentile, Gramsci, and Ascoli, do, they don’t!” -- Grice: “Elites are so
relative; when I came to Oxford, I was regarded as a ‘Midlands scholarship boy’
and thus assigned Corpus; there was no way I would socialise with Hampshire,
Austin, and the others who were philososophising at All Souls on Thursday
evenings – I had just been born on the wrong side of the track. So it was
particularly obtuse for me when Gellner started to criticise me as elitist!
Perhaps he had read too much Gramsci!?” Gramsci. Keywords: “Grice, elite” –
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gramsci” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51686162750/in/photolist-2mRi7qi-2mQCrJc-2mQerAd-2mPTNKh-2mPY4jk-2mPTYES-2mPPzb6-2mPWrv4-2mPKvMM-2mN8nen-2mMQbzj-2mLP4Rj-2mLQdrQ-2mKNNqN-2mPsfT9-2mKyErQ-2mKjqrr-2mKk6t5-2mKfNvB-2mKjVho-2mKbfaU
Grice e Gregorio – l’arte grammatica degl’angeli –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo. Da roma -- il grande: Grice: “For one, he is the punning Pope!” Grice: “What WAS Gregorio’s implicatura? A
complex one, since he uses the counterfactual: “si angeli fuessent.” Grice: “In
The Sellars/Yeatman rewrite, the meta-implicata is that you must have read
Bede!” Grice: “Poor Gregorio Magno had to fight with the Lonbards, and the sad
thing is he lost!” -- Grice takes inspiration on Shropshire’s
argument for the immortality of the soul from Gregorio Magno (Dialogo, IV). Figlio
di Gordiano, appartenente all'aristocrazia senatoriale, la classe dominante
dell'antica Roma che mantene prestigio economico e sociale, nonostante la
caduta dell'Impero, e di Silvia, appartenente a una ricca famiglia siciliana. La
sua "ars grammatica" fu limitata e lo stile che denota i suoi scritti
è in linea con quello degli scrittori tardo-antichi. Di questi imita, in
particolare, solo poche figure retoriche come l'anafora ed il gusto
dell'esempio e dell'aneddoto moralizzante. La sua conoscenza del diritto si
centra in Cicerone, da cui riprende anche definizioni e nozioni filosofiche del
stoicismo. Insegna su colle Celio. Secondo la tradizione, mentre Gregorio
attraversava, alla testa della processione, il ponte che collegava l'area del
Vaticano con il resto della città (chiamato allora "Ponte Elio" o
"Ponte di Adriano", oggi Ponte Sant'Angelo), ebbe la visione dell'Arcangelo
Michele che, in cima alla Mole Adriana, rinfoderava la sua spada. La visione
(che secondo alcune fonti fu condivisa da tutti i partecipanti alla
processione) venne interpretata come un “segno” celeste pre-annunciante
l'imminente fine dell'epidemia, cosa che effettivamente avvenne. Da allora i
romani cominciarono a chiamare la Mole Adriana "Castel Sant'Angelo"
e, a ricordo del prodigio, posero più tardi sullo spalto più alto la statua di
un angelo in atto di rinfoderare la spada. Ancora oggi nel Campidoglio è
conservata una pietra circolare con impronte dei piedi che, secondo la
tradizione, sarebbero quelle lasciate da Michele quando si fermò per annunciare
la fine della peste. Vede alcuni giovani schiavi britannici esposti per
la vendita, bellissimi di aspetto e pagani, tanto da aver esclamato,
rammaricato: "Non Angli, ma Angeli dovrebbero esser chiamati…". Comunque in meno di due anni diecimila Angli,
compreso il re del Kent Ethelbert – e la famiglia di Grice -- si
convertirono.Obiettò invece sulla proibizione ai soldati imperiali di diventare
«soldati di Cristo», ovvero di entrare a far parte del clero. Gregorio avrebbe
dettato i suoi canti a un monaco, alternando la dettatura a lunghe pause; il
monaco, incuriosito, avrebbe scostato un lembo del paravento di stoffa che lo
separava dal pontefice, per vedere cosa egli facesse durante i lunghi silenzi,
assistendo così al miracolo di una colomba (che rappresenta naturalmente lo
Spirito Santo), posata su una spalla del papa, che gli dettava a sua volta i canti
all'orecchio. Opere: “Expositio super Cantica canticorum – “Cantico dei
cantici”; “Moralia in Job (Giobbe); “Homiliae in Evangelia”, omelie sui
Vangeli; Homiliae in Hiezechihelem prophetam, oomelie su Ezechiele; A
Sacramentarium Gregorianum con cui riformò il canone della messa, rendendola
più semplice ma più solenne; Antiphonarius centola nuova redazione del libro
dei canti liturgici; Dialoghi; Libro su santi italiani a lui coevi; “San
Benedetto da Norcia” “Sul destino dell'anima” “Su alcune profezie”; “Regula
Pastoralisun manuale per la vita e l'opera dei vescovi e in generale di coloro
che ricoprono il ministero pastorale; Le Epistolaeun registrum,«12 marzoA Roma
presso san Pietro, deposizione di san Gregorio I, papa, detto il grande, la cui
memoria si celebra il 3 settembre, giorno della sua ordinazione.» «3
settembreMemoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere
intrapreso la vita monastica, svolse l'incarico di legato apostolico a
Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le
questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre.”“Si
mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i
bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque
la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale.”Il
Proprio del santo in rito romano contiene la seguente colletta:[ «Deus, qui
pópulis tuis indulgéntia cónsulis et amóre domináris, da spíritum sapiéntiae,
intercedénte beáto Gregório papa, quibus dedísti régimen disciplínae, ut de
proféctu sanctárum óvium fiant gáudia aetérna pastórum. Per Dominum nostrum
Iesum Christum» La Chiesa di Manduria custodisce un frammento d'osso del
suo braccio destro. La Chiesa di Casola custodita un frammento d'osso della sua
mano destra. G. Pepe, Il Medio Evo barbarico d'Italia, Dizionario Biografico degli ItalianiVolume
59, Roma, Claudio Mareschini, Gregorio Magno e la cultura classica” Gregorio
scrisse di sé «ego quoque tunc urbanam praeturam gerens pariter subscripsi», ma
poiché in una variante del testo praeturam è sostituita da praefecturam, dalle
sue epistole non è possibile sapere con esattezza se fu "prefetto
dell'Urbe" o piuttosto "pretore dell'Urbe". S. Gasperri, Italia longobarda, Laterza, Dialogi,
Roma, Tipografia del Senato, Dizionario biografico degli italiani, Opera Omnia
dal Migne patrologia Latina con indici analitici. Gregorio da Roma – Grice:
“Gregory did not know what those were: ‘angeli,’ his companion answered.
Adamant, Gregory corrected him: “No. They are Anglicans, they are not angels!”
-- The grammatical structure of Latin of the seventh to eighth centuries had
changed in comparison with the Latinitas of the fourth century. Although Bede
builds his argument on the Grammar textbooks of Antiquity, he adopts Gregory
the Great’s directive to subject the grammar rules to the language of the
Scriptures and not to ancient Grammar textbooks. GREGORY THE GREAT, Moralia in
Iob, PL 75, col. 516: ‘quia indignum uehementur existimo, ut uerba caelestis
oraculi restringam sub regulis Donati’ (‘I consider it strongly unworthy to
restrict the words of divine revelation to the rules of Donatus’). Gregory did
NOT write an ‘ars grammatica’ – Bonifacio did! – Gregorio does mention the ‘sub
regulis Donati’ – which is worth transcribing: “sed tam pueriliter istum labi
non indignum fortasse fuit, qui litteras fastidit et pro nugis habet, iisque
studere episcopum, impium et profanum putat – et alibi pene gloriatur se artem
loquendi, quam magisterial disciplinae exterioris insinuant, servare
despexisse, non barbarism confusionem devitare, situs motusque praepositionum,
casusque servare contemnere, quia indignum (inquit) vehementur existimo ut
verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati – quasi vero humani
divinique sermonis leges addiscere et observare, id sit caelestia oracular
subiiere. —Non metacismi collisionem fugio, non barbarism confusionem devito,
situs motusque et praepositionum casus servare contemno, quia indignum
vehementer exisitimo ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati –
Non rifuggo dalla collisione del metacismo, non evito la mescolanza di
barbarism, non tengo conto della posizione, degli spostamenti e delle
preposizioni con I casi che esse reggono, perche repute cossa assai indegna
coartare le parole del celeste oracolo entro le regole di Donato – Ep. Miss. C.
5 PL LXXXV, 516 B – Cio che a Gregorio sembra indegno non e l’obbedire alle
regole della grammatica – anche in questo e uomo di disciplina – ma la retorica
di Donato, che teoreizza e prescribe, contro la LIBERTA dell’espresione
originale, il capriccio del maestro – Ructat corde bonum sine lege Donati
verbum – la parola buona erompe dal cuore senza le leggi di Donato. –
sommamente disdicevole assogettare le parole dell’oracolo celeste alle regole
di Donato. L’esegeta del libro di Giobbe non trascura di continuo le norme
grammaticali. Gregorio sa scegliere tra due letture di un medesimo vesetto,
indicare I tropi di paragone e di metonimia, il valore della congiunzione di
coordinarzione, l’etimologia di una parola. Insomma, Gregorio non esclude dall
sua esegesi il iicorso ai metodoi di I spegazione grammaticale classica. Facendo
mostra di una conosenza ostentata della tecnologia grammatical Gregorio si
preoccupa evidentemente di far comprendere che il suo NON-VOLERE non e un
NON-Sapere. It was said a pigeon dictated his Gregorian chants. Not only did he
see the angel land on ponte sant’angelo, but was able to retrieve the stone and
give it to the Campidoglio – he joked on the anglii being potentially angels,
should they were Roman!” – I limite dei arti liberali in Gregorio. Grice: “It
was a good thing for Western civilization that Gregorio could care less about
Greek!” -- Gregorio il Grande, Gregorio
I – Gregorio Magno. Gregorio. Keywords: angeli, ars grammatica – Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Gregorio: implicatura e grammatica” – The Swimming-Pool
Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755718418/in/dateposted-public/
Grice e Grandi – il
progresso all’infinito della rosa di Grandi -- implicatura infinita – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Cremona). Filosofo. Grice: “I like Grandi – and Grandy – for one,
Grandi (if not Grandy) proves that geometry is a branch of mathematics with his
rose curve – a geniality!” – Figlio di Piero Martire, ricamatore, e Caterina Legati, compì i suoi
primi studi di grammatica sotto la guida di Canneti e poi nel locale Collegio
dei Gesuiti, dove ebbe come maestro Saccheri. Entra nel monastero camaldolese
di Classe in Ravenna, assumendo il nome Guido in sostituzione degli originari
Francesco Lodovico, e qui ritrovò il maestro Canneti. Proseguiti gli studi a Roma e Firenze, insegna
a Firenze. Pubblica “La quadratura del cerchio” “La quadrature dell'iperbole”
al cui interno scopre il paradosso: la somma parziale di una serie (“serie di
Grandi) a segni alterni di numeri può non convergere (serie di Grandi). Divenne
membro della corte presso il granduca di Toscana. Insegna a Pisa. Studia la
curva algebrica da lui chiamata "rodonea" per la forma che ricorda il
rosone delle chiese e fu autore degli Elementi di Geometria di Euclide (Venezia,
Savioni). Fu il primo l’analisi degli infiniti. Saggi: “De infinitis
infinitorum”; “Trattato delle resistenze” (Firenze); “Geometrica demonstratio vivianeorum
problematum” (Firenze, Guiducci); “De infinitis infinitorum, et infinite parvorum
ordinibus disquisitio geometrica” (Pisa, Bindi); “Epistola mathematica de
momento gravium in planis inclinatis” (Lucca, Frediani); “Dialoghi circa la
controversia eccitatagli contro Marchetti” (Lucca, Gaddi); “Prostasis ad
exceptiones clari varignonii libro de infinitis infinitorum ordinibus oppositas
circa magnitudinum plusquam-infinitarum vallisii defensionem et anguli
contactus” (Pisa, Bindi); “Del movimento dell'acque trattato geometrico” (Firenze);
“Relazione delle operazioni fatte circa il padule di Fucecchio” (Lucca, Venturini);
“Trattato delle resistenze” (Firenze, Tartini); “Compendio delle Sezioni
coniche d'Apollonio con aggiunta di nuove proprietà delle medesime sezioni” (Firenze,
Tartini); “Instituzioni Meccaniche” (Firenze, Tartini); “Istituzioni di
aritmetica pratica” (Firenze, Tartini); “Sectionum conicarum synopsis” (Firenze,
Giovannelli); “Idraulici italiani."Rodonea" deriva dal greco Ροδή,
rosa. La curva rodonea è anche chiamata "rosa di Grandi" in suo
onore. G. Ortes, Vita del abate camaldolese, matematico dello Studio Pisano,
Venezia, Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Italiana,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Rodonea Sofisma algebrico Treccani Enciclopedie
on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Crusca. Carteggi del padre
camaldolese matematico. Francesco Lodovico Grandi – Grice: “I like Grandi: I
have two ways to deal with ‘mean’: ‘no sneaky intention allowed, including this
– (o) all intentions are open ones, including this one – self-reference; or
‘optimal infinite’ potential infinite/actual infinite – titular versus de
facto. In any case, both are better than pseudo-Schiffer!” Grice: “While I say,
“Schiffer and others,” it should be pointed out that the first to show this
was, of all people, my tutee Strawson – Stampe and Patton came close! (I love
them guys! Patton is a gentleman, and Stampe, too! Both brilliant philosophical
gentlemen, too!” -- In geometria è detta rodonea la curva algebrica o
trascendente il cui grafico è caratterizzato da una serie di avvolgimenti
attorno ad un punto centrale. Nei casi più noti tali avvolgimenti producono
figure a forma di rosone, da cui deriva alla curva il nome rodonea (dal greco
rhódon, ròsa). La curva rodonea è chiamata anche rosa di Grandi da Luigi Guido
Grandi, il matematico che la battezzò e studiò intorno al 1725.
Rodonee ottenute per valori diversi del parametro {\displaystyle \omega
={\frac {n}{d}}} Tartapelago rosaGrandi 04.gif Vari modi per la
costruzione di Rose di Grandi. Animazioni realizzate in MSWLogo[1] La rodonea
si può considerare un caso particolare di ipocicloide. Equazione della
curvaL'equazione delle rodonea in coordinate polari {\displaystyle (\rho
,\theta )}è: {\displaystyle \rho =R\sin \omega \theta }, dove R è un
numero reale positivo che rappresenta la massima distanza della curva dal
centro degli avvolgimenti, e \omega è un numero reale positivo che
determina la forma della curva. È possibile anche scrivere la rodonea come
{\displaystyle \rho =R\cos \omega \theta }, che produce una figura analoga, ma
ruotata di un angolo pari a {\displaystyle {\frac {\pi }{2\omega
}}}radianti. Proprietà Se \omega è un numero intero, la curva ha un
numero finito di avvolgimenti, tutti passanti per l'origine degli assi, che
generano una serie di "petali" componenti la figura a forma di
rosone; il numero dei petali è pari a: \omega , se \omega è
dispari; {\displaystyle 2\omega }, se \omega è pari. Osserviamo che non è
possibile ottenere rose con un numero di petali pari a {\displaystyle 4n+2}.
Per {\displaystyle \omega =1} si ottiene un unico petalo, ovvero una
circonferenza non centrata nell'origine. L'area della superficie
racchiusa dalla curva è pari a {\displaystyle {\frac {\pi R^{2}}{2}}} per k
pari, a {\displaystyle {\frac {\pi R^{2}}{4}}} per k dispari. Se
\omega è un numero razionale {\displaystyle {\frac {n}{d}}}, la curva ha
un numero finito di avvolgimenti, che si intersecano in più punti creando una
serie di petali parzialmente sovrapposti; nella figura a fianco sono
visualizzate le rodonee ottenute per alcuni valori di n e d. Come caso
particolare, per {\displaystyle \omega ={\frac {1}{2}}}, si ottiene il folium
di Dürer. In entrambi i casi precedenti, la curva ottenuta è algebrica;
se invece \omega è un numero irrazionale, la curva è trascendente ed ha
un numero infinito di avvolgimenti che non si chiudono e formano un insieme
denso, passando arbitrariamente vicino a ogni punto del cerchio di raggio
R. Note Giorgio Pietrocola, Curve storiche, Rose di Grandi, su
Tartapelago, Maecla, 2005. URL consultato il 26 aprile 2021.
BibliografiaRhodonea Curves, in The MacTutor History of Mathematics archive,
School of Mathematics and Statistics, University of St Andrews, Scotland. URL
consultato il 16-07-2008. Voci correlate Ipocicloide Figura di Lissajous PAGINE
CORRELATE Sistema di coordinate polari sistema di coordinate
bidimensionale Atomo di idrogeno atomo dell'elemento idrogeno
Metodo simbolico Il progressus in infinitum (in italiano «progresso
all’infinito») o regressus in infinitum («regresso all'infinito») [1], è
un'espressione della filosofia scolastica che indica un modo di argomentare
logicamente, quando, per spiegare qualcosa, si ricorre a un termine, il quale
però rende necessario il rinvio a un nuovo termine, e questo a un ulteriore
termine; e cosi via senza che si possa mai giungere a un punto di spiegazione
ultimo e definitivo. Questo procedimento logico, usato largamente da Aristotele
e dagli scettici, vuole quindi dimostrare l'insufficienza di un'argomentazione.
La differenza tra le due espressioni consiste nel ricercare la causa prima (ad
esempio: causalità ideale platonica) o spiegazione definitiva di una cosa (ad
esempio: causalità naturale aristotelica) procedendo logicamente in avanti
(progressus) o all'indietro (regressus). [2]. Un esempio di un procedimento
logico basato sul regressus in infinitum si ritrova nell'"Argomento del
terzo uomo" di Aristotele. Immanuel Kant (1724-1804) nella settima
sezione della sua Critica della Ragion Pura (1781) chiamava «progressus in
indefinitum» questo "infinito per addizione" che «non ammette nessuna
limitazione se non quella provvisoria che gli può essere assegnata ad ogni suo
passo, prima di procedere al passo successivo». Si tratta di un infinito
irraggiungibile, non potendosi contare effettivamente infiniti numeri
naturali. Per questo motivo Aristotele (384-322 a.C.), affermava
che «il numero è infinito in potenza, ma non in atto». [3] come appare chiaro se
si rappresentano i numeri naturali con una serie di punti equidistanti, che si
susseguono senza fine lungo la retta in una successione infinita discreta nel
senso che tra due elementi consecutivi c'è uno spazio vuoto, da intendersi come
assenza di elementi. Si parla anche di un'infinità numerabile, giacché di
questi infiniti elementi è possibile dire qual è il primo, il secondo, il
terzo, e così via. L’infinito potenziale è perciò un infinito ottenuto
per divisione; «la caratteristica di tale infinito, che Kant chiamava
“regressus in infinitum”, è che esso è interamente contenuto in una totalità
limitata: dividendo all’infinito un segmento in parti sempre più piccole,
risulta evidente che tutti gli elementi della divisione sono in realtà già
assegnati e presenti, prima ancora che la stessa divisione abbia inizio;
appartenendo ad una forma limitata essi non possono sfuggire e non possono che
essere ritrovati durante un processo all’infinito che inevitabilmente li
raggiunge tutti. La differenza tra “progressus in infinitum” e
“regressus in infinitum” secondo Kant sta proprio in questo: nel primo caso gli
elementi vanno cercati al di fuori della totalità parziale, sempre finita, che
non si cessa mai di ottenere; nel secondo essi vanno trovati in un tutto
preesistente.» [4] Note Dizionario internazionale.it ^ Enciclopedia
Treccani alla voce "Regressus in infinitum" ^ Bocconi - Aristotele e
l'infinito ^ Mathesis Portale Filosofia: accedi alle voci di
Wikipedia che trattano di FilosofiaLuigi Guido Grandi. Grandi. Keywords:
infinite implicature – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grandi: implicatura
infinita” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51685536958/in/photolist-2mKAsyK-2mKCfz1-2mKEPJE-2mKAiSV-2mPvmTf-2mKAuZM-2mKjqrr-2mKiPND-2mKbkhx-2mKiNkD-2mJqjKS-2mJq2uE-2mJd7nN-2mJe9QJ-2mJ4GHU-2mJ3q6x-2mGT6p1-2mGnP2f-FXFiS4-E58e4H-Dw1w1R-DhRHD2-DvhhWW-Bq5Mgn-BDuNmW-2mKgTry-2mEd2LM-G7oMm2-G55xdb-G3tvCn-F7umuM-Ecrffr-CRAGiK-CkaHMd-Ckaz7s-CntuMM-CntseF-CdAEaL-CdDizG-CfWKjF-BFQviK-hSTpSd-mwahJ7-mwao2S-myDwnk-mw96Mi-mw8xSD-mw94r6-mwapBq-jkN2VC
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