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Tuesday, September 20, 2022

GRICE 23

 

Grice e Ghersi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Celle Ligure). philosopher -- curator of The Swimming-Pool Library at Villa Grice, Liguria, Italia. Ghersi has an interest in Grice’s philosophybut finds Strawson pretty enjoyable, too!Theere’s something about the Oxonian nonsensical philosophical humour that Ghersi appreciates like none other. Ghersi often makes candid fun of some of Grice’s inventions, such as that of the conversational “common-ground status”!Ghersi enjoys the full-time paradoxes of the bald king of France. Ghersi’s favourite humorist is J. K. Jerome, but also enjoys Wodehouse.And finds Dodgson just fascinatingThe Swimming-Pool Library is mainly organised along Ghersis’s personal tastes, as a personal library should!Ghersi is not particularly appreciative of poetry, but will enjoy the ballad set to piano! Ghersi’s favourite genre is drama, since “it is so clear in implicature.” Grice is a frequent contributor to cultural circles and societies and a host like none otherVilla SperanzaSperanza appreciates Ghersi’s talent to infuse enthusiasm in all type of endeavours --. Keywords: love, soul, life, inghilterra. Refs.: Ghersi e GriceGrice e Watson --. Refs. BANC MSS 90/135c. Vide Speranza.Vide SperanzaVide SperanzaVide Speranza. – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Ghezzi – i tordi ubriachi – filosofia italiana – dirtto artificiale -- Luigi Speranza – (Milano). Filosofo. Grice: “I love Ghezzi: he has explored ‘turdus,’ as in ‘sturdy,’ ‘drunk as a thrush’ – but also a count who was condemned by the church; he has explored the history of masonry – in Italy it started in Calabria – from a semiotic point of view, ‘il segno del compassso,’ – and he has explored on Ayax’s ‘nichilismo razioale’ – among many other topics – also an ‘epistemology of willing’ – epissttemologia della volonta --.” Grice: “Typically of Italian philosophers, he has explored Italian  history, ‘ceneri del diritto,’ and a confrontation between people and ‘stato’. Si laurea a Milano sotto Bobbio con “La Filosofia del Diritto.” Gran Maestro Onorario del Grande Oriente d'Italia.  Marginalità e Società,  ell'Università degli Studi dell'Insubria (sede di Como). Sociologia della Devianza. Studia il positivism giuridico dal punto di vista del concetto di diritto. Affrontato il tema del pluralismo dei valori e degli ordinamenti giuridici, del federalismo, criminalità, devianza, marginalità e pluralismo nell'ambito della Sociologia del Diritto Penale, sulla giustizia e sulla legittimità degli ordinamenti giuridici, con particolare riferimento alla figura del "deviante giuridico", introducendo i concetti che porteranno alle teorie della "divergenza” sociale, marginalità, Si rileva essersi principalmente dedicato al tema del nichilismo giuridico, proponendo una visione nichilista, definite come “l’assenza del valore” -- del tutto neutra circa la potenzialità “regolatrice” e la potenzialita ordinatrice di una norma. L’approfondimento del nihilismo assiologico o valuativo risulta essersi svolto attraverso il confronto con filosofi contemporanei di questo ambito, tra cui Ferrari, Severino, e Giorello. Scetticismo. La Rivoluzione del Diritto come Estetica, in estensione del suo libro Il Diritto come Estetica. Nel volume è stata inclusa, come Appendice, una Raccolta di diversi saggi di filosofi contenenti riflessioni ed approfondimenti interamente riferiti a Ghezzi. Altre opera: “Socialismo e sociologia giuridica: "Centro lombardo studi socialisti, Milano, “Devianza tra fatto e valore nella sociologia del diritto” (Giuffrè, Milano); “Federalismo,  I e II, Patera Palermo Editore,  Diversità e pluralismo. La sociologia del diritto penale nello studio di devianza e criminalità, Raffaello Cortina, Milano, “Il segno del compasso. La massoneria e i suoi persecutori attraverso simboli, idee, fatti e processi, Mimesis, Milano. “Le Ceneri del Diritto. La dissoluzione dello Stato democratico in Italia, Mimesis, Milano. Le lacrime di Hiram. Autobiografia incompleta di un Libero Muratore, Edizioni della Confraternita Sufi Jerrahi Halveti in Italia, Milano “La Scienza del dubbio. Volti e temi di sociologia del diritto, Mimesis, Milano  Federalismo laico e democratico, Mimesis, Milano; “I tordi ubriachi” Un viaggio iniziatico, Mimesis, Milano,  Sociologia giuridica del lavoro, Mimesis, Milano, Il Diritto come Estetica. Epistemologia della conoscenza e della volontà: il nichilismo/nihilismo del dubbio, Mimesis, Milano Della vita e della morte. Vulnerant omnes ultima necat, Mimesis, Milano; “Nichilismo razionale e mistico. Indicazioni per il nuovo mondo, Mimesis, Milano); “Stranieri, ospiti, alieni, alienati e pluralismo culturale” (Mimesis, Milano); “Nichilismo come valore senza valori, Mimesis, Milano); “Abusi di stato: Risarcimento del danno al cittadino, Mimesis, Milano); In ricordo di Riccardo Bauer, di Ghezzi e Arduino, C.R.E.A., Milano; “Educare alla democrazia e alla pace. Bauer. Scritti scelti, L.I.D.U., edizioni Raccolto,  Alle origini dell'Umanitaria, Ghezzi e Canavero Raccolta Edizioni-Umanitaria, L'immagine pubblica della Magistratura italiana, di Ghezzi Giuffrè, Milano Curatele. “Etica contro politica”; Morris L. Ghezzi, edizione Iesi, Ferrari, Ghezzi,‘’Diritto, cultura e libertà. Atti del convegno in memoria di Renato Treves’’ (Milan), Giuffrè, Milano, Studi preliminari di sociologia del dirittoTheodor Geiger, Morris L. Ghezzi, Nicoletta Bersier Ladavac e Michele Marzulli, traduzioni di Leonie Schröder, Mimesis, Milano); “Criminologia” (Mimesis, Milan). Pubblica amministrazione. Diritto penale. Criminalità organizzata, Osservatorio permanente sulla criminalità organizzata, Carola Parano, Giuffrè Editore, Stefano Carluccio, In ricordo di Morris Ghezzi, anima della Società Umanitaria, su CriticaSociale.net. 1 Dei delitti e delle pene. Rivista dell'Agenzia del territorio, L'Agenzia, rif. Archivio Università degli Studi dell’Insubria. Cura “Studi preliminari di sociologia del diritto” (Mimesis, Milano); “Socialismo e sociologia giuridica: introduzione Arduino, Centro lombardo studi socialisti); La scienza del dubbio. Volti e temi di sociologia del diritto, Legge di Hume e tesi giusnaturalistica: un’antitesi teorica nel pensiero di Norberto Bobbio, su dialettica e filosofia.  Etica contro politica, di Elias Diaz, Ghezzi, edizione Iesi,  L' immigrato extracomunitario non marginale. Una ricerca empirica sul territorio Milanese, in ‘’Marginalità e Società’ Berzano, Renzo Gallini, Giovani E “Violenza: Comportamenti Collettivi in Area Metropolitana, Ananke, con richiamo ad art. Di Ghezzi in “Marginalità e Società, II”.  Le ceneri del diritto. La dissoluzione dello Stato democratico in Italia, Mimesis, Milano, al Ghezzi fa riferimento Rosario Minna in Crimini associati, norme penali e politica del diritto: aspetti storici, Giuffrè Editore, Morris L. Ghezzi, Federalismo Laico e Democratico, Mimesis, Milano Arturo Colombo, Franco Della Peruta “et al.”, in Carlo Cattaneo: i temi e le sfide, Ed. Casagrande, Milano, Con riferimento al Federalismo del Ghezzi: “mentre ci sarà chicome Ghezzi pur con tagli molto diversi, collegherà la prospettiva degli Stati Uniti d'Europa con l’altra formula cattaneana degli Stati Uniti d’Italia.»  Edmondo Bruti Liberati in "PostfazionePotere e Giustizia", richiama Morris L. Ghezzi 3 in: Governo dei giudici. La Magistratura tra diritto e politica, E. Bruti Liberati et al., Ed. Feltrinelli, Berzano, Gallini, cita di Ghezzi “Alle origini della labelling theory e del concetto di devianza”, da Marginalità e società, Ghezzi e Simonetta Balboni, Mimesis, Milano, Cirus Rinaldi fa suo il concetto di Devianza di Ghezzi. “come sostiene Ghezzi essa svolge un ruolo euristico [empirico] non solo nella spiegazione di fenomeni di stigmatizzazione di intere categorie, ma anche penetrando nella marginalizzazione, che agisce all’interno delle categorie” in Devianze e crimine. Antologia ragionata di teorie classiche e contemporanee, Cirus Rinaldi e Pietro Saitta, PM edizioni, Scrive M. Marzulli, BRÜCKE als sein Ordinamento sociale come ponte tra tradizione e futuro nella descrizione del diritto come estetica, in Ermeneutica del "Ponte". Materiali per una ricerca, Silvio Bolognini, Mimesis, Ferrari, in Ciò che resta. Le ultime parole diGhezzi, in Sociologia del Diritto, Fascicolo gennaio, ed. F. Angeli,   Emanuele Severino, nel capitolo 4 di Dispute sulla verità e la morte (Rizzoli) prende a riferimento un libro di Ghezzi (Il Diritto come Estetica) e s’intrattiene lungamente sul pensiero dell’autore.  Giulio Giorello si intrattiene sul testo del Ghezzi (“Il Diritto come Estetica”), lo commenta, ne riporta il pensiero, secondo cui « "la morale non è altro che una forma dell’estetica"» e ricorda la figura "nihilista" dell'autore. Da "Introduzione" di Giorello, Piacere, Diritto e Burocrazia. In ricordo di Morris Ghezzi, inGhezzi. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come estetica, Furio S. Ghezzi e Simonetta Balboni, Mimesis, Milano, Il Diritto come Estetica. Epistemologia della conoscenza e della volontà: il nichilismo/nihilismo del dubbio, Ghezzi. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come estetica (Domenico Mazzullo, ‘’Prefazione’’, “Appendice“: saggi di: Isabella Merzagora, Riflessioni di una criminologa prestata alla filosofia del diritto, Claudia Roxana Dorado, El devenir del derecho: reflexiones acerca de las concepciones jurídicas de Ghezzi,  Il futuro del diritto: riflessioni sulle concezioni giuridiche di Ghezzi,  Metodo di ricerca sul rischio sociale,  Marco A. Quiroz Vitale,  Esistenzialismo e Nihilismo come confini aperti del Giurispositivismo; Enrico Damiani di Vergata Franzetti, Il Diritto come Estetica,  Emanuele Severino, Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, Ghezzi. Ciò che resta. La rivoluzione del diritto come estetica, Simonetta Balboni e Furio S. Ghezzi, Mimesis, Milano, “Prefazione” di Domenico Mazzullo, “Introduzione” di Giulio Giorello, In “Appendice” saggi di: Isabella Merzagora, Claudia Roxana Dorado, Marco A. Quiroz Vitale, Damiani di Vergata Franzetti. Michele Marzulli, "BRÜCKE als sein” Ordinamento sociale come ponte tra tradizione e futuro nella descrizione del diritto come estetica." in Ermeneutica del "Ponte". Materiali per una ricerca, Silvio Bolognini, Mimesis,  Vincenzo Ferrari, Ciò che resta. Le ultime parole diGhezzi, in Sociologia del Diritto, Fascicolo, ed. F. Angeli, Cirus Rinaldi e Pietro Saitta (a cura) in Devianze e crimine, Antologia ragionata di teorie classiche e contemporanee, a cura di, PM edizioni,,Rosario Minna, Crimini associati, norme penali e politica del diritto: aspetti storici, Giuffrè Editore,  Sociologia del diritto Filosofia del diritto Criminologia.  Le doverositàstatutarie ritualirischianoc, on il passaredel tempo,di perderela lorodimensione rilevanzaoriginariap, er trasformarsi in meri adempimentrioutinari,prividi quelladimensionecreativa, c o s t r u t t i v a p, r o p o s i t i v a c, h e n e a v e v a m o t i v a t o l a n a s c i t a . D u n q u e , a n c h e p e r q u a n t o r i g u a r d a l a n o s t r a r e l a z i o n em o r a l es i r i s c h i ad i f a r s c i v o l a r el e n t a m e n t en e l l ' o b l i ol e i s t a n z es t o r i c h e c, h e n e i a c c o m a n d a r o n o I'introduzionep,eraffrontarlacomeunaincombenzan,eppuremoltopiacevolee, comunqueretoricamente orientata riempiresemplicsi paziscenograficei nonad esserestrumentodi autoriflessioninedividuale di riflessionecollettivaper la fratellanzatutta sul passato,nonchépotentestrumentodi stimolocreativoper affrontarecon consapevolezzale realtàfuture.Purtroppopiù che un rischiotale situazionesi e negliuliimi t e m p i m a n i f e s t a t ac o m e a v v e n i m e n t oC. o n s e g u e n t e m e n tpea r e n e c e s s a r i op, r i m a d i e n t r a r ed i r e t t a m e n t e nellasostanzadellequestionsiullequalirifletterer,icordarebrevementeilsignificattoradizionaleprofondo dellarelazionemoralepropriadellaliberamuratoriadelGrandeOriented'ltalia. P e r c o m p r e n d e r et a l e s i g n i f i c a t oè n e c e s s a r i oc o n o s c e r ef u n z i o n ie c o m p e t e n z ed i c h i e p r e p o s t oa l l a sua stesura;ossia del GrandeOratore.Rituali,Costituzione Regolamentdi el GrandeOriented'ltalia comeognunodi noi,al calicedivinoe assoggettarmail voleredeldestino. JohannWolfgangGoethe   a s s e g n a n oa l G r a n d e O r a t o r e c o m p e t e n z ei n c a m p o i n i z i a t i c o c , u l t u r a l e e q i u r i d i c o( e x a r t . 1 1 9 R e g . ) . I n o l t r e ilGrandeOratorei,nquantoOratoree, competenteasvolgerequestestessefunzionaincheexart.36Reg., funzionei competenzeche,peraltro,salvole elencazioneisemplificativreiportateda quest'ultimaorticolo, nellasostanzadellamateriadisciplinattaendonoa coincidereP. ertantola relazionemoraleda discuterein Gran Loggiaex art. 28, letterad, Cost.,in quantoassegnatanellasua stesuraal GrandeOratoree previamentesaminata(exart.38,letteraf, Cost.)in riunionedi GiuntadelGrandeOriented'ltalian, onpuò checonsistereinunsistematicoespletamentaonaliticoepropositivdoellefunzionei dellecompetenzedel GrandeOratore.Risalendop, oi, allatradizionestoricaall'internodellaqualenacquenell'ottocentIo'istituto dellerelazionmi orali,e facilecomprenderceomeessofosse,al contempou, nasortadi biianciocriticodelle attivitasvoltee, soprattuttod,ellaloroincisivitasia all'internos,ia all'esternodell'lstituzionen,onchéun programmaed un impegnodi attivitàper il futuro. Dunque,da un lato,il GrandeOratoree tenutonella propriarelazionemoralea richiamarel'attenzionedellaComunionesuitemi,chereputamaggiormente rilevantpi er la stessa,privilegiandonaelmenouno,e, dall'altraparte,ad analizzarela moralitàinternad, ei suoicomponentid,eifratelltiuttinelloroinsiemep, erevidenziarnleacorrettezzcaomportamentalceh,enon puòessereintesacomemeracorrettezzagiuridica. C o n s e g u e n t e m e n l t ae p r e s e n t er e l a z i o n em o r a l e v e r r à i d e a l m e n t ed i v i s a i n d u e p a r t i : I ' u n a r i g u a r d a n t e l a s i t u a z i o n em o r a l e e g i u r i d i c ad e l l a n o s t r a c o m u n i o n e e, d e . c r e d o , a t u t t i e v i d e n t eq u a n t o s i a n e c e s s a r i o ungeneralerichiamoinquestadirezionem, entrel'altrarivoltaaitemitrattatei datrattareinambitoiniziatico, filosoficoc,ulturale sociale.Permegliosvolgeresoprattuttoquestasecondapartedellarelazionemorale h o r e p u t a t o o p p o r t u n on o n f a r s c a t u r i r ei c o n t e n u t t i e m a t i c di a u n m e r o l a v o r o s o l i t a r i od e l l ' u f f i c i do e l G r a n d e O r a t o r e , c o n f o r t a t oa l p i ù d a l l e r i f l e s s i o n d i e l l a G i u n t a , m a m i e p a r s o o p p o r t u n o o, l t r e c h e m a g g i o r m e n t e proficuoai fini dell'individuaziondei un correttoquadrodi attivitae di aspettativein materia,rivolgermi direttamentaeifratelldi ellaComunioneimpegnatsiulterritorionazionalenelcampodell'elaboraziondee,lla proposizionedell'organizzaziodnelleiniziativeiniziatico/culturachli,esonopropriedellanostratradizione. A talefine,ho organizzatonellasecondametàdi novembredell'annopassatoun incontroa, pertoa tuttii F r a t e l l ci h e a v e s s e r od e s i d e r i od i p a r t e c i p a r v ai , M a s s a M a r i t t i m ap r e s s o l a R : . L : . V e t u l o n i ae c o l g o q u e s t a o c c a s i o n e p e r r i n g r a z i a r ei F r a t e l l i d e l l a R : . L : . V e t u l o n i a p e r l a l o r o c a l o r o s a a c c o g l i e n z a n , o n c h é t u t t i i p a r t e c i p a n at i l l ' i n c o n t r po e r i p r e z i o s ci o n t r i b u t f i o r n i t i a l l a d i s c u s s i o n e L . ' i n c o n t r oh a v i s t o l a p a r t e c i p a z i o n e numerosadi moltiFratellci omesingolic, omerappresentandti associazionciollegateallanostralstituzione e comeoperatoriculturali.I lavorisonostatipienamentesoddisfacentpiertuttii partecipanteid,in particolarep,er me, in quantomi hannofornitonumeroseed utiliindicazionpi er la presenterelazione morale.Nelringraziaraencora,dunque,tuttii Fratellic,hehannocontribuitaollabuonariuscitadell'iniziativa, possosin da ora comunicareche intendocontinuaresu questastradaanchein futuroed auspicouna partecipazionsemprepiuestesaa questomodellodi incontro. 2. L'immaginesternadellaLiberaMuratoria L'immagineprofanadellaLiberaMuratoriaper lunghianni,soprattuttoin ltalia,e stataoffuscatadai pregiudizid, allecalunniee, talvolta,anchedallacongiuradel silenzioperpetratacontrodi noi dai nostri nemicistorici,ossiadaiseguacidiintegralismeiditotalitarismpioliticir,eligiosei filosoficdiiognicolore. T u t t a v i ap, u r t r o p p op, e r ò ,t r o p p os p e s s op e r i n s i p i e n z ai g, n o r a n z ao d i n v i d i al a c a l u n n i ae d i l d i s p r e z z os o n o natianchedal nostrostessosenoe si sonodiffusinel mondoprofanograziead un masochisticocupio dissolvoi adundiffusoatteggiamentpoassivoedautocommiserativo,peggioancora,adunaprofanità p e n e t r a t at r a l e n o s t r e c o l o n n e a d o p e r a d i f r a t e l l i ,c h e e r a n o e s o n o r i m a s t i p i e t r a g r e z z a . F o r t u n a t a m e n t e q u e s t i f e n o m e n i ,s e b b e n e a n c o r a p r e s e n t i ,s o p r a t t u t t oa d o p e r a d i f r a t e l l i i n v e t e r a t di a l u n g h i a n n o n e g l i antichivizl,comegiustamenteha piuvoltericordatoil nostroVenerabilissimGoranMaestrot,endonoa non avere più presasull'opinionepubblicaprofanagraziesoprattuttoalla decennalepoliticadi chiarezzad, i trasparenzea di impegnocivileintrapresdaall'attualGe ranMaestranza. Se cosi si puo dire,la battagliaper I'affermazionedella nostra legittimapresenzanella società democraticaitalianae per la costruzionedi una nostraimmaginepubblicapositivaè statavinta. Oggii massmediadistinguonqouasisempreconrigoretraGrandeOriented'ltaliae massonerieirregolaroi deviate,riportanofedelmentea, nchese ancoracon non sufficientefrequenza,le nostreopinionie le nostre iniziative ci riconosconouno spazionell'informazionceh, e, sebbeneda estendere,ha tuttaviagia il caratteredellacorrettezzaA.nchele istituzionpiubblichehannomutatoatteggiamentnoei nostriconfronti, riconoscendocin taluni ambiti, che storicamenteci appartengono,come interlocutoriqualificati (partecipazionaecommissionic,omitatipubblicie, tc.);i messaggdi ellemassimeAutoritàdelloStatoalle nostremanifestazionsiono ormaidiventateuna feliceconsuetudines,emprepiu frequentementepoliticied amministratorpiubblicipartecipanoalle nostreiniziativeculturalie le Comunionimassonicheestere guardanoallanostrarealtàconrispettoedammirazioneI.nsintesil,asocietàcivileciharestituitoilruoloche   storicamentien ltaliae semprestatonostro.Poiché,però,nessunaconquistanellastoriaumanae definitiva e quandoci si fermaa contemplarecompiaciuti risultatiraggiuntisi rischiadi perderequantosi è faticosamenteconquistaton, on solo è necessarioperseverarenell'impegnosino ad ora profusonella costruzionedellanostraimmaginepubblicam, a e altresìindispensabilientensificaruelteriormente in modo operareattraversoun radicamentosemprepiu profondo semprepiù rigorosotale impegnoe, soprattutto, dellanostraimmaginenell'azionesocialeeffettiva,nellanostrarealepresenzastorica,nelleazioniche quotidianamencteiascunodinoidevecompiereperesseredegnodellamaestranzacuiappartiene. Nelle attualisocietapostmodernel'immagineè molto,talvoltaquasi tutto, ma non è tutto. Oltre all'immaginseerveanchela sostanzada cui tale immaginedovrebbederivareI.n particolarep,roprionella v i a i n i z i a t i c al i b e r o r n u r a t o r i al ' i m m a g i n en o n d o v r e b b e e s s e r e i l v u o t o s i m u l a c r od i i r r e a l i s t i c h e aspirazionoi diabiliingannim, alafedeleiconadellarealtà,diciochevogliamoesseree siamocomeLiberiMuratorei comeappartenenatil GrandeOriented'ltalia.Pertantole azionidi markefrngsonosenzadubbionecessarie inunasocietacomelanostra,percorsadaapparenzesemprepiùinvasivem, aepropriolanostranatura iniziaticae tradizionalae imporcdi i essereciochedesideriamaopparireP. erraggiungerqeuestoobiettivoe indispensabilperogettared,a braviarchitetti, unafattivapresenzanellasocietàin cuiviviamo;unapresenza che sia significativa,ttraversole nostreopere.dei valoriche da semprerappresentiamoT.arepresenza avrà la prevalentecomponenteindividuale, ciascunLiberoMuratoree chiamatoa farecomesingolola propria parte di lavoro, a dare con il proprio comportamentoil buon esempio, ma dovrà essere a c c o m p a g n a t ea s o r r e t t a a n c h e d a l l a p r e s e n z a d e l l ' l s t i t u z i o n l i e b e r o m u r a t o r i a n e l s u o i n s i e m e p e r r i s u l t a r e maggiormenteincisivae persistentenel tempo:il mondomodernoe semprepiù istituzionalizzato ed anche noi dobbiamoadeguarcia questatendenzasociologicad, el resto,la tradizionealtro non è che una istituzionliazzaziondeeisingoilcomportamenti. 3. Lo statodellaComunione La situazioneinternadellanostraComunionesi presentaa, d unaanalisai pprofonditas,ostanzialmente positivae riccadi prospettiveper il futuro,anchese le fastidioseturbolenzeprofanedi talunifratelli,più a n i m a t di a s p i r i t od i r i v a l s ac h e d i c o l l a b o r a z i o n pe o, t r e b b ef a r p e n s a r ei l c o n t r a r i oF. o r t u n a t a m e n ti er i s u l t a t i c o n c r e t ci o n s e g u i tpi a r l a n op i ù e m e g l i od i q u a l s i a s pi e t t e g o l e z z o o d i q u a l s i a s si c o m p o s t od i s s e n s o . L a C o m u n i o n es i p r e s e n t ai n c o s t a n t e q u a n t i t a t i v a , crescitasia siaqualitativea segnaI'affermarsdii un decisoringiovanimendtoeisuoiaderentiQ. uest'ultimdoatonondeveesseretrascuratononsoloe nontanto percheil futuroe dei giovani.ma soprattuttoperchesonole vecchiegenerazioni che manifestanmo aggiori difficoltàad abbandonaruen modellodi LiberaMuratorianonconsononé allanostratradizioneiniziaticane allarealtàstoricaattualmentesistente. Nel generalepanoraman, on solo nazionaled, i diffusadisaffezionveersoI'impegnoassociazionistico (RotaryClub,Lions,partitipoliticic, hiese,etc.) ed, in particolarev,ersoquelloliberomuratorioconforta constatarecome il GrandeOriented'ltaliasi ponga in controtendenzae riescaa catalizzareI'interesse l'adesionedi notevolei qualificateforzgeiovaniliO. vviamentetaliadesionsi ollecitanuon rinnovatoimpegno per garantireal nostrointernoun ambientesemprepiù favorevolead una crescitainiziaticacomune.Le a d e s i o n i s c a t u r i s c o n od a a s p e t t a t i v e e l e a s p e t t a t i v e p i u d i f f u s e s o n o p r o p r i o q u e l l e c h e h a n n o c a r a t t e r i z z a t o la nostrastoria:unaelevataqualitàiniziatico-esoterica qrande unitaad una capacitadi presenzasociale. Simbolicamentpearlandop, urtroppole noteiniziatichdeel FlautoMagicodi WolfgangAmadeusMozart sonotroppofrequentementperofanatedall'irromperneellaComunionedi comportamenatinimatidallatipica profanitàdeitreCompagndi 'ArtecheucciseroHiram. La LiberaMuratorianon puo esserené la cameradi compensazionedellefrustrazionpi rofanee neppure un campo di futili contese di natura condominialel;a Libera Muratoriaè una scuola di p e r f e z i o n a m e n t ion d i v i d u a l ef i n a l i z z a t oa l b e n e d e l l ' U m a n i t a d; i q u e s t a n o s t r a c a r a t t e r i s t i c an o n p o s s i a m o m a i s m a r r i r n el a m e m o r i a a p e n a d i n e g a r e l a n o s t r a s t e s s a n a t u r a . Per questomotivoe necessariostigmatizzarenegativamentequei comportamentcihe, nascendoda uno smisuratonarcisismopersonalep, ongonoil proprioio in posizioneassolutae tentanodi imporreil proprio modo di vedere come I'unicocorretto.Tali comportamentni on solo contrastanocon il nostro basilare principioditolleranza,mancheconquellavisionerelativam, olteplice, checi e propriada sempre. Non meno deprecabilsi ono quei profani comportamenti che mercanteggiancoarriere,grembiulie r i c o n o s c i m e n t p i , r e s c i n d e n d do a c a p a c i t à c, o n v i n z i o n i i d, e e e p r o g e t t oi p e r a t i v i D. e v e r i s u l t a r eb e n c h i a r o a tuttiche le funzioniniziatiched organizzative, chesi ricopronoin Loggiae nell'lstituzionien,genere,sono serviziprestatialla comunitàe non orpelli,gerarchieo privilegdi a esibire,se non ancheda ostentare. esibizionei d ostentazionsi i configuranocome veri e propriabusi delie funzioniricoperte.Se vissute correttamentetalifunzionidebbonoessereintesecomeonerie, pertanto,nondovrebberodareaditoad alcunlitigioin sedeelettoraleo di nominaallemedesimen; onvi dovrebbei,nfattie, sserenessuninteresse personalea ricoprire qualsiasi una funzionel;'unicointeresselecitoe quellodi servirela comunità. stratificatea cumulativadellaverità,   Ulteriorniegativitcàigiungonop,oi,dallaormainvalsabitudindeiesternariensedeprofanaiconflitti i n t e r n i a l l a n o s t r a C o m u n i o n e Q. u e s t o c o m p o r t a m e n t o c , e r t a m e n t e f a v o r i t o d a i m o d e r n l m e z z i d i comunicaziondei massa(lnternet, e m a i l s, m s , e t c . ) , i n d u c e p r e n d e r ep o s i z i o n e , i l p r o p r i op e n s i e r so e n z a i n t e r p o r r pe r i m a u n a g i u s t a p a u s a d i r i f l e s s i o n es o: n o v e r a m e n t e convintodi quello ch-escrivo?Rispondaelveroquantoaffermo?E'opportunaoffermarloF?accioilbenedellanostraComunità affermandoloE?tc..L'azionedelloscriverecostaormaicosìpocafaticaed è cosìimmediatcaheprecedeil pensierostessos: i agiscesenzaunasufficientreiflessioneI .dannid'immaginpeernoitutti,pot,a causa dell'impulsivirtàrazionaldeeipochis, i diffondono profani, trai cheleggonoiunquele nostresternazioni, spessoanchesenzariuscirea capirle,ma semprecomprendendcohe siamocoinvoltin scontri completamenpterofania,nchepeggiori dlquellpi roprdi ellanormaleprofanità. Particolarmenrtieprovevolaeppare,poi,I'usoormaidiffusodi giuridicizzariecontenziosi . -giuridica, interni, abbandonandlaonoslratradizionme oralei,niziaticea ritualep, iùche e di inasprirei tonidegli scontrbi enoltrequantodovrebbesserelecitotraFratelli nell'lniziazionSé.emprepiùspessoI,nottret,ali conflittinon si fermanoall'internodella nostragiustiziamassonicam, a fuoriesconop,er'approoare direttamenatei TribunadliellaRepubbliclatalianaD. ellaillegittimiatànchegiuridicadi talicomportamenstii diràinseguitop,erorabastisottolineariledegradomoralede-lltaradizionme-uratoria, lcomportamendtei scritti sonodecisamentreiprovevoli comeesempioluminosoI.nfattic, onestrema algradodiApprendistLaiberoMuratorreicordalrecipiendario: ll.secondo[dovere]è di praticarela virtù,di soccorrereivostri Fratellid, i prevenirele loro necessità, d i a l l e v i a r e l e l o r o d i s g r a z i e e d i a s s i s t e r l ci o n i v o s t r i c o n s i g l i e c o l v o s t r o a f f e t t o . e u e s t e v i r t ù , c h e nelmondoprofanosonoconsideratequalitàrare,sonotra ioi soltantoil compimentodi un dovere gradito. ll terzodovereè quellodi conformarvai lteleggidell'Ordinedei LiberiMuratorie ai Regolamentdii questaLoggia[...]. LanostraComunionenon.dovrebberappresentaruenospaccatodellanostrasocietà,maraccogere soloilmeglioc,heinessagiàvive,periniziareunpercorsodisemprecrescentpeerfezionamento. ll Libero Muratorenon può rappresentareil cittadinomedio,ma deve aspiraread essere l'éllfe della società. Fortunatamenltae maggioranzdaella nostracomunioneè compostada Fratellimeravigliosi, che si distinguonoperprofonditàiniziaticae generositàcivile.Pochepiete gîezzenonpossonorovinarequantoi piùhannolevigato. 4.Alcuntiemidiriflessione La giornatadi MassaMarittimhaa evidenziatIo'esigenzdai rifletterientornoad unanumerosaseriedi temi,chepaionocrucialpierlanostraComunionienquéstoparticolare momentostoricoC. ertamentietemi individuaeticheoraverrannoespostni onsononuoviallanostraTradizione,ppuresembranononancora completamenpteadroneggiati datutti. InconvergenzcaonleistanzechedapiirpartidellaComunionleiberomuratorisailevanol,apresente Gran Loggiaè dedicataall'Eticadella libertà ed all'eticadella responsabilitàN. on può sfuggire soprattuttionunambitocomeilnostroc,henon dovrebberiprodurrievizi dellasocietàprofanam, a proporsi chiaîezzial ritualedi iniziazione I'ispirazionweeberiana, cheanimaquestotema.MaxWeberfu,forse,il piùillustresociologioedescodella primametàdelsecolopassatoefucertamente -postindustriale un acutoosservatore criticodellasocietà e burocraticac'hein quegliannisi stavaformandoall'ombradellaminacciadellegrandidittatureuropee, alloranascentlil. messaggidoell'illustrseociologeovidenziava, primo poterec'hetendevanaospersonalizzare le decisionpiolitichiendividuali e lerelatrvseceltem, asubitodopo richiamavIa'attenzionaenchesullasolitudindeell'esseruemanodifrontealcrescentpeoliieismdoeivalori delmondomodernop;oliteismo, chetuttorainesorabilmente organizzazionsiociali.Tuttaviaa frontedi un politeismodilagantenell'estremosoggettivismo, Weber c o n c e n t r l a a p r o p r i a a n a l i s si u l c o m p o r t a m e n r t ao z i o n a l e e s u l m o m e n t oe t i c o , p e r m a t é i i a l i z z a r e dei valoriun comportamento o r i e n t a t oa d u n r e l a t i v i s m o o p e r a t i v oi ,s p i r a t oa à u n a o r g a n i z z a z i o n e tutta umanaedemocraticdaellèsocietàW. eberaffrontailtemafondantedellesocietàmoderÀec:omepossano funzionarele societàindustriali di massanelrispettodelleindividualitpàersonaluimane?E',dunque,in questoquadroche I'eticadellalibertàr,ivoltaallatuteladel singoloessereumano,devecoordinarsei conciliarscion I'eticadellaresponsabilità, fìnalizzatagliinteressciollettiveid istituzionalNi.ulladi più attuales, oprattuttoa, llalucedei presentpi roblemdi i sviluppoeconomicosostenibile di benessereo,t tuteladellelibertàindividuaeli di sicurezzad,i partecipazione d e m o c r a t i c ea d i e s i g e n z ed i g o v e r n o p, e r citaresolopochiesempi. Aldilà,.comunqued,egLsipecificciontenutciulturalieberianiiilsempiice richiamao questoAutoresprimeunelementfoondaniedellaTradizionleiberomuratoria: a a parlareda trasmettere cheessirivetano. in luogo,i mèccanismi burocraticdiel incalzae rischiadi sprofondàrneelnichilismloe dalnulla   I'impegno civile e sociale sostenuto da un'etica radicata nella nostra cultura iniziatica,ossia individuale,personale,propriadi ciascunLiberoMuratore. La nostraTradizioneiniziaticaci assisteed accompagnanelleimpegnativeprove,che I'attualerealta storicacipresentae, noi,peressereall'altezzaditaleTradizioned,obbiamoesserecapacidireinterpretarla a l p r e s e n t e n, o n d i r i p e t e r l a a l p a s s a t o L. a T r a d i z i o n e e t a l e p e r c h e s i p o n e f u o r i d a l l a s t o r i a i n u n a p e r e n n e attualitan, onin un richiamocristallizzato ad un singoloattimodeltempopassato. La centralitaeticadelnostrolevigarela pietragrezzadi noistessisi impiantasulleduecolonnedi una profondaconoscenzafilosoficae di unaaltrettantoprofondaconsapevolezza morale.lgrandi insegnamenti che ci giungonodai simboli,dai riti,dallasapienzae dai lavoridei nostriFratellipassatie dallanostra lstituzionehannonaturaeminentemente filosoficae morale.Dunque,ciascunodi noidevecostruirsciome un attentoconoscitoredei nostri insegnamentim, a anche come un ferreo e rigorosoportatoredi comportamentisi piratialla nostrapiu rigidamoralità.Troppospessosi sentonotalunifratellivantarsidi conoscenzesoteriche, poi,il lorocomportamenteo paragonabilae quellodei peggiorpi rofani.Troppo spesosi assistealleiamenteledi talunifratellpi erl'assenzadinsegnamenti poi, massonicei , loropersistentaessenzanonsoloadibattitei convegnim, aancheesoprattuttoaglistessilavoridiLoggia. TroppospessosiascoltanotalunifratellliamentarsdiiquellochenonottengonodallaLiberaMuratoriae non domandarsciosaessidannoallaLiberaMuratoriaT. uttiquesticomportamenti rivelanounaassenzadi vera e p r o f o n d am o r a l e l i b e r o m u r a t o r i a D. e l l ' a s s e n z da i c o n o s c e n z an o n e n e p p u r ei l c a s o d i p a r l a r e . F o r t u n a t a m e n taef r o n t ed i q u e s t ed e g e n e r a z i o nl ai g r a n p a r t ed e i F r a t e l lsi i d i s t i n g u ep e r i m p e g n oe s e r i e t à nelpercorrerelaviainiziatictaradizionaldeellaLiberaMuratoria. Perfavorirelacrescitadellanostralstituzionenecessarioin, unasocietadimassa,giuocaresuigrandi numerie, quindi,selezionaredai grandinumerii miglioriuomini,per inserirlai l nostrointerno.Se si raffrontanoquantitativameniteMassoni dell'ottocentiotalianoa quelliattualied entrambialla rispettiva dimensionenumericadellasocietà,nellaqualeviviamoe vivevanoc, i si accorgecheogginoisiamomolto s o t t o d i m e n s i o n a Nt i o. n c r e d o c h e s i p o s s a p e n s a r ec h e g l i i t a l i a n di i o g g i s i a n o p e g g i o r di i q u e l l i d i i e r i , f o r s e , comesembranotestimoniartealunenostrerealtainternealGrandeOrienteè, veroilcontrarioE.dallorae nostracarenzanon dare la possibilitai miglioridi entrarenellanostralstituzione. questa Su c o m u n i c a z i o n è e c e n t r a l e e m o l t o s i e f a t t o i n t a l e d i r e z i o n e s , i a a t t r a v e r s oi n c o n t r pi u b b l i c i s , i a g r a z i e a d u n a r i c c a p u b b l i c i s t i c as , i a , i n f i n e , a t t r a v e r s ol a p r e s e n z a s u i m a s s m e d i a . N o n s i d e v e r a l l e n t a r s l ' i m p e g n i on questedirezioni,ma tale impegnopotrebbetrovarefattoridi moltiplicazionaettraversoun sistematico coordinamentnoazionaledegliinterventiI.noltreil moltiplicarscioordinatodi una reteassociazionistica sul territorionazionalepotrebbedivenireun utilestrumentoa, l contempod, i diffusionedei nostriprincipei di informazionientornoallenostreiniziative, ma anchedi selezionedi colorocheintendonoavvicinarsai noi. A questaselezionesternadeibussantdi eveanchecorrisponderuenaselezioneinternadeiFratelli. Non casualmentegli insegnamentliberomuratorvi engonoimpartitsi u tre gradi(Apprendista, Compagno d'Arte,Maestro)p, ertantonon puo essereil merotrascorreredel tempoa determinarei passaggdi i grado. Solola conoscenzadelgradonelqualesi lavorapuodaredirittoad aumentdi i salarioc, omebeneesprime l a n o s t r a T r a d i z i o n e e, l a c o n o s c e n z as c a t u r i s c ed a l l a s o m m a d e l l a v o r o i n d i v i d u a l ec o n q u e l l o d i L o g g i a . Pertantola selezionenonpuocheavvenirea seguitodi unacostantepresenzain Loggiae di un sistematico lavoropersonaledi ricerca. Le Loggedovrebberolavorarein tuttii gradi,nonsoloin quellodi Apprendistae,d, in particolare, i lavori in terzogradodovrebberoesserevalorizzati, affinchesi possaconstatareche il GrandeOrientee composto da Maestric, he lavoranonel lorogradoe non in gradodi Apprendistal.l gradodi Maestroe il verticedella nostralstituzione, pertantod, eve informarela maggioranzadei lavoriritualidi Loggiaper evitareche le ritualitadi altrigradiprendanoil sopravvento, snaturandonleaforzainiziaticail:avoridaApprendistraestano perApprendisatinchese fattida Maestri. ln questiultimianni il GrandeOriented'ltaliaha promossouna crescenteorganizzaziondeella Comunioneal fine di potenziarnela presenzasocialee la capacitainternadi creicita qualitativae quantitativaIn.fattis,emprepiùnumerosei culturalmente rilevantsionostatii convegnil,etavolerotondee g l i i n c o n t r si i a p u b b l i c si i a p r i v a t i ; l a n o s t r a p r e s e n z a s u l t e r r i t o r i o e s t a t a r a î f o r z a t ad a c o n s i s t e n t i i m p e g n i p e r f o r n i r e a i f r a t e l l s i e d i d i g n i t o s e m; a n e c e s s i t a a n c o r a s i a u n a m a g g i o r e p a r t e c i p a z i o n i e n t e r n a a i l a v o r i d e l l a Comuniones,iaunapiuadeguataorganizzazione storiche. Rispettoal tema dellapartecipazione ai lavoridi Loggianon mi sembrasi debbainsisteremoltoper costituzionalech, e megliorappresentlei attualiesigenze evidenziarnela doverositaoltrealla necessitàT. uttaviapare opportunoribadirecome la radiceprofonda d e l l a L i b e r a M u r a t o r i ar i s i e d a n e i t r e g r a d i d e l l ' O r d i n e e n o n n e g l i u l t e r i o r gi r a d i d e i R i t i , i q u a l i , a l m a s s i m o , possonoessereconsiderati dellearticolazionsipecificheD. unque,nessunacameraritualepuo sostituire sopperireallacarenzadi lavorinei primitre gradi.Questariflessionedovrebbeconvinceretuttii Maestri Venerabilai promuovereun consistenteincrementodi lavoriin cameradi Maestro,al fine di espandere pienamentele potenzialita iniziatichdei dettacamera. R i g u a r d o , p o i , a l l a n o s t r a o r g a n i z z a z i o n ec o s t i t u z i o n a l ei n t e r n a , p a r e n e c e s s a r i o c o n s t a t a r e c o m e g l i e p i s o d i cei d o c c a s i o n a li in t e r v e n tdi i r i f o r m an o r m a t i v as, o v r a p p o s tai d u n t e s s u t o g i à di disposizioni spesÀo si constatala stradala   contraddittorio carente,abbianoormairesaevidentela necessitàdi unaorganicae completariscrittura dellanostraCostituzionee deinostrRi egolamenti. Infattir,isultasubitochiaroa chiunquestudila nostralstituzionceomeallastrutturainiziatic(aLogge, GranLoggiae, tc.)dellanostraComunionsei sovrappongaper dallanostraappartenenza precisa ad una realtàstoricau, nasovrastruttuarassociazionistica di inevitabile saporeprofanoP. oichenone possibilpeorsfiuoridalleesigenzseloriche dallasocietàc,uisiappartienae pienotitolo,la strutturainiziaticadeveper necessitàcoordinarsci on l'oîganizzazionperofanalassociazioni, societàcommerciaolib, blighfiscalei .dipubblicasicurezzaq,uoteassociativelo,cazionimi moòiliari, etc.)dalmodelloconfederale originarivoersoun modellofederalepiùo menocentralizzaìo. neirecentpi rowedimendti adeguamenatollenormative fiscalimposteallealsociazioni c i v i l e s, i a d e l l a L i b e r a M u r a t o r i a , siadelrapportocheintercorre pertanto traquesteduerealtàstoriche. dobbiamostupircci heancheil nostroapparatonormativo, quello conseguentemennteo,nscambinoi gradipercarriere,grembiuli i peronorifìcenzeelenormeperstrumenti diprevaricazionLea.LiberaMuratorisaialimentadiidealiedispiritodiserviziofraterno. 5.Inultimom, anonultimo. A chiusuradi questarelazionme oralemi sembraopportuno ricordardeuespecifichtematiche, sonodovuteaffrontarein questoprimoannodellanuovaGranMaestranza. prima intornoallatroppoeslesacontenziosigtàrudiziaria ed al degradocomportamentale, d e r i v a t o e, m e r s i i n o c c a s i o n ed e l r i n n o v od e l l e c a r i c h ed i é i u n t a e c o n t i n u a tpi e r v i c a c e m e n t e anchenel corsodelcorrenteanno.LasecondainvesteirapporttiraOrdine CorpiRitualei dhaportatoallastesuradi nuoviProtocoldli'lntesa. Procediamcoon ordine.ll primotemaaffrontaI'ormadi iffusomalcostumdei ricorrereallagiustizia ordinariaperpresuntedisarmonie in materialiberomuratoria, prima anche di esperireil forodomesticeo di cercareconcordiafraterna,come dovrebbeesserenostrodoverefare. Inolt;e,tali scontrigiudiziarisi connotanaoncheperlaviolenza, la ripetitiviteàla caparbiareiteraziondei atti,citazionei,sposti, r i c h i e s t de i accertamentin via preventivaed in via risarcitoria,querele,richiestedi prowedimentiourgenzae quant'altro consentaI'articolatoordinamentgoiudiziario si sommaancheun corrispondente di massa(giornalil,eúere,siti internet, , esigenzesocialei giuridichdeipendenti etc.)ai e giuridicarmonicae,ntrola qualesvolgereinostriarchitettonici finedi costituireunaunitàistituzionale lavoriD' elrestotaleproblemahanaturaTradizionalpeo, ichenonnasceoggrm, aciaccompagna storicdi elcompagnonaggeio dellaMassoneriOaDerativa. La Tradizionecostituzionale dellaMuratoriaUniversale, Infattil,eLoggesovranesiunisconoc,onservandlaopropriasovranitàp,erformareunaGranLoggiam, ail sistemaè lentamentsecivolato, lnoltre,ha naturaevidentemente federale. comeperaltroè awenuioanchenellecostituziosntiatal(iSvizzera, U.S.A., In sintesis, i è materialeallaCostituzionfeormaleorigtnariaC.iòha sovrappostuana,cosìdettadaigiuristiC, osîituzione prodottoincertezzeinterpretativea,d esempiointornoall'autonomidaelleLogge,comebenesi e evidenziato dalloStatoltaliano. Maanchea presclnderdealleantinomied,allelacunee dalleoscuritàdeinostritestinormativil,tempo, comeè notoai giuristiè, nemicodelleleggie: ssocorrementrele leggirestanofermec, ristallizzate nellaloro immobilitàIn. questiultimai nniabbiamoassistitaollerapidetrasfor-Àazioanni,coraínfieri,siade a società n o n adeguarsai lle nuoveesigenze.OwlamenteI'adeguamento deve esserefatto in modo organtcoe sistematictoe,nendoanchecontodelledimensioncirescendtiellanostralstituzioned,elleregolamentazioni, che si sonodate le altreMassoneriestranieree, dellenormativedegliordinamengtiiiridicistatalie sovranazionali. .. UnaultimariflessjonmeiportaaricordaraetuttiiFratelliche,comunquela,LiberaMuratorinaonpuò divenireuna organizzazionperofana.Essa è e deve restareuna lstituzioneTradizionaleIniziaticaper il perfezionamento dell'esseruemanoC. iÒp, erò,presuppone non i n i z i a t i c os , i m b o l i c oe r i t u a l e d, e b b a anchechei Fratelliavivanoinquestospiritoe, italianoP. eraltroall'iperattivismgioudiziariJprofano fenomenodi comunicazione emails, ms,etc.),perlo piùanonimot,endentea screditare lanostralstituzionaédín,particolaie, alcunsi uoi esponendtiiverticeN. onparenecessarisooffermarsui llaprofaniteà,spessoa,ncheilliceitàgiuridicdaitali comportamenstie,mbra,inveceo, pportunosotlolineare comeessirendanodi dominiopubúicole nostre c o n t e s ei n t e r n ev, i o l a n d on o n c e r t oi l s e g r e t om a s s o n i c op,o i c h én o n v i è n u l l ad i s e g r e i oi n s i m i l im i s e r i e umane,ma umiliandoil buongusto,il dirittodei fratellai d una immaginepubblica internodistesoed alla riservatezzadelle proprieproblematiche f,ositiva, di fàmiglia.La litigiositàed ancor più I'accanimenntoellalitigiosità -una sonopessimbi igliettdi a visitae forniscono immag"ine Oriented'ltalia. finedi evidenziarqeualidebbanoessereicomportamenti correùiinialematerianellanostraComunioneln. nostralstituzioneT.uttipossonopercepire idannichequestsi considerati PoichéilGrandeOratoretraipropricompitiistituzionali quello haanche di interpretare e di custodirle leggiho reputatomio precisidoverecompiereun lavorodi esegesigiuridicasullenostrefontinormativea, l chesi La riguardala riflessione chène è connessoe deteiioratdaella comportamenairirecanaol Grande daitempi ad un clima   breve,risultaevidenteche la nostraTradizionenon consenteun facilericorsoalle giustizieor6inariein materialiberomuratorie, comunquen, ontolleraunaeccessivanimositaneldifenderàl" propriepresunte ragioni.Se non e possibileparlaredell'esistenznael nostroordinamentogiuridicodi una vera e propria clausolacorxpromissoraiassimilabilaequelletipichedell'associazionismproófanoe, tuttaviaevidentecome il ricorsoallagrustiziaordinariavengacostantementveistoe vissutocomeun comportamentpoatologicoe talvoltaanchecomeunaverae propriacolpamassonicaL.asituazionesiaggravaperI'attoiequalorail g i u d i z t o m a s s o n i c oo a n c h e s o l o q u e l l o p r o f a n o d i a a l u i t o r t o ; p o i c h e i n t à l e c a s o s i e v i d e nz i a s e n z a equivocei d incertezzeuncomportamentnoonfraternoneiconfrcntdi elconvenuto. A l f i n e d i c h i a r i r ei l p i ù p o s s i b i l et a l i t e m a t i c h eh o p r o v v e d u t oa d u n a a n a l i s id e l l e n o s t r ef o n t i d i d i r i t t o , analisiche gia evidenziaquantosopraesposto,ma che raccomandapiù puntualmi odifichenormativenei nostriregolamentail finedi rendereesplicitaa, nchesul pianoassociazionistico, nostroordinamentgoiuridicodi unaclausolacompromissoria. ll pareresullefontidel dirittoliberomuratoriodel GrandeOriented'ltaliae sul vincolodei Fratellai limitarsni eicontenziosaillagiustiziadomesticavieneriportatonell'allegato n.1. ll secondorilevantetemaaffrontatoin questoannomassonicoriguardai Protocoldli'lntesatra il Grande O r i e n t ed ' l t a l i ae d i C o r p i R i t u a l ai d e s s o a d e r e n t i P. u r t r o p p oa n c h e i t o m p o r t a m e n t i c, h e h a n n o c o s t r e t t oa d affrontaretaletematicanonsonocertocommendevolei rivelanoilmaisopitotentativodellearganizzazioni ritualdi icostituirsciomeunaMassonerianellaMassoneriac,omeunlivellosuperioredicontrollòdell'Ordine Libero Muratoriodei primi ed unici tre gradi, contravvenendoin tale modo alle regole massoniche internazionalmentreiconosciute.Pertantoi nuovi Protocollid'lntesasi sono rigorotamenteispirati all'applicaziondellenormativeinternazionali in materiaed hannointeso pericolosa, correggerela anchese traOrdinee CorpiRituali nuoviProtocolldi'lntesasifondanosuquattro forseinconsapevoltee,ndenzaegemonicadeiCorpiRitualsi ull'Ordine. Al finedi ristabilirIe'equilibrio principbi enprecisi: 1) 2) 3) L'Ordineo, ssiail GrandeOriented'ltalia,svolgeuna indiscutibiled originaria'funzionieniziaticamente fondantee giuridicamentlegittimante regolarizzantreispettoai CorpiRituali. | CorpiRitualihannotuttiparidignitadi fronteal GrandeOriented'ltaliae, pertantoi, Protocolli, specifichepeculiaritdaovuteadoggettivedifferenzestoriches,onougualipertuttii CorpiRituali. Ordinee CorpiRitualgi odonodellapiùassolutae reciprocautonomiaE. ',quindi,fattoobbligoai Corpi Ritualdi i astenersdi a qualsiastiipodi interferenzaedingerenzadirettaod indirettanellavitadell'Ordine ed in modo particolarenei momentiistituzionadlii sceltae di rinnovodegliorganiinternidi governo dell'Ordinestesso.A tale fine è parso necessarioritenereincompatibili dell'OrdinedeiCorpiRituali. 4) l-e normative interne dei Corpi Rituali devono essere conformi alle normative massoniche internazionalmenrtieconosciute particolare, ed, in a quellepropriedel GrandeOriented'ltalia,nonche, ovviamentea,nchealledisposizioni di leggedellaRepubblicaltaliana. La bozzadei Protocolldi 'lntesatra GrandeOriented'ltaliae CorpiRitualivieneriportataper esteso nell'alleganto.2. A conclusiondei questarelazionemoralesia lecitoricordarecon profondodoloree fraternorimpiantoil F r a t e l l oB e n t P a r o d id i B e l s i t o g, i a G r a n d eO r a t o r eA g g i u n t o c, h e n e l l e i m m i n e n z ed e l S o l s t i z i od ' i n v e r n oe passatoall'OrienteEterno.La sua immensaculturasi univaad una profondadedizioneagli idealilibero muratori,ma soprattuttocoloroche hannoavutoil privilegiodi conoscerloda vicinohannopotutoapprezzare q u a n t a n o b i l t a g, e n e r o s i t ae d a m o r e f r a t e r n oa l b e r g a s s e r no e l s u o a n i m o . Nel rimpiantodi un fratelloed amicoscomparsovogliodedicareal suo ricordoquestemie brevi riflessiondiiuntempogiovanileormaiperduto: RINTOCHI Se le campanesuonanos, egnandoil miofato; seilgiornoe lanottecircolarmente si avvicendano; Coniltriplicefraternosaluto. se il marearrotolacadenzatriicciolbi ianchi; se i montiforzanolavoltadelcielo, lo ridoe piangoe bevoe negoildomani. L'orizzonteguidaallamadre, matuseiunrigidosegmento. IL GRANDEORATORE MorrisL. GhezziPrima di formulare alcune precisazioni intorno alle principali critiche rivolte, soprattutto in sede di postfazione, al mio scritto, voglio ribadire che sono infinitamente grato ad Emanuele Severino, ad Agostino Carrino ed a don Paolo Renner per l’attenzione, che generosamente hanno voluto de- dicare al mio lavoro. Le obiezioni, infatti, che mi sono state rivolte hanno arricchito la ricerca con contributi seri e proficui per la conoscenza umana; conoscenza che non può che scaturire da serrate critiche, severe obiezioni, profondi dissensi, diversità metodologiche ed euristiche, divergenti punti di vista e ripensamenti vari. Ma senza indugiare oltre è tempo di commen- tare queste critiche. Ogni affermazione presuppone anche la propria negazione: luce e tene- bre, dritto e curvo, finito e infinito, piace non piace, etc.. La dialettica degli opposti appare una fenomenologia, per così dire ontologica, ossia propria della struttura mentale dell’essere umano. Ciò non significa che il dualismo sia dotato di un fondamento maggiore o minore del monismo, ma sem- plicemente, che né l’uno, né l’altro sono dotati di alcun fondamento non dogmatico, non assiomatico. Conseguentemente fidare in un paganesimo monista di dei, semidei, eroi ed uomini divinizzati, come propone Carrino, o in un dualismo giudaico-cristiano, che separa il divino dall’umano, è scelta meramente arbitraria e priva di un solido sostegno logico od em- pirico, nonché, meno che mai, metafisico o religioso. Probabilmente nel pensiero o, meglio, nella rivelazione cristiana la sintesi teologica, il ponte          138 Il diritto come estetica tra fisico e metafisico avviene attraverso la figura del Cristo, che viene considerato vero uomo, ma, al contempo, espressione della trinità divina. Afferma, infatti, Massimo Cacciari, commentando Emo: Lo sforzo teologico di Emo consiste, dunque, nell’intuire nella Croce stessa (non oltre la Croce o dopo la Croce) la Resurrezione1. Si tratta, tuttavia di una Resurrezione/rivelazione di natura puramente spirituale e, conseguentemente soggettiva, poiché tale rivelazione di pas- sione e di morte nulla ha mutato nella realtà empirica del mondo, se non il modo di pensare e di credere dei fedeli e solo dei fedeli: si continua a nascere, soffrire, morire, fare violenza e guerra, elargire misericordia ed amore esattamente come nell’era precristiana. Del resto neppure la diviniz- zazione dell’’essere umano (pagana o meno), con buona pace dell’amico Carrino, nulla ha mutato nel panorama delle sciagure e delle piacevolezze empiriche, se non la superbia dell’approccio, basti pensare alla tragedia greca. Inoltre anch’essa si presenta come una conoscenza di fede (leggasi scelta arbitraria) Le affermazioni del presente saggio, per essere correttamente comprese, devono essere considerate solo come ipotesi scettiche di riflessione, tut- te possibili, ma nessuna fondabile su solide basi conoscitive, e non come asserzioni sostenibili alla luce di baluardi inconfutabili; ciò sarebbe in evidente contraddizione con il presupposto fondante tutte le ipotesi che hanno natura nihilista/nichilista. Ė ovvio che alla luce di tali presupposti teorici qualsiasi critica si voglia muovere al saggio non può che avere na- tura esterna; infatti una critica interna affonderebbe inesorabilmente nelle sabbie mobili di posizioni incerte, si velerebbe nella nebbia di affermazioni tutte possibili e nessuna certa. L’empiria vorrebbe imporre come certezze le affermazioni della perce- zione umana, ma tali percezioni derivano dalla struttura organica dell’es- sere umano, propria del mondo, che noi crediamo di conoscere e, comun- que, nel quale viviamo; ma di tale mondo nulla si conosce, salvo il nostro percepito ed il nostro percepito è presupposto di se stesso, pertanto non testabile a sua volta empiricamente. Il reale, ammesso che esista un qual- che referente empirico da attribuire a tale termine, potrebbe essere anche molto diverso e maggiormente composito, come dimostrano altre forme di percezione animale ed ulteriori possibili modalità ipotetiche percettive, da 1 M. Cacciari, “Prefazione” ad A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, cit., p. VIII.           M. L. Ghezzi - P.S. Trappola senza uscita: una riflessione sulle critiche ricevute 139 come viene immaginato dall’essere umano. In altre parole, il saggio, pro- blematizzando il fondamento euristico del metodo empirico, problematizza proprio anche l’a priori kantiano e dubita delle sue categorie. Ciò tende a porre la ricerca empirica sul medesimo piano di quella metafisica in quanto entrambe fondate su un a priori indimostrabile. Infatti, giustamente Ema- nuele Severino parla di una struttura originaria, che implica per necessità l’eternità, ed è proprio e soltanto a questa struttura, che si può chiedere il fondamento dell’esistenza del soggetto e dell’empiria. In termini religiosi il problema non muta: il divino intende permeare l’umano in modo empi- ricamente comprensibile, trasformandolo? Pare che ciò sino ad ora non sia mai avvenuto. In termini filosofici si ripete il medesimo quesito: il meta- fisico riesce ad entrare nel fisico, trasformandolo dialetticamente? Anche in questo caso la risposta sembra sino ad ora essere negativa. Dunque il dualismo non può tramontare, almeno come ipotesi. Ovviamente a questi dubbi mostra il fianco anche l’indiscutibile visione morale di Kant: non fondabile teoreticamente a priori e per necessità re- lativa nella sua comportamentalità pratica umana; infatti l’illustre filosofo cerca di fondarla, pur fugacemente ed in modo quasi silente, nell’antropo- logia umana del mi piace, nell’estetica, che appare essere la dimensione più originaria (strutturale? ontologica?) dell’essere umano. Ma un macigno an- cora più grande e pesante ostruisce la strada dell’etica, della morale (kan- tiana e non kantiana) e del diritto: il tema del libero arbitrio. L’eventuale assenza di libero arbitrio nell’essere umano cancella d’un solo colpo ogni dover essere ed ogni prospettiva teleologica. Certo non si può asserire l’as- senza del libero arbitrio, ma purtroppo non è neppure possibile affermare la sua presenza. Nel dubbio, e scommettendo, fideisticamente, sulla possibile esistenza del libero arbitrio, ciascuno può scegliere la propria convinzione e, quindi, la propria strada da percorrere, ma dovrebbe anche avere ben chiaro che la sua scelta non ha alcun fondamento euristico, ma solo esteti- co, ossia soggettivo e, pertanto, è esclusivamente riferibile e vincolante per il solo soggetto, che ha compiuto tale scelta. Il tema diviene centrale nel mondo del diritto, se si attribuisce a quest’ultimo, come nella prospettiva di Carrino, una dimensione teleologica; ma il telos (τέλος) è un fine, ossia un valore, una scelta ed è proprio dell’assenza di fondamento etico o di qual- siasi altro tipo dei valori, delle scelte, che si sta discutendo in questa sede. Di fronte al tema teleologico del diritto pendono almeno due interrogativi, una di natura prevalentemente politica e l’altra di natura eminentemente teoretica: Cui prodest; a chi giova, a vantaggio di chi va la scelta compiuta? E, con affermazione ancora più radicale: per quale motivo si dovrebbe re- putare superiore, più auspicabile in assoluto il Cosmos, l’ordine rispetto al          140 Il diritto come estetica Caos, il disordine, quando, come dimostra il pur discusso, in sede di scien- za fisica, principio di entropia, è quest’ultimo quello verso cui si muove il nostro universo? Sono mere preferenze soggettive, estetiche, appunto. Il diritto è ideologia e l’ideologia è arbitrio personale o collettivo. Riguardo, in fine, all’interpretazione data da Renner delle affermazioni di Emo, penso che vi sia stato un fraintendimento, cosa, per altro, non stu- pefacente data la generale oscurità e frammentarietà dell’opera di questo Autore. Emo si muove nello spirito del Deus absconditus di Nicolò Cu- sano e, soprattutto, nel solco dell’attualismo gentiliano, pertanto compie una sorta di rovesciamento lessicale nel significato delle parole: ciò che afferma come negativo viene ad esprimere una positività, ciò che è invi- sibile assume il ruolo di realtà visibile, al contrario, il visibile si annienta, ciò che è nulla è il vero essere e ciò che appare essere è nulla, etc.. Per- tanto tra fede e scienza prevale euristicamente la fede, in quanto, negando l’apparente realtà dell’essere può accedere alla realtà reale del nulla, che si presenta come il vero essere, perché privo di presenza in quanto assoluto. A conferma di questa pur complessa interpretazione testimoniano alcune affermazioni di Emo: “L’incoscienza dei vegetali, delle specie viventi, è la loro unità panica col tutto, che è appunto il paradiso terrestre, il giardino dell’Eden. Il dramma della coscienza, che è il dramma della Presenza, è la cacciata dal paradiso dell’unità panica, è il dramma della separazione, della negazione; ma appunto perché la separazione è negazione, noi, mediante la negazione, possiamo ritornare all’unità. La fede è fede nella potenza, nella sacralità della negazione. La nostra colpa è la trasgressione e la sepa- razione; separazione cioè negazione.”2. Ed ancora: “Il Dio nascosto, il Dio negativo, è già implicito nel cristianesimo, religione antichissima che ha origine insieme all’uomo; religione del Dio sacrificato che, per la logica stessa della sua situazione, diviene religione del Dio che si sacrifica, cioè si nega. Il Dio la cui attualità ed atto e realtà è il negarsi. Ed a sua immagine e somiglianza sono gli uomini e il mondo.”3. Per quanto poi riguarda l’interpretazione che Renner attribuisce al mio concetto di estetica (mi piace/non mi piace) debbo dire che riflette esatta- mente quanto desideravo esporre. Infatti, con estetica non intendo né un fugace capriccio, né una ludica superficialità e neppure una occasionale propensione, bensì un profondo appagamento, un convinto compiacimento dell’animo, un radicato benessere spirituale, una persistente pace con se stessi. In sintesi, è un concetto che si avvicina molto al kalos kai agathòs 2 A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, cit., p. 30. 3 A. Emo, op. cit., p.39.           M. L. Ghezzi - P.S. Trappola senza uscita: una riflessione sulle critiche ricevute 141 (καλòς καì αγαθός) degli antichi greci, nel quale ciò che era bello aveva buone probabilità di essere anche buono. A mero titolo esemplificativo penso possa essere utile all’interpretazio- ne fornire da parte mia uno scenario concettuale per meglio comprendere i dubbi, che permeano le affermazioni empiriche, ma anche quelle metafi- siche, che agitano questo lavoro. Naturalmente tale scenario è ispirato ad alcune convinzioni proprie di chi scrive, che, ovviamente, si presentano ar- bitrarie, soggettive, relative, come quelle avanzate da qualsiasi altra perso- na. Procedendo con ordine, pare doveroso iniziare il discorso da ciò che si crede di percepire vivendo: un continuo movimento, oscuro nel significato, ma soprattutto, senza fondamenti di certezza non solo sulla sua origine e direzione, ma addirittura anche sulla sua stessa esistenza. Il treno della vita non consente discese ai passeggeri: non possiede porte d’uscita e le finestre sono sigillate; non compie fermate; non avvertì del- la partenza, ma neppure prevede stazioni d’arrivo. I passeggeri ignorano come sia loro capitato di salirvi; non conoscono il luogo nel quale si tro- vano e non sanno neppure nulla di se stessi: come funzionino, siano solo il percepito o si sdoppino in soggetto ed oggetto; siano Tutto, un terminale del Tutto o parte tra parti. Sentono, ma non hanno accesso alle fonti del sentire. La fonte si localizza, oscillando tra spazi successivi, ed immagina le successioni, il tempo. Eppure non vi è ancora forma, ma puro sentire senza immagine: chi sente? Chi o cosa fornisce l’immagine, quando si presenta? Tuttavia una qualche forma di immagine deve pur esistere come riferimento sia del sog- getto, sia dell’oggetto, affinché anch’essi possano assumere una propria immagine. La forza, l’energia oscilla senza sosta tra se stessa ed una qualche forma, modulando la propria vibrazione, ma la forma è instabile e si liquefa con- tinuamente nella forza, come ghiaccio nell’acqua. Se la forza osserva vede la forma, che non esiste in se stessa, se non è osservata. Il mondo sembra un osservatorio permanete, che osserva se stesso in un circolo tautologico, che esiste nell’osservarsi e l’osservarsi è il solo esiste- re. Forza e forma, due volti del medesimo fenomeno. La forma si dissolve nelle metamorfosi e la forza persiste, ma non esiste come massa senza alienarsi nella forma. Tra i due enti si instaura un vizioso legame mutualistico indissolubile, nel quale il soggetto crea l’oggetto, ma l’oggetto modifica a sua volta il soggetto. L’incontro dei due enti produce il fenomeno della consapevolezza, che è solo consapevolezza di se stessi, ossia del soggetto/oggetto. Un se stesso, oscillante tra tutto e parte, tra onda e particella, tra forza e forma, tra energia e massa, che non ha identità fissa.          142 Il diritto come estetica Un soggetto indeterminato come l’oggetto privo di osservatore, che è sog- getto di se stesso. Soggetto ed oggetto sono due indeterminazioni, che si determinano reciprocamente, dando vita al percepire da parte sia dell’uno che dell’altro. Il senso è la selezione dei fenomeni, che costruisce oggetti e soggetti. Il tavolo si occulta sotto la tovaglia, ma la tovaglia è materiale coprente men- tre significa pasto per l’essere umano, ma l’essere umano è entità bipede senza piume, se avesse le piume sarebbe un capo indiano o un uccello, ma un capo indiano o un uccello esistono, il primo sia in India sia in America il secondo nel cielo, ma India, America e cielo sono solo terra ed aria e terra ed aria sono composti di elementi chimici, ma gli elementi chimici sono energia e massa, ma energia e massa sono vibrazioni. Le forme si dissolvono. La trappola è l’apparire di un ente, che fugge oltre le quinte (forse ver- gognandosi della propria oscenità – fuori dalla scena) di un essere, il quale esiste nell’oscillare del nulla, al di là dell’essere e del nulla (“[...] è nel determinato essente che il Nulla è Essere”4). L’indeterminato si determina, sentendo se stesso, ma torna indeterminato appena cessa di sentire; ecco perché non ha senso, perché è e resta indeterminato, salvo che per se stesso per un breve lampo di sensazione, non di senso.L’arco del cielo è sorretto da due colonne. Dal lato destro, la metafisica fornisce abissale profondità a stelle, galassie e mondi; dal lato sinistro, l’empiria avvicina l’abisso, presupponendone il fondo anche senza poterlo raggiungere. L’empiria ci accompagna quotidianamente, nella vita di tutti i giorni, fornendoci informazioni intorno all’ambiente, nel quale viviamo, ed a noi stessi, alla nostra nascita, vita e morte. Informazioni che, quasi sem- pre, non soddisfano per la loro oscurità ed incompletezza. L’essere umano possiede un corpo, di cui manca il libretto d’istruzioni per l’uso. I problemi del dolore e del senso dell’esistenza non trovano risposta certa e, forse, non possono neppure trovarla in quanto argomenti sottratti alla ricerca em- pirica. Non è possibile verificare/falsificare il valore di un biologico, che si decompone progressivamente e diviene nutrimento di altro biologico. Il proprio e l’altrui si fronteggiano fieramente come anelli di una catena, che li tiene separati, ma strettamente legati; come componenti, appunto, di una catena, di cui non si conosce né l’origine, né il fine e neppure il senso del suo esistere. Di fronte al mistero l’empiria si arrende e si asserraglia nelle sue deboli certezze pratiche, tecniche e strumentali, ma l’essere umano non demorde e cerca risposte con o senza verificabilità/falsificabilità empirica. Si apre a questo punto il mundus imaginalis1, ma anche l’Universo dell’i- deazione, della creatività, della fantasia umana, la cui immaterialità è un suo elemento costitutivo, proprio per sfuggire ai dubbi dell’empiria, non 1 L’espressione è usata da Henry Corbin per indicare una realtà intermedia tra fisica e metafisica, tra materia e spirito, una sorta di sintesi tra i due termini, che non relega il trascendente nell’ambito dell’inesistenza.           16 Il diritto come estetica un inconveniente. Purtroppo anche questa via si trova ostruita per l’essere umano, in quanto diretta o verso una conoscenza superiore ed incompati- bile con quella umana o verso una conoscenza individuale, soggettiva e, quindi, incerta, relativa e prospettica. In sintesi, sia l’empiria, sia la metafi- sica svelano l’unica conoscenza umana possibile, quella propria di Socrate e narrata da Platone nell’Apologia: so di non sapere2. Può la psicologia umana accettare un verdetto tanto duro sul senso della propria vita? Evidentemente no ed, infatti, le elaborazioni metafisiche si sono moltiplicate, articolate e complicate nel tempo, mentre gli studi em- pirici hanno continuato il loro corso senza aspirazione di completezza e di assolutezza. Il fondamento di qualsiasi discorso continua a sfuggire e le affermazioni fisiche e metafisiche restano come appese nel vuoto e da nulla sorrette. Forse è proprio questa loro collocazione priva di alto e di basso, che ne impedisce la definitiva caduta o, forse addirittura, che rende priva di senso la domanda stessa sul fondamento. Un dato empirico tuttavia è certo: la psicologia umana tende verso la certezza anche a costo di rinunziare al mondo dei cinque sensi. Dunque, il metafisico è, in qualche misura, conna- turato con l’essere umano come il fisico; è una componente, per così dire, strutturale dell’antropologia. Nel mondo dell’etica, cui il diritto sino ad ora è appartenuto, queste medesime problematiche hanno dato corpo all’ideologia ed all’utopia, alla norma morale ed a quella giuridica, al diritto naturale ed al diritto positivo, alla giustizia ed alla legalità, alla validità ed all’efficacia del diritto, al do- ver essere ed al mi piace/non mi piace. Tutte queste alternative esprimono la tensione tra il vissuto reale e le aspirazioni, i desideri del soggetto. In particolare, l’ultima alternativa ricordata apre la strada, che conduce dal diritto come obbligo al diritto come estetica. Lo smascheramento del dover essere avviene con la constatazione empirica, che le scelte umane sono 2 “Infatti, operando con una logica (quella apofatica) che nega ogni proposizione assertiva (ed esaustiva) in merito alla verità di qualsiasi ente – ma invece proponendovi l’inclusione di ogni possibilità – si giunge a questo risultato che auspicava Nicolò Cusano con il suo De docta ignorantia. Si giunge a un non-sapere che include ogni sapere e viceversa: allo stesso modo in cui l’Essere-Uno – che non è un essere specifico – include in sé tutti gli esseri a cui conferisce l’esistenza. Ma questo sapere non è, gerarchicamente, estraneo e al di sopra dell’uomo – che ne verrebbe in qualche modo dominato e esautorato – ma assolutamente intrinseco all’uomo stesso che ne è, pienamente, partecipe, pur essendone abissalmente lontano. Così come il molteplice è l’espressione ontologica dell’Uno di cui è la manifestazione teofanica”. C. Bonvecchio, Le meditazioni abissali di Henry Corbin, in H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 14-15.           Premessa 17 guidate dal piacere e non dal dovere, anche se talvolta i due termini coinci- dono. Dover essere e piacere divengono i due poli reali del disagio esisten- ziale umano e, contemporaneamente, anche il tentativo di risolverlo. Solo di un tentativo purtroppo si tratta. Il diritto come estetica non esclude, e non può escludere, la dimensione metafisica, ma rafforza la descrittività empirica del comportamento umano, consiglia maggiore consapevolezza psicologica dei limiti conoscitivi uma- ni ed apre nuove prospettive di regolamentazione sociale. Ogni demistificazione è un atto di liberazione della conoscenza, ma non è possibile illudersi di poter superare gli ostacoli ultimi, che oscurano una visione sia assoluta, sia relativa del mondo, cui apparteniamo. La dea Ananke (Aνάγκη), la dea Tyche (Τύχη), le Parche, il Fato, il Destino, la Divina Provvidenza intanto sorridono, interrogandosi intorno al determini- smo ed all’indeterminismo. Ringraziamenti Al termine di questo mio lavoro voglio rivolgere un particolare ringra- ziamento ad Emanuele Severino per la sua grande cortesia e disponibilità ad ascoltare le mie riflessioni; ad Agostino Carrino per il fraterno impegno con il quale ha setacciato i concetti del mio scritto, evidenziando proble- matiche a me sfuggite, ed a Don Paolo Renner, che, tra i moltissimi suoi impegni di misericordia, ha voluto aggiungere, con antica amicizia, anche quello verso il mio scritto. Capo di Ponte, 11 novembre 2015La frase, come risulta dalla lettera, riguarda esclusivamente l’Albero della scienza, della conoscenza del bene e del male, non anche l’Albero della vita, che pure era presente nel Giardino dell’Eden2. Di quest’ultimo, dunque, Adamo ed Eva erano legittimati a mangiarne i frutti. Per ora la no- tazione può apparire irrilevante, ma in seguito risulterà determinante, poi- ché evidenzia che nel Paradiso terreste i nostri progenitori erano immortali ed, infatti, compartecipavano della conoscenza divina. La prima evidenza che colpisce il giurista nella narrazione biblica della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre, dall’Eden è il concetto di colpa, la quale, per necessità logica, presuppone ed è indissolubilmente legata ai concetti di conoscenza e di responsabilità. Se l’albero, del quale mangiano il frutto, è l’albero della conoscenza del bene e del male, ossia della consapevolezza morale del proprio comportamento, non si compren- de come sia possibile emettere da parte di una divinità come da parte di un essere umano un verdetto, una sentenza di condanna per azioni commesse 1 Genesi, 2, 15-17. 2 “Ora il Signore Dio sin da principio aveva piantato un paradiso di delizia; ivi pose l’uomo da lui formato. Produsse il Signore Dio dalla terra ogni albero bello a vedersi e buono a mangiarsi; inoltre, l’albero della vita nel mezzo del paradiso, e l’albero della scienza del bene e del male”. Genesi, 2, 8-9.           22 Il diritto come estetica da esseri inconsapevoli, per così dire, innocenti dal punto di vista sia del- la volontà, sia della conoscenza, in quanto, appunto, ignari dell’esistenza stessa del contenuto dei concetti di bene e di male: disobbedire poteva essere sia bene, sia male. Se la ragione, da cui la teoria giusnaturalistica ritiene di dedurre le norme giuste, è la ragione divina nell’uomo e non la ragione empirica, questa dottrina non può essere definita come razionalistica. [...]. Se è la ragione conoscitiva a statuire norme, su cui si fonda il valore del bene e quindi il disvalore del male, allora la distinzione fra bene e male è una funzione della conoscenza che statuisce norme, cioè della ragion pratica. [...]. In questa versione, il concetto risale fino al mito dell’albero della conoscenza: è infatti la conoscenza del bene e del male data a chi gusta i frutti di quell’albero. [...]. L’essenza di Dio è nel fatto di sapere ciò che è bene e ciò che è male; sapendolo, egli vuole anche che si faccia il bene e di ometta il male. Il suo sapere coincide con il suo volere e la sua ragione è una ragion pratica: è questa la ragione divina di cui l’uomo si appropria col peccato originale3. Ma è proprio questa la ragione di cui si appropria, mangiando la mela, l’essere umano o, piuttosto, esistono due diverse ragioni, quella divina, universale, e quella umana, particolare, ed è della conquista di quest’ul- tima, che il mito dell’Albero della conoscenza del bene e del male parla? Probabilmente l’interpretazione della simbologia biblica deve spingersi oltre, più in profondità, del concetto di acquisizione della responsabilità (conoscenza del bene e del male) attraverso la colpa: un colpa che non pre- suppone apparentemente l’esistenza di alcuna responsabilità e scaturisce da una disobbedienza ad un comando. Forse, è proprio la nostra cultura, ormai atavicamente assuefatta ad una eteronomia incentrata su divieti e sanzioni, a condurci sulla strada di una interpretazione colpevolizzante del mito della mela. Forse, il peccato originale altro non è che il nostro stesso esistere come esseri umani e non divini e la metafora della mela, intesa come nutrimento, atto tipico e specifico dell’essere vivente, sembra richia- mare simbolicamente questa interpretazione. Probabilmente il senso esoterico del brano biblico nasconde significati, che non sono meramente giuridici, ma sconfinano nella riflessione filosofi- ca e nella materia teologica. Ogni condanna prevede una responsabilità, che scaturisce direttamente dalla consapevolezza e dalla conoscenza sia dell’azione che si compie, sia della norma, che la vieta: so ciò che faccio e conosco ciò che si può fare e 3 H. Kelsen, Il problema della giustizia, Einaudi, Torino 1975, pp. 90-91.           La mela, il serpente ed il buon Dio 23 ciò che non si può fare; ciò che si può fare è bene, ciò che non si può fare è male. Ma bene e male possiedono almeno due diverse dimensioni: quella assoluta del bene e del male universale e quella relativa del bene e del male propria di colui che agisce, del suo modo di sentire, di vedere, di giudicare gli eventi ed i comportamenti. Dio disse di non mangiare: sembra un comando eteronomo e, quindi, in quanto tale, pare contrapporre un divieto divino ad un giudizio e compor- tamento umano. Questa interpretazione, per altro condivisa anche da Alf Ross (1899-1979)4, viene rafforzata dalla presunta sanzione comminata: se ne mangerai morirai. Ma si tratta effettivamente di una norma giuridica o morale dotata di sanzione oppure si tratta di un mero avvertimento, della descrizione di una sorta di legge naturale, come quelle che derivano da teorie scientifiche e che prevedono, ad esempio, il moto degli astri? In altre parole si tratta di un comando o di una descrizione? Per rispondere alla domanda è necessario risalire alla situazione di Adamo ed Eva rispetto a Dio nell’Eden. Non era una situazione di separazione, ma di unione; non vi era individualità, ma comunione; conseguentemente, l’unica conoscen- za esistente era quella divina, che permeava, proveniente da Dio, anche Adamo ed Eva. Conoscere e volere, dunque, erano la stessa cosa non solo per Dio, ma anche per Adamo ed Eva ed in una tale situazione un comando eteronomo è del tutto privo di senso; in primo luogo, perché non può essere eteronomo, in quanto vi è comunione, ed, in secondo luogo, perché un co- mando comporta volontà diverse, mentre, in questo caso, come vi era una sola conoscenza così vi era anche una sola volontà. Desiderando il frutto dell’albero, torniamo alla realtà del sospetto, cioè allo svincolare la conoscenza dall’amore e ad impiegarla ai fini dell’autoafferma- zione dell’individualità. Una conoscenza contemplativa è una conoscenza del buono, del bello e del vero. La conoscenza contemplativa è una conoscenza della pace, perché è la conoscenza del riconoscimento dell’altro, dunque non può essere a fin di male. La conoscenza contemplativa che Dio propone all’uo- mo, sua immagine, è una conoscenza sapienziale, che ha in sé una dimensione assiologia, cioè di valutazione del bene e del male. Ma l’uomo ha questa co- noscenza già in quanto amico di Dio, sua immagine, e può sempre contem- 4 “Il peccato nacque quando l’uomo violò il divieto, assolutamente arbitrario e irragionevole, di Dio di mangiare il frutto di un certo albero che gli avrebbe dato una conoscenza che era di Dio stesso. Peccato significa dunque disobbedienza, pura e semplice volontà propria, autodecisione e per questo peccato Adamo ed Eva e la loro discendenza venivano puniti in eterno nel modo più crudele. Tutti dovevano subire l’ira di Dio ed essere affetti dal peccato originale”. A. Ross, Colpa, responsabilità e pena, Giuffrè, Milano 1972, p. 19.           24 Il diritto come estetica plarla nell’albero della conoscenza del bene e del male. Il bene e il male sono conosciuti dall’uomo insieme a Dio, suo Creatore, e in lui. Anzi, l’unica giusta conoscenza del bene e del male è quella che l’uomo contempla in Dio. È con gli occhi di Dio che l’uomo vede il bene ed il male. Ma guardare con gli occhi di un altro e gioire di questa intimità è proprio delle persone che si amano. Nell’a- more è la tendenza a conoscere attraverso l’amore dell’altro e con il suo amore. Proprio nel fatto che l’uomo può guardare l’albero della conoscenza del bene e del male, perché proprio lì in qualche maniera si incrociano gli sguar- di tra Dio e l’uomo, c’è la possibilità dell’idolatria, quindi di una tentazione. Guardare può diventare desiderare, e desiderare prendere5. Il rapporto tra Dio e l’essere umano in quella dimensione di equilibrio creazionistico, tutto racchiuso nello spazio/tempo divino dell’Eden, era di completa compartecipazione, e non proprio di identità (a sua immagine e somiglianza). L’identità dell’immagine non appartiene ad un semplice fenomeno visivo, ma si estende anche alla dimensione cognitiva, sebbene non in modo completo (somiglianza). Il derivato non partecipa a pieno titolo di tutti i caratteri del derivante, ma certo ne incarna una rilevante porzione. Conseguentemente Adamo ed Eva non erano privi di conoscenza e, quindi, anche di responsabilità, ma partecipavano della medesima cono- scenza divina, della conoscenza propria dell’Uno e del Tutto. L’uomo abbandonerà Dio e la proposta della tentazione acquisterà sempre più un aspetto di verità [...]. Poiché l’uomo non è più nella contemplazione dell’albero della conoscenza, ma è ormai scivolato nella logica della posses- sione, gli rimane solo il male, ossia la necessità di possedere. Sganciandosi dall’amore, da quella intimità con Dio nella quale ha potuto conoscere che cosa è bene e che cosa è male per lui, finisce essenzialmente posseduto dalla necessità di possedere per salvarsi6. La conoscenza divina, della quale erano compartecipi nell’Eden Adamo ed Eva, era universale, assoluta, non prospettica, ma posseduta a tutto ton- do nella dimensione della totalità degli eventi di un Essere, che racchiude in sé ogni evento7. Il comando, dunque, di non mangiare la mela, la proibi- zione non si presenta come un atto di volontà eteronoma rispetto ad Adamo 5 M.I. Rupnik, Dire l’uomo. Persona, cultura della Pasqua, Lipa, Roma 2011, vol. I, pp. 227-228. 6 M.I. Rupnik , op cit., p. 230. 7 “Il Dio degli Dei, lo Spirito assoluto, permane in eterno, al di là della conoscenza che può averne la religione in questo mondo. La storia non è il luogo del divenire della coscienza divina suprema”. H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 74.           La mela, il serpente ed il buon Dio 25 ed Eva, ma come una informazione, un avvertimento, una descrizione di ciò che avviene quando dall’unità si passa alla molteplicità, quando l’asso- luto cede il passo al relativo. Né vi è sanzione nel monito di Dio; ciò che appare come condanna altro non è se non descrizione di ciò che accade nel relativo, di ciò che produce, di ciò che è il relativo, ossia l’umano. La mela è un frutto commestibile, che allieta e nutre il palato umano, quindi potrebbe simboleggiare quella conoscenza tutta umana e relativa, richiamata anche dalla leggendaria mela di Isaac Newton (1642-1727), in contrapposizione ad una conoscenza divina ed assoluta. Adamo ed Eva, mangiando la mela, decidono di abbandonare l’unione con il divino, per vivere una propria vita separata, individuale ed autonoma, dotata, quindi, di una propria conoscenza soggettiva e prospettica, non più oggettiva e completa. Nel racconto del peccato originale, la tentazione spinge l’uomo a spostare l’attenzione da Dio all’albero – cioè dalla persona all’oggetto – e a fissarsi sull’oggetto. Prima l’uomo parlava con Dio e a Dio, poi comincia a contrat- tare con la tentazione, per finire col ritrovarsi a desiderare l’oggetto – l’albero – come se fosse la sua salvezza. L’interlocutore ontologico dell’uomo non è più un principio agapico assoluto, ma una realtà oggettuale. L’uomo diventa ciò che contempla. Come è il suo interlocutore fondamentale, così è l’uomo. Poiché l’uomo è una realtà dialogica, non può fare a meno del dialogo, ma tutto dipende da chi è l’interlocutore di questo dialogo. Se è un oggetto, l’uomo diventerà sempre più un oggetto. Percepirà se stesso come un oggetto e si rela- zionerà agli altri come ad oggetti. Anzi, li considererà come suoi oggetti. Ogni peccato commesso dopo il peccato originale sarà un passo ulteriore in questa reificazione spersonalizzante dell’uomo8. La ribellione al comando divino (meglio, l’avere ignorato la descrizio- ne divina) non consiste nell’infrangere un divieto, ma nel desiderare una propria personalità individuale, separata dal Tutto, soggettiva, ma questa soggettività si trasforma in oggetto del Tutto; abbandonata la soggettività del Tutto ciò che resta, come parte, è una soggettività relativa, ossia una reificazione rispetto al Tutto: il peccato originale, infatti, si presenta come separazione, rottura del Tutto nelle sue molteplici parti, come oggetti della soggettività universale. Una prima rottura nel creato (diversa la rottura dell’Uno prodotta dalla creazione, poiché essa fu anche rottura, salto qualitativo, di sostanze: so- miglianza con Dio, non identità) era già avvenuta con la comparsa di Eva: 8 M.I. Rupnik, Dire l’uomo. Persona, cultura della Pasqua, cit., pp. 233-234.           26 Il diritto come estetica Mandò dunque il Signore Dio ad Adamo un sonno profondo; ed essendosi egli addormentato, gli tolse una delle coste, e ne riempì il luogo con della carne. E con la costa che aveva tolta ad Adamo, formò il Signore Dio una donna, e gliela presentò. E disse Adamo: “Ecco, questo è un osso delle mie ossa, e carne della mia carne; questa sarà chiamata virago, perché è stata tratta dall’uomo. Perciò l’uomo lascerà il padre e la madre, e si stringerà alla sua moglie, e saranno due in un corpo solo”9. Tale rottura, tuttavia, non si manifesta come irrimediabile, poiché frutto di una medesima sostanza, la costola di Adamo appunto, che riconduce ad unità ciò che appare altro, diverso, separato (saranno due in un corpo solo; rebis di alchemica ispirazione). Ed, infatti, è proprio questo diverso, separato in apparenza, ma pur sempre composto della medesima sostanza, a patrocinare ed ad attivare la rottura: è il due che rompe l’unità e la rompe per attrattiva verso l’individualità, una individualità nuova, il due, appun- to. Il serpente sembra rappresentare questa attrazione verso il particolare, verso la separazione (diavolo da diabolos, διάβαλος, colui che divide). La massa della materia (il serpente) si separa nelle sue parti, forme e qualità dall’energia omogenea e priva di forme (la Divinità) o, se si preferisce, i corpi si separano dallo spirito universale. Pare di vivere nel mito l’equa- zione di Albert Einstein (1879-1955) della conversione, dell’oscillazione, della compresenza (tra?) di energia e massa in un sistema fisico, che ha su- perato la visione propria di un materialismo legato solo al visibile, all’og- gettivato: E=mc2. Henry Corbin (1903-1978) ben sintetizza il tema dell’individualizzazio- ne, dell’oggettivizzazione nel paradosso (ossimoro?) dell’unità molteplice:  9 È la visione della molteplicità nell’unità. [...]. È la visione dell’unità nella molteplicità. Le due interpretazioni si completano l’un l’altra necessariamen- te: l’ontologia integrale presuppone nel perfetto Saggio la visione simultanea dell’unità nella pluralità e della pluralità nell’unità. È attraverso questa simul- taneità che si effettua la differenziazione seconda, quella stessa in forza della Genesi, 2, 21-24.          La mela, il serpente ed il buon Dio 27 quale il pluralismo metafisico si trova fondato a partire dall’Uno – senza di esso non vi sarebbero i molti, ma caos e indifferenziazione10. I nostri simbolici progenitori, Adamo ed Eva, nell’abbandonare la cono- scenza divina, assumono, come loro conoscenza specifica, quella umana e, dunque, divengono prigionieri di tale conoscenza limitata, che comporta anche la comparsa di fatiche, dolori e morte. La separazione è un divenire altro dal Tutto, conseguentemente, all’immutabilità dell’Essere subentra il divenire con le sue opposizioni, polarizzazioni: essere e non essere, fatica e riposo, dolore e piacere, morte e vita, etc.. Il divenire non può esistere senza l’alternarsi di manifestazioni diverse, ossia, soprattutto, non può esi- stere senza la morte, intesa come termine di una manifestazione ed inizio di una nuova manifestazione. La morte, dunque, come nell’ammonimento di Dio, è indissolubilmente legata alla conoscenza umana, simbolicamente rappresentata dal cibarsi della mela. A questo punto risulta ormai eviden- te che Adamo ed Eva non potranno più cibarsi dei frutti dell’altro albero presente nell’Eden, dell’Albero della vita, dei quali sino a quel momento potevano godere. I frutti dell’Albero della vita donano la vita eterna, ma la conoscenza ed il divenire umani impediscono l’eternità, ciò che è eterno non conosce solo la parte, ma conosce direttamente il Tutto, e non diviene, ma permane sempre immutato uguale a se stesso. La parte, in quanto limi- tata non può sfuggire alla morte. Particolarmente penetrante si presenta la puntualizzazione di Friedrich W. Nietzsche (1844-1900): L’albero della conoscenza. – Verosimiglianza, ma non verità: parvenza di libertà – è per questi due frutti che l’albero della conoscenza non può venir scambiato per l’albero della vita11. Alle considerazioni mitologico-religiose sino a questo punto svolte pos- sono ora essere aggiunte altre ed ulteriori considerazioni di natura più stret- tamente filosofica. Se il divenire condanna, prima, la parte a distinguersi da un’altra parte e, successivamente, la stessa parte ad essere se stessa e, poi, a trasformarsi in altro, allora il divenire appare come un alternarsi di essere e di non essere. Il tema è antico e vide già contrapposti il pensiero di Eraclito (535 a.C.-476 a.C.), con il suo tutto scorre, panta rei (πάντα ρει), a quello di Parmenide (544 a.C.-459 a.C.), sostenitore di un Essere che non può non essere. Effettivamente anche nella realtà empiricamente rilevabile il non 10 H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 39. 11 F. Nietzsche, Umano, troppo umano II, in Opere 1870/1881, Newton, Roma 1993, p. 797.           28 Il diritto come estetica essere è di problematica individuazione. Rilevabile, invece, con estrema facilità è l’essere e l’essere altro come espressione del divenire. Ma a livel- lo logico, secondo il principio di identità, l’essere è solo se stesso e l’essere altro non è continuità dell’essere iniziale, ma un diverso essere a sua volta uguale solo a se stesso. La logica parmenidea, ampiamente sviluppata ai nostri giorni da Emanuele Severino12, nega nella sostanza il divenire e co- struisce una logica di identità degli eterni, che si separa e distingue dalla logica dialettica del divenire. La logica degli eterni si addice ad un mondo metafisico, proprio del divino; mentre la logica dialettica, empiricamente verificabile/falsificabile, pare tipica degli esseri umani. Commentando Corbin, Claudio Bonvecchio in proposito ricorda: [...] oltre che teologica – la modalità catafatica [affermativa n.d.r.] di rap- portarsi al divino ha costruito una vera e propria logica (di ascendenza aristote- lico-scientifica). Anzi, si può affermare che si è affermata come la base stessa della logica occidentale in quanto sostiene (apoditticamente oltre che dogmati- camente) – nella costruzione del discorso – la possibilità di affermare in manie- ra indiscutibile le caratteristiche di un ente. Caratteristiche che ne esprimono la verità che si ritiene assoluta, se si ottemperano determinate condizioni logico- razionali (principio di non contraddizione, principio del terzo escluso, etc.). Tuttavia, questa verità [...] non consente mai un rapporto partecipativo con l’Essere. Infatti, esclude dal discorso [...] la dimensione dell’Essere che è l’u- nica che fa di un ente un ente esistente13. Ciò che conta tuttavia, ai fini delle presenti riflessioni non è tanto l’af- fermarsi nella storia umana dell’una o dell’altra logica, quanto piuttosto la constatazione che anche a livello filosofico emerge la possibilità di un dualismo logico non dissimile da quello evidenziato nell’episodio biblico del Giardino dell’Eden. Sul piano filosofico il legame tra l’Albero della conoscenza del bene e del male e quello della vita appare ancora più indissolubile che nel testo bi- blico. Infatti, è la stessa logica conoscitiva umana del divenire, che trascina con sé, come compagna inseparabile, la morte. Ciò che diviene possiede un inizio ed una fine, prima non esiste, poi esiste, quindi torna nel nulla. Non è questa la logica conoscitiva del divino, nella quale ciò che è, lo è per sempre, dall’eternità e nell’eternità. Scrive Massimo Donà: 12 Cfr. E. Severino, Immortalità e destino, Rizzoli, Milano 2006. Ed anche del medesimo Autore: L’identità del destino, Rizzoli, Milano 2009. 13 C. Bonvecchio, Le meditazioni abissali di Henry Corbin, in H. Corbin, Il paradosso del monoteismo, cit., p. 12.           La mela, il serpente ed il buon Dio 29 [...], nel testo biblico l’Albero della Vita o delle vite, al plurale, come dice in verità l’Antico Testamento – a indicare, molto probabilmente, l’infinito distin- guersi del principio – allude ad una verità che solo l’Albero della Conoscenza avrebbe potuto spingerci a ridire. Facendoci innanzitutto tradire quel senso di infinita apertura verso un futuro sempre ancora possibile che caratterizza ap- punto l’Albero della Vita. Ossia, la speranza in una rigenerazione in grado di negare la definitività connessa ad ogni supposto improbabile compimento; in primis quello costituito dalla morte. Ecco perché l’Albero della Conoscenza avrebbe reso mortale il soggetto che avesse voluto cibarsi dei suoi frutti. Perché il logos umano, troppo umano, da quest’ultimo (dall’Albero della Conoscenza) rappresentato, è costitutivamente portato a credere nell’intrascendibilità delle distinzioni e dunque a fare dello stesso distinguersi in quanto tale il principio incontrovertibile dell’esistere. Per questo, proprio dicendo tale intrascendibilità, il logos avrebbe dovuto comunque riconoscere il limite costitutivamente caratterizzante il suo stesso orizzonte, concependo anche quest’ultimo come essenzialmente limitato – os- sia, distinto. Finendo così per negare finanche la sua stessa intrascendibilità. Ed instituendo l’impossibile per eccellenza: ossia un nulla posto di là dalla po- sitività di tutto quel che è – un nulla concepito, esso medesimo, dunque come positivo. E perciò valevole come perfetta metafora del male assoluto14. Dunque, non solo la riflessione religiosa, si potrebbe dire teologica, ri- leva la presenza, almeno potenziale, nell’essere umano di ben due diverse logiche, ma anche l’analisi filosofica giunge alla medesima conclusione. Alla logica dell’Essere Assoluto si giustappone la logica del divenire, dell’essere altro. La prima si presenta meramente razionale, priva di possi- bilità empiriche di verifica/falsificazione, tutta dispiegata intorno a principi considerati indiscutibilmente veri ed evidenti senza ulteriori necessità di- mostrative; principi che nella terminologia kantiana possono essere definiti a priori. La seconda, invece, completamente costruita a posteriori, grazie alla percezione empirica del divenire, alla rilevazione, si potrebbe dire, sempre in terminologia kantiana, categoriale degli eventi. Quest’ultima lo- gica si limita a descrivere una realtà fenomenologica umana e, come tale, relativa, quindi, senza pretese di accesso conoscitivo ad ipotetiche realtà assolute e metafisiche. L’indissolubile legame, sostenuto dalla logica dell’Assoluto, tra l’Albe- ro della Conoscenza e la realtà di separazione sembra ribadito dalla Bibbia anche nell’episodio simbolico della costruzione e del crollo della Torre di Babele. L’unione tra terra e cielo, già simboleggiata dall’albero, qualsiasi albero (Yggdrasil, l’albero di Natale, etc.), viene ricercata, in questo caso, 14 M. Donà (a cura di), Parmenide. Dell’essere e del nulla, Albo Versorio, Milano 2012, pp. 94-95.           30 Il diritto come estetica attraverso un’opera di architettura, che sfida altezza e forza di gravità, ma nel crollo di questo asse umano-divino si dissolve l’universalità della pa- rola, intesa anche nella sua accezione più estesa di logos, la sua capacità creatrice e comunicatrice universale. La terra era tutta d’una sola lingua e d’una sola parlata. [...]. Ma il Signore discese per vedere la città e la torre che i figli di Adamo stavano edificando, e disse: “Ecco, è un popolo solo, ed ha una lingua sola per tutti; hanno cominciato a far questo lavoro, né desisteranno dal loro pensiero sinché non l’abbiano condotto a termine. Andiamo dunque, discendiamo, e confondiamo ivi le loro lingue, così che nessuno più comprenda la parola del prossimo suo”15. Il Tutto diviso in parti si differenzia e perde di unitarietà. Ciascuno divie- ne consapevole di sé, ma solo di se stesso; gli altri mutano in esseri ignoti, estranei. La metafora della confusione delle lingue, ancora una volta, non suona come condanna divina, ma come descrizione delle conseguenze de- rivate dalla separazione delle parti dal Tutto16. L’essere umano, in quanto parte del Tutto, non ha né colpe, né meriti, ma solo caratteri suoi propri, che si separano e divergono da quelli divini: 15 Genesi, 11, 1 e 5-7. 16 “Diventare un solo popolo, sotto una istituzione – la lingua sola – è qui, chiaramente, l’espressione della hýbris degli uomini, del loro istinto auto- idolatrico: così chiaramente che non viene nemmeno detto, ma sottinteso. Ma la questione più interessante, sulla quale ha richiamato l’attenzione Stefano Levi della Torre nel suo splendido e illuminante Zone di turbolenza, è se la misura presa da Dio – la dispersione su tutta la terra e la confusione delle lingue – sia la punizione per un grande male (come nel caso di Caino reso ramingo e fuggiasco) o la garanzia di un grande bene. L’interpretazione di Stefano Levi, in breve, è che la distruzione della città dell’onnipotenza, la moltiplicazione delle lingue, rese incomprensibili l’una all’altra, e la dispersione dei popoli in lungo e in largo sulla terra, tutto ciò è una moltiplicazione delle culture e delle istituzioni, un antidoto all’idolatria del pensiero e del potere unico, una garanzia di pluralità delle visioni del mondo e del modo di vivere nel mondo. Secondo questa profonda interpretazione, la civitas maxima non è altro che idolatria”. G. Zagrebelschy, La virtù del dubbio, Editori Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 134-135.           La mela, il serpente ed il buon Dio 31 è relativo e non assoluto; è finito e non infinito; possiede una conoscenza limitata e non universale. In conseguenza di queste considerazioni risulta chiaro che gli avvenimenti drammatici, che videro come scenario il Para- diso terreste, non possono essere incasellati nella concatenazione di eventi, che accomuna il diritto e la morale: alla colpa consegue la responsabilità del soggetto agente, al quale, proprio in quanto responsabile, viene appli- cata la pena. Questi concetti vengono chiaramente espressi a livello sia morale che giuridico da Alf Ross (1899-1979): L’idea che esista una responsabilità morale, è identica all’idea della respon- sabilità giuridica, è l’espressione di una prescrizione normativa per cui la colpa viene collegata con le conseguenze della colpa, cioè con la pena che qui si chiama riprovazione17. Ed ancora in modo più esplicito: Quando si fa valere una responsabilità, ciò avviene sempre con la motiva- zione che qualcosa fu commessa che, secondo un determinato ordinamento normativo, non sarebbe dovuta accadere, qualcosa di riprovevole o proibito che, di conseguenza, dà motivo a quella reazione che consiste nel far valere la responsabilità18. Nel caso dell’Eden, come si è detto, non pare che ci si trovi in questa situazione, non solo perché viene meno l’uso tecnico della terminologia giuridica (colpa, responsabilità), ma anche, e soprattutto, perché manca la norma vincolante, il divieto. Infatti, l’interdetto pronunziato da Dio, proprio per il suo carattere che unisce conoscenza e volontà, non può essere considerato un comando, ossia una norma, ma più semplicemente una informazione, un avvertimento, al massimo, un consiglio. Si tratta cioè di una frase ipotetica (se mangi la mela divieni mortale) tesa a de- scrivere gli avvenimenti conseguenti all’azione segnalata come perico- losa. Del resto, come avrebbe potuto Dio formulare un comando a dei soggetti che, prima dello strappo, della rottura, partecipavano della sua stessa conoscenza e volontà? Dunque, se non vi fu comando, norma, non vi fu neppure colpa, in quanto mancò la violazione, la disobbedienza. Vi fu, invece, responsabilità per l’azione compiuta, ma la natura umana di Adamo ed Eva avrebbe potuto consentire loro di compiere una scelta diversa? La risposta deve essere rinviata, in quanto strettamente dipen- 17 A. Ross, Colpa, responsabilità e pena, cit., p. 49. 18 A. Ross, op. cit., p. 29.           32 Il diritto come estetica dente dalle convinzioni intorno all’esistenza o meno del libero arbitrio. Ovviamente, se non vi fu colpa non è neppure possibile reputare la tri- ste condizione umana come una pena inflitta dal Creatore alle proprie creature. Piuttosto si tratta di considerare la stessa natura umana come caratterizzata, nei propri intrinseci limiti, in quanto parte di un Tutto mol- teplice e differenziato, appunto, anche in qualità diverse. Per fornire un paragone pur imperfetto: rispetto alla media statistica degli esseri umani il fenomeno dell’albinismo è minoritario ed, in quanto tale, appare come uno svantaggio genetico, ma può veramente essere considerato sempli- cemente uno svantaggio esistenziale o potrebbe anche essere visto come una articolazione qualitativa del genere umano, dotata a propria volta di taluni vantaggi soggettivi, sui quali tendiamo a non soffermarci per pigrizia culturale? L’interpretazione di comando (norma), di colpa e di, conseguente, punizione (pena) divina pare prodotta da una cultura umana troppo governata da una autoflagellazione di natura, prima, etica e, poi, giuridica; del resto, questa interpretazione prevalente punitiva della cac- ciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre ed anche della distruzione della Torre di Babele e relativa confusione delle lingue non può stupire in un mondo sempre più giuridicizzato, quale è il mondo attuale. Che la parte ed il tutto siano distinguibili sia teoreticamente, sia empi- ricamente è nozione inconfutabile anche, ad esempio, a livello geometri- co; così come è inconfutabile che la parte, almeno quella umana, possieda una consapevolezza, più o meno veritiera, del proprio esistere (cogito ergo sum) e non certo solo per l’autorità di René Descartes (1596-1650); altra e ben diversa questione è comprendere se esista e che caratteri manifesti la consapevolezza di se stesso propria del Tutto. Certo la parte partecipa del Tutto e, quindi, pare arduo pensare che ad una limitata consapevolezza della parte non corrisponda una illimitata consapevolezza del Tutto, pur tuttavia nulla può essere escluso senza l’evidenza di prove comprensibili alla mente umana ed, inoltre, resta comunque impregiudicato il tema della qualità, delle caratteristiche di questa eventuale consapevolezza. Lo Spirito, Dio, l’Energia sicuramente non possiedono un carattere di autocoscienza, di consapevolezza uguale a quello proprio dell’essere uma- no, ma neppure la massa (materia individualizzata) possiede livelli omo- genei di autocoscienza, di consapevolezza, almeno per quanto si conosce attualmente, nelle sue molteplici articolazioni, nelle sue diverse parti. I minerali, i vegetali, gli animali e l’animale umano percepiscono se stessi ed il mondo a loro presupposto esterno in modi molto diversi ed in modi altrettanto diversi reagiscono, interagiscono con l’ambiente circostante. Il Tutto, come somma di tutte le singole parti o come entità ulteriore, può, e          La mela, il serpente ed il buon Dio 33 secondo quali modalità, percepire se stesso? Una possibile risposta passa attraverso il concetto di Spirito o di Energia che, permeando ogni cosa, ogni fenomeno, pur in quantità e, forse, anche in qualità diversa, consente questa generale, universale consapevolezza eterna di sé; una sorta di anima individuale, ma universale (sembra un ossimoro, ma è solo prospettiva di- versa), di anima mundi. Bene e male rappresentano una dualità, che acquista significato solo in un mondo scisso, a sua volta, in un bipolarismo oscillante tra un polo, espressione di assoluto, ed un secondo polo, espressione di relativo, il qua- le subisce il giudizio del primo: buono o cattivo, appunto, rispettivamente nelle sue singole e molteplici manifestazioni comportamentali. Quest’ulti- mo bipolarismo non riguarda solo la distinzione tra dover essere ed essere, ma si articola ulteriormente in quel dualismo del dover essere perennemen- te in tensione tra valori assoluti e valori relativi: i primi frutto della dimen- sione assoluta del Tutto ed i secondi propri della dimensione relativa delle parti del Tutto. La dimensione relativa della bipolarità etica consente solo l’espressione di formule valoriali a contenuto soggettivo, cioè proprie del soggetto, della parte che le esprime; del resto anche la dimensione assoluta non riesce a fornire un contenuto etico certo, ma si limita a proporre for- mule o dogmatiche oppure vuote di contenuto, prive di precise indicazioni comportamentali, come, ad esempio, il noto broccardo del diritto romano intorno alla giustizia: unicuique suum tribuere. Il problema irrisolto riguar- da il significato, cosa si intenda per suum, oltre, ovviamente alla discutibi- lità del principio generale, che potrebbe anche consistere nell’attribuire a ciascuno l’altrui e non il proprio o, addirittura non riconoscere l’esistenza di un proprio. Il problema può essere superato solo distinguendo la cono- scenza umana, cui si riferiscono queste aporie, dalla conoscenza divina, che, in quanto assoluta, non può incorrere in esse. Certo tale conoscenza non può competere all’essere umano se non per fede o per rivelazione, ma qui il tema si complica, poiché nella storia della cultura umana spesso l’e- sistenza stessa dell’Assoluto, del metafisico, in quanto non empiricamente percepibile e, quindi, problematico per la conoscenza umana, è stata messa in discussione. Pertanto questo argomento si è sviluppato secondo due di- versi percorsi culturali, l’uno monista e l’altro dualista; il primo sostenitore di una realtà unitaria, nella quale fisica e metafisica si sintetizzano o si escludono a vicenda, ed il secondo portatore di una visione separata dei due piani del reale, anche se in qualche modo comunicanti tra loro; ma di ciò si tratterà tra poco. Oltre alla possibilità alternativa dell’esistenza di una logica divina e di una umana si presenta anche l’ipotesi di una vera e propria assenza di lo-          34 Il diritto come estetica gica, come risultato dell’inconoscibilità dell’Assoluto; un Assoluto che è solo silenzio, oscuramento della conoscenza umana, come suggerisce Ni- colò Cusano (1401-1464) con l’ipotesi del Dio nascosto (absconditus): Né ha nome, né non ha nome, né ha nome e non nome. Ma quanto può dirsi disgiuntamente e copulativamente, per accordo o disaccordo, non gli conviene, per incommensurabilità di sua infinità, perché è principio uno, anteriore ad ogni concetto su esso formulabile19. Abbandonato il Paradiso terrestre da parte di Adamo ed Eva, non solo subentra la logica umana, il divenire e la morte al posto dell’unione con il divino, l’eternità statica e la vita eterna, ma la rottura porta con se stessa anche l’estraneazione dall’Assoluto, che assume una dimensione impe- netrabile, misteriosa. L’Assoluto creatore si pone prima di ogni creato e di ogni creatura e, quindi, anche prima di qualsiasi logica e razionalità. L’Increato non appartiene al mondo empirico, ma neppure al metafisico pensato od al metafisico alienato nella creazione. Esso appartiene solo a se stesso ed all’insondabile abisso, che separa l’Assoluto dal relativo, il Tutto dalle sue parti.  19 N. Cusano, Il Dio nascosto, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 37.          2. MONISMO E DUALISMO DEL MONDO Carcharias Taurus è il nome scientifico del meglio conosciuto squalo toro, il quale possiede una caratteristica, che può farlo assurgere ad icona, ad emblema della natura biologica. Lo squalo toro, infatti, è noto per prati- care il cannibalismo intrauterino; ossia l’embrione dominante si nutre delle uova e degli altri embrioni presenti nell’utero materno. Tale pratica non può stupire nel mondo biologico, giacché il biologico si nutre solo di altro biologico (salvo la fotosintesi clorofilliana). La vita è, dunque, indissolu- bilmente legata alla morte in un perenne solve et coagula, nel quale vige la locuzione latina mors tua vita mea. La fine di un essere vivente costituisce la possibilità di sopravvivenza per un altro essere vivente. Talvolta, poi, il ciclo vitale si esaurisce direttamente con la procreazione, evidenziando in tale modo l’irrilevanza della vita del singolo individuo e la sua funziona- lità esclusivamente orientata alla continuazione della specie. Lo scenario di morte, nel quale viene ambientata la vita biologica, si completa anche con la lotta per la vita, che pervade, permea ogni entità vivente. La lotta si dispiega all’esterno dei corpi per l’approvvigionamento di cibo, che si concretizza in una forma di dominio del più forte sul più debole, ma anche al loro interno, poiché miliardi di microorganismi (batteri, virus, funghi e parassiti vari) combattono continuamente, senza sosta contro le difese immunitarie dei corpi, che li contengono, per la propria sopravvivenza. Talvolta, pur nelle loro ridottissime dimensioni, riescono ad avere il so- pravvento, dimostrandosi più forti del loro ospite, ma, più frequentemente, soccombono, eppure non si estinguono, se non raramente, grazie alla loro facilità riproduttiva e sovrabbondanza numerica. Cannibalismo e lotta si presentano, dunque, come la struttura (si po- trebbe usare anche il termine ontologia se non fosse troppo compromesso con visioni metafisiche) profonda della natura del biologico. Non si creda, poi, di sfuggire a questa struttura con facili moralismi legati a forme, più o meno radicali, di alimentazione vegetariana o vegana, poiché anche il mondo vegetale, come quello animale è vivente e, come non si comprende la discriminazione etica tra animali sacrificabili e non sacrificabili, così          36 Il diritto come estetica non si comprende la sacrificabilità a fini eduli della vita vegetale, ma non di quella animale. Potrebbe esservi una spiegazione solo in una ipotetica gerarchia delle esistenze biologiche, che ponga l’essere umano al vertice e il vegetale alla base, ma allora non si giustifica perché tale gerarchia debba saltare un gradino, quello animale, appunto, nella scala delle sacrificabilità gerarchiche. Lo stato permanente di guerra, che caratterizza il mondo biologico, è aggravato dalla precarietà programmata della sua esistenza, la quale si deteriora e consuma progressivamente lungo tutto il corso dello sviluppo della vita. L’adagio latino, che indica l’inesorabile trascorrere delle ore, vulnerant omnes, ultima necat, ben descrive l’itinerario tra la nascita e la morte, funestato non solo dalla ricerca cannibalesca del cibo e dalle insidie date da malattie ed infortuni vari, ma, soprattutto, dal decorso del tempo e dal disgregarsi dei corpi, che accompagnano l’essere biologico verso la sua estinzione, la sua fine. Per sintetizzare l’orizzonte esistenziale del bio- logico basti ricordare la locuzione latina attribuita ad Agostino d’Ippona (354-430), ma molto più probabilmente di Bernardo da Chiaravalle (1090- 1153), con la quale si descrive la nascita dell’essere umano: inter faeces et urinam nascimur. La nascita, dalla cellula all’essere umano, è una cruenta rottura dell’individualità, una separazione di materiale organico, una fuo- riuscita di un ente da un altro ente, il numero uno che produce un altro uno, dando il via con il numero due alla catena dei molti. Quanto, poi, alla morte basta visitare ospedali, case di riposo per anziani e cimiteri per chiarirsi le idee intorno al dolore, al decadimento psico-fisico ed... all’approvvigiona- mento alimentare di microorganismi, vermi ed insetti vari, messi in fuga solo dal fuoco liberatore della cremazione. Il tragico disvelamento della triste condizione del biologico, in genera- le, ed umana, in particolare, è presente in quasi tutte le religioni, le quali, infatti, tendono a costruire speranze in un mondo non più biologico ed a porre al centro dei vari culti il concetto di sacrificio: sacrificio, in epoche arcaiche, non solo animale e vegetale, ma anche umano, a favore del divi- no. Il Cristianesimo, con ulteriore lucidità intorno alla condizione umana, poi, ha addirittura capovolto i termini del mistero sacrificale, rovesciando ed integrando il sacrificio umano nei confronto della divinità con il sacrifi- cio divino in favore dell’essere umano. Nell’Eucarestia rivive svelata l’on- tologia del biologico umano e la sua speranza di redenzione, liberazione attraverso il sacrificio del Cristo1. Il fedele cristiano, infatti, beve il sangue 1 “Ma se Cristo ha ripristinato il sacrificio umano e il cibarsi della vittima, questo è accaduto a lui e non a un fratello, perché Cristo ha instaurato la suprema legge           Monismo e dualismo del mondo 37 e mangia il corpo del Redentore; si nutre del divino per sfuggire all’orrore del biologico, per aspirare ad una vita priva di dolore ed eterna in Dio2. Il Cristo dovrebbe risanare la frattura tra divino ed umano, ricostruire il ponte crollato, riportare la riconciliazione e l’unione tra le parti ed il Tutto. La struttura del nostro mondo è stata descritta con estremo realismo da Baruch Spinoza (1632-1677): Per diritto e istituto naturale, non intendo altro che le regole della natura di ciascun individuo, in ordine alle quali concepiamo che ciascuno è naturalmente determinato a esistere e a operare in un certo modo. Così, per esempio, i pesci sono dalla natura determinati a nuotare e i grandi mangiano i più piccoli, onde diciamo che di pieno diritto naturale i pesci sono padroni dell’acqua e i grandi mangiano i più piccoli. È infatti certo che la natura, assolutamente considerata, ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere, e cioè che il diritto della natura si estende fin là dove si estende la sua potenza, essendo la potenza della natura la potenza di Dio, il quale ha pieno diritto ad ogni cosa: ma, poiché la potenza universale dell’intera natura non è se non la potenza complessiva di tutti gli individui, ne segue che ciascun individuo ha pieno diritto a tutto ciò che è in suo potere, ossia che il diritto di ciascuno si estende fin là dove si estende la sua determinata potenza. E, poiché è legge suprema di natura che ciascuna cosa si sforzi di persistere per quanto può nel proprio stato, e ciò non in ragione di altra cosa, ma soltanto di se stessa, ne segue che ciascun individuo ha a pieno diritto, e cioè, come ho detto, ad esistere e a operare così come è naturalmente determinato. E qui noi non riconosciamo alcuna differenza tra gli uomini e tutti gli altri individui della natura, né tra gli uomini dotati di ragione e gli altri che ignorano la vera ragione, né tra i deficienti, i pazzi e i sani. Tutto ciò, infatti, che ciascuna cosa fa secondo le leggi della sua natura, questo fa di pieno diritto, dell’amore, per cui nessuno dei fratelli ne ha riportato danno, ma tutti hanno potuto gioire di questa restituzione. Succedevano le stesse cose dei tempi antichi, ma sotto la legge dell’amore. Per cui, se non hai un profondo rispetto di ciò che è stato compiuto, distruggerai la legge dell’amore. Che cosa quindi accadrà di te? Sarai costretto a ripristinare ciò che c’era prima, ossia atti di violenza, assassini, azioni illecite e disprezzo per il fratello”. C.G. Jung, Il libro rosso. Liber novus, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 225. 2 Il sangue, la carne, il vino, il pane, l’acqua, il cielo sono simboli magici sino dai tempi più antichi: “Se avviene che io sia sopraffatto, quando bevi acqua o mangi pane, l’acqua assumerà il colore del sangue davanti a te, e il pane prenderà davanti a te il colore della carne, e il cielo prenderà davanti a te il colore del sangue. Horo figlio dell’Etiope stabilì dunque questi segni tra sé e la madre; poi si recò in Egitto, essendo pieno di magie”. E. Bresciani (a cura di), Testi religiosi dell’antico Egitto, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001, p. 397. Il testo è ambientato ai tempi del faraone Ramesse II, XIX dinastia, 1293-1190 a. C.. Cfr. anche. J.G. Frazer, La crocifissione del Cristo, Quodlibet, Macerata 2007; S. Peverada, Il sacrificio del Dio Bambino. Edipo e l’essenza del tragico, Mimesis, Milano 2004.           38 Il diritto come estetica in quanto agisce nel modo a cui è determinata dalla natura, né può comportarsi altrimenti3. Non sempre la potenza coincide con la grandezza, come dimostrano i microorganismi, tuttavia il senso di Spinoza è chiaro: ciascuno è per natura se stesso e si comporta secondo la propria natura; la gazzella è gazzella ed il leone è leone (preda e predatore), ma anche l’essere umano è tale ed il pazzo od il criminale altro non sono che una particolare espressione di essere umano. La struttura della natura assegna a ciascuno caratteri ben precisi, tutti equivalenti nell’articolazione molteplice della natura, ma ta- luni dotati di una potenza maggiore di altri ed i più potenti prevalgono sui meno nel breve periodo della conquista del nutrimento, per, poi, comunque soccombere anch’essi sotto i colpi dell’invecchiamento, dell’indebolimen- to, delle malattie e della morte. Ovviamente dietro questa visione si agita un fiero determinismo, di cui ci occuperemo in seguito, per ora interessa notare che la natura non si presenta benigna ai nostri occhi, ma la sua strut- tura ci appare profondamente malevola, matrigna. Questa però è la mera visione propria della prospettiva umana, alla quale manca, come si è detto in precedenza, la prospettiva globale, quella divina, e, soprattutto, è viziata da un ragionare antropocentrico di fronte al Tutto, all’universale. Sarebbe facile ironia sbeffeggiare, dal punto di vista etico, il diritto naturale alla luce dell’empiria del nostro mondo biologico, ma, forse, è proprio la vi- sione etica, che dovrà essere messa in discussione nel rapporto tra visione monista e dualista del reale. In questo senso appaiono particolarmente il- luminanti le parole di Giacomo Leopardi (1798-1837) nel Dialogo della natura e di un islandese: Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di ma- niera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimen- ti in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera di patimento. Islandese. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è di- strutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi pia- ce o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e morte di tutte le cose che lo compongono?4. 3 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Einaudi, Torino 1980, pp. 377-378. 4 G. Leopardi, Operette morali, Rizzoli, Milano 2008, p. 288.           Monismo e dualismo del mondo 39 La visione del mondo di Spinoza e le domande di Leopardi hanno il grande pregio di rappresentare un limpido, inequivocabile e coerente esem- pio di monismo immanentista del reale (Deus sive Natura). Nel pensiero monista non si tratta, per lo più, di eliminare uno dei due termini dell’al- ternativa, ma di ridurli entrambe ad unità, di sintetizzarli entro un unico termine. Tale unico termine può relegare il mondo empirico all’ambito del- la pura illusione (Velo di Maya, espressione con la quale Arthur Schopen- hauer – 1788-1860 – si richiama alla religione induista), all’ambito di un sogno che potrebbe appartenere anche solo al soggetto che lo percepisce; il mondo esterno potrebbe esistere solo nell’esperienza di chi lo vive (sogget- tivismo filosofico: esse est percipi). Spinoza esprime l’indiscutibile merito di unificare il mondo senza sacrificare la sua dimensione empirica, ma am- pliandolo ad un Tutto, che tutto comprende, seppure nell’incertezza di non riuscirne a descrivere ogni specificità, ogni particolarità, ogni individualità. Infatti, poiché la virtù e la potenza di Dio, e le leggi e regole della natura sono i decreti stessi di Dio, si deve senz’altro credere che la potenza della na- tura è infinita e che le sue leggi sono tanto ampie da estendersi a tutte le cose concepite dallo stesso intelletto divino5. L’intelletto umano, ma soprattutto il suo sentimento, di fronte ad uno scenario tanto deludente e tragico della vita si è posto la domanda del senso, del significato di tanto dolore. Poiché nel mondo del percepibile attraverso i sensi non fu, e non lo è tuttora, possibile trovare risposte sod- disfacenti, la ricerca si è avviata verso l’immateriale, verso un reale imma- ginato solo nella mente, ma non soggetto a verifica/falsificazione empirica. L’operazione si è fondata su un modello dualista di negazione del sensibile e di contemporanea affermazione del suo esatto contrario: soffro la morte ed allora affermo l’esistenza della vita eterna, a mero titolo d’esempio. Una approfondita descrizione ed analisi di tale operazione, applicata alla religione ed, in particolare, al Cristianesimo, la si può trovare nell’opera di Ludwig Feuerbach (1804-1872)6. Ragione e fede7 si sono contese questo mondo astratto dell’immagina- rio, che ha duplicato l’universo, spiegando il senso del percepibile senso- rialmente attraverso il non percepibile sensorialmente. 5 B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cit., p. 153. 6 Cfr. L. Feuerbach, L’essenza della religione, Einaudi, Torino 1972; del medesimo Autore, L’essenza del Cristianesimo, Feltrinelli, Milano 1971. 7 Cfr. J. Habermas, Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006.           40 Il diritto come estetica Sul piano razionale sono stati elaborati assiomi, principi primi imme- diatamente evidenti, ma non dimostrabili, concetti a priori, ossia ancora non dimostrabili, ed operazioni logiche, teorie e teoremi, ossia descrizioni di una qualche realtà esistente, validi solo se vengono accolti i presup- posti non empirici, dai quali prendono le mosse. Del resto, è ormai noto dai teoremi di incompletezza di Kurt Gödel (1906-1978), che è possibile definire formule logiche, che negano la propria dimostrabilità, cioè siano autoreferenziate. Si tratta di teoremi di logica, che hanno prodotto notevoli conseguenza in ambito matematico e geometrico, ma che possono essere estesi a qualsiasi sistema formale. Particolarmente significativo ai fini delle riflessioni qui svolte sembra essere il secondo teorema di Gödel, quello relativo alla indimostrabilità di un sistema coerente attraverso la sua stessa coerenza, ossia la coerenza si presenta come una sorta di petitio pricipii (le premesse già contengono ciò che si deve dimostrare) e/o di tautologia (af- fermazione vera per definizione) indimostrabile, appunto. Sull’argomento sono interessanti anche le parole di Bertrand Russell (1872-1970): I grandi scandali della filosofia della scienza sono sempre stati, dopo Hume, la causalità e l’induzione. Ad ambedue tutti ci crediamo, ma Hume mostrò che la nostra credenza è una fede cieca che non poggia su alcuna prova raziona- le. [...]. Se noi sottolineiamo il fatto che la nostra credenza nella causalità e nell’induzione è irrazionale, dobbiamo inferire che non sappiamo se la scienza sia vera, e che da un momento all’altro essa potrebbe anche cessare di darci quel controllo sul nostro ambiente per amor del quale essa ci piace8. La ragione, dunque, duplica il mondo secondo il modello proprio di René Descartes tra res extensa e res cogitans: la prima riferibile ai cor- pi fisici e la seconda al pensiero dell’essere umano. La distinzione pare speculare a quella tra materia e spirito, ma ne diverge perché, mentre la distinzione cartesiana potrebbe sussistere anche all’interno di un sistema immanentista monistico, tutto incentrato sull’essere umano come modello di unificazione, nel quale i due termini tendano rispettivamente ad identifi- carsi con l’alternativa concreto/astratto, la separazione tra materia e spirito, invece, è per necessità dualista, in quanto le due realtà si escludono vicen- devolmente come espressione di mondi diversi: fisico e metafisico. Martin Heidegger (1899-1976) va oltre nella critica e sottolinea come Descartes dualizzi il mondo, presupponendo, ma non dimostrando, il trascendente: 8 B. Russell, Saggi scettici, Longanesi &C, Milano 1975, pp. 37-38.           Monismo e dualismo del mondo 41 Cartesio non si fa offrire il modo d’essere dell’ente intramondano da questo ente, bensì, in base a un’idea di essere non disoccultata nella sua origine e non dimostrata nel suo diritto (essere = esser-stabilmente-sottomano), prescrive per così dire al mondo il suo essere autentico. Non è dunque primariamente il ricor- so a una scienza, guarda caso particolarmente apprezzata, come la matematica, a determinare l’ontologia del mondo, bensì l’orientazione fondamentalmente ontologica verso l’essere inteso come esser-stabilmente-sottomano, alla quale la conoscenza matematica soddisfa in modo eccezionale. Cartesio opera così filosoficamente in modo esplicito la commutazione degli esiti dell’ontologia tradizionale sulla fisica matematica moderna e sui suoi fondamenti trascen- dentali9. Del resto anche Werner Heisenberg (1901-1976) rileva la problematici- tà euristica della divisione cartesiana soprattutto alla luce del principio di indeterminazione. In realtà non erano in gioco soltanto degli esperimenti fisici, ma autentiche posizioni filosofiche. Qui la vecchia concezione, radicata fin da Cartesio, del- la divisione tra un mondo oggettivo, svolgentesi nello spazio e nel tempo, e un’anima da esso separata, in cui esso si rispecchia, entrava in conflitto con le nuove vedute, alla cui luce non era più possibile compiere quella divisione nel rudimentale modo precedente10. Oltre la ragione, meglio, prescindendo dalla ragione, però, si è presenta- ta all’essere umano, come via d’uscita dalla sua malasorte e dalle incertez- ze del quotidiano vivere anche un altro strumento mentale: la fede, spesso interpretata più come un dono divino che come una conquista personale11. Nell’ambito della fede il campo sembra apparentemente occupato in modo completo dalle religioni, ma non è possibile tacere che anche talune con- vinzioni filosofiche (paradosso di Zenone, negazione del divenire di Ema- nuele Severino) od anche scientifiche (teoria delle stringhe, delle brane, 9 M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2011, p. 143. 10 W. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, Sellerio Editore, Palermo 1999, p. 95. 11 “La fede essenzialmente una negazione implicita o violenta di una realtà o della realtà. La realtà è per tutti una prigione: ma, fortunatamente, una prigione male custodita. Ora, la fede insegna a negare queste muraglie, insegna il modo di fuggirle, ecc. La scienza è invece una affermazione di questa realtà; il modo che essa ci insegna di liberarci della realtà è appunto quello di affermare la realtà. La fede invece vuole insegnarci a fuggire la realtà, insegnando a negarla. La scienza appare come superiore alla fede, appunto perché essa è una liberazione dalla negazione”. A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teorici 1925 -1981, Marsilio, Venezia 1989, p. 5.           42 Il diritto come estetica degli universi paralleli e multidimensionali) sono sorrette più da dogmi, da assiomi logici, da teorie indimostrabili e da convinzioni personali che da prove empiriche. Esempio tipico di dualismo è rappresentato dal sistema filosofico di Pla- tone (428 a.C.-348 a.C.). Il mondo empirico si presenta come l’ombra di una realtà metafisica ideale, nella quale la perfezione dei modelli informa di sé le copie degradate della realtà in cui vive l’essere umano. Gli arche- tipi, le idee delle qualità e degli Enti emanano perfezione, immutabilità ed eternità e sono questi a presentarsi come la vera ontologia del mondo, che nelle forme terrene manifesta tutta la propria imperfezione e provvisorie- tà. Il mondo fisico, come brutta copia del mondo iperuranico, metafisico, spirituale, privo di spazio e di tempo, posto oltre la volta celeste e sede delle idee, produce una duplicazione consolatoria, sottraendo il concetto di verità alla percezione dei sensi ed attribuendolo all’elaborazione razionale. Questo sopraceleste sito nessuno dei poeti di quaggiù ha cantato, né mai canterà degnamente. Ma questo ne è il modo, perché bisogna pure avere il co- raggio di dire la verità soprattutto quando il discorso riguarda la verità stessa. In questo sito dimora quella essenza incolore, informe ed intangibile, contem- plabile solo dall’intelletto, pilota dell’anima, quella essenza che è scaturigi- ne della vera scienza. Ora il pensiero divino è nutrito d’intelligenza e di pura scienza, così anche il pensiero di ogni altra anima cui prema di attingere ciò che le è proprio; per cui, quando finalmente esso mira l’essere, ne gode, e con- templando la verità si nutre e sta bene, fino a che la rivoluzione circolare non riconduca l’anima al medesimo punto. Durante questo periplo essa contempla la giustizia in sé, vede la temperanza, e contempla la scienza, ma non quella che è legata al divenire, né quella che varia nei diversi enti che noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che è nell’essere che veramente è12. Il mito della caverna e delle sue ombre, proiettate sulla roccia, descrive una conoscenza limitata, tutta ed esclusivamente umana, che può presen- tarsi completa solo nel momento in cui riesce ad uscire all’aperto e con- quistare la luce delle idee pure: una conoscenza, dunque, non empirica è quella sostenuta da Platone, poiché quest’ultima altro non sarebbe che una falsa conoscenza. Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce [...], pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciul- li, incatenati gambe e collo, [...]. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d‘un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa 12 Platone, Fedro, in Tutto Platone, Laterza, Bari 1967, vol. I, p. 755.           Monismo e dualismo del mondo 43 pensa di vedere costruito un murricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. [...]. Immagina di vedere uomini che portano lungo il murricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, [...]. Strana immagine è la tua, disse, e strani sono questi prigionieri. – Somigliano a noi, risposi; credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuo- co sulla parete della caverna che sta loro di fronte?13. Come si è già fatto cenno, il pensiero religioso presuppone già di per se stesso un dualismo del reale: la realtà divina crea la realtà umana ed esse vivono separate nella costante tensione di quest’ultima verso la prima: il ritorno alla casa del Padre. Esempio particolarmente significativo in questo senso è il pensiero gnostico. Sono molteplici le correnti gnostiche, alcune risalgono al mondo antico ed altre fioriscono nell’alveo del Cristianesimo, ma comunque tutte hanno in comune alcuni caratteri identificativi. In pri- mo luogo, il mondo umano rappresenta un degrado rispetto a quello divino. In secondo luogo, lo spirito, la scintilla divina che alberga in ciascun essere umano è racchiusa, come in una prigione, dal corpo fisico, ossia nella ma- teria. In terzo luogo, è aspirazione comune di tutte le scintille racchiuse nei corpi umani di risalire al cielo per ricongiungersi con la perfezione eterna del divino. La dottrina di Simon Mago (I secolo d.C.), descritta con spirito critico cristiano da Ireneo (130 d.C.-202 d.C.) sembra particolarmente utile per rilevare gli elementi gnostici più caratterizzanti di questo pensiero: Se infatti alcuni caratteri presentano chiara impronta gnostica (ostilità degli angeli [= arconti] verso Dio e verso l’uomo, imprigionamento dell’elemento divino nel corpo umano), altri sembrano estranei a questa esperienza: diviniz- zazione di Simone, cioè del capostipite della setta, e di Elena, e la loro pretesa immortalità; mancanza di una specifica colpa che spieghi l’imprigionamento dell’elemento divino nel corpo; redenzione del credente solo grazie alla cono- scenza della natura divina di Simone, mentre nell’esperienza gnostica è fon- damentale il riconoscimento dell’elemento divino che ogni gnostico reca in sé; assenza del Demiurgo, creatore del mondo, e della componente giudaica in genere: il personaggio femminile non è Sophia ma ha nomi greci, Ennoia ed Elena. Anche tenuto conto che la notizia di Ireneo presenta una dottrina che appare influenzata da tratti tipicamente cristiani e perciò non è di facile apprezzamento, si ha l’impressione che con Simone siamo sulla via che porta allo gnosticismo vero e proprio, senza esserci ancora giunti14. 13 Platone, Repubblica, in Tutto Platone, cit., vol. II, p. 339. 14 M. Simonetti (a cura di), Testi Gnostici in lingua greca e latina, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2001, pp. 6-7.           44 Il diritto come estetica Ovviamente anche il Cristianesimo dualizza il mondo nell’attesa di una sua riunificazione alla fine dei tempi. Il non senso del mondo empirico cer- ca, dunque, spiegazione in un dualismo astratto, ma non per questo meno probabile del monismo empirico o soggettivistico. Comunque se i dualismi concreto/astratto e fisico/metafisico rappresentano probabilmente l’origine del concetto stesso di dualismo del reale, molti altri dualismi percorrono sia le visioni dualiste che moniste del mondo. Si pensi alle coppie luce/tenebre, finito/infinito, eternità/tempo, perfetto/ imperfetto, che per il loro stesso carattere simbolico aprono le porte alla via metafisica, poiché in esse è già insito, sottointeso un mondo migliore che si contrappone ad uno peggiore, ma anche la coppia vita/morte prepara a problematiche di rottura o di continuità dell’essere umano, ossia ancora a problematiche filosofiche e religiose. Del resto, è la stessa razionalità nu- merica, che indica il nascere del dualismo con la presenza del numero due dopo il numero uno; tale presenza consente l’emergere di tutti gli altri nu- meri ed, in effetti, rotta l’unicità dell’Essere, il dualismo muta rapidamente in pluralismo e nel mondo empirico prende il via il divenire e lo scorrere del tempo; lo si è già visto in precedenza nella vicenda gnoseologica del Giardino dell’Eden. Tra i molti dualismi esistenti, alcuni appena ricordati, ne emerge uno particolarmente significativo, poiché favorisce la dualizzazione del reale, sebbene venga generalmente considerato di natura metodologica e non on- tologica, quello tra giudizi di fatto e giudizi di valore15. Si tratta della nota Grande Divisione di David Hume (1771-1776), nella quale si distingue ciò che può essere predicato di falsità o di verità attraverso la verifica empirica, sono i soli giudizi di fatto, e ciò che può essere predicato di buono o di cat- tivo, di giusto o di ingiusto, di bello o di brutto, in quanto non sottoponibile a verifica empirica, sono i giudizi di valore. Il dualismo immediatamente evidente tra oggettività empirica e soggettività umana, nasconde un altro dualismo ben più rilevante per la visione dualistica del reale, quello tra valori relativi e valori assoluti; infatti questi ultimi non possono che pre- supporre per avere senso nella loro indiscutibile veridicità una dimensione a sua volta assoluta, alla quale essi appartengono. Tale dimensione può essere anche meramente razionale, ma più frequentemente ha natura tra- scendente e religiosa. Immanuel Kant (1724-1804), infatti, accanto ad una ragion pura e pratica pone anche una dimensione noumenica. 15 M.L. Ghezzi, La distinción entre hechos y valores en el pensamiento de Norberto Bobbio, Universidad Externado de Colombia, Bogotá 2007.           Monismo e dualismo del mondo 45 Nell’antinomia della ragion pura speculativa si trova un contrasto simile [impossibilità del sommo bene secondo regole pratiche e, quindi fantasiosità ed inutilità della legge morale, n.d.r.] fra necessità naturale, e libertà nella cau- salità degli eventi del mondo. Esso fu tolto col dimostrare che non c’è un vero contrasto se gli eventi, ed anche il mondo in cui essi avvengono, si considerano (come appunto si deve fare) soltanto quali fenomeni; perché un solo e mede- simo essere, agente come fenomeno (anche davanti al proprio senso interno), ha una causalità nel mondo sensibile, che è sempre conforme al meccanismo naturale; ma rispetto allo stesso evento, in quanto la persona agente si consideri nello stesso tempo come noumeno (come intelligenza pura, nella sua esistenza non determinabile secondo il tempo), può contenere un motivo determinante di quella causalità secondo leggi naturali, libero esso stesso da ogni legge na- turale16. I valori assoluti conducono direttamente nel mondo divino dell’igno- to, del noumenico, appunto17, mentre quelli relativi si situano nel giudizio morale dell’individuo umano, che tuttavia, può essere a sua volta conside- rato come una entità noumenica. Questi ultimi, dunque, rivelano immedia- tamente la propria natura soggettiva, ossia legata al pensiero del singolo essere umano, che solo una ottimistica visione illuminista può reputare espressione di una razionalità universale e, quindi, omogenea. Il sogget- tivismo valoriale apre la strada al nichilismo, ma di ciò si dirà più oltre, per ora bisogna meglio comprendere la distinzione posta alla base della separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore. Per quanto riguarda i giudizi di fatto il problema si presenta di sempli- ce soluzione, giacché possono definirsi tali solo quei giudizi sostenuti da percezione empirica. Ovviamente esistono delle difficoltà anche sulla stra- da dell’empiria, poiché sempre di giudizi trattasi, ossia di percezioni sog- gettive filtrate attraverso la struttura categoriale propria della conoscenza umana, che possiede almeno due caratteri limitanti la presunta oggettività esterna al soggetto: quello biologico, anatomico, e quello culturale. Potreb- be sussistere anche un terzo limite, quello psicologico, se si attribuisce una propria autonomia individuale o collettiva alla mente come entità separata dal cervello. Si pensi alla distinzione tra conscio, inconscio ed inconscio 16 I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari1972, pp. 139-140. 17 “[...] la realtà oggettiva della legge morale non può esser dimostrata mediante nessuna deduzione, nonostante ogni sforzo della ragion teoretica, speculativa o sostenuta empiricamente; e quindi, se anche si volesse rinunziare alla conoscenza apodittica, quella realtà non potrebbe venire confermata mediante l’esperienza e così dimostrata a posteriori; e tuttavia essa è stabile per se stessa”. I. Kant, op. cit., p. 59.           46 Il diritto come estetica collettivo18. Una ulteriore difficoltà è data dai limiti assoluti, non categoria- li, della percezione umana: le unità di misura di Max Planck (1858-1947) ed, in particolare, il tempo (tp), la lunghezza (lp) e la massa (mp) di Planck costituiscono l’attuale, e, forse, definitivo limite di rilevazione empirica, al di sotto del quale è impossibile o, ancora forse, anche privo di significato procedere19. Riguardo ai giudizi di valore si presenta qualche ulteriore difficoltà. Tra- lasciando i valori assoluti, in quanto appartenenti ad un mondo separato da quello umano, ad un mondo umano assolutizzato o all’individuo sempre assolutizzato, pare opportuno soffermarsi sulla natura dei giudizi di valore relativi, soggettivi. Questi ultimi generalmente vengono identificati come un dover essere, ma cosa significa dover essere a livello del singolo sogget- to? Parrebbe un impegno inderogabile, morale, non motivato da particolari interessi personali. Eppure la scelta di un qualche sistema etico e dei suoi 18 “[...] l’incosciente razionalmente comprensibile [...] consiste per così dire di materiali artificialmente incoscienti, è solo uno strato superficiale, e [...] sotto di questo vi è ancora un incosciente assoluto, che non ha nulla a che fare colla nostra personale esperienza, che dunque sarebbe un’attività psichica autonoma, opposta all’anima cosciente e perfino agli strati superiori dell’incosciente, non tocca – e forse non toccabile – dall’esperienza personale, una specie di attività psichica superindividuale, un incosciente collettivo, come io l’ho chiamato, in contrapposto con un incosciente superficiale, relativo o personale”. Cfr. C.G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna, Einaudi, Torino 1971, p. 111. 19 “[...] la gravità quantistica è proprio la scoperta che non esistono punti infinitamente piccoli. Esiste un limite inferiore alla divisibilità dello spazio. L’Universo non può essere più piccolo della scala di Planck, perché non esiste nulla che sia più piccolo della scala di Planck”. C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare della cosa, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, p. 201. “Analogamente a come, secondo la teoria della relatività, non si può parlare in modo sensato di velocità il cui valore superi quello della velocità della luce, così non si può nemmeno parlare sensatamente di una indicazione di posizione la cui imprecisione sia inferiore al valore di 0,5. 1013 cm”. W. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, cit., p. 103. Ed ancora: “Se partiamo dall’idea che le leggi della natura contengono realmente una terza costante universale nella dimensione della lunghezza, e dell’ordine di 1013 cm, allora dovremmo aspettarci di poter applicare i nostri concetti usuali soltanto a regioni dello spazio e del tempo che siano grandi rispetto alla costante universale. E dovremmo attenderci fenomeni di un carattere qualitativamente diverso quando nei nostri esperimenti ci avviciniamo a regioni nello spazio e nel tempo più piccole dei raggi nucleari. Il fenomeno dell’inversione temporale, di cui si è discusso e che, fin qui, è risultato soltanto da considerazioni teoriche come una possibilità matematica, potrebbe perciò appartenere a queste minimissime regioni”. W. Heisenberg, Fisica e filosofia, il Saggiatore, Milano 2015, p. 165.           Monismo e dualismo del mondo 47 valori scaturisce da preferenze personali, legate all’ambiente in cui il sog- getto è stato educato e/o vive (consuetudinarietà del comportamento, etc.) e dalle proprie individuali attitudini (propensioni caratteriali, gusti, etc.), non certo da timore di ricevere punizioni o dal desiderio di ottenere utilità di qualche tipo per se stesso o per qualcun altro, poiché, in tale caso, non si sarebbe in presenza di un dover essere morale. Dunque, in concreto il dover essere consiste in una scelta comportamentale, che appaga il sog- getto agente almeno da un punto di vista morale. Potrebbe, infatti, in esso sussistere un conflitto tra un appagamento contrario al dover essere morale e l’appagamento dell’ottemperanza al medesimo. Ovviamente il conflitto interiore si risolverà in favore dell’appagamento più forte, della tensione emotiva più potente. Ma se di appagamento si tratta, il concetto di dover essere non presenta alcuna propria autonomia di significato, poiché si iden- tifica semplicemente con il concetto più immediatamente verificabile in via empirica di mi piace. Del resto, è lo stesso Kant a fornire indicazioni in questa direzione: Invero, ogni inclinazione e ogni impulso sensibile sono fondati sul senti- mento, e l’effetto negativo sul sentimento (mediante il danno che avviene alle inclinazioni) è anche sentimento. Quindi possiamo vedere a priori che la legge morale, come motivo determinante della volontà, perché reca danno a tutte le nostre inclinazioni, deve produrre un sentimento che può esser chiamato dolore; e qui ora abbiamo il primo, e forse anche l’ultimo caso nel quale, con i concetti a priori, possiamo determinare la relazione di una conoscenza (qui è conoscenza di una ragion pura pratica) col sentimento del piacere o del di- spiacere20. Il dover essere altro, dunque, non è che un mi piace, nobilitato dall’es- sere riferito ad una forza od ad una entità esterna al soggetto. Si riferisce la propria scelta ad un obbligo inderogabile esterno, radicato nella trascen- denza della ragione, del metafisico o del divino. Si sdoppia il mondo per dare oggettività anche alle scelte soggettive ed, in tale modo, tranquilliz- zare se stessi della bontà della propria opzione e presentare agli altri tale opzione non come un arbitrio, un capriccio personale, ma come una ogget- tiva necessità etica, come un comando eteronomo irresistibile, in quanto doveroso, a pena di riprovazione, disonore, colpa, peccato, rimorso, etc.. Esempio tipico di questo processo è il concetto di obiezione di coscien- za, proprio di taluni ordinamenti giuridici, che con tale motivazione esen- tano alcune persone dal tenere, in una data situazione, il comportamento 20 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 90.           48 Il diritto come estetica prescritto per legge, ma contrario ai convincimenti etici delle medesime. Ciò spiega anche il tentativo di taluni autori21, che comunemente dai divi- sionisti viene definito con l’espressione fallacia naturalistica, di superare la Grande Divisione di Hume, unificando i due termini, fatti e valori, in un’unica entità di natura oggettiva. In questo modo tutti i valori divengono assoluti, gli uni perché trascendenti e gli altri perché immanenti ed empi- ricamente verificabili; l’essere soppianta il dover essere, ma quest’ultimo, sotto le sembianze dell’essere, mantiene la propria funzione di guida delle azioni umane e di giudizio morale. Un tale passaggio diviene impossibile se si prende atto che il concetto di devo coincide, semplicemente si identifi- ca, con quello di mi piace. Del resto, è Hume steso ad indicare questa come la vera e profonda natura del dover essere: Ora, niente accomuna il bello naturale e morale (entrambi causa di orgo- glio), se non questo potere di produrre piacere22. Il piacere, quindi, è all’origine del dover essere, ma, se questa è l’ori- gine, pare opportuno riportare un po’ di ordine nel vocabolario e chiama- re i concetti col proprio nome senza tentativi di mistificazione. L’etica, la morale, ma anche il diritto altro non sono che articolazioni specialistiche dell’estetica; talune diversità le distinguono, ma, in ultima analisi, sono semplicemente espressioni estetiche del soggetto agente. Inoltre questa de- mistificazione non solo opera favorevolmente sul piano pratico, in quanto, svelando la natura estetica, ossia soggettiva e relativa delle scelte umane, ne mina anche l’arroganza integralista ed intollerante, ma consente anche una migliore utilizzazione metodologica della Grande Divisione. Infatti, sostituire ai dualismi buono/cattivo, giusto/ingiusto il dualismo bello/brut- to significa conservare l’elemento soggettivo del giudizio, anzi rafforzar- lo, ed inoltre radicarlo anche in una realtà umana individuale o sociale empiricamente analizzabile. Si apre in questo modo la strada allo studio delle strutture motivazionali dei soggetti, alle psicologie individuali, all’e- ducazione, alla cultura ed alle tradizioni. Tolti i valori dall’empireo della razionalità astratta, della religione, della metafisica e ricollocati, come en- tità estetiche, all’interno del soggetto agente e della società cui appartiene, divengono fondamentali gli studi psicologici, antropologici e sociologici per spiegare le scelte comportamentali. Il dualismo della Grande Divisione permane, ma non necessità più di giustificazioni non empiriche (almeno in 21 Cfr. G. Carcaterra, Il problema della fallacia naturalistica. La derivazione del dover essere dall’essere, Giuffrè, Milano 1969. 22 D. Hume, Trattato sulla natura umana, Bompiani, Milano 2001, p. 599.           Monismo e dualismo del mondo 49 uno dei suoi due termini) e non produce più neppure quello sdoppiamento del mondo, che faceva sospettare una sua natura ontologica, e non mera- mente metodologica, proprio per l’ambiguità oggettiva/soggettiva del do- ver essere, dei giudizi di valore. La Grande Divisione, nella versione essere – mi piace/non mi piace l’essere, giudizi di fatto e giudizi di estetica, riesce a separare, a distinguere con chiarezza il primo temine come oggettivo ed il secondo come soggettivo; ossia, il primo, come empiricamente sussi- stente all’esterno del soggetto giudicante ed, il secondo, empiricamente sussistente all’interno del medesimo soggetto; ovviamente la prova empi- rica dell’esistenza e della qualità di quest’ultimo giudizio consisterà, sarà data proprio dalla espressione, dalla manifestazione di piacere o di dolore esternata del soggetto. Alla luce di quanto detto sino a questo punto pare chiaro che non esi- stano dimostrazioni affidabili per propendere decisamente a favore della tesi di una realtà monista o di una realtà dualista; d’altronde non è logico pretendere una dimostrazione empirica dell’esistenza di un mondo che, per definizione, non è empirico, né l’affermazione che il mondo empirico sia l’unica realtà esistente, in quanto verificabile empiricamente, può essere considerata qualche cosa di diverso da una tautologia. Forse, l’ontologia del mondo è e non è monista; è e non è dualista, ma oscillano e coesistono contemporaneamente entrambe le realtà, come sembra suggerire la fisica subatomica con la coppia particella/onda ed ancor più con l’equazione, già ricordata, di Albert Einstein E=mc2, nella quale energia e massa sembrano essere due aspetti della medesima realtà, come potrebbero essere anche spirito e materia. Anche in questo contesto appare significativo il fatto che, secondo la mec- canica quantistica, la conservazione dell’energia da un lato, che esprime la sua esistenza atemporale, e il manifestarsi dell’energia nello spazio e nel tempo dall’altro sono due aspetti opposti (complementari) della realtà. In verità, essi sono sempre compresenti, ma in concreto ora l’uno ora l’altro esplicano la loro azione in modo predominante23. La riflessione di Wolfgang Pauli (1900-1958), sopra riportata, apre la strada ad una visione non più oggettivizzata in modo statico del reale, ma, bensì, oscillante in modo instabile, con frequenze diverse, sia in se stessa, sia tra soggetto ed oggetto24. Se il mondo non fosse un fatto, ma una mera 23 W. Pauli, Psiche e natura, Adelphi, Milano 2006, pp. 36-37. 24 “Laddove il vecchio tipo di spiegazione della natura, partendo dal presupposto di un osservatore indipendente, assumeva un decorso totalmente determinato dei           50 Il diritto come estetica possibilità oscillante continuamente a pendolo tra dualismi indissolubili tra loro, quali soggetto/oggetto, determinato/indeterminato, assoluto/relativo, visibile/invisibile, finito/infinito, etc., allora neppure una logica dialettica potrebbe rendere ragione degli eventi, poiché mancherebbe comunque il momento di sintesi. Si aprirebbe, invece, una finestra su una visione del mondo instabile, in pendolare mutazione perenne. Una sorta di metamor- fosi continua, come nell’opera poetica di Publio Ovidio Nasone (43 a.C. – 18 d.C.): Vi sono creature, o grandissimo eroe, il cui aspetto fu trasformato una sola volta e per sempre rimase in questa trasformazione; ve ne sono altre, a cui è data facoltà di mutarsi in più aspetti, come a te, o Proteo, abitatore del mare che circonda la terra. Ti videro, infatti, ora quale giovane, ora quale leone; ades- so eri irruente cinghiale, adesso un serpente, al cui contatto si provava paura; alcune volte le corna ti fecero toro, spesso riuscivi ad apparire pietra e spesso anche albero; talvolta, assumendo l’aspetto di acque fluenti, eri fiume; talvolta, l’opposto delle acque, fuoco25. Ovviamente ad una tale visione si accompagnerebbero inevitabilmente le domande intorno alla illimitata variazione delle metamorfosi o alla loro natura evolutiva o non evolutiva oppure, ancora, alla loro ripetitività cicli- ca secondo il principio dell’eterno ritorno di nietzschiana memoria. Forse, il futuro ci riserva la necessità di una profonda revisione dei no- stri processi logici, ad iniziare dal principio stesso di identità. Per ora basti prendere atto almeno di quanto la conoscenza scientifica ha ormai empiri- camente appurato: Con l’aiuto di queste particelle [particelle α] Rutherford riuscì nel 1919, a trasmutare nuclei di elementi leggeri; poté, per esempio, trasformare un nucleo di azoto in un nucleo di ossigeno aggiungendo la particella α al nucleo d’azoto ed espellendone nello stesso tempo un protone. Fu questo il primo esempio di processi su scala nucleare che ricordassero quelli dei processi chimici ma con- dussero alla trasmutazione artificiale degli elementi. Il successivo sostanziale fenomeni naturali, la fisica odierna è giunta a un nuovo tipo di spiegazione della natura: è il caso cieco, privo di finalità, la probabilità primaria che non può essere ricondotta a leggi deterministiche. Secondo questa concezione la probabilità primaria appare legata in modo essenziale al fatto che l’osservatore influenza i fenomeni attraverso la scelta del dispositivo sperimentale, dal momento che la misurazione comporta per legge di natura interazioni incontrollabili con l’oggetto da misurare. Questa concezione sottolinea quindi con forza l’elemento della libertà nei processi naturali”. W. Pauli, op. cit., p. 163. 25 Ovidio, Le metamorfosi, Bompiani, Milano 1992, vol. I, p. 453.           Monismo e dualismo del mondo 51 progresso fu, come è ben noto, l’accelerazione artificiale dei protoni per mezzo di congegni ad alta tensione ad energie sufficienti a produrre la trasmutazione nucleare. Erano necessari a questo scopo voltaggi di circa un milione di volt, e Cockcroft e Walton riuscirono nel loro esperimento decisivo a trasmutare nuclei dell’elemento litio in quelli dell’elemento elio26. Il sogno antico degli alchimisti diviene sempre più reale, contempora- neamente, le forme si presentano oscillanti non solo a livello di particella e di onda, appaiono sempre meno stabili e l’energia sembra giuocare contro il principio d’identità.Il tema del libero arbitrio e del suo corrispondente opposto, il servo ar- bitrio, tormenta da sempre, con un dubbio sino ad ora irrisolto, i pensieri dell’essere umano e percorre tutta la storia della filosofia1. Senza presun- zione di poter risolvere tale dubbio, conviene tuttavia, per affrontare l’ar- gomento con sufficiente chiarezza, tentare qualche definizione e qualche precisazione intorno ai concetti in discussione. In via preliminare, dunque, pare opportuno prendere le mosse dal noto confronto storico tra Erasmo da Rotterdam (1466-1536) e Martin Lutero (1483-1546), rispettivamente sostenitori, il primo, dell’esistenza del libero arbitrio ed, il secondo, della sua negazione. Erasmo formula una precisa definizione di libero arbitrio: [...] noi qui definiremo il libero arbitrio come un potere della volontà umana in virtù del quale l’uomo può sia applicarsi a tutto ciò che lo conduce all’eterna salvezza, sia, al contrario, allontanarsene2. La contestazione di Lutero non si fa attendere ed è completamente in- centrata sulla salvezza operata esclusivamente dalla Grazia di Dio e non conquistata attraverso le opere umane:  1 2 Innanzitutto Dio è onnipotente non solo per il suo potere ma anche per la sua azione, altrimenti sarebbe un Dio ridicolo. In secondo luogo sa tutto e prevede tutto, perciò non può né errare né fallire. Se il nostro cuore e la nostra intelli- genza approvano pienamente questi due punti, siamo obbligati ad ammettere, per una conseguenza ineluttabile, che non siamo stati creati per nostra volontà, ma per necessità; e perciò non facciamo ciò che ci piace in virtù del nostro Cfr. M. De Caro, M. Mori, E. Spinelli (a cura di), Libero arbitrio. Storia di una controversia filosofica, Carocci Editore, Roma 2014. E. da Rotterdam, Saggio o discussione sul libero arbitrio, in F. De Michelis Pintacuda (a cura di), Libero arbitrio. Servo arbitrio, cit., p. 57.          54 Il diritto come estetica libero arbitrio, ma ciò che Dio ha previsto da ogni eternità e che fa accadere secondo il suo proponimento e il suo potere infallibili ed immutabili3. Sia Erasmo che Lutero incentrano la questione intorno alla salvezza spi- rituale ed alla Grazia di Dio, ossia si muovono in ambito religioso, teolo- gico, tuttavia, mutando i nomi e sostituendo al nome Dio quello di Natura, di scienza, di necessità causale, di assenza del divenire o di inesistenza del tempo, i termini del problema non variano e continuano a contrapporsi, anche se mascherate in Erasmo da formule religiose di stile, proprie dell’e- poca, per evitare conseguenze repressive, le due medesime posizioni: il monismo umano ed il dualismo divino. Mentre per Erasmo l’essere umano può conoscere e decidere il proprio agire, per Lutero, invece, la conoscenza non implica anche la volontà, la scelta. Una definizione estesa di libero arbitrio potrebbe essere la seguente: es- sere soggetto autoreferenziato, cioè giustificato nella propria esistenza da se stesso; autonomo, ossia legislatore in proprio delle proprie regole di vita, e detentore di una possibilità di volere e di agire incondizionata da fattori esterni al soggetto medesimo. L’autoreferenzialità risponde all’esigenza di fornire un’origine ed un senso in proprio della vita del soggetto. L’autono- mia esprime il rifiuto di regole non condivise, provenienti da altri soggetti (eteronomia). La libertà di volere e di agire intende descrive l’inesistenza di condizionamenti sia psichici, mentali, sia fisici. La definizione deve per necessità presentarsi radicale ed estrema, poiché nell’alternativa libero o sevo arbitrio sembra impossibile prendere in considerazione posizioni in- termedie, per così dire, moderate, in quanto o la libertà c’è o non c’è, una libertà limitata corrisponde ad una non libertà, sicuramente almeno rispetto ai limiti posti, ma anche in generale, poiché lede un principio, la libertà, che, per la salvaguardia della dignità umana, non può che essere assoluto, come è assoluto il soggetto individuale, unico ed irripetibile. Del resto, l’assolutezza empirica del soggetto individuale è chiaramente palesata dal fatto che è solo su di esso che si fonda ogni conoscenza del mondo ed è da esso che si manifesta qualsiasi forma di azione, ogni agire. Naturalmente per soggetto individuale non si intende esclusivamente l’essere umano, ma qualsiasi entità esistente, capace in qualche modo di conoscere ed agire (minerali, piante, animali, entità non visibili,...?). La definizione sopra illustrata parrebbe far propendere, alla luce della percezione empirica del nostro esistere, per l’inesistenza del libero arbi- 3 M. Lutero, Commento di Martin Lutero al saggio di Erasmo, in F. De Michelis Pintacuda (a cura di), op. cit., p. 158.           De libero o de servo arbitrio? 55 trio. Infatti, l’essere umano è condizionato dal suo stesso vivere entro una forma, una realtà corporea da lui non scelta, ad esempio non possiede ali per volare, può non apprezzare il proprio aspetto fisico, rendersi conto di non possedere talune abilità intellettive (difficoltà di apprendimento, scar- sa fantasia, etc.) o funzionali (carenza di arti, difficoltà respiratorie, aller- gie, etc.), etc., e l’elenco, è bene ricordarlo, si presenta come meramente esemplificativo. Ma un colpo ancora maggiore alla libertà umana è dato dall’impossibilità di scelta di quando, dove, da chi e se nascere, con il conseguente condizionamento dato dall’ereditarietà del patrimonio gene- tico e dalla casualità della condizione sociale dei genitori, inoltre neppure il momento della propria morte è frutto di libera scelta (salvo il suicidio, forse). Naturalmente tutto ciò alla sola luce della conoscenza umana, che non può escludere qualsiasi cosa si possa immaginare nella duplicazione metafisica del mondo, anche la libera scelta di nascere, si pensi alla dottrina della reincarnazione e della metempsicosi, operanti nel pitagorismo, nel mito platonico di Er, in talune sette gnostiche, nell’Induismo, nel Buddi- smo, etc.4. Comunque, empiricamente parlando, le uniche certezze che si presentano riguardano la nostra forma, il nostro inizio e la nostra fine5. Sia 4 “Secondo costoro, che appartengono alla setta cui la ragione è più amica [aristotelici], le anime beate, liberate da ogni contaminazione materiale possiedono il cielo. Ma quelle che, sotto l’effetto di un segreto desiderio, da quella dimora vertiginosa e da quella luce perpetua hanno gettato uno sguardo in basso verso i corpi e verso ciò che chiamano quaggiù la vita si sono a poco a poco trascinate verso le regioni inferiori, per il solo peso di questo pensiero terreno. Quando abbandona lo stato di perfetta immaterialità, questa vestizione del corpo fangoso non è tuttavia, per l’anima, improvvisa, ma graduale, ed essa si impoverisce impercettibilmente e con lento degrado dalla sua purezza uniforme e assoluta, mentre s’ingrossa con certi accrescimenti di sostanza siderale. Infatti, in ciascuna delle sfere situate al di sotto del cielo, l’anima si riveste di un involucro etereo, di modo che attraverso tali involucri si adatta, progressivamente, ad unirsi a questo nostro rivestimento di sostanza terrena e pertanto, per un numero di morti pari a quello delle sfere che attraversa, l’anima perviene a quello stato che quaggiù in terra è chiamato vita”. A.T. Macrobio, Commento al sogno di Scipione, Bompiani,, Milano 2007, pp. 331-333. 5 “I mortali sono gli uomini. Essi si chiamano i mortali perché possono morire. Morire significa essere capaci di morte in quanto morte. Soltanto l’uomo muore. L’animale cessa di vivere (verendet). Esso non ha la morte in quanto morte né davanti a sé né dietro di sé. La morte è lo scrigno del nulla, vale a dire di ciò che sotto tutti gli aspetti non è mai qualcosa di meramente essente, ma che, nondimeno, è essenzialmente in quanto l’essere stesso. In quanto scrigno del nulla, la morte è il riparo nascosto (Gebirg) dell’essere. Chiamiamo ora i mortali i mortali, non perché la loro vita terrena cessi, bensì perché sono capaci di morte, essendo essenzialmente nel riparo nascosto dell’essere. Essi sono il rapporto           56 Il diritto come estetica lecito il paragone, siamo come una entità di forma predeterminata, che, nel percorso della sua caduta dall’ultimo piano di un grattacielo al marciapie- de sottostante, pensa di essere libera di poter fare ciò che vuole. Ma esiste veramente questa libertà lungo il tragitto della caduta (vita)? Per poter ri- spondere a questa domanda converrà ora approfondire anche il concetto di servo arbitrio. Il determinismo comportamentale o della volontà può presentarsi sotto diverse sembianze. Quando si afferma di poter fare una certa cosa, di poter compiere una data azione si possono intendere referenti empirici diversi, come bene illustra Ross, individuando tre condizioni necessarie per la sus- sistenza dell’agire: L’agire attuale richiede quindi il verificarsi di tre gruppi di condizioni: quel- le costituzionali, quelle occasionali, e quelle motivazionali. Possiamo anche dire che esso presuppone che l’agente abbia sia la capacità, sia l’occasione, sia la volontà o il motivo per compiere l’atto6. Ad esempio, per poter nuotare è necessario saper nuotare (capacità), disporre di uno specchio d’acqua (occasione) e, finalmente anche, volere, decidere di nuotare (volontà, motivo). A rigore solo quest’ultimo requisito riguarda direttamente il tema del libero arbitrio; il tema deterministico, in- vece, coinvolge tutti e tre i gruppi di condizioni. Infatti, il determinismo non riguarda solo la volontà, ma anche le condizioni soggettive (capacità) ed oggettive (occasioni) dell’individuo. Comunque, per semplificare un tema sin troppo arduo, conviene tralasciare queste ulteriori condizioni e soffermarsi solo sulla volontà. La volontà può presentare almeno tre forme di ipotesi di condizionamento: 1) la scelta non è riconducibile al soggetto agente (volontà divina); 2) la scelta è condizionata da fattori immateriali (cultura, educazione, morale, inconscio individuale o collettivo, psicologia, etc.); 3) la scelta dipende dalla struttura biologica, biochimica dell’essere umano (si pensi all’uomo macchina di Julien Offray de La Mettrie (1709- 1751) ed agli studi medici intorno alla causalità chimica nella struttura organica umana). È possibile ipotizzare anche altri fattori di condizion- amento, ma, data la loro particolarità concettuale, sarà più opportuno trat- tarli in seguito; ora è bene tornare al fattore di condizionamento metafisico. L’esistenza di una volontà divina prevalente su quella umana presup- pone l’accettazione di una visione dualista del mondo (fisica e metafisica), essenzialmente essente con l’essere in quanto essere”. M. Heidegger, La cosa, in A. Pinotti (a cura di), La questione della brocca, Mimesis, Milano 2007, p. 63. 6 A. Ross, Colpa, responsabilità e pena, cit., p. 264.           De libero o de servo arbitrio? 57 senza la quale l’esistenza del divino non è pensabile. Se Dio tutto ha creato, quindi, tutto conosce e tutto vuole, allora la volontà umana in altro non può consistere che nella volontà stessa di Dio. Tale posizione fu compiu- tamente espressa dall’occasionalismo di Arnold Geulincx (1624-1669) e di Nicolas Malebranche (1638-1715). L’occasionalismo, negando un qual- siasi collegamento tra la res estensa e la res cogitans cartesiane, sosteneva che le azioni umane altro non erano che occasioni della manifestazione della volontà divina, l’unica ad essere libera. In questa visione le azioni umane e la dimensione psichica si presentano come due orologi perfetta- mente sincronizzati dalla volontà divina, ma indipendenti l’uno dall’altro. A rigore, data l’evidente derivazione platonica di questo pensiero, il mondo umano potrebbe essere anche inesistente oppure, seguendo la convinzione nella onnipotenza creatrice di Dio, apparso solo in questo preciso istante in cui, tu lettore, stai leggendo questo testo, con tutti i tuoi ricordi e le tue sensazioni. L’unica certezza dell’esistenza di questo mondo deriva dalla certezza della fede in Dio7. Ovviamente il determinismo appena descritto è strettamente legato ad un pensiero religioso. Prendendo ora in considerazione il pensiero immanentista, si presenta un determinismo tutto incentrato sulla concatenazione degli eventi attra- verso il nesso di causa/effetto. La prima considerazione da manifestare ri- guarda la natura di tale nesso e la sua stessa esistenza. Già Auguste Comte (1798-1857) ne metteva in evidenza la natura metafisica e lo sostituiva con delle leggi generali di comportamento degli eventi: Se, più tardi cambia [l’essere umano, n.d.r.] le sue concezioni in proposito, è unicamente perché, allontanato, attraverso l’esperienza e la riflessione, dalle illusioni primitive, rinunzia assolutamente a penetrare il mistero del modo di prodursi dei fenomeni, di cui la sua natura gli impedisce per sempre ogni cono- scenza, per ridursi ad osservare le leggi effettive. Ed invero, se anche oggi, con tutte le nozioni positive acquisite, volessimo, per il più semplice fenomeno, 7 In termini moderni questo problema è stato affrontato sotto l’aspetto dell’autoreferenzialità causale: “I fenomeni più elementari dal punto di vista biologico, incluse le esperienze percettive, le intenzioni di fare qualcosa e i ricordi, presentano nelle loro condizioni di soddisfazione una struttura logica particolare. [...]. Le condizioni di soddisfazione del ricordo non si limitano, se le esamino nei dettagli, all’occorrere effettivo dell’evento, ma richiedono che il ricordo stesso, delle cui condizioni di soddisfazione è parte l’occorenza dell’evento, sia stato causato da tale occorenza. Possiamo esprimere la peculiarità di tale struttura dicendo che sia i ricordi sia le intenzioni sia le esperienze percettive sono causalmente autoreferenziali. Ciò significa che il contenuto dello stato stesso si riferisce allo stato ponendo un requisito causale”. J.R. Searle, La mente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, p. 154.           58 Il diritto come estetica tentare di concepire per quale potere il fatto che chiamiamo causa generi quello che chiamiamo effetto, saremmo inevitabilmente portati a realizzare immagini analoghe a quelle che sono servite di base alle prime teorie umane8. Il nesso causale non viene negato dalle leggi generali, ma semplicemente contenuto entro il limite del suo significato di costanza, di ripetitività negli accoppiamenti temporali dei fenomeni, senza indagare e pregiudicare il motivo, si potrebbe dire la causa, di questo legame; ossia possiede natura meramente descrittiva e non anche esplicativa: rileva il fenomeno, ma non ne spiega il senso. In altre parole, il principio causale si presenta come il risultato del principio induttivo, sul quale si fonda tutta la ricerca empirica, ma che, non essendo a sua volta verificabile/falsificabile in via empirica, deve essere accolto a priori. Un ulteriore affinamento del principio caus- ativo passa attraverso la dimensione probabilistica delle rilevazioni em- piriche9. Conseguentemente le leggi generali causali si sono trasformate negli studi scientifici in probabilità statistiche di accoppiamento dei feno- meni, trasformando il nesso causa/effetto in un mero nesso probabilistico a frequenza variabile. La potenza di questo strumento metodologico (leggi generali causali) ha creato in un primo tempo negli studiosi una baldanzosa presunzione di poter conoscere in anticipo tutti gli eventi futuri e tale pre- sunzione ha indotto a pensare che un generale determinismo governasse gli eventi10. Tuttavia ben presto il principio probabilistico, in generale, ed, ancor più, in particolare, quello fisico-quantistico di indeterminatezza di Heisenberg11 hanno, almeno in parte, ridimensionato questa presunzione e riaperto il dibattito intorno al libero arbitrio. 8 A. Comte, Opuscoli di filosofia sociale, Sansoni, Firenze 1969, pp. 182-183. 9 “Dobbiamo dire che generalmente i dati rendono il risultato probabile. La causalità regge, diremo, in ogni esempio che abbiamo potuto provare: perciò regge probabilmente anche in esempi non confermati. Ci sono gravi difficoltà nel concetto della probabilità, ma per ora possiamo trascurarle. Almeno finché è senza eccezione disponiamo così di un principio logico”. B. Russell, La conoscenza del mondo esterno, Longanesi & C. Milano 1975, p. 38. 10 “Vi sono relazioni così invariabili tra eventi diversi avvenuti nello stesso tempo o in tempi diversi che, dato lo stato di tutto l’universo in un tempo finito, per quanto breve, ogni evento precedente o seguente può essere determinato teoricamente in funzione degli eventi dati durante quel tempo”. B. Russell, op. cit., p. 210. 11 “Al posto della precisione della posizione subentra dunque in questa interpretazione l’immagine di una nuvola di materia, il cui diametro sta nell’ordine di grandezza di 1013 cm e la cui densità decresce dal centro verso l’esterno suppergiù al modo di una curva di Gauss”. W. Heisenberg, Lo sfondo filosofico della fisica moderna, cit., p. 101.           De libero o de servo arbitrio? 59 Il nesso causa/effetto degli eventi è stato per lungo tempo centrale nell’alternativa determinismo/indeterminismo, sino al punto da relegare il tema della libertà del volere ed il relativo indeterminismo nell’ambito delle questioni metafisiche e degli errori di logica. In proposito Nietzsche si esprime in modo estremamente chiaro: La credenza originaria di ogni essere organico è forse addirittura questa, che tutto il resto del mondo sia uno e immobile. Da quel grado originario del pensiero logico è lontanissimo il pensiero della causalità: anzi, ancora oggi, noi pensiamo in fondo che tutti i sentimenti e le azioni siano atti della libera volontà: se un individuo senziente si osserva, considera ogni sensazione, ogni mutamento come qualcosa di isolato, ossia non condizionato, privo di senso, che affiora in noi senza legami col prima e col dopo. [...]. Dunque, la fede nella libertà del volere è un errore originario di ogni essere organico, che esiste sin da quando esistono in esso gli stimoli del pensiero logico; e allo stesso modo è un errore originario e ugualmente antico di ogni essere organico la fede in sostanze non condizionate e in cose uguali. Ma, in quanto ogni metafisica si è occupata prevalentemente di sostanza e di libertà del volere, la si può definire come la scienza che tratta degli errori fondamentali dell’uomo – come se fos- sero però verità fondamentali12. Estremamente interessanti in merito si presentano i più recenti studi biochimici e neurologici. In particolare, poiché i neuroni per scambiarsi scariche elettriche attraverso le connessioni sinaptiche necessitano di ener- gia, che è loro fornita dal glucosio e dall’ossigeno trasportato dal sangue, è possibile misurare l’attività cerebrale attraverso l’incremento distrettuale di tale flusso. Ciò si ottiene grazie a metodologie di esplorazione funziona- le del cervello quali la tomografia a emissione di protoni per il consumo di glucosio (PET – positron emission tomography) e la risonanza magnetica funzionale, per il flusso ematico (fMRI – functional magnetic resonance imaging). Un esperimento specifico, condotto da Benjamin Libet (1916-2007) e finalizzato a misurare il, così detto, potenziale di prontezza (ossia il cam- biamento elettrico cerebrale del soggetto, ormai da tempo dimostrato, in presenza di movimenti volontari) sembra giuocare a favore di un determi- nismo inconscio. Infatti, il distretto cerebrale corrispondente al movimento volontario in esame si attiva 550 msec prima dell’atto presupposto volon- tario. Dunque, sembrerebbe che un impulso inconsapevole anticipi l’azio- ne, ma la volontà di agire diviene consapevole 100-150 msec prima della effettiva manifestazione nel mondo esterno dell’azione stessa. 12 F. Nietzsche, Umano, troppo umano I, in Opere 1870/1881, cit., p. 529.           60 Il diritto come estetica Si può ritenere che le azioni volontarie comincino con iniziative inconsce, che vengono borbottate dal cervello. La volontà cosciente quindi selezione- rebbe quali di queste iniziative possono proseguire per diventare un’azione, o quali devono essere vietate e fatte abortire in modo che non compaia nessun atto motorio13. Ciò comporta che l’esperimento consente anche di ipotizzare, in que- sti istanti consapevoli, una attività di veto del soggetto nei confronti del processo messo in atto per giungere all’azione ed il vietare è pur sempre espressione di libero arbitrio, come il fare. Tuttavia è possibile obiettare, non solo e non tanto, che il concetto di causa non coincide con quello di correlazione, ma, soprattutto, che il concetto di conscio non si identifica con quello di arbitrio. Infatti, è possibile essere consapevoli che la casa, nella quale ci si trova, stia per crollare, ma ciò non comporta né che si pos- sa agire sul crollo, né che si possa compiere liberamente la scelta di restare o di fuggire. Il punto da dimostrare, in relazione al libero arbitrio, riguar- da la scelta, ossia l’origine dell’eventuale veto, non la consapevolezza o meno dell’azione. Del resto, tale dimostrazione scientifica pare logicamen- te impossibile, poiché la verifica/falsificazione empirica può rilevare solo i nessi, gli accoppiamenti causali, ma tali nessi possono essere considerati pressoché infiniti, quindi non sottoponibili tutti ad una sistematica speri- mentazione. Soprattutto non possono essere presi in considerazione, per ovvia impossibilità, i nessi ignoti e non immaginati come possibili dallo scienziato. Conseguentemente si può solo empiricamente affermare che l’eventuale veto all’azione nei precedenti 100/150 msec all’azione stessa può essere libero, ma può anche essere determinato da un nesso causale ignoto (l’assenza di nesso causale è solo assenza di nesso noto o ipotizza- to come possibile); ciò prescindendo da tutti i molteplici condizionamenti noti14. 13 B. Libet, Mind time. Il fattore temporale nella coscienza, Raffaello Cortina Editore, Milano 2007, p. 143. 14 “Nessuna libertà assoluta dunque, bensì uno spazio di manovra limitato dalla nostra eredità biologica, dal luogo e dal tempo in cui ci siamo trovati a nascere, dalle esperienze familiari, dalla banda criminale a cui abbiamo voluto aggregarci, o dall’associazione differenziale a cui siamo stati esposti, insomma: uno spazio di manovra limitato dalla nostra storia, nostra in quanto in gran parte costruita da noi”. I. Merzagora Betsos, Colpevoli si nasce? Criminologia, determinismo, neuroscienze, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012, p. 101. Cfr. anche E. Soresi, Il cervello anarchico, UTET, Torino 2013. L’Autore affida lo studio delle relazioni intercorrenti tra mente e corpo ad una nuova scienza, la psico-neuro- endocrino-immunologia (PNEI). Intorno a detta scienza vedere anche P. Lissoni, Teologia della scienza, Editore Natur, Milano 2003.           De libero o de servo arbitrio? 61 Vi è poi un ulteriore impedimento logico alla dimostrazione empirica dell’esistenza del libero arbitrio: quest’ultimo è caratterizzato da assenza di nessi causativi estranei alla volontà stessa del soggetto agente, ma ciò si- gnifica che la volontà dovrebbe essere indagata prima della sua manifesta- zione empirica e ciò non è possibile per definizione. L’assenza di fenomeni empirici non può essere studiata con metodologia empirica; il nulla fisico non può essere né falsificato, né verificato, ma solo rinviato o non rinviato a realtà trascendenti, immateriali, metafisiche. Cercare la causa di una vo- lontà significa già presupporre il determinismo, poiché la volontà è libera solo se priva di cause, salvo la volontà stessa del soggetto agente (autore- ferenzialità ed autonomia), ma nulla è privo di cause nel mondo fisico ed una volontà del tipo indicato non può appartenere al mondo fisico; anche la scelta soggettiva, presupposta libera, è ancorata all’essere soggettivo, alla sua psiche ed al suo corpo, ossia ai condizionamenti culturali e materiali sia ambientali, sia personali. L’indagine sul libero arbitrio è, dunque, una indagine sul nulla o sul metafisico; non è possibile ipotizzare l’esistenza di un libero arbitrio senza duplicare il reale in entità trascendenti la fisicità, si- ano esse divine o meramente mentali astratte, non risiedenti comunque nel corpo dell’individuo agente. La consolatoria conclusione di Libet in argo- mento pare indirettamente confermare le considerazioni appena formulate: La mia conclusione sul libero arbitrio – libero davvero, in senso non deter- ministico – è che la sua esistenza è un’opinione scientifica altrettanto buona, se non migliore, della sua negazione in base alla teoria deterministica delle leggi naturali. Data la natura speculativa di entrambe le teorie, quella deterministica e quella non deterministica, perché non adottare il punto di vista che abbiamo il libero arbitrio, almeno finché non compaia – ammesso che compaia – qualche evidenza che realmente lo contraddica? Questo ci permette, almeno, di proce- dere in un modo che accetta e accoglie i nostri più profondi convincimenti e il comune sentire, che ci dicono che il libero arbitrio lo possediamo15. Resta il problema che solo il determinismo può essere assoggettato ad indagine empirica e non anche l‘indeterminismo! Conseguentemente, con- scia o inconscia che sia l’origine di un’azione, il tema da affrontare resta la presenza o l’assenza di libertà nella dimensione sia conscia, sia incon- scia e questo tema rinvia, per il libero arbitrio, ad un livello immateriale privo di quell’origine deterministica propria del mondo fisico: il mondo si duplica necessariamente per rispondere alla domanda, ma la necessità, in questo caso, ha natura logica, non certo empirica. Il punto focale di questa 15 B. Libet, Mind time. Il fattore temporale nella coscienza, cit., p. 160.           62 Il diritto come estetica discussione non sembra, dunque, essere il nesso di causa ed effetto od an- che le leggi costanti e generali di comportamento e neppure le probabilità statistiche di accoppiamento dei fenomeni, ma, piuttosto, il fattore con- dizionante l’esistenza stessa del concetto di scelta, ossia il fattore tempo: se scegliere significa generare azioni successive in alternativa tra loro, le azioni di questo tipo si possono produrre solo in un sistema in movimento, ossia condizionato dal tempo. I sistemi acronici sono privi di movimento e, quindi, anche di scelte, ma di ciò si parlerà più oltre. Al determinismo neuro-biologico, appena considerato, può aggiungersi una ulteriore forma di determinismo, nel quale determinante non appare il nesso causa/effetto, ma la totalità dell’essere con i propri caratteri e le proprie qualità, già e per sempre dispiegate nelle sue parti specifiche ed individuali. Questo determinismo si presenta espresso con rigore da Spi- noza, come in parte si è già visto, nella sua sintetica espressione Deus sive Natura. La totalità della Natura, governata dalle proprie naturali leggi, determinazioni, assurge al ruolo di divinità impersonale. Il problema non riguarda più tanto la catene causativa degli eventi, ma i caratteri peculiari, con linguaggio moderno si potrebbe dire genetici, delle sue parti, i quali, per necessità, non possono che estrinsecarsi nell’attività di queste sue parti, nelle azioni, se si tratta di animali e di animali umani. Ognuno esiste per sommo diritto di natura, e conseguentemente per sommo diritto di natura ognuno fa quelle cose che seguono dalla necessità della sua natura; e perciò, per sommo diritto di natura, ognuno giudica cosa sia bene e cosa sia male, e provvede alla sua utilità secondo il suo giudizio, e si vendica, e si sforza di conservare ciò che ama e di distruggere ciò che ha in odio16. Esponente di questa tendenza deterministica di pensiero pare essere an- che Nietzsche, come risulta con evidenza dal seguente brano: Che gli agnelli non amino i grandi uccelli predatori non sorprende nessuno: ma non autorizza certo a rimproverare i grandi predatori per il fatto di cacciare gli agnelli. E se gli agnelli dicono tra loro: “Questi predatori sono malvagi; e chi è rapace il meno possibile, anzi chi è addirittura l’opposto, un agnello cioè, non dovrebbe essere buono?”, non possiamo certo biasimare questo criterio di edificazione ideale, anche se i predatori stessi considereranno la cosa con un 16 B. Spinoza, Etica. Dimostrata con metodo geometrico, Editori Riuniti, Roma 2002, p. 258. “Infatti, alla natura di una cosa non appartiene nulla se non ciò che segue dalla necessità della natura della causa efficiente, e tutto ciò che segue dalla necessità della natura della causa efficiente accade necessariamente”. Ibidem, p. 233.           De libero o de servo arbitrio? 63 certo scherno e si diranno probabilmente: “Noi non li odiamo affatto, questi buoni agnelli, anzi li amiamo, niente è più squisito di un tenero agnello”. – Pretendere dalla forza che essa non si manifesti come forza, che essa non sia volontà di sopraffazione, volontà di oppressione, di potere, che essa non sia sete di nemici e di resistenze e di trionfi, è tanto assurdo come il pretendere dalla debolezza che essa si manifesti come forza17. I rapaci e gli agnelli di Nietzsche si sovrappongono idealmente ai pesci grandi ed a quelli piccoli di Spinoza, nell’evidente tentativo di evitare, at- traverso il determinismo della forza, della potenza insita in ciascuna entità vivente, il giudizio morale. Il vivente si trasforma in un indifferenziato Tutto, nel quale minerali, vegetali, animali ed umani rivestono ciascuno il proprio ruolo predeterminato ed esplicano le diverse potenzialità volitive ed operative, che sono state loro assegnate dalla loro stessa natura, senza poter sfuggire ai limiti imposti da quest’ultima. La forza necessitante è consustanziale all’individualità: la pietra non possiede organi riproduttivi e, quindi, non può riprodursi, ma si moltiplica per frantumazione; la pianta non ha gambe per camminare e, dunque, vive sempre nel medesimo luogo; la maggioranza degli animali non possono opporre il dito pollice alle altre dita della medesima mano, conseguentemente non possiedono manualità ed hanno sviluppato inevitabilmente attività artigianali limitatissime; l’es- sere umano vive respirando ossigeno e muore se respira anidride carboni- ca. A causa di questa particolarità può abitare esclusivamente su pianeti simili, per caratteri atmosferici, alla Terra. Questo determinismo sembra paragonabile all’opera di un tiranno, che imprigiona i propri sudditi entro carceri diversi in qualità per ciascuna categoria di essi, ma anche per cia- scun individuo di ciascuna categoria (ad esempio esseri umani nati senza braccia o diabetici). L’unica differenza consiste nella fonte del vincolo: mentre nel caso della Natura il determinismo si presenta autonomo, cioè proprio della natura stessa, nel caso del tiranno esso è eteronomo, ossia proveniente dall’esterno del soggetto agente. Per descrivere la diversità dei due modelli attraverso la tripartizione sopra ricordata del significato di poter fare qualcosa, proposta da Ross, si deve dire che il modello determi- nista spinoziano non lascia spazio né all’occasione, né alla capacità, né alla volontà, mentre il modello del tiranno inibisce solo l’occasione. Oltre a questa ipotesi determinista è possibile formulare almeno altre due ipotesi. La prima strettamente legata alla visione di un mondo governa- to da rigide leggi causali in sviluppo cronologico progressivo, in sintesi, un 17 F. Nietzsche, Genealogia della morale, Newton Compton Editori, Roma 1977, p. 64.           64 Il diritto come estetica mondo programmato in via di sviluppo; la seconda, invece, frutto della vi- sione di un mondo acronico, privo di tempo. Non pare il caso di soffermarsi ulteriormente sulla prima ipotesi, già trattata in precedenza, se non per dire che tale ipotesi può essere presa in considerazione sia dal punto di vista della Totalità di un Essere (realtà, mondo) in sviluppo determinato e pro- gressivo, ed è di questo che qui si discute, sia dal punto di vista dei singoli gruppi, delle singole catene di nessi causali, come l’ipotesi è stata discussa in precedenza e come è usata in ambito strettamente scientifico. Il mondo in sviluppo causale conserva la variabile tempo, mentre l’ulteriore ipotesi determinista, che si tratterà ora, non prevede l’esistenza di tale variabile. Il tempo non esiste. L’affermazione sembra forte, controintuitiva, ma anche falsificata dall’evidenza empirica del divenire, eppure da Parmenide a Severino, molti filosofi hanno percorso questa strada. La qualità non me- ramente logica delle affermazioni di Heidegger, consiglia di orientarsi, per esemplificare il tema, verso questo filosofo: Il tempo ha sempre funzionato come criterio ontologico o, meglio, ontico nella distinzione ingenua delle diverse regioni dell’ente. Si delimita qualcosa che è temporalmente (i processi della natura e gli accadimenti della storia) rispetto a ciò che è non temporalmente (le relazioni spaziali e numeriche). Si è soliti distinguere un senso a-temporale delle proposizioni rispetto al decorso temporale delle enunciazioni. Infine si trova un abisso tra l’ente temporale e l’eterno sovratemporale e ci si ingegna nel gettare fra essi un ponte. Temporale equivale qui in entrambi i casi ad essente nel tempo, una determinazione che, tra l’altro, è abbastanza oscura18. Il panorama del tempo heideggeriano si presenta come una estensione spaziale, nella quale si manifestano gli essenti, si illuminano, per poi scom- parire nuovamente dietro il sipario del tempo. L’ente che reca il titolo di esser-ci è rischiarato. [...]. È solo in base al ra- dicamento dell’esser-ci nella temporalità che diventa intelligibile la possibilità esistenziale di quel fenomeno, che all’inizio dell’analitica dell’esserci abbiamo contraddistinto come costituzione fondamentale: l’essere-nel-tempo19. Il tempo sfuma e con esso si affievoliscono anche le sue articolazioni in passato, presente e futuro. In fondo è solo la memoria che consente una simile distinzione. Dunque, la principale prova dell’esistenza del tempo ha natura psicologica: ricordo, quindi, ho vissuto il passato, ma, a parte 18 M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 37. 19 M. Heidegger, op. cit., p. 492.           De libero o de servo arbitrio? 65 l’ipotesi di Malebranche di un mondo creato da Dio attimo dopo attimo, l’organizzazione cronologica degli eventi potrebbe essere determinata dal- la forma categoriale, di kantiana memoria, della nostra conoscenza: cono- sciamo attraverso la categoria del tempo, che in questo caso risiederebbe in noi e non fuori di noi; avrebbe una esistenza solamente gnoseologica, non anche ontologica. Russell avanza proprio questo sospetto: La differenza che sentiamo [...] tra cause ed effetti è una semplice con- fusione, dovuta al fatto che ricordiamo gli eventi passati ma non ci capita di ricordare i futuri. L’indeterminatezza apparente del futuro su cui fanno assegnamento alcuni sostenitori del libero arbitrio, è soltanto il risultato della nostra ignoranza rela- tiva ad esso. [...]. Il libero arbitrio in ogni significato importante deve essere compatibile con la conoscenza più completa. [...]. La nostra conoscenza del passato non è basata interamente sulle deduzioni causali, ma deriva in parte dalla memoria. È un puro caso se noi non abbiamo memoria del futuro. [...]. Si deve ricordare che la previsione supposta non creerebbe il futuro più di quanto la memoria non crei il passato20. Risulta evidente che Russell costruisce il proprio ragionamento sulla indifferente reversibilità dei fenomeni di causa e di effetto, proprietà che è tipica delle operazioni di fisica teorica; inoltre, nell’accogliere questa ope- razione riduce necessariamente la funzione tempo ad un indifferenziato presente. Probabilmente la posizione privilegiata di un filosofo, che è stato al contempo anche un insigne matematico, ha consentito a questo Autore di vivere pienamente le suggestioni di fisica teorica, che i tempi agitavano. Se il mondo è privo di divenire e di movimento, che rappresenta una delle possibili forme del divenire, è anche privo di tempo, poiché non è pensabile divenire e movimento senza tempo. Riappaiono i fantasmi del- la scuola eleatica e della formulazione del principio di identità assoluta, ontologica: l’essere è e non può non essere. Se l’identità non può essere nientificata nell’essere altro, ossia non essere più se stessi allora il divenire è pura illusione psicologica. Queste riflessioni di natura filosofica, nel se- colo passato hanno trovato sostegni e conforto anche in campo scientifico: L’equazione di Wheeler-De Witt, secondo l’interpretazione più diretta, ci dice che l’universo nella sua interezza è simile a una enorme molecola in uno stato stazionario e che le diverse configurazioni possibili di questa molecola mostruosa sono gli istanti di tempo. La cosmologia quantistica diventa l’estre- 20 B. Russell, La conoscenza del mondo esterno, cit., pp. 224-225.           66 Il diritto come estetica ma estensione della teoria della struttura atomica e, simultaneamente, com- prende il tempo. Domandiamoci di nuovo quali conclusioni possiamo trarne in relazione al tempo. Le implicazioni sono quanto mai profonde. Il tempo non esiste. Esiste soltanto la mobilia del mondo che noi chiamiamo istanti di tempo21. L’equazione sopra richiamata, detta anche di Einstein – Schrödinger (1877-1961), cerca di conciliare la meccanica quantistica, che necessita di un tempo definito, con la relatività generale, che lo nega, per descrivere la gravitazione quantistica. Johon Wheeler (1911-2008) e Bryce De Witt (1923-2004) nel tentare questa difficile operazione, non ancora completa- mente risolta, evidenziarono, forse anche in parte inconsapevolmente, che la funzione tempo si presentava come problematica e lo stesso concetto di tempo poteva essere messo in discussione. Del resto, già la teoria einstei- niana della relatività, proponendo la relatività, rispetto all’osservatore, del tempo, non poteva che presupporre non solo l’assenza di un tempo asso- luto, ma anche l’irrilevanza conoscitiva di un prima e di un dopo (rispetto a cosa?), di cui l’indifferenza di Russell per il passato ed il futuro ne sono una coerente espressione. Ma se passato e futuro si propongono come in- differentemente intercambiabili, la realtà nel suo insieme, il Tutto, non può che possedere un’unica dimensione temporale: il presente. Dunque, è nel solo presente che si può discutere del libero arbitrio in questa ipotesi deter- minista. Il solo presente trasforma il tempo in una sorta di spazio (spazio/ tempo, appunto), nel quale gli eventi non trascorrono, ma sono collocati, dispiegati, come tanti libri in una libreria. Ciascuno può narrare la propria storia, ma sempre quella, il cui finale è ben noto sin dall’inizio e, comun- que, immodificabile. In questa ipotesi i fenomeni possono essere solo de- scritti, non anche voluti, ed il libero arbitrio non viene meno né per catene causali predeterminate di eventi biologici, biochimici, neurologici etc., né per la natura necessitante dei caratteri e delle potenze dei singoli enti, ma semplicemente perché non esiste il tempo ed il divenire, quindi non ha sen- so parlare di scelte libere o condizionate, che siano. Il mondo si presenta come una pellicola cinematografica, il cui movimento illusorio è dato dallo scorrere della successione dei singoli fotogrammi, in se immobili, statici, o, se si preferisce un paragone più naturalistico, come una prateria unifor- me, della quale è possibile descrivere sassi, piante, animali ed umani, che vi alloggiano, ma completamente priva di ogni arbitrio umano o divino 21 J. Barbour, La fine del tempo. La rivoluzione fisica prossima ventura, Einaudi, Torino 2003, p. 247. Cfr. anche P. Yourgrau, Un modo senza tempo. L’eredità dimenticata di Gödel e Einstein, il Saggiatore, Milano 2006.           De libero o de servo arbitrio? 67 (salvo che divina non venga considerata la prateria stessa). Questa totale assenza di arbitrio e ben descritta da Ross: Ognuno deve agire esattamente a quel modo che è determinato ad agire. Il nocciolo del problema può chiarirsi con la storiella del ladro, il quale si difen- deva dicendo che, essendo egli determinato ad agire così come aveva agito, e non avendo egli alcuna possibilità di sfuggire alla necessità ineluttabile della legge della causalità, sarebbe stato assurdo e ingiusto punirlo. E il giudice gli rispondeva: sì, Lei ha ragione. Il Suo comportamento era determinato e Lei non ha potuto sfuggire alla necessità che governa tutto l’universo. Lo stesso vale però per la società e per me in quanto suo rappresentante. La società è determi- nata a difendersi da aggressioni come la Sua e perciò io Le infliggo una pena22. Il contesto della storiella si colloca all’interno di un condizionamento governato dalla catena causale, ma si adatta ancora meglio ad un mondo privo di tempo, nel quale non ha neppure senso parlare di scelte e tutti si manifestano per quelli che sono, collocati in quel luogo da sempre e per sempre, in una eternità non data da un tempo infinito, ma da una completa acronicità. Riguardo al libero o servo arbitrio ogni proposta di soluzione del proble- ma non può che essere considerata una semplice ipotesi di lavoro, poiché le eventuali soluzioni non si prestano ad una verifica empirica; pertanto l’affermazione o la negazione del libero arbitrio deve essere considerata una mera proposizione a priori. La verifica/falsificazione empirica del determinismo o dell’indetermini- smo risulta metodologicamente impossibile a causa, oltre a quanto prece- dentemente già sostenuto, anche per l’irripetibilità dell’atto presunto voli- tivo. Infatti, se nel tempo to si presenta l’alternativa tra il compiere l’azione A o l’azione B e si compie l’azione A, nel tempo t1 si potrà forse anche compiere l’azione B, ma ciò non dimostra che la si poteva compiere anche nel tempo to. Per poter raggiungere questa dimostrazione si dovrebbe poter ripetere la scelta dell’azione, questa volta B, nel tempo to, poiché la ripetiti- vità dell’esperimento in questo caso non riguarda una serie di eventi simili (solo simili: ogni evento varia rispetto ad un altro almeno per il tempo nel quale si realizza, oltre che per la sua configurazione interattiva), ma la scel- ta stessa dell’evento da mettere in essere. Poiché è la scelta, non l’oggetto della scelta, da sottoporre a verifica/falsificazione empirica, dovrà essere possibile ripetere l’atto dello scegliere, non ciò che si è scelto o non scelto, ma ciò risulta impossibile per l’unidirezionalità presunta del tempo: dal 22 A. Ross, Colpa, responsabilità e pena, cit., pp. 184-185.           68 Il diritto come estetica presente pare possibile accedere solo al futuro ed impossibile tornare nel passato, almeno per una concezione assoluta del tempo23. Il tempo in mo- vimento unidirezionale, dunque, impedisce di trasformare il libero arbitrio da concetto a priori in concetto a posteriori, condannandolo in tale modo alla dimensione metafisica. Oltre all’impossibilità empirica di raggiungere certezze in questo cam- po, si presenta anche un ulteriore impedimento, questa volta di natura lo- gica: se il determinismo descrivesse, corrispondesse effettivamente alla realtà, alla struttura del nostro mondo, allora essere monista o dualista ed, addirittura, essere determinista o indeterminista sarebbe una condizione imposta deterministicamente. Pertanto prima di affrontare il tema del com- portamento e delle convinzioni individuali si dovrebbe descrivere e spie- gare il modello di sistema, nel quale comportamenti e convinzioni sono collocati. Se il sistema è deterministico saranno condizionate, non libere, anche le azioni e le convinzioni, che in esso si agitano, ma, viceversa, se il sistema è indeterministico le azioni e le convinzioni ad esso afferenti po- trebbero essere anch’esse libere oppure vincolate da un determinismo cau- sativo interno al sistema stesso (è il caso del principio di indeterminazione, che opera solo a livello subatomico). Tuttavia, per sapere se un sistema è o non è deterministico si devono analizzare empiricamente le azioni e le con- vinzioni che lo compongono. Risulta evidente il corto circuito che si crea: per conoscere del sistema si deve conoscere delle azioni e delle convinzio- ni che lo compongono, ma per conoscere delle azioni e delle convinzioni che lo compongono si deve conoscere il sistema. Si è in presenza di una evidente petitio principi, che impedisce ulteriori conoscenze. 23 Questo esperimento mentale risulta valido solo nella realtà a dimensione umana, ove il tempo è assoluto (tempo assoluto newtoniano), a livello di fisica teorica, invece, perde di validità o perché il tempo diviene relativo e consente viaggi almeno nel futuro (teoria della relatività einsteiniana), o perché addirittura il tempo è proprio considerato inesistente (teoria quantistica a loop). “A livello fondamentale, il tempo non c’è. L’impressione del tempo che scorre è solo un’approssimazione che ha valore solo per le nostre scale macroscopiche: deriva dal fatto che osserviamo il mondo solo in modo grossolano”. C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, p. 159. “Il tempo non è che un effetto del nostro trascurare i microstati fisici delle cose. Il tempo è l’informazione che non abbiamo. Il tempo è la nostra ignoranza”. Ibidem, p. 220.           4. DIRITTO ARTIFICIALE L’ambito culturale del diritto presenta un ulteriore dualismo rispetto a quelli precedentemente affrontati: il dualismo diritto naturale, diritto po- sitivo, meglio, artificiale. Tale dualismo non si discosta dal modello di duplicazione del mondo, ispirato ad una visione speculare, ma perfetta, della realtà empirica: al concreto corrisponde l’astratto; al particolare il generale; al visibile l’invisibile; al finito l’infinito; al relativo l’assoluto; al fisico il metafisico; all’umano il divino. Questa specularità opera anche nel campo del diritto e genera, a fronte del diritto positivo, imposto dalla forza degli esseri umani dominanti, un diritto assolutamente giusto, detto natu- rale. Ovviamente, il processo potrebbe essere interpretato anche in senso contrario: il diritto naturale, per specularità, ispira la produzione del diritto positivo, che, tuttavia, si presenta relativo ed imperfetto, ossia non necessa- riamente giusto, ma solo valido ed efficace, rispetto al modello imitato. La differenza tra i due diritti è tutta giuocata intorno ai concetti contrapposti di assoluto/relativo e di giusto/ingiusto. Si tratta, dunque, di evidenziare l’origine, la fonte di questi concetti, rispettivamente nei due tipi di diritto. Il diritto naturale propone come propria fonte la dimensione assoluta dell’Essere, sia esso Dio, la Ragione o la Natura. Non cambiano molto i caratteri di queste tre denominazioni, che, sostanzialmente, esprimono il medesimo referente; ciò che muta è solo il necessario dualismo del rea- le, implicito nel concetto di Dio, a fronte della duplice compatibilità dei concetti di Ragione e di Natura sia con la realtà dualista che con quella monista. Infatti, la Ragione può appartenere solo al mondo fisico, può dua- lizzarsi nella res cogitans e può anche risiedere nel mondo metafisico; la medesima riflessione può essere svolta intono alla Natura, che può essere vista come una realtà completamente immanente o come il corrispondente degradato di una realtà trascendente. Non conviene addentrasi nella discussione intorno ad una Natura me- tafisica, giacché non si avrebbe alcun strumento di riscontro delle affer- mazioni, se non il proprio o l’altrui personale convincimento. Conviene quindi appoggiarsi ad un concetto di Natura immanente e procedere con          70 Il diritto come estetica lo strumento della constatazione empirica. In questo limitato ambito si incontrano due diversi significati dell’espressione diritto naturale. Da un lato, si intende descrivere la costanza di comportamento degli eventi na- turali: la legge di gravità, le condizioni che fanno franare una montagna, scoppiare un temporale, sollevare le maree, morire un essere vivente, etc.. In questo significato l’espressione è semplicemente descrittiva di ciò che avviene. Dall’altro lato, invece, la stessa espressione acquista una valenza prescrittiva di comportamenti, che possono essere seguiti o violati a livello umano (se si accoglie l’ipotesi dell’esistenza del libero arbitrio), ossia sono relativi, ma che a livello dell’Assoluto si impongono come inderogabili, necessitanti, poiché a tale livello conoscenza e volontà coincidono. Detta inderogabilità si traduce nel mondo umano in valorialità assoluta sul piano morale e, tuttavia, non necessitante su quello fisico come le leggi naturali, descrittive di fenomeni. Ancora una volta la scriminante passa attraverso il libero arbitrio: se esiste, la legge naturale non è necessitante, se non esiste, lo è ed, in quest’ultimo caso, scompare la differenza tra i due significati dell’espressione, che resta solo descrittiva. A livello empirico è facilmente constatabile che i comportamenti umani non sono omogenei, uniformi, ma divergono, anche profondamente, gli uni dagli altri (ciò che è bene per gli uni è male per gli altri e viceversa) e tale constatazione è stata portata da taluni autori come prova evidente dell’ine- sistenza del diritto naturale in quanto prescrizione giuridica assoluta. Come una sgualdrina, la legge naturale è a disposizione di tutti. Non esiste ideologia che non si possa difendere con un appello alla legge naturale. E a ben vedere come potrebbe essere altrimenti, dal momento che il fondamento ulti- mo di ogni diritto naturale risiede in una immediata percezione privata, in una contemplazione evidente, in una intuizione? Non può la mia intuizione essere buona quanto la vostra? L’evidenza, assunta a criterio di verità, spiega il ca- rattere assolutamente arbitrario delle affermazioni metafisiche. Essa le innalza sottraendole alla forza del controllo intersoggettivo, aprendo completamente la porta alla libera fantasia e al dogmatismo1. La prova empirica permane in tutta la sua validità, ma mostra il proprio limite, ossia resta solo empirica, e come tale, non può escludere che il diritto naturale non sia monolitico, ma, bensì, pluralista od, addirittura, ni- chilista. In queste due ultime ipotesi la contraddittorietà dei diritti naturali non dimostrerebbe la loro inesistenza, ma semplicemente il loro carattere variabile in dipendenza da fattori a noi ignoti: tempo, luogo, individui inte- 1 A. Ross, Diritto e giustizia, Einaudi, Torino 1965, p. 246.           Diritto artificiale 71 ressati (perché mai il diritto naturale dovrebbe essere egualitario ed uguale per tutti?), etc.. L’empiria, tuttavia ci riconduce ad osservare la realtà naturale, nella quale vive l’essere umano. Come si è già detto, il panorama è desolante e fortemente immorale agli occhi della nostra attuale cultura umana: il più forte vince sul debole, il cannibalismo governa tutto il biologico, il com- portamento etico risulta indifferente alla buona o cattiva sorte umana, al premio o alla pena e la morte trionfa su tutto e su tutti. Sembra che nella natura e nella vita non vi sia alcun senso. Infatti già Giobbe, il personaggio biblico, si interrogava: Perché mai fu data all’infelice la luce, e la vita agli amareggiati d’animo? I quali anelano la morte – che pur non viene – come si cerca un tesoro [nascosto]; i quali si rallegrano oltre ogni dire, allorché hanno trovato un sepolcro? [Perché fu data la luce] all’uomo, la cui via è nascosta, avendolo Dio circondato di tenebre?2. Il senso lo si è dovuto trovare ancora una volta nello sdoppiamento del mondo, nella dimensione metafisica, religiosa. Comunque, stando alle rile- vazioni empiriche, non pare che vi sia molto da mutuare dal diritto naturale per la vita umana. Anzi, è proprio l’orrore della natura che ha indotto l’es- sere umano a cercare differenti modelli di comportamento, modelli artifi- ciali, non naturali. Il diritto positivo rientra nel novero di questi modelli. L’artificialità si è sostituita, per motivi forse deterministici, etici o forse anche utilitaristici, alla naturalità. Il dibattito intorno alla natura benigna o maligna di questo mondo appassionò in passato molti autori tra i qua- li è possibile ricordare Gottfried Leibniz (1646-1716), quale sostenitore dell’affermazione che questo è il migliore dei mondi possibili in quanto creato da Dio, e François-Marie Arouet, detto Voltaire (1694-1778), che contesta tale posizione da un punto di vista filosofico. L’affermazione di Leibniz si presenta evidentemente metafisica e teologica, ossia a priori, mentre la critica di Voltaire si muove in ambito filosofico ed empirico, ossia a posteriori, tanto che quest’ultimo Autore la affida anche ad un rac- conto satirico, Candide, ou l’Optimisme. 2 Giobbe, 3, 20-23.           72 Il diritto come estetica Signori – disse Cocambo – voi dunque pensate di mangiare un gesuita oggi; molto bene, nulla è più gustoso del trattare così i propri nemici. In effetti il diritto naturale ci insegna a uccidere il nostro prossimo, ed è così che si agisce in tutto il mondo. Se non esercitiamo il diritto di mangiarlo, è perché abbiamo altro per fare un buon pranzo; ma voi non avete le nostre stesse risorse; certo è meglio mangiare i propri nemici anziché abbandonare il frutto della propria vittoria a corvi e cornacchie. Ma signori, voi non vorreste mangiare i vostri amici 3. Si ripresenta il solito dualismo ontologico, umano/divino, e valoriale, bene/male, di cui il dualismo diritto naturale/positivo ne è una diretta de- rivazione. In ambito immanentista monistico il dualismo riesce ad essere risolto attraverso l’artificialità dell’agire umano, attraverso l’homo artifex che crea sempre e solo, pur sotto sembianze diverse, un diritto artificiale. Una delle principali caratteristiche dell’essere umano è quella di creare artefatti materiali ed immateriali, oggetti ed idee, ossia di essere un artefi- ce; è questa una sua particolarità congenita, che lo distingue da altre entità naturali, in particolare animali. Dunque, quando si tratta di esseri umani la naturalità coincide con l’artificialità. È naturale per l’essere umano essere artificiale. La mano impugnò prima il pugno, poi la spada e la pistola per difendere il proprio corpo. La mente ideò il diritto per rendere più certi i rapporti interpersonali. In questo modo nacque il diritto positivo, che è artificiale per definizione, ma anche il diritto naturale, se espressione della creazione umana di un modello ideale, è ugualmente artificiale e frutto di istanze etiche tutte umane. La coscienza è un livello di sistema, una proprietà biologica pressoché allo stesso modo in cui la digestione, o la crescita, o la secrezione della bile sono livelli di sistema, proprietà biologiche. In quanto tale la coscienza è una ca- ratteristica del cervello e perciò è parte del mondo fisico. La tradizione contro cui mi batto dice che, essendo gli stati mentali intrinsecamente mentali, non possono per ciò stesso essere fisici. Io sostengo invece che, in quanto intrinse- camente mentali, essi sono un certo tipo di stato biologico, e dunque a fortiori sono fisici4. La posizione di Johon R. Searle è evidentemente materialista rispetto alla mens cogitans, pertanto rispecchia un modello monista e immanentista del reale. Conseguentemente, in un tale modello tutto il diritto è solo arti- ficiale, ossia umano e, quindi, relativo alla cultura dei luoghi e dei tempi 3 Voltaire, Candido o l’ottimismo, Publidue, Bolzano Novarese 1997, p. 56. 4 J.R. Searle, La mente, cit., p. 104.           Diritto artificiale 73 in cui sorge. In tale visione il diritto naturale è frutto della mente umana esattamente come il diritto positivo e, pertanto, entrambe possono essere definiti diritti artificiali. Paradossalmente potrebbero essere anche definiti come naturali, poiché l’artificialità è una componente naturale, congeni- ta dell’essere umano5. È bene precisare che il carattere umano di artifex non coincide con l’espressione latina homo faber fortunae suae, poiché quest’ultima presuppone un libero arbitrio che la prima ignora: non è pre- cisabile sotto quale spinta l’essere umano crei manufatti ed idee. Ciò detto, si tratta di evidenziare in cosa si diversificano questi due tipi di diritto (naturale e positivo), che manifestano la medesima origine, quella umana. Il diritto naturale esprime la speranza, sempre viva nell’essere umano, di accedere ad un mondo perfetto ed immutabile di giustizia; aspirazione che, per altro, come si è visto, ha prodotto la duplicazione del mondo reale. In questo caso l’accento non viene posto né sul carattere della perfezione, né su quello dell’immutabilità, bensì sulla giustizia. Cosa è giusto? La ri- sposta risiede nell’origine stessa del diritto naturale artificiale. Il giudizio del singolo essere umano determina il contenuto concettuale del sostantivo giustizia. Esso, dunque, si manifesta come soggettivo e trascina con sé la relatività propria dei giudizi soggettivi. Non si tratta di un valore assolto, ma semplicemente dell’espressione di un’opinione, di una preferenza; ciò spiega ampiamente il suo, già ricordato, carattere variabile. Per approfon- dire ulteriormente il discorso, quindi, si dovrà abbandonare il giudizio in se stesso, il suo contenuto, per rivolgere l’attenzione verso il soggetto che lo ha espresso, verso i suoi interessi, i suoi gusti, la sua cultura. Infatti, è nel soggetto ed esclusivamente nel soggetto, che è possibile comprendere non solo la variabilità dei contenuti del giudizio di giustizia, ma anche la qualità di questi contenuti. Storicamente gli esseri umani hanno prodotto da sempre utopie sociali tranquillizzanti, che potessero fungere da faro verso il quale rivolgere, di- rigere la vita in comunità. Dalla Repubblica di Platone al De Civitate Dei di Sant’Agostino d’Ippona, all’Utopia di Thomas More (1478-1535), alla Città del Sole di Tommaso Campanella (1568-1639), alla Nuova Atlantide di Francis Bacon (1561-1626), alle Avventure di Telemaco di François de Salignac de La Mothe-Fénelon (1651-1715), al Comunismo di Karl Marx (1818-1883), al movimento New Age dell’Era dell’Acquario, e l’elenco è 5 Cfr. G. Barsanti, Dalla storia naturale alla storia della natura. Saggio su Lamarck, Feltrinelli, Milano 1979. Vedere anche M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Rizzoli Editore, Milano 1980.           74 Il diritto come estetica solo esemplificativo, l’interesse per una società giusta si è sviluppato attra- verso i secoli, chiedendo conforto ora all’assoluto metafisico ed ora al rela- tivo immanente. In quest’ultimo caso l’accento è stato generalmente posto sui valori della libertà e dell’eguaglianza, sia in alternativa, sia in equilibrio instabile tra loro6. Il desiderio di far prevalere il valore della libertà o quello dell’eguaglianza, come il cercare un equilibrio tra i due, è espressione di precise situazioni sociali e personali indagabili empiricamente. Basti pen- sare ai diversi interessi di potere ed economici, nonché agli altrettanto di- versi gusti ideologici, culturali e religiosi, presenti nelle menti dei singoli individui e nelle relative organizzazioni sociali. Ovviamente i singoli orga- nizzati in gruppo dominante, più forte, tenderanno a far prevalere le proprie visioni nell’ambito sociale e, per raggiungere più agevolmente tale scopo, possono avvalersi non solo del diritto positivo, ma anche, in funzione di sostegno, di quello naturale. Di contro, i singoli appartenenti al gruppo dominato, recessivo, più debole, tenteranno di opporsi alle visioni valoriali dominanti e, per fornire maggiore forza alle proprie idee, faranno appello ad un ipotetico diritto naturale, giusto per definizione. Il diritto naturale, dunque, può svolgere alternativamente una funzione sociale di rafforzamento metafisico del diritto positivo vigente o di contral- tare, sempre metafisico, al diritto positivo dominante. La contrapposizione tra gruppi sociali dominati e recessivi si manifesta, quindi, già nella dua- lizzazione tra diritto naturale e diritto positivo, ma si esprime in modo più evidente intorno ai concetti di ideologia e di utopia, così come vengono espressi da Karl Mannheim (1893-1947): [...] le utopie trascendono la situazione sociale, in quanto orientano la con- dotta verso elementi che la realtà presente non contiene affatto. Ma esse non sono ideologie, non lo sono nella misura e fino a quando riescono a trasfor- mare l’ordine esistente in uno più confacente con le proprie concezioni. Ad un osservatore che abbia di esse un concetto relativamente estrinseco, questa distinzione teoretica e del tutto formale tra ideologie e utopie sembra offrire poche difficoltà. Determinare in concreto quale, in un certo caso, sia l’ideologia e quale l’utopia è invece estremamente difficile. Noi ci troviamo qui di fronte all’applicazione di un concetto che implica dei valori e dei modelli. Per riuscire a questo, uno deve di necessità partecipare ai sentimenti e alle finalità dei partiti in lotta per il potere su di una realtà storica7. In sintesi, le ideologie esprimono prevalentemente l’opinione consoli- data dei gruppi dominanti, mentre le utopie quella dei dominati; in questa 6 Cfr. C. Rosselli, Socialismo liberale, Einaudi, Torino 1979. 7 K. Mannheim, Ideologia e utopia, il Mulino, Bologna 1970, pp. 197-198.           Diritto artificiale 75 dualizzazione si manifesta all’incirca il medesimo rapporto che intercorre tra diritto positivo e diritto naturale ed anche in questo caso, sia l’ideologia che l’utopia sono realtà meramente umane, relative, pur aspirando ad una dimensione assoluta. Ovviamente la distinzione è solo indicativa, poiché non è sempre agevole individuare chi veramente domini e chi sia vera- mente dominato ed in che misura. In ogni caso, il diritto naturale, al pari dell’utopia, si presenta come una speranza, come una istanza politica od etica; se si accoglie il dualismo fisica/metafisica, umano/divino, come la voce, l’ombra empirica del metafisico, del divino. In questo modo il diritto, in quanto organizzazione della forza fisica degli esseri umani nella storia, si trasforma in forza anche morale attraverso un dover essere eteronomo, la cui fonte è superiore a quella umana. Ma proprio quando viene meno, si prosciuga, con lo svilupparsi del soggettivismo individualista, questa fonte eteronoma ed il diritto aspira a divenire autonomo (democrazia o nichili- smo, poco rileva), si indebolisce anche la sua forza morale ed il dover es- sere perde di senso in favore del mi piace, come si dirà in seguito. A questa perdita di senso corrisponde un progressivo evaporare del diritto naturale ed una corrispondente identificazione del diritto positivo tout court con la forza. Il diritto positivo, ma anche quello naturale, finalmente gettano la maschera e si svelano come espressione della potenza dei gruppi sociali dominanti, che possono agire, nel perseguimento dei propri fini, attraverso la violenza, il convincimento od il condizionamento culturale. Sotto questo profilo le differenze tra dittatura, monarchia, oligarchia e democrazia risul- tano marginali, poiché anche quest’ultima, operando attraverso il principio maggioritario, si distingue solo quantitativamente e non qualitativamente dall’uso della sopraffazione sul singolo individuo dissenziente. Un ulteriore tentativo mistificatorio trova espressione attraverso la se- parazione del concetto di ordinamento giuridico da quello di Stato, come se un diritto potesse esistere come fonte originaria di doveri, di obblighi, senza il supporto coercitivo di uno Stato, e come se le regole imposte dallo Stato potessero vivere di vita propria senza lo Stato che le ha generate. Si è ancora in presenza di una duplicazione, che assegna al diritto una propria natura trascendente rispetto all’immanenza dello Stato. Immanen- za e trascendenza continuano ad essere i protagonisti di questo dilemma tra autonomia ed eteronomia, tra relativo ed assoluto, tra umano e divino. Ma il dilemma è destinato a restare tale, poiché la scelta non può avva- lersi di prove né empiriche, né logico-razionali. Le prove empiriche sono impercorribili, incompatibili con le realtà non empiriche e quelle logico- razionali non possono descrivere un mondo governato da una logica e da una ragione diverse da quelle umane. La scelta resta, dunque, arbitraria,          76 Il diritto come estetica affidata ad assiomi, a fede, la cui origine risale sempre e solo al soggetto, alla sua personale convinzione, illuminazione ed, in quanto tale, ad esso relativa. Più in generale, tutto il mondo empirico si manifesta sempre e solo come relativo al soggetto che lo percepisce. Lo stato di natura, come si è detto, consiste in una perenne lotta per l’esistenza e la sopravvivenza, che genera una generale incertezza nei sog- getti consapevoli intono alla propria sorte. Da ciò scaturisce l’esigenza e, contemporaneamente, il desiderio di costruire una propria sicurezza di rapporti, sicurezza in gradazione crescente dal mero impegno morale al diritto. L’artificialità non si limita, dunque, all’ideazione del diritto, ma lo organizza anche in istituzione, cioè in una entità astratta permanente, che persiste nel tempo con il mutare dei soggetti umani che la compongo- no. Esempi tipici di tale organizzazione sono l’ordinamento giuridico e lo Stato, che nelle società contemporanee tendono praticamente a coincidere, anche se, come si è visto sopra, originano da un tentativo mistificatorio di duplicazione. In altre parole, il diritto, inteso come tecnica di trattamento dei conflitti intersoggettivi umani, si organizza in un sistema burocratico istituzionalizzato. Il diritto, quindi, diviene tecnica e si produce e si applica attraverso pro- cedure burocratiche, a loro volta determinate dal diritto stesso. Il diritto ge- nera se stesso attraverso procedure ed artifici linguistici, quali i concetti di doverosità e di obbligo. In realtà, può dirsi diritto solo quel comportamento concretamente messo in essere nella convinzione del soggetto di adempie- re ad un dovere giuridico. Le procedure legislative sono solo canali per convogliare o mediare il consenso dei soggetti intorno alle proposizioni normative e queste ultime sono indicazioni, segnali per l’azione o la non azione, ma la norma resta il fatto concretamente materializzato dell’azione compiuta e non perseguita da sanzione. Si potrebbe dire che il diritto altro non è che l’opinione giuridica del soggetto intorno ai comportamenti da tenere. Il comportamento conseguente a tale opinione potrà anche essere sanzionato, ma ciò non potrà cancellare la natura giuridica di tale opinione e del conseguente comportamento. Ciò spiega anche come il diritto natu- rale possa considerarsi diritto al pari di quello positivo, non solo in quanto entrambe artificiali, ma anche perché entrambe soggettivi, esistenti solo nella convinzione di obbligatorietà del soggetto agente. Tornando ora al diritto come tecnica burocratica pare opportuno preci- sare che la burocrazia si forma come strumento di garanzia della certezza e della velocizzazione delle procedure, ossia come strumento il cui fine è il raggiungimento dei fini propri dell’organizzazione, cui viene applicata. Nel nostro caso il fine dovrebbe consistere nella realizzazione della giusti-          Diritto artificiale 77 zia, ma si è già detto che, purtroppo, il concetto di giustizia resta di conte- nuto vago e, comunque, relativo al pensiero dei singoli soggetti agenti. In queste condizioni la burocrazia ha buon giuoco a fare quello che Severino denunzia essere la tendenza di qualsiasi tecnica: il trasformarsi da mezzo in fine. Tanto il capitalismo, quanto il diritto sono forme di volontà destinate a di- ventare, da scopi, mezzi della tecnica. La tecnica è destinata a prevalere stori- camente, e questo prevalere è appunto il rovesciamento in cui la tecnica – da mezzo della volontà giuridica, o capitalistica, o democratica, o di ogni altra forma di volontà – diventa lo scopo di tali forme; si che, anche per quanto ri- guarda la volontà capitalistica e la volontà giuridica, non sarà più il capitalismo a servirsi della tecnica (e della volontà giuridica) per incrementare il profitto, e non sarà più (posto che lo sia stata) la volontà giuridica a servirsi della tecnica (e del capitalismo) per realizzare un certo ordinamento giuridico, ma sarà la tecnica a servirsi della volontà del profitto e della volontà giuridica per incre- mentare all’infinito la propria potenza8. La tecnica incrementa se stessa perseguendo obiettivi sempre più estesi ed ambiziosi, sino al punto di dimenticare gli obiettivi stessi e di espandersi per una propria logica di espansione. La burocrazia segue questo medesi- mo modello espansionista e diviene la referente di se stessa. Natalino Irti, pur sollevando vari dubbi intorno alla posizione di Severino, in particola- re riguardo alla capacità di tenuta dei giuristi e della scienza giuridica, in quanto detentori della decisione e della scelta (ritorna il libero arbitrio con il diritto), riconosce il pericolo del pantecnicismo: Insomma, se l’Apparato tecnico-scientifico è incremento indefinito della ca- pacità di raggiungere scopi, chi decide, nel silenzio della politica e del diritto, i concreti e determinati scopi, a cui quella capacità può dare soddisfazione? Non rischia forse, quell’Apparato, di risuscitare gli antichi dei, i quali, risolvendo in se stessi il tutto, non hanno bisogno degli effimeri scopi dell’uomo? Così il cammino, aperto dal giusnaturalismo, si chiuderebbe nel giustecnicismo9. La risposta alla prima domanda potrebbe essere: nessuno. Le decisioni potrebbero estinguersi nel dominio di procedure, che, una volta decise, per- mangono per sempre immutate, perpetuando se stesse. La seconda doman- da si limita a proporre un inconveniente della tecnocrazia, la sua tendenza 8 E. Severino, Atto secondo, in N. Irti, E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Edizioni Laterza, Roma-Bari 2001, p. 80. 9 N. Irti, Atto primo, in N. Irti, E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, cit., pp. 20-21.           78 Il diritto come estetica al metafisico, ma la risposta giunge dal noto broccardo latino: adducere inconveniens non est solvere argumentum. Lo sviluppo dei sistemi informatici, poi, moltiplica queste tendenze espansioniste autoreferenziate a scapito dei fini, cui erano stati preposti. Valga l’esempio dei sevizi bancari, che, svolti da persone fisiche, forni- scono informazioni e prestazioni variabili; parzialmente sostituiti dai ban- comat, ampliano il servizio sotto il profilo degli orari di apertura, ma lo complicano con operazioni a computer autogestite dalla clientela e da co- dici segreti; completamente sostituiti da sistemi informatici, obbligano la clientela entro rigidi schemi e variabili predeterminate, vincolanti per la prestazione del servizio, con limitato, se non inesistente, accesso ad un dia- logo, ad una trattativa personale intorno alle condizioni di erogazione dei sevizi medesimi. La tecnica ha cancellato il servizio in nome del suo stesso sviluppo tecnologico. Ciò che vale per la tecnica, vale anche per il diritto, in quanto tecnica: si estende senza sosta, occupando aree sociali sempre più ampie; la giuridicizzazione del mondo moltiplica le controversie civili ed i reati; si creano aspettative di certezza sempre nuove, ma sempre anche frustrate dall’inevitabile varietà del mondo, che non conosce limiti. Inutil- mente l’artificialità del diritto si affanna a prevedere futuri comportamen- ti possibili da governare, i comportamenti continuano a moltiplicarsi alla stessa velocità delle regole e l’unico risultato resta l’inflazione normativa, ossia l’estendersi della tecnica giuridica. Da un lato, la tecnica giuridica tende a soppiantare nella regolamentazione sociale tutte le altre tecniche. Dall’altro lato, accoppiata ai modelli informatici, si disumanizza e fornisce vita ad un nuovo diritto naturale, non più divino, ma pur sempre metafisico. L’essere umano, per natura, pone domande, nei sistemi informatici deve solo fornire risposte; le domande le pone il computer. I termini dei proble- mi li determina il computer e le soluzioni pure. Non si è ancora completato questo processo di disumanizzazione, ma con i ritmi di sviluppo attuali della tecnologia i tempi della sua realizzazione probabilmente non saranno lunghi. La tecnica, dunque, si assolutizza, prima, come alibi egualitarista di de- responsabilizzazione decisionale umana, poi, come vera e propria delega di decisione autonoma, in fine forse, come effettiva capacità decisionale autonoma. La regolamentazione, che indirettamente viene generata dalle decisioni informatiche, diviene diritto, un diritto completamente artificiale, che spodesta sia il diritto positivo che quello naturale. Ma questo nuovo diritto, che si appresta a nascere, ha i caratteri del suo genitore informati- co: immateriale, trascendente l’essere umano, onnipotente, onnipresente ed assoluto.          Diritto artificiale 79 Il metafisico sembra potersi materializzare su questa Terra attraverso l’informatica ed il diritto naturale riconquistare la propria autonomia tra- scendente attraverso una nuova dualizzazione: umano/informatico. Questa nuova legge naturale è meramente descrittiva, come quella divina, poiché anche in essa conoscenza e volontà coincidono: ci si deve attenere alla maschera dei comandi e delle domande o non si ottiene risposta e servizio; in metafora, devi nuotare se non vuoi affogare. Il dover essere del diritto naturale, per così dire, di derivazione etica cede il passo al dover essere dei fenomeni naturali, delle frane, delle inondazioni, della fisica e della chi- mica. Questo diritto naturale informatico non manifesta doverosità etiche o giuridiche, ma necessità empiriche. L’alienazione dell’umano avviene nella tecnica, ed in particolare in quella informatica, attraverso una etero- nomia imposta per necessità e non più per scelta. Il libero arbitrio viene negato nei fatti e nella loro ineluttabilità. Forse, nella ciclicità delle alterne vicende del futuro potrà rinascere un nuovo umanesimo, che dovrà portare con sé anche l’emergere di un nuo- vo diritto positivo o, forse, la rinascita competerà ad una nuova fede tra- scendente ed al relativo diritto naturale oppure, sempre forse, lo strumento giuridico potrà non essere più considerato idoneo a gestire le conflittualità umane, le incertezze prodotte dalla natura ed i suoi orrori. Probabilmente il mutare della prospettiva potrà dipendere da un nuovo salto culturale, da un nuovo paradigma, per usare una espressione di Thomas Kuhn (1922- 1996)10. Del resto anche Foucault, nelle sue ricerche archeologiche intorno al sapere, alla conoscenza umana ha individuato taluni di questi salti cul- turali. Essa [la natura] si rivela omicida in quello stesso movimento che la destina alla morte. Uccide perché vive. La natura non sa più essere buona. Che la vita non potesse più essere separata dall’omicidio, la natura dal male, e i desideri dalla contro-natura, era quanto Sade annunciava nel XVIII secolo, del quale egli esauriva il linguaggio, e nell’età moderna, la quale volle lungamente con- dannarlo al mutismo. Si perdoni l’insolenza (verso chi?): I 120 giorni sono il rovescio vellutato, meraviglioso, delle Lezioni d’anatomia comparata. Co- munque sul calendario della nostra archeologia hanno la stessa età11. 10 Cfr. Th. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Come mutano le idee della scienza, Einaudi, Torino 1978. 11 M. Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, cit., pp. 300-301.           80 Il diritto come estetica Anche il concetto stesso di natura subisce le mutazioni culturali proprie del soggettivismo e del relativismo umano: la natura ora appare madre ed ora matrigna, ora si manifesta come benefica ed ora come malefica (indif- ferente nell’ipotesi leopardiana), ora generatrice ed ora omicida, probabil- mente perché possiede contemporaneamente tutti questi aspetti. Il giudizio dipende dal punto di vista dal quale la si osserva, ossia non è possibile per l’essere umano raggiungere una conoscenza complessiva, completa, universale, si potrebbe dire olistica. La stagione, la temperie culturale delle varie società umane consente, poi, il prevalere di una visione, di un con- vincimento, di una interpretazione rispetto ad altre, diverse ma altrettanto possibili, secondo un modello di trasformazione, di sviluppo non ancora ben identificato, secondo un modello di salto culturale molto simile ai salti quantici propri della fisica teorica.          5. NICHILISMO E NIHILISMO Le strade che conducono ad una posizione nichilista o nihilista (si vedrà in seguito la differenza tra questi concetti) sono almeno due. L’una provie- ne dal riconoscimento del pieno ed insindacabile soggettivismo delle scelte umane e conduce al pluralismo, al relativismo dei valori. L’altra origina nella convinzione del divenire della storia e della vita umana e porta a quel trionfo logico del nulla, del non essere, che attualmente sembra approdare ai lidi della tecnocrazia. Entrambe le strade, tuttavia, si aggirano nel mede- simo panorama ambientale: la fine dell’Assoluto, dell’ episteme (επιστήμη – ciò che si impone), del trascendente, dell’immutabile, dell’Essere che non può non essere1. Questo panorama è stato descritto con estrema lucidità da Nietzsche e sintetizzato nell’espressione: Dio è morto. Cerco Dio! Cerco Dio! [...]. Dov’è andato Dio? – gridò – Ve lo dico io. L’abbiamo ucciso noi, – voi ed io! Noi tutti siamo i suoi assassini. Ma come ab- biamo fatto? [...]. Che cosa abbiamo fatto, quando abbiamo svincolato questa terra dal suo sole? [...]. Non vaghiamo attraverso un nulla infinito? Non avver- tiamo l’alito dello spazio vuoto? [...]. Non sentiamo il frastuono dei becchini che stanno seppellendo Dio? Non sentiamo ancora l’odore della putrefazione divina – anche gli dei si putrefanno? Non è troppo grande per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo divenire dei noi stessi, per essere degni di lei?2. 1 “Non ci si ferma più soltanto al sentimento della mancanza di valore e di senso del divenire, né a quello dell’irrealtà del divenire. Il nichilismo diventa ora esplicita incredulità per qualcosa come un mondo eretto al di sopra del sensibile e del divenire (del fisico), cioè metafisico. Questa incredulità per la metafisica si vieta ogni sorta di via traversa per giungere a un mondo dietro il mondo o a un sopramondo”. M. Heidegger, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 2010, p. 75. 2 F. Nietzsche, La gaia scienza, in Opere 1882-1895, Newton, Milano 1993, pp. 121-122.           82 Il diritto come estetica Già in passato, narra Plutarco (46 d.C.-127 d.C.), all’epoca dell’impe- ratore romano Tiberio (42 a.C.-37 d.C.) correva la leggenda che un certo Thamus, capitano di una nave sulla rotta dall’Egitto verso Roma, si fosse sentito chiamare da una voce tonante, che alla sua risposta gli ingiunse di riferire a Tiberio che il Grande Pan era morto. Fine di un’epoca? Simbo- logia astrale della precessione della presunta stella fissa Sirio? Avvento del Cristianesimo al posto delle antiche divinità? Altro? Poco importa la risposta; ciò che conta è il concetto di fine di un mondo e delle sue certezze al subentrare di un altro. La morte cancella il passato ed apre le porte al futuro: nuovi dogmi, nuovi concetti, nuovi metodi di ricerca, nuove cre- denze, nuovi valori, nuove leggi. Si rinnovano le basi della conoscenza umana e delle sue modalità esistenziali, individuali e collettive. Dio è mor- to simboleggia la fine del mondo trascendente, dell’assoluto, del divino e dell’eteronomia e prepara l’avvento di un nuovo mondo immanente, rela- tivo, umano, autonomo. Il punto centrale da affrontare riguardo alla fine del vecchio mondo ed alla nascita del nuovo, ossia all’origine ed alla forma del nichilismo, è rap- presentato dal soggettivismo, che Heidegger analizza nel suo sviluppo da Protagora (486 a.C.-411 a.C.) a Descartes, sino a Nietzsche. Il soggettivi- smo genera un nuovo assoluto, quello umano, sul quale fondare il senso e le scelte, ma tale assoluto si presenta privo di certezze, di verità, poiché relativo; si è costretti dentro un ossimoro tra metafisica del soggetto e fisica del soggetto oggettivato, identificate entrambe nell’essere umano. L’alter- nativa è stringente: o si accoglie una nuova metafisica o si rinunzia al senso ed alla verità tradizionale e consolidata, per percorrere la via nichilista, sulla quale trovare un nuovo senso privo di verità e di valori. Heidegger esprime con evidenza questa difficoltà: La metafisica moderna, in balia della quale sta o sembra inevitabilmente stare anche il nostro pensiero, in quanto metafisica della soggettività fa passare per ovvia l’opinione che l’essenza della verità e l’interpretazione dell’essere si determinino per l’opera dell’uomo in quanto è il soggetto vero e proprio. A pensare in modo più essenziale, tuttavia, si vede che la soggettività si de- termina partendo dall’essenza della verità come certezza e dall’essere come rappresentazione. E prosegue in modo ancora più esplicito: Ora, che l’uomo erri, dunque che non sia immediatamente e costantemen- te in pieno possesso del vero, significa certamente una limitazione alla sua essenza; di conseguenza, anche il soggetto – come tale l’uomo funge nel rap-          Nichilismo e nihilismo 83 presentare – è limitato, finito, condizionato da altro. L’uomo non è in possesso della conoscenza assoluta, non è, pensando in termini cristiani, Dio3. Se il soggettivismo si trasforma in un nuovo assolutismo della verità, presupponendo a priori come veritiera ogni affermazione soggettiva, si è solo costruita una nuova metafisica immanentista, ossia priva di dupli- cazione trascendente. Ma una tale metafisica appare ancora più infondata di quella trascendente. Infatti, l’immanentismo fisico possiede il carattere della fattualità, ossia di poter essere sottoposto a verifica/falsificazione em- pirica. La verifica empirica del soggettivismo narra solo posizioni e scelte relative ai soggetti che le esprimono, pertanto un suo eventuale assoluti- smo verrebbe falsificato proprio in via empirica. Ci si deve rassegnare; la via soggettivista non può che avere come compagno di viaggio il dubbio e come meta l’incertezza. Si tratta di capire se la psicologia umana è in grado di sostenere un tale peso esistenziale e se è possibile organizzare una società priva di verità e di valori assoluti. Se questa è la dimensione umana sarebbe strano rispondere negativamente ai due precedenti quesiti. Tutta- via non appare strano che il genere umano abbia tentato di evitare un tale salto nel dubbio e nell’incertezza attraverso la duplicazione metafisica del mondo. Ma questa duplicazione può trovare una qualche giustificazione ed, ancor più, un fondamento, se non logico almeno antropologico. Ciò, in- vece, che è chiaro è che con l’avvento del soggettivismo, inevitabilmente, viene meno anche l’Assoluto. Infatti, l’Assoluto, creando il relativo, stacca una parte dal Tutto, genera un’altra unità, che, sommata alla prima, l’uno, risulta due, la pluralità. In tale modo, automaticamente, anche l’Assoluto diviene parte di quel Tutto composto da Creatore e Creato. Il Tutto si esten- de, si diversifica e l’Assoluto si relativizza; ossia muore. La scienza moderna esprime alle proprie origini un principio metodo- logico, che passa sotto la denominazione di Rasoio di Occam (novacula Occami) dal nome di William di Ockham (1285-1347). Questo principio ha trovato varie formulazioni tra le quali la seguente pare la più adatta al tema qui trattato: Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem. In sintesi, si tratta di scegliere tra due alternative, a parità di fattori, quella più semplice, più immediata. La domanda, dunque, da porre potrebbe essere: è necessario duplicare il mondo per spiegarlo? In una visione immanentista sembrerebbe inutile la duplicazione, giacché i nessi causali e le leggi co- stanti, universali, nonché probabilistiche, paiono poter rispondere ad ogni quesito, salvo quello dell’origine del mondo stesso, dell’Essere; ma un tale 3 M. Heidegger, Il nichilismo europeo, cit., pp. 234 e 237.           84 Il diritto come estetica interrogativo dalla duplicazione viene solo rinviato al metafisico e, quindi, privato di risposta per non senso della domanda o, più semplicemente, per misteriosità impenetrabile del metafisico. Le risposte causali e le regolarità comportamentali, però, si limitano a descrivere i fenomeni, e non giusti- ficano né la loro esistenza, né la loro finalità, ossia non riescono a fornire senso, significato alla realtà immanente. Non è questo un difetto dell’em- piria, ma la sua naturale caratteristica, che consiste nella mera descrittività dei fenomeni osservati, i quali sono rilevati come privi di finalità nella loro immediata dimensione dell’attimo presente. Dunque, in una visione imma- nentista del mondo, a maggior ragione se priva di libero arbitrio, ma anche se dotata del medesimo (l’empiria si limita a descrivere le scelte non a mo- tivarle valorialmente), manca completamente il senso della vita, il motivo dell’esistere: ciò che esiste, esiste perché esiste. Ovviamente una simile carenza di senso non può soddisfare la presunzione umana e, tanto meno, placare i timori dell’ignoto. L’essere umano aspira all’assoluto, all’infinito per se stesso e teme la morte in quanto nulla. Per esorcizzare aspirazioni frustrate e timori è necessario trovare un senso all’esistere e, possibilmen- te, anche una sopravvivenza post mortem di questo esistere. Conseguente- mente la duplicazione del mondo diviene necessaria per giustificare, per attribuire una qualche finalità alla vita e per calmare le angosce esistenziali; è antropologicamente e psicologicamente necessaria, non certo teoretica- mente, come si è già visto. Al contrario, teoreticamente dovrebbe valere il principio del Rasoio d’Occam e, quindi, reputare inutile, o almeno, poco probabile, la duplicazione, in quanto operazione meramente mentale al pari di qualsiasi altro sogno, credenza, ideologia o fantasia. Presa confidenza con il panorama, conviene ora porre attenzione alla strada da percorrere. Max Weber (1864-1920) indica la prima (pluralismo e relativismo dei valori). Si tratta di constatare l’emergere nel mondo occi- dentale moderno di un politeismo di valori, che pone fine all’unità ideolo- gica, che fu propria della Res publica christiana4. 4 “La Entzauberung der Welt sfocia nel politeismo dei valori, con cui Weber certifica la destinale pluralizzazione degli ordinamenti della vita, ossia la perdita di universalità della ragione occidentale. Quella di Weber è la assunzione radicale della sentenza di Nietzsche Dio è morto, ossia la consapevolezza di vivere in un mondo senza dei e senza profeti tipica di un’epoca che ha mangiato all’albero della conoscenza. I valori supremi di ordine religioso che avevano avviato il processo di razionalizzazione si svalutano irrimediabilmente nell’epoca del compiuto disincanto, ossia del nichilismo compiuto”. F. Fusillo, Nichilismo e sovranità, in R. Esposito, C. Galli, V. Vitiello (a cura di), Nichilismo e politica, Editori Laterza, Roma-Bari 2000, p. 188.           Nichilismo e nihilismo 85 [...], respingendo come cosa estranea e ostile ogni santità e ogni bene, ogni legalità etica o estetica, ogni significatività della cultura o valutazione della personalità, pretenderebbe [questa concezione n.d.r.] tuttavia, ed anzi proprio perciò, la sua propria dignità immanente nel senso estremo della parola. Quale che possa essere la nostra presa di posizione nei confronti di tale pretesa, in ogni caso essa non può venire dimostrata o confutata con i mezzi di nessuna scienza. Ogni considerazione empirica di questi argomenti condurrebbe, come ha osservato il vecchio Stuart Mill, al riconoscimento di un politeismo assoluto come la sola forma di metafisica ad essi corrispondente. [...]. Tra i valori, cioè, si tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra dio e il demonio. [...]. Il frutto dell’albero della conoscenza, frutto inevitabile anche se molesto per la comodità umana, non consiste in nient’altro che nel dover cono- scere quell’antitesi e nel dover quindi considerare che ogni importante azione singola, ed anzi la vita come un tutto – se essa non deve procedere da sé come un evento naturale, bensì essere condotta consapevolmente – rappresenta una concatenazione di ultime decisioni, mediante cui l’anima (come per Platone) sceglie il suo proprio destino – e cioè il senso del suo agire e del suo essere5. Il mondo sociologico weberiano è animato da una pluralità di soggetti individuali e collettivi, che perseguono propri interessi e proprie valuta- zioni, non richiamandosi necessariamente a legittimazioni trascendenti, Anzi cercando nell’azione razionale, ossia umana, rispetto al mezzo od al fine il senso, il significato dell’agire. Questo senso diviene in tale modo meramente immanente e, quindi, patrimonio esclusivo del soggetto agente. Il soggettivismo si impone come scelta politica e giuridica, ma anche come procedura burocratica. In Weber si possono già leggere le prime avvisaglie di quello che la burocrazia potrà generare come tecnica fine a se stessa; è possibile intravedere il fantasma della tecnocrazia disumanizzante6. Ma ai fini del nichilismo ciò che maggiormente interessa è il richiamo alla molte- plicità degli interessi, delle prospettive e delle ideologie sociali, poiché da tale molteplicità scaturisce anche il relativismo soggettivo delle stesse. Molti valori non significano certo nessun valore, ma comunque incrinano 5 M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958, pp. 331-333. 6 “La burocrazia è di carattere razionale: la regola, lo scopo, il mezzo, l’impersonalità oggettiva dominano la sua condotta. Il suo sorgere e la sua espansione hanno perciò avuto ovunque un senso rivoluzionario – che rimane ancora da esaminare – come di solito avviene per la penetrazione del razionalismo in tutti i campi. Essa annientò le forme strutturali di potere che non avevano un carattere razionale in questo senso specifico”. M. Weber, Economia e società, Edizioni di Comunità Milano 1995, p. 101.           86 Il diritto come estetica il monolitismo sociale e ne cancellano la legittimazione trascendente. Le società umane si presentano molteplici come molteplici sono gli esseri umani. Severino intraprende, invece, per giungere al nichilismo la strada del divenire che nientifica l’Essere. L’Essere è immutabile quindi non divie- ne, ciò per Severino non significa, come per Spinoza, che il movimento è illusione, ma che il nulla non esiste; ciò comporta l’assenza di tempo nel pensiero spinoziano di contro ad un emergere ed eclissarsi dell’Essere nel tempo, senza mai divenire nulla, in quello severiniano. Questa posizione di Severino incide anche sul suo concetto di libertà e di nichilismo. Il libero arbitrio dell’essere umano immutabile si fonda sulle infinite vite che po- trebbero apparire e che non sono apparse; ossia si fonda non sull’alternarsi del divenire tra essere e nulla, ma sulla possibilità di manifestasi dell’Esse- re. La libertà è in questo modo pura contingenza dell’apparire: La possibilità non è nell’essere, ma nell’apparire dell’essere [...]. Se vivo eternamente tutte le vite che avrei potuto vivere – se ho già da sempre deciso tutto ciò che avrei potuto decidere – nell’apparire entra peraltro solamente que- sta vita che vivo. Ma entra soltanto questa perché tutte le altre restano nascose, o perché non esiste alcun’altra vita? O anche: esistono altre mie vite, oltre questa che appare? E se esistono, sarebbero potute apparire invece di questa che appare? In tale possibilità risiede il fondamento della libertà dell’uomo; che dunque può essere libero, solo se è pensato come l’eterno vivere tutte le vite che potrebbe vivere7. La natura non empirica dell’Essere di Severino appare evidente, ma essa scaturisce non da una duplicazione del mondo, ma dalla negazione, operata con gli strumenti della logica, del divenire, del passare dall’essere al non essere nel tempo. La nozione di nichilismo esprime la medesima esigenza di non dare realtà al nulla. Un Essere tutto pieno ed eterno in se stesso non diviene, quindi può trovare disvalori solo nell’altro, ossia nel nulla di sé. Siamo prossimi all’autoreferenzialità chiusa delle monadi di Leibniz, ma in Severino l’accento non viene tanto posto sull’autoreferenzialità di una molteplicità di Esseri, tutti equivalenti, di pari dignità e, quindi, ingiudi- cabili nella loro autonomia, ma piuttosto sul divenire, che, consentendo il nulla, relativizza appunto nel nulla qualsiasi affermazione, qualsiasi scelta. 7 E. Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1995, p. 165. Cfr., per una certa analogia di pensiero, C. Bruce, I conigli di Schrödinger. Fisica quantistica e universi paralleli, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006.           Nichilismo e nihilismo 87 Il nulla consente la negazione dell’assoluto e rende tutto relativo, contin- gente, occasionale, in breve, nichilista. Nichilismo significa affermare che le cose sono niente, ossia che il non- niente è niente. Sin da Platone, la metafisica ha identificato le cose al niente: affermando che escono e tornano ad essere niente. Il mondo è la dimensione in cui il non-niente è niente, e ove Dio e l’Uomo hanno la capacità di operare l’identificazione del non-niente e del niente. Forza-cultura, religione-ateismo, cristianesimo-anticristianesimo, meta- fisica-antimetafisica, materialismo-spiritualimo, moralismo-immoralismo, assolutismo-democrazia, capitalismo-comunismo, servo-padrone, umanesimo- tecnicismo formano i grandi contrasti che si svolgono all’interno della comune alienazione nichilista dell’Occidente8. Severino è portatore di un monismo immanentista non empirico, nel quale libero arbitrio e nichilismo si identificano col problema del divenire e, quindi, giuocano la loro presenza o assenza intorno all’impossibilità di esistere del non essere e all’impossibilità di non esistere dell’essere; possi- bilità ed impossibilità tutte logiche ed, appunto, non empiriche. Oltre il bivio nichilista tra la strada di un pluralismo valoriale soggettivo e la negazione del divenire si presenta un ulteriore bivio, quello tra l’eguale fondamento e dignità di qualsiasi scelta, di qualsiasi valore e l’inesistenza stessa dei valori. L’equivalenza di tutti i valori conserverà il nome di ni- chilismo, mentre la vera e propria completa assenza concettuale di entità 8 E. Severino, op. cit., p. 137. In merito ai passi citati in testo, con una comunicazio- ne personale del 6 marzo 2016 via mail, Emanuele Severino precisa quanto segue: “Lei [Ghezzi] considera quanto si dice nel mio saggio Essenza del nichilismo intorno al libero arbitrio. Ma in Destino della necessità (1980) mostro che questa posizione è un residuo di nichilismo e va superata. Quando uso la parola essere (quasi sempre o sempre con l’iniziale minuscola) intendo gli essenti, qualsiasi essente, empirico o no. Mostrando che l’essere sè degli essenti (in quanto esso è ciò la cui negazione è autonegazione, ossia in quanto è la struttura originaria del destino della verità) implica l’eternità di ogni essente, si mostra anche l’essere della dimensione non empirica degli essenti. Ma il decisivo è che l’eternità non è un presupposto, ma è implicata con necessità dalla struttura originaria; ed è questa necessità che si tratta di discutere. Questa necessità esclude di essere relativizza- ta e messa accanto alle varie posizioni filosofico-culturali. Il suo saggio afferma l’esistenza del soggetto e del suo sentire. Ma la struttura originaria chiede in base a che cosa si afferma tale esistenza (e l’esistenza del ricco panorama culturale espresso dal suo saggio, e dunque l’esistenza del mondo) richieste analoghe, si intende, vanno rivolte a tutta la cultura filosofica e scientifica”. Ulteriori precisa- zioni in argomento sono presenti anche nella Presentazione di Emanuele Severino a questo saggio.           88 Il diritto come estetica definibili come valori verrà chiamata nihilismo. La distinzione potrà appa- rire più chiara se applicata al nichilismo giuridico. Nella visione dualista del mondo al diritto positivo, come si è visto, si contrappone una giustizia, la cui fonte si afferma superiore. L’Assoluto, come analizza senza timore Irti, tuttavia, si è ritirato nelle sue varie forme (Dio, la Natura, la Ragione) dalla conoscenza umana, conseguentemente, la volontà dell’essere umano è stata abbandonata ad una completa solitudine. Solitudine nelle scelte, soggettività delle medesime e relativismo dei valori perseguiti. Irti constata questo fenomeno nel diritto e, quindi, ne mette in discussione la capacità legittimante di comportamenti, che, privi di copertura giuridica, si identifi- cano con la violenza e con la volontà di potenza del più forte. Gli Dei si sono ritirati, e non offrono più al potere il fondamento di legitti- mità. Il potere rimane affidato a se stesso, alla capacità di sostenersi e di rea- lizzarsi. Il successo della volontà è, appunto, un succedere, un semplice e nudo accadere, che trae fondamento dalla propria fatticità9. Il diritto abbandona la dimensione di conoscenza, per divenire volontà, volontà di potenza e quest’ultima risulta indistinguibile dalla forza, dalla violenza10. La volontà di potenza non conosce altro imperativo che la pro- pria affermazione ed espansione. Il dover essere morale e giuridico cede il passo al confronto/scontro, alla lotta tra le diverse potenze, per determinare quale sia la maggiore11. [...] il nichilista della volontà di potenza non può auspicare alcun esito, avendo congedato la categoria del dover essere. Può solo aspettare l’esito dello scontro storico delle volontà, e non potrà condannare alcunché12. Una volta abbandonata la categoria del dover essere, il campo, da un punto di vista pratico, fattuale resta a completa disposizione della forza, ma dal punto di vista concettuale si deve affrontare il tema di come il dover 9 N. Irti, Nichilismo giuridico, Editori Laterza, Roma-Bari 2005, p. 49. 10 “Il falso contrasto tra diritto e forza deriva da una concezione metafisica del diritto, dal diritto inteso come un potere sovrannaturale, come un potere vincolante che crea ed impone dei doveri. Questo potere vincolante superiore viene opposto alla forza, cioè al potere concreto”. K. Olivecrona, Il diritto come fatto, Giuffrè, Milano 1967, pp. 107-108. 11 “Sul rango decide il quantum di potenza che sei; il resto è viltà”. F. Nietzsche, La volontà di potenza, in Opere 1882-1895, Newton, Milano 1993, p. 939. 12 V. Possenti, Nichilismo Giuridico. L’ultima parola?, Rubettino, Savoria Mannelli 2012, p. 146.           Nichilismo e nihilismo 89 essere viene meno e con cosa viene sostituito. La risposta a quest’ultimo quesito verrà affrontata nel prossimo capitolo, per ora basti concentrarsi sul primo. Il dover essere può semplicemente perdere il proprio carattere assoluto o scomparire completamente, come concetto inesistente o falso. Si è già visto come il soggettivismo renda relativi i contenuti comportamentali del dover essere e, quindi, ne vanifichi la forza vincolante, imperativa. Il dover essere resta in vita, ma persiste come valore individuale, non generalizza- bile, non imponibile a terzi. Però è dato anche il caso che il dover essere si dissolva come entità concettuale. E può dissolversi come entità solo teorica od anche come entità pratica; come affermazione priva di senso o come affermazione falsa. Il dover essere comunque scompare, ma secondo mo- dalità differenti. Un esempio articolato ed eloquente di queste tematiche è dato dalla dia- triba sviluppatasi tra la Scuola di Uppsala, che annovera tra i propri mas- simi esponenti Alex Hägerström (1868-1939) ed Karl Olivecrona (1897- 1980), e Theodor Geiger (1891-1952). La prima osservazione che Geiger muove alla scuola di Uppsala riguar- da il carattere solo teorico del nihilismo proposto. In questo caso si tratta di nihilismo e non di nichilismo, poiché il presupposto risiede nell’inesisten- za dei valori, non nella loro generale equivalenza, indifferenza. Chi è criticamente illuminato è necessariamente un nihilista teorico dei va- lori. Egli ha compreso che le idee di valore non sono altro che orientamenti emotivi indebitamente oggettivati. Egli sa che i valori non appartengono alla realtà temporale-spaziale, che i giudizi di valore non possono pertanto essere altro che oggettivazioni errate di valutazioni primarie soggettive, traduzioni di situazioni emotive in enunciazioni conoscitive teoriche13. Gaiger propugna un nihilismo anche pratico, che cioè abbandoni l’uso dei giudizi di valore anche nelle discussioni politiche intorno alle decisioni da prendere; non si tratta, in breve, per questo Autore, solo di teorizzare la fine dei valori, ma anche di operare senza l’uso giustificativo dei medesi- mi. In questo modo si potrà dare vita a quello che da Geiger viene definito illuminismo critico e che, a sua volta, può generare una democrazia sobria, ossia fondata esclusivamente su discussioni e scelte intorno ai fatti e sulla base dei meri fatti. 13 Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, U.T.E.T., Torino 1970, pp. 553. Vedere anche M.L. Ghezzi, Un precursore del nichilismo giuridico: Theodor Geiger e l’antimetafisica sociale, in Sociologia del Diritto, 2007/3, pp. 5-46.           90 Il diritto come estetica [...] la persona criticamente illuminata deve sapere su quali questioni non si può sapere niente, quali siano i problemi sui quali non può esprimersi con la pretesa di validità oggettiva, essa deve conoscere in breve i limiti naturali posti al processo conoscitivo. Essa ha da mantenersi scettica dinanzi alle as- serzioni altrui e rigettare tutte le asserzioni presentate con intenti pragmatici. È pragmatica ogni asserzione che pretenda di motivare teoricamente una finalità dell’agire (di dimostrarne l’esattezza), o suggerisca tacitamente tali finalità14. La seconda osservazione riguarda la predicabilità o meno di verità/falsi- tà dei giudizi di valore. Mentre Hägerström, ma soprattutto i suoi discepoli e primo fra tutti Olivecrona, sostengono l’inesistenza di una teoria che for- nisca significato alla domanda sulla veridicità/falsità dei valori e, pertanto, la domanda risulta priva di senso, neppure formulabile; Geiger, invece, afferma l’esistenza di senso della domanda, in quanto la teoria esiste, ma è falsa e, quindi, anche la risposta risulta falsa. Chi asserisce la veridicità di un valore non formula una proposizione priva di senso, ma intende soste- nere l’esistenza concreta di ciò che afferma, cioè della fattualità dei valori; pertanto, per Geiger, non si tratta di una proposizione priva di senso, ma di una proposizione falsa, poiché ciò che afferma non esiste, è fantasia, è desiderio soggettivo. Chi giudica non può esprimersi sulle qualità di valore dei fenomeni, quando è dimostrato che i fenomeni non posseggono alcuna qualità di valore. Valore e non-valore non sono inerenti all’oggetto stesso, ma gli sono attribuiti dal soggetto dell’esperienza. [...]. Il giudizio di valore non è che una esplosione emotiva rivestita della forma linguistica di una enunciazione oggettiva15. È evidente che mentre Hägerström si muove su un piano meramente logico, nel quale dovrebbero operare solo teorie verificabili e la veridicità dei giudizi di valore non è verificabile, ossia su un piano sul quale le teorie non falsificabili o falsificate sono già state scartate; Geiger, invece, opera nel mondo empirico dove il primo passo da compiere è proprio la verifica/ falsificazione delle ipotesi e delle relative teorie16. Empiricamente la do- manda intorno alla veridicità dei giudizi di valore è stata posta e continua 14 Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, cit., pp. 573-574. 15 Th. Geiger, op. cit., p. 554. 16 “Ora una ideologia è per definizione qualcosa di unilaterale perché è determinato dalla prospettiva particolare di colui che pensa. Secondo questo si dovrebbe dire che tutte le ideologie sono false . [...]. L’ideologia è determinata dalla prospettiva corrispondente alla posizione sociale di colui che la pensa quindi è pensiero unilaterale. Essa non soddisfa i requisiti dell’oggettività posti dalle scienze naturali e quindi è teoricamente falsa”. Th. Geiger, op. cit., p. 142.           Nichilismo e nihilismo 91 ad essere posta, pertanto si tratta di falsificare la teoria che la regge ed è proprio questa la conclusione a cui giunge Geiger. La differenza appare minima, ma non irrilevante e tutta impostata sul piano del discorso svolto e sui tempi cui si riferisce l’affermazione (prima o dopo la verifica empiri- ca). Del resto, il tema fu affrontato in senso generale anche da Heisenberg, riguardo alla costruzione di teorie attraverso l’accoppiamento di simboli a fenomeni: Il procedimento della scienza naturale è raffigurato come l’applicazione di simboli a fenomeni. I simboli possono, come in matematica, essere combinati secondo certe regole, in tal modo le affermazioni sui fenomeni possono essere rappresentate da combinazioni di simboli. Perciò una combinazione di simboli in disaccordo con le regole non è falsa ma priva di significato. L’ovvia difficoltà di questo ragionamento è la mancanza di un criterio ge- nerale che indichi quando una proposizione debba essere considerata priva di significato. Una chiara decisione è possibile soltanto quando la proposizione appartiene ad un sistema chiuso di concetti e di assiomi, il che nello sviluppo delle scienze naturali costituisce piuttosto l’eccezione che la regola17. L’equivoco, dipendente sia dalla difficoltà di definizione dei concetti, in quanto legati alle teorie di cui sono figli, sia dall’impossibilità di verifi- ca empirica degli assiomi su cui si fondano le teorie (concetti ed assiomi non chiusi), non può stupire. Infatti, come afferma Michel Foucault (1926- 1984), le parole (simboli) e le cose (fenomeni) non coincidono dal crollo della Torre di Babele in poi: Nella sua forma originaria quando fu dato agli uomini da Dio stesso, il lin- guaggio era un segno delle cose assolutamente certo e trasparente poiché asso- migliava ad esse. I nomi erano deposti su ciò che indicavano, come la forza è scritta nel corpo del leone, la regalità nello sguardo dell’aquila, come l’influsso dei pianeti è stampato sulla fronte degli uomini: mediante la forma della simi- litudine. Tale trasparenza fu distrutta a Babele per castigo degli uomini. Le lin- gue furono separate le une dalle altre e rese incompatibili solo nella misura in cui venne anzitutto cancellata la somiglianza alle cose, la quale aveva costituito l’originaria ragione d’essere del linguaggio. Tutte le lingue che conosciamo non vengono da noi parlate che sullo sfondo di tale similitudine smarrita e nello spazio da essa lasciato vuoto18. Riemerge il solito dualismo tra divino ed umano, tra conoscenza asso- luta e conoscenza relativa, tra certezza e dubbio. Tuttavia, ritornando ora 17 W. Heisenberg, Fisica e filosofia, cit., p. 90. 18 M. Foucault, Le parole e le cose, cit., p. 50.           92 Il diritto come estetica alla polemica tra la Scuola di Uppsala e Geiger, probabilmente essa ne sottointende un’altra ben più rilevante e di natura politica; non è possibile, infatti, dimenticare le simpatie della Scuola di Uppsala ed, in particolare, di Olivecrona per il nazismo di fronte alla posizione social-democratica di Geiger, sostenitore della Repubblica di Weimar19. In conclusione, il nichilismo come il nihilismo scaturiscono dalla fine della credenza in verità assolute, siano esse trascendenti od immanenti, ossia dalla fine della duplicazione del mondo. Questa fine può giungere attraverso una relativizzazione dei giudizi di valore od una loro completa soppressione, ma, in ogni caso, l’antica via eteronoma rispetto all’essere umano non può più essere percorsa. Si tratta, quindi di costruire una nuova strada autonoma, che tenga conto della fluidità, della varietà, dell’incer- tezza, ma anche dell’arbitrarietà dei giudizi di valore. Si tratta di capire se sono effettivamente necessari o, almeno, utili per la convivenza sociale e se non possono essere sostituiti da altre e diverse entità in grado di guidare l’agire umano, ammesso che esista la possibilità di guidarlo attraverso la volontà umana. Tralasciando ora i dubbi intorno all’esistenza o meno del libero arbitrio, chi scrive è convinto della possibilità di compiere questa ricostruzione comportamentale anche senza i giudizi di valore in ambito sia morale, sia giuridico, ma questo è argomento del prossimo capitolo.  19 Cf.r. K. Olivecrona, I problemi del tempo visti da uno svedese. Inghilterra o Germania?, in Lo Stato, 3/2014, pp. 173-195.          6. IL DIRITTO COME ESTETICA L’estetica è una disciplina che studia, dal punto di vista trascendente, il bello in sé, mentre, dal punto di vista immanente le sensazioni umane che si manifestano nell’alternativa bello/brutto. Il bello in sé, il Sublime conduce subito verso il metafisico, la perfezione delle idee, una realtà per- fetta non appartenente alla realtà umana. Il semplice bello e brutto sono, invece, giudizi tutti umani intorno a ciò che piace o non piace. Già Aristo- tele (384 a.C.-322 a.C.), nella Poetica (ποίησις, poiesis, il cui significato è fare, creare) evidenziava come il parametro attraverso il quale giudicare un’opera d’arte fosse la produzione o meno nel soggetto di una percezione gradevole, di piacere. Sembra poi in generale che la poesia l’abbia prodotta due cause, e tutte e due naturali. Infatti è proprio della natura umana, sin dall’infanzia, l’istinto dell’imitazione e che tutti godano innanzi ai suoi prodotti, e l’uomo differisce specialmente dagli altri animali come quel genere che più sa imitare, e questo è il mezzo con cui si procaccia le prime cognizioni. E che ciò sia vero è mostrato dai fatti, perché mentre certi oggetti, così come sono in natura, ci riescono sgradevoli, le loro riproduzioni invece, quanto più sono esatte, ci danno diletto, come le forme degli animali più ripugnanti e dei cadaveri1. Aristotele definisce l’arte come capacità di suscitare piacere attraver- so l’imitazione, ossia attraverso il primo strumento umano di conoscenza. Dunque, riporta al soggetto che conosce la decisione intorno al bello ed al brutto. In particolare, sottolinea che una imitazione perfetta dell’orrore naturale può risultare piacevole e questa sensazione pare essere il fonda- mento del diritto positivo come estetica. Il diritto positivo è decisamente disumanizzante in quanto generale ed astratto, mentre l’essere umano è particolare e concreto, pertanto non può essere giudicato con canoni stati- stici, medi, ma deve essere indagato in tutte le sue particolarità individuali, personali, ammesso che ciò sia possibile, se si intende comprenderne vera- 1 Aristotele, La poetica, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1940, p. 10.           94 Il diritto come estetica mente il comportamento. Tutto vero; ma la natura, con il suo diritto natu- rale, è ancora peggiore, poiché sembra colpire a caso, in modo arbitrario, senza una qualsiasi giustificazione; giustificazione che, seppur arbitraria, spesso anche ipocrita e sempre soggetta ad errore, il diritto positivo tenta di fornire. Dunque, Aristotele ha ragione a sostenere che il bello può scaturire anche dall’imitazione del brutto naturale; in questo senso si indirizza anche un autore più recente quale Thomas De Quincey (1785-1859): Ci asciughiamo le lacrime, e abbiamo forse la soddisfazione di scoprire che un’azione disgustosa e indifendibile sotto il profilo morale si rivela, se valutata secondo i criteri del gusto, un atto meritevole2. Non deve stupire il divario tra dover essere ed estetica, perché il primo è frutto di una duplicazione metafisica o razionale del tutto estranea (sal- vo che per il concetto di Sublime) al secondo. Pertanto, abbandonata ogni duplicazione del Mondo, il vero divario esistente, che tuttavia accomuna dover essere ed estetica, riguarda la diversità che intercorre tra il sentito individuale, personale ed il sentito indotto a qualche titolo (minaccia, edu- cazione, tradizione, etc.) dall’ambiente circostante il soggetto. Ma si tratta di un divario più apparente che sostanziale, poiché sussiste solo a livello individuale, infatti, a livello collettivo, viene colmato dal gusto prevalente dei gruppi sociali, che riescono ad assicurarsi il dominio sugli altri gruppi. [...] la situazione nell’estetica non è dissimile da quella nell’etica. In en- trambe le sfere di valori i criteri di valutazione del gruppo influenzano le nostre decisioni, in entrambe sono stati interiorizzati nella voce della coscienza o in quello che gli psicoanalisti chiamano il super-io. C’è una creatura ansiosa na- scosta in noi che domanda posso fare questo?, oppure può piacermi questo?3. Questa creatura è il nostro sdoppiamento, che non ci consente aperta- mente di porci come unici giudici delle nostre azioni. È lo sdoppiamen- to dell’eteronomia. Si cerca sicurezza in un parametro comportamentale esterno ed, in quanto tale, presupposto oggettivo. L’autonomia non con- cede giustificazioni esterne all’agire; si agisce palesemente per seguire il proprio gusto, sia che esso sia originario, sia che sia stato indotto dall’am- biente o dal determinismo. Tuttavia lo sdoppiamento appare più evidente 2 Thomas De Quincey, L’assassinio come una delle belle arti, TEA, Milano 1990, p. 25. 3 E.H. Gombrich, Ideali ed idoli. I valori nella storia e nell’arte, Einaudi, Torino 1986, p. 94.           Il diritto come estetica 95 nella visione del bello metafisico, del Sublime, espresso da Platone attra- verso l’esempio di un letto inteso come mobile d’arredo, di un letto come quadro e dell’idea di letto: Questi nostri letti si presentano sotto tre specie. Uno è quello che è nella natura: potremmo dirlo, creato, creato dal dio. – Uno poi è quello costruito dal falegname. – Sì, disse. – E uno quello foggiato dal pittore. Non è vero? – Va bene. – Ora, pittore, costruttore di letti, dio sono tre e sovrintendono a tre specie di letti. – Si, tre. – Ebbene, il dio, sia che non l’abbia voluto sia che qualche necessità l’abbia costretto a non creare nella natura più di un solo e unico letto, si è limitato comunque a fare, in un unico esemplare, quel letto in sé, ossia ciò che è letto. Ma due o più letti di tal genere il dio non li ha prodotti, e non c’è pericolo che li produca mai4. L’idea del letto in sé o del bello in sé non si differenziano, sono entrambe metafisiche, assolute e perfette, quindi rappresentano il corretto parametro verso il quale rivolgere l’attenzione per sapere cosa è letto e, ciò che in questa sede più interessa, cosa è bello. In questa prospettiva la dualizza- zione del mondo si è compiuta completamente e l’eteronomia diviene un elemento strutturale del sistema interpretativo del mondo, in generale, e di quello umano, in particolare. L’ulteriore duplicazione, quella tra dover es- sere ed estetica, si è probabilmente prodotta sia per contenere l’arbitrarietà evidente del senso estetico, sia per quell’illusoria pausa che intercorre tra la constatazione che una cosa piace e l’azione che ne segue. In questa pausa potrebbe celarsi il libero arbitrio, che potrebbe far rinascere la distinzione secondo il principio: ho agito in un modo che non mi piace perché era mio dovere farlo! Purtroppo non abbiamo conoscenze idonee né per escludere che in quel momento nel soggetto il dovere coincidesse con il piacere, ma neppure che questa pausa concettuale tra sensazione ed azione esista e sia governata nella libertà. Tralasciando ora i problemi metafisici legati al Sublime, in quanto frutto della solita duplicazione del mondo già più volte discussa, pare interessan- te approfondire il termine estetica, il cui significato deriva dal sostantivo greco αίσθησις, che indica un sentire, una sensazione e dal verbo, sempre greco, αισθάνομαι, che significa percepire attraverso la mediazione dei sensi, ossia ricevere stimoli che producono sensazioni. L’essere umano percepisce in continuazione sensazioni provenienti dal mondo esterno attraverso i suoi cinque sensi fisici, ed è questa la base sulla quale si fonda il metodo empirico di ricerca; ma percepisce anche sensa- 4 Platone, La Repubblica, in Tutto Platone, Editori Laterza, Bari 1967, p. 427.           96 Il diritto come estetica zioni interiori, sentimenti provenienti da precedenti esperienze, da ricordi, da pregiudizi, da preconcetti, da convinzioni personali, da tutto ciò, in sin- tesi, che può essere considerato il suo vissuto mentale. Queste due fonti di sensazioni non sono e non possono essere rigorosamente separate, poiché insistono sull’unitarietà del soggetto che percepisce. La percezione fisica viene selezionata, filtrata e completata dalle propensioni della mente, sino al punto di rendere indistinguibile la percezione fisica in quanto tale dal percepito e vissuto mentale. La questione, poi, si complica ulteriormente, poiché la percezione occupa anche il campo del sogno e del ricordo, con i loro stati dubbi, incerti di realtà empirica. Le percezioni esterne presuppongono l’esistenza di un ambito circostan- te il soggetto, dal quale partono gli stimoli che colpiscono i sensi. Non si può, tuttavia, essere certi, che questo ambito esterno esista veramente fuori dal soggetto, poiché ciò che si percepisce altro non è che una immagine, una sensazione mentale. Del resto, non è neppure possibile asserire con certezza l’inesistenza del mondo esterno, sempre per il problema che a giu- dicare è una entità soggettiva non oggettiva. L’oggettività nella percezione umana è impossibile, per la stessa natura umana di soggetto. Si è già osservato che alla mente non si presentano che percezioni [...]. Ora, siccome le percezioni si distinguono in due generi, impressioni e idee, questa distinzione solleva una questione, con cui avvieremo la nostra indagine sulla morale: è dovuto alle idee oppure alle impressioni il fatto che noi distinguia- mo la virtù dal vizio, e dichiariamo un’azione biasimevole oppure pregevole? Questo escluderà tutti i discorsi e le dichiarazioni arbitrarie, riconducendoci a qualcosa di preciso e di esatto in merito al presente argomento5. La percezione, dunque, è legata ai sensi, l’acqua fredda produce una sensazione di freddo, mentre l’impressione esprime la predisposizione, il giudizio del soggetto verso il percepito: il freddo mi produce sollievo dall’afa estiva o mi disturba perché abbassa la temperatura dell’ambiente. Conseguentemente l’Autore non esita nella sua risposta, come del resto era prevedibile data la Grande Divisione di cui è artefice ed alla quale ha fornito anche il nome: [...] è impossibile che la distinzione tra bene e male morale possa essere compiuta dalla ragione; poiché quella distinzione ha sulle nostre azioni un’in- fluenza di cui la sola ragione non è capace. La ragione e il giudizio possono, infatti, essere la causa mediata di un’azione, destando o guidando una passione: 5 D. Hume, Trattato sulla natura umana, Bompiani, Milano 2001, p. 903.           Il diritto come estetica 97 ma non bisogna pretendere che un giudizio di questo genere, sia vero o sia fal- so, possa accompagnarsi alla virtù o al vizio6. Hume non si limita a negare la predicabilità di vero/falso all’ambito mo- rale, ma affronta anche la natura di questo ambito, di queste impressioni, ed appare con evidenza che la sua analisi conduce direttamente al principio del piacere come scriminante tra bene e male. La prossima domanda è: di quale natura sono queste impressioni, e in che modo agiscono su di noi? È qui impossibile non esitare, ma dobbiamo dichia- rare che l’impressione che sorge dalla virtù deve essere gradevole, e quella che deriva dal vizio sgradevole. In qualsiasi momento l’esperienza deve convin- cerci di questo. [...]. Una rappresentazione teatrale o un romanzo bastano a darci esempi di questo piacere, che la virtù ci procura; e del dolore, che nasce dal vizio7. Risulta chiaro che sia l’alternativa buono/cattivo, sia quella bello/brutto dipendono dalle impressioni umane, ossia sono legate alla percezione di piacere o di dolore. Nell’essere umano la percezione è unitaria, non esisto- no due diverse forme di percezione, come può dimostrare l’empiria, forse possono esistere due diverse forme di impressioni, se elaborate nella mente e quindi non sottoponibili, almeno per ora, a verifica/falsificazione empiri- ca. Dunque, se non si desidera procedere ad una ulteriore duplicazione, pri- va in questo caso di motivazione, che avrebbe un sapore formale incentrato sul mero linguaggio (dover essere o mi piace) e non su fatti, tra percezioni e conseguenti impressioni morali ed estetiche, si deve concludere che vi è un’unica percezione ed i due ipotetici tipi di impressioni coincidono tra loro e sono un solo ed unico tipo di impressione; ossia la morale altro non è che una forma dell’estetica in quanto fondata, come l’estetica, sul piacere. In questo caso la prova empirica è possibile poiché si tratta di impressioni prodotte da percezioni, sensazioni empiriche, salvo sempre, ovviamente, la duplicazione strutturale del mondo in fisico e metafisico. Se le percezioni esterne, produttrici di impressioni esterne, provengono dalla presupposta esistenza di un mondo esterno al soggetto percipiente, da dove provengono le sensazioni interne, ammesso che abbiano natura diversa da quelle esterne? La risposta potrebbe risiedere nella capacità del- la mente di apprendere, ricordare e rielaborare il percepito ed il sentito, in qualunque modo venga percepito e sentito: fisico o metafisico. Certa- 6 D. Hume, op. cit.., p. 915. 7 D. Hume, op. cit., p. 931.           98 Il diritto come estetica mente la tradizione, l’educazione, le convinzioni religiose e scientifiche dovrebbero giuocare un ruolo centrale nella determinazione delle sensa- zioni interiori e nel giudizio su quelle esteriori. Commozione, attaccamen- to, repulsione, amore, odio, etc. possono essere conseguenze di precedenti esperienze: il fuoco mi ha scottato e provo una repulsione nell’avvicinarlo. Ma anche preconcetti, superstizioni, credenze si presentano come sensazio- ni interiori e possono avere un’origine culturale: provo paura alla vista di un gatto nero, perché sono convinto che porti sfortuna; provo gioia per aver trovato un quadrifoglio, perché penso che porti fortuna. Searle affronta il tema immediatamente nel suo significato empirico; le impressioni umane determinano il comportamento, in presenza del libero arbitrio, attraverso le sensazioni di piacere o di dispiacere. Dunque, le sensazioni di piacere o di dispiacere si collocano all’origine dell’intenzionalità, che per sua stessa natura è sempre e solo cosciente; pertanto la domanda da porre diviene la seguente: come funzionano nei particolari gli stati intenzionali? L’Autore, pur reputando che resti un mistero il funzionamento dell’intenzionalità, tuttavia fornisce alcune interessanti riflessioni ed indicazioni in merito. [...] ogni stato cosciente presenta un certo grado di piacere o dispiacere. Per meglio dire, occupa una certa posizione sulla scala che include le nozioni ordi- narie di piacere e dispiacere. Così, per ogni esperienza cosciente che qualcuno abbia, è sensato chiedergli: È stato piacevole? È stato bello? Sei stato bene, male, ti sei annoiato, ti sei divertito? È stato disgustoso, delizioso o deprimen- te? La dimensione piacere/dispiacere si estende pervasivamente a tutti gli stati di coscienza8. Si deve notare che la dimensione piacere/dispiacere ha natura empiri- ca, ossia può essere sottoposta ad un processo di verifica/falsificazione, pertanto passare da un giudizio di valore ad un giudizio estetico comporta anche la reintroduzione della metodologia empirista. Ovviamente non ri- guardo all’oggettività del giudizio, ma all’impressione prodotta dalla sen- sazione percepita. Infatti, un giudizio morale, se non si identifica con un giudizio estetico, se non è un giudizio estetico, non può scaturire da una sensazione produttrice di impressioni di piacere/dispiacere, non solo per Kant, ma per sua stessa definizione, in quanto il dover essere, per essere morale, deve essere anche privo di interesse personale. In modo diverso si presenta la doverosità giuridica, che può anche essere sostenuta da un interesse personale, e, proprio per questo motivo, sembra appartenere più 8 J.R. Searle, La mente, cit., p. 128.           Il diritto come estetica 99 al mondo dell’estetica che a quello della morale. Ma è bene continuare con Searle, che precisa il concetto di percezione: Dovremmo concepire la percezione non come qualcosa che crea la coscien- za, ma come qualcosa che modifica un campo di coscienza preesistente9. Siamo vicini concettualmente alla res cogitans di Descartes, ma lontani dalla sua astrattezza; infatti in Searle tutto ruota intorno ad una sensazio- ne rapportata ad una percezione non necessariamente autoreferenziata al soggetto percipiente; in breve, soggetto ed oggetto vengono posti in cor- relazione, non rigidamente separati. Pare un timido tentativo di riduzione del dualismo soggetto/oggetto. Ma ciò che più conta riguarda direttamente lo stato mentale cosciente, che altro non è che l’espressione delle proprie condizioni di piacere/dispiacere. L’esser vera sta alla credenza come l’esser appagato sta al desiderio o l’esser realizzata sta all’intenzione. Propongo di descrivere tale fenomeno nel modo seguente: ogni stato intenzionale con direzione di adattamento non nulla pos- siede condizioni di soddisfazione. Possiamo considerare gli stati mentali come rappresentazioni delle proprie condizioni di soddisfazione10. Searle è esplicito; la separazione fatti/valori comporta, per i fatti, la pos- sibilità di rispondere a verificabilità empirica, mentre, per i valori morali o estetici, negata questa possibilità, produce la mera soddisfazione o insod- disfazione personale del soggetto agente. La Grande Divisione persiste, ma ridimensionata entro un vocabolario, che meglio la descrive. La sepa- razione tra giudizi di fatto e giudizi di valore non esaurisce la serie delle possibili divisioni. Infatti, subito subentra anche la sottodivisione giudizi di valore e giudizi di estetica, come si è già visto. Tuttavia, mentre la pri- ma divisione regge alla prova empirica come scriminante fra i due tipi di giudizio (solo i giudizi di fatto sono empiricamente verificabili/falsifica- bili), la seconda suddivisione (giudizi etici/giudizi estetici) non trova altra giustificazione che il tentativo di recuperare, attraverso il giudizio etico, di 9 J.R. Searle, op. cit., p. 141. 10 J.R. Searle, op. cit., p. 154. “Come è possibile che io abbia sete d’acqua?, vale a dire che abbia un desiderio il cui contenuto è bere acqua. [...] la risposta si fornisce mostrando la connessione essenziale tra intenzionalità e condizioni di soddisfazione. Ciò che fa del mio desiderio il desiderio di bere acqua è che sarà soddisfatto se e solo se berrò acqua. Non si tratta di un’osservazione psicologica che predice cosa mi farà sentire bene, ma della definizione del contenuto intenzionale pertinente”. Ibidem, p. 171.           100 Il diritto come estetica valore, un metafisico assoluto, trascendente od anche solo razionale. Del resto, risulta chiaro che, rispetto alla sua origine, il giudizio di valore non è altro che un giudizio estetico, poiché scaturisce da condizioni di soddisfa- zione o, se si preferisce, da sensazioni percepite e produttrici di impressioni (piacere/dispiacere). Le sensazioni, dunque, producono dei giudizi estetici (impressioni), ri- assumibili sinteticamente nell’alternativa mi piace/non mi piace. Si tratta ora di vedere se questi giudizi estetici, oltre all’origine, possiedono anche i medesimi caratteri dei giudizi di valore. Sia i giudizi estetici che i giudizi di valore esprimono una dimensione meramente mentale, ma mentre i primi dovrebbero essere finalizzati a manifestare un piacere personale, i secondi, invece, dovrebbero svolgere la funzione di governo del comportamento. Ma il giudizio di valore che cosa è? Vi è una sola alternativa possibile: o è un valore assoluto, in qualche modo trascendente, che è giunto all’essere umano dal di fuori per illuminazione, per rivelazione, per quant’altro di immaginabile; oppure è un valore relativo, nato nella mente del soggetto agente e caratterizzato dalla sue preferenze. Si tralasci ancora il primo caso, che resta indimostrabile empiricamente e che, comunque, deriva sempre dalla duplicazione del mondo, e si affronti il secondo caso. Esso non si distingue dal giudizio estetico: è soggettivo nel medesimo modo; porta giu- stificazioni solo apparentemente diverse alla propria adozione; infatti, al di là di giustificazioni autonome od eteronome, funzionali, utilitaristiche, pietistiche, anagrafiche, culturali, etc., la scelta finale altro non è che una preferenza personale, un equilibrio tra le convinzioni e le scelte possibili, che soddisfi il soggetto, lasciandolo emotivamente tranquillo. Il giudizio di valore è un giudizio estetico formulato in modo diverso, poiché pone l’accento sul comportamento da tenere e non sul piacere nel tenerlo, ma la forma non riesce a mascherare il piacere di fondo, che si colloca all’origine delle scelte etiche; dunque, poco conta la forma funzio- nale, ciò che importa è, invece, la matrice, la natura comune, unitaria, che li caratterizza. Inoltre la loro sovrapponibilità perfetta è anche confermata dal modo in cui se ne può venire a conoscenza: per sapere quali siano i giudizi estetici e di valore di un soggetto non è possibile fare altro che porre la domanda al soggetto medesimo od osservarne il comportamento, pre- supponendo (sperando) che il pensiero sia coerente con l’azione. Tuttavia i giudizi estetici presentano un vantaggio empirico su quelli di valore: il giu- dizio estetico produce un immediato senso di piacere nel soggetto, piacere che è empiricamente verificabile; al contrario, il giudizio di valore aspi- rerebbe ad essere disinteressato e, quindi, il piacere non dovrebbe essere percepibile nell’imperativo del dovere. Ciò ovviamente nasconde il piacere          Il diritto come estetica 101 originario della scelta etica, ma, soprattutto, lascia intendere l’estraneità alla verifica/falsificazione empirica del giudizio di valore, in quanto asso- luto, a priori, arbitrario. Anche il giudizio estetico è e resta arbitrario, ma esso riconosce la propria origine empirica nel piacere e, quindi, può essere studiato anche senza duplicare il mondo. Demistificare il giudizio di valore significa svelarne l’egoismo e la volontà di potenza, che nasconde. Il pathos dell’aristocrazia e della distanza [...] il duraturo e dominante sen- timento totale e basilare di una specie superiore e dominante nei confronti di una specie inferiore, di un sotto, questa è l’origine dell’opposizione tra buono e cattivo. (Il diritto signorile di imporre nomi, risale così indietro nel tempo, che si sarebbe autorizzati a ritenere l’origine della lingua stessa come espressione di potenza di chi era al potere: essi dicono questo è questo e questo e con un suono impongono il loro sigillo a cose e avvenimenti e, così facendo, se ne impossessano)11. Il giudizio di valore ha una lunga storia dietro le spalle di violenza, di persecuzioni, di soprusi, di processi, di torture, di eresie, di condanne capi- tali proprio per questa sua tendenza a porsi fuori dall’immediato giudizio umano individuale, per questa sua costante aspirazione all’assoluto, anche quando si manifesta palesemente come relativo, come appunto avviene nell’ambito del diritto. Infatti, quando il giudizio di valore prende vera- mente atto della propria relatività, si apre il capitolo del nichilismo e del nichilismo giuridico. Il giudizio estetico, invece, non sembra manifestare questa tendenza: esso è relativo e tale resta, almeno nella attuale cultura occidentale, eppure i due giudizi sono un medesimo giudizio, che, più cor- rettamente dovrebbe essere definito solo giudizio estetico12. Per continuare ora la marcia verso il diritto estetico si devono svolgere alcune considerazioni intorno al diritto. Non si tratta certo di aspirare ad una compiuta definizione di diritto, che ha affaticato vanamente genera- zioni di giuristi, quanto piuttosto di estrarne alcuni caratteri, che possono evidenziarne la natura. Kelsen individua chiaramente due aspetti diversi, ma fondamentali, del diritto: la validità e l’efficacia. 11 F. Nietzsche, Genealogia della morale, Newton Compton Editori, Roma 1988, p. 49. 12 “[...] quello che vale per i giudizi di valore sensoriali e estetici vale anche per quelli morali, di cui fanno parte quelli politici e sociali”. Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, cit., pp. 452-453.           102 Il diritto come estetica La possibile indipendenza della validità della singola norma giuridica dalla sua efficacia indica nuovamente la necessità di distinguere con chiarezza fra i due concetti13. La validità attiene alla vincolatività giuridica della norma, l’efficacia, invece, alla sua capacità di manifestarsi nella realtà operativa umana. La validità appartiene al mondo delle convinzioni, mentre l’efficacia a quel- lo dell’empiria. Efficace è una norma che viene applicata da coloro cui è diretta, rivolta; valida è una norma che viene considerata appartenente all’ordinamento giuridico vigente, ossia in essere in un certo luogo e tempo (si tratta sempre di convinzioni personali). In entrambe i caratteri la realtà, tuttavia, non può essere tralasciata: è evidente per l’efficacia, ma è altret- tanto evidente anche per la validità dell’ordinamento giuridico, che o si impone o non si impone come efficace. Come è impossibile nella determinazione della validità di astrarre dalla re- altà, così è anche impossibile di identificare la validità con la realtà. [...]. Nel senso della teoria qui sviluppata il diritto è un determinato ordinamento (od organizzazione) della forza14. Il diritto, dunque, si presenta sia come valore (validità), sia come forza (efficacia), ma anche la validità a livello di ordinamento giuridico, ossia di cambio di regime politico o sociale, si riduce ad efficacia, in breve, a forza. Certo, la validità cerca di pilotare l’attenzione verso il giudizio di valore, verso il dover essere, verso la vincolatività, verso la doverosità, ma il depi- staggio non è sufficiente a far scomparire la forza, la violenza (sanzione), come principale carattere identificativo del diritto. È al vincitore che appartiene il vinto, con la sua donna e i suoi figli, i suoi beni e il suo sangue. La violenza è il primo fondamento del diritto, e non c’è diritto che nel suo fondamento, non sia tracotanza, usurpazione, prepotenza15. La forza del diritto è, dunque, mera forza bruta, mera violenza, alla qua- le è difficile resistere, senza subire gravi danni materiali. Il mito dell’ob- bligo giuridico, della doverosità, prima, morale e, poi, anche giuridica, non descrive fedelmente il fenomeno diritto, ma lo cela dietro un immateriale velo di spontanea subordinazione, di impegno interiore, che poco o nulla esprime del reale. Nel dover essere la fantasia imperversa libera da qualsia- 13 H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 104. 14 H. Kelsen, op. cit., pp. 101-102. 15 F. Nietzsche, Verità e Menzogna, Newton Compton Editori, Roma 1988, p. 103           Il diritto come estetica 103 si vincolo empirico verso poli opposti di intensità, che vanno da una razio- nalità morale dubbiosa, moderata e tollerante ad un integralismo fanatico ed intollerante, e di qualità, di contenuto variegato e molteplice. Sia i giuristi che i filosofi sono perfettamente consapevoli del fatto che la forza vincolante del diritto non è un elemento del mondo spazio-temporale che li circonda, del mondo empirico. L’ovvia conclusione a cui dovrebbe portare tale constatazione è che la forza vincolante esiste soltanto nell’immaginazione degli uomini. Ma la convinzione della sua esistenza reale è talmente radicata che una simile idea non è stata quasi mai formulata. Al contrario la nozione di forza vincolante intesa nel senso tradizionale ha continuato, e continua tutto- ra, a costituire una della assunzioni fondamentali di tutte le teorie giuridiche correnti16. Il diritto è l’organizzazione della forza operata dal gruppo sociale domi- nante, sia esso politico, economico, etnico, religioso od anche solo mag- gioritario; neppure la democrazia, infatti, è estranea a questo contenuto del diritto. Pertanto, la burocrazia, come organizzatrice di questa forza, svolge un ruolo dominante nel diritto, anzi, il diritto come procedura, come applicazione procedurale e processuale è burocrazia, tecnica buro- cratica con tutti i problemi disumanizzanti, che sono già stati evidenziati nel rovesciamento della tecnica da mezzo a fine. Anche il diritto rischia e talvolta subisce tale rovesciamento. Basti pensare al detto latino: Fiat ius et pereat mundus. Il diritto, secondo questo broccardo, deve trionfare in quanto tale, costi quello che costi; si presenta come un imperativo cate- gorico di kantiana memoria, che ha perso la sua funzione di trattamento dei conflitti sociali17 e si è trasformato in un valore assoluto, metafisico, da mezzo è diventato fine. Non si tratta, dunque, di descrivere il diritto quale si vorrebbe che fosse, ma di attenersi rigorosamente al diritto quale esso effettivamente è nella realtà umana. In questa direzione il diritto si manifesta come l’espressione di una preferenza individuale, che, sommata ad altre preferenze individuali omogenee, riesce a raggiungere un punto critico di forza, a produrre una forza dominante, sulla base della quale si impone nel contesto sociale e si organizza secondo il modello burocratico. Questa scelta personale, spesso detta ideologica, altro non è che una prefe- renza estetica del soggetto, che risponde alla domanda: mi piace o non mi piace? L’organizzazione, che ne deriva, dunque, in nulla si discosta dagli stili e dai canoni estetici, che hanno accompagnato l’essere umano lungo 16 K. Olivecrona, Il diritto come fatto, Giuffrè, Milano 1967, pp. 9-10. 17 Cfr. V. Ferrari, Funzioni del diritto, Editori Laterza, Roma-Bari 1987.           104 Il diritto come estetica la storia nelle sue avventure culinarie, musicali, letterarie, architettoniche, pittoriche, scultoree, etc.. Non casualmente, infatti, non solo il nichilismo giuridico ha fatto la sua comparsa all’orizzonte delle nostre società con- temporanee, ma anche i modelli, le regole, i canoni, gli ordini estetici, con la modernità, sono precipitosamente tramontati. Il nichilismo si converte, a parte subjecti, in solipsismo giuridico. Il diritto è scelto da me; accettando l’inizio, anche accetto le procedure, con cui si svolge l’intero ordine di norme. Scegliendo l’inizio di un regime democratico accetto il criterio della maior pars, e procurerò di scendere nel conflitto e di inserirmi in una od altra delle forze in campo18. Il solipsismo è l’essenza stessa del nichilismo; la piena consapevolezza dell’autonomia individuale umana19; il riconoscimento dell’irriducibilità del soggettivismo ad oggettività; la constatazione che l’individuo è il referente ultimo ed indiscutibile di qualsiasi scelta. L’individuo osserva se stesso e, senza la duplicazione del mondo, resta solo con se stesso, con le proprie speranze, con le proprie opinioni, con il proprio senso estetico, ma anche con le proprie angosce e con un profondo senso di impotenza, che certo non riesce ad essere compensata dalla volontà di potenza insita nel nichilismo. Non deve stupire che il nichilismo ed ancor più il nihilismo dei valori terrorizzi i gruppi sociali dominanti. Sono, infatti, essi che governano più facilmente, velando la forza ed il potere con lo strumento del dover essere etico, morale e giuridico, che riescono a meglio celare i propri interessi e le proprie preferenze estetiche sotto una parvenza di universalità, di bene comune, di giustizia oggettiva. [...] la teoria del nihilismo dei valori è altrettanto pericolosa quanto alcuni secoli orsono lo è stata la nuova immagine astronomica del mondo, e cento anni fa la teoria genetica e a suo tempo ogni rivoluzionamento delle rappre- sentazioni abituali. A lungo andare tale pericolosa verità non potrà rimanere celata; gradualmente si imporrà, e sarà pericolosa soltanto nella misura in cui durante un periodo di transizione provocherà disorientamenti passeggeri. Con il graduale adattamento degli atteggiamenti pratici di vita alla nuova visione teorica il pericolo verrà superato. Per ciò che concerne in particolare l’incom- bente pericolo del nihilismo dei valori, di una disgregazione morale, io non riesco a vederlo. Nessun nihilismo dei valori potrà far sì che il nostro standard 18 N. Irti, Nichilismo giuridico, cit., p. 139. 19 Cfr. V. Frosini, L’ipotesi robinsoniana e l’individuo come ordinamento giuridico, in Sociologia del Diritto, 2001/3, pp. 5-15.           Il diritto come estetica 105 morale sia più disgregato di quanto già non lo sia a causa dello scisma delle rappresentazioni morali20. La Grande Divisione di Hume si trasforma, come si è visto preceden- temente, facendo cadere il termine giudizi di valore e sostituendolo con il termine giudizi di estetica. Ciò produce un certo vantaggio nel campo della tolleranza, poiché è a tutti noto e da quasi tutti accettato che i gusti sono personali e non discutibili (de gustibus non est disputandum), per- tanto non ha senso affaticarsi a convincere gli altri della maggiore bontà dei propri gusti, della bontà dell’arrosto piuttosto che dello stufato o del bollito, della bellezza dello stile architettonico romanico piuttosto di quel- lo gotico o barocco. Il soggettivismo appare in tutta la sua sfrontatezza e taglia la strada a qualsiasi tentativo di oggettivizzazione. Ma ciò vale tanto per il prossimo, quanto per il soggetto medesimo e questo fatto (si tratta di un fatto l’origine personale dei giudizi) mina alla radice ogni presuntuosa pretesa di verità assoluta. Solo l’ottusità cerebrale potrà consentire con- vinzioni personali certe ed intolleranti delle, altrettanto possibili quanto le nostre, scelte e ragioni estetiche altrui. Il nichilismo ha in parte contribuito a costruire questa strada ed in altra parte ne è la conseguenza. Il nihilismo, poi, ne è lo sviluppo logico più radicale, ma anche più concreto e coerente. L’inesistenza fattuale, oggettiva dei valori non poteva più trovare pudica copertura nell’ipotetica equivalenza di qualsiasi valore. Il soggettivismo non produce tante oggettività diverse, non produce alcuna oggettività. Il soggettivismo, se rende il soggetto consapevole dei propri limiti, dovreb- be guidarlo anche verso una revisione critica delle proprie convinzioni, prima che verso la censura delle convinzioni altrui. Il nihilismo non è né caos, né arbitrio capriccioso, ma semplice consapevolezza dei propri limiti conoscitivi e questi limiti, nella loro varietà, forniscono il panorama del multicolore teatro umano. La pazzia è una forma particolare dello spirito e aderisce a tutte le dottrine e le filosofie, ma ancor più alla vita di ogni giorno, poiché la vita stessa è colma di follia ed è sostanzialmente irragionevole. L’uomo aspira alla ragione solo per potersi creare delle regole per lui stesso. La vita in sé non ha regole. Questo è il suo segreto, questa è la sua legge sconosciuta. Quello che tu chiami cono- scenza è un tentativo di imporre alla vita qualcosa che risulti comprensibile21. 20 Th. Geiger, Saggi sulla società industriale, cit., p. 559. 21 C.G. Jung, Il libro rosso. Liber novus, Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 227-228.           106 Il diritto come estetica La partita intorno al nihilismo la si può giuocare solo se si considera fuorviante la duplicazione metafisica del mondo; è, infatti, solo nell’ipotesi metafisica che i valori non sono giudizi, ma fatti di una oggettività assoluta, tanto assoluta da essere trascendente. Il dualismo cartesiano, razionale (res cogitans/res extensa), potrebbe anche sussistere, giacché nulla impedisce in via teorica che le scelte estetiche siano frutto di autonoma elaborazione mentale. Intorno al tema del determinismo o dell’indeterminismo, poi, la caduta della categoria del dover essere e della sua sostituzione con il giu- dizio estetico, non muta la prospettiva, che resta come scelta necessaria nel primo caso e libera nel secondo. Evidentemente si avranno due diversi giudizi estetici: l’uno condizionato dal sistema e l’altro espressione della scelta, della preferenza del soggetto singolo. Resta sempre aperto il proble- ma se il soggetto può essere completamente libero da condizionamenti di qualsiasi tipo, a cominciare da quelli culturali, ma questi condizionamenti potrebbero anche essere intesi proprio come i limiti personali, individua- li della conoscenza. Deve risultare ben chiaro che né le ipotesi trascen- denti, né quelle immanenti e neppure il determinismo e l’indeterminismo possono essere sostenuti da verifica/falsificazione empirica; al massimo è possibile affermare che ciò che si verifica empiricamente è empiricamente verificabile: una tautologia, come è evidente. Il nichilismo, tuttavia, viene visto da Nietzsche, e non solo da lui, come un mostro incombente, come una sciagura del nostro mondo occidentale, ma una tale visione negativa appare eccessiva a chi scrive: Pensiamo questo pensiero nella sua forma più terribile: l’esistenza, così com’è, senza senso e scopo, ma che ritorna ineluttabilmente senza finire nel nulla: l’eterno ritorno. È questa la forma estrema del nichilismo: il nulla (il non senso) eterno!22. È bene ripeterlo; il nichilista ed il nihilista dovrebbero mettere in discus- sione le proprie scelte, non le altrui, che rispondono ad un soggettivismo esterno ed estraneo al nostro e, quindi, si presentano insindacabili, in quan- to autonome. L’educazione in questo ambito è destinata a trasformarsi in autoeducazione, in autocontrollo, in autolimitazione, non certo in arbitrio verso il prossimo, sul quale non si potrebbe vantare alcun titolo, come il prossimo non può vantare alcun titolo verso il soggetto agente. Risulta evidente che etica, morale, diritto, sinteticamente, dover essere, in questa cornice risultano privi di senso, ma ciò non significa, che la vita 22 F. Nietzsche, Il nichilismo europeo, Adelphi, Milano 2006, pp. 13-14.           Il diritto come estetica 107 umana sia priva di senso. Significa soltanto che il senso non è dato, non può essere dato, da valori né morali, né giuridici, ma solo dal soggetto stesso, ammesso che abbia senso interrogarsi intorno al senso di un essere, di un esistere che si presenta come dato ineluttabile, ineludibile, come un dato primo, come una singolarità, si potrebbe dire con espressione propria della fisica teorica. Un diritto estetico è solo espressione di una maggiore consapevolezza intorno alla realtà, non certo di un imbarbarimento dei costumi. Se, infatti, il diritto estetico è mero frutto di una descrizione, come pare che sia, e non di una scelta valoriale, allora già esiste nei fatti, come sostiene chi scrive, e nulla muta nell’averlo smascherato, se non una maggiore chiarezza sul- la natura e i limiti del diritto. Il diritto estetico è un diritto positivo, che non si nasconde dietro né la trascendenza universalistica dello Stato, né la doverosità metafisica della norma, ma prende atto della propria origine arbitraria umana. Del resto è interessante riflettere intorno al fatto che già in epoca romana si discuteva sull’identificazione di ius come ars. L’idea di associare alle artes la conoscenza del ius appare infatti, sia pure di fuggita e in modo concettualmente marginale, in due testi di Tacito e di Gellio, entrambi, curiosamente, riferiti a Labeone [...]. La connessione fra ius e ars era stata infatti, tempo prima, una bandiera [...] degli studi giuridici di Cicerone. Quando Celso scriveva non poteva pensare che a lui23. Naturalmente, all’epoca, il termine ars non corrispondeva all’attuale si- gnificato di opera artistica, tuttavia, nella interpretazione di Marco Tullio Cicerone (106 a. C.-43 a. C.) esso descriveva l’elaborazione di un metodo, di una teoria tecnico-logica universale, di una dottrina razionale. Tale dot- trina, frutto dell’interpretazione giuridica, spostava sulla ragione umana il contenuto normativo e, quindi, consapevolmente o inconsapevolmente il diritto, pur sembrando trasformarsi in una forma di conoscenza e non di volontà, in realtà diveniva una elaborazione dei giuristi, una scelta relativa, arbitraria, soggettiva, come tutte le scelte umane. Nota infatti senza esitazioni Guido Alpa: Un po’ di sano realismo consente di dissacrare i dogmi dell’interpretazione, o, meglio, di strappare il velo dell’omertà su dogmi interpretativi. Questi dog- 23 A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Einaudi, Torino 2005, p. 385.           108 Il diritto come estetica mi tacitando le coscienze, restituiscono tranquillità al giudice, danno conforto al dottore. Tutti questi schemi o espedienti possono essere considerati per l’appunto schemi o espedienti da parte di altri interpreti, e quindi la linea del lecito e dell’arbitrio tende a spostarsi o a non riconoscersi. Nella più parte di casi essa coinciderà con la linea che la maggioranza degli interpreti dirà essere collocata nella posizione corretta24. Il soggettivismo, di cui l’interpretazione è un aspetto, esprime nel diritto estetico tutta la propria potenzialità delegittimante di Stati, ordinamenti giuridici e norme giuridiche non condivise, ma semplicemente subite. Poiché l’origine dell’autorità, la fondazione o il fondamento, la posizione della legge possono per definizione appoggiarsi alla fine solo su loro stessi, sono anch’essi una violenza senza fondamento. Il che non vuol dire che siano ingiusti in sé, nel senso di illegali o illegittimi. Non sono né legali né illegali nel loro momento fondatore. Eccedono l’opposizione del fondato e del non fondato, come di ogni fondazionalismo o di ogni antifondazionalismo. Anche se il successo di performativi fondatori di un diritto (ad esempio, ed è più di un esempio, di uno Stato come garante di diritto) suppongono delle condizioni e delle convenzioni preliminari (ad esempio, nello spazio nazionale o interna- zionale), lo stesso limite mistico risorgerà all’origine supposta delle suddette condizioni, regole o convenzioni – e della loro interpretazione dominante. [...] il diritto è essenzialmente decostruibile [...] perché il suo ultimo fondamento per definizione non è fondato25. Ancora una volta per discutere del fondamento si deve uscire sia dal soggettivismo, sia, conseguentemente, anche dall’empiria, per entrare in una qualche forma di duplicazione mistica del mondo. L’alternativa, sem- pre possibile resta il nichilismo/nihilismo, ma anche del nichilismo/nihi- lismo si può avere una versione metafisica ed una non metafisica legate alla sorte dell’Essere e dell’Ente: inesistente, il primo, (metafisica come affermazione infondata); in dissoluzione, il secondo, (come espressione empiricamente verificabile/falsificabile). Se l’Essere è inesistente la me- tafisica diviene priva di fondamento, mentre l’Ente, dissolvendosi nel non essere, appartiene al mondo dell’empiria. Tuttavia la dimensione metafisi- ca può anche sopravvivere, monoteisticamente, con un Essere molteplice, 24 G. Alpa, Interpretare il diritto: dal realismo alle regole deontologiche, in J. Derrida, G. Vattimo (a cura di), Diritto, Giustizia e Interpretazione, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 210. 25 J. Derrida, Diritto alla giustizia, in J. Derrida, G. Vattimo (a cura di), op. cit., pp. 16-17.           Il diritto come estetica 109 ad esempio, nel Cristianesimo, con una Divinità una e trina e, nella Gnosi, con il progressivo alienarsi, decadere del divino nella materia, (in alterna- tiva politeista: con una molteplicità di Esseri equivalenti) oppure con un Ente cristallizzato, che si manifesta immutabile. Ma anche la negazione, il Nulla, se dotato di esistenza, di presenza e non di assenza, vincola alla metafisica. Si sarà già capito che il nichilismo rimane impigliato nella metafisica fino a che, anche solo implicitamente, si pensa come la scoperta che là dove crede- vamo ci fosse essere, c’è, in realtà, il nulla. Così, dove credevamo ci fossero principi della legge c’è solo l’arbitrio del legislatore o dell’interprete, la de- cisione infondata, e per questo essenzialmente violenta, che deve essere resa accettabile dalla finzione delle affabulazioni, o da una accettazione motivata misticamente (nella versione kierkegaardiana del nichilismo). Una definizio- ne non metafisica del nichilismo si può invece formulare richiamandosi all’e- spressione con cui Heidegger caratterizza la storia del nichilismo nietzschiano: nichilismo è la vicenda nella quale dell’essere come tale non ne è (più) nulla. Nichilismo, se non deve (e non può) intendersi come la scoperta che al posto dell’essere c’è il nulla, non può che pensarsi come la storia (senza fine – senza conclusione in uno stato in cui al posto dell’essere c’è il nulla) in cui l’essere, asintoticamente, si consuma, si dissolve, si indebolisce26. Il Nulla è entità metafisica al pari dell’Essere, tuttavia, paradossalmente, tale negazione dell’Essere, del Principio può trasformarsi, capovolgendosi, in affermazione a livello di teologia negativa. Scrive, infatti, Andrea Emo (1901-1983): Il principio. Dobbiamo cominciare con un principio. Ma, nessun principio è definibile od oggettivabile. Dobbiamo dunque cominciare con la rinuncia ad un principio, il che equivale ad una negazione del principio. Ed è appunto questa negazione che è il principio. Il cogito. Come passare da questa negazione alla presenza. Dobbiamo contemplare l’origine della negazione. L’assolutezza della presenza consiste in questo: che essa non è presenza in quanto presenza di qualcosa, ma è presenza per sé, in quanto cioè nega ogni cosa. Nega ogni cosa che non sia la presenza stessa. Il suo essere pura presenza è un essere presenza di... che è un essere presenza di nulla, quindi è un negarsi, appunto perché è un ridurre a presenza27. 26 G. Vattimo, Fare giustizia del diritto, in J. Derrida, G. Vattimo (a cura di), op. cit., p. 286. 27 A. Emo, Il Dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, cit., pp. 18-19.           110 Il diritto come estetica La negazione diviene, metafisicamente, affermazione proprio per la sua alienazione da qualsiasi affermazione. Ma questa affermazione negativa della metafisica si distingue dall’affermazione positiva dell’empiria, poi- ché mentre quest’ultima è oggettivata, individualizzata, è parte di un tutto, la prima, invece, è puro soggetto, privo di specificazioni e qualità empiri- che, proprio perché le trascende come puro Essere. In questa logica nega- tiva conoscenza e volontà, pur coincidendo, si connotano come non cono- scenza e non volontà. Ovviamente, l’ipotesi si capovolge nella metafisica positiva, nella quale conoscenza e volontà si presentano come assolute, e scompare nell’empiria, ove la negazione è metamorfosi, ove il nulla è essere altro. Tuttavia anche nella metafisica negativa il nulla sembra sci- volare nell’altro, tanto altro da essere al di là della fisica e della metafisica, ossia del pensiero umano, ma questo altro è a sua volta nulla, almeno per la dimensione conoscitiva umana, che non riesce a comprendere un altro non umano e fatica ad immaginare una nullità, una assenza assoluta. Tornando ora in modo più stretto al tema del diritto, è possibile riassu- mere quanto detto nel seguente modo: se conoscere e volere coincidono a livello metafisico, nella realtà fisica possono sia coincidere (Spinoza), sia non coincidere (volontà di potenza) e lasciare spazio a scelte soggettive. Il diritto, inteso come estetica, consente di non rinunziare al diritto, pur rela- tivizzandolo, e di affidare al singolo soggetto l’adesione o meno al diritto dominante, che in questo modo non rappresenta più una obbligatorietà, ma l’alternativa tra una vita omologata, ma sicura (forse), ed una vita origina- le, deviante, ma pericolosa. La norma estetica può essere obbedita o disat- tesa. Il disattenderla, senza possedere una potenza, una forza sufficiente a piegarla alla propria volontà, significa soccombere alla forza dominante. Disattendere il diritto diviene una scelta come tante altre, della quale si possono subire le conseguenze, generalmente sgradevoli. Il determinismo o la volontà di potenza governano comunque il sistema umano, ma almeno non sopravvive l’inganno di un mitologico dover essere, frutto dell’ulterio- re sdoppiamento nel soggetto che agisce e nel soggetto che guida l’azione. Nichilismo/nihilismo, in sintesi, sono la demistificazione del mondo ed il diritto estetico è ciò che resta del diritto dopo questa demistificazione, che, tuttavia, è solo empirica e, quindi, non può fornire certezze assolute. Ma l’incertezza, il dubbio sembrano proprio essere il sigillo della condizione umana. Infatti, la duplicazione del mondo, dei piani della conoscenza e del- la volontà si presenta come una possibile via di fuga dall’incertezza, dalla solitudine angosciante dell’individuo; ma, al contempo, è anche la misura fisiologica del biologico, della stirpe animale ed umana. La duplicazione, dunque, si manifesta sia come una contromisura psicologica ed artificiale          Il diritto come estetica 111 alla condizione umana di assenza di senso esistenziale, sia come naturale moltiplicarsi e perpetuarsi della vita. La singola cellula aliena parte di se stessa, scindendosi in due cellule. Dalla madre fuoriesce per espulsione viscerale la prole. Le scissioni, il sacrificio di parte del proprio corpo per generare il corpo dell’altro è un processo traumatico di riproduzione, che tendenzialmente volge verso l’infinito, salvo eventi esterni ed imprevi- sti, che ne interrompono lo sviluppo. Dall’uno scaturisce per rottura un secondo uno, il due, ed, una volta iniziata la pluralità, automaticamente, sopraggiungono gli altri numeri (3, 4, 5, 6, ..., infinito). Anche l’infinito, come idea, è richiamato da questo processo moltiplicativo, ma, come in matematica, è una duplicazione (finito/infinito) espressione di un processo al limite, che mai si compie, che, per sua stessa natura, non può compiersi, giungere al termine, altrimenti cadrebbe la duplicazione stessa e resterebbe solo il finito. La vita propone la tentazione dell’infinito, ma, subito, infligge la disil- lusione. Ogni duplicazione si presenta come speranza e si accomiata come sconforto. Resta solo un soggetto, della cui identità tutto o quasi si ignora (dell’oggetto, poi, non vi è neppure certezza della sua stessa esistenza), con il proprio sentire incomunicabile se non attraverso l’atto comportamentale. Un sentire percorso da limiti organici, stimoli, motivazioni, giustificazioni, condizionamenti, influssi misteriosi, comandi metafisici, etc., ma pur sem- pre riducibile ad una semplice alternativa: mi piace/non mi piace. Nella solitudine dell’essere è questa l’unica certezza; una certezza dal contenuto vario e variabile, come vari e variabili sembrano essere i singoli soggetti; una certezza che può essere definita estetica. Morris Lorenzo Ghezzi. Morris L. Ghezzi. Gezzi. Keywords: i tordi ubriachi, i tordi, tordo, “drunk as a thrush/newt” turdus ubriacus – sturdy – I tordi -- nihilism about values, Mackie, Inventing right and wrong, Hare, emotivism, Grice, The conception of value, valitum – valore – axiology, stato federale, federazione, fascismo, il fascismo e la autobiografia d’Italia – Gobetti – statocentrale – diritto – diritto naturale e diritto artificiale – assiologia, codice valoriale, fierezza, onore, massoni, bruno, Alighieri, conte Cagliostro, bobbio, nihilism, nichilismo, pena e castigo, Beccaria, delitto, delinquent, delinquenza, devianza, diritto come estetica. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ghezzi: l’implicatura del tordo” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757983938/in/dateposted-public/

 

Grice e Ghisleri – atlante filosofico – federalismo contrarivoluzione – lo stato -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cascina Sant’Alberto). Filosofo. Grice: “Whereas to many, Ghisleri’s best work is that on Ancient Rome and counter-revolution, I treasure the details: ‘the pen is like a sword’ – ‘the pen and the sword.’ “The pen is my sword.’ Note that the first is a mere simile – as used by Ghisleri, but his executor turns it into a metaphor just by eliding the ‘like’ (“come”). Grice: “I like Ghisleri – a typical Italian philosopher; wrote on geography, on ‘la penna d’oca,” and a fabulous history of Roman philosophy!” --  “He was into politics, too!” L'Italia non è studiata, non è conosciuta dagli italiani. Dobbiamo rifare la nostra educazione politica e civile sulla base di una nuova e più razionale conoscenza del nostro paese. Dobbiamo studiare l'Italia regione per regione nella natura del suolo, nella sua topografia, ne' suoi prodotti nelle sue industrie, ne' suoi dialetti, nelle sue tradizioni, nelle sue varie necessità politiche e sociali.” Fonda La Società dei Liberi Pensatori (L’'Associazione Nazionale del Libero Pensiero "Giordano Bruno") di chiare simpatie democratiche e repubblicane. Iniziato in Massoneria, l'anno seguente entrò nella Loggia "Pontida" di Bergamo e nel 1906 fu affiliato alla Loggia "Carlo Cattaneo" di Milano.  Ghisleri diede alle stampe una nuova rivista mensile, Cuore e critica, rivolta all'educazione civile e agli studi sociali ed espressione di un'avanguardia intellettuale impegnata nella costruzione di una coscienza repubblicana e progressista. Sorta a Savona, la redazione della rivista si trasferì a Bergamo, in coincidenza con il trasferimento del Ghislèri al Sarpi di quella città. Si dedica con assiduità agli studi di geografia e di cartografia, che aveva cominciato a coltivare quando insegnava a Matera. Allora si era sentito mortificato nel constatare che nelle scuole italiane venivano adottati atlanti stranieri, assai carenti nel trattare la geografia storica dell'Italia. Dopo aver pubblicato il “Piccolo manuale di geografia storica” (Bergamo) volle perciò cimentarsi in un'impresa che non era mai stata tentata: la realizzazione di un testo-atlante che desse il dovuto rilievo all'evoluzione storico-geografica dell'Italia. Al progetto fu interessato lo stabilimento "Fratelli Cattaneo di Bergamo" che, grazie al successo delle iniziative editoriali promosse da Ghisleri, si trasformò in Istituto italiano d'arti grafiche e s'impose nel settore della cartografia. Ghisleri concepì il suo atlante in modo da offrire per una stessa regione molteplici carte e cartine con le denominazioni e le divisioni topografiche proprie di ogni epoca. L'apparizione dell'atlante fu salutata dalle lodi di esperti e studiosi, ma suscitò anche riserve di parte del mondo accademico, che rimproverava al Ghisleri superficialità e la commistione tra la geografia fisica e la storia dei popoli, delle civiltà, delle esplorazioni, dei commerci. Commistione del resto ricercata dal Ghisleri che, in polemica con il tradizionale approccio alla geografia e senza sentirsi condizionato dai limiti angusti dei programmi scolastici di allora, perseguiva metodi nuovi nello studio e nell'insegnamento della materia. Tenne la cattedra di filosofia nel Liceo di Lugano. Giornalista, fu direttore di «La geografia per tutti» e «Le comunicazioni di un collega».Di idee mazziniane, recepite soprattutto nella versione che ne proponeva Saffi, in campo politico fu vicino ai movimenti rivoluzionari e collabora con Gaudenzi alla fondazione del Partito Repubblicano Italiano. Tuttavia Ghisleri non fu un ideologo sistematico: una sistematizzazione del suo pensiero è soprattutto opera di Conti.  Diresse la rivista Preludio di stampo filosofico positivista e progressista. Diresse L'Italia del popolo.  Al Congresso del Partito Repubblicano, tenuto a Forlì, intervenne con una relazione su La questione meridionale e la sua logica soluzione. Demofonti, La riforma nell'Italia del primo Novecento: gruppi e riviste di ispirazione evangelica, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, Vittorio Gnocchini, L’Italia dei Liberi Muratori, Milano-Roma, Mimesis-Erasmo. Altre opera: “La Scapigliatura democratica: carteggi” (Pier Carlo Masini,Milano), L'archivio di Ghisleri fu ritrovato da Pier Carlo Masini ed è depositato presso la Domus Mazziniana di Pisa. Democrazia come civiltà. Il carteggio Ghisleri-Conti, Antonluigi Aiazzi, Libreria Politica Moderna, Firenze, Tripolitania e Cirenaica dai più remoti tempi sino al presente, Emporium, novembre, Tripolitania e Cirenaica, dal Mediterraneo al Sahara, monografia storico-geografica, Società Editoriale Italiana, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, Le meraviglie del globo esplorato e le zone non ancora conosciute Letture geografiche Società Editoriale Italiana, Milano, Bagdad e la Mesopotamia nel passato e nell'avvenire, Emporium, giugno, Lombroso nella vita intima, Emporium, luglio 1917 L'ultima colonia africana della Germania, Emporium, Atlante scolastico di Geografia moderna astronomica-fisica-antropologica,Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo (a cura dei professori Magg. G.Roggero, G.Ricchieri, A.Ghisleri) Saffi. La vita, gli studi, l'apostolato, Libreria politica moderna, Roma, La questione meridionale nella soluzione del problema italiano, Libreria politica moderna, Roma, “Testo-atlante di geografia storica generale e d'Italia in particolare, espressamente compilato per le scuole italiane conforme ai loro programmi- I Mondo Antico; II Storia Romana; Fratelli Cattaneo e poi Istituto di Arti Grafiche, Bergamo. Medio Evo, Evo Moderno e contemporaneo Atlante d'Africa, Istituto Italiano d'Arti Grafiche, Bergamo, Antipode, a Radical Journal of Geography, Berardi, Verso un nuovo Risorgimento. Il Carteggio tra Ghisleri e Belloni, Acireale-Roma, Bonanno, Dizionario biografico degli italiani,  L'Italia risorgimentale di Ghisleri, Milano, Angeli, Aroldo Benini, Vita e tempi di Ghisleri, con appendice bibliografica, Manduria, Lacaita, Tomasi, Scuola e liberta in Arcangelo Ghisleri: con una scelta di lettere inedite dell'archivio Ghisleri, Pisa, Nistri-Lischi, Ghisleri: mente e carattere: L'Italia e la rivoluzione italiana, Milano, Sandron Editore, Treccani. Arcangelo Ghisleri, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Opere di Arcangelo Ghisleri, su Liber Liber.  Opere di Arcangelo Ghisleri, su openMLOL, Horizons.   ANTROPOGEOGRAFIA.   21. Antiobb oe.sti b vicbndb storiodb DBLL'I-  TAbiA 6RTTKNTRI0NALB. — Avanzi di armi e di stru¬  menti di pietra primitivi, preistorioi (punte di  soioe» epeoie di asole oon.) e poi di bronzo e di  ferro» nonobè avanzi di palafitte, di abitazioni  umane, dei pasti, di oggetti diversi ritrovuti In  più luoghi nel sottosuolo, dimostrano ohe l'Italia  settentrionale fu abitata nelle età più remote,  anohe prima^ del xieriodo storioo, quand'ossa era io    gran parte oooupata da foreste e da paludi. Ma  di oodesci primissimi aoitanti ben pooo» quasi nulla   Allorché si oominotano ad avere documenti sto-  rfoi sulle popolazioni dell* Malia settentrionale  questa si trova abitata in qualche tratto delle  Alpi centrati dai Reti, di stirpe etrusoa» ohe la¬  sciarono il loro nome alle Api Retiohe; ma per  massima parte del resto, sopratutto nel bassopiano  Padano (dove sono attualmente il Piemonto, la  L/)mbardÌa»l'Bmilial» dal OtltioÒollif da ouÌ venne  appunto il nome antico éìOallia ei$alpina. Nella  attuale Liguria, invece» erano i Liguri, ohe si ore-  dono afnni alla stirpo Iberica» e nella parte orien¬  tale 1 Kensff» di stirpe Illirloa, il ouÌ nome sioon-  Borva appunto anohe attualmente.   l Romani più tardi si sovrapiiosoro agli abitanti  e li assimilarono; non oosl però ohe non si distin¬  guano anoora» soprattutto nei dialetti» le tracce  delle antiche genti nel vari oompartimenti. Pinal-  roente nel medio evo avvennero lo Invasioni bar¬  bariche. Ma i Oérmanici invaoori, rolatlvamento  I>oohl di numero» invece di far soomparire ia po¬  polazione vinta, si ooufusoro oon essa» adottan¬  done la piviltà e la lingua o lasoiando di sO ap¬  pena { ricordi in certi nomi (ad es. Lombardia dai  Longobardi).   Nell’800 d. U. Carlo Magno» re del Fronohl, vinti  i Longobardi, fu dal PonteHoe di Roma incoronato  Imperatore Augusto, considerato cioè quale erede  dell'autorità e dei diritti dell'impero Romano  d’Oecidontei il quale, almeno di nome, durò fino  al jprinoipio del 13ii0, vale a diro por diooi seooli.  H}' in baso a tali diritti ohe Carlo .Magno e i suoi  Huooessori pretesero al dominio dell'Italia e spo-  oiulmente deiritalia sottoritrioiialo e della cen¬  trale» mentre 'l' Italia meridionale oontfnuò per  oiroa due seooli a oonslderarsiinolusaneirimpero  d'Oriente» greoo-bisantino. ~ Passata» Uopo raen  di un sooolo, la oorona imperiale dai diretti di-  Noendenti dì Carlo Magno ai ro Germanioi anche  l'Italia settentrionale e oentralo fooe parte del  oosiddetio Sacro Romano Impero della nazione  Germanica e fu divisa in feudi, assegnati ai vas¬  salli dei sovrani tedoaohi. Questi però si trovarono  in lotte continue tanto oói Pontefloi di Roma,  quanto oolle popolazioni» soprattutto delle città;  le quali, cresciute in potenza e rionhezza oon le  industrie e ool oommorol. vollero ornanoiparsi e  governarsi sotto forma di liberi Comuni. Alcuni  di ouosti, oome Milano e le città marittime di Ve-  nesia e di Genova acquistarono, colla libertà» una  importanza e potenza, una gloria e prosperità  sempre maggiore. — Disgraziatamonto. però» le  lotte fra oittà o oitt.à o quello intorno tra lo olassl  scoiali, prepararono la trasformazione dei oomuni  in signorie» e mantonnero l'Italia divisa e mili¬  tarmente debole» proprio nel moatroaldi là delle  Alpi, in luogo del frazionamento dei feudi e del  oomuni, si costituivano doi forti regni unitari e  nazionali» ohe volgevano gU occhi cupidi all’UaHa»  giunta allora al colmo della floridezza eoonomioa  e oivile.   Cosi fu ohe dalla fine del 1400 Tltalia fu Invasa  Uni Franoesi. d.'igli Spagnoli» dai Todesohl. Bonza  ohe gli Stati Italiani opponessero valida resistenza  D'allora In poi soltanto*11 Piemonte sotto la Gasa  di Savoja e la repubblica di Venezia poterono  oonsorvaro la loro indipendenza» mentre 11 diioato  di Milano fu occupato dagli stranieri e anohe gli  nitri stati minori (Ducato di Parma, di Modena,  Murobesato di Mantova eoo.) orano ad essi indiret-  laiuonte soggetti.   Dulia metà del 1500 fin al prlnoipio del 1700 do¬  minò 008 ) nell'Italia settentrionalu la Spagna» a  oiG suooedette l'Austria, mentre una parte d*d-  l'RmiUa (la cosiddetta Romagna» oon Bologna, Ra¬  venna» Ferrara) apparteneva alto stat^/dolla  Chiosa. — Alla flne del 1700 1« rivoluziono Fran¬  cese e quindi l'epoca Napoloonioa portarono anohe  nell'Italia settentrionale grandi mutamenti. Pur  troppo però» il Congresso di Vienna del 1815 as¬  segnò la tradita reptibblloa di Venezia oon la Lom¬  bardia airAustria, mentre la Casa di Savoia ag-         - 39 -    U Liguria al Piemoote ed alia Sardegna,  le derivava il titolo del itegno. tla l’e-  rimento per la liberaiione nazionale trovò  nel Piemonte e nell* Italia settentrionale  mtri e focolari maggiori e s’iniziarono le  ria unità e l’indipendenza, l’ultima delle .  tra coronata dalle gloriose vittorie del  li Vittorio Veneto. (Ved. Atl. tav. VI).   22. Sdpbbfioib b popolazionb. — Sopra  una superfloio ohe si può oaloolare, entro  ai oonfiiii fisioi, di circa 132 000 kmq., ha  ora una popolazione che ei calcola di circa  18 700000 di ab.   pi codesta superfloie i oonBni del Regno inelu'  devano finora soltanto lOiUOO km> oiroa, mentre  ora ne inoludono IZ7 000 ; e includevano otre» 16  milioni 0 >/z di ab., mentre ora la popolazione,  per i nuovi acquisti (oiroa 1 milione e i/il o per il  oaturale aumento annuo, si oaloola di oiroa 18 mi¬  lioni.   Tale popolazione tende continuamente  a crescere, nonostante la forte emigrazione  di alcuni compartimenti, soprattutto del  Veneto, del Piemonte e della Lombardia.   La densità dunque dell’Italia Bettentrio-  nale entro ai nuovi oonBni del Regno ri¬  sulta in media 141 ab. per kmc^., mentre  entro ai vecchi confini sarebbe di IBO. L’I¬  talia settentrionale ha perciò una densità  superiore alla media di tutta Italia, che  nei 1921 risultò di I2fj ab. per kmq. ed è  fra le regioni d’Europa più popolose.   La densità tuttavia è inuguale, perohò in certe  province supera 200 e In quella di àlllano arriva  fino a 002 ab, per kmq. mentre in altre e speoial-  mente nelle regioni montuose può soendero a  mono di 60 por kmq. — Oltre a oio 6 da osservare  ohe, aehbeue la popolazione per le indusirie tenda  ad aumentare nello città, anche la popolazione  eparea deU'ltalia settentrionale 6 assai numerosa  e vive in case sparse e in pioooli villaggi, ohe  dànno alle sue campagne un aspetto molto dille-  rento da quello dell’Italia meridionale e della  Bioilia.   Delle città deli’ Italia settentrionale consi¬  derate nella cerchia del comune, una supera  ormai i 700 000 ab-, Milano — una e^cra  già '/; milione, Torino — una supera 300000  ab., Genova — due superano 200 000, —  Trieste e Bologna — una vi s’avvicina,  Venezia — due superano 100000, Padova e  Ferrara, mentre altre due vi si avvicinano,  Brescia e Verona. La popolazione di quasi  tutte le città dell’Italia settentrionale  tende a crescere.   83 Gruppi ni liroua ■ kazioràlitX btraviera  — Abbiamo già detto ohe nelle valli Alpine Pie¬  montesi (speoialmonte in Val d’Aosta e nelle valli  dpi Valdesi) si parla tuttora franoeee da oiroa SS  mila individui : i quali sono però di eentimenti  nazionali perfettamente italiani. — Ugualmente  legati alla nazionalità italiana sono quelli ohe par¬  lano tetteeoo nelle valli intorno al m. Rosa (Qros-  soney. Alagna, Maougiiaga) oiroa 4mila; — nell'alto-  piano dui Sette Comuni in provinola di Yioenza,  oiroa 3 mila; — e nella Gamia, circa 8 miU. mentre  inve-ie li popolazione tedeso.a dell’Alto Adig^  oompatta nelle valli superiori, oaloolata circa ZOO  mila Individtii.ò stata finora delle piò ostili contro  l'Italia. — Finalmente nel Friuli orientale si tro¬  vavano finora entro i confini del regno oiroa -tO mila    Sloeeni ispnoialmente intorno a Cividale) anoh'essi  nazionalmente fedeli all’Italia : ma oltre ad essi  si trovano Inoluai entro 1 nuovi confini del regno  d’Italia, noi baoino dell’Isonzo, nella otttà e nel re¬  troterra di Trieste, nellTstriao nello Statodi Fiume  oiroa i/i milione di Ulaoi (Sloreni e Croofi) finora  molto ostili agli Italiani.   24. OoOUFàZlONI OBOLI ABITANTI ■ PBO-  DOTTi - IsTRCzioME. (V’cd. Atl. tav. IX). —  L’agricollura occupa il maggior numero di  abitanti ed ò in più luoghi agricoltura in¬  tensiva, con vigneti (specialmente in Pi^  monte) ed orti e veri giardini per la colti¬  vazione dei fiori (in Liguria), — con campi  ohe dànno un prodotto por ettaro pan a  quello dei paesi più progrediti dollaTerra,  — con risaie (speoialmonte in provinoia  di Novara), — con prati irrigui (mar-  oite) specialmente nella bassa Lombardia,  ohe permettono il girando allevamento del  bestiame e l’industria pel cas«i;?cto (nel Lo-  digiano, come pure nel Parmigiano); — fi¬  nalmente con cana;i«/t, soprattutto nell’E¬  milia, — con la coltura della barbabietola da  zucchero (nell’Emilia, nel basso Veneto e  altrove). Gli olivi dànno copioso prodotto  nella Liguria e i gelsi diffusi in tutto il  bassopiano permettono uno sviluppo della  bachicoltura, che rendo l'Italia unode^aesi  di maggior produzione dellaseta nella'Terra.   La Venezia Tridentina darà all’Italia grande  quantità di tranarneoou i nosoni, oue si trovano uu-  nbe in altri luoghi, ma non eooossivamonte al>-  londanti nulla zona alpina. — La pesca t> fonte  abbastanza importante di guadagni lungo le coste  dell’Adriatico e nelle lagune (ealli di Gomaoohio  eco.); ò pooo frutti fra invece nel mar Ligure.   Ma l’occupazione che subito dopo all’ a-  griooltura ha raggiunto nell’ Italia setten¬  trionale uno 8vilup(K) grandissimo ò Tindu-  sfria nelle sue svariatissime manifestazioni.  Sotto questo riguardo l'Italia settentrionale  supera senza confronto il resto d’Italia e può  gareggiare con le regioni più industriali dol-  Pestero, nonostante la mancanza di mate-  ' rie prime (metalli, carbone, cotone eoc.)o)io  è uno degli ostacoli maggiori alla prosperità  eoonomioa del nostro paese. Alla mancanza  di carbone mal si provvede con le ligniti o  con il poco petrolio dell’Emilia e molto più  efficacemente, invece, ma sempre in modo  inadeguato ai bisogni, con le energie elet¬  triche ottenute dai corsi d’acqua.   Iva le industrie piti importanti e sviluppate sono  quelle metallurgiche o mecoaniohe per fusione e  lavorazione di metalli e fabbrioazione di maooliine,  di automobili, di navi, specialmente a Milano, a  Torino, a Genova e dintorni (8. Pier d’Arena. Sa¬  vona eoo.), a Venezia, a Trieste ed anche in altre  località, come nel Bergamasco e nel Bresciano.   Non meno importanti sono le induatrie teeaili:  soprattutto della eeta, a àlilano. a Como e altrove,  in modo da gareggiare con I piu progrediti paesi  della Terra sotto questo riguardo ; del ootone, pure  nel Milanese e nelle province di Torino, di Novara,  di Como, di Bergamo, di Genova. Por la lana hanno  acquistato fama soprattutto i dintorni di Biella  (prov. di Novara) o di Schio (prov. di VIoenza).   Delle induetrie alimentari ha preso grande svi-    gliingova  dalla qua  foioo mo'  appatj»^  { •uoi 06  ^crre pe  quali fu 5  Piave e d           — 40 —    luppo negli ultimi anni quella iJello xùcchero di  barbabietola specialmente nell’Elmilia, nel Veneto  o in Liguria. A (lenora sono anche numerose le  fabbrlohe di pa*r«. R nell'Sìmilia sono (famose le  t alum trix di Modena e di liologna.   Terzo grande ramo d’oootipazione degli  abitanti nell’ Italia settentrionale sono il  commercio e la navigazione ; il primo age¬  volato dalla posizione goograflna, e dalla  rete ormai assai svilupjjata ui strade, e spe¬  cialmente di ferrovie, ohe s’intrecoiano in  tutti i sensi e_ traversano, come abbiamo  veduto, le Alpi e gli Appennini. Ad esse  s’aggiungeranno Io vie d’acqua interne,  specialmente quella Padana.   La navigazione ò occupazione delle pili  antiche per gli abitanti dei litorali della  Liguria o del Veneto, dove sorsero nel medio  evo le più potenti città marinare di quei  tempi. Uenclib superati ormai sulla Terra e  nello stesso Mediterraneo da altri d’altre  regionij i porti di Genova, Venezia e Trieste  gareggiano con i maggiori od è a crederò  furmamente che avranno uno sviluppo  commerciale sempre più intenso.   Por tutte questo ragioni l’Italia setten¬  trionale supera le altre parti d’Italia in  ricchezza e in generale anche nelle varie  formo di vita civile. Wistruzione vi è no¬  tevolmente sviluppata, d’ogni ramo o grado:  gli analfabeti, sebbene pur troppo non  manchino, sono in generalo in numero mi¬  nore ohe altrove, soprattutto nel Piemonte  tu su 100 ab. d’oltre 6 anni), nella Lom¬  bardia (13 su 100) e nella Liguria (17 su    25. Rboio.vi stobiohb b divisioni aumini-  STRATivB. — Come già abbiamo detto, l’I-  tiilia settentrionale si divide in 8 compar¬  timenti 0 regioni storiche : Piemonte. Liqu-  ria ool Nizzardo, Lombardia, Canton Ticino,  che costituisce la parto maggiore della Sviz¬  zera italiana, Venezia propria, Venezia Tri-  dentina, Venezia Giulia con lo Stato di Fiume,  ed Emilia, con la piccola repubblica indipen¬  dente di S. Marino.   Di questi compartimenti o regioni sto¬  riche (delle quali il Canton Ticino o il Niz¬  zardo, oltre a S. Marino, non fanno parte  del Regno d’Italia) diamo qui sotto la su¬  perfìcie e la popolazione, secondo il cen¬  simento del 1921. Si noti, però, ohe tale  superfìcie e popolazione corrisponde alla  somma di quelle delle provinole (che sono  le maggiori oiroosorizioni amministrative  del Regno) ; ma i uonfìni di queste non  sempre corrispondono ni oonfìni fìsici, et¬  nici 0 storici dei compartimenti.   In fìne al volume diamo in una tabella  i dati statistici particolari per le varie pro¬  vinole.   Si noti poi ohe la popolazione che indi¬  chiamo fra parentesi per le varie città nella |    descrizione dei vari compartimenti corri¬  sponde a quella della cerchia del comune,  non del centro principale abitato, che h  la città vera. Tra l’una o l’altra di tali  cifre vi sono assai spesso differenze gran¬  dissime, ohe rileveremo a mano a mano  quando l’occasione se ne presenterà.    Dati statistici relativi alle ragioni  dell’ Italia settentrionale.    Entro 1 nuovi confini politioi e amministrativi.    Superficie   Popol. nel 1921    In km>   assol.   relat.   l’iemonto   29 8b6   3 88S 000   116   Liguria . . . .   S 280   1 S'IO flOO   248   Iximbardia   24 180   S uo ooo   211   Vanesia propria .   28 010   4 2IS OOO   150   Venezia 'Tridentina .   18 800   645 000   47   Venezia Giulia   8 iOO   OiO flOO   103   Emilia . . . .   21 848   3 012 000   138   RepubhItQt di 8. Marino 00   12 OOO   200   Nizzardo ool Principato     di Monaco .   600   200 OOO   290   Svizzera italiana   8 8J0   170 000   43   Dati piò speolfioati,   soprattutto per lo'province.   Si trovano in aopendioo at fasotoolo.     lo - IL PIEMONTE.   r   Confini e nosloni generali. — Il Piemonte (In S  latino ftdemontium, oioO paese > pie’ di monti) si T  può dire all'insrosso limitato a H, a WeaN dalla {  crosta dell’Appennino Ligure e dello Alpioocideu- 1  tuli 0 t'entrali fino alle sorgenti dolla Tooe e al 4  lago Maggioro. Verso R. il Ticino lo divide soloiJ  in parte amministrativamente dalla I.ombordia, <|  perohò a questa appartrngono la Lomellioa o il I  cosi detto Oltrepò Pavese, formante il curioso ou- 4  neo di Bobbio. '4   Pisioaraento ooraprondo: la sona alpina; la pla-iL  nura piemontese da Ounoo ai Ticino, Il paeso ool- J  linose del Monferrato e la pianura di Marengo. Y   Divisione in province. — II Piemonte, di oul /  sopra abbiamo indioato la suporfloie e la popole-'V  alone a>soluta o relativa, ò diviso in t province:  ili Torino (!• per superlicfe e per popolaaione) ohe 'I  abbraooia l'angolo NW del compartimento, cioè ■  gran parte delie Alpi Ponnlne, tutte le Graie ita- .  liane e parie dolio Cozie, un tratto piano luogo il  Poe le colline sulla destra del fiume; —di Cuneo  (Z» per Slip.. 4* per popolaz.) ohe oooupa l’angolo'  SW ; — di A.le%8andria (4* por sup. o 2» por pope- ’  laz.) por niussima parto formata dal Monferrato;!   — di Novara (»• por sup. e por popola:.) a NE, ,  par.e alpina e parte piana.   Occupazioiij degli abitanti e prodotti. — I vi-,  gneti ^ecialmentc del Monferrato e lo]  risaie aoì Vercellese, dànno i prodotti più  caratteristici del Piemonte. Il quale ha '  grande sviluppo anche industriale a To¬  rino e dintorni (industrie metallurgiche e >  meccaniche), nel Diellese per la tessitura di •  lana, in parecchi luoghi per filatura e les-J  silura di cotone, in Valsesia per cartiere^   Città principali. — Torino 6'20) capitale de l  Piemonte, è per alcuni anni (dal 1881 a j  1885) già capitale del regno d’Italia, o entro]  deU'tilt.i valle del Po e delle relazioni cora-J  meroiali terrestri dell’Italia con l’Buropa oc-1  cidentale à, dopo Milano, la più iniuatriale]  città d’Italia. Si distingua da tutte le^altrej            - 41 -    grandi oitt& italiane per la re^olarith delle  vie o le sue costruzioni tuoderno.   Torino Tu oiilU 'Ini risor|;irapnio itahiiiio r pa¬  tri» t' 'lliiKtrl uomini, comi- U ih'ranso, Kali'O, liio-  (mrtl. IVAmifiio e, superiore a tutti. Camlilo (;.i-  yn,,r HiiI rioinn nnlle 41 Kurerir» /> la hasllina ohe  oontiene le tomtie dei re e prinoipi di Casa Barola  flno a Carlo Alberto.   Impila provincia di Torino sono da ricordare an-  oorii: /rrea(12) allo sbocco dolla valle d’Aosta, città  d'orisine romana di notevole importanza storica  _ e Aosta I Mianch'essa d'origine romana e capo-  luogo doila bellissima valle, a oui^dà il nome.   Cuneo (30), allo sboooo delle etrmle dei  passi di Tenda e dell' Argenterà. Sostenne  oon esito felice otto assedi dei Francesi.   Nella sua provincia è Saluteo (16), giàrapoluogo  di un Uarohesato, patria di Silvio Pellioo.   Novara (60), molto commerciante. Sotto le  sue mura avvennero importanti battaglie  nel 1613 e nel 1849. Grande centro di pro-  iluzione di riso.   Nella sua provincia: ttirl/a (13), soprannominata  la àlanohostor d'Italia, per le sue numerose e Ho-  renii industrie. — VtretUi (36), antiohisaitna città  sulla ferrovia Torino-àlilano, in territorio fertilis¬  simo: centro del mercato del riso.   Alessandria (78), fondata dalla Lega Lom¬  barda contro Federico Barbarossa alla con¬  fluenza della Bormida eoi Tànaro, nella  pianti rar di Marengo : ebbe in passato no¬  tevole importanza strategica.   Nella Rum provincia: Asfi (àO), città antichissima,  repubblica dei medio evo; centro vinifero del Pie¬  monte. patria di Vittorio Autori. — Aeaui (15), fa¬  mosa per le sue aocue termali, da cui ha li nome.  — Uanal* Monferrato (35), sulla destra dei Po, già  oapiiale del ducato di Monferrato. Importante cen¬  tro vinloolo.   2o . LA LIGURIA.   Confini e nozioni generali — La Liguria fl-  slonmente oooupa il versante dell’ Appennino e  delle Alpi Idguri rivolto al mare, arrivando a W en¬  tro I oonfini politioi o amministrativi fino alla valle  della ifoja e ad K verso la Tosoana (Ino alla foce  della .Magra. Etnograficamente però ed anche am-  inliiistraciraraente la Liguriapassa in qualohepunto  al di là della cresta spartiacque. Oonlina perciò  con la Pranoia, oon il Piemonio, por breve tratto  oon la lx>mbardia, in causa del cuneo di Bobbio,  oon l'Emilia e oon la Tosoana.   Divisione In province. — Ni divide in duo pro-  rinoe : di Oenova a E (la maggioro per sup. e  par popol.) e Porto Maurizio a W.   Occupazioni degli abitanti e prodotti. — Suolo  ristretUL moatuoso e naturalmente poco  fertile. Gli abitanti però seppero trarne il  maggior profitto, ooltivandolo a giardini ed  orti, che dànno, per il clima, fiori e legumi  primatiooi, ohe si spediscono in altre re¬  gioni d'Italia od all’estero. Altri prodotti  abbondanti sono : olio, castagne, vino e a-   riimi. Le industrie prinoipali sono quelle   el ferro e dei cantieri navali a Genova, a  S. Pier (l’Arena, a Savona ed alla Spezia;  poi quelle ohiraiebe (zucoherifloi), del co¬  tone, eco.. Ma la riochozza di Genova b  il commercio marittimo, che supera quello  di tutto il resto d’Italia.    Città principali. — Genova (300), sorta nel  punto della costa ligure pili opportuno per  le oornunicazionì ool bassopiano Padano, è  il primo porto e insieme una delle pili belle  citth d' Italia. Edificata ad anfiteatro su per  il monte, ohe salo subito dal mare, manca  di spazio por allargursi ; e le costruzioni  anche per l'ingrandimento del porto furono  assai difficili e costose. Un tempo ora pure  piazp forte ; ora non pili. I molti e son¬  tuosi palazzi le meritarono il nome di Su¬  perba. Decaduta dalla sua prima potenza  e dal suo splendore dal 1600 in poi, riac¬  quistò tutta la sua importanza nel secolo  passato con l’unità d’Italia, oon l’apertura  del oanale di Suez e con i trafori del S. Got¬  tardo e del Sempione. Ora Genova è rivale  di Marsiglia e si sviluppa sempre più, anche  por le industrie Vi nacquero Cristoforo  Colombo e Giuseppe Mazzini.   Nell.a sua (Tovincla: 8. J-Her d’Arma (SOI, ò  quasi un sobborgo di Genova, oon rInoinaM fon¬  derie ed oltloiiio sidertirgioho. — àfaronaiTò), sooon-  deporto della Riviera, molto ingrandito; si può oon-  siderarooome ti porto del Piemonte — Npezia( 90),  pruno porto militaru d'Italia, si trova In fondo ad  un golfo ampio o ben riparato, cinto da ripide mon¬  tagne, o«ronato da forti,e chiuso danna diga a Ror  d'acqua ^sta diventando anche centro industriale.  — Molte altre cittadine minori, amenissime, Af-  bmga, Sestri Levante, lìapallo eoo., sono stazioni  olimatloho di fama internazionale.j   Porto Maurizio (9) è il (piooolo c^oluogo  della provincia a cui dà il nome. E’ diviso  da Oneglia{S) quasi somplioemonte dal tor¬  rente Impero, alla cui foce;fe il piooolo,porto  comune. '■* *■'   Nella provinola ben piti imiràrtante oo'me' città  ò S»N RaunlSO), rinomata stazione olimatioa, oome  la Tlolna Bordighera (li), — yentimigiia ò a pojiii'  km. dal oonflna franoese; grande mordalo di (lori.  Arcangelo Ghisleri. Ghisleri. Keywords: atlante filosofico, tavola I, tavola II, tavola III, -storia romana, eta romana – classe V ginnasiale -- storia romana e filosofia, memoria di Cattaneo, rivoluzione con Rensi – Mazzini, mazziniano – lo stato italiano – stato federale – federazione -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Ghisleri: storia romana e filosofia”– The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giacchè – l’altra visione dell’altro – Barba, Bene, e Fellini antropologo -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Perugia). Filosofo. Grice: “I like Giacché; for one, he philosophises on theatre, which any Sheldonian should appreciate!” Grice: “Giacché is what I would call a philosophical anthropologist.” Grice:”Giacché has an ability with language: “l’altre vision dell’altro,” for example – difficult to translate, but genial nonetheless, or perhaps genial because uneasily translatable!” – “He has philosophised on spectator and participant, which is conversational in tone – there’s no monologue, but dialogue --.” “He has criticised authoritarian types of performances like traditional teaching which he has compared to religion!” Insegna a Perugia. Si occupa di varie problematiche socio-culturali quali condizione giovanile, devianza, comunicazione di massa, solitudine abitativa, politica culturale. Saggi: Una nuova solitudine. Vivere soli fra integrazione e liberazione, Roma); “Lo spettatore partecipante. Contributi per un'antropologia del teatro, Guerini, Milano, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani, L'altra visione dell'altro. Una equazione fra antropologia e teatro, Ancora del Mediterraneo, Napoli, Ci fu una volta la sinistra. Ovvero il silenzio dei post-comunisti, Asino, Roma.  CURRICULUM di Piergiorgio Giacchè (Perugia, 16.04.46), Professore a contratto (incarico gratuito), docente di “Etnologia europea: patrimonio culturale immateriale” presso la Scuola di Specializzazione in Beni demo-etno- antropologici, Università di Perugia, Firenze, Siena e Torino (sede di Castiglione del Lago, PG) - anni accademici 2014-15, 2015-16. TITOLI DI STUDIO E INCARICHI ACCADEMICI Laurea in lettere (indirizzo moderno), con tesi in Etnologia conseguita nell’anno acc. 1969-70 presso l’Università degli studi di Perugia, con voti 110/110 e lode. Abilitazione all’insegnamento delle materie letterarie nelle scuole medie inferiori - titolo conseguito il 3.2.1973 con voti 100 su 100. Borsa di studio quadriennale (dal 1.11.77 al 31.08.76) per “ricerche nel campo sociale”, usufruita presso l’Istituto di Etnologia e Antropologia culturale dell’Università di Perugia. Titolare di contratto quadriennale (dal 1.11.77 al 31.10.81) presso la Facoltà di lettere e filosofia della stessa università. Addetto alle esercitazioni presso la cattedra di Etnologia della stessa Facoltà, per gli anni accademici 1974-75, 1975-76, 1977-78, 1978-79, 1979-80, 1980-81. Ricercatore confermato dal 1° settembre 1981 al 28 dicembre 2004, presso l’Istituto di Etnologia e Antropologia culturale dell’Università di Perugia; in tale ruolo ha condotto seminari, cicli di lezione, moduli didattici e progetti speciali (in prevalenza sui temi della devianza, della condizione giovanile, della società dei consumi e dello spettacolo, dell’antropologia e sociologia del teatro) fino all’anno acc. 1994-95, in cui è divenuto affidatario di un Corso di Antropologia teatrale (unico corso attivato in Italia), riconfermato per tutti i successivi anni accademici. E’ stato altresì docente affidatario del corso di Antropologia culturale presso la facoltà di Scienze della formazione dell’Università di Perugia, nell’anno accademico 1998-99. Professore associato presso il Dipartimento Uomo & Territorio – Sezione antropologica ; docente di Fondamenti di Antropologia e di Antropologia del teatro e dello spettacolo presso la  Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Perugia, dal 23.12.2004 al 31. 12. 2013. Professore a contratto, docente di Antropologia culturale presso la Facoltà di Scienze della Formazione della L.U.M.S.A. di Roma – corso per Educatori professionali, sede di Gubbio – anni accademici 2004-05, 2005-06, 2006-07, 2007-08, 2010-11, 2011-12, 2012-13. Professore invitato, nel quadro del progetto “Socrates”, presso l’Université Libre de Bruxelles - facoltà di Scienze Sociali e di Filosofia e lettere (9 - 27 febbraio 1998); (10 -15 marzo 2000). Visiting Professor presso l’Università di Malta, Facoltà di Scienze della Formazione (23 – 29 aprile 2001). Professore invitato, nel quadro del progetto “Socrates”, presso l’Université Paris VIII – Département d’Etudes théâtrales (7 - 15 dicembre 2000 ; 10 – 20 gennaio 2002; 7 – 9 aprile 2004; 12 – 14 gennaio 2005). Professore invitato dall’Université Paris VIII per un seminario da tenersi presso il laboratorio di Etnoscenologia della Maison de l’Homme – Paris Nord (15 novembre – 15 dicembre 2006). Membro della Commissione per la Procedura di valutazione comparativa per il reclutamento di un ricercatore presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Cagliari, M05X – Discipline demoetnoantropologiche (gennaio – luglio 2002). Docente del Dottorato Internazionale in Antropologia ed Etnologia (A.E.D.E.) – anni accademici 2006-07, 2007-08, 2008-09, 2009-2010. CONSULENZE, COLLABORAZIONI E ALTRI INCARICHI ISTITUZIONALI Consulente socio-antropologico per alcuni programmi R.A.I. della Sede Regionale dell’Umbria: “Decentramento e sviluppo urbanistico” (15 - 25 ottobre 1979); “Anticamera” (novembre 1980 - aprile 1981); “Aperitivo” (aprile-luglio 1982). Consulente antropologico del Centro Regionale Umbro per le Ricerche Economiche e Sociali, nel 1978 (Ricerca sulla “popolazione reale”). Consulente del Comitato Regionale Umbro Radiotelevisivo e curatore di numerose indagini sul sistema dell’emitttenza locale e sull’ascolto radiotelevisivo ( dal 1978 al 1989). Consulente e collaboratore del Festival Internazionale del Teatro in Piazza di Santarcangelo di Romagna (edizioni: 1981 e 1982). Consulente e collaboratore del Teatro Studio 3 di Perugia, dal 1981 al 1985. 2  Consulente e collaboratore della 1^ Rassegna Internazionale del Teatro di Strada (Montecelio di Guidonia, 24 - 31 luglio 1982). Consulente artistico e scientifico del festival di teatro, musica e cinema “Segni Barocchi” di Foligno (edizioni 1985, 1986, 1987). Consulente del Teatro San Geminiano di Modena, poi centro teatrale “Dramma Teatri”, dal 1982 al 1995. Consulente e assistente, in qualità di antropologo del teatro per il periodo 27 settembre- 30 ottobre 2013, della rappresentazione teatrale de “La escuela de la escena y la escena de la escuela jesuita en el siglo XVII” a cura di Bruna Filippi, nel quadro del congresso De los Colegios a las Universidades. Las ensenanzas jesuitas y sus relatos cotidianos, organizzato da la Universidad Iberoamaricana de Ciudad de Mexico (Città del Messico, 25-29 ottobre 2013). Membro del comitato scientifico dell’International School of Theatre Anthropology diretta da Eugenio Barba, con sede a Holstebro, Danimarca (dal 1981 al 1997). Membro del gruppo di lavoro internazionale di Sociologia del teatro, con sede presso l’Université Libre de Bruxelles, Belgio (dal 1992 fino al suo scioglimento nel 1995). Membro del gruppo di lavoro della Maison de Sciences de l’Homme (E.H.E.S.S.) “Spectacle vivant et sciences humaines” (dal 1996 al 2002). Membro del comitato scientifico della quinta sezione di ricerca “Créations, Pratiques, Publics” della Maison de Sciences de l’Homme – Paris Nord (dal 2002). Membro del Laboratorio di Ricerca Interdisciplinare dell’Istituto di Psicosomatica Psicoanalitica “Aberastury” di Perugia (dal 2000). Membro del Comité de Rédaction de “L’Ethnographie. Noveaux objets, nouvelles méthodes. Revue de la Société d’Ethnographie de Paris” (dal 2002). Collaboratore della rivista “Lo straniero. Arte Cultura Società” diretta da Goffredo Fofi (dalla sua fondazione – 1997 – ad oggi); già redattore della rivista “Linea d’ombra” (1982- 1997) e co-direttore de “La terra vista dalla luna” (1995-1996). Collaboratore della rivista “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, diretta da Luigi Monti, dalla sua fondazione – 2010. Membro del Comitato scientifico della rivista trimestrale “Catarsi. Teatri della diversità”, dalla sua fondazione – 1996. Membro del Comité scientifique de la revue trimestrelle “Théâtre Public” (dal 2013) Presidente della Fondazione “L’Immemoriale di Carmelo Bene” (dal 2002 al 2005). Membro della Commissione Consultiva per il Teatro – Ministero per i Beni e le Attività Culturali (dal 2005 al 2007). Membro della Commissione di valutazione dei progetti di cofinanziamento per lo spettacolo – Ministero per i Beni e le Attività culturali. (giugno-luglio 2007). 3  Consulente della Regione dell’Umbria – Assessorato alla Cultura, con l’incarico di ricognizione ed esplorazione del settore teatro nel territorio regionale (luglio 2010 – settembre 2011). Membro della Commissione Consultiva per il Teatro – Ministero per i Beni e le Attività Culturali (dal 2011 al 2013) Membro del Comitato Scientifico della Fondazione Centro Studi “Aldo Capitini” di Perugia (dal 2012). Membro del Comitato scientifico PerugiAssisi, candidata a capitale europea per il 2019. CORSI E SEMINARI DIDATTICI SPECIALI Partecipazione, in qualità di docente, ai seguenti corsi o seminari: • Corso biennale per la formazione di tecnici della ricerca sulle tradizioni popolari nella regione umbra (Perugia, 1974-75). • Primo corso regionale di preparazione e aggiornamento per operatori socio-sanitari impegnati nell’attività di prevenzione, cura e riabilitazione degli stati di tossicodipendenza (Bologna, 27 e 28 settembre 1977). • Corso regionale per operatori culturali nel settore del cinema (Orvieto, dicembre 1977 - giugno 1978). • Corso di riqualificazione professionale per operatori audiovisivi: il videotape (Foligno, febbraio-ottobre 1978). • Corso di formazione professionale per i 28 diplomati di scuola media superiore (schedatori) previsti dal progetto di “catalogo unico regionale dei beni bibliografici” (Perugia, maggio 1978). • Corso di formazione professionale per i 46 diplomati di scuola media superiore (ordinatori di biblioteca) previsti dal progetto “sistemi bibliotecari comprensoriali” (Perugia, luglio 1978). • Corso Animatori Q/1 - Seminario sulle comunicazioni di massa (Spoleto, 23 - 26 giugno 1984). • Seminario residenziale “L’Atelier: centro internazionale di ricerche artistiche” (Volterra, 1 novembre - 23 dicembre 1984). • “Soglie: esperienze di confine tra attore e spettatore”, seminario-laboratorio per studenti e insegnanti delle scuole medie superiori (Perugia e Todi, novembre 1990 - aprile 1991). 4  • Corso di Formation Doctorale Esthetique, Sciences et Technologies des arts della Université Paris VIII à Saint Denis (lezioni del 15 e 22 gennaio 1991). • Corso di Scenografia della Facoltà di Architettura e del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università “La Sapienza” di Roma (lezione del 29 gennaio 1991). • “Teatro, gioco, narrazione”, progetto teatrale per insegnanti delle scuole materne (Perugia e Città di Castello, febbraio e marzo 1991). • “L’attore consapevole. Seminario teorico-pratico sull’arte dell’attore” (Fara Sabina, Rieti, 25 - 31 gennaio 1993). • “La società italiana del dopoguerra”. Seminario di aggiornamento per gli italianisti polacchi, organizzato dall’Ambasciata d’Italia, dall’Università Jagellonica di Cracovia e dall’Istituto Italiano di cultura di Cracovia (Cracovia, 20 – 23 settembre 1993). • Corso di aggiornamento A/41 dell’I.R.R.S.A.E. dell’Umbria (Perugia, lezioni del 4 marzo 1994). • Seminario di Antropologia del teatro per gli allievi della Scuola Civica d’Arte drammatica “Paolo Grassi” (Milano, 24 e 25 marzo 1994). • V Corso Universitario Multidisciplinare di Educazione allo sviluppo, “La cultura del confronto”, organizzato dall’Unicef di Roma (lezione del 20 aprile 1995: “Uomini e teatro: culture del mondo a confronto”). • I Corso di aggiornamento sulla didattica del teatro nella scuola - Seminario internazionale su Scuola e Teatro (Marcellina, Roma, 19 - 21 ottobre 1995). • Corso di aggiornamento per insegnanti delle scuole medie superiori della regione Lazio (Roma, novembre 1995 - giugno 1996). • III Corso Universitario Multidisciplinare di Educazione allo sviluppo, organizzato dall’Unicef di Bari (lezione del 28 marzo 1996). • Università del Teatro Euroasiano, sessione dedicata alla “Storia sotterranea del teatro contemporaneo. Solitudine, tecnica, drammaturgia e rivolta” (Scilla, Reggio Calabria, 9 - 16 giugno 1996). • “Le età del teatro. Corso triennale di storia e cultura teatrale” - II anno: Dalla Commedia dell’arte alla Riforma goldoniana - organizzato da Emilia Romagna Teatro (Modena, Teatro Storchi, ottobre - novembre 1966). • Corso Uni-Tea 1997: “Figli della storia e maestri del teatro” (Parma, 5 febbraio - 19 aprile). • Corso d’aggiornamento per docenti e dirigenti di ogni ordine e grado, organizzato dal C.I.D.I. Versilia e dal Provveditorato agli studi di Lucca e intitolato “Letteratura teatrale e scuola” (Forte dei Marmi, 21 - 23 febbraio 1997). • Convegno-seminario “La musa fra i banchi di scuola. Esperienze e modelli di relazione / incontro fra teatro e scuola” (Cervia, 11 - 13 aprile 1997). 5  • Università del Teatro Euroasiano, sessione dedicata alla formazione dell’attore e intitolata “Apprendere ad apprendere” (Scilla, Reggio Calabria, 1 - 8 giugno 1997). • Corso Uni-Tea 1998, “Oplà noi viviamo! Tecniche originarie e tecniche nuove nel teatro d’attore” - seminario interno al Corso di Sociologia dell’Educazione dell’Università di Parma (Parma, 19 marzo 1998). • “Vedere Fare Pensare Teatro, per una formazione dell’educatore teatrale”, organizzato dall’E.T.I., dal Teatro delle Briciole, dal G.S.A Fontemaggiore, dal Teatro Kismet OperA e tenutosi in tre sessioni a Bari (25 - 29 marzo 1998), a Isola Polvese - Perugia (17 - 21 aprile 1998) e a Parma (8 - 12 maggio 1998). • Corso d’aggiornamento per insegnanti degli Istituti medi e superiori su “1968 - 1969. Gli anni della contestazione” (Parma, 24 marzo 1998). • « Sulla verticalità del verso », seminario di e con Carmelo Bene, organizzato dall’Ente Teatrale Italiano (Roma, Teatro Valle, 19 maggio 1998). • “Criticando criticando. Laboratorio d’analisi dello spettacolo”, organizzata in collaborazione con l’Associazione Nazionale Critici di Teatro (sessione dedicata al Teatro Ragazzi - Bagnacavallo, 4 giugno 1998; sessione dedicata al Teatro di Ricerca - Reggio Emilia 29 giugno 1998. • “I mestieri e le lingue del teatro”, Seminario di autoapprendimento per operatori dell’area penale esterna, organizzato dal Teatro Kismet e dall’Università di Bari, con il patrocinio del Ministero di Grazia e Giustizia (Bari, 2 - 3 luglio 1998). • “Teatro e Carcere: l’esperienza della Compagnia della Fortezza” - conversazione con P. Giacchè e Armando Punzo, in collaborazione con l’E.T.I. (Volterra, 21 luglio 1998). • Ciclo di incontri organizzati dall’Istituto Sardo per la Storia della Resistenza e dell’Autonomia (ottobre-dicembre 1998) “Rivelazioni e promesse del ‘68”; relazione su “Il ‘68 e il teatro” (Cagliari, 20 novembre 1998). • “La magia del leggere”, Corso di aggiornamento per insegnanti e genitori della Scuola Elementare “Ciro Menotti”, Villanova di Modena (26 marzo 1999). • Corso di aggiornamento per insegnanti delle scuole elementari del comprensorio Valle Umbria (Foligno, 23 aprile 1999). • “Teatro e Carcere: l’esperienza della Compagnia della Fortezza”, nel quadro di “Maggio cercando i teatri” organizzato dall’E.T.I. (Roma, Teatro Valle, 19 maggio 1999). • “Il verso dannunziano e il concerto d’autore”, seminario con A. Asor Rosa, C. Bene, P. Giacchè (Roma, Teatro dell’Angelo, 24 novembre 1999). • Ciclo di incontri “La parte dello spettatore” (relatore del 1° incontro – Faenza, 22 gennaio 2000). • Corso Uni Tea 2000, “Il teatro come disagio antropologico” (Parma, 27 gennaio 2000) 6  • “Divenire teatro”, incontri su Antonin Artaud organizzati dal Centro Teatro Universitario di Ferrara. Relatore del 3° incontro: “Artaud fatto Bene” (Ferrara, 17 aprile 2000). • “Politica e società nel 2000”, ciclo di incontri di formazione politica (Roma, aprile – giugno 2000). Relatore del 5° incontro: “Minoranze e movimenti nell’Italia del dopoguerra”, insieme a G. Fofi (Roma, 29 maggio 2000). • “Incontri in scena. Per un’indagine sull’antropologia dell’infanzia” (Vicenza, Teatro Astra, 20 ottobre – 24 novembre 2000), organizzati dalla compagnia “La Piccionaia – I Carrara” con la collaborazione dell’Università di Cà Foscari di Venezia. Relatore del 2° incontro: “Antropologia dell’infanzia” (3.11.00). • “L’utopia del teatro vivente. Living Theatre” (Siena, 7 marzo 2001), nel quadro di incontri organizzati dall’Università degli studi di Siena attorno ai “Cinque sensi del teatro. Cinque trasmissioni monografiche sulla filosofia del teatro” (Rai-Pontedera Teatro). • “Strumenti innovativi per favorire l’inclusione sociale”, lezione inaugurale (“Altro è narrare”) del corso organizzato dal Centro Solidarietà di Modena (CEIS) e da Emilia Romagna Teatro (Modena, 19 ottobre 2001). • Giornate di studio per l’inaugurazione della sezione di ricerca “Créations, Pratiques, Publics”, presso la Maison de Sciences de l’Homme – Paris Nord (St. Denis, 23 – 23 maggio 2002). • Conferenza sul Living Theatre, nel quadro del seminario “Maestri del ‘900. Gli uomini e le idee che hanno fatto la storia del teatro contemporaneo” organizzato dal Teatro Nuovo “Giovanni da Udine” (Udine, 28 gennaio 2003). • Conferenza su Carmelo Bene o delle provocazioni del genio, nel quadro del seminario “Maestri del ‘900. Gli uomini e le idee che hanno fatto la storia del teatro contemporaneo” organizzato dal Teatro Nuovo “Giovanni da Udine” (Udine, 13 febbraio, 2004). • “Le risorse della diversità”, seminario organizzato da Proteo Fare Sapere e dal Movimento Cooperazione Educativa (Firenze, Educandato SS. Annunziata, 20 – 21 febbraio 2004). • Corso per attrici “Il corpo del testo”, organizzato da Emilia Romagna Teatro Fondazione; docente di Elementi di antropologia e cultura del teatro e spettacolo (30 ore di Antropologia del Teatro nel biennio 2004-2005). • Seminario sulle “Quattro lezioni sul teatro” di Carmelo Bene, organizzato dalla Fondazione L’Immemoriale di Carmelo Bene” e dall’Università di Lecce (Lecce, 19 marzo 2004). 7  • Dimostrazione-conferenza “L’attore compositore: Mejerchol’d e la biomeccanica teatrale”, organizzata dal Centro Internazionale Studi Biomeccanica Teatrale (Perugia, 30 aprile 2004). • Quattro giornate di lavoro teatrale: incontri, dimostrazioni di lavoro, spettacoli Pontedera, Teatro di via Manzoni, 7 – 10 ottobre 2004), nel quadro di “Generazioni Festival 2004”, organizzazione e cura della Fondazione Pontedera Teatro. • Seminario dell’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, “Carmelo Bene. Voir la voix, écouter le visible”, coordinato da B. Filippi e G. Careri (Parigi, Institut National d’Histoire de l’Art, 8 novembre – 20 dicembre 2004); comunicazione Le Sud du Sud des Saints,, 15.11.04. • “Teatro in forma di libri”, incontri organizzati dal Teatro Due Mondi – Casa del Teatro (Faenza, novembre-dicembre 2004). • “Arte dello spettatore”.Corso di formazione per insegnanti, organizzato dal Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore (Perugia, Teatro Sant’Angelo, novembre 2004 – aprile 2005). • Seminario orientativo sul settore spettacolo, organizzato dalla Fondazione Emilia- Romagna Teatro nel quadro della Laurea specialistica “Progettazione e gestione di attività culturali” della Facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Modena (lezione del 17.3.2005). • Seminario di studio nel quadro della Mostra “Carmelo Bene. La voce e il fenomeno. Suoni e visioni dall’archivio”, organizzato dalla Fondazione L’Immemoriale e dal Comune di Roma (Casa del Teatri-Villino Corsini, 29 aprile – 26 giugno 2005); comunicazione L’ultimo Bene. La verticalità del verso, 7.5.05. • Incontro seminariale “Parole chiave per il teatro” (Lecce, 22 ottobre 2005), organizzato dai Cantieri teatrali Koreja. • “Un’antropologia della memoria” Conferenza dibattito sul libro di C. Severi Il percorso e la voce (Perugia, Palazzo dei Priori, 23 novembre 2005). • Corso “Salute mentale, Antropologia e Teatro: confronto su un’esperienza di pratica laboratoriale” (Perugia, Parco di S. Margherita, Padiglione Neri, 13.12.2005), organizzato dal Centro di Formazione della ASL 2 di Perugia. • “Pasolini antropologo” (Gubbio, Biblioteca Comunale Sperelliana, 17 dicembre 2005), nel quadro del ciclo di incontri “Pasolini e la nuova barbarie. Conversazioni su un testimone del nostro tempo” organizzato dal Comune di Gubbio (dicembre 2005 – aprile 2006). • “Atelier intensif S.P.O.T. (Spectacle vivant, Opèra, Thèâtre)”, organizzato nel quadro del Master Europeen conjoint en Etude du spectacle vivant, coordinato dall’Université Libre de Bruxelles e organizzato dalla Universitad de La Coruña - Spagna (6 – 18 febbraio 2006); docente di un corso di 15 ore di Antropologia teatrale. 8  • “Teatro come impegno civile”, seminario-incontro con Marco Paolini organizzato dai Cantieri Teatrali Koreja (Lecce, 10 giugno 2006) • Laboratorio di ricerca interdisciplinare – Quello che ci fa la vita che facciamo, nel quadro del “50° Seminario di Louis Chiozza”, organizzato dall’Istituto di Psicosomatica “Aberastury” e dalla Scuola di specializzazione in Psicoterapia psicoanalitica di Perugia (Città di Castello, Palazzo Vitelli, 22 febbraio 2007). • “Quadri concettuali per l’analisi del sistema cultura – Seminari di studio”, organizzati dalla Fondazione Mario Del Monte di Modena (febbraio – aprile 2007); comunicazione su L’antropologia e il “teatro” della cultura (Modena, Teatro delle Passioni, 29 marzo 2007). • “L’ultimo Bene”, conferenza-lezione nel quadro delle attività didattiche speciali della Fondazione Accademia di Belle Arti di Perugia (Perugia, 17 maggio 2007). • Seminario di studio “Economia della cultura, sviluppo umano e politiche culturali”, a cura del CAPP (Centro di Analisi delle Politiche Pubbliche), Modena, ottobre 2007- gennaio2008; comunicazione su La domanda di teatro. Una prospettiva antropologica (Modena, Facoltà di Economia, 17 dicembre 2007). • S.P.O.T. II (Spectacle vivant, Opèra, Thèâtre) “Espectàculos y dialogo entre culturas: La adaptacioòn y la escena”, organizzato nel quadro del Master Europeen conjoint en Etude du spectacle vivant, coordinato dall’Université Libre de Bruxelles e organizzato dalla Universitad de Sevilla - Spagna (28 gennaio – 8 febbraio 2008); docente di un corso di 8 ore di Antropologia del teatro e dello spettacolo. • Laboratorio Interculturale di Pratiche Teatrali (III edizione in collaborazione con l’International School of Theatre Anthropology, organizzata dal Teatro Potlach, Fara Sabina (Rieti), 13 – 26 ottobre 2008); comunicazione su L’antropologia dello spettatore, 14.10.08. • Seminario – Convegno “Omaggio a Carmelo Bene” (Centro Teatro Ateneo – Dipartimento Arti e Scienze dello Spettacolo dell’Università “La Sapienza” di Roma, 12 – 14 novembre 2008); Prologo al seminario e comunicazione dal titolo A scuola da Bene, 12.11.08. • “Il potere di tutti. Conversazione su Aldo Capitini” (Perugia, Sala Miliocchi, 14 febbraio 2009), organizzata dall’Associazione “Vivi il borgo”, dalla Società Operaia di Mutuo Soccorso e dalla Fonoteca Regionale “O. Trotta”. • Giornata di studi “La religione dell’educazione. Don Milani e Aldo Capitini”, organizzata dalla L.U.M.S.A. di Roma, Facoltà di Scienze della Formazione (Roma, Aula “Edda Ducci”, Piazza delle Vaschette, 1° aprile 2009). • Seminario “Migrazioni. Prospettive etnografiche sullo Stato italiano”, organizzato dal Dipartimento Uomo & Territorio – sezione antropologica (Perugia, Facoltà di Lettere e Filosofia, Palazzo Manzoni, 16 aprile 2009). 9  • “Voler Bene al cinema. Omaggio a Carmelo Bene” (Bellaria, Cinema Astra, 4 giugno 2009), nel quadro di “Bellaria Film Festival 2009. • Seminario interdisciplinare su: “Grotowski e la ricerca invisibile” (Perugia, Istituto Aberastury, 20 giugno 2009. • “Bruciare la casa“, incontro-colloquio con Eugenio Barba (Isola Polvese (PG), 8 settembre 2009), nel quadro di “Terre di confine. Lo spazio del teatro”, progetto a cura di Linea Trasversale. • Séminaire doctoral collectif - Centre d'Etudes Féminines et d’Etudes de Genre/ CRESPPA-GTM : « Théâtre du genre : production, performance, spectacle » (Parigi, CNRS , 4 dicembre – comunicazione su “Travestissement à théâtre: masculin, féminile ou neutre? “). • Séminaire “SPACE-Supporting Performing Arts Circulation in Europe “- Session Paris (ONDA, Paris, 3 – 6 février 2010), Comunicazione “Europe Toolbox: quelle boîte pour quels outils?” • “Cinema e teatro non si incontrano mai, se non all’infinito” (Bergamo, 17 febbraio 2010) incontro seminariale nel quadro de “Il teatro vivo. Introduzione al teatro contemporaneo: Corso di Alti Studi Teatrali – XI edizione, 2009-2010”, organizzato dal Teatro Tascabile di Bergamo. • “La Festa nelle culture dei popoli: criteri di autenticità” (Gubbio, 19 marzo 2010), nel quadro del ciclo di incontri “La Festa nella Festa dei Ceri”, per la celebrazione del 850° anniversario della morte di S. Ubaldo. • Introduzione e partecipazione al XI Seminario Interdisciplinare dell’Istituto Aberastury su “La vocazione minoritaria”, condotto da G. Fofi (Perugia, 14 maggio 2010). • Incontro seminariale su “Lo spettatore partecipante” nel quadro del progetto “Paesaggio con spettatore” a cura di R. Vannuccini e organizzato da ArteStudio per il Festival dei Due Mondi – Spoleto 53 (Spoleto, Palazzo Comunale, 25 giugno 2010). • Coordinatore del IX Laboratorio di Ricerca Interdisciplinare dell’Istituto Aberastury “Dialogo con Sctutatori d’anime di Carlo e Rita Brutti” (Assisi, 23 febbraio 2011). • Incontro-conversazione “Radicalism: Piergiorgio Giacchè speakes about Carmelo Bene with Dora Garcia” (Venezia, Padiglione Spagnolo della Biennale Arte, 4 giugno 2011), nel quadro della performance THE INADEQUATE: ogni giorno un artista in scena (Padiglione spagnolo, 54th International Art Exibition – Venice Biennale, 1 giugno - 27 novembre 2011). • Relatore e conduttore del XIII Seminario Interdisciplinare dell’Istituto Aberastury su “L’anima del mondo viene prima del mondo dell’anima? (Perugia, 11 giugno 2011). • Dialogo teatrale – incontro tra un antropologo e un avvocato su Teatro Trattamento Carcere, nel quadro di “Stanze di teatro in carcere 2011. Rassegna intinerante di Teatro Carcere in Emilia Romagna” (Modena, Teatro delle Passioni, 29 ottobre 2011). 10  • “La congiura della creatività”, seminario pubblico con P. Giacchè e R. Sacchettini, organizzato dal collettivo Nevrosi (Agliana, PT, Teatro Il Moderno, 28 gennaio 2012). • Incontro con Marc Augè in dialogo con Piergiorgio Giacchè, organizzato dal Circolo dei lettori di Perugia (Perugia, Sala dei Notari, 29 marzo 2012). • Incontro con Piergiorgio Giacchè e Giuseppe Di Leva (Piccolo Teatro Grassi di via Rovello, Milano, 12 luglio 2012), nel quadro di “Visioni di Bene. Voce, teatro, cinema, televisione secondo Carmelo”, Milano, 12 – 15 luglio 2012. • “Memorie del sottosuolo. Il teatro raccontato da spettatori speciali: Piergiorgio Giacchè su Carmelo Bene” (Giardino del MUSAS, Santarcangelo di Romagna, 13 giugno 2012), nel quadro di Santarcangelo 12 – Festival Internazionale del Teatro in Piazza – 13-22 luglio ’12. • “Raduno degli artisti della scena: Punctum e tempo, dalla fotografia alla scena”, incontro seminariale a cura di Claudio Morganti, organizzato dal Teatro Metastasio Stabile della Toscana, nel quadro del festival “Contemporanea 12: le arti della scena” (Prato, spazio Magnolfi, 6 ottobre 2012). • Incontro-Lezione – TITOLO - per il seminario residenziale Università Elementare de Gli asini nel quadro di “Leggere la città: lo spazio pubblico” (Pistoia aprile 2014) • Seminario su “La parabola dell’animazione teatrale” nel quadro della seconda edizione della Summer School di Arti performative e Community care (Carpignano Salentino, 20 – 29 agosto 2013). • Incontro con Piergiorgio Giacchè e Alessandro Leogrande condotto da Giovanna Casadio, intitolato Vizi privati e pubbliche virtù, nel quadro della decima edizione del “Festival Lector in fabula: Privato, Pubblico, Comune” Conversano, 11-14 settembre 2014 (Conversano, BA, Auditorium di San Giuseppe, 12 settembre 2014). • Conferenza Orizzonti e vertici del “viaggio del teatro” nel quadro della XVII edizione de “IL TEATRO VIVO. Progetto di promozione e diffusione del teatro contemporaneo”, organizzato dal Teatro Tascabile di Bergamo (Bergamo, 5 dicembre 2014). • Conferenza Dal Living Theatre all’Odin Teatret, nel quadro di “Effetti collaterali. Ciclo di incontri per la formazione degli operatori e del pubblico”, organizzato dal Teatro di Sacco di Perugia (Perugia, Sala Cutu, 18 dicembre 2014). • Incontro-Lezione “Essere giovani, essere attori” (Pistoia, Piccolo Teatro Mauro Bolognini, 11 aprile 2015) per il seminario residenziale Università Elementare de Gli asini “La cultura di massa dall’emancipazione all’alienazione”, nel quadro di “Leggere la città: lo spazio pubblico” (Pistoia 9-12 aprile 2015). • Corso residenziale “Si deve, si può. Ruolo delle minoranze etiche tra globale e locale” - primo modulo Dove va il nondo? Analisi del presente: il globale e il locale (Lamezia Terme, 3-4-5 luglio 2015); Progetto Spring organizzato dalla Comunità Progetto Sud in collaborazione con le riviste Gli asini e Lo straniero. Relazione: “La mutazione antropologica: dal locale al globale e ritorno”.  11  • Corso di formazione per docenti presso l’Istituto Omnicomprensivo “D. Alighieri” di Nocera Umbra (PG): intervento formativo di due ore sul tema “Giovani Oggi” (1° aprile 2016). • Corso d formazione per docenti “Teatro come cultura delle differenze”, organizzato dal 1° Circolo didattico di Marsciano (PG) e dal Teatro Laboratorio Isola di Confine; conferenza “A scuola da Pinocchio” (Marsciano, Sala E. De Filippo, 14 giugno 2016). Curatore e ideatore dei seguenti progetti o seminari speciali: • “La casa de l’Odin”, Ciclo di conferenze sulla cultura teatrale e sull’antropologia del teatro (Valencia, Barcellona, Castellon e Madrid, marzo - aprile 1983). • “Apriamo un salotto: appuntamenti di restaurazione culturale” - tre cicli di conferenze sulle attività e sulla politica culturale (Perugia, marzo - giugno 1984). • “Storia & Geografia. Corso effimero di educazione permanente” - cinque incontri dedicati a Gabon, Germania, Iran, Argentina e Umbria, per favorire l’integrazione degli studenti stranieri (Perugia, febbraio - maggio 1985). • “La parte dell’altro. Teatro ed esperienze antropologiche” - ciclo di conferenze e seminario conclusivo con E. Barba (Perugia, febbraio - aprile 1989). • “Altro e Teatro” - ciclo di conferenze e relazioni di ricerca sugli ambiti contigui al teatro (Perugia, febbraio - maggio 1990). • “L’età dell’oro. Per un teatro giovane” - incontri e discussioni fra giovani gruppi teatrali (Parma, 17 - 20 aprile 1994). • “Il primo giorno. Scuola di teatro a scuola” - convegno/laboratorio sul rapporto tra il teatro nella didattica scolastica e la pedagogia del teatro (Parma, 5 - 8 novembre 1997). • Coordinatore del seminario “L’infanzia ritrovata. Lo sguardo dell’artista nel presente che muta” (Parma, 14 gennaio - 25 marzo 1999), all’interno del Corso Uni-Tea 1999. • Coordinatore del seminario laboratorio “Curare gli affetti. Il teatro come legame sociale. Un percorso tra luoghi e non luoghi” (Parma, 27 gennaio – 6 aprile 2000), all’interno del Corso Uni-Tea 2000. • Curatore (assieme a G. Fofi) del ciclo di incontri “L’arte contro lo stato. Lo stato delle arti” (Santarcangelo di Romagna, 8 – 16 luglio 2000), nel quadro del XXX Festival “Santarcangelo del Teatri”. • Curatore (assieme a F.Orlandi) del Corso di aggiornamento per insegnanti della Scuola Media Superiore “Oralità, Narrazione, Teatro: In Principio era il verbo”, organizzato da Emilia Romagna Teatro – Fondazione (Modena, Teatro delle Passioni, 26 gennaio – 23 marzo 2006). • Curatore (assieme a S. Cipiciani) di “Piccoli maestri. Incontri video spettacoli con il Teatro delle Albe”. (Spello, Palazzo Comunale e Teatro Subasio, 16 – 17 maggio 2006), organizzato dal Teatro stabile di innovazione “Fontemaggiore” di Perugia. 12  • Coordinatore (assieme al prof. L. Mango) del Laboratorio di osservazione dello spettacolo contemporaneo, nel quadro del Festival Internazionale ESTERNI (Terni, 20 – 30 settembre 2006). • Curatore (assieme a S. Cipiciani) di “Piccoli maestri. Incontro con Santagata o Morganti” (Terni, Officine Ex-Siri, 22 – 25 settembre 2007), organizzato dal Teatro stabile di innovazione “Fontemaggiore” di Perugia nel quadro del festival Es-Terni 2007. • Ideatore e curatore di “Bene Detto. Oratorio e Laboratorio sull’arte di Carmelo Bene” (Oratorio: Mondaino (RN), 1° settembre 2009 – Laboratorio: Mondaino (RN) luglio 2010), organizzato da L’arboreto. Teatro Dimora, con la collaborazione dell’Ass. Liminalia di Perugia e di B. Filippi e S. Pasello. • “I tagli e le ferite. La poetica della politica e viceversa”, Incontro con gli artisti italiani nel quadro di “Vie. Scena contemporanea festival”, organizzato dall’E.R.T. (Modena, Biblioteca Delfini, 16 ottobre 2010). • Curatore e conduttore del meeting “Per Ora Labora” sulla condizione lavorativa dell’attore teatrale, nel quadro del Cantiere delle Arti (Modena, Biblioteca “Delfini”, 15 ottobre 2011). • Ideatore e curatore di “InizioAzione.Vacanze scolastiche per allievi attori delle scuole di teatro” (per una ricerca sulla motivazione teatrale), nel quadro del Festival VIE 2012 dell’E.R.T. (Rubiera, Corte Ospitale – Modena, Biblioteca “Delfini”, 25 – 28 maggio 2012). • Curatore e coordinatore dei sei incontri del seminario-laboratorio “Il grande attore e il piccolo spettatore” a cura del Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore di Perugia e del Dipartimento Uomo e Territorio – sezione antropologica – dell’Università degli studi di Perugia (Perugia, Teatro Brecht, 7 marzo – 2 maggio 2013). • Curatore di “Autocritica”, quattro incontri fra critici e attori per il Cantiere delle Arti, nel contesto di Vie Scena Contemporanea Festival 2013 (Modena, Biblioteca “Delfini”, 23 maggio – 1 giugno 2013). • Curatore e coordinatore del laboratorio per spettatori “Piccolo pubblico”, organizzato dal Teatro Stabile d’Innovazione Fontemaggiore di Perugia nell’occasione delle repliche degli spettacoli del Progetto Interregionale di promozione dello spettacolo dal vivo “Teatri del presente” (Teatro Brecht di Perugia e Teatro Clitunno di Trevi, novembre e dicembre 2013). • Curatore e direttore scientifico de “Il Centro della Visione. Per un’accademia dello spettatore”, progetto organizzato da Kilowat Festival a Sansepolcro (AR), dal dicembre 2013 a luglio 2014. • Ideatore e curatore del progetto “Verso Capitini, per un Colloquio corale”, prodotto dal Teatro Stabile d’Innovazione “Fontemaggiore” di Perugia (da aprile 2014 ancora in corso: prima sessione presso il Teatro Drama di Modena 17-18-19 ottobre 2104; seconda sessione presso il Teatro Brecht di Perugia 23 dicembre.2014). 13  • Ideatore e curatore del convegno “Il teatro della critica” (Pistoia, 14 e 15 novembre 2015), organizzato dal Centro Culturale “Il Funaro” e dall’Associazione Teatrale Pistoiese. CONVEGNI • Convegno su “L’Italia e l’Umbria dal Fascismo alla Resistenza: problemi e contributi di ricerca” (Perugia, 5 - 7 dicembre 1975). • Convegno internazionale su “Droga. Dalle esperienze ad una proposta concreta. Aspetti terapeutici, sociali e legislativi” (Firenze, 14 - 17 aprile 1980). • Incontro seminariale “Musica, Possessione, Spettacolo” (Greve in Chianti, Firenze, 15 - 17 maggio 1981). • Seconda sessione dell’I.S.T.A. - International School of Theatre Anthropology (Volterra, 8 agosto - 6 ottobre 1981). • Convegno di studi su “Improvvisazione e spettacolo” (Firenze, 21 ottobre 1981). • Convegno di studi su “Vedere ed essere visti” (Volterra, 26 - 28 febbraio 1982). • Convegno di studi su “Come si potrebbe vivere. Corpo e linguaggio” (Vicenza, 22 maggio - 4 giugno 1982). • Giornate della cultura e della partecipazione (Barcellona, 17 - 18 giugno 1983). • Convegno di studi su “Elogio dei fiori: tecniche personali e creatività” (Volterra, 9 - 11 dicembre 1983). • Mostra-Convegno “Spoleto come titolo” (Spoleto, 7 - 9 marzo 1985). • Simposio “Le maître du regard”, nel quadro della terza sessione dell’I.S.T.A. (Paris, Malakoff, 20 - 21 aprile 1985). • “Incontri di lavoro con Richard Schechner” (Pontedera, 24 - 26 aprile 1985). • Convegno-seminario su “Cosa narrare e come narrare” (Bellaria-Igea Marina, 29 - 30 luglio 1985). • Convegno Nazionale di Psichiatria “Crisi e costruzione delle conoscenze” (Massa, 4 - 6 ottobre 1985). • Convegno “Le forze in campo. Per una nuova cartografia del teatro” (Modena, 24 e 25 maggio 1986). 14  • Quarta sessione dell’I.S.T.A. - “Il ruolo della donna nel teatro delle diverse culture” (Hostelbro, 17 - 22 settembre 1986). • Convegno Nazionale di Antropologia delle società complesse (Roma, 27 - 30 maggio 1987). • Quinta sessione dell’I.S.T.A. - “Tradizione dell’attore e identità dello spettatore. Dialoghi teatrali” (Otranto, 1 - 14 settembre 1987). • Convegno su “Teatro e Emergenza. Quattro incontri” (Bologna, 11 - 13 dicembre 1987). • “Natura e buongoverno del teatro. Convegno Nazionale per il rinnovamento della scena italiana” (Milano, 20 e 21 ottobre 1988). • 1° Encuentro de Artes Escenicas sobre perspectivas, necesidades, metodos, limitaciones y alternativas para la investigacion y esperimentacion (Mexico D. F., 23 - 26 gennaio 1989). • Convegno su “La presenza misconosciuta. Nuovi progetti di teatro” (Frascati, 17 - 19 marzo 1989). • Giornate di studio su “Grotowski, la presenza assente” (Modena, 6 e 7 ottobre 1989). • 2° Congresso Mondiale di Sociologia del Teatro (Bevagna, 27 - 29 ottobre 1989) • Seminario Internazionale “A la recerca d’un espai teatral contemporani” (Olot - Catalunya, 28 - 30 giugno 1990). • Sesta sessione dell’I.S.T.A. - “Università del teatro euroasiano. Tecniche della rappresentazione e storiografia” (Bologna, 28 giugno - 18 luglio 1990). • XIIth World Congress of Sociology (Madrid, 9 - 13 luglio 1990). • Convegno di fondazione di “Mantis. Centro per la ricerca sui linguaggi del comportamento funzionale” (Palermo, 15 e 16 dicembre 1990). • Convegno su “Culture immigrate e teatro in Europa. Analisi dei fenomeni interattivi fra culture immigrate e culture europee” (Bologna, 16 novembre 1991). • Seminario-convegno della Università del Teatro Euroasiano (Padova, 7 e 8 marzo 1992). • Convegno internazionale su “Teatro Europeo: quali percorsi formativi” (Torino, 14 - 17 maggio 1992). • 3° Congresso Internacional de Sociologia do Teatro (Fondazione Gubelkian, Lisbona, 30 ottobre - 2 novembre 1992). • Convegno su “La piazza nella storia. Eventi, liturgie, rappresentazioni” (Università di Salerno-Fisciano, 9 - 11 dicembre 1992). • Seminario-convegno della Università del Teatro Euroasiano - “Drammaturgie parallele” (Fara Sabina, 21 - 30 maggio 1993). • Giornate di incontri e di studi “Per Carmelo Bene” (Perugia, 13 - 16 gennaio 1994). • 1° Congresso Nazionale “L’antropologia e la società italiana” (Roma, 28 - 30 aprile 1994). 15  • Convegno “L’identità collettiva e la memoria storica: un confronto tra Italia e Polonia”, organizzato dall’Ambasciata d’Italia e dall’Università di Varsavia (Varsavia, 16 – 18 giugno 1994). • Convegno di studi su “L’altra via dell’intelligenza. Teatro e valore” (Terza Università di Roma, 11 e 12 ottobre 1994). • 1° Convegno Europeo Teatro e Carcere - “Immaginazione contro emerginazione” (Milano, 21 - 23 ottobre 1994). • Convegno su “I sommersi e i salvati. Come, perché, dove e per chi fare teatro?” (Terza Università di Roma, 4 e 5 marzo 1995). • Convegno internazionale per la fondazione del Centre International d’Ethnoscènologie (Paris, 3 - 4 maggio 1995). • Convegno su “Pacifismo, disobbedienza civile, obiezione di coscienza: il ruolo della Comunità di Capodarco” (Lido di Fermo, 13 - 14 maggio 1995). • Congresso Europeo della Biennale Théâtre Jeunes Publics - “Pourquoi aller au théâtre aujourd’hui?” (Lyon, 3 - 5 giugno 1995). • Convegno su “Teatro antropologico e Antropologia teatrale” (Scilla, 25 giugno 1995). • Convegno su “Tradizione e modernità al sud” (Gallipoli, 14 agosto 1995). • Convegno Internazionale su “Teatro e Scuola: Università ed Educazione al Teatro” (Roma, 18 - 19 ottobre 1995). • Convegno “Teatro e Scuola fra espressività e percezione” (Modena, 15 - 16 novembre 1996). • 5ème Congres International de Sociologie du Théâtre (Mons, 20 - 23 marzo 1997). • Convegno Nazionale su “Arte del narrare, arte del convivere. Incontro tra immigrati, educatori e artisti narratori” (Palermo, 3 - 5 aprile 1997). • Convegno di studio “Creativi si nasce? Teatro e creatività nei possibili percorsi della riforma scolastica” (Palazzolo sull’Oglio - BS, 16 - 17 ottobre 1997). • Convegno su “Le letterature popolari. Prospettive di ricerca e nuovi orizzonti teorico- metodologici” (Fisciano e Ravello - Università di Salerno, 21 - 23 novembre 1997). • Convegno su “Il gioco del teatro. L’animazione trent’anni dopo” (Torino, 21 - 22 aprile 1998). • Convegno “Processo federalistico delle istituzioni meridionali e mediterranee” (Messina, 24 aprile 1998). • Convegno-Seminario “Carmelo Bene e Gabriele D’Annunzio. Sulla verticalità del verso” (Roma, Teatro Valle, 19 maggio 1998). • “Acting, Life, and Style”, convegno per un progetto internazionale di ricerca organizzato dall’Italienska Kulturinstitutet “C.M. Lerici” e dal Teatervetenskapliga Institutionen della Universitet Stockholms (Stoccolma, 9 - 13 settembre 1998). 16  • 3° Convegno Europeo di Teatro e Carcere: “Verso il Duemila, il cammino di un’utopia concreta” (Milano, 27 - 31 ottobre 1998), tavola rotonda su “Il costringimento e il suo doppio” (30.10.98). • Convegno “Io sono la prima attrice. Crocevia di esperienze tra teatro e handicap” (Milano, 20, 21, 22 novembre 1998). • Convegno “Un teatro per domani”, all’interno della X edizione di Galassia Gutemberg Mostra mercato del libro e della multimedialità (Napoli, Mostra d’Oltremare, Galleria Mediterranea, 21 febbraio 1999). • Convegno di studio per dirigenti e docenti della scuola “Il Corpo - la Macchina tra avventura, traduzione, mistero” (Calcinate, Bergamo, 21 - 22 maggio 1999). • Congresso “Le Corps du Théâtre. À partir de la Méditerranée: organicité, contemporanéité, interculturalité” (Bologna, 13 e 14 ottobre 1999), organizzato dalla Maison de Sciences de l’Homme, Ente Teatrale Italiano e D.A.M.S. dell’Università di Bologna. • Encontro Internacional de Novo Teatro para Crianças e Adolescentes – “Percursos” (Lisboa – Portugal, Centro cultural de Bélem, 20 – 27 maggio 2000). • “Per un teatro popolare di ricerca”, convegno organizzato da La Corte Ospitale (Rubiera, 23, 24 e 25 giugno 2000). • Primo Convegno Internazionale di Studi “I teatri delle diversità e l’integrazione” organizzato da Ass. Cult. Nuove Catarsi (Cartoceto –Ps, 14 – 15 ottobre 2000). • Convegno Internazionale “Intrecci tra Educazione Arte Natura nella prospettiva della conversione ecologica” (Amelia, 29 marzo – 1 aprile 2001), organizzato dalla Casa Laboratorio di Cenci. • Giornate di studio e di ricerca “I Sud e le loro Arti” (Arnesano, 6, 7 e 8 settembre 2001, organizzato dal Comune di Arnesano (Le) e dall’Università di Lecce. • Convegno “Il cinema al limite, al limite il cinema” (Perugia, 9 novembre 2001), organizzato da Batik-Perugia Film Festival. • “Ho sognato che vivevo. Teatri della trasformazione e dell’esclusione. Esperienze di teatro con protagonisti non comuni (pazienti psichiatrici, carcerati, portatori di deficit, immigrati) a confronto con studiosi e amministratori”, (Arena del Sole, Bologna, 12 e 13 aprile 2002) convegno organizzato dall’Azienda USL Bologna Nord e dalla Regione Emilia-Romagna. • Convegno di Studi “Antropologia e poesia” (Fisciano-Ravello, 2 – 4 maggio 2002), organizzato dall’Università degli studi di Salerno e dall’A.I.S.E.A.- Sezione di Antropologia e letteratura. • Convegno “Per un nuovo Teatro in Italia e in Europa” (Roma, Teatro Valle, 16 e 17 maggio 2002), organizzato dall’Ente Teatrale Italiano nel quadro di “Cercando i teatri 2001-2002”. 17  • Convegno “Residui illimitati” (Bergamo, Chiesa di S.Agostino, 21 giugno 2002), organizzato da Il Teatro Prova nel quadro del festival “Non voglio perdere la meraviglia. Teatri e arti tra diversità e alterità”. • Convegno Internazionale “Le arti del ‘900 e Carmelo Bene” (Torino, Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, 24 – 27 ottobre 2002), organizzato dalla Regione Piemonte e dall’Organizzazione per la Ricerca in Scienze e Arti di Torino. • Convegno Internazionale “Performing Through – Tradition as Research at the Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards” (Vienna, Theater des Augenblicks, 28 – 29 giugno 2003. • Non solo per piacere. Pratiche teatrali. Adolescenti. Giustizia. Convegno nazionale sulle esperienze di teatro con minori in area penale interna ed esterna (Bologna, Maison Française, 28 febbraio 2003), organizzato dal Dipartimento Musica e Spettacolo dell’università di Bologna, dalla Regione Emilia-Romagna e dal Centro Giustizia Minorile per L’Emilia Romagna e Marche. • Colloque International d’Ethnoscénologie (Parigi, Université Paris 8, 12 – 14 settembre 2005) • Convegno “L’Attore”, organizzato da Primafila e InScena con il patrocinio delle Segreterie di stato per il Turismo e gli Istituti Culturali – Repubblica di san Marino (Sala SUMS, 23 e 24 settembre 2005). • Giornate di lavoro e di studio nel quadro dell’Assemblea Generale di IRIS - Associazione Sud Europea per la Creazione Contemporanea (Modena, Palazzo Comunale, 28 – 29 ottobre 2005). • “Controscuola. Riflessioni ed esperienze pedagogiche”, convegno organizzato dalla rivista “Lo straniero” (Roma, Museo di Roma in Trastevere, 4 – 5 febbraio 2006). • International symposium on tracing roads across “Living Traces – Performing as a Shared Reality” (in the occasion of the 20th Anniversary of the Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards), Teatro Manzoni, Pontedera – PI, 11 – 13 aprile 2006. • Convegno “Réécritures de Médée”, organizzato dal Centre de Recherche en Etudes Féminines – Etudes de genre del’Université Paris 8 (Saint-Denis, Musée d’Art et d’Histoire, 24 e 25 novembre 2006. • “Il disagio e chi se ne occupa. Crisi dei sistemi educativi e di cura e prospettive dell’agire sociale”, convegno organizzato dalla rivista “Lo straniero” (Roma, Sala Civita, Piazza Venezia, 12 – 13 maggio 2007. • 1° Incontro su “Travestitismo e identità di genere nelle scienze della recitazione” (Napoli, Galleria Toledo, 16 novembre 2007), organizzato dal Dipartimento di Neuroscienze, Unità di Psicologia Cilinica e Applicata e dalle Università degli Studi di Napoli Federico II , L’Orientale, Suor Orsola Benicasa; comunicazione su Il teatro e l’alterità di genere. Il caso o l’esempio di Carmelo Bene. 18  • 2° Convegno Regionale A.I.Fi Umbria su “Le alterazioni posturali: dalla conoscenza alla coscienza riabilitativa” (Trevi, Hotel della Torre, 1 marzo 2008), organizzato con la collaborazione dell’Università di Perugia; comunicazione su Postura e cultura. Il corpo della tradizione e il corpo della rappresentazione. • Convegno “Venti anni di teatro della Compagnia della Fortezza – Per un teatro stabile in carcere” (Volterra, Cortile principale del carcere, 21 e 22 luglio 2008) – coordinatore e relatore. • Convegno internazionale “Il teatro che ho in testa. Per un festival di teatro da sogno” (Ulassai e Jerzu, 8 – 9 agosto 2008), organizzato da Cada Die Teatro, nel quadro di “Ogliastra Teatro, festival dei tacchi”. • Convegno “La frontiera del teatro. Grotowski 30 anni dopo” (Milano, Teatro dell’Arte, 23 – 24 gennaio 2009), organizzato dal CRT Centro di Ricerca per il Teatro di Milano. • Convegno “Teatro e Infanzia”, a cura di G. Fofi e M. Martinelli, organizzato dal Teatro Stabile di Napoli e da Punta corsara (Scampia-Napoli, Teatro Auditorium, 28 e 29 marzo 2009. • Journée d’étude “Modes et formes d’émergence dans le théâtre” (Liegi, Belgio, 15 maggio 2009), organizzato, nel quadro del progetto Prospero, dall’Université de Liège e dal Théâtre de la Place. • “Ricordando Lévi-Strauss. Convegno di studi” (Macerata, 6 maggio 2010), organizzato dal Centro Internazionale di Studi sul Mito e dall’Università di Macerata. • Convegno seminariale “Chi è il prossimo?”, organizzato dalla rivista “Lo straniero” nel quadro del 40° Festival Internazionale del Teatro in Piazza (Santarcangelo di Romagna, Supercinema, XXXXX luglio 2010) • “Futuramente. 1° Convegno intorno alla Creatività per le future generazioni” (Pontedera, Museo Piaggio, 29, 30, 31 ottobre 2010), organizzato dall’ass. Libera Espressione e dal Comune di Pontedera (PI). • Journée d’étude “Vous ne trouvez pas ça tragique? – conversation publique sur l’art, l’esthétique et la politique” (Tolosa, Francia, 15 gennaio 2011), organizzata dal Théâtre Garonne, nel quadro di “In Extremis # 7”, 6 – 15 gennaio ’11. • “Una giornata con il Living Theatre” – conversazione pubblica (San Sisto – Perugia, Teatro Bertolt Brecht, 27 marzo 2011) organizzata dall’UILT nel quadro della Giornata Mandiale del Teatro. • Convegno Internazionale “Civiltà, culture, educazione. Le sfide della società tardo- moderna alla pedagogia” (Aula Magna della Lumsa, Roma, 5 aprile 2011), organizzato dalla Facoltà di Scienze della Formazione della LUMSA di Roma. • Convegno seminariale “Un’idea di rivoluzione” , organizzato dalla rivista “Lo straniero” nel quadro del 41° Festival Internazionale del Teatro in Piazza (Santarcangelo di Romagna, Supercinema, 16 luglio 2011). 19  • “Il n’y a pas de révolution politique possible, s’il n’y a pas d’une révolution poétique” – incontro internazionale e tavola rotonda sul rapporto tra pratiche artistiche e mutazioni politiche nelle aree interessate dalla “primavera araba” (Terni, Festival Internazionale della Creazione Contemporanea, Caos Area Lab, 18 settembre 2011). • Journée d’études “Potlach notionnel sur la performance. National potlach on performance”, organizzata dall’E.H.E.S.S., dall’Université Paris Ouest-Nanterre, dal Centre Edgar Morin e dal H.A.R. (Amphithéâtre François Furet, 105 bld. Raspail, Paris – 29 maggio 2012). • Convegno internazionale della Facultatea de Teatru si Televiziune – Universitatea Babes-Boyai di Cluj-Napoca (Romania) “The Bad Spectator. Performing Arts between Construction and Destruction / Le mauvais spectateur. Les arts du spectacle entre construction et destruction”, organizzato dal gruppo di ricerca Istoria Teatrului, Iconografie si Antropologie Teatrali a Cluj-Napoca (7 – 9 giugno 2012). • Seminario “L’esperienza del principio. Jerzy Grotowski, l’infanzia e la rinuncia all’assenza” (Cenci-Amelia, 16 giugno 2012), nel quadro della manifestazione “Sorgenti e torrenti. Omaggio a Jerzy Grotowski e al Teatro delle sorgenti” organizzata dal Laboratorio di Cenci 15 – 17 giugno 2012. • Convegno “Le théâtre et ses publics: la création partagée” - 2° Colloque International du Projet Européen PROSPERO (26 -29 settembre 2012, Salle académique dell’Università di Liegi – Belgio), organizzato dal Théâtre de la Place di Liegi e dell’Université de Liège. • “Confusion de genres. Journées d’étude en l’honneur de Jean-Paul Manganaro”, organizzato dall’Université de Lille 3, dall’Université Paris Ouest-Nanterre-La Defense e dall’Università Italo Francese (Lille, 29 novembre – 1° dicembre; Paris, 12 dicembre 2012). • Colloque International “D’après Carmelo Bene” (Parigi, Institut National d’Histoire de l’Art - Conservatoire National Supérieur d’Art Dramatique - Cinéma du Panthéon – 8, 9 e 12 gennaio 2013), organizzato da HAR, Université Paris Ouest-Nanterre, Labex Arts-H2H, Université Paris 8 Vincennes-Saint Denis, CNSAD, Dipartimento Uomo e Territorio dell’Università di Perugia (in partenariato con Union des Théâtres de l’Europe e con Emilia Romagna Teatro Fondazione). • Incontro sul tema “Memoria e Identità” (Gubbio, Biblioteca Sperelliana, 23 febbraio 2013), organizzato dal Comune di Gubbio e dal Lyons Club Gubbio Host. • “Teatro e nuovo umanesimo”, convegno nel quadro della “Giornata per Claudio Meldolesi” (Bologna, Laboratorio delle Arti, 18 marzo 2013), organizzata dal Dipartimento delle Arti visive, performative, mediali dell’Università di Bologna, con il patrocinio dell’Accademia dei Lincei. 20  • Convegno Nazionale di Teatro educativo intitolato “Scrittura e riscrittura. Da testo alla messa in scena – Esperienze a confronto” (Avigliano Umbro, TR, 27 -28 aprile 2013). • 7° Colloque international d’ethnoscénologie, organizzato da Maison des Cultures du monde, Université Paris 8, Maison des Sciences de l’Homme Paris Nord (Paris, 21 -23 maggio 2013) • Incontro sul tema “Ai confini della democrazia” (Roma, La Pelanda, 11 settembre 2013) organizzato dalle Edizioni dell’Asino nel quadro della rassegna Short Theatre n. 8 intitolato “Democrazia della felicità” (Roma, 5 – 18 settembre 2013). • Convegno Seminario “Intellettuali e riviste tra passato, presente e futuro” (Perugia, Sala della Partecipazione del Consiglio regionale dell’Umbria, 17 settembre 2014). • Convegno sulla Rete Regionale dei Teatri (Modena, Teatro delle Passioni, 27 novembre 2013), organizzato dalla Fondazione Mario del Monte e da Emilia Romagna Teatro. • Convegno “La possibilità del teatro. Un incontro di riflessione e confronto”, organizzato dalla Fondazione Pontedera Teatro (Pontedera, PI, Teatro Era, 12, 13, 14 dicembre 2014). • Convegno “Il teatro della critica” (Pistoia, 14 e 15 novembre 2015), organizzato dal Centro Culturale “Il Funaro” e dall’Associazione Teatrale Pistoiese. RICERCHE ricerche teoriche: • Il contesto sociale della criminalità e della devianza - “Le basi strutturali dei processi di criminalizzazione” (1974 - 1976). • La solitudine abitativa come fenomeno emergente (gennaio - ottobre 1980). • Riferimenti teorici ed esperienze empiriche nella fondazione di una antropologia del teatro (1984 - 1988). • Cultura dell’attore nelle tradizioni teatrali euroasiatiche (1987 - 1992). 21  • L’identità dello spettatore e i modelli di fruizione del teatro (1988 - 1990). • Sociabilità, Relazionalità, Spettacolarità (1990 - 1991). • Tecniche del corpo e azioni performative (1992 - 1993). • Studio per la realizzazione di uno spettacolo teatrale sul tema del cooperativismo (dicembre 1993 - febbraio 1994). • Elements anthropologiques dans le théâtre contemporain - nel quadro della partecipazione al Groupe international de recherche interdisciplinaire “Spectacle vivant et sciences de l’homme” - Maison de l’Homme, Paris (dal 1996 ancora in corso). • Il teatro e la scuola: le funzioni pedagogiche del teatro e i corsi di formazione degli operatori teatrali e degli insegnanti - nel quadro dell’attività dell’Uni-Tea, progetto coordinato dall’Ente Teatrale Italiano (dal 1997 al 2000). ricerche empiriche: • Gli atteggiamenti nei confronti della devianza criminale e dell’istituzione carceraria (ricerca condotta nel quartiere di P.ta Eburnea di Perugia - giugno 1974). • Le opinioni e gli atteggiamenti degli studenti dell’Istituto Tecnico per Geometri di Perugia nei confronti della scuola e della condizione giovanile (aprile - maggio 1976). • Indagine su tipologia e censimento degli organismi di democrazia di base (ricerca per il Consiglio Regionale dell’Umbria, 1976 - 1977). • Ricerca sulla definizione e le caratteristiche della popolazione “reale” (ricerca del C.R.U.R.E.S., marzo - maggio 1978). • Indagine sull’ascolto radiotelevisivo in Umbria (ricerca del Comitato Regionale Umbro per il Servizio Radiotelevisivo, maggio 1978 - ottobre 1979). • Ricerca sul comportamento elettorale in Umbria attraverso l’analisi dei risultati delle elezioni politiche ed europee del giugno 1979 (giugno - dicembre 1979). • Indagine sull’esercizio e il mercato cinematografico in Umbria (ricerca dell’Associazione Umbra per il Decentramento delle Attività Culturali, ottobre 1982 - marzo 1983). • Inchiesta sul teatro dialettale in Umbria (ricerca del Centro Documentazione Spettacolo, settembre 1983 - aprile 1984). • Analisi dei risultati delle elezioni amministrative del 1985 nel comune di Perugia (ricerca del Comune di Perugia, giugno 1985 - aprile 1986). • Ricerca sulla memoria e sulla identità dello spettatore (ricerca condotta in Salento per l’International School of Theatre Anthropology, marzo- ottobre 1987). • L’informazione televisiva in Umbria: i notiziari regionali (ricerca del Comitato Regionale Umbro per il Servizio Radiotelevisivo, novembre 1987 - giugno 1988). • Indagine sulle emittenti radiotelevisive operanti in Umbria (ricerca del Comitato Regionale Umbro per il Servizio Radiotelevisivo, novembre 1988 - settembre 1989). • Aspetti devozionali e spettacolari nelle feste religiose patronali (ottobre 1996 – ottobre 2002). 22  • “In compagnia: ricerca e analisi sulle opportunità di lavoro e di impiego nel settore teatrale” (nel quadro dell’azione pilota “terzo settore e occupazione” promossa dalla Commissione Europea D.G.V); ricerca coordinata da Emilia Romagna Teatro con la collaborazione di “Amitié”, Taller de Investigaciòn de la Imagen Teatrale di Madrid, Teatro delle Briciole, Teatro Festival, Thomas Consulting Group (dal 15 dicembre 1997 al 15 dicembre 1998). • Ricerca empirica sulla definizione e sulla’informazione e formazione dello spettatore, all’interno del progetto “100 spettatori da adottare” organizzato dalla Fondazione Pontedera Teatro e dall’ETI Ente Teatrale Italiano (aprile 2000 – aprile 2001). • “Il nuovo attore nuovo” Osservatorio scientifico sulla pedagogia dell’attore di innovazione, applicato al Progetto interregionale “Teatro – Percorsi di Alta Formazione” organizzato dalla Fondazione Pontedera Teatro, dai Cantieri Teatrali Koreja di Lecce e dal Nuovo Teatro Nuovo di Napoli, in convenzione con le rispettive Regioni (gennaio – giugno 2008). • Analisi documentale del “Cantiere delle Arti” – un cantiere transnazionale per la creazione di percorsi integrati connessi alla realtà produttiva del settore spettacolo dal vivo – costituito da Emilia Romagna Teatro Fondazione, dalla Regia Accademia Filarmonica e Musica e Servizio Cooperativa Sociale (aprile – dicembre 2011) 23  PUBBLICAZIONI Sull’opera e il pensiero degli antropologi Giulio Angioni. Tra antropologia e letteratura (recensione), “Lo straniero Arte Cultura Società”, anno VII, n. 35, maggio 2003, pp. 153 – 156. Bourdieu: l’autoanalisi di un maestro, “Lo straniero Arte Cultura Scienza Società”, anno X, n. 70, aprile 2006, pp. 90 – 92. Postfazione alla parte quinta “Dimensioni della festa” in: T. Seppilli, Scritti di antropologia culturale, (M. Minelli – C. Papa, curatori), 2 voll., Olschki Ed. , Firenze, 2008; vol. II – La festa, la protezione magica, il potere, pp. 519 – 529. Lo sguardo lontano di Lévi-Strauss, “Lo straniero Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 116, febbraio 2010, pp. 106 - 109. Lezione e monito dell’ultimo Baudrillard, “Lo straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 157, luglio 2013, pp. 76 – 79. Sulla condizione e la subcultura giovanile: Dopo Licola, (in coll. con G. Baronti), “Ombre Rosse”, n. 17, nov. 1976, pp. 50 - 67. Il corpo e il territorio, “Segno critico”, anno I, nn. 2 - 3, luglio - dicembre 1979, pp. 99 - 103. Una nuova solitudine. Vivere soli tra liberazione e integrazione, (in coll. con P. Bartoli e S. La Sorsa), Savelli ed., Roma, 1981, 255 pp. Protagonismo, narcisismo e consumismo, “Ombre Rosse”, n. 33, marzo 1981, pp. 13 - 21. Forza ragazzi, “Linea d’ombra”, anno IV, n. 13, febbraio 1986, pp. 8 -10. Disagi giovanili, disagi senili, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 8, autunno 1999, pp. 43 – 50. Il diavolo, sicuramente, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 84, giugno 2007, pp. 33 – 37. Lo studente quotidiano, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno I, n. 3, novembre- dicembre 2010, pp. 10 – 19. La Giovane Italia, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno II, n. 7, settembre- ottobre 2011, pp. 93 – 98. Un saggio Laffi sui giovani e i vecchi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, n. 166, aprile 2014, pp. 30 – 34. Sulla devianza e la criminalità: La ricerca dei ricercati. Sociologia dell’ordine pubblico, (in coll. con G. Baronti), “Ombre Rosse”, n. 21, luglio 1977, pp. 85 - 95. 24  La organizzazione del consenso nel regime fascista: la manipolazione ideologica della devianza criminale, (in coll. con G. Baronti), “Studi e materiali di antropologia culturale”, n. 5, Perugia, 1983, 33 pp. Sulla cultura meridionale: Mezzogiorno è già passato, in: G. Fofi – A. Leogrande (curatori), Nel sud, senza bussola. Venti voci per ritrovare l’orientamento, L’ancora del mediterraneo, Napoli, 2002, pp. 17 – 30 Sulla cultura politica e la politica culturale: Partiti e comportamento elettorale. Analisi dei risultati delle elezioni del giugno 1789 in Umbria (in coll. con A. Sorbini), Com.Reg.Umbro PSI, Perugia, 1980, 295 pp. Caro nome..., in: AA.VV., A proposito dei comunisti, Linea d’ombra ed., Milano, 1990, pp. 49 - 64. La festa dell’albero. Come ri-nasce un partito, “Linea d’ombra”, anno IX, n. 58, marzo 1991, pp. 16 - 20. Invenzione, diffusione e agonia dell’operatore culturale, “Linea d’ombra”, anno XI, n. 88, dicembre 1993, pp. 13 - 17. Ebrei e naziskin. I fatti e le notizie, in: A. Cavaglion (a cura di), Gli aratori del vulcano. Razzismo e antisemitismo, Linea d’ombra ed., Milano, 1994, pp. 59 - 64. Il punto e la linea. Maggioranze, minoranze e critica della politica, “Linea d’ombra”, anno XIII, gennaio 1995, n. 100, pp. 4 - 5. La cultura del maggioritario, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 1, febbraio 1995, pp. 4 - 7. Una merce come le altre? La fiera del libro a Torino, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 4, giugno 1995, pp. 65 - 66. Laici ed eretici, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 13, marzo 1996, pp. 15 - 16. A Perugia c’è cultura da vendere , “L’indice”, anno XV, n. 10, novembre 1998, p. 50. Sull’industria della coscienza: una questione di dettaglio , introduzione a: H.M. Enzensberger, Questioni di dettaglio. Poesia, politica e industria della coscienza , trad. di G. Piana, ediz. e/o, Roma, 1998, pp. 5 - 12. La parabola del buon rettore, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 5, inverno 1998-99, pp. 56 – 60. L’età dello stagno , “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 6, primavera 1999, pp. 150 - 159. Cosa ci tocca vedere, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 7, estate 1999, pp. 58 – 63. Il laico e il sacro, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno V, nn. 15-16, primavera 2001, pp. 165 – 176. 25  Qualcosa è accaduto, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno V, n. 17, settembre 2001, pp. 41 – 48. Il porto dell’università, fra la nebbia e il miraggio, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, n. 21, marzo 2002, pp. 47 – 53. Toni, Bepi e san Francesco (per tacere di sant’Agostino), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, n. 23, maggio 2002, pp. 24 – 27. (recensione) La sera del dì di festa, “Lo straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, n. 28, ottobre 2002, pp. Questo Papa e quella guerra, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VII, n. 38-39, agosto- settembre 2003, pp. 15 – 20. La controriforma e il doposcuola, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VIII, n. 42-43, dicembre 2003 – gennaio 2004, pp. 120 – 124. Grande Papa, tanta gente, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno IX, n. 60, giugno 2005, pp. 20 –22. La questione comica, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno IX, n. 65, novembre 2005, pp. 10 –13. Il silenzio dei post-comunisti, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno X, n. 73, luglio 2006, pp. 10-14. Il viaggio di Francesco Piccolo nei divertimenti di massa (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 81, marzo 2007, pp. 106 –108. La mamma ha un cuore verde. Un racconto di Rosa Matteucci (recensione),“Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 88, ottobre 2007, pp. 33 – 37. La montagna elettorale, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società, anno XII, n. 94, aprile 2008, pp. 14 – 17. Il male minore, in: M. Bon Valsassina (curatore), In fondo al male. Contributi e Iconografie sul Male, Futura ed., Perugia, 2008, pp. 81 – 85. Universitas docet, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 105, marzo 2009, pp. 24 – 28. Un pomeriggio tra le minoranze, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 110-111, agosto-settembre 2009, pp. 161 – 165. Silvio, Umberto e i giovani d’oggi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 112, ottobre 2009, pp. 18 – 23. La parte dell’arte, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 118, aprile 2010, pp. 93 – 104. (riedito in: P. Giacchè – V. Giacopini – E. Morreale – N. Lagioia, Necessità e servitù della critica. Cosa cerca l’arte? A che serve la critica?, Edizioni dell’Asino, Roma, 2011, pp. 5 – 18). Prefazione a: Carlo e Rita Brutti, Scrutatori d’anime. La psicoanalisi che viene, Edizioni dell’Asino, Roma, 2010, pp. 5 – 19. Lo sciopero e la grève, ovvero dalla Francia con stupore, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 126/127, dicembre 2010-gennaio 2011, pp. 15 – 18. Il teatro del prossimo, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 126/127, dicembre 2010-gennaio 2011, pp. 48 – 52. 26  Teatro e politica all’italiana: l’Attore e l’Assessore, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno II, nn. 5 – 6, marzo/aprile – maggio/giugno 2011, pp. 161 -168. Via col vento, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XV, n. 133, luglio 2011, pp. 33 – 37. Specchiarsi nelle vite degli altri. Un romanzo di Emmanuel Carrère, (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XV, n. 136, ottobre 2011, pp. 44 – 46. Il maggio è francese, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVI, n. 144, 2012, pp. 15 – 21. Ci fu una volta la sinistra, ovvero il silenzio dei post-comunisti, Edizioni dell’asino, Roma, 2013, 149 pp. La cultura e la politica, un atto unico in due tempi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 153, marzo 2013, pp. 94 – 98. Indovinala Grillo!, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 154, aprile 2013, pp. 15 – 18. Fazio ovvero l’ultima volta della tivvù, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVII, n. 154, aprile 2013, pp. 71 – 76. L’università dei vavassini, “Gli asini. Rivista di educazione e intervento sociale” (numero monografico su Valutazione e meritocrazia nella scuola e nella società), anno IV, ottobre- novembre 2013, pp. 50 – 58. Il niente che avanza, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, n. 164, febbraio 2014, pp. 18 - 25. Il Giovane Renzi, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, n. 167, maggio 2014, pp. 35 – 39. I volontari dell’ottimismo. Marino Sinibaldi riflette sulla cultura, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XVIII, nn. 170-171, agosto-settembre 2014, pp. 14 – 18. Sul pensiero e l’azione di Aldo Capitini Introduzione e cura del volume: A. Capitini, Opposizione e liberazione. Scritti autobiografici, Linea d’ombra ed., Milano, 1991 (riedizione con il titolo Opposizione e liberazione. Una vita nella nonviolenza, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2003). Al servizio (civile) della coscienza, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, nn. 5 - 6, luglio-agosto 1995, pp. 18 - 19. Aldo Capitini e l’obiezione di coscienza, “La terra vista dalla luna. Rivista dell’intervento sociale”, n. 10, dicembre 1995, pp. 45 - 49. Introduzione e cura del volume: A. Capitini, Liberalsocialismo, ediz. e/o, Roma, 1996. L’obiezione è coscienza. L’insegnamento di Aldo Capitini, “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno V, n. 18, ottobre-novembre 2001, pp. 123 – 133. Introduzione e cura del volume: La religione dell’educazione. Scritti pedagogici di Aldo Capitini, Edizioni La Meridiana, Molfetta (Bari), 2008, 226 pp. 27  Capitini e i Perugini, “Studi Umbri”, n. 0, anno I, 2009, (www.studiumbri.it) Cura –assieme a G. Fofi- del volume: A. Capitini, Agli amici. Lettere 1947-1968, Edizioni dell’Asino, Roma, 2011. L’importanza di chiamarsi prete, “Gli asini. Educazione e intervento sociale”, anno II, n. 9, aprile/maggio 2012, pp. 6 – 11. Sulla cultura teatrale e la società dello spettacolo: Il teatro delle esperienze, (in coll. con S. De Matteis), “Quaderni di Teatro”, anno V, n. 20, maggio 1983, pp. 145 - 155. Diario scolastico del sussidiario teatrale, “Scenascuola”, n. 1, giugno 1984, pp. 42 - 52. Un pugno di terra. Conversazione con Eugenio Barba, “Linea d’ombra”, anno II, n. 12, novembre 1985, pp. 36 - 46. Living memories. Ricordi del Living e memorie viventi, “Teatro Festival (nuova serie)”, n. 1, dicembre 1985, pp. 4 - 9. Antropologia culturale e cultura tetrale. Note per un aggiornamento dell’approccio socio- antropologico al teatro, “Teatro e Storia” 4, anno III, n. 1, aprile 1988, pp. 23 - 50. Una bùsqueda de “antropologia teatral” sobre la identidad del espectator, “Repertorio. Revista de teatro”, nos. 9,10,11, agosto 1989, pp. 93 - 97. Memoire sociologique. Extraits de carnets d’une recherche anthropologique sur “L’identité du spectateur”, “Buffonneries”, nn. 22 - 23, 1989, pp. 177 - 197. Teatro necesario y teatro suficiente, “Màscara. Cuadernos Latinoamericanos de Reflexion sobre la Escenologia”, anno I, n. 2, gennaio 1990, pp. 105 - 108. Come lavorare in discesa. Ragionamenti e aggiornamenti sul teatro “minore”, “Linea d’ombra”, anno VIII, n. 46, febbraio 1990, pp. 86 - 90. Lo spettatore partecipante. Contributi per una antropologia del teatro, Guerini e ass., Milano, 1991, 207 pp. Uno spettacolo prigioniero e un teatro libero, in: M.T. Giannoni (a cura di), La scena rinchiusa. Quattro anni di attività teatrale dentro il Carcere di Volterra, Tracce ed., Piombino, 1992, pp. 73 - 76. Introduzione all’identità dello spettatore. Una ricerca di antropologia del teatro, “R.I.S.T. Revue Internationale de Sociologie du Théâtre”, n. 0, 1992, pp. 12 - 19. Teatro e antropologia. Note su una “canoa di carta”, “Linea d’ombra”, anno XI, n. 86, ottobre 1993, pp. 75 - 78. Una equazione fra antropologia e teatro, “Teatro e Storia”17, anno X, 1995, pp. 37 - 64. L’esplorazione antropologica e i “fines” del teatro, “Etnoantropologia”, nn. 3 - 4, 1995, Argo ed. Lecce, pp. 60 - 67. Nostalgia del teatro e simulazione della piazza, in: D. Scafoglio - M. Vitale (a cura di), La piazza nella storia: eventi, liturgie, rappresentazioni , Ed. scientifiche italiane, Napoli, 1995, pp. 201 - 254.  28  Introduzione e cura del volume: AA. VV., Per Carmelo Bene (Atti del convegno, Perugia, 14 - 15 gennaio 1994), Linea d’ombra ed., Milano, 1995, 218 pp. De l’anthropologie du théâtre à l’ethnoscènologie, “Internationale de l’immaginaire (nuovelle serie)”, n. 5, 1996, Ed. Maison de Cultures du monde, Paris, pp. 249 - 254. Il teatro “privato “del pubblico. Cenni di storia e appunti sulla fenomenologia dello spettatore, in: Le età del teatro. Corso triennale di storia e cultura teatrale, Ert (Emilia Romagna Teatro) ed., Modena, 1997, pp. 3 - 15. Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Bompiani ed., Milano, 1997, 185 pp. (Premio del Presidente del Premio “G. Pitrè – S. Salomone Marino). De la consommation du théâtre au théâtre dans la société de consommation, in: AA.VV., Pourquoi aller au théâtre aujourd’hui? (Actes du quatrième colloque européen - Biennale Théâtre Jeunes Publics, Lyon), Les Cahiers du soleil debout, Lyon, 1997, pp. 27 - 35. “Giulio Cesare”, teatro dei corpi, (recensione),“Lo straniero. Arte Cultura Società”, anno I, n. 1, estate 1997, pp. 122 - 126. Teatro antropologico: atto secondo, “Catarsi. Teatri delle diversità”, anno II, nn. 4 - 5, dicembre 1997, pp. 12 – 14 (ripubblicato in: E. Pozzi – V. Minoia (a cura di), Di alcuni teatri della diversità, ANC ed., 1999, pp. 57 – 65). Consumare teatro , “Teatro e Storia” 19, anno XII, 1997, pp. 349 - 369. Shakespeare e Garibaldi, (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno I, n. 2, inverno 1997/98, pp. 73 - 77. Au théâtre comme à la guerre!, in: Centre Dramatique Hainuyer - Centre de Sociologie du Théâtre, La mediation théâtrale (Actes du 5è Congrès International de Sociologie du théâtre organisé a Mons (Belgique) mars 1997) , Lansman, Carnières-Morlanwelz (Belgique), 1998, pp. 75 - 80; (ripubblicato dalla rivista “Théâtre éducation”, nouvelle serie, n. 9, maggio 1998, pp. 22 - 26). Spettatori non si nasce, in: Provincia di Modena - Emilia Romagna Teatro,Teatro e scuola fra espressività e percezione. Atti del convegno (Modena, 15 - 16 novembre 1996), Centro Stampa Provincia di Modena, ottobre 1998, pp. 126 - 136. O la guerra o il teatro. Sul film di Mario Martone (recensione),“Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno II, n. 4, autunno 1998, pp. 55 – 59. Politica culturale e cultura teatrale , “Primafila. Mensile di teatro e di spettacolo dal vivo”, n. 49, novembre 1998, pp. 13 - 17. Aux confins du théâtre. Sur la relation entre théâtre et anthropologie , “Diogène”, n. 186, Avril- Juin 1999, pp. 110 -123. (ripubblicato nell’edizione inglese: At the Margins of Theatre. On the Connection Between Theatre and Anthropology, “Diogenes”, n. 186, vol. 47, feb. 1999, pp. 83 – 92) Il Teatro come ‘attore’ del terzo sistema, in: “In Compagnia. Materiali per la costruzione di un quadro di riferimento per lo sviluppo dell’occupazione degli operatori artistici teatrali: il teatro quale strumento di crescita sociale”, (relazione di ricerca), Emilia Romagna Teatro, Stampa Tem, Modena, 1999, pp. 40 – 64. 29  Dell’ascolto distratto e dell’attenta lettura. I versi di Campana ripartoriti dalla voce di Carmelo Bene, (recensione), “L’indice”, anno XVI, n. 10, ottobre 1999, p. 22. Cinque domande sul presente di Danio Manfredini, (intervista), “La porta aperta”, n. 1, settembre-ottobre 1999, pp. 70 – 79. Le bugie della scuola e quelle del teatro, “Art’o”, n. 4, gennaio 2000, pp. 42 – 45 (ripubblicato in: Abbecedario della non-scuola del Teatro delle Albe, allegato a “Lo straniero Arte Cultura Società”, anno VIII, n. 45, marzo 2004, pp. 37 – 41). Il giullare fatto santo. Fo Dario fu Francesco, “L’indice”, anno XVII, n. 5, maggio 2000, pp. 24 – 25. (recensione) La settima volta di Riccardo terzo. Incontro con Claudio Morganti (intervista), “La porta aperta”, n. 5, maggio – giugno 2000, pp. 7 – 15. Tragedie nella terra, verso il mare, sotto il cielo. Incontro con Alfonso Santagata (intervista), in: S. Maggiorelli (a cura di), Tragicamente. Il teatro di Alfonso Santagata, Titivillus ed., Corazzano (PI), giugno 2000, pp. 63 – 75. (testo parzialmente ripubblicato con il titolo Teatro a cielo aperto. Incontro con Alfonso Santagata in “La porta aperta”, n. 6, luglio – agosto 2000, pp. 16 – 24) La fine dello spettatore, in: P. Giacchè (a cura di), Lo spettatore e le visioni del teatro futuro, “Prove di Drammaturgia”, anno VI, n. 1, settembre 2000, pp. 11 – 13. Entelechia del Bene. Incontro con Carmelo Bene, “La porta aperta”, n.8, novembre-dicembre 2000, pp. 48 – 59. Il teatro fuori dai teatri. Memorie di uno spettatore di provincia, in: F. Gentili (a cura di), Teatri dell’Umbria. La storia, il gioco, la memoria, Octavo, Firenze, 2000, pp. 259 – 287. L’arte dello spettatore, vedere i suoni e ascoltare le visioni, in: Città di Palermo – Assessorato alle Politiche Educative, Arte del narrare, arte del convivere (Atti del Convegno nazionale – Palermo, 3 – 5 aprile 1997), Eliocopisteria “Milone”, Palermo, 2000, pp. 123 – 138. L’identità dello spettatore. Un saggio di Antropologia Teatrale, “Etnostoria” nn. 1 – 2, 2000, pp. 57 – 86. L’art du spectateur: voir les sons et écouter les visions, “Diogène”, n. 193, Janvier – Mars 2001, pp. 100 – 113 (ripubblicato nell’edizione inglese: The Art of Spectator: Seeing Sounds and Haering Visions, “Diogenes”, n. 193, vol. 49, issue 1 2002, pp.77-87.) Carmelo Bene, attore della cultura, “Lo Straniero Arte Cultura Società”, anno VI, n. 22, aprile 2002, pp. 106 – 108. Lo spettatore del teatro e il pubblico del rito, in: A. Cappelli – F. Lorenzoni (a cura di), La nave di Penelope. Educazione, teatro, natura ed ecologia sociale. Testimonianze e proposte a partire dai 20 anni di esperienze della Casa-Laboratorio di Cenci, Giunti ed., Firenze, 2002, pp. 98 – 109. Teatro prigioniero, in: M. Buscarino, Il teatro segreto, Leonardo Arte, Milano, 2002, pp. 13 – 18. Il Sessantotto e il Teatro: un anno senza “stagione”, in: AA.VV., Rivelazioni e promesse del ’68, CUEC, Cagliari, 2002, pp. 141 – 164; (riedito con il titolo Un anno senza “stagione”: il ’68 e il teatro, “Lo straniero Arte Cultura Società”, anno VII, n. 36, giugno 2003, pp. 57 – 71). 30  L’avventura finale di Benigni (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VI, nn. 30-31, dicembre 2002-gennaio 2003, pp. 49 – 53. Questa non è una tragedia (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno VIII, n. 44, febbraio 2004, pp. 59 – 63. L’altra visione dell’altro. Una equazione tra antropologia e teatro, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2004. Perdere un amico, “Rivista di psicologia analitica”, nuova serie n. 17, 2004, pp. 87 – 97; (ripubblicato in “Lo straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno IX, n. 59, maggio 2005, pp. 68 – 75, con il titolo Perdere un amico. Ricordo di Carmelo Bene) (ripubblicato in: B. Massimilla (a cura di), La perdita. Lutti e trasformazioni, Vivarium ed.. Milano, 2011, pp. 137 – 150). Apparire alla Madonna, postfazione a: C. Bene, Sono apparso alla madonna. Vie d’(h)eros(es). Autobiografia, Bompiani, Milano, 2005, pp. 157-159. L’identitè du spectateur. Essai d’anthropologie théâtrale, “L’Ethnographie. Création, Pratiques, Publics”, n. 3, printemps 2006, pp. 14 – 44. “Arrevuoto”: il teatro in festa (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Società”, anno X, n. 72, giugno 2006, pp. 74 –77. Un Amleto di più (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno X, n. 76, ottobre 2006, pp. 110 – 113. Dar corpo alla poesia: l’esempio e il metodo di Carmelo Bene, in: D. Scafoglio (a cura di), La coscienza altra. Antropologia e poesia, Marlin ed., Cava de’ Tirreni (SA), 2006 (Atti del Convegno di Studio “Antropologia e poesia”, organizzato dall’Università di Salerno, Salerno-Ravello, 2 – 4 maggio 2002), pp. 202 – 212. Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale – nuova edizione aggiornata e ampliata, Bompiani ed., Milano, 2007, 224 pp. Arrevuoto, n’ata vota (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XI, n. 83, maggio 2007, pp. 107 – 109. “Arrevuoto”: quando il teatro sospende la dittatura del mondo, in: Teatro delle Albe, M. Martinelli – E. Montanari (curatori), Suburbia. Molti Ubu in giro per il pianeta. 1998-2008. Ubulibri, Milano, 2008, pp. 99 – 109. La verticalità e la sacralità dell’atto, in: A. Attisani – M. Biagini (curatori), Opere e sentieri. Testimonianze e riflessioni sull’arte come veicolo, Bulzoni ed., Roma, 2008, pp. 119 –128. La dernière Médée. Le mithe dans le théâtre contemporain: un parcours à l’envers, in: AA.VV., Réécritures de Mèdée , (sous la direction de N. Setti – Centre de Recherche en Etudes Féminines et Etudes de genre, Université Paris 8), “Travaux et Documents”, n. 37, 2008, pp. 221 – 230. Saldi di fine stagione, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XII, nn. 98-99, agosto-settembre 2008, pp. 104 – 109. Teatro: Romeo all’Inferno (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XII, n. 100, ottobre 2008, pp. 108 – 110. 31  Un soffio di teatro, in AA.VV., In cammino con lo spettatore (Laggiù soffia – Era – In carne ed ossa), (a cura di S. Geraci), La casa Usher, Firenze, 2008, pp. 118 – 126. De la consommation du théâtre au théâtre dans la société de la consommation (nouvelle édition), “Degrés. Revue de synthèse à orientation sémiologique”, XXXVI année, nn. 134 – 135, été- automne 2008, pp. e/1 – e/19. L’effetLiving.Lavisiond’Artaudparles“Balinais”deNewYork,“Theatre/Public” (L’avant- garde américaine et l’Europe / II. Impact), n. 191, décembre 2008, pp. 9 -12. Le personnage public et l’acteur privé (entretien avec Piergiorgio Giacchè pas Ciryl Béghin), “Théâtre et Cinéma 2009. Marco Bellocchio, Carmelo Bene”, tome 20, publié à l’occasion du 20e Festival à Bobigny (18 mars – 5 avril 2009), sous la direction de Dominique Bax, pp. 141 -144. Voler Bene al cinema, in “Bellaria 27” (catalogo di Bellaria Film Festival, 27^ edizione, 2 – 6 giugno 2009), pp. 66 – 68; riedito in: “Lo straniero”, anno XIII, n. 109, luglio 2009, pp. 109 - 112. Fellini antropologo. Fra nostalgia e profezia, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, nn. 110-111, agosto-settembre 2009, pp. 94 – 101. La nostalgia, merce per tutti, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIII, n. 113, novembre 2009, pp. 129 -133. Bene Detto. Dispensa per Oratorio e Laboratorio, (a cura di P. Giacchè, con interventi di C. Bene, B. Filippi, G. Fofi, P. Giacchè, J.P. Manganaro, S. Pasello), L’arboreto – Teatro Dimora, Mondaino, 2009-2010, 143 pp. Il corpo dimenticato: Carmelo Bene, in: U. Birmaumer-M. Hüttler-G. Di Palma (curatori), Corps du Théâtre – Il Corpo del Teatro, Hollitzer Wissenshaftsverlag/Verlag Lehner, Wien (Austria), 2010, pp. 3 – 16. Los verbos transitivos del teatro. Mirar teatro, in: C. Lisòn Tolosana (a cura di), Antropologìa: horizontes estéticos, Antrhropos Editorial, 2010, pp. 153 – 182. Émergence et submersion en Italie: le système théâtral et son double, “UBU Scènes d’Europe- European stages” (numero: Emergence(s) dans le théâtre européen – in European Theatre), revue bilingue français-englais / bilingual English-French review, nn. 48 -49, 2^ semestre 2010, pp. 111 – 118. Uomini e dei in un film francese (recensione), “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XIV, n. 126/127, dicembre 2010-gennaio 2011, pp. 158 – 160. L’antropologia del teatro e il teatro della cultura, in: V. Borghi – A. Borsari – G. Leoni (curatori), Il campo della cultura a Modena. Storia, luoghi e sfera pubblica, Mimesis Edizioni, Milano- Udine, 2011, pp. 459 – 472. Homo Videns. Quella TV che si guarda da sola, “L’altrapagina”, anno XXVIII, n. 3, marzo 2011, pp. 28-29. Lo spettatore ospite, “Culture teatrali. Studi, interviste e scritture sullo spettacolo”, n.20, Annuario 2010 (Teatri di Voce, a cura di L. Amara e P. Di Matteo), giugno 2011, pp. 205- 210. 32  La parabola dell’animazione teatrale, in: D. Pietrobono – R. Sacchettini (curatori), Il teatro salvato dai ragazzini. Esperienze di crescita attraverso l’arte, Edizioni dell’Asino, Roma, 2011, pp. 46 – 65. Non fare l’amore, in: T. Cots (a cura di), Loving effects, Quodlibet ed., Macerata, 2011, pp. 17-66 (trad.inglese: pp. 175-184). Buttare il bambino nell’acqua sporca, “Lo Straniero. Arte Cultura Scienza Società”, anno XV, n. 138/139, dicembre 2011-gennaio 2012, pp. 125 – 127. Les Menoventi et le Perithéâtre, in: C. Hurault – G. Banu (curatori), Frontières liquides – territoires de l’art. Emergences de la scène européenne, Editions Alternatives théâtrales / Union des Théâtres de l’Europe (n. 9 hors série de la revue “Alternatives théâtrales”), maggio 2012, pp. 75 – 76. Liquidité et/ou verticalité, in: C. Hurault – G. Banu (curatori), Frontières liquides – territoires de l’art. Emergences de la scène européenne, Editions Alternatives théâtrales / Union des Théâtres de l’Europe (n. 9 hors série de la revue “Alternatives théâtrales”), maggio 2012, pp. 32 – 33. Le public est mort. Vive le Public! Sur la poétique et la politique du mauvais spectateur, in: S. e J. Pop-Curseu – A. Maniutiu – L. Pavel-Teutisan – D. Enyedi (curatori), Regards sur le mauvais spectateur – Looking at the Bad Spectator, Presa Universitara Clujeana, Cluj-Napoca, Romania, 2012, 346 pp., cfr. pp. 21 – 29. Eugenio Barba e Carmelo Bene. Vite parallele e viaggi perpendicolari, “Teatro e Storia”, a. XXVI, vol. IV nuova serie, Bulzoni ed., n. 33, 2012, pp. 321 – 332. (riedito in francese, traduzione di Cristina De Simone in: Les Voyages ou l’ailleurs du théâtre. Hommage à Georges Banu (Essais et témoignages réunis par Catherine Naugrette), Éditions Alternatives théâtrales – Sorbonne Nouvelle-Paris 3, 2013, pp. 252 – 263). Il pubblico troppo emancipato, “Quaderni del Teatro di Roma”, n. 11, gennaio-febbraio 2013, pp. 12 – 13. O Espectador-Hòspede, “Revista Brasileira de Estudos da Presença”, Porto Alegre, v. 3, n. 1, pp. 101 – 109, jan./abr. 2013 - http://www.seer.ufrgs.br/presenca. Le public est mort. Vive le Public!, “Alternatives théâtrales” (Le mauvais spectateur), n. 116, 1er trimestre 2013, Bruxelles, pp. 16 – 19. Le “Public” trop émancipé: vers une poétique pauvre de la politique théâtrale, in: Le théâtre et ses publics. La création partagée (Actes du 2° Colloque International du Projet Européen PROSPERO - Liège, 26 -29 settembre 2012), Les Solitaires Intempestifs Editions, Besançon, 2013, pp. 57 – 72. Teatro e comunità, “Scena”, n. 74, 4° trimestre 2013, pp. 12 – 15. Sur Sieni, et surtout sur Virgilio... Trois exemples, in: V. Sieni, Trois Agoras Marseille. Art du geste dans la Méditerranée, Maschietto editore, Firenze, 2013, pp. 42 – 43. Risposte o riposte. Cinque lettere aperte su CB, “Prove di drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali”, anno XVIII, n. 1, ottobre 2013, pp. 43 – 46. Un Pinocchio letto per Bene, introduzione a: C. Bene, Pinocchio, Bompiani ed., Milano, 2014.  33  Vers la verticalité du vers, “Revue d’Histoire du Théâtre”, LXVI année, juillet-septembre 2014-III, n. 263 (D’Après Carmelo Bene. Actualité), pp. 345-354. Il combattimento tra la teoria e la poesia (dedicato a Claudio Meldolesi), “Prove di drammaturgia. Rivista di inchieste teatrali”, anno XIX, nn. 1 - 2, novembre 2014, pp. 27 – 29. Il teatro piccolo, povero, nuovo, in: “L’Italia e le sue regioni. L’età repubblicana, vol. IV Società (a cura di M. Salvati – L. Sciolla)”, Istituto dell’Enciclopedia Italiana fondata da Giovanni Treccani, Abramo Printing, Catanzaro, 2015, pp. 485 – 503. Carmelo selon Jean-Paul in: Croisement d’écritures France-Italie. Hommage à Jean-Paul (sous a direction de Camille Dumoulié, Anne Robin et Luca Salza), éd. Mimésis, 2015, pp. 177 – 182. Vêtements liturgiques et corps dévôts, in: Jean-Marie Pradier (sous la direction de), La croyance et le corps. Esthétiques, corporeité des croyances et identités (Actes du 7° colloque international d’ethnoscénologie, Paris, 21-23 mai 2013), Presses Universitaires de Bordeaux, 2015, pp. 113 – 121. Il presente curriculum comprende i titoli, le attività e le pubblicazioni al 31 dicembre 2016 Il sottoscritto è a conoscenza che, ai sensi dell‚art. 26 della legge 15/68, le dichiarazioni mendaci, la falsità negli atti e l‚uso di atti falsi sono puniti ai sensi del codice penale e delle leggi speciali. Inoltre, il sottoscritto autorizza al trattamento dei dati personali, secondo quanto previsto dalla Legge 196/03. Quanto dichiarato nel presente curriculum vitae corrisponde al vero ai sensi degli artt. 46 e 47 del D.P.R. 445/2000 Piergiorgio Giacchè. Giacchè. Keywords: l’altra visione dell’altro, Clifton, religion and education, ego et tu. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giacchè: A Cliftonian implicature” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757949198/in/dateposted-public/  

 

Grice e Giacomo – icona -- sensibile, imagine, presentazione, rappresentazione, formante e formato, contentente e contenudo -- l’inspiegabile – filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Avola). Filosofo. Studia estetica. Il rapporto tra estetica e figura, immagine, rappresentazione. Si laurea sotto Garroni. Insegna a Parma e Roma. Fonda la Società Italiana d'Estetica. Nell'affrontare il concetto di ‘immagine’ è necessario rifiutare sia l'interpretazione che vede una'immagine come lo specchio di una cosa (“Fido”-Fido). E necessario rifiutare anche quella interpretazione del concetto di ‘imagine’ che la considera esclusivamente come un segno significante di se stesso. Il concetto di ‘rap-presentazione’ implica qualcosa che si mostra e nel manifestarsi resta ‘altro' dalla ‘percivibilita’ della rappresentazione stessa. Così, nel ‘presentare’ se stessa, una immagine manifesta l'altro del perceptible, del rappresentabil. Quell'altro che si rivela nel perceptibile, nascondendosi a esso. Ed è proprio così che una immagine si fa un ‘icono’ di quello che e altro il perceptibile. Afferma la tendenziale perdita di ‘figurativita’ di una immagine e del continuare a sussistere dell'immagine stessa. Una immagine, infatti, è una segno e insieme una non-segno. E il paradosso di una “irrealta reale”. Si riferisce al tentativo di scindere la natura ancipite dell'immagine negli elementi che la compongono. Da una parte in un “readymade” (come l’urinale di Duchamp), nel quale la dimensione rap-presentativa si dissolve in una dimensione puramente PRE-sentativa, e dall'altra in una pura immagine soggetiva, dotata di un debole supporto materiale. Una immagine e una meta-immgine: l’immagine di una immagine (homuncular regressus ad infinitum of Griceian theories of representation, according to Cummings, but not Grice!). Di questo modo, una immagine non e neppure propriamente immagini quanto piuttosto una ‘simul-azioni’, simile allo imperceptibile, un “simul-acro”.  Non a caso una immagine, in quanto ri-produzione (doppia) ha uno scarso valore di immagine, giacché quello a cui tende è l’assumere dell’ ‘aspetto’ di una cosa.  L’immagine perde così quella connessione di ‘trasparenza’ o ‘opacità’ che caratterizza una immagine autentica. Di qui, appunto, la questione di realizzare una immagine vera e propria. Troviamo il superamento della dimensione epifanica che è propria dell'icona, dove appunto il perceptibile è il luogo di mani-festazione di la cosa impercetibile – l’Assoluto di Bradley. Emerge una concezione dell'immagine che, nella consapevolezza dell'impossibilità di ogni pretesa di esaurire ‘il reale’ e insieme di ‘manifestare’ l'Assoluto, può essere interrogata come testimonianza di quanto non si lascia ‘tradurre’ (translation) in immagine: testimoniare, infatti, è raccontare ciò che è impossibile raccontare del tutto. In questo modo, la testimonianza fa tutt'uno *non* con la memoria in quanto conformità con l'accaduto, ma con l’immemoriale -- qualcosa che non possiamo né ricordare né dimenticare, che non è “dicibile” né “indicibile”. Insomma, il testimone “parla” (spiega, dispiega) soltanto a partire da l’impossibilità concettuale di spiegare o dispiegare. Che l'immagine valga allora come testimonianza significa che il tentativo di dire l'indicibile (spiegare l’inspiegabile) è un compito infinito. La questione dell'immagine è una questione di fidanza, di etica. In una immagine, non essendoci alcuna compiutezza, non si dà alcuna redenzione né alcuna pacificazione nel confronto col reale. Analissare l’immagine come testimonianza equivale a vedere l’immagine come il luogo di una tensione sempre irrisolta tra memoria e oblio, e quindi come l'espressione del dover essere (il possibile) del senso in un orizzonte, come l’attuale. quale sempre di più sia il mondo che l'arte sembrano essere abbando il NON-senso.  Altre opera: “Dalla logica all'estetica” (Parma, Pratiche); “Icona” “L’immagine tra presentazione e rappresentazione” (Palermo, Centro internazionale studi di estetica); Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Roma-Bari, Laterza. Introduzione a Paul Klee, Roma-Bari, Laterza, "Ripensare le immagini", Mimesis, Milano,  "Volti della memoria", Mimesis, Milano,  Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento, Milano, Mimesis,  "Malevic. Pittura e filosofia dall'Astrattismo al Minimalismo", Carocci, Roma,  Fuori dagli schemi. Estetica e figura dal Novecento a oggi, Laterza, Roma-Bari,  "Arte e modernità. Una guida filosofica", Carocci, Roma,  "Una pittura filosofica: l'informale", Mimesis, Milano,  "F. Nietzsche. L'eterno ritorno", Alboversorio, Milano,  Media e divulgazione  Art and Perspicuous Perception in Wittgenstein’s Philosophical Reflection, L’immagine-tempo da Warburg a Benjamin e Adorno. Il saggio più importante per il rapporto tra estetica e letteratura è Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Laterza, Cf. "Dalla logica all'estetica”, "Alle origini dell'opera d'arte contemporanea" “Astrazione e astrazioni”,  "La questione dell'aura tra Benjamin e Adorno", Rivista di Estetica, “Volti della memoria”.  Giuseppe Di Giacomo è stato Professore ordinario di Estetica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza Università di Roma fino al 2015 e, dopo il pensiona- mento, dal 2015 al 2017, è stato professore a contratto di Estetica presso stessa la Facol- tà. Sempre presso la Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza Università di Roma, è stato membro del Collegio dei Docenti del Dottorato di Ricerca in “Filosofia e Storia della filosofia” e Presidente del Corso di Laurea Magistrale in “Filosofia e Storia della filosofia”. È socio fondatore e membro del Consiglio di Garanzia della Società Italiana d’Estetica (SIE). È direttore della collana Figure dell’estetica presso l’editore Albover- sorio (Milano) e della collana Forme del possibile, presso l’editore Mimesis (Milano); fa parte del Comitato scientifico della rivista Paradigmi, della rivista Studi di estetica, della Rivista di estetica, della rivista Estetica. Studi e ricerche, della rivista Compren- dre. Revista catalana de filosofia, della rivista on line Memoria di Shakespeare. A Jour- nal of Shakespearean Studies e di Aesthetica Preprint, collana editoriale del Centro In- ternazionale Studi di Estetica. Fa parte inoltre del Comitato scientifico delle seguenti collane editoriali: Filosofie (Mimesis, Milano), Caffè dei filosofi (Mimesis, Milano), Eterotopie (Mimesis, Milano). È stato Coordinatore nazionale dell’Osservatorio di Storia dell’Arte della Società Ita- liana di Estetica e coordinatore, dal 2001, di numerose Ricerche di Ateneo dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza” relative a diverse tematiche filosofi- che, estetiche e artistiche. E’ stato inoltre responsabile di diversi progetti PRIN. Dal no- vembre 2012 all’ottobre 2015 è stato Direttore del Museo Laboratorio di Arte Contem- poranea (MLAC) della Sapienza Università di Roma. Come Direttore del Museo Labo- ratorio di Arte Contemporanea della Sapienza Università di Roma, ha ideato e coordina- to, in collaborazione con la Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma e con il Teatro Argentina di Roma, numerose iniziative di carattere seminariale aventi per oggetto la filosofia, la letteratura, la musica, le arti figurative, il teatro. Dal 2015, collabora con il Teatro Eliseo all'interno del quale tiene una serie di conferenze e organizza seminari sul teatro, la musica, la letteratura e le arti visive. Collabora inoltre con la Fondazione Pri- moli di Roma e con il Museo Andersen (Polo Museale del Lazio). Tra le sue pubblicazioni: Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a Wittgenstein (Parma, 1989); Icona e arte astratta. La questione dell’immagine tra presentazione e rappresentazione (Palermo, 1999); Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Otto- cento e Novecento (Roma-Bari, 1999; trad. in lingua spagnola a cura di D. Malquori, Estética y literatura, Universidad de Valencia, Servicio de Publicaciones, 2014); Intro- duzione a Paul Klee (Roma-Bari, 2003); Alle origini dell’opera d’arte contemporanea (Roma-Bari, 2008); Beckett ultimo atto (Milano, 2009), Ripensare le immagini (Milano, 2009); Astrazione e astrazioni (Milano, 2010); L’oggetto nella pratica artistica, (Para- digmi, 2, 2010), Il Museo oggi (Studi di Estetica, 2012), Aura (Rivista di Estetica, 2013), Malevič. Pittura e filosofia dall’Astrattismo al Minimalismo (Roma, 2014), Fuo- ri dagli schemi. Estetica e arti figurative dal Novecento a oggi (Roma-Bari, 2015; trad. in lingua spagnola a cura di Juan Antonio Méndez, Al margen de los esquemas. Estética y artes figurativas desde principios del siglo XX a nuestros dìas, La balsa de la Medusa, Madrid, 2016), Filosofia e teatro (Paradigmi, 1, 2015), Tra il sensibile e le arti. Trent’anni di estetica (Studi di Estetica, 1-2/2014), Tra arte e vita. Percorsi fra testi, immagini, suoni (Milano, 2015), Arte e modernità. Una guida filosofica (Roma, 2016), 1  Una pittura filosofica. Antoni Tàpies e l'informale (Milano, 2016), Nietzsche e l’eterno ritorno (Milano, 2016). Ha partecipato a progetti di ricerca internazionali e a progetti di ricerca europei. Ha svolto attività didattica e di ricerca (tenendo conferenze, lezioni e seminari, partecipan- do a convegni di studio e svolgendo attività didattica anche in qualità di correlatore o tutor di tesi di laurea e di Dottorato) presso importanti istituzioni straniere sia accademi- che che extra-accademiche, in Spagna, Russia e Messico: Facultat de Filosofia, Universitat de Barcelona; Facultat de Pedagogia, Universitat de Barcelona; Facultat de Filosofia, Universitat “Ramon Llull”, Barcelona; Societat Catalana de Filosofia, Institut d’Estudis Catalans; Ateneu de Vic; Ateneu de Barcelona; Associació Filosòfica de les Illes Balears, Mallorca; Facultat de Filosofia i Lletres, Universitat de les Illes Balears, Mallorca; Facultat de Filosofia i Ciències de l’educació, Universitat de València; Facultad de Filosofía, Universidad Complutense de Madrid; Istituto di studi post-universitari “SS. Cirillo e Metodio”, Mosca; Russian Christian Academy for the Humanities, S. Pietroburgo; “Peter the Great” St. Petersburg Polytechnic University, S. Pietroburgo; Producciòn Artìstica Contemporànea Coloquio (PAC), Centro Cultural San Pablo, Ciudad de Oaxaca, Messico; PUBBLICAZIONI: Monografie · Nietzsche e l’eterno ritorno, Commentario a F. Nietzsche, L’eterno ritorno, Al- boversorio, Milano, 2016 · Arte e modernità. Una guida filosofica, Carocci, Roma, 2016 · Una pittura filosofica. Antoni Tàpies e l'informale, Mimesis, Milano, 2016 · Fuori dagli schemi. Estetica e arti figurative dal Novecento a oggi, Laterza, Roma-Bari, 2015 (trad. in lingua spagnola a cura di Juan Antonio Méndez, Al margen de los esquemas. Estética y artes figurativas desde principios del siglo XX a nuestros dìas, La balsa de la Medusa, Madrid, 2016) · Malevič. Pittura e filosofia dall’Astrattismo al Minimalismo, Carocci, Roma, 2014 · Narrazione e testimonianza. Quattro scrittori italiani del Novecento, Mimesis, Milano, 2012 · Introduzione a Paul Klee, Laterza, Roma-Bari, 2003 · Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Laterza, Roma-Bari, 1999 (quinta ed., 2015; trad. in lingua spagnola a cura di D. Mal- quori, Estética y literatura, Universidad de Va-lencia, Servicio de Publicaciones, 2014); 2  · Icona e arte astratta. La questione dell'immagine tra presentazione e rappresen- tazione, «Aesthetica Preprint», Palermo, 1999 · Dalla logica all'estetica. Un saggio intorno a Wittgenstein, Pratiche, Parma, 1989 Curatele · G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Letture shakespeariane. Otello e Re Lear, «Studi di Estetica», 3, 2017 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Contemporaneo. Arti visive, musica, architettura, «Rivista di Estetica», 61 (2016) · G. Di Giacomo (a cura di), Tra arte e vita. Percorsi fra testi, immagini, suoni, Mimesis, Milano, 2015 · G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Filosofia e teatro. Amleto e Macbeth, «Paradigmi», 1, 2015 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Tra il sensibile e le arti. Trent’anni di estetica, «Studi di Estetica», 1-2/2014 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Aura, «Rivista di Estetica», 52 (2013) · G. Di Giacomo, A. Valentini (a cura di), Il museo oggi, «Studi di Estetica», 45 (2012) · G. Di Giacomo (a cura di), Volti della memoria, Mimesis, Milano, 2012 · G. Di Giacomo (a cura di), Astrazione e astrazioni. In occasione di una mostra di Gualtiero Savelli, Alboversorio, Milano, 2010 · G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), L'oggetto nella pratica artistica, «Pa- radigmi», 2 (2010), Franco Angeli, Milano, 2010 · G. Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini, Mimesis, Milano, 2009 · G. Di Giacomo, R. Colombo (a cura di), Beckett ultimo atto, Albo Versorio, Mi- lano, 2009 · G. Di Giacomo, C. Zambianchi (a cura di), Alle origini dell'opera d'arte con- temporanea, Laterza, Roma-Bari, 2008 Saggi 2018 Introduzione a D. Malquori, L’incomprensibile ambiguità dell’orizzonte. Un so- gno fatto a Ginostra, Mimesis, Milano, collana Narrativa Mele d’Oro, 2018, pp. 5-10. 2017 Il problema della forma nella Teoria estetica di Adorno, in M. Manicone (a cura di), Sostanza di cose sperate. Scritti in onore di Franco Purini, Iiriti Editore, Campo Calabro (RC), 2017, pp. 329-337. 2017 Re Lear. “Essere maturi” in un mondo abbandonato alla cecità e alla follia, in G. Di Giacomo-L. Talarico (a cura di), “Letture shakespeariane. Otello e Re Lear”, «Studi di Estetica», 3, 2017, pp. 85-108. 3  2017 Otello: la tragedia della parola e il ruolo della narrazione, in G. Di Giacomo-L. Talarico (a cura di), “Letture shakespeariane. Otello e Re Lear”, «Studi di Estetica», 3, 2017, pp. 1-18. 2017 Dostoevsky, a writer and philosopher: “The Grand Inquisitor”, in “ACTA ERU- DITORUM”, 2017, Vol. 23, Publishing house of the Russian Christian Academy for the Humanities, 2017, pp. 61-68. 2017 Tradició i innovació en l’art, in “La Tradició”, Col-loquis de Vic, Societat Catala- na de Filosofia, Institut d’Estudis Catalans, XXI, 2017, pp. 171-178. 2017 Understanding of the «image» in Plato, in «PLATO AND ANCIENT SCIENCE», Collection of materials of 25TH INTERNATIONAL CONFERENCE «THE UNIVER- SE OF PLATONIC THOUGHT», RUSSIAN CHRISTIAN ACADEMY FOR HUMA- NITIES, Saint Petersburg, June 21–22, 2017, Appendice alla rivista di Fascia A (in Russia “VAK”) “Vestnik” della RUSSIAN CHRISTIAN ACADEMY FOR HUMANI- TIES. Redattori: Svetlov R. V., Robinson T. M. (Canada), Protopopova I. A., Mochalo- va I. N., Kurdybajlo D. S., Shmonin D. V., Alymova E. V., pp. 163-170. 2016 Form, appearance, testimony: reflections on Adorno’s Aesthetics, in G. Matteucci, S. Marino (a cura di), Theodor W. Adorno: Truth and Dialectical Experience / Verità ed esperienza dialettica, “Discipline filosofiche”, XXVI, 2, Quodlibet, Macerata, 2016, pp. 79-97 2016 Antoni Tàpies e Bill Viola: un'arte che sopravvive alla mercificazione, in G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Contemporaneo. Arti visive, musica, architettura, “Rivista di Estetica”, 61, pp. 49-64 2016 Composizione, costruzione, icona nella concezione artistica di Pavel Florenskij, in D. Guastini, A. Ardovino (a cura di), I percorsi dell'immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani, Pellegrini Editore, Cosenza, pp. 325-334 2016 Prefazione a A. Lanzetta, Opaco mediterraneo. Modernità informale, Libria, Fog- gia, pp. 7-9 2016 Reflexions filosòfiques sobre la festa. Entre temporalitat i eternitat, in “La festa”, Col-loquis de Vic, Societat Catalana de Filosofia, XX, Vic, pp. 51-66 2015 The Myth. Aesthetic surgery clearly demonstrates what Greek myth has already taught us: beauty stems from horror, in P. Gandola, P. Persichetti (a cura di), Art of Blade. A book about surgery and humanity, T.A.M. Books, 2015, pp. 17-29 2015 La guerra i l'art, in La guerra, Col-loquis de Vic, Societat Catalana de Filosofia, XIX, pp. 11-26 2015 Arte e vita nella Recherche di Marcel Proust, in G. Di Giacomo (a cura di), Tra arte e vita. Percorsi fra testi, immagini, suoni, Mimesis, Milano, 2015, pp. 111-138. 4  2015 Lettura dell’Amleto, in G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Filosofia e teatro. Amleto e Macbeth, «Paradigmi», 1, 2015, pp. 21-36. 2015 Lettura del Macbeth, in G. Di Giacomo, L. Talarico (a cura di), Filosofia e teatro. Amleto e Macbeth, «Paradigmi», 1, 2015, pp. 111-125. 2014 Arte, linguaggio e rappresentazione nella riflessione filosofica di Wittgenstein in Comprendre. Revista Catalana de Filosofia, 16,2, pp.29-50. 2014 Icona e immagine, in G. Bordi, J. Carlettini, M.L. Fobelli, M.R. Menna, P. Poglia- ni (a cura di), L'officina dello sguardo. Scritti in onore di Maria Andaloro, Gangemi, Roma, pp. pp.33-37. 2014 El poder i les seves representacions, in L'estat, Col•loquis de Vic., vol. XVIII, pp.27-49. 2014 Dalla modernità alla contemporaneità: l’opera al di là dell’oggetto, in G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), Tra il sensibile e le arti. Trent’anni di estetica, «Stu- di di Estetica», 1-2/2014, pp. 57-84. 2013 Entre la paraula i el silenci: la filosofia com a recerca de la veritat, prefaci a An- toni Bosch-Veciana, "Imatge-Mirada-Paraula", Barcelona,Facultat de Filosofia, URL, 2013 2013 L’immagine artistica tra realtà e possibilità, tra “visibile” e “visivo”, in P. D’Angelo, E. Franzini, G. Lombardo, S. Tedesco (a cura di), Costellazioni estetiche. Dalla storia alla neoestetica. Studi in onore di Luigi Russo, Guerini e Associati, Mila- no, 2013, pp.121-134. 2013 La questione dell'aura tra Benjamin e Adorno, in «Rivista di Estetica», 52 (2013), pp. 235-256 2012 Antonio Pizzuto: tra letteratura e filosofia, in D. Perrone (a cura di), La vera novi- tà ha nome Pizzuto, Bonanno Editore, Catania, 2012, pp. 37-48 2012 Bellezza e chirurgia estetica, in «Studi di Estetica», 46 (2012), pp. 65-94 2012 Il paradosso dell'apparenza nel teatro di Jean Genet, in «Comprendre. Revista Catalana de Filosofia», 2 (2012), vol. 14, pp. 41-57 2012 La qüestió de la imatge a partir del debat sobre la icona, in «Col•loquis de Vic», Societat Catalana de Filosofia, 16 (2012), pp. 71- 89     2013 Art and Perspicuous Vision in Wittgenstein's Philosophical Reflection, in “Aisthe-  sis. 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Guastini, A. Campo, D. Cecchi (a cura di), Alla fine delle cose. Contributi a una storia critica delle immagini, La Casa Usher, Fi- renze, 2011, pp. 200-204. 2011 Intervista sulla bellezza, in Scuderi N. (a cura di), A me la mela. Dialoghi su bellezza, chirurgia plastica e medicina estetica, Franco Angeli, Milano, 2011, pp. 128-136 2011 La produzione artistica contemporanea attraverso la riflessione di Benjamin e Adorno, in «Studi di Estetica», n. 43, 2011 , pp. 5-20 La relaciò entre imatge i temporalitat en la reflexiò de Warburg, Benjamin i Adorno, in I. Rovirò Alemany (a cura di), Estètica catalana, estètica euro- pea. Estudis d’estètica: entre la tradiciò i l’actualitat, Barcelona, 2011, pp. 9-27 L’immagine-tempo da Warburg a Benjamin e Adorno, in “Aisthesis. Prati- che, linguaggi e saperi dell’estetico”, anno 2, n. 2, pp. 73-80, (http://www.fupress.net/index.php/aisthesis/article/view/11009/10381). 2010 Arte e realtà nella produzione artistica del Novecento, in G. Di Giacomo, L. Marchetti (a cura di), L’oggetto nella pratica artistica, «Paradigmi», 2 (2010), Franco Angelini, Milano, 2010, pp. 87-104 Il percorso di Gualtiero Savelli: dall'astrattismo di Malevič e Mondrian all'astrazione geometrica, in G. Di Giacomo (a cura di), Astrazione e astra- zioni. In occasione di una mostra di Gualtiero Savelli, AlboVersorio, Mila- no, 2010, pp. 11-19 2011 2010 2010 6  2010 La bellezza. Promessa di Immortalità?, in “Medic. Metodologia Didattica e Innovazione Clinica”, vol. 18, 1-3, dicembre 2010, pp. 48-51 2010 Ripensare l'aura nella modernità, in L. Russo (a cura di), Dopo l'Estetica, «Aesthetica Preprint», Supplementa, Palermo, 2010, pp. 75-89 Il male oggi. Produzioni artistiche e riflessioni estetiche, in P. D'Oriano, D. Rocchi (a cura di), Il male e l'essere, Mimesis, Milano, 2009, pp. 247-261 2009 Arte e moda nella riflessione estetica di Adorno, in P. Romani, Percorsi teo- retici. Scritti in onore e in memoria di P.M. Toesca, Diabasis, Reggio Emilia, 2009, pp. 213-225 2009 Forma e riflessione nel romanzo moderno, in M. Fusillo (a cura di), Philoso- phie du roman, Revue Internationale de Philosophie, 63, Meyer, Bruxelles, 2009, pp. 137-151 2009 Il silenzio, il vuoto e la fine della rappresentazione, in G. Di Giacomo, R. Colombo (a cura di), Beckett ultimo atto, Albo Versorio, Milano, 2009, pp. 13-26 2009 Immagine, icona, opera d'arte, in F. Desideri, G. Matteucci, J.M. Schaeffer (a cura di), Il fatto estetico. Tra emozione e cognizione, ETS, Pisa, 2009, pp. 163-179 2009 La questione del rapporto arte-forma nella riflessione di Prinzhorn sulle "Produzioni plastiche" dei malati mentali, Prefazione a F. Bassan, Al di là della psichiatria e dell'estetica. Studio su Hans Prinzhorn, Lithos, Roma, 2009, pp. XI-XVIII 2009 La questione dell'immagine nella riflessione estetica del Novecento, in G. Di Giacomo (a cura di), Ripensare le immagini, Mimesis, Milano, 2009, pp. 367-390 2009 Le Mal aujourd'hui. Productions artistiques et rèflexions esthètiques, in «La règle du jeu», 39 (2009), pp. 153-171 2008 Adorno: arte ed estetica dopo Auschwitz, in M. Failla (a cura di), Dialettica negativa: categorie e contesti, Manifesto libri, Roma, 2008, pp. 195-207 2008 C'è ancora spazio per l'aura nella scultura contemporanea? A proposito di Luigi Mainolfi, in P. De Luca (a cura di), Intorno all'immagine, Mimesis, Milano, 2008, pp. 135-149 2008 Postfazione, in G. Di Giacomo, C. Zambianchi (a cura di), Alle origini dell'opera d'arte contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 2008, pp. 203-222 2007 Armando Ferrari ed Emilio Garroni: un incontro, in in F. Romano, M. Ro- manini, S. Tauriello (a cura di), La metafora nella relazione analitica, Mi- mesis, Milano, 2007, pp. 21-41 2009 Modernitat, Societat Catalana de Filosofia, Barcellona, 2009, pp. 113-134 2009 Modernità e arte, in J. Monserrat Molas, I. Roviró Alemany (a cura di), La [Atti del convegno, Col•loquis de Vic, XIII, Vic, 2008] 7  2007 Dal cosmo al caos: la pittura di Paola Romano, in Paola Romano, Catalogo della Mostra, Print Company, Roma, 2007, pp. 5-7 2007 Ironia e romanzo, in P. F. Pieri (a cura di), Perché si ride. Umorismo, comi- cità, ironia, Moretti & Vitali, Bergamo, 2007, pp. 133-152 2007 La connessione arte-moda nella riflessione estetica del Novecento, in «Al- manacco Odradek», 2 (2007), pp. 174-177 2006 Arte, storia dell'arte e beni culturali, in D. Goldoni, M. Rispoli, R. Troncon (a cura di), Estetica e management nei beni e nelle produzioni culturali, Il Brennero - Der Brenner, Bolzano - Trento - Vienna, 2006, pp. 53-60 2006 Da Nietzsche a Benjamin: riflessioni sulla metropoli e dialettica del risve- glio, in R. Colombo (a cura di), «Fictions. Studi sulla narratività», 5 (2006), pp. 31-39 2006 Il "Tintoretto" di Sartre, tra presentazione e rappresentazione, in G. Farina (a cura di), «Bollettino Studi sartriani. Gruppo ricerca Sartre», 2 (2006), pp. 213-224 2006 Pietro M. Toesca: il rovesciamento della prospettiva, ovvero il doppio sguardo, in «Eupolis», 42 (2006), pp. 40-52 2006 Sul corpo. Riflessioni filosofiche e psicoanalitiche, in «Eupolis», 41 (2006), pp. 9-20 2006 Vedere e vedere-come: le "Osservazioni sulla filosofia della psicologia" di Ludwig Wittgenstein, in S. Borutti, L. Perissinotto (a cura di), Il terreno del linguaggio. Testimonianze e saggi sulla filosofia di Wittgenstein, Carocci, Roma, 2006, pp. 125-134 2005 La poesia dopo Auschwitz, in «Eupolis», 38 (2005), pp. 36-46 2005 Sul rapporto arte-vita a partire dalla "Teoria estetica" di Adorno, in «Idee», 58 (2005), pp. 93-112 2005 Visione, forma e contenuto in Arnheim e Wittgenstein, in L. Pizzo Russo (a cura di), Rudolf Arnheim. Arte e percezione visiva, «Aesthetica Preprint», Supplementa, Palermo, 2005, pp. 195-212 2004 Arte e rappresentazione nella "Teoria estetica" di Adorno, in «Cultura tede- sca», 26 (2004), pp.103-121 2004 Le idee estetiche di Stendhal, in M. Colesanti, H. de Jacquelot, L. Norci Ca- giano, A. M. Scaiola (a cura di), Arrigo Beyle "Romano" (1831-1841), Edi- zioni di Storia e Letteratura, Roma, 2004, pp. 113-135 2004 Rappresentazione e memoria in Aby Warburg, in C. Cieri Via, P. Montani (a cura di), Lo sguardo di Giano. Aby Warburg fra tempo e memoria, Nino Aragno Editore, Torino, 2004, pp. 79-112 2003 Il problema della rappresentazione in Gombrich e Goodman, in «Studi di estetica», 27 (2003), pp. 79-112 2003 Il tema della bellezza nel romanzo moderno, in F. Sisinni (a cura di), Rifles- sioni sulla bellezza, De Luca, Roma, 2003, pp. 99-117 2003 Le nozioni di famiglia, classe, individuo nella riflessione estetica di Morpur- go-Tagliabue, in L. Russo (a cura di),Guido Morpurgo-Tagliabue e l'estetica del Settecento, «Aesthetica Preprint», Palermo, 2003, pp. 75-84 8  2003 Sguardo, simbolo, mito. Viaggio in un museo immaginario, in G. Baruchello, Cosa guardano le statue, Danilo Montinari Editore, Ravenna, 2003, pp. 5-22 2001 Comprensione e rappresentazione in Wittgenstein, in «Il cannocchiale», 3 (2001), pp. 197-224 2001 Sulla rappresentazione, in U. Cao, S. Catucci (a cura di), Spazi e maschere dell'architettura e della metropoli, Meltemi, Roma, 2001, pp. 139-147 1998 Eros come narrazione nella "Ricerca del tempo perduto" di Marcel Proust, in «Almanacchi nuovi», 2 (1998), pp. 55-76 1998 Il Secondo Concilio di Nicea e il problema dell'immagine, in L. Russo (a cu- ra di), Nicea e la civiltà dell'immagine, «Aesthetica Preprint», Palermo, 1998, pp. 71-86 1995 Jean Genet e il paradosso dell'immagine, in P. Montani (a cura di), Senso e storia dell'estetica. Studi offerti a Emilio Garroni in occasione del suo set- tantesimo compleanno, Pratiche, Parma, 1995, pp. 831-853 1994 Etica ed estetica nella filosofia del giovane Lukács, Introduzione a G. Lukács, Teoria del romanzo, Pratiche, Parma, 1994, pp. 7-41 1992 Realtà e Finzione in "Dissonanzen-Quartett" di Emilio Garroni, in «La ra- gione possibile», 5 (1992), pp. 264-268 1986 Il comportamento cognitivo dell'uomo nell'epistemologia evoluzionistica di Popper, in «Terzo Mondo», 27 (1986), pp. 48-71 1984 L'epistemologia di Mach fra positivismo e costruttivismo, in «Lineamenti», 6 (1984), pp. 57-76 1984 Senso e significato nella filosofia del linguaggio di Wittgenstein, in A. Gar- gani (a cura di), Il Circolo di Vienna, Longo, Ravenna, 1984, pp. 131-156 1983 La nozione di «uso» e la funzione della filosofia in Wittgenstein, in A. Gar- gani (a cura di), L. Wittgenstein e la cultura contemporanea, Longo, Raven- na, 1983, pp. 117-127 1982 Implicazioni e aspetti epistemologici della sociobiologia, in M. Ingrosso, S. Manghi, V. Parisi (a cura di), Sociologia possibile, Franco Angeli, Milano, 1982, pp. 69-82 1982 Natura e cultura: il rapporto tra "strutture" genetiche e "processi" di ap- prendimento nel comportamento animale e umano, in AA. VV. (a cura di), L'osservazione del comportamento sociale, Regione Piemonte, Torino, 1982, pp. 37-54 PROGETTI DI RICERCA - Progetto PRIN Tema: La forma dell’immagine Ente promotore: MIUR 2003 / 24 mesi; - Progetto PRIN / Responsabile Tema: Estetica analitica ed estetica continentale: problemi, prospettive e tradi- zioni a confronto 9  Ente promotore: MIUR 2005 / 24 mesi; - Progetto PRIN / Responsabile nazionale e Coordinatore dell’unità locale Tema: Memoria e rappresentazione nella riflessione filosofica e artistica Ente promotore: MIUR 2007, 24 mesi; Coordinatore dei seguenti Progetti di Ateneo: - Progetto di Ateneo: Immagine e rappresentazione. Problemi estetici, artistici e storici Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza” 2001 / 24 mesi - Progetto di Ateneo: Significati e usi delle immagini nella cultura dell'Otto- Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2002 / 24 mesi; - Progetto di Ateneo: Significati e usi delle immagini nella cultura dell'Otto- Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2003 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Significati e usi delle immagini nella cultura dell'Otto- Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2004 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Memoria e testimonianza nella riflessione filosofica e artisti- ca del Novecento - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2007 / 24 mesi; - Progetto di Ateneo: Memoria e testimonianza nella riflessione filosofica, storica e artistica - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2008 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Rappresentazione, memoria e testimonianza nella riflessione filosofica e artistica - Ente promotore: Università di Roma "La Sapienza" 2010 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: La questione arte-vita nella società multiculturale. Identità, immagine e implicazioni etico-politiche - Ente promotore: Università di Roma “La Sapienza” 2012/ 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Il tema dell'"Annunciazione" come chiave di lettura degli at- tuali processi di globalizzazione - Ente promotore: Università di Roma “La - Sapienza” 2013/ 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Memoria e rappresentazione nella riflessione estetica e arti- stica Ente promotore: AST - Università di Roma "La Sapienza" 2007 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Evento e testimonianza nell'estetica del Novecento Ente promotore: AST - Università di Roma "La Sapienza" 2008 / 12 mesi; - Progetto di Ateneo: Il problema dell'aura nell'arte contemporanea Ente promoto- re: AST - Università di Roma "La Sapienza" 2009 / 12 mesi; 10  Coordinatore dei seguenti Seminari dell’Osservatorio di Storia dell’Arte della Società Italiana di Estetica, presso la Facoltà di Filosofia dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza” - 22 settembre 2003: Seminario sul tema Estetica e storia dell’arte: necessità di un dialogo; - 27 settembre 2004: Seminario sul tema Fine (della storia) dell'arte?; - 26-27 settembre 2006: Seminario sul tema Arte, Estetica, Visual Studies; - 8-9 febbraio 2008: Seminario sul tema Oggetto artistico e oggetto comune; - 20-21 febbraio 2009: Seminario sul tema Leggere l'opera d'arte; - 18-19 febbraio 2011: Seminario sul tema Ancora l’aura oggi?; - 27-28 gennaio 2012: Seminario sul tema Che cos’è il museo oggi? Cfr. inoltre: - Sito Web ufficiale: www.giuseppedigiacomo.it - Voci su Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo ; https://fr.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo https://en.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo https://de.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo https://ca.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Di_Giacomo 11ROMANTIC PAINTERS and playwrights of the nineteenth century found rich material in the lives of the old masters. Fueled by irresistible half-truths and rumors, they created swashbuckling narratives about the personal intimacies and rivalries, as well as the career failures and triumphs, of the Italian Renaissance artists. At the Paris Salon of 1843, for instance, Léon Cogniet unveiled his grand entry, a large canvas depicting Tintoretto painting a portrait of his beloved daughter Marietta, who lies on her death bed. Three years later, the painter and playwright Luigi Marta published a melodrama about an amorous intrigue that supposedly led to the death of Marietta, who assisted her father as an artist in his workshop. The six-episode play reads like a soap opera in which the aristocratic Alfredo is pitted against Marietta’s true love, Valerio Zuccato, a Venetian mosaicist (and thus, in Tintoretto’s world, a fellow craftsman). The play circles around the inevitable showdown between the arrogant count and the sincere artist, which precipitates Marietta’s death at the hands of the entitled, privileged, and violent Alfredo.  Parallel to this love story, the reader is regaled with the homosocial rivalry between Tintoretto and Titian, with Paolo Veronese appearing as an intercessor who mediates a grandiloquent reconciliation scene in which all three masters unite to defend the honor of the Venetian state. The narrative unfolds against Tintoretto’s commission for the Last Judgment (1562–64) in Santa Maria dell’Orto. Marta’s artist was thus, in no uncertain terms, a struggling genius waiting for recognition from his fellow artists even at the height of his success. Indeed, the episode concludes with Titian’s transformative endorsement—Ora non siete più il povero Tintoretto, ma bensì il famoso Giacomo Robusti (“now you are no longer the poor ‘son of a dyer,’ but the famous Jacopo Robusti”).1  Loosely based on actual historical personages, the tale is almost entirely fantasy. Such theatrical characterizations are nevertheless of great importance, for they help give legends the veneer of history. Giorgio Vasari’s sixteenth-century notices about Tintoretto, as well as, in the seventeenth century, Carlo Ridolfi’s biography and Marco Boschini’s various writings on the artist, were the primary sources for many of these tasty morsels, and while scholars have tried to sift fiction from reality, some myths are just too delectable to give up. We still hear repeated, for instance, the unfounded story that the young Tintoretto was kicked out of Titian’s studio. It’s not entirely impossible, but there isn’t a shred of solid evidence to confirm the tale (any more than Ridolfi’s allegation that Tintoretto dressed Marietta up as a boy so that father and daughter could wander the city streets unimpeded by society’s strict gender expectations).   The image of Tintoretto-as-rebel would culminate in Jean-Paul Sartre’s essay “The Prisoner of Venice”(1964), where the artist is reinvented as an existentialist hero, a lone wolf fighting against the stultifying rules of the system:  Fate has decreed that Jacopo unwittingly expose an age which refuses to recognize itself. Now we understand the meaning of his destiny and the secret of Venetian malice. Tintoretto displeases everyone: patricians because he reveals to them the puritanism and fanciful agitation of the bourgeoisie; artisans because he destroys the corporate order and reveals, under their apparent professional solidarity, the rumblings of hate and rivalry; patriots because the frenzied state of painting and the absence of God discloses to them, under his brush, an absurd and unpredictable world in which anything can occur, even the death of Venice.2  At the other end of the spectrum, this leitmotif is perhaps best played out for comic effect in Woody Allen’s Everyone Says I Love You (1996), in which a skirt-chaser (Allen) is overheard in the so-called Tintoretto Museum (really the Scuola Grande di San Rocco) in Venice trying to impress a Tintoretto enthusiast (Julia Roberts) by lauding the artist’s immense genius for painting “outside the academic convention of sixteenth-century Venice.”   Sometimes myths are just too powerful, and the Tintoretto myth is an extremely appealing one for modern tastes, especially in the celebratory year marking the fifth centenary of the artist’s birth. Tintoretto’s anniversary has been staged as a magnificent international banquet. The festivities began last autumn in Venice with exhibitions at the Palazzo Ducale(“Tintoretto: Artist of Renaissance Venice”) and the Gallerie dell’Accademia (“The Young Tintoretto”), as well as an excellent little show at the Scuola Grande di San Marco (“Art, Faith, and Medicine in Tintoretto’s Venice”). New York, in the fall, offered “Drawing in Tintoretto’s Venice” at the Morgan Library & Museum and “Celebrating Tintoretto: Portrait Paintings and Studio Drawings” at the Metropolitan Museum of Art.  The fete continues in 2019 at the National Gallery of Art in Washington, D.C., where slightly adapted versions of the Palazzo Ducale and Morgan Library exhibitions go on view this month, fortified by a third independent show called “Venetian Prints in the Time of Tintoretto.” This is a once-in-a-lifetime opportunity for audiences in America to see some one hundred and seventy artworks by Tintoretto and other Venetian Renaissance artists, painstakingly gathered by art historians Robert Echols and Frederick Ilchman (who organized the show at the Palazzo Ducale),along with curators John Marciari (of the Morgan) and Jonathan Bober (of the National Gallery). Fans of the artist and of painting in general should take note.     IT’S HARD NOT TO get swept up in all the unbridled Tintoretto worship, but this celebration also provides us an opportunity to revisit the man, the myth, the legacy, and above all, the work. To start with the biographical elements: Tintoretto was hardly seen as a pitiful “poor dyer’s son” in the eyes of his fellow Renaissance artists, nor as a maverick who “displeases everyone.” When speaking about Titian vs. Tintoretto, one must take into account a few historical particulars. For instance, in 1519, the year after Titian installed the magnificent Assumption of the Virgin in Santa Maria Gloriosa dei Frari, Tintoretto’s only achievement was to be born. In 1545, two years before Tintoretto’s first self-portrait (with which all Tintoretto exhibitions seem compelled to begin), Titian was called to Rome by Pope Paul III; in the 1550s and 1560s he was practically a court painter to the Habsburgs, while Tintoretto was painting acres of canvas to fill the walls at the Chiesa della Madonna dell’Orto, the Scuola Grande di San Rocco, and the Scuola Grande di San Marco in Venice; Titian died in 1576 during the plague, and in 1577 a conflagration devastated the Palazzo Ducale, destroying many of his paintings there, some of which would be replaced with works by Tintoretto and his assistants in the 1580s. While there was probably no love between the two men of the kind that nineteenth-century dramatists might dream up, their careers ran parallel to each other rather than in constant antagonistic competition.   Many romantic myths are dispelled in the scholarship that went into the exhibitions and the catalogue essays, but the melodrama of this rivalry still sneaks into sections such as “The Mantle of Titian,” which, at the Palazzo Ducale, was called “Dopo Tiziano” (After Titian) thereby underlining both chronological priority as well as influence. The paintings Tintoretto did afterTitian’s death in 1576—large, powerful mythological pictures such as the Forge of Vulcan (1577) and the Origin of the Milky Way (ca. 1577–78)—are spectacular, but why filter these achievements once more through Titian? And why not have, instead, a section labeled “Dopo Tintoretto,” which would include El Greco, the Carracci, Caravaggio, and a host of other artists from the past five centuries who found inspiration in his stark chiaroscuro, raking perspective, extreme foreshortening, airborne saints, psychologically charged portraits, barefoot worshippers, elaborate banquet scenes, wraithlike angels and spirits, and busted-out straw chairs?  The oft-repeated trope that Tintoretto was an outsider also willfully overlooks his obvious status as a complete insider, born in Venice and fully embedded in its institutions from birth. Titian and Veronese, in contrast, were both provincials (practically foreigners by Renaissance standards), who came from the hills and plains beyond the lagoon. While a questionable seventeenth-century account suggested an aristocratic lineage for the Robusti family, more recent studies have emphasized instead the artist’s “working class” origins. The truth is somewhere in between. Stefania Mason’s essay “Tintoretto the Venetian,” from the catalogue that accompanies “Tintoretto: Artist of Renaissance Venice,” goes a long way to contextualize the precise socioeconomic conditions of the son of a Renaissance dyer or—to be more accurate—the son of a manager of a dye works married to a “well-born woman.” The Robusti were not wealthy by any means, but they were comfortable enough to give Tintoretto a basic education that enabled him later in life to befriend the circle of writers and intellectuals known as the poligrafi, including the notorious satirist Pietro Aretino (a friend of Titian and an early supporter of Tintoretto).   Like his father, Tintoretto married up. His father-in-law, Marco Episcopi, not only belonged to an influential family of Venetian cittadini, he was also the guardian of the Scuola Grande di San Marco, where Tintoretto—two years before his marriage—painted his finest early work, Miracle of the Slave (1548). The scene features St. Mark swooping in headfirst from the sky to protect a slave from being martyred for his faith. Current viewers need not be intimidated by the religious matter of the vast majority of Tintoretto’s pictures—they are gripping visual tales of life and death. According to seventeenth-century artist and critic Marco Boschini, one beholder of Tintoretto’s St. Mark cycle reported: “The terror makes me faint, and the piety liquefies my heart in such a manner that I lose heart and melt like wax and feel completely mad!”3 As much “Game of Thrones” as Catholic doctrine in pictures, these works were meant to move, delight, and instruct their audience. Indeed, one cannot help but feel that if Tintoretto were alive today, he would be an unapologetic fan of action films and special effects. Looking at Miracle, with its explosive light and tense shadows, its superhuman heroes and racially profiled villains, and its meticulous staging of powerful, muscular, controlled bodies, one might think he invented the genre. No wonder Boschini described him as a “thunderbolt” and the “cannons of a ship.”4  Unfortunately, Miracle of the Slave has not been allowed to cross the Atlantic. Audiences in D.C. can, however, marvel at the luminous Saint Augustine Healing the Lame (ca. 1550) and the always pleasing Creation of the Animals (1550–53), which the French philosopher Gilles Deleuze once described as an image of God as a referee “at the start of a handicapped race, in which the birds and the fish leave first, while the dog, the rabbits, the cow, and the unicorn await their turn.”5  While Miracle has been in the possession of the Gallerie dell’Accademia for many decades now, seeing it anew, rehung next to the diminutive bronze relief of the same subject by the Florentine sculptor Jacopo Sansovino, was one of the highlights of the “Young Tintoretto”exhibition. With the works placed next to each other in a darkened room, the similarities and differences were enlightening. Designed and executed between 1541 and 1546 for the north tribune of the choir at the Basilica di San Marco, Sansovino’s glowing bronze panel reduces the scene to a compact, tactile, monochromatic field of chiaroscuro with a vibrant mass of bodies emerging from the picture plane in dynamic, agitated poses. Tintoretto, just on the cusp of his thirtieth year when he painted Miracle, clearly looked closely at the dramatic effects that could be sculpted out of gesture, form, and composition alone. To this art he would add the detail of expression, the intensity of extreme lighting, the terribilità that often comes with scale, and the incomparable power of color.     WHILE THE TWENTY-FIRST CENTURY audiences might think it odd for an ambitious artist to unveil a painting so closely modeled on a recent work by another artist, the reuse of motifs was a common Italian Renaissance practice, as was made clear in an insightful section of the Palazzo Ducale exhibition simply called “The Recycler.” Tintoretto and his assistants, after all, produced more square footage of painting than any other workshop in the Venetian Renaissance. In one instance, the painter salvaged an old composition from his painting Mystic Crucifixion by cutting, splitting, and reintegrating the canvas into a new picture, The Nativity(ca. 1550s and 1570s); on another occasion, he copied, pivoted, and re-costumed a previously used figure of St. Lawrence intended for the Bonomi family altar in San Francesco della Vigna, transforming the martyr into Helen of Troy. Such shortcuts were standard in most Renaissance workshops, especially prolific ones that had to turn out hundreds of altarpieces, portraits, mythological paintings, battle scenes, and other pictures.  The juxtaposition between the Florentine sculptor and the Venetian painter also underlines Tintoretto’s connectedness with other artists. He painted Sansovino’s portrait more than once, even signing one of the works as “Jacobus Tintorettus eius amicissimus” (which, if you believe the inscription, means they were Renaissance BFFs). Tintoretto was an artist’s artist. His profound sense of community comes across in a rather touching contract found in the Venetian archives and included in the small but brilliant “Art, Faith, and Medicine in Tintoretto’s Venice” at the Scuola Grande di San Marco. In this document, drafted and signed shortly after Christmas in 1585, the artist agrees to provide works and forgo any payment on the condition that the confraternity admit four people: his son Giovanni Battista Robusti; his son-in-law Marco Augusta (the real-life husband of Marietta); the tailor Bartolomeo di Lorenzo; and another man named Angelo Girardi. His dedication to his family, friends, and students is also borne out in numerous workshop drawings, which are well represented in D.C.  Offering important opportunities for artistic communion, drawing had its pragmatic as well as pleasurable purposes. In several sketches made after a copy of the ancient bust known as the Grimani Vitellius, we see multiple hands working seemingly side by side, line by line, smudge by smudge, highlight by highlight, with the goal of mastering the visible world around them. The willful way that these graphic studies dematerialize carved stone and reincarnate the male portrait head into what looks at first glance like the image of a flesh-and-blood subject is remarkable. In this sequence, note especially the Morgan Library drawing rendered by what the curator identifies as a “left-handed draftsman.” The work seems almost too bold in its deliberate, sweeping gestures to be “workshop,” but then Tintoretto was clearly a very good master with some very capable assistants.   In Tintoretto’s drawings and paintings, one often feels that he is “sculpting” with chalk, charcoal, watercolor, oil, and pigment, ignoring the flat surface of the paper or canvas. This comes across not only in the speckled black-and-white patterns of his drawings from sculptures (which he avidly collected) but in his life studies, too. His rendering of flesh frequently seems to be rippling and quivering with animal energy, as if the artist were trying to catch the living body in motion. His is possibly the most atomistic rendering of the human form in the Renaissance. The frenetic, vibrating lines in Seated Man with Raised Right Arm (ca. 1577), for instance, exemplify this stylistic peculiarity: the contours of the mythological body can never sit still but seem to be in a constant state of flex and flux. (Indeed, Tintoretto’s figural drawings make Marcel Duchamp’s Nude Descending a Staircase and every episode of “The Incredible Hulk” seem old hat when they appear centuries later.)   One of the art-historical myths destroyed—hopefully once and for all—by the exhibitions in honor of Tintoretto is that Venetians did not really draw. Some did more than others, and Tintoretto and his assistants surely drew up a storm. On various sheets we find words such as fa (make), sì (yes), fatto (made), no (no), and bono (good) scrawled across the surface; sometimes figures are singled out by an asterisk. These marks were workshop instructions on designs that had been cleared for production by the master. Sheets such as Study of a Man Climbing into a Boat (1578–79) were frequently greased and held up to the light so that forms could be retraced on the verso, offering compositional options. Many have squaring grids drawn across them. In some instances, this facilitated the transfer of the design onto a larger surface; in other cases, it assisted in the correction of foreshortening and the adjustment of figural proportions.   Of the thirty-some drawings by Tintoretto and his workshop on display at the National Gallery of Art, the majority are on the blue paper favored by Venetian artists. The dark surface of this carta azzurra provided an ideal ground upon which to map out gestural movements, tonal subtleties, and, above all, the effects of light and shadow. It might also be compared with the darkened grounds of many Tintoretto paintings. The canvas support for The Origin of the Milky Way, for example, is prepared with a brownish layer upon which the artist sketched out his composition with white lead paint (rather than using black paint on a white gessoed surface). Once a scene had been plotted out on the canvas, however, Tintoretto was prone to further editing, altering, and redrawing of figures and forms in a variety of white, black, and even red paint until the work was completed.     PAINTERS AND people interested in the way things are made will find much to consider in these exhibitions. Tintoretto’s process is revealed in medias res through the various X-rays that accompany the didactic material in the galleries and comes across most clearly in the oil sketch Doge Alvise Mocenigo Presented to the Redeemer(1571–74, a work included in the 2016 exhibition “Unfinished: Thoughts Left Visible” at the Met Breuer in New York). Looking at the mannequinlike figures waiting to be dressed with flesh and clothes, one comes to appreciate the procedural logic that binds these drawings and paintings together (a topic expertly discussed in Roland Krischel’s essay “Tintoretto at Work” in the National Gallery of Art exhibition catalogue). The show reveals Tintoretto’s exploratory procedure: visceral, intuitive, yet ultimately studied and thought-through—but never entirely scripted.   Tintoretto is all gestalt. If the Marxist machismo of Sartre’s characterization of the artist as a rebel “born among the underlings who endured the weight of a superimposed hierarchy” is misplaced, one must admit that his phenomenological acumen regarding the works is often startlingly spot on. Sartre writes with great perspicacity about the narrow, vertical composition of Saint George and the Dragon (ca. 1553–55):  Everything is simultaneous in his canvas, he contains everything within the unity of a single instant. But to mask the over-harsh rift, he presents the spectator with the spectre of a succession of events. Not only is the route traced in advance, but each stage devalues the previous one and shows it up as an inert memory of things past. The corpse’s immobility is memory: it is prolonged and repeated from one moment to the next, identical and useless. . . . The time-trap works, we are caught: a false present welcomes us at every step and unmasks its predecessor which returns, behind our backs, to its original status of petrified memory.6  Time and space collapse in on the spectator’s embodied experience, simulating the effects of a hallucinatory drug. And indeed, as early as Boschini we find the revelatory quality of Tintoretto’s art described in pharmacological terms. Of the whirlwind of paintings on the ceilings and walls of the Scuola Grande di San Rocco, he effuses: “I feel as if I am in a drugstore. Under my nose these odors have aromas that overwhelm my heart. These fragrances remain in my mind, my mind feels so utterly purged that my heart jumps for joy in my chest, and my soul feels totally jubilant.”7  One must be in the presence of the work in order to experience the psychosomatic force of Tintoretto’s art. A black-and-white photograph of a room filled with Tintoretto’s portraits can look like a field of dull heads, but in person these works become alarmingly ghostly presences, with hands and faces that seem capable of movement. The sketches that move from light fluffy strokes to devastating valleys of black charcoal seemingly carved with a chisel, the thick ridges of impasto that rise suddenly like waves from the surface of a canvas, the glazes and scumble that modulate color and reflect light differently depending on the angle of view, the enormity of compositions that threaten to engulf the spectator’s body—these elements simply do not translate in any form of mechanical or digital reproduction. This is true not only for Tintoretto but for Venetian art in general, with its penchant for chromatic and luminous variability and richness.   In “Drawing in Tintoretto’s Venice” the difference between Veronese’s gorgeous drawings covered in elegant, spindly figures created in a torrent of quick brown ink strokes and Jacopo Bassano’s schematic black chalk sketches marked by dusty smudges of red, white, green, pink, and brown becomes immediately clear. Domenico Tintoretto, one of the master’s sons, produced oil sketches of battle scenes that look comic in reproduction, but when one stands before the flurry of red, white, and black patches on dark brown paper, these detailed compositions dissolve unexpectedly into near abstraction.  Renaissance drawings are so fragile and sensitive to light that they can be exhibited only rarely, and many  Tintoretto paintings are so large that they have remained in situ in Venice for most of their existence. Thus the current triple exhibition is the first substantial retrospective of the old master’s work in America. It is a fitting tribute on the occasion of his five hundredth birthday—and a viewing experience not to be missed.  Endnotes 1. Luigi Marta, Il Tintoretto e sua figlia: drama in sei quadri del pittore Luigi Marta, Milan, Borroni e Scotti, 1846, p. 46.  2. Sartre quoted in Laura Lepschy, Tintoretto Observed: A Documentary Survey of Critical Reactions from the 16th to the 20th Century, Ravenna, Longo Editore, 1983, p. 185.  3. Marco Boschini, La carta navegar pitoresco, edited by Anna Pallucchini, Venice/Rome, Istituto per la collaborazione culturale, 1966, p. 280.  4. Ibid., p. 4.  5. Gilles Deleuze, Francis Bacon: The Logic of Sensation, trans. Daniel W. Smith, London, Continuum, 2003, p. 7.  6. Sartre quoted in Lepschy, p. 189.  7. Boschini, p. 150.Tintoretto was too good an artist for his time’s uses; he still clamors for a proper role, seeking affirmation, four centuries later. This thought came to me as whimsy, and stayed as conviction, at the Prado, in Madrid, which has just opened the second-ever retrospective (the first was in Venice, in 1937) of Jacopo Comin, who was also known as Robusti, and called Tintoretto, or “Little Dyer,” after his father’s profession. Tintoretto (1518-94) is the most mercurial of the five undisputed immortals of Venetian painting—the others being Bellini, Giorgione, Titian, and Veronese—and I was eager to see the Prado show, because I have never managed to get a satisfying fix on him. How could someone so great, able to summon the world with a brushstroke, be so inconsistent in style, and, on occasion, so awful? Stupefyingly prolific, Tintoretto garnished the walls, ceilings, altars, exteriors, and even the furniture of Venice, performing commissions for free when that was what it took to edge out a rival. (He was not popular with his fellow-artists.) He brought off one of the world’s largest paintings—“Paradise” (1588-92), in the Ducal Palace, which, at seventy-two feet long and twenty-three feet high, is so vast as to be essentially unseeable—and perhaps history’s most sustained demonstration of sheer painterly talent, brimming the Scuola Grande di San Rocco, between 1564 and 1588, with pictures whose profusion and intensity burn the most concerted effort of looking to ashes. But he and his populous workshop also perpetrated some of the grimmest daubs—murky and slack—that you ever rushed past with a shudder. I realized, too late, that my puzzlement was a warning. Now I feel that I have acquired a brilliant, neurotic, exhausting friend who enjoins me to undertake on his behalf campaigns that he bungled when their conduct was up to him.  Nothing inferior taxes the eye at the Prado, which augments the cream of Tintorettos in European and American collections with a few loans from Venice, where hundreds of his paintings—including his greatest works, such as “The Miracle of the Slave” (1548)—reside immovably in churches, palaces, and galleries. The show more than overcomes doubts about presuming to assess the artist outside his home town, which he is known to have left just twice, briefly, in his life. The well-restored canvases, shown in good light, sparkle and blaze. Some make plungingly deep space with muscular figures of different sizes; your mind provides perspective that the artist didn’t deign to chart. Others array action on intersecting diagonals, along which someone is apt to be arriving from somewhere at terrific speed. (There is an old line that Tintoretto invented the movies; his ways of enkindling routine scenarios, with thrilling visual rhythms that seem to unfurl in time, endorse it.) He drew with his brush, light over dark—so that shadings came first, imparting a sumptuous density to forms that are hit with highlights like spatters of sun. He is supposed to have said that his favorite colors were black and white, but he could be every bit the startling and seductive Venetian colorist when a commission required it. With abject competitive fury, he was not above imitating the grand dragon of the Venice art world, Titian, and his designated successor, Veronese.  “As a matter of fact, he almost never takes the liberty of being himself unless someone builds up his confidence and leaves him alone in an empty room,” Jean-Paul Sartre wrote in a 1957 essay, “The Venetian Pariah.” For Sartre, Tintoretto is an avatar of existential anguish, who was both behind his time—as the last native-born master on a scene ruled by a cosmopolitan élite—and ahead of it, as the ideal artist for a rising bourgeoisie that was too intimidated by the pomp of the ducal republic to recognize itself in his demotic trashings of aristocratic decorum. Intellectuals of the era, while in awe of Tintoretto’s gifts, scolded him for being too fast, careless, and insolent; when Vasari credited him with “the most extraordinary brain that the art of painting has ever produced,” it wasn’t meant as unalloyed praise. (Vasari also called him the medium’s “worst madcap.”)  As a boy, Tintoretto is said to have entered Titian’s workshop as an apprentice but was thrown out after a few days, having either frightened the master with his aptitude or irked him with his personality; at any rate, Titian’s attitude toward him was plated with permafrost. Little is known of Tintoretto’s subsequent training. His earliest surviving work, from the early fifteen-forties, is anti-Titianesque—radically sculptural and draftsmanly, embracing Central Italian influences. Then something happened which the art historian Alexander Nagel compares to the bluesman Robert Johnson’s “going down to the crossroads and coming back with scary new powers.” “The Miracle of the Slave,” made for the Scuola Grande di San Marco, electrified Venice. Its unprecedented range of spatial, chromatic, and kinetic effect suggested a synthesis of “the disegno of Michelangelo and the coloring of Titian”—a contemporaneous formula, often cited, for ultimate greatness in painting. He was roundly hailed, though Pietro Aretino, Titian’s literary ally, added a caveat about his lack of “patience in the making.” Commissions came in bunches to the new hero, but solid status skittered out of reach.  He compensated by striving to engulf the town. Meanwhile, Titian refused to slacken his grip on preëminence, let alone die. When he finally expired, at the age of eighty-eight or so, in 1576, it brought Tintoretto no peace. Though he was now, by general consent, Italy’s leading painter, he responded with pictures as flailingly ambitious and various as ever. Three from the late fifteen-seventies triumph in as many styles. In “The Rape of Helen,” the hauntingly lovely captive languishes in the corner of a churning land-sea battle scene, with scores of figures, ranging in size from huge to tiny, which you can all but hear and smell. In “Tarquin and Lucretia,” the naked, lividly fleshy protagonists struggle at the edge of a bed, toppling a sculpture and breaking a necklace that rains pearls. The woman’s right hand seems to extend from the canvas, as if to be grasped by a rescuing viewer. (The Baroque, which took hold two decades later, with Caravaggio, can seem an edited ratification of tendencies already developed by Tin-toretto.) “The Martyrdom of St. Lawrence” is a sketchy and fierce nightmare of death by roasting, with an anticipatory whiff of Goya. Tintoretto strongly influenced El Greco, blazed trails for Rubens, and fascinated Velázquez, who acquired his paintings for Philip IV.  “What is a Tintoretto?” the art historian Robert Echols asks in the show’s catalogue. The answer might be almost anything touched with genius and a strange, thorny, dashing humor. Tintoretto was reported to be a witty man who never smiled. What is his “Susannah and the Elders” (1555-56) if not a grand lark? A luxuriant, glowing nude sits outdoors, surrounded by a glittering still-life of jewelry and implements of beauty, and is ogled by dirty old men (one pokes his bald pate, at ground level, practically out of the canvas) from behind a hedge that forms part of a corridor-like recession into the far background. There are distant little ducks, and the rear end of a stag. But the picture’s form is too disorienting to sustain any particular response, including amusement. The backstage space outside the hedge ignores the unity of the central perspective, bespeaking a world that rolls away in all directions, indifferent to pocket realms of mythic anecdote. The effect is stirring and confusing. “Who is Tintoretto’s viewer?” strikes me as the really compelling question. No other great artist before modern times, in which shifting contingency affects every enterprise, seems less certain of whom he is addressing, and why. It might as well be you or me as some cinquecento ingrate, and, if we happen to think of people we know who may be interested, the artist encourages us to contact them without delay. ♦La tesi di fondo di questo saggio è che l’orizzonte problematico entro il quale si muove da sempre la pittura faccia tutt’uno con le questioni dell’immagine e che la tradizione occidentale, soprattutto nella riflessione sulla storia dell’arte, abbia incentrato la sua atten- zione sul problema dell’immagine senza tenere conto in genere dei suoi aspetti iconici. Già Tommaso d’Aquino aveva posto in questi termini tale problema: l’immagine può essere considerata come og- getto particolare, o come immagine di un altro; nel primo caso l’og- getto è la cosa stessa che al contempo ne rappresenta un’altra, nel secondo l’aspetto dominante è ciò che l’immagine rappresenta. Sem- bra dunque che rispetto a un’immagine l’attenzione si rivolga o al- l’immagine in se stessa – all’immagine come fine – o a ciò che l’im- magine rappresenta – all’immagine come mezzo 1. A diversi secoli di distanza un pensatore della statura di Witt- genstein riproporrà con forza il problema dell’immagine che, a par- tire da una prospettiva iniziale fortemente improntata a concezioni logico-raffigurative, si andrà via via sempre più delineando all’inter- no della sua riflessione come un problema di natura estetica. Così egli scrive nelle Ricerche filosofiche: «E chi dipinge non deve dipin- gere qualcosa – e chi dipinge qualcosa non deve dipingere qualcosa di reale? – Ebbene, qual è l’oggetto del dipingere: l’immagine di un uomo (per esempio), o l’uomo che l’immagine rappresenta?» 2. Tut- tavia Wittgenstein porta il problema alle estreme conseguenze: «Se paragoniamo la proposizione con un’immagine, dobbiamo tener con- to se la paragoniamo con un ritratto (un’esposizione storica) o con un quadro di genere. E tutti e due i paragoni hanno senso. Se guar- do un quadro di genere, esso mi ‘dice’ qualcosa, anche se io non cre- do (mi figuro) neppure per un momento che gli uomini che vedo rappresentati in esso esistano realmente, o che uomini in carne e ossa si siano davvero trovati in questa situazione. Ma, e se chiedessi: ‘Al- lora, che cosa mi dice?» 3. La risposta di Wittgenstein suona: «‘L’im- magine mi dice se stessa’ vorrei dire. Vale a dire, ciò che essa mi dice consiste nella sua propria struttura, nelle sue forme e colori» 4. Ponendo la questione in tali termini tuttavia Wittgenstein non in- 7  tende affatto contrapporre un’immagine intesa come ‘ritratto’, il cui scopo sarebbe quello di indirizzare l’attenzione dell’osservatore esclu- sivamente su ciò che essa rappresenta, e un’immagine intesa come ‘quadro di genere’, il cui fine sarebbe quello di presentare la «sua propria struttura» e le «sue forme e colori». Del resto, continua Wittgenstein nello stesso paragrafo, «(Che significato avrebbe il dire: ‘Il tema musicale mi dice se stesso’?)». Il fatto è che per Wittgenstein queste due modalità dell’immagine: immagine intesa come mezzo e immagine intesa come fine, sono tra loro connesse, tanto da formare un unico concetto di ‘immagine’. Che il problema vada inteso e ap- profondito in questi termini, lo chiarisce lo stesso Wittgenstein, af- frontando in alcuni paragrafi successivi la questione relativa al «com- prendere una proposizione»: «Noi parliamo del comprendere una proposizione, nel senso che essa può essere sostituita da un’altra che dice la stessa cosa; ma anche nel senso che non può essere sostituita da nessun’altra. (Non più di quanto un tema musicale possa venir sostituito da un altro.) Nel primo caso il pensiero della proposizione è qualcosa che è comune a differenti proposizioni; nel secondo, qual- cosa che soltanto queste parole, in queste posizioni, possono esprime- re. (Comprendere una poesia)» 5. E subito dopo aggiunge: «Dunque qui ‘comprendere’ ha due significati differenti? – Preferisco dire che questi modi d’uso di ‘comprendere’ formano il suo significato, il mio concetto del comprendere» 6. Wittgenstein sottolinea in questo modo che i due tipi di com- prensione – quella che potremmo chiamare ‘logica’, nel senso che il pensiero espresso dalla proposizione può essere riformulato in modi diversi, rimanendo lo stesso, e quella che potremmo definire ‘esteti- ca’, caratterizzata invece dal fatto che il suo ‘tema’ non può essere riformulato in altro modo, come esemplifica il caso del ‘tema musica- le’ o della ‘poesia’ – sono imprescindibilmente connessi tra loro in un concetto unitario. È la stessa interconnessione che Wittgenstein aveva rilevato in relazione all’immagine. Il fatto è che quel particolare tipo di immagine che l’opera d’arte costituisce può rimandare all’altro da sé, soltanto in quanto in primo luogo rimanda a se stessa, ‘dice se stessa’; può essere ‘rappresentazione’ dell’altro, solo in quanto è ‘pre- sentazione’ di se stessa. Di conseguenza, ciò che nell’opera viene rap- presentato riceve la sua ‘unicità’, la sua ‘specificità’, è insomma pro- prio ‘questo’, grazie al fatto che l’immagine lo rappresenta, lo ‘dice’, secondo le sue ‘linee e colori’. Così questo qualcosa di ‘unico’ può e anzi deve essere visto come qualcosa che, seppure da sempre presen- te sotto i nostri occhi, appare come se lo vedessimo per la prima vol- ta e, proprio per questo, non può che procurarci stupore e meravi- glia. Scrive a questo proposito Wittgenstein: «Non pensare che sia cosa ovvia il fatto che i quadri e le narrazioni fantastiche ci procura- 8  no piacere, tengono occupata la nostra mente; anzi, si tratta di un fatto fuori dell’ordinario. (‘Non pensare che sia cosa ovvia’ – questo vuol dire: Meravigliatene, come fai per le altre cose che ti procurano turbamento [...])» 7. Già nel Tractatus Wittgenstein aveva affermato che «La tautologia segue da tutte le proposizioni: essa dice nulla» 8, volendo con ciò sot- tolineare il fatto che ogni proposizione dice, rappresenta qualcosa solo in quanto in primo luogo è una tautologia, ossia ‘dice nulla’, e tale tautologicità della proposizione è ciò che la proposizione ‘mostra’ in ciò che dice. Secondo Wittgenstein il carattere logico della proposizio- ne in quanto immagine 9 è dato dal suo essere ‘rappresentazione’ di qualcosa, ossia dal suo rinviare a qualcosa d’altro da sé. In questo con- siste, sempre secondo Wittgenstein, la «fondamentalità» della logica, giacché «se segno e designato non fossero identici rispetto al loro pie- no contenuto logico, allora vi dovrebbe essere qualcosa d’ancora più fondamentale che la logica» 10. E tuttavia Wittgenstein si rende con- to che «Nella proposizione qualcosa dev’essere identico al suo signi- ficato, ma la proposizione non può essere identica al suo significato, dunque in essa qualcosa dev’essere non identico al suo significato» 11. Questo qualcosa di ‘non-identico’, vale a dire di differente, tra la proposizione, o l’immagine, e il qualcosa che viene rappresentato o detto, è ciò che esse mostrano o ‘presentano’. Tale presentazione, nel suo costituire la condizione interna al rappresentato, è anche ciò che dà a quest’ultimo il suo carattere di unicità, ossia di individualità, che sfugge a ogni previsione logica, vale a dire a ogni identificazione nel già-saputo; ciò che fa, in definitiva, del rappresentato qualcosa di non-previsto e di non-saputo, qualcosa che nell’opera d’arte trova il suo luogo esemplare. E, se la logica «è prima del Come, non del Che cosa» 12, allora «Il miracolo per l’arte è che il mondo v’è, che v’è ciò che v’è» 13. C’è dunque per Wittgenstein qualcosa di più fondamentale della logica 14. La rappresentazione logica infatti implica qualcosa che si mostra, che si manifesta e nel manifestarsi resta ‘altro’ dalla visibilità della rappresentazione stessa. Così, nel presentare se stessa, l’imma- gine manifesta l’altro del visibile, del rappresentabile: quell’altro che si rivela nel visibile, nascondendosi a esso. Se questo è il tratto carat- terizzante l’icona, allora possiamo affermare che le riflessioni di Witt- genstein sull’immagine si riferiscono non all’immagine come ‘copia’ della realtà, bensì all’immagine intesa appunto come ‘icona’. Non a caso, se per Wittgenstein il silenzio, sul cui tema si ‘chiude’ il Tracta- tus, non può dirsi, giacché esso mostra sé, è proprio l’icona che ha a che fare con l’irrappresentabile, con ciò che resta sempre altro rispet- to a ogni determinazione logica e rappresentativa. Ciò che nell’opera d’arte ‘si presenta’ sfugge alla nostra cono- 9  scenza e alla rappresentazione. Non è stata l’arte ‘astratta’ a mettere per prima in opera la ‘presentabilità’ del pittorico di contro alla sua ‘rappresentabilità’, dal momento che il rapporto tra presentazione e rappresentazione appartiene all’essenza stessa dell’immagine. È pro- prio della natura dell’immagine infatti il suo presentarsi sempre chiu- sa e insieme aperta, opaca e insieme trasparente, vicina e insieme lon- tana: nell’offrirsi all’occhio, essa cattura il nostro sguardo. È necessa- rio tornare, al di qua del visibile rappresentato, alle condizioni stes- se dello sguardo, della presentazione. È questo il non-sapere che l’immagine manifesta, e tuttavia tale non-sapere non è una condizio- ne privativa, una mancanza, ma piuttosto una condizione positiva, come positivo è il ‘Niente’ dei quadri suprematisti di Malevicˇ. Si trat- ta dell’esigenza di qualcosa che costituisce l’altro del visibile, il suo al-di-là e che non va pensato come l’Idea platonica, dal momento che questo altro del visibile è nel visibile stesso. Così l’iconoclastia del Quadrato bianco di Malevicˇ annuncia non la fine dell’arte, ma ciò che l’arte deve essere, per essere tale, arte appunto. Nell’opera d’arte qualcosa è rappresentato e si offre alla vista, ma qualche altra cosa nello stesso tempo ci guarda, ci ri-guarda. Ciò si- gnifica che la visione si divide, si lacera, nel suo stesso interno, tra vedere e guardare, tra rappresentazione e presentazione. Nella visibi- lità del quadro è in opera qualcosa che non si lascia cogliere e che, come l’oblio, resta sempre altro rispetto a ciò che possiamo ricorda- re. È come se l’immagine fosse nello stesso tempo rappresentazione di ciò che ricordiamo e presentazione di ciò che abbiamo dimentica- to; per questo nell’immagine la rappresentazione deve essere pensa- ta sempre con la sua opacità. In particolare nell’icona cogliamo l’assenza di ogni immagine, in- tesa come rappresentazione logica: è questa l’ ‘astrazione’ dell’icona, astrazione come sarà intesa, teorizzata e messa in opera da tanta par- te della pittura del Novecento. Quello che l’icona mostra non è di- scorsivamente esprimibile e, se essa può far valere la propria impre- scindibile implicazione di senso di contro alla critica iconoclastica, è perché mostra l’inesprimibile in quanto inesprimibile. È proprio que- sta paradossalità dell’icona a permettere di superare l’iconoclastia, per la quale non può che porsi l’alternativa schiacciante tra un asso- luto realismo e un assoluto silenzio. L’icona è la «porta regale», come voleva Florenskij, attraverso la quale si manifesta l’invisibile e si tra- sfigura il visibile: in essa non c’è né imitazione, né rappresentazione, ma comunicazione tra questo e l’altro mondo. Così nell’icona la di- mensione epifanica finisce per coincidere con la sua dimensione apo- fatica. Da questo punto di vista si può dire che i problemi posti dal- l’icona siano gli stessi problemi che si ritroveranno nella contempo- ranea problematica dell’‘astrazione’. 10  L’arte astratta fa appello all’occhio spirituale, ossia allo sguardo, e ciò comporta il rifiuto della tradizionale distinzione soggetto-ogget- to, dal momento che l’oggetto è in tale prospettiva un soggetto che ci cattura proprio mentre lo guardiamo. Già Kandinskij con la nozio- ne di ‘composizione’ intende superare sia gli stati d’animo del sogget- to che l’oggetto come fenomeno naturale, per dare luogo a una pit- tura «iuxta propria principia», nella quale lo stesso limite estremo, la tela bianca o il silenzio, non significhi la ‘morte dell’arte’, ma la ra- dicale ‘presentazione’ di quella possibilità dalla quale ogni arte pren- de le mosse: l’essenza o, per dirla con Heidegger, l’origine dell’arte stessa. In Kandinskij l’astrattismo non è vuoto decorativismo. Al con- trario, l’astrattezza del segno, la sua non-rappresentatività, è la mani- festazione della sua «risonanza interiore», ossia della sua «spiritua- lità». La concezione dell’arte di Kandinskij è intessuta della connes- sione di interiorità e astrazione, e una componente essenziale di tale astrazione è il «misticismo». Già la mistica tedesca medievale affer- mava, con Meister Eckart, che, come Dio agisce al di là del mondo dell’essere, così l’anima, che è in grado di rappresentarsi le cose che non sono presenti, opera nel non-essere; un’analoga operazione com- pie il pittore astratto, che nientifica il mondo naturale delle cose, dando vita a un mondo di entità non-oggettive, inesistenti e tuttavia reali. Così nel principio di Kandinskij della «necessità interiore» si riflette la natura mistica del procedimento astratto di costruzione di un’opera che viene sottratta alla dipendenza delle cose esistenti. Que- sto rimando a un agire interiore dà luogo a un non-oggetto che, ana- logamente a quanto avviene nella mistica, mostra un diverso modo d’essere delle cose rispetto a quello della loro forma reale. L’eman- cipazione da qualsiasi dipendenza diretta dalla natura, della quale parla Kandinskij, è la riduzione delle cose naturali al non-essere. Di conseguenza, la necessità interiore di Kandinskij, che costituisce il tratto essenziale della sua pittura astratta, si pone come ‘altro’ rispet- to al mondo delle cose, e quest’ultimo trova in essa la sua unità e il suo senso. Del resto per Kandinskij, come per Wittgenstein, il misticismo riguarda «Non come il mondo è [...], ma che esso è» 15; esso consiste nel «Sentire il mondo quale tutto limitato» 16. Ciò significa dunque che la totalità del visibile ha un limite: lo ‘sguardo’ delle cose, ossia la loro spiritualità. ‘Astrazione’, d’altro canto, è proprio questo visi- bile limitato dal manifestarsi in esso di ciò che visibile non è: è sen- tire il non-visibile nel visibile, è cogliere la differenza nell’identità. Nell’astrattismo il segno mostra se stesso, nel senso che non riman- da all’altro fuori di sé, all’oggetto, ma all’altro che è nel segno senza essere tuttavia esso stesso segno. Così l’astrattismo rifiuta il significato 11  del segno e nello stesso tempo ne esalta il senso, che si mostra nel segno ritraendosi da esso. Non c’è dunque alcun contenuto, alcun significato manifesto dell’immagine, ma questa è l’espressione di un «contenuto interiore»: è questo a rendere il segno ‘astratto’, proprio nel suo presentarsi come ‘evento’. In definitiva, se il cubismo ha in- franto la totalità, lasciando solo frammenti, la composizione di Kan- dinskij mira non a ricomporre tale totalità, bensì a ‘presentare’ il sen- so, facendo risuonare il «contenuto interiore» del frammento stesso. Se lo ‘spirituale nell’arte’ di Kandinskij, come il suo concetto di composizione, è interno al problema dell’icona, altrettanto lo è il «mondo senza oggetto» del suprematismo di Malevicˇ. L’opera su- prematista infatti ha un’intenzione iconica: non esprime una perdita, ma una presenza, la presenza dell’‘altrimenti che essere’. Di qui quella dimensione apofatica, propria dell’icona in genere e del suprematismo di Malevicˇ in particolare, che, in opposizione ai presupposti dell’ico- noclastia – tesi a identificare la verità con la rappresentazione logico- discorsiva – mostra la verità che contiene in sé la propria negazione: la docta ignorantia è la testimonianza di tale inesprimibile coincidenza. Per questo nel colore suprematista, come nell’icona, non c’è alcuna ‘finzione’. L’essere di Malevicˇ non è l’essere secondo la necessità, ovvero secondo il concetto, ma è l’essere come evento: è qualcosa che si la- scia riconoscere solo al momento del suo apparire e, in quanto even- to, l’essere è l’altro, poiché non è soggetto ad alcuna identificazione: è l’essere così, che potrebbe anche non essere; in questo senso, affer- ma Malevicˇ, l’essere è il ‘Nulla’, ovvero il «che», lo spazio parados- sale proprio dell’opera d’arte, del tutto indipendente dal pensiero logico. Questo «che» è negazione del significato, inteso come signi- ficato logico, è negazione della rappresentazione, come rappresenta- zione logica e nello stesso tempo è affermazione del senso, in quan- to condizione dei significati possibili 17. Il «che» non può essere rico- nosciuto in relazione ad altro, ma solo per se stesso, e tuttavia por- ta in sé l’alterità, la differenza. Nel non significare nulla al di là di se stesso, l’evento – il «che» – è assolutamente singolare: accade sem- plicemente, si dà, si mostra, non come un mero oggetto per un sog- getto. Esso è il manifestarsi di qualcosa che, presentando se stessa, presenta l’altro, vale a dire si presenta come l’altro dell’essere oggetto di rappresentazione possibile. Per raggiungere infatti questo essere, che è il Nulla, Malevicˇ è uscito dal mondo degli oggetti e delle rap- presentazioni, aprendo uno spazio ‘assoluto’, in quanto spazio del- l’‘altro’. Così l’astrazione di Malevicˇ è il liberarsi dalla rappresentazio- ne per la presentazione: è questa l’autentica iconoclastia che rivela il profondo legame del suprematismo di Malevicˇ con l’icona. 12  E, se nel suo «mondo senza oggetto» il segno non è rappresenta- zione di qualcosa, ma rivela l’altro, ovvero il Nulla – in quanto Nulla di rappresentabile e di dicibile – questo Nulla non è da intendersi come nichilismo: non indica il silenzio, la fine della pittura, ma espri- me la consapevolezza che si deve continuare a dipingere perché il Nulla si riveli. È questa la radicalità della pittura di Malevicˇ. A differenza di quella di Malevicˇ, l’opera di Mondrian presenta uno spazio la cui assolutezza assume un preciso significato: tutto ciò che è, è perché si dà solo spazialmente. Per questo in Mondrian il se- gno non nasconde e in esso non ha luogo alcun ‘ritrarsi’; al contra- rio, nel segno si mostra l’essenza, l’Idea, e non a caso egli definisce l’astrattismo come la sola «arte concreta». In definitiva: nella pittura di Mondrian non si manifesta alcun ‘altro’, né alcun «contenuto in- teriore»; essa si risolve totalmente nella superficie del quadro, ossia in un piano assolutamente bidimensionale, nel quale non c’è alcuna fin- zione di profondità, ma ci sono soltanto linee in rapporto ortogonale che, tautologicamente, ‘dicono se stesse’. Così, se la ‘composizione’ di Mondrian è volta a ricostituire la totalità, tale ricomposizione si dà proprio e solo all’interno della rappresentazione pittorica, rappresen- tazione ‘assoluta’, in quanto indipendente da qualsiasi riferimento ad altro da sé. L’arte di Klee, pur interrogandosi su problemi non del tutto dis- simili, muove in direzione opposta rispetto a quella di Mondrian. Se infatti quest’ultimo vuole abolire l’elemento soggettivo – definito «tragico» – in nome dell’oggettività, Klee invece indaga proprio la presenza del mondo nel soggetto. L’oggettività di Mondrian è il ri- fiuto del mondo, in quanto particolarità e contingenza; Klee, al con- trario, non cerca una realtà più vera di quella sensibile, non cerca cioè una realtà fissa e immutabile, retta da leggi eterne, fuori dalla storia. Ciò a cui tende l’opera di Klee è ‘frugare’ nel profondo, nel- la vita sotterranea, immergendosi nel divenire delle cose stesse, nel- la genesi dei mondi possibili. Il compito dell’artista è infatti, a suo giudizio, quello di ritornare sulla creazione, portando avanti e tentan- do le vie di realtà possibili. Klee, in definitiva, non vede nel mondo qualcosa di già-concluso, ma ne ripercorre la genesi, e tale genesi si riferisce al sorgere della realtà nella percezione e quindi al costituirsi dell’essere in significa- to. I presupposti di tutto ciò vanno rintracciati nel fatto che è pro- prio sul piano della percezione che il mondo non si configura come l’insieme delle cose già date, ma come un continuo generarsi. Così l’immagine di Klee «richiama alla memoria» 18 possibilità diverse, so- miglianze e dissomiglianze, e queste trovano la loro ragione sul pia- 13  no dell’agire del pittore, che non prende le mosse da una logica pre- fissata, ma genera continuamente forme via via che procede, muoven- dosi appunto tra somiglianze e differenze. I processi di formazione di Klee sono questa sorta di «somiglianze di famiglia» – ancora una vol- ta nell’accezione wittgensteiniana – e, in quanto tali, escludono la de- finitività di ogni forma. Non a caso nell’opera di Klee la genesi dei mondi possibili riguarda l’essenza stessa della pittura: si tratta di mo- strare l’apparire di qualcosa che nessuna logica ha pre-visto, qualcosa che viene all’esistenza, apportando un «aumento di essere» 19 rispetto a tutte quelle altre possibilità che comunque sono presenti nel qua- dro come possibilità simultanee. Klee ha disvelato così l’essenza dell’opera d’arte: quest’ultima non è la rappresentazione di un fatto del mondo, ma è un evento nel qua- le si manifesta la possibilità di molteplici determinazioni del mondo, senza che tale possibilità sia riconducibile ad alcun principio logico di identità e di non-contraddizione. A ben vedere dunque tale evento, che l’opera costituisce, altro non è che il darsi del contingente, del ciò che è così ma poteva essere diversamente, in quanto condizione della stessa necessità logica che regola ciò che nel mondo è già-dato; si trat- ta di quel «che» – che si dia questo mondo e non un altro – il qua- le, come afferma Wittgenstein, precede quella logica che presiede al «come» del mondo. Si tratta insomma di quel senso che è la condi- zione dei tanti significati possibili: l’opera è la presentazione del darsi di questo senso, e non la rappresentazione del suo configurarsi come significato dato, di un senso che si può dunque soltanto sentire, stan- do al suo interno e non contemplare dall’esterno. Per questo la pit- tura di Klee ha il suo luogo d’elezione nel cuore stesso della creazio- ne, lì dove hanno origine tutte le cose. 1 Sul problema dell’immagine e del segno in genere nella riflessione filosofica medievale, si veda A. Maierù, «Signum» dans la culture médiévale, in “Miscellanea Mediaevalia”, Veröf- fentlichungen des Thomas-instituts der Universität zu Koln, Walter de Gruyter, Berlin – New York 1981; Id., Signum negli scritti filosofici e teologici fra XIII e XIV secolo, di imminen- te pubblicazione. 2 L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 1968, § 518 (ed. or. Philoso- phische Untersuchungen, Blackwell, Oxford 1953). 3 Ivi, § 522. 4 Ivi, § 523. 5 Ivi, § 531. 6 Ivi, § 532. 7 Ivi, § 524. 8 L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1968, 5.142 (ed. or. Tractatus logico-philosophicus, London 1922). 9 Nel Tractatus infatti i due termini si equivalgono, dal momento che «La proposizione è un’immagine della realtà» (ivi, 4.01). 10 Ivi, p. 87. 14  11 Ivi, p. 103. 12 Ivi, 5.552. 13 Ivi, p. 189. 14 Vedi su questo G. Di Giacomo, Dalla logica all’estetica. Un saggio intorno a Witt- genstein, Pratiche Editrice, Parma 1989. 15 L. Wittgenstein, Tractatus..., cit., 6.44. 16 Ivi, 6.45. 17 Si veda in proposito E. Garroni, Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano 1992, in part. pp. 245-270. 18 L’espressione è usata nel senso del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, §§ 89,90. 19 H. G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, pp. 168-196 (ed. or. Wahr- heit und Methode, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1972).Giuseppe Di Giacomo. Giacomo. Keywords: l’inspiegabile, aura; ‘impiegatura como spiegatura dell’inspiegabile” sensibile, imagine, icona, segno segnante segnato presentazione rappresentazione contenente contenuto formante formato, Tintoretto, Sartre, Venezia. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giacomo: impiegatura come spiegatura dell’inspiegabile” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758320754/in/dateposted-public/

 

Grice e Giametta – il volo d’Icaro e l’implicatura di Sanctis – filosofia italiana – Luigi Speranza (Frattamaggiore). Filosofo.  Grice: “Giammetta is a good’un, but you gotta be an Italian to appreciate him fully, or at least have gone to Clifton, as I did!” --  Grice: Giametta’s philosophy is full of Italianateness: ‘il volo d’Icaro,’ and then there’s his ‘Croceian heterodoxies,’ and most Italianate of all, the Dantean reference to Nisso, Chiron, and Folo in the “Inferno”! Sublime!” Cura Nietzsche a Firenze. Ha scritto saggi di critica "eterodossa" su Croce. Cura Cesare. È anche romanziere, estraneo a scuole o correnti, con storie dalla forte valenza filosofica e morale;  attitudine stilistica: la prosa di Giametta pare quella di un centauro: sorprendente incontro di letteratura e filosofia.  Nella "Trilogia dell'essenzialismo" (composta da “Il Bue squartato” --  L'oro prezioso dell'essere e Cortocircuiti), elabora un proprio sistema di filosofia erede del naturalismo rinascimentale. L’Essenzialismo è una nuova filosofia, fondata esclusivamente sulla natura, intesa nei suoi due aspetti, sia come “naturans” (cf. Grice, implicans, implicaturus)  sia come “naturata” (cf. Grice implicatum, implicatura, implicaturus, implicata). Grice: “The problem: ‘is ‘naturare’ a good verb?’ --. L’essenzialismo descrive la condizione umana come determinata dalla combinazione di due elementi eterogenei: dall’essenza di tutto ciò che esiste, che è divina, e dalle condizioni di esistenza, che sono spesso fin troppo diaboliche, a cui sono sottoposte tutte le creature. Il con-temperamento di questi due elementi (essenza ed esistenza), diverso in ogni individuo, spiega le ragioni per cui si afferma o si nega la vita, si è ottimisti o pessimisti...".  Alter opera: “Oltre il nichilismo” (Tempi moderni, Napoli); “Poeta e filosofo” (Garzanti, Milano); Palomar, Han, Candaule e altri. Scritti di critica letteraria, Palomar, Bari Nietzsche e i suoi interpreti. – cfr. ‘Grice interprete di se stesso” – “Erminio; o, della fede. Dialogo con Nietzsche di un suo interprete. Spirali, Milano); “Saggi nietzschiani” (La Città del Sole, Napoli); “Croce” (Bibliopolis, Napoli); “Il mondo” (Palomar, Bari); “Madonna con bambina e altri racconti morali, BUR, Milano); “Commento allo Zarathustra” Mondadori Bruno, Milano); “Filosofia come dinamita” BUR, Milano), “Croce, il pazzo” (La Città del Sole, Napoli); “Eterodossie crociane” (Bibliopolis, Napoli); “La caduta di Icaro” (Il Prato, Padova); Introduzione a Nietzsche. Opera per opera, BUR, Milano, Il bue squartato e altri macelli. La dolce filosofia, Mursia, Milano. L'oro dell'essere. Saggi filosofici, Mursia, Milano. Cortocircuito e implicatura -- Mursia, Milano. Adelphoe, Unicopli, Milano. Il dio lontano, Castelvecchi, Roma); “Tre centauri, Saletta dell'Uva, Napoli. Filosofi, Saletta dell'Uva, Napoli. Una vacanza attiva, Olio Officina, Milano. Grandi problemi risolti in piccoli spazi. Codicillo dell'essenzialismo; Bompiani, Milano. Colli, Montinari e Nietzsche, BookTime, Milano. Capricci napoletani. Pagine di diario (Marco Lanterna), OlioOfficina, Milano; “Il colpo di timpano, Saletta dell'Uva, Napoli); “Dio impassibile” (Babbomorto, Imola. Contromano, BookTime, Milano. Il bue squartato e altri macelli, Mursia, Milano.  La passione della conoscenza. Pensa Multimedia, Lecce,. Marco Lanterna, Le grandi oscurità della filosofia risolte in lampeggianti parole. Marco Lanterna, Contributo alla critica di Sossio (in Giametta, Capricci napoletani, OlioOfficina, Milano ).  Friedrich Nietzsche Arthur Schopenhauer Giorgio Colli Mazzino Montinari.  DE SANCTIS, Francesco. - Nacque il 28 marzo 1817 a Morra Irpina (oggi Morra De Sanctis, in prov. di Avellino), al centro di. una zona che fino a dieci anni prima era stata tutta feudale e di cui gli antichi feudatari ancora sfruttavano la scarsa ricchezza boschiva, mentre il potere era gestito direttamente dal clero e dai piccoli o medi proprietari terrieri, anch'essi strettamente legati alla Chiesa sul piano economico -, sociale e Politico. In questo ambiente il D. trascorse solo i primi nove anni, ma esso costituì sempre per lui un punto di riferimento, perché sempre egli lo ebbe presente come "polo reale" e, insieme, come "polo negativo" della storia: la realtà da cui partire e rispetto alla quale operare per tutte le conquiste del "progresso" (morale, culturale, civile).  La famiglia De Sanctis apparteneva a quel ceto di piccoli proprietari del Sud che produceva i preti, gli avvocati e i pochi medici. Avvocato era il padre del D., Alessandro (1787-1874), che però viveva del reddito della sua piccola proprietà, prima ampliata attraverso un "buon matrimonio" locale con Maria Agnese Manzi (1785-1847), poi progressivamente sempre più dissestata; preti i due zii Carlo e Giuseppe; medico lo zio Pietro (ed anche per costui la qualifica professionale servì soltanto a sostenere l'orgoglio del ceto dei "galantuomini"). Come molti esponenti del "galantomismo" meridionale, don Giuseppe e Pietro De Sanctis avevano aderito alla carboneria (in funzione patriottica e antifeudale): dopo aver partecipato ai moti carbonari del 1820-21, vissero in esilio per dieci anni, serbando intatto lo spirito antiborbonico, ma non il patrimonio. L'altro prete, invece, don Carlo, fece fortuna in Napoli come titolare di una stimata "scuola di lettere" (un ginnasio privato).  Nel 1826 il D. fu trasferito come ospite ed allievo presso lo zio Carlo.  Dai "ricordi" del D. (La giovinezza) si può ricavare l'elenco delle discipline da lui studiate, con fortissimo impegno, per tutta la durata del corso quinquennale tenuto dallo zio ("Grammatica, Rettorica, Poetica, Storia, Cronologia, Mitologia, Antichità greche e romane" e inoltre "l'Aritmetica, la Storia Sacra, il Disegno"), nonché una serie di notazioni sul metodo d'insegnamento tutt'altro che critico e innovativo ("Un grande esercizio di mernoria era in quella scuola, dovendo ficcarsi in mente i versetti del Portoreale, la grammatica di Soave, le Storie di Goldsmith, la Gerusalemme del Tasso, le ariette del Metastasio; tutti i sabati si recitavano centinaia di versi latini a memoria").  Poiché i cinque anni di studi "letterari" avevano un completamento canonico in due anni di studi "filosofici", nel 1831 fu iscritto alla scuola di don Lorenzo Fazzini, matematico e fisico illustre, di dichiarate convinzioni sensistiche. Per due anni, perciò, egli visse immerso nello studio di "Locke, Condillac, Tracy, Elvezio, Bonnet, Lamettrie", o del Genovesi, ma (e questo è un tratto molto importante, destinato a rimanere come atteggiamento mentale) nell'ottica "moderata" che era propria sia dell'ambiente familiare sia del maestro ("Il professore diceva che il sensismo en una cosa buona sino a Condillac, ma non bisognava andare sino a Lamettrie e ad Elvezio .... Voltaire, Diderot, Rousseau mi parevano bestemmiatori, avevo quasi paura di leggerli"). Lo stesso amalgama di aperture progressiste e di scarsa chiarezza ideologica fu nell'esperienza successiva (quella degli studi giuridici), in un'altra scuola privata, dove (con l'abate Garzia) il D. imparò ad apprezzare soprattutto i codici napoleonici, aprendosi così alla dialettica giuridica liberale. Questi studi avrebbero dovuto rappresentare il punto d'arrivo di tutto il lavoro precedente (poiché, scartata una primitiva ipotesi di carriera ecclesiastica, si pensava di far di lui un avvocato), ma a determinare una diversa scelta di vita intervenne una grave malattia dello "zio Carlo", in seguito alla quale il peso della scuola cadde sulle fragili spalle del D. diciottenne, ed egli divenne fonte di sostegno economico per la sua numerosa famiglia (dopo la morte della primogenita Genoviefa, restavano ben cinque tra fratelli e sorelle, che sempre in qualche modo gravarono su di lui, con molte preoccupazioni e ben poche gratificazioni affettive o sociali).  Un altro avvenimento, questo di qualche anno prima (1833), aveva preparato nel D. tale mutamento di interessi e di scelte: il suo ingresso nella "scuola di lingua italiana" del marchese Basilio Puoti: di un "maestro", cioè, che rappresentava in quel momento uno dei punti di riferimento più vivi della cultura napoletana e che presto prese a stimarlo, ad amarlo e a guidarlo. Ed è in ambito puotiano che nascono i primi scritti a stampa del D.: la sua volgarizzazione di un brano dell'Eudemia di Giano Nicio Eritreo (Discorso contro gl'ippocriti), apparsa nel 1835 sul Tesoretto, e la Dedicatoria (sua e del cugino Giovannino) al Puoti dell'edizione (da entrambi curata) del Volgarizzamento delle Vite de' santi Padri di D. Cavalca e del Prato spirituale di Feo Belcari (1836).  Non è da qui però che si può ricavare l'immagine complessiva di ciò che egli era alla fine del suo corso ufficiale di studi e all'inizio del suo primo magistero.  Certo, la competenza grammaticale e testuale e la sensibilità alle cose della lingua (alla lingua come sistema formale in cui penetrare con il rigore dell'intelligenza, della scienza e del gusto) erano allora e restarono per sempre una componente molto importante del D. studioso e maestro (questo va ribadito, anche per opporsi a una troppo lunga sottovalutazione critica dell'eredità puristica attiva all'interno della metodologia critica desanctisiana); ma dalla sua precedente esperienza culturale egli aveva ricavato anche un complessivo eclettismo nozionistico e ideologico, un evidente taglio "settecentesco" nell'impostazione del sapere e in più una vastissima pratica di letture, che egli sottolinea con forza nella Giovinezza e che si riverbera in tutta la sua opera. Ricostruendo dai suoi "ricordi", risulta che il D., diciottenne, aveva letto con profondo coinvolgimento (oltre a tanti latini, greci, filosofi, storici e giureconsulti) un'incredibile quantità di classici italiani maggiori e minori, dai trecentisti a Metastasio, e poi Parini, Alfieri, Verri, Monti, Foscolo, Manzoni, Berchet, Leopardi, e Fénelon e Voltaire, Young e Scott (ma la zona "moderna" ed "europea" andava rapidamente allargandosi: a poco più di venti anni, il suo patrimonio di lettura spaziava con sicurezza da Shakespeare a Richardson, da Milton e Klopstock a Chateaubriand, Lamartine e Hugo).  La professione dell'insegnamento diventò per il D. definitiva (grazie all'intervento del marchese Puoti) nel 1838-39, più o meno contemporaneamente nel settore della scuola pubblica (prima alla scuola dei sottufficiali; poi, dal 1841, al Collegio militare della Nunziatella, prestigiosa accademia militare borbonica) e in quello privato (con la "scuola di Vico Bisi", che il Puoti aprì per lui, affidandogli all'inizio i suoi allievi più giovani, poi di fatto - a grado a grado - la sua stessa funzione docente). A quest'ultima esperienza (di cui restano importanti documenti nei Quaderni discuola e una vasta rievocazione nella Giovinezza) si attribuisce, per tradizione ormai consolidata, la definizione di "prima scuola" del De Sanctis. Ma sarebbe forse più giusto comprendere nella definizione l'esperienza didattica complessiva del decennio 1838-48: il decennio che consacrò il successo indiscusso del D. maestro, il quale intanto (nelle diverse fasi della sua frenetica attività) metteva a punto il suo metodo e il suo atteggiamento critico, mentre andava costruendo intorno a sé rapporti affettivi e intellettuali che sarebbero rimasti centrali in tutta la sua vita, e mentre andava maturando fondamentali scelte ideologiche, filosofiche, politiche.  I numerosi Quaderni di scuola, che documentano il primo insegnamento desanctisiano, furono in massima parte scritti dagli alunni sotto dettatura del maestro e finalizzati a raccogliere il "succo" dei diversi corsi di lezioni, rispetto ai quali si configuravano come veri e propri libri di testo costruiti in parallelo con l'esperienza scolastica. Si tratta, perciò, di una testimonianza ampia e diretta del suo progressivo evolversi (a stretto contatto con la cultura del proprio tempo) dal purismo e dall'illuminismo moderato fino all'hegelismo, attraverso l'eclettismo, il neocattolicesimo, la partecipazione alla temperie vichiana e a quella dello storicismo romantico. In vista della loro funzione manualistica, i quaderni sono divisi secondo le "materie d'insegnamento" della scuola (alcune presenti fin dall'inizio, altre introdotte successivamente, come lo stesso D. testimonia nella Giovinezza). La grammatica fu l'insegnamento originario della scuola, ma i quaderni "grammaticali" più importanti che ci restano appartengono agli ultimi anni e si configurano perciò come approdo della ricerca desanctisiana in materia (con l'acquisizione dello storicismo romantico, del giobertismo, di Hegel). I più antichi tra i quaderni in nostro possesso sono quelli di Lingua e stile (1840-41), dove, dopo una serie di precetti di radice puristico-illuministica (con forte incidenza della "grande Enciclopedia" e in particolare di D'Alembert), troviamo documentato il primo impatto con il pensiero romantico tedesco (in particolare con F. Schlegel) e tracciata la prima sintesi di storia della letteratura italiana ("Sviluppo della letteratura italiana"). Questa ha già alcune caratteristiche che resteranno immutate nel D. maggiore (si muove in ambito postilluministico, con grande attenzione all'Europa e al presente letterario, ma presenta come modello privilegiato di scrittore "contemporaneo" il Manzoni, con un'accentuazione del punto di vista neocattolico, che andrà attenuandosi in seguito). Una lunga storia della poesia è nei quaderni dedicati alla Lirica (1841-42), in cui l'approdo è rappresentato dal Leopardi; i quaderni sul Genere narrativo (1842-43) hanno le loro fonti in Villemain, Sismondi, Voltaire, F. e A. W. Schlegel. Un salto di qualità notevolissimo si avverte nei corsi del 1843-44 (Estetica) e del 1844-45 (Estetica applicata), in cui l'esigenza di definire teoricamente i problemi dell'arte trova un sicuro sostegno nelle teorie estetiche di Gioberti, mentre Hegel fa la sua apparizione nel corso di Storia della critica (1845-46), che introduce una più stimolante rivisitazione della lirica. Nei due anni successivi egli presenta ai suoi allievi l'Estetica di Hegel nella traduzione francese di Ch. Bénard. Alla luce dei nuovi principî affronta inoltre l'esame della Letteratura drammatica (1846-47), soffermandosi a lungo sulle opere di Shakespeare. Dell'ultimo anno di scuola (1847-48) ci resta anche un quadernetto di Storia e filosofia della storia, che ha come punti di riferimento costanti Vico, Sismondi, Hegel e che aiuta a chiarire il senso dei "compendi" (autografi) della Storia d'Inghilterra di Hume e della Storia civile del Regno di Napoli di Giannone. Questo blocco di materiali storiografici conferma il livello criticamente e ideologicamente molto avanzato della ricerca desanctisiana alla fine della "prima scuola", attestando una visione laica della storia, un rigoroso rifiuto di ogni astrattismo e una forte rivendicazione della "concretezza" in ogni ambito d'analisi, nonché una chiara assunzione di metodo hegeliano in direzione progressista.Negli entourages di Puoti, della Nunziatella, della sua stessa scuola (e delle altre che dopo il 1830 fiorirono a Napoli, inaugurando il clima "filosofico" vichiano-hegeliano), il D. aveva finito per trovarsi al centro dell'intellettualità progressista napoletana, non si sa fino a che punto compromettendosi con le frange estremistiche di essa. Fatto sta che molti giovani della sua scuola si schierarono a combattere sulle barricate del maggio 1848 (dove fu ucciso quello che era certamente il più colto e il più ideologizzato fra tutti: Luigi La Vista) e che dopo quella data il D. fu in qualche modo implicato in una setta segreta rivoluzionaria di ascendenza musoliniana, l'Unità italiana, e in un attentato per il quale, tra gli altri, furono condannati a morte L. Settembrini e C. Poerio ("Si facevano i più matti deliri: porre una mina sotto Palazzo Reale pareva un gioco ... Fu la prima volta e sola che fui in convegni segreti"). "Espulso", perciò, dalla Nunziatella e da "ogni altra scuola anche privata" (come recitano i rapporti della polizia borbonica, che cominciava ad interessarsi di lui), nel 1849 il D. si rifugiò in Calabria presso un noto e attivo "patriota", il barone Francesco Guzolini, in casa del quale fu arrestato il 3 dic. 1850 con l'accusa di essere "uno dei principali agenti" della "setta diretta da G. Mazzini e da Ledru-Rollin". Trasferito a Napoli e rinchiuso in Castel dell'Ovo, subì due anni e mezzo di "carcere duro", e fu infine giudicato politicamente molto pericoloso ("attendibilissimo") e perciò bandito dal Regno e imbarcato per gli Stati Uniti (3 ag. 1853). 1 suoi allievi-amici napoletani (in particolare A.C. De Meis e D. Marvasi, a quel tempo già in esilio) lo aiutarono a sbarcare a Malta, per raggiungere il Piemonte, inserendosi nell'allora foltissima schiera degli illustri esuli politici ivi rifugiatisi (tra i meridionali, sono da ricordare: B. Spaventa, R. Bonghi, P. S. Mancini, S. Tommasi, M. d'Ayala, G. Nicotera, E. Cosenz).  Gli scritti del periodo calabrese e della prigionia rappresentano la punta massima della "spinta a sinistra" che segnò il pensiero desanctisiano a partire dal 1848. In Calabria furono elaborati due saggi (Introduzione all'Epistolario di G. Leopardi e Sulle opere drammatiche di F. Schiller), in cui l'interpretazione dei testi esita in senso fortemente politico (sia Leopardi sia Schiller segnano la fine di un'epoca, quella dell'individualismo, dalla quale va nascendo un'epoca nuova - dell'"Umanità" - impegnata in senso sociale). In Calabria fu probabilmente impostato anche un dramma in prosa, il Torquato Tasso, terminato negli anni di prigionia (il modello più vicino è quello goethiano; il linguaggio è leopardiano; evidente è l'identificazione personale-politica dell'autore con l'intellettuale perseguitato). Negli stessi anni il D. studiò la lingua tedesca e se ne servì sia per tradurre il Manuale di una storia generale della poesia di K. Rosenkranz, sia per leggere in lingua originale la Logica di Hegel, che ridisegnò in una serie di Quadri sinottici (praticamente una sintesi completa dell'intera opera). Ma il testo più interessante elaborato in Castel dell'Ovo (nel 1850-51) è certamente La prigione: un carme di 256 endecasillabi sciolti (l'unica prova poetica, se si esclude qualche poesia d'occasione), che rappresenta il punto massimo di "giacobinismo" realizzato dal D., con il rifiuto e la denuncia di ogni metafisica (un'inversione fortissima rispetto al neocattolicesimo degli anni della "prima scuola"), e con una proposta politico-ideologica chiaramente ispirata all'interpretazione "di sinistra" della filosofia di Hegel. Fortissima è anche la svolta di atteggiamento nei confronti del Leopardi: all'immagine sentimentalistica e scettica divulgata nel clima del primo romanticismo napoletano si sostituisce un'immagine combattiva e materialistica del poeta di Recanati (che offre, del resto, il modello stilistico e strutturale all'intero carme. costruito come storia metaforica del pensiero umano, in rivolta per la libertà, contro la tirannia, l'oscurantismo, l'ingiustizia sociale).  A Torino il D. rimase dal settembre 1853 al marzo 1856, in un vitale rapporto d'amicizia con De Meis e Marvasi e con B. Spaventa, ma molto isolato rispetto al potere politico e culturale. Il suo unico lavoro fisso fu, allora, l'insegnamento dell'italiano nell'istituto femminile della signora Eliott (dove si verificò un episodio d'innamoramento - per la giovanissima Teresa De Amicis - che riempirà d'illusioni e di malinconie gli anni successivi); ma ebbe anche alunni privati dal nome prestigioso (come Virgina Basco - futura destinataria del Viaggio elettorale -, Ainardo di Cavour, Luigi di Larissé). L'esperienza centrale del periodo torinese si realizzò, tuttavia, attraverso due corsi di "lezioni pubbliche" su Dante (1854 e 1855): conferenze organizzate dai suoi amici per soccorrerlo "nella dignitosa povertà dell'esilio" e che di fatto lo rivelarono alla cultura italiana.  Nel 1855 egli prese a collaborare alle appendici letterarie: sul Cimento di Torino pubblicò alcuni saggi fondamentali, vero e proprio punto d'arrivo della sua critica "militante". E allo stesso anno risale anche il primo episodio di giornalismo politico della sua vita: la pubblicazione, sul Diritto di Torino, di una serie di interventi contro il "murattismo" (cioè contro l'ipotesi di una sostituzione "diplomatica" della dinastia borbonica di Napoli con la discendenza di Gioacchino Murat), che rappresenta la prima fase di avvicinamento del D. alla monarchia sabauda (questa viene proposta come unico possibile strumento di unificazione della nazione, in un'ottica di "patriottismo costituzionale" cui, in seguito, egli resterà sempre sostanzialmente fedele).  Nel 1856, sempre per interessamento dei suoi compagni d'esilio, fu finalmente gratificato di un importante incarico pro- fessionale: l'insegnamento della letteratura italiana presso l'Istituto universitario politecnico federale di Zurigo, dove rimase fino al 1860. Gli anni di Zurigo furono anni di nostalgia e di isolamento (anni di réve, com'egli stesso diceva), ma produssero almeno due conseguenze molto importanti: l'elaborazione di lezioni che sarebbero rimaste come una pietra miliare della sua ricerca critica (soprattutto su Dante, Petrarca e la poesia cavalleresca) e il contatto con ambienti culturali e politici di vera e propria avanguardia in Europa (Wagner e Matilde Wesendonck, Moleschott, gli Herwegh, Burckhardt, Vischer, ecc.) che egli ebbe modo di conoscere e di valutare criticamente (per esempio, prendendo le distanze dall'irrazionalismo di Wagner e di Schopenhauer molto prima che le mode irrazionalistiche toccassero l'Italia, o cercando di capire i limiti concreti del ribellismo dei mazziniani quando Mazzini era ancora un mito in Italia).  Dei corsi danteschi di Torino non restano manoscritti, ma ciascuna lezione fu ricostruita su appunti di allievi (Marvasi, D'Ancona), in vista di una non mai realizzata pubblicazione in volume. Le conferenze torinesi (undici di argomento teorico, diciannove dedicate all'Inferno, cinque al Purgatorio) sviluppano presupposti romantico-hegeliani, con particolare riguardo ai problemi dell'"unità" e della "forma" del poema di Dante. Nell'esaltazione "passionale" dell'Inferno, emergono le grandi figure alla cui analisi è legata la fama popolare del D. dantista (Farinata, Francesca, Ugolino) e si afferma il taglio monografico che sarà proprio dei maggiori saggi desanctisiani. Semplificando la materia dei corsi, e prolungandola fino a percorrere tutta la Divina Commedia, il D. insegnò Dante a Zurigo dal 1856 al 1859 (anche di queste lezioni ci resta la ricostruzione da appunti). Da tale lavoro deriva tutto ciò che egli pubblicò successivamente su Dante e sul suo tempo (ivi compresi i capitoli della Storia, che ne tesaurizzano le idee-forza), ma i risultati metodologici più avanzati da lui raggiunti negli anni d'esilio sono testimoniati dai contemporanei scritti giornalistici (che furono poi pubblicati, a partire dal 1866, tra i Saggicritici). Il Pier delle Vigne (1855) è addirittura una lezione torinese trascritta, per LaNazione di Firenze, da A. D'Ancona: la celebre lettura del canto esalta i "grandi caratteri" e le "grandi passioni" dei personaggi e ne analizza le sfumature, le "situazioni", i contrasti; il saggio La Divina Commedia(versione di Lamennais), anch'esso del 1855, dichiara la fine dell'antico metodo retorico e il rifiuto del metodo "storico" di oscuola francese"; quello intitolato Carattere di Dante e sua utopia (1856) individua il "centro" della grandezza poetica di Dante nella sua "anima di fuoco" in cui "si riverbera l'esistenza in tutta la sua ampiezza". Il punto d'arrivo della ricerca zurighese (molto più problematica di quanto appare nelle lezioni) è suggerito nel saggio del 1857 Dell'argomento della Divina Commedia, che afferma da una parte il rifiuto del sistema e dall'altra la validità degli strumenti d'analisi hegeliani, a stretto contatto col testo letterario (un approdo, in sostanza, per il D. definitivo).  Negli scritti letterari d'argomento contemporaneo o d'occasione (destinati a giornali torinesi e anch'essi in massima parte raccolti poi nei Saggi), il D. esplicò, negli anni d'esilio, il suo impegno "militante", ma sempre a stretto contatto con i problemi di metodo critico che sono al centro dell'insegnamento dantesco. Il più esplicitamente politico di questi saggi è L'ebreo di Verona (febbraio 1855), che consacrò, a livello nazionale, la sua fama di polemista laico e liberale (l'autore del romanzo, il gesuita A. Bresciani, ignorando le conquiste del cattolicesimo manzoniano, ripropone la religione in funzione antiliberale e antiprogressista: il suo ruolo storico, dopo la sconfitta del '48, è "aggiungere i suoi colpi codardi alle mannaie del carnefice"). La militanza critica passa sempre attraverso una precisa idea (romantico-hegeliana o posthegeliana) della letteratura. In Satana e le Grazie (1855) essa è espressa con molta chiarezza: di fronte al poemetto di G. Prati "la fantasia rimane inerte: il cuore riman freddo", perché "in questo lavoro non vi è creazione e quindi non vi è fantasia ... Prati ha una viva immaginazione, e per questa facoltà è forse il primo poeta di second'ordine che sia oggi in Italia"; del resto, i suoi testi poetici hanno tutti i limiti e i difetti della "declamazione rettorica". E questa non è un difetto esclusivo degli scrittori moderati: essa è condannabile anche quando sia posta al servizio delle più ardite analisi politiche, come nella Beatrice Cenci di F. D. Guerrazzi (1855), avvolta nel "vecchio repertorio" delle "metafore" e dei "luoghi comuni". C'è un solo poeta italiano che abbia attinto i livelli della "grande poesia" nel mondo moderno, dice in un importantissimo saggio, e questo è Leopardi. Il saggio s'intitola Alla sua donna. Poesia di G. Leopardi ed è, probabilmente, lo scritto leopardiano più importante del D., che, con parametri schilleriani e byroniani, traccia qui una straordinaria immagine di poeta laico, interprete della civiltà contemporanea perché capace di farsi "critico e filosofo" e di far "scintillare" la poesia dalla "meditazione". Ma, a parte l'eccezione leopardiana, il clima del presente letterario fa temere un ritorno alla identificazione tra poesia e retorica (Sulla mitologia - Sermone di V. Monti, 1855). A questa pericolosa tendenza il D. oppone la difesa di Alfieri contro i critici francesi contemporanei (Veuillot e la Mirra, Giulio Janin, Janin e Alfieri, Vanin e la Mirra), ed evidentemente questa polemica ha un profondo retroterra politico: la rivalutazione della fase "eroica" del classicismo settecentesco, nella cultura "rivoluzionaria" dell'intera Europa. Perciò questa rivalutazione riguarda anche Foscolo (Giudizio del Gervinus sopra Alfieri e Foscolo e "Storia del secolo decimonono" di G. G. Gervinus, 1855) e la polemica colpisce anche un critico come A. de Lamartine ("Cours familier de littérature" par M. de Lamartine, 1857). Nello stesso ambito il modello di V. Hugo viene proposto come sostanzialmente positivo (Triboulet e "Le contemplazioni" di V. Hugo, 1856) ed è possibile perfino il recupero di un classico manierato come Racine, perché capace di creare dei grandi personaggi drammatici (La "Fedra" di Racine, 1856). In questo ambito, infine, si configura una delle prime, ma già precise professioni di "realismo" del D. critico (Saint-Marc Girardin, 1856): "Il sentimento astratto non è poesia, non è cosa vivente ... La poesia dee riprodurre la realtà "vivente" ... Il poeta dee rappresentarci un uomo vivo", perché questo, in quanto tale, "ègià un perfettissimo personaggio poetico".  La progressiva conquista di un punto di vista "realistico" con cui guardare al testo letterario è registrata dai ricchi appunti che ci restano (a cura di V. Imbriani) delle lezioni zurighesi sul Poema epico. Proprio in questa sede il D. usa per la prima volta il termine "realismo" (ancora nuovo nella critica francese più avanzata da cui lo deriva), mentre ribadisce il rifiuto del "sistema" hegeliano come strumento di critica letteraria e conferma la validità degli strumenti d'approccio al testo ricavabili dall'estetica hegeliana. Il messaggio filosofico più complessivo, nell'ultima fase del suo esilio e del suo vitale contatto con le avanguardie europee, fu affidato dal D. al dialogo Schopenhauer e Leopardi (1858). Anche questo testo ha una struttura leopardiana (ispirata alla provocatoria ironia delle Operette morali), ma s'interessa a Leopardi solo nell'ultima parte, dedicando molto spazio all'illustrazione del pensiero di Schopenhauer, indicato come il liquidatore di un'epoca (quella "dell'Ottantanove", "del Trenta", "del Quarantotto") che egli considera "un'illusione, o piuttosto ... una imbecillità generale". La filosofia di Schopenhauer è, perciò, "nemica della libertà, nemica dell'idee, nemica del progresso"; in politica, egli ripropone "lo Stato monarchico, la nobiltà, il clero, i privilegi", nega la libertà di stampa e odia Hegel come "corrompiteste" (la moda di Schopenhauer in Europa è, in sostanza, un grave sintomo di regresso storico: la sua tardiva riscoperta equivale a un'abiura di tutto il progressismo europeo). A prima vista, il rifiuto dell'ottimismo ideologico accosta Leopardi a Schopenhauer; ma, in realtà, c'è tra i due una vera e propria opposizione, e Leopardi è tanto interno alla fase "eroica" (progressista e rivoluzionaria) dell'umanità, quanto ad essa è estraneo e ostile Schopenhauer. La differenza non è solo nel "materialismo" di Leopardi (opposto allo "spiritualismo" di Schopenhauer) o nelle sue scelte di stile "inamabile" (mentre Schopenhauer si affida al fascino della retorica), ma anche e soprattutto nell'effetto di lettura che Leopardi produce come uomo e poeta veramente "grande" (egli "non crede al progresso, e te lo fa desiderare non crede alla libertà, e te la fa amare , è scettico, e ti fa credente").  Dopo le speranze e le delusioni della seconda guerra d'indipendenza, sulla scia dell'impresa dei Mille, il D. lasciò improvvisamente Zurigo e il politecnico e ritornò a Napoli, dove svolse un ruolo, probabilmente importante, nella mediazione che portò il "partito garibaldino" (e lo stesso Garibaldi) ad accettare il plebiscito "piemontese". Per nomina di Garibaldi, appunto in fase di preparazione del plebiscito annessionistico, fu governatore della provincia di Avellino e si mostrò attivissimo organizzatore del consenso politico, della guardia nazionale locale, della lotta al banditismo (che era già esploso violento in Alta Irpinia, recuperando antiche radici sanfediste). Subito dopo, fu direttore dell'Istruzione a Napoli e, in quindici giorni (tra l'ottobre e il novembre del 1860), tesaurizzando tutte le precedenti esperienze di riforme liberali degli studi (in particolare quella del 1848), impostò una vera e propria rifondazione della scuola napoletana. All'università chiamò ad insegnare illustri rappresentanti della cultura liberale (da Spaventa a Ranieri, a Bonghi, a Imbriani, a Villari, a Mancini); in sostituzione del liceo gesuitico istituì un ginnasio-liceo statale; per la formazione dei maestri elementari (sua grande preoccupazione di progressista ottocentesco) deliberò l'istituzione di scuole "normali" in tutte le province della luogotenenza (non senza ragione, il 1860 restò per sempre nei suoi ricordi come il periodo eroico della sua vita).  Eletto deputato al primo Parlamento nazionale unitario, fu ministro della Istruzione pubblica con Cavour e con Ricasoli (dal marzo 1861 al marzo 1862), continuando sulla linea già tracciata a Napoli, ma senza ripetere l'exploit del 1860, nell'ambito della troppo vasta e ibrida realtà nazionale (in pratica, rinunciando .all'ambizione di produrre una "legge di riforma" della scuola italiana, si limitò ad estendere con decreti all'Italia unita la legge Casati). Ciò che resta di più indicativo del primo periodo di attività come ministro è proprio la linea di tendenza teorizzata nel programma iniziale e vanificata dall'opposizione dei gruppi reazionari ("Noi abbiamo decretato la libertà in carta. Sapete, o signori, quando questa libertà cesserà di essere una menzogna? Quando noi avremo effettivamente uomini liberi; quando della plebe avremo fatto un popolo libero ... Provvedere all'istruzione popolare sarà la mia prima cura"). In questo ambito si pone anche la battaglia per istituire una rete capillare di "scuole tecniche" e "istituti professionali", nonché l'impegno per la qualificazione degli studi scientifici (ma molto avversate furono anche in questo campo le più importanti scelte progressiste, come quella che portò il materialista e "rivoluzionario" J. Moleschott ad insegnare fisiologia nell'università di Torino).  Dopo questo incarico ministeriale, pur sempre rieletto in Parlamento (con la sola parentesi di un anno, tra il 1865 e il 1866), il D. rimase estraneo e in forte opposizione rispetto ai nuovi gruppi di potere (le "consorterie", che vedeva via via riavvicinarsi ai "retrivi" e ai "codini"), su una linea mediana di progressismo monarchico e antirivoluzionario. Su questa linea si pose il giornale L'Italia (che egli diresse dal 1863 al 1867), in appoggio al gruppo emergente della Sinistra costituzionale, che nel 1865 ottenne proprio nel Sud il suo primo successo elettorale. L'appassionamento garibaldino ai tempi di Mentana, la firma del manifesto di opposizione crispina e un importante discorso di denuncia contro il riemergere del clericalismo (in campo ideologico, politico ed economico) segnarono, nel 1867, i punti più alti della sua partecipazione politica.  Nel 1863 aveva sposato, a Napoli, Maria Testa dei baroni Arenaprimo, ma il matrimonio agiato (da cui non nacquero figli) non fu sufficiente a sconfiggere la precarietà economica in cui tutta la sua vita si svolse, né fornì uno stabile nutrimento al suo complesso bisogno di réve e di comunicazione sentimentale. All'interno di una sempre meno inconfessata delusione politica e personale, egli tornò, quindi, agli studi che gradualmente ridivennero protagonisti della sua vita: dal 1866 al 1872 pubblicò in volume i Saggi critici (dove raccolse gli scritti giornalistici dell'esilio), il Saggio critico sul Petrarca, la Storia dellaletteratura italiana, i Nuovi saggi critici.  Il Saggio critico sul Petrarca (1869) ripropone un corso di conferenze tenuto a Zurigo nell'inverno 1858-59, con "pochi mutamenti" e con una "introduzione" del 1868. Esso si articola in dodici capitoli (tre dedicati alla personalità del poeta e al suo "mondo" culturale; gli altri strutturati come lettura tematica e analisi del Canzoniere) ed è finalizzato a fornire un preciso punto di vista per l'interpretazione del testo petrarchesco, sulla base della teoria elaborata dal D. a partire dalla "prima scuola" e consolidata appunto negli anni dell'esilio (tesaurizzazione dell'illuminismo, del romanticismo, dell'hegelismo; rifiuto del metodo "sistematico" e dei suoi esiti panlogistici; rivendicazione della "poesia" come "forma uscita dal più profondo della vita reale" e come "sostanza vivente", secondo i grandi modelli di Omero, Dante, Ariosto, Shakespeare). In quest'ottica, Petrarca va riscoperto, pur con i limiti che la cultura romantica ne aveva segnalato, e va rivalutato per quel che lo separa dal petrarchismo (cioè dalla sua riduzione a modello "rettorico" e "platonico"). La "poesia" di Petrarca va, quindi, individuata in particolari "situazioni" liriche (soprattutto nella "malinconia" e nei momenti di "abbandono" sentimentale), pur tra gli ostacoli frapposti dall'educazione "rettorica" e da una visione "spiritualistica" della vita. Particolare interesse è rivolto alla figura di Laura (cui sono intitolati quattro capitoli): Laura è "la creatura più reale ... che il Medioevo poteva produrre", e la sua "realtà", tutta interiorizzata nella poesia del Canzoniere, non si spegne, ma si ravviva dopo la morte del personaggio (proprio in questa "situazione" Petrarca tocca le sue rare punte di "poesia sublime").  La Storia della letteratura italiana (1870-71) nacque come testo scolastico ed è, infatti, una sintesi didattico-pedagogica di materiali in gran parte preelaborati secondo una precisa metodologia critica (quella appena illustrata a proposito del saggio petrarchesco) e utilizzati per un progetto complessivo di informazione-formazione (il progetto dell'"educazione nazionale") nel quale convergono tutte le attese (ed anche i timori) del D. "letterato" e "politico" agli inizi degli anni Settanta. Divisa in venti capitoli, la Storia disegna una linea di svolgimento della letteratura italiana che va dal XIII al XIX sec. secondo il "principio direttivo" (ufficialmente dichiarato dal D. in uno dei suoi ultimi scritti) della "successiva riabilitazione della materia" (di "un graduale avvicinarsi alla natura e al reale", in parallelo con i progressi della scienza, della cultura, del costume, della vita politica, della stessa morale). Ma la finea risulta tutt'altro che retta e univoca: sia perché l'ipotesi del "graduale" svolgimento della storia letteraria verso mete progressive è fortemente contraddetta dalle fasi di stasi, d'involuzione, di "ritorno"; sia perché continuamente emergono distanze o divaricazioni tra livello storico e livello letterario (e qui s'innesta la forte rivendicazione della "forma" come valore specifico del testo letterario); sia, infine, perché (in base alla predilezione per il metodo monografico e per l'analisi testuale) il racconto della Storia alterna lunghe soste con rapidissimi voli, grandi indugi analitici con improvvise e fortissime elisioni. La Storia procede, perciò, per grandi nodi tematici e testuali, muovendosi in un sistema "a spirale" di allusioni e richiami tra fenomeni, autori, epoche, con un disinibito oscillare del linguaggio dal familiare e dal basso all'oratorio e al patetico, non senza momenti di carattere mimetico a ciascun livello di scrittura (sono queste, del resto, le caratteristiche peculiari del suo composito stile). Seguendo il cammino della Storia a partire dai primi capitoli, troviamo anzitutto ISiciliani come "scuola poetica ... feudale e cortigiana", legata alla potenza della corte sveva e destinata a spegnersi prima che "venisse a maturità", radicandosi nelle "classi inferiori". Proprio questo processo di radicamento si analizza nel ben più complesso capitolo intitolato I Toscani, ma centrato soprattutto sulla cultura bolognese (e sulla "scienza" che si sviluppò in senso antifeudale presso l'università di Bologna). Il punto d'arrivo di questa storia del "mondo lirico" medievale è Dante. Il breve capitolo dedicato a La lirica di Dante la definisce come "la voce dell'umanità a quel tempo": Dante rappresenta (vichianamente) l'epoca della "fantasia", ed è "la prima fantasia del mondo moderno". Coi capitoli IV e V il discorso ritorna alle origini, per esaminare La Prosa e I Misteri e le Visioni del sec. XIII, che esprimono "l'idea religiosa penetrata ne' costumi e nelle istituzioni", ma che restano a livello di fase letteraria preparatoria dell'"aureo" Trecento. A questo secolo è dedicato un capitolo molto puotiano (attento ai Fioretti, al Cavalca e al Passavanti. ai testi di s. Caterina da Siena e alla "maravigliosa cronaca" di D. Compagni), che però anch'esso converge, romanticamente, verso la grande figura protagonistica di Dante. La trecentesca "commedia dell'anima" esprime, infatti, l'ordito culturale da cui nascerà La "Commedia" (cap. VII), con la sua "base ascetica" e la sua radicata abitudine alla "allegoria". Ma tutto ciò rappresenta (secondo l'ottica tipica del D. dantista) la "falsa poetica" attraverso e nonostante la quale Dante crea un'opera somma di poesia (una vasta analisi del poema tende proprio a mostrare come, per virtù di passione e di poesia, esso possa esprimere, "ancora pregno di misteri, quel mondo che, sottoposto all'analisi, umanizzato e realizzato, si chiama oggi letteratura moderna"). Il capitolo defficato al Petrarca (Il "Canzoniere") è breve, ma fondamentale: Petrarca non è solo un "artista" pieno di "grazia" e di "malinconia", ma è il rappresentante di una nuova generazione culturale che, dopo Dante, "volgeva le spalle al Medio Evo ... e si affermava popolo romano e latino". In questa scelta, secondo il D., c'è una profonda ambivalenza (da una parte c'è il "rinnovamento" inteso come nascita della coscienza laica; dall'altra la letterarietà come "erudizione", "imitazione", abito retorico), in cui si muoverà, per lunghi secoli, la storia della letteratura italiana. E in un'ottica così conflittuale il Decamerone (cap. IX) appare come "l'apoteosi dell'ingegno e della dottrina" in dimensione laica, ma anche come espressione di un "niondo borghese" che, liberatosi dai vincoli dello spiritualismo, non riesce ad innalzarsi, al di là del "comico", fino alle "alte regioni dello spirito". Il Cinquecento (cap. XII) è il secolo che vede l'arte assoldata al mecenatismo, pur quando potrebbero porsi le condizioni storiche per un avvicinamento tra cultura e "popolo" (ad esempio, nella Firenze medicea) e pur quando sono già stati raggiunti grandi vertici di raffinatezza letteraria (ad es., nelle Stanze del Poliziano, cap. IX). Infine il Seicento, simboleggiato dal Marino (cap. XVIII), produce in letteratura "idilli" ed "elegie", "voluttà" e "musica", mentre l'intellettuale italiano si fa "estraneo al movimento della cultura europea e a tutte le lotte del pensiero", stagnando "in un classicismo e in un cattolicesimo di seconda mano". Nell'arco fra '300 e '600, e sempre in chiave antifrastica, sono tanti gli episodi letterari che il D. analizza, e ad alcuni, comunemente ritenuti minori, dedica interi capitoli: a F. Sacchetti il cap. X (L'ultimoTrecento), a La Maccaronea il cap. XV, a Pietro Aretino il cap. XVI. L'opera dell'Ariosto (L'Orlando furioso, cap. XIII) è esaminata secondo i parametri zurighesi: inserita nella serialità storica, essa si propone come "sintesi dell'intero Rinascimento", mentre l'"ironia" e il "riso scettico" di Ariosto si manifestano espressione di un "secolo adulto" (cioè divenuto capace di critica e ormai maturo per la libertà "borghese", pur nell'accettazione di fatto della realtà "cortigiana"). T. Tasso (cap. XVII), autore-simbolo dell'ambivalenza ideologica e sentimentale, offre l'occasione per un discorso altrettanto ambivalente sulla Contro-riforma e sul suo significato storico-culturale. Il poema del Tasso è lo specchio della "ipocrita" cultura controriformistica italiana e i suoi valori letterari vanno individuati in senso opposto rispetto a quello programmatico e ufficiale: non nella "falsa" religiosità, ma nell'"idillio", nell'"elegia", nella "voluttà" (Tasso è, perciò, accostato al Petrarca, nella tradizione di storiografia politica risalente a Sismondi e Ginguené). Ma proprio al centro dell'arco storico fra '300 e '600 c'è una punta alta, un grande ritratto in positivo: quello di Machiavelli (cap. XV), che riesce a costruire una valida ipotesi di "rinnovamento", sia opponendo alla teocrazia "l'autonomia e l'indipendenza dello Stato" ("un presentimento dei nostri ordinamenti costituzionali"), sia rinnovando il "metodo" della conoscenza, col rifiuto della "teologia" e del principio di "autorità" (per lui "la verità è la cosa effettuale, e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti"). Evidentemente, il ritratto di Machiavelli (liberato da tutte le riserve moralistiche precedentemente espresse su di lui) è un caso-limite d'interpretazione "tendenziosa" di un autore: se è scelto a simboleggiare, all'inizio del '500, la politica e la scienza moderna, è perché il D.-maestro che scrive la Storia nel 1870 (l'anno della presa di Roma, a cui esplicitamente, proprio nel cap.XV, egli fa riferimento) vuol proporre ai giovani un preciso progetto di produzione letteraria che leghi indissolubilmente letteratura, "scienza" e politica laica (e che indichi anche lo strumento di una lingua letteraria "precisa e concisa", antiretorica e antimusicale, che pure a Machiavelli viene attribuita con qualche forzatura). Nel nome di Machiavelli, dunque (anche se a distanza di 4 capitoli), si apre la parte "moderna" e propositiva della Storia, che consiste nei due ultimi lunghissimi capitoli, intitolati La nuova scienza (cap. XIX) e La nuova letteratura (cap. XX). Il rapporto tra essi è derivativo: la "nuova letteratura" non potrà nascere se non dalla "scienza", che ha come obiettivo "il progresso e il miglioramento dell'uomo", e che ha come principale strumento la libertà intellettuale e politica. Perciò, "i primi santi del mondo moderno" (i primi intellettuali capaci di "lottare, poetare, vivere, morire" per la "fede" nel progresso) furono Bruno, Telesio, Campanella, Galilei; e poi Sarpi, Vico, Giannone; infine Beccaria e Filangieri, con alle spalle il pensiero laico europeo, da Bacone alla Rivoluzione francese. Come s'innesta in questo clima la "nuova letteratura"? Dopo l'affascinante ma "superficiale" opera di Metastasio, l'innesto si realizza con la scelta illuministica di utilizzare "cose e non parole". Il primo autore "vero" della "nuova letteratura" è Goldoni (ma con dei limiti di superficialità). Il primo "uomo nuovo" è Parini, e poi vengono Alfieri e Foscolo (col Monti personaggio negativo), ma con dei limiti negli eccessi e nelle scelte di stile retorico. L'Ottocento (pur con la sua tensione d'impegno e di sperimentazione) non ha ancora offerto, in Italia, modelli attendibili per il cammino da percorrere. Il nostro futuro letterario è, perciò, incerto ma la direzione da seguire è chiara: "convertire il mondo moderno in mondo nostro, studiandolo, assimilandocelo e trasformandolo, "esplorare il proprio petto" secondo il motto testamentario di G. Leopardi, questa è la propedeutica alla letteratura nazionale moderna".  Nella seconda edizione dei Saggi critici (1869) e poi nei Nuovi saggi critici (1872) il D. inserì alcuni scritti (in gran parte composti per la Nuova Antologia) che precedono o accompagnano la stesura della Storia e che nei confronti di essa risultano in diverso modo illuminanti. Il più antico è Una "Storia della letteratura italiana" di C. Cantù (1865), che, recensendo l'opera appena pubblicata, la denuncia come fondata su "pregiudizi" e "superficiale dottrina" e su valori che nulla hanno a che fare col letterario (perciò l'inevitabile sottovalutazione di autori come Machiavelli, Ariosto, Leopardi, Alfieri, Giusti, Berchet, cui si contrapporrà, appunto, la Storia desanctisiana). Fondamentale, per chi indaghi sulla genesi della Storia, è il saggio Settembrini e i suoi critici (1869), in cui il D. condanna il grave limite del contenutismo radicale settembriniano, così come aveva condannato il contenutismo cattolico-moderato del Cantù, ed afferma che una vera storia della letteratura dovrebbe essere un lavoro interdisciplinare (con contributi di "filosofia, critica, arte, storia, filologia") al quale la cultura italiana non è ancora attrezzata (risalendo queste considerazioni al periodo iniziale di stesura della Storia, esse dimostrano la problematicità del D. nei confronti della sua opera maggiore, e la profonda consapevolezza della "parzialità" di essa). Più collegati alla componente ideologica "positiva" della Storia risultano L'"Armando" di G. Prati e L'ultimo dei puristi del 1868. Nel primo si denuncia la fine dei "tempi sentimentali" e si afferma, per il presente, la necessità di un impegno tutto reale e concreto ("il materialismo è uscito trionfante dal seno stesso del mondo hegeliano" e impone la "serietà della vita terrestre"); nel secondo, la stroncatura di un purista attardato (F. Ranalli) dà luogo a una attenta e intelligente rievocazione del Puoti e della sua scuola, che fu "bandiera" di "libertà, scienza, progresso, emancipazione" nei primi decenni del secolo, ma che (a parte il valore sempre vivo del "metodo" puotiano) esaurì il suo ruolo storico alla vigilia della fase rivoluzionaria del '48 (al presente, ogni nostalgia puristica risulta storicamente e politicamente ingiustificata). Anche i grandi saggi danteschi del 1869 (Francesca da Rimini, Il Farinata di Dante, L'Ugolino di Dante) nacquero in margine alla Storia, sia come ripresa del tema-Dante (e, in particolare, delle riflessioni zurighesi), sia come esempio di quel lavoro di "monografia" che il D., all'epoca, considerava storicamente e scientificamente più valido delle "sintesi". I personaggi danteschi prediletti dalla cultura romantica ed hegeliana sono letti rispettivamente in chiave di "amore" e "pietà femminile" (Francesca), orgoglio politico (Farinata), complessità e profondità di sentimenti antinomici (Ugolino), nell'ambito di un'attenta, colta, sensibile lettura testuale (era in questo, appunto, che il D. voleva proporsi come modello di critica "attuale", "paziente" e costruttiva, ed è appunto questo l'aspetto dei Saggi che va ancor oggi rivendicato). Il saggio L'uomo del Guicciardini(1869) ripropone l'antitesi (presente anche nella Storia) fra Machiavelli, precursore del nazionalismo moderno, e Guicciardini, il cui "particulare" rifiuta ogni "vincolo religioso, morale, politico" (ma la vera funzione del saggio si esplicita nell'ultima frase, di amara denuncia della situazione politica presente: "L'uomo del Guicciardini vivit, immo in Senatum venit, e lo incontri ad ogni passo").  Nel 1871 venne affidata al D. la cattedra di letteratura comparata nell'università di Napoli, dove egli tenne quattro corsi annuali, dal 1872 al 1876 (è questa l'esperienza nota come "seconda scuola napoletana", che produsse quattro gruppi di lezioni, rispettivamente su Manzoni, Scuola cattolico-liberale, Scuola democratica, Leopardi). Contemporaneamente pubblicò una seconda raccolta di saggi (Nuovi saggi critici, Napoli 1872) e inaugurò quella serie di conferenze e articoli sugli orientamenti della letteratura contemporanea in chiave realistica che sarebbe continuata, per dieci anni, fino alla vigilia della morte. Tra il 1874 e il 1875 realizzò un nuovo momento d'impegno politico attivo, in occasione delle elezioni che prepararono l'avvento al potere della Sinistra costituzionale (in particolare, nel gennaio 1875 appoggiò, con un'avventurosa campagna elettorale, la propria candidatura - difficile e piuttosto equivoca - nella provincia d'origine, e ne rivisse il ricordo in una serie di cronache giornalistiche pubblicate prima sulla Gazzetta di Torino e subito dopo in volume, col titolo Un viaggio elettorale, 1876).  Al 1877 data il terzo e ultimo episodio importante di giornalismo politico desanctisiano: ancora un impegno battagliero, ma interno alla Sinistra (contro la gestione trasformistica e antidemocratica del potere da parte di Depretis e Nicotera), condotto soprattutto sulle colonne del Diritto di Roma. Nel 1878 Cairoli riaffidò al D. il ministero della Pubblica Istruzione che egli tenne fino al 1880, riproponendo, dopo 17 anni, i problemi della "scuola di tutti" (la "scuola per l'infanzia", la "scuola primaria", la formazione dei maestri) e quelli dell'istruzione tecnica, in un'ipotesi di cultura "scientifica" da sostituire alla "cultura retorica"; ma ancora una volta fu sconfitto nei punti più qualificanti del suo programma (la traccia più concreta che ne rimase fu l'inserimento dell'educazione fisica tra le materie d'insegnamento: un omaggio alla rivalutazione positivistica dell'uomo fisico). Nel 1880, colpito da una grave malattia agli occhi, lasciò l'incarico ministeriale e dedicò i suoi ultimi anni di vita a un lavoro di riflessione autobiografica (le Memorie che andò dettando alla nipote Agnese) e critica (soprattutto ripresa e riorganizzazione della riflessione petrarchesca e leopardiana). Morì a Napoli il 29 dic. 1883, lasciando incompiuti i suoi ultimi lavori, cui, pur tra le sofferenze della malattia, si dedicò sino alla fine.  Come tutti i principali episodi dell'insegnamento desanctisiano, anche le lezioni della "seconda scuola napoletana" sono documentate da riassunti (redatti in genere da F. Torraca), rivisti e ufficialmente accettati dall'autore. Il primo corso (gennaio-marzo 1872) fu dedicato a Manzoni e rappresenta il punto d'arrivo di una riflessione iniziata all'epoca della "prima scuola", sviluppata a Zurigo e rimasta sempre centrale nella ricerca del D., pur senza trovare una sistemazione editoriale. In queste lezioni le posizioni ideologiche e gli strumenti di ricerca sono molto cambiati rispetto agli anni della "prima scuola", ma non cambia il giudizio di valore. La grandezza del Manzoni è identificata ora nella sua capacità di "calare l'ideale nel reale": da lui escono tre "grandi idee critiche che hanno importanza universale": la "misura dell'ideale", il "vero" positivo e storico, la "forma" diretta e "popolare". Manzoni rappresenta la massima realizzazione della letteratura "moderna" in Italia e le "scuole letterarie" non segnano alcun progresso né sul piano dell'arte né su quello dell'ideologia. Negli anni successivi. il D. analizzò, appunto, lo svolgimento della letteratura in Italia a partire dal Manzoni, dividendola (secondo una traccia già seguita da Emiliani Giudici, da Settembrini e da altri) nei due filoni cattolico e laico, definiti rispettivamente "scuola liberale" e "scuola democratica". Alla Scuola liberale fu dedicato il secondo anno di lezioni universitarie (1872-73), con risultati di giudizio fortemente militanti: l'impegno dei cattolici per l'"educazione popolare" non offre risultati validi in arte e svolge un ruolo (più o meno esplicito) d'insegnamento reazionario ("nuovi Arcadi" sono Grossi, Carcano, Tommaseo, Cantú; Gioberti e Rosmini ripropongono una dimensione "metafisica" della storia e della politica; D'Azeglio resta attardato su una vecchia e superata immagine di letteratura retorica). Un interessante excursus riguarda, però, la letteratura meridionale dell'Ottocento: poeti poco noti (come D. Mauro, V. Padula, P. P. Parzanese, N. Sole) vengono esaminati con interesse e simpatia. Il corso del 1873-74 fu dedicato alla Scuola democratica, e anche in quest'ambito il giudizio globale è negativo: Mazzini, Rossetti, Berchet, Niccolini non possono fornire il modello della "nuova letteratura". Si conferma così l'esito perplesso e sostanzialmente pessimistico che caratterizza le ultime pagine della Storia e l'affermazione del principio del "realismo".  I saggi più importanti elaborati dal D. nell'ultimo decennio di vita riguardano, appunto, le tematiche del realismo (alcuni di essi furono raccolti nella 2 ed. dei Nuovi saggi critici, del 1879). Dopo la prolusione universitaria La scienza e la vita (1872), sono da ricordare: Ilprincipio del realismo (1876), Studio sopra Emilio Zola (1878), Zola e l'Assommoir (1879), Il darwinismo nell'arte(1883). L'assunto complessivo è che il "realismo" auspicato dal D. non si può confondere né col materialismo, né col positivismo, né col naturalismo di Zola (il quale, però, è molto valido come scrittore: lo studio a lui dedicato è particolarmente vasto e attento). La letteratura del "reale" dev'essere (cfr. Manzoni) "l'ideale calato nel reale", e cioè una costruzione "eticac forza morale impegnata per rinnovare la società, contro l'individualismo, la reazione, l'autoritarismo sempre in agguato.  Nell'ultima fase della sua vita il D. non si limitò a teorizzare l'importanza e la "modernità" del realismo in letteratura, né ad inserirsi con diversi strumenti critici all'interno del problema per farne emergere i pericoli (o quelli che a lui sembravano tali sul piano morale e politico), ma volle fornire delle prove concrete di narrativa realistica, utilizzando un registro di linguaggio "familiare", che già aveva usato nelle sue lettere alla moglie (con estrema semplificazione sintattica e con frequenti coloriture dialettali) e che, del resto, non era ignoto ai momenti più colloquiali della sua critica. L'operetta narrativa che elaborò in funzione di esempio e modello fu Un viaggio elettorale (1876): una serie di cronache del tragicomico attraversamento della provincia natia da lui compiuto a sostegno di una candidatura politica poco chiara e poco fortunata. Nella cronaca, il bozzettismo locale si alterna col patetico dei ricordi d'infanzia o delle esortazioni politiche; ma il senso del testo va ricercato più nella sua funzione che nei suoi esiti, né si può dimenticare che nella storia del realismo italiano esso si colloca quasi in contemporanea con Nedda (1874), quattro anni prima di Giacinta (1879), sei anni prima dei Malavoglia (1881).  Alla vigilia della morte (sempre su materiali autobiografici e sempre in ambito di racconto dal vero in linguaggio familiare), il D. perseguì un progetto molto più ambizioso: la stesura di un'autobiografia, della quale, però, non riuscì a portare a termine che la prima parte (egli l'aveva intitolata Memorie; P. Villari ne pubblicò il frammento realizzato col titolo La giovinezza). Così come ci resta, il frammento narra l'esperienza del D. dalla nascita fino al 1843, e consta di due nuclei narrativi essenziali. Il primo è legato ai personaggi bozzettistici della famiglia paesana e degli ambienti napoletani alti e bassi (preti, professori, avvocati, ragazze da marito, giovani avventurieri, vecchie serventi) e, al centro di essi, l'autore pone il personaggio "comico" di se stesso, pieno di tic, di timidezze, di chiusure, di sogni. Il secondo nucleo è legato, invece, alla formazione culturale e all'esperienza della "prima scuola". Qui il tessuto è molto serio e impegnativo: il D. (utilizzando ricordi, ma soprattutto vecchi "quaderni di scuola") vuole offrire un importante contributo alla critica di se stesso, mostrando come siano andate formandosi le linee di forza del suo metodo. In ciò la Giovinezza non è del tutto veritiera (molti sono gli imprestiti ideologici e teorici che il vecchio D. fa al se stesso giovane maestro di Vico Bisi), ma resta, comunque, il fascino di un clima in cui rivivono Puoti e Leopardi, la scoperta del romanticismo, di Vico e di Hegel, l'autoritarismo borbonico e le utopie libertarie del primo '800 napoletano.  Nell'ultimo anno d'insegnamento all'università di Napoli (1875-76), argomento delle lezioni era stato Leopardi: dagli appunti delle lezioni il D. ricavò, negli ultimi mesi di vita, uno Studio su G. Leopardi, che segue il poeta nelle diverse tappe della vita, dell'opera, del pensiero, secondo lo schema della "biografia critica" di taglio positivistico. La biografia rimane, però, incompiuta, chiudendosi al livello dei "nuovi idilli" (come il D. definisce i grandi canti del 1827-29), e proprio in questo tentativo di riduzione di Leopardi alla misura dell'idillio lo Studio è stato foriero di gravi equivoci e fraintendimenti nella successiva critica leopardiana, mentre nell'ultimo D. si giustifica come tentativo di leggere Leopardi in quella stessa chiave di "realismo" che si era rivelata funzionale per il Manzoni e il suo romanzo. Celebri, proprio in quest'ambito, le riflessioni sulle figure femminili dell'"idillio" leopardiano ("Silvia non è questa o quella donna; è il primo apparire della giovinezza in un cuore femminile", ecc.); ma, a parte questo, lo Studio non aggiunge molto né alla conoscenza del Leopardi né alla critica del De Sanctis. In sostanza, il meglio su Leopardi era stato detto nel saggio del 1855 (ma non vanno dimenticate certe importanti considerazioni della "prima scuola", né il ruolo interessantissimo, problematico e antidogmatico, che Leopardi ha nelle ultime pagine della Storia). Altri saggi leopardiani appartengono alla fase e al clima di ricerca della Storia (La prima canzone di G. Leopardi, 1869; Le nuove canzoni, 1877; La Nerina, 1877). In quest'ultimo, ancora un esame (forse uno dei più importanti) della donna nella poesia leopardiana: "La vita è tutta e solo in terra... La morte è l'altro motivo tragico di questa concezione ... Il motivo della Silvia è lo sparire. Il motivo della Nerina è il riapparire".  Lasciando da parte la fortuna del D.-maestro (un vero e proprio appassionamento suscitato nei giovani allievi di Napoli, Torino e Zurigo), per ricostruire la storia del dibattito sul D. bisogna muovere da un dato obiettivo di iniziale "sfortuna" critica: lo scarto fra i tempi della genesi dei testi maggiori (a partire dagli anni '40) e quelli della loro pubblicazione (intorno al '70). A causa di questo scarto, egli apparve subito come un idealista "attardato" (e perciò più meritevole di giudizi sommari che di attenzione testuale), nel clima di positivismo dominante in cui i suoi scritti si offrivano ad un'interpretazione globale (per es. F. D'Ovidio era convinto che il D. ignorasse "la pazienza della ricerca e dello studio", e G. Carducci gli attribuiva "difetto" di "cognizione dei fatti e dei documenti"). A sintomatico che, in un dibattito così fortemente pregiudiziale, venisse del tutto ignorato non solo il tipo di formazione del D., ma anche l'ultimo decennio della sua produzione, con la dichiarata opzione "realistica" e con la forte propensione per lo scientismo. Ma proprio a causa della pregiudizialità del dibattito di fine secolo (rilevata, fin d'allora, da qualche attento osservatore straniero, come A. Gaspary), il D. poté divenire, attraverso l'elaborazione crociana, lo strumento chiave per il rilancio di un metodo critico antipositivistico e per la progressiva riaffermazione culturale e ideologica dell'idealismo nei primi decenni del '900. Al Croce spetta, certo, il merito di aver "costretto" la cultura italiana a riconoscere nel D. un protagonista dell'800 (la sua appassionata cura di editore e di studioso del D. durò per oltre mezzo secolo); ma, contemporaneamente, Croce prese a "rielaborare" il "pensiero" del D., fino a propome la riduzione a teoria del "puro" gusto estetico (G. A. Borgese, che nel 1905 presentò il D. come punto di arrivo di "tutte le esperienze della critica romantica in Italia", fu, in realtà, uno dei primi e più autorevoli interpreti di questa tendenza riduttiva; scarsa fortuna ebbe, d'altra parte, una proposta di G. Gentile per un "ritorno al De Sanctis" di segno fascista).  Proprio dall'interno della scuola crociana (dai cosiddetti "crociani di sinistra") fu prospettata, tuttavia, l'esigenza di un dibattito diversamente impostato, volto al recupero della complessità della figura del D.: mentre L. Russo rivendicava "il significato pedagogico ed etico" dell'opera (1928) e la sua "intelligenza dell'arte" come notalità" (1931), C. Muscetta sottolineava l'importanza della sua "poetica realistica" (1931), la sua "serietà" culturale (1934), la sua visione della letteratura come "vita morale" (1940). Importanti, in questa fase, furono anche gli studi di W. Binni sull'"amore del concreto" che nutrì tutta la ricerca desanetisiana e che problematizzò i suoi rapporti con l'hegelismo (1942) e di G. Getto sulla Storia, "in cui la letteratura era studiata nel suo autonomo valore e insieme nel suo necessario legame con tutta la vita e la cultura" (1942). Infine, presentando una importante antologia di scritti desanctisiani, nel 1949, G. Contini dichiarò, a nome di un'intera generazione di studiosi, l'uscita dall'"equivoco formalistico" della "riduzione crociana" del D. e la necessità di tentare finalmente una comprensione filologica dei testi desanctisiani, con tutta la loro problematicità anche irrisolta.  Ma lo spostamento ideologico dell'intero dibattito critico mosse dalla pubblicazione dei Quaderni di Gramsci (Letteratura e vita nazionale, Torino 1950) e dalla sua celebre affermazione che "il tipo di critica letteraria proprio della filosofia della prassi è offerto dal De Sanctis". Da qui appunto si partì per un'ampia verifica dell'"impegno" del D., del carattere "militante" della sua critica, dei "saldi convincimenti morali e politici" che, secondo Granisci, la sostanziavano: era una verifica, evidentemente, molto correlata al bisogno della cultura d'incidere sul presente storico, dopo e contro il "disimpegno" teorizzato, nel ventennio fascista, da crociani e non crociani. Questo momento di dibattito produsse, fra l'altro, le iniziative editoriali, cui si deve, oggi, la possibilità di leggere il D. su testi di alto livello scientifico: le due collane avviate nel 1952 da Einaudi e Laterza (e dirette rispettivamente da C. Muscetta e L. Russo) per la pubblicazione delle "opere complete". E non a caso, negli stessi anni, apparivano fuori d'Italia (dove la letteratura desanctisiana è scarsissima) due importanti interventi critici: quello di R. Wellek (che nella sua grande Storia della critica moderna del 1957 presentò il D. come autore della "più bella storia che sia stata mai scritta di una letteratura") e quello di P. Antonetti (che nel 1963 ne pubblicò in Francia una documentata e intelligente biografia culturale). Né a caso, negli anni '50-'60, furono condotte indagini nuove e approfondite sui legami tra il D. e la cultura dell'800 (M. Mirri, S. Landucci, G. Oldrini).  Alla fine degli anni '70, in un clima culturale ancora una volta mutato, e ormai insofferente dell'insistenza sull'"impegno politico del letterato", si affermò l'esigenza di uscire dall'ottica di un D. modello per il presente, e di sottolineare (accanto ai "valori" ormai definitivamente affermati) la distanza storica e le diversità culturali che ci separano da lui. Tra gli interpreti di questa esigenza ricordiamo A. Asor Rosa e parecchi dei partecipanti al convegno napoletano del 1977 su "De Sanctis e il realismo". Con maggiore cautela, le più recenti occasioni offerte dal centenario desanctisiano (F. D. nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983 e F. D.: un secolo dopo, a cura di A. Marinari, ibid. 1985) si sono mosse su una linea di attenzione ai testi, di chiarificazione e approfondimento della vasta (ancora aperta e interessante) problematica desanctisiana, di tricollocazione" storico-culturale nel mutevole orizzonte di cultura europea in cui tutta la sua ricerca si mosse.  Il materiale manoscritto, ormai quasi tutto edito, si trova (tranne una parte di quello epistolare, sparso un po' in tutta Italia) a Napoli (Bibl. nazionale, bibl. di casa Croce e bibl. del dott. F. De Sanctis Jr.) e ad Avellino (Bibl. prov. S. e G. Capone). Restano inediti quasi solo i voll. dell'Epistolario, relativi agli anni 1870-1883.  Le raccolte degli scritti, dopo le incomplete ediz. Cortese (1931-38) e Barion (1933-411, sono oggi quella laterziana (Bari, negli "Scrittori d'Italia", a cura di L. Russo, incompleta) e quella einaudiana (Torino, Opere di F. De Sanctis, a cura di C. Muscetta, priva soltanto degli ultimi due voll. dell'Epistolario). La raccolta laterziana comprende i seguenti voll.: La letteratura italiana nel sec. XIX, I (A. Manzoni, a cura di L. Blasucci, 1953); II (La scuola liberale e la scuola democratica, a cura di F. Catalano, 1953); III (G. Leopardi, a cura di W. Binni, 1953); Storia della letteratura italiana, a cura di B. Croce 19121, 19659; Memorie, lezioni e scritti giovanili, I, a cura di F. Brunetti, 1962; Saggio critico sul Petrarca, a cura di E. Bonora, 1954; Saggi critici, a cura di L. Russo, 19521, 19656; La poesia cavalleresca, a cura di M. Petrini, 1954. La raccolta einaudiana, invece, comprende: Lagiovinezza (memorie postume seguite da testimonianze biografiche di amici e discepoli), a cura di G. Savarese, 1961; Purismo illuminismo storicismo (scritti giovanili, frammenti di scuola e lezioni), a cura di A. Marinari, 1975; La crisi del romanticismo (scritti del carcere e primi saggi critici), a cura di G. Nicastro e M. T. Lanza, 1972; Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, 19551, 19672; Saggio sul Petrarca, a cura di N. Sapegno e N. Gallo, 1952; Verso il realismo (prolusioni e lezioni zurighesi sulla poesia cavalleresca, frammenti di estetica, saggi di metodo critico), a cura di N. Borsellino, 1965; Storia della letteratura italiana, a cura di N. Sapegno e N. Gallo, 19581, 19663; La letteratura italiana del secolo XIX, Manzoni (a cura di C. Muscetta e D. Puccini, 1955), La scuola cattolico-liberale e il romanticismo a Napoli (a cura di C. Muscetta e G. Candeloro, 19531, 19722), Mazzini e la scuola democratica (a cura di C. Muscetta e G. Candeloro, 19531, 19612), Leopardi (a cura di C. Muscetta e A. Perna, 1960); L'arte la scienza e la vita (nuovi saggi critici, conferenze e scritti vari), a cura di M. T. Lanza, 1972; Il Mezzogiorno e lo Stato unitario (scritti e discorsi politici dal 1848 al 1870), a cura di F. Ferri, 1960; I partiti e l'educazione della nuova Italia (scritti e discorsi dal 1871 al 1883), a cura di N. Cortese, 1970; Un viaggio elettorale(seguito da discorsi biografici, dal taccuino parlamentare e da scritti politici vari), a cura di N. Cortese, 1968; Epistolario: 1836-1856 (a cura di G. Ferretti e M. Mazzocchi Alemanni, 1956); 1856-1858 (a cura degli stessi, 1965); 1859-1860 (a cura di G. Talamo, 1965); 1861-62(a cura dello stesso, 1969); 1863-1869 (a cura di A. Marinari, G. Paoloni e G. Talamo, in corso di stampa). Ottime antologie degli scritti del D. sono quelle curate da G. Contini (Torino 1949) e da N. Sapegno e N. Gallo (Milano-Napoli 1961).  Fonti e Bibl.: Per la bibl. delle opere e della critica, cfr. B. Croce, Gli scritti di F. D. e la loro varia fortuna, Bari 1917 (con integrazioni di C. Muscetta, in F. De Sanetis, Pagine sparse, Bari 1944) ed E. Pesce, Supplemento alla bibliografia desanctisiana 1944-65, Napoli 1965. Sono da tener presenti inoltre le rassegne: M. Tondo, La lezione di D. Rassegna degli studi dell'ultimo venticinquennio, Bari 1976; P. Tuscano, F. D. a cento anni dalla morte, in Cultura e scuola, LXXXVI (1983), pp. 32-45; G. Oldrini, La storiografia desanctisiana dell'ultimo decennio, nel miscellaneo F. D. - Un secolo dopo, a cura di A. Marinari, Bari 1985.  Per la biografia, vanno ricordati anzitutto i seguenti saggi d'insieme: E. Cione, F. D., Messina-Milano 1938 e Milano 19442; F. Montanari, F. D., Brescia 1939; P. Antonetti, F. D. (1817-1883). Son évolution intellectuelle, son esthétique et sa critique, Aix-en-Provence 1963; E. Croce-A. Croce, D., Torino 1964. Per gli anni della formazione, sono da tener presenti i seguenti scritti: B. Croce, Introd. a F. De Sanctis, Teoria e storia della letteratura, Bari 1926; A. Marinari, Introd. a Purismo illuminismo storicismo cit., nonché Le correzioni del Puoti ai primi due discorsi di scuola del D., in Belfagor, XV (1960), pp. 584-601; Id., Alcuni problemi di cronologia desanctisiana, Firenze 1963 e Il giovane D. lettore di P. Giannone, in Letteratura e critica, Studi in onoredi N. Sapegno, II, Roma 1975, pp. 643-80; G. Savarese, Primo tempo del D. e altri saggi, Bologna 1971; P. Luciani, L'"estetica applicata" di F. D., Firenze 1983; C. Muscetta, D. e i generi letterari in F. D. nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983, pp. 363-84. Per gli anni della prigionia e dell'esilio, sono indispensabili: E. Cione, F. D. dallaNunziatella a Castel dell'Ovo, Napoli 1933; B. Croce, Il soggiorno in Calabria, l'arresto e la prigionia di F. D., Napoli 1917 (ora in Aneddoti di varia letteratura, IV, Bari 1954); F. D. a Torino, a cura di C. Vernizzi, Torino 1984; M. Guglielminetti-G. Zaccaria, F. D. e la cultura torinese (1853-56) e R. Martinoni, Gli anni zurighesi (1856-60), entrambi in F. D. nella storia della cultura cit. (dello stesso Martinoni, cfr. anche La puzza della birra e del tabacco. Gli anni zurighesi di F. D. [1856-60], in L'Almanacco 1983, Bellinzona 1983, pp. 112 s.); O. Besomi, D. "in partibus transalpinis", ma non "infidelium": letture zurighesi, in Per F. D., Bellinzona 1985, pp. 89-118. Per gli anni 1836-60 sono da tener presenti i voll. dell'Epistolario (con le rispettive introduzioni). Lo stesso vale per gli anni successivi (almeno fino al 1869). Per il soggiorno del D. a Firenze, cfr. G. Spadolini, D. e Firenze capitale, in F. D. - Un secolodopo cit., pp. 437-43. Per il D. ministro, cfr.: G. Talamo, F. D. politico e altri saggi, Roma 1969; S. Soldani, Scuola e lavoro: D. e l'istruzione tecnico-professionale, inF. D. nella storia della cultura cit., pp. 451-516; G. Ciampi, Il governo della scuola nello Stato postunitario, Milano 1983, ad Indicem; A. Santoni Rugiu, Aspetti dell'ideologia formativa di F. D., nonché S. Valitutti, Il pensiero e l'azione scolastica di D. ed E. Bottasso, D. ministro e la formazione delle prime tre biblioteche nazionali (tutti in F. D. - Un secolo dopo cit.). Per la morte e le onoranze funebri, cfr. In memoria di F. D., a cura di M. Mandalari, Napoli 1884 (rist. anast., Napoli 1983, a cura della Comunità montana "Alta Irpinia").  Tra gli studi critici di carattere generale, cfr.: B. Croce, F. D., in Letteratura della nuova Italia, I, Bari 1956 (per gli altri scritti desanctisiani del Croce, cfr. G. Savarese, Croce e D., in Rassegna della letteratura italiana, CXLIV [1967], pp. 158-174; L. Russo, F. D. e la cultura napoletana, Venezia 1928 (poi Firenze 1956, ora Roma 1983); C. Muscetta, F. D., inLetteratura italiana. I minori, IV, Milano 1962 e in Letteratura italiana. Storia e testi, VIII, 1, Bari 1975, ibid 19854; M. Fubini, F. D. e la critica letteraria, in Romanticismo italiano, Bari 19653; M. Mirri, F. D. politico e storico della civiltà moderna, Messina-Firenze 1961; S. Landucci, Cultura e ideologia di F. D., Milano 1963 (sul quale cfr. M. Mirri in Critica storica, III [1964] e la risposta di S. Landucci, in Belfagor, XX [1965]); A. Asor Rosa, L'idea e la cosa: D. e l'hegelismo, in Storia d'Italia (Einaudi), IV, 2, Torino 1975, pp. 850-78 e Il "diagramma De Sanctis"... e il nostro, in Letteratura italiana (Einaudi), Torino 1982, I, pp. 22-26. Utilissime sono anche tutte le introduzioni ai singoli volumi delle edizioni cinaudiana e laterziana. Sono da tenere inoltre in grande considerazione le osservazioni di I. Svevo (in Racconti. Saggi. Pagine sparse, Milano 1968, p. 800" e G. Debenedetti (Commemorazione del D.), 1934 (ora in Saggi critici, 2a serie, Milano 1971), nonché quelle di W. Binni (L'amore del concreto e la "situazione" nella prima critica desanctisiana [1942], ora in Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze 1951, pp. 99-116), G. Contini (Introd. a F. De Sanctis, Scelta di scritti critici, cit.); G. Getto (Storia delle storie letterarie, Milano 1942, ad Indicem), C. Dionisotti (Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, ad Indicem) e R. Wellek (Storia della critica moderna, IV, Bologna 1969, pp. 123-55). Molto ricche sono le miscellanee: F. D. e il realismo, con Introd. di G. Cuomo, Napoli 1978; F. D. nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Bari 1983; F. D. tra etica e cultura ("Riscontri", VI, 1-2), a cura di M. G. Giordano, Avellino 1984; D. - Un secolo dopo, a cura di A. Marinari, Bari 1985; Per F. D., Bellinzona 1985; F. D.: recenti ricerche, a cura dell'Ist. per gli studi filosofici, Napoli 1989.  Per i rapporti fra il D. e la cultura napoletana dell'800, cfr. gli scritti di G. Oldrini (in particolare, La cultura filosofica napoletana dell'800, Bari 1973 e gli interventi apparsi nelle varie miscellanee già citate). Per quelli con l'hegelismo, oltre allo scritto già cit. del Binni, cfr.: N. Giordano Orsini, D., Hegel e la situazione poetica, in Civiltà moderna, XIV (1942), pp. 138 ss.; M. Rossi, Sviluppi dello hegelismo in Italia (F. D., S. Tommasi, A. Labriola), Torino 1957; Il primo hegelismo italiano, a cura di G. Oldrini, Firenze 1969; M. T. Lanza, D. e Hegel, in F. D. nella storia della cultura, cit., pp. 155-84; S. Landucci, cit.  Tra i tanti altri saggi, cfr. pure: M. Aurigemma, Lingua e stile nella critica di F. D., Ravenna 1968; F. Battaglia, Parva desanctisiana, Bologna 1970; B. Moretti, La lingua di F. D., Firenze 1970; A. Prete, Il realismo di D., Bologna 1972. G. Malcangi, F. D. deputato di Trani, con Introd. di A. Lapenna e A. Marinari, Bari 1972; A. Marinari, Il "viaggio elettorale" di F. D. Il "dossier Capozzi" e altri inediti, Firenze 1973; F. Ghilardi, Il superamento del kantismo e l'esperienza politica di F. D., Napoli 1974; G. Guglielmi, Da D. a Gramsci: il linguaggio della critica, Bologna 1976; N. Celli Bellucci-N. Longo, F. D. e G. Leopardi tra coinvolgimento e ideologia, Roma 1979; M. Dell'Aquila, Giannone, D., Scotellaro. Ideologia e passione in tre scrittori del Sud, Napoli 1981; G. Nencioni, F.D. e la questione della lingua, Napoli 1984.  Per i rapporti con le altre letterature europee: per la Francia cfr. F. Neri, Il D. e la critica francese, 1922 (ora in Saggi, Milano 1964); P. Antonetti, F. D. et la culturefrançaise, Firenze-Parigi 1964; U. Piscopo, D. e la culturafrancese, in F. D. - Un secolo dopo cit.; per la Germania, cfr.: G. Bach, La cultura tedesca in F. D., in Studi e ricordi desanctisiani, Avellino 1935; F. Matarrese, Goethe e D., Bari 1975; M. Westhoff, Schiller e D., Roma 1977; M. Mazzocchi Alemanni, La "fortuna" di D. in Germania, in F. D. nella storia della cultura cit., pp. 547-76; per il mondo angloamericano, cfr.: A. Lombardo, D. Shakespeare e la letteratura inglese, in F. D. - Un secolo dopo cit., pp. 549-68; D. Della Terza, D. e la cultura anglosassone, in F. D. nella storia della cultura cit., pp. 527-45, e D. negli Stati Uniti d'America, in F. D. - Un secolo dopo cit., pp. 651-63.  Per la fortuna critica dell'opera del D., cfr. L. Biscardi, F. D., Palermo 1960; S. Romagnoli, F. D., in Iclassici italiani nella storia della critica, a cura di W. Binni, II, Firenze 19612 ; F. De Castro, F. D. nella critica italiana del secondo dopoguerra, in Problemi, LIX (1980); N. Longo, Il "ritorno" di D. Storia, ideologia, mistificazione, Roma 1980. Cfr. pure, al riguardo, le rassegne di G. Oldrini, M. Tondo e P. Tuscano citate a proposito degli scritti bibliografici.Sossio Giametta. Giametta. Keywords: il volo d’Icaro, l’implicatura di Croce – eterodossie crociane – Cosi parlo Zoroaster; cosi implico!”—cortocircuito e implicature, la pazzia di Croce, il pazzo di Croce – la caduta di Icaro? No, il vuolo di Icaro! – Colli e Montanari! --   Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giametta: cortocircuito ed implicatura” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51716489340/in/photolist-2mRAqeJ-2mQxzwE-2mQDDPt-2mQMcti-2mQMcsB-2mQHU1f-2mQK7Hp-2mQMcs1-2mQMcr4-2mQK7Gn-2mQDDQq-2mQMcsG-2mQHTYB-2mQHU15-2mQK7GY-2mQNoEv-2mQK7HQ-2mQNoHr-2mQK7J1-2mQDDPd-2mQHU1a-2mQHTZo-2mQMct8-2mQDDPP-2mQHTYG-2mQNoEF-2mQMcqT-2mQNoFx-2mQK7Hz-2mQHTYr-2mQMcqN-2mPkhvE-2mN1wvj/

 

Grice e Giandomenico – l’apertura semantica e l’implicatura di Galilei – filosofia italiana – Luigi Speranza (Carunchio). Filosofo. Grice: “I like Giandomenico; he makes excellent commentary on Bernard’s controversial, deterministic idea of life – from amoeba to man, in Russell’s words --.” Grice: “Surely this has connections with my method in philosophical psychology, from the banal to the bizarre, which actually starts with philosophical BIO-logy!” Grice: “Giandomenico shows that while Bernard never thought he had to provide a ‘conceptual analysis’ of ‘vivente,’ he does propose this or that criterio: for one he tries to prove that self-nourishment cannot be the criterion – but I’m not sure what the positive he poes, if any!” Si laurea con Corsano all’istituto di filosofia di Bari.Insegna a Brindis, Lecce, Foggia, e Bari. Studia l'insegnamento di Filosofia  nei Licei. Studia filosofia della comunicazione. Fonda il Laboratorio di Epistemologia Informatica e il Centro per la Metodologia della Sperimentazione. Studia pragmatica computazionale e Informatica umanistica. Membro della Società Filosofica Italiana. Si occupato della storia della fisiologia, la storia sdell’informatica, l’informatica pragmatica, teoria della comunicazione, teoria dell’implicatura conversazionale, e teoria del segno. Pubblicato uno studio su Tommasi, che aderì alla sperimentazione. Ha trattato il contributo scientifico di Pende.  Analizza i fondamenti dell'informatica nei suoi rapporti con le teorie filosofiche, mettendo in evidenza le strutture epistemiche reciprocamente significative. “Filosofia ed informatica”, Inoltre, ha sperimentato applicazioni delle tecnologie informatiche nella ricerca umanistica.  Le ricerche condotte nell'ambito dell'informatica linguistica si sono proposte l'analisi linguistico-computazionale. L'obiettivo è stato quello di andare al di là del livello “lessicografico” – il filosofese – o terminologia filosofica, como ‘implicatura’ -- e di implementare una rete sintattica automatica con l'ausilio di software dedicati.  Il primo progetto ha riguardato l'analisi della conversazione nel “Dialogo sopra i due massimi sistemi” di Galileo. Usando un software, creato dal Laboratorio di Epistemologia Informatica di Bari, ricava un “vocabolario” (filosofese, terminologia filosofica, vocabolario filosofico) galileiano, procedere ad una prima valutazione dello stile ed avviare l'analisi “semantica” di un “concetto” utilizzato da Galileo. Ha raccolto, infine, questi spunti in una riflessione sui linguaggi dell'artificiale, intersecati con quelli della vita, sulle nuove tecnologie della comunicazione e sull'etica.  Altre opera: “Tommasi, filosofo, Bari, Adriatica; “Filosofia e sperimento” Bari, Adriatica; “Scienza, filosofia, letteratura, Verona, Bertani; “ Introduzione a Charcot, Fasano, Schena); “Epistemologia informatica, Bologna, Transeuropa); “ Filosofia e informatica. Bari: G. Laterza); “L'uomo e la macchina trent'anni dopo: Filosofia e informatica, Società Filosofica Italiana, Bari, G. Laterza); “Dall'offerta formativa alla creazione di un nuovo lavoro: la laurea umanistica” in Convegno per il corso "Informatica umanistica” BARI: G. Laterza); “Laboratori di psicologia tra passato e futuro, Lecce, Pensa Multimedia); “La prosa di Galileo: la lingua la retorica la storia, Lecce, Argo); “La filosofia come strumento di dialogo tra le culture, Bari, Mario Adda Editore); La Società Filosofica Italiana, Roma, Armando,. Note  M. Triggiani, Cultura, un fronte unico. Università e Comune per una rete dei contenitori, in Gazzetta del Mezzogiorno, 3 A.L., Dopo la laurea faccio il master in orecchiette, in Specchio. Supplemento di La Stampa, F. Di Trocchio, Dall'archivio al futuro, in L'Espresso,de Ceglia, l. Dibattista, Semi di storia della scienza.  Milano, Franco Angeli.  L’esperire immediato e l’esperienza mediata Affronteremo in questa lezione il difficile rapporto che s’instaura tra il mondo-della-vita e quello della scienza, tra esperienza diretta ed immediata ed organizzazione razionale. Husserl ritiene che le scienze moderne (matematiche e naturali) hanno bisogno di un nuovo fondamento, diverso e ben più solido di quello che vien loro solitamente attribuito dalla comunità degli scienziati, dei logici e dei metodologi. Per trovare questo nuovo fondamento, egli si rivolge direttamente al mondo-della -vita, cioè al mondo dell’esperienza concreta, nel quale le intuizioni si presentano al loro stato originario, non ancora elaborate in concetti: in una parola, si rivolge al mondo del precategoriale. A questo proposito egli mette in guardia gli scienziati, i quali ritengono di considerare la natura come è realmente e non si accorgono dell’astrazione attraverso la quale essa è diventata per loro un tema scientifico, non si accorgono cioè che le cose cui fanno riferimento - perfino quando parlano di oggetti empirici, di risultati dell’osservazione e della sperimentazione - sono in realtà il frutto di un precedente, assai complesso e artificioso, lavoro categoriale. Possiamo ricordare, a questo proposito, le procedure operative che oggi (in maniera più evidente di quanto si poteva percepire ai tempi di Husserl) le scienze sperimentali adottano. Ecco un esempio. Vedere, nella scienza del nostro tempo, vuol dire, quasi esclusivamente, interpretare segni generati da strumenti: tra la vista di un astronomo del nostro tempo che fa uso del telescopio spaziale Kepler e una di quelle lontane galassie che appassionano gli astrofisici ed accendono la fantasia di tutti gli esseri umani sono interposti oltre una dozzina di complicati apparati mediatori Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  3 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune del tipo: un satellite, un sistema di specchi, una lente telescopica, un sistema fotografico, un apparecchio a scansione che digitalizza le immagini, vari computer che governano riprese fotografiche e processi di scansione e memorizzazione delle immagini digitalizzate, un apparecchio che trasmette a terra queste immagini in forma di impulsi radio, un apparecchio a terra che ritrasforma gli impulsi radio in linguaggio per un computer, il software che ricostruisce l’immagine e le conferisce i necessari colori, il video, una stampante a colori e così via. Questo esempio evidenzia che la scienza ha due attività fondamentali: la teoria e gli esperimenti. Le teorie cercano di immaginare come il mondo è; gli esperimenti servono a controllare la validità delle teorie e la tecnologia che ne consegue cambia il mondo. L’intero iter della ricerca scientifica si può sintetizzare con una affermazione netta: rappresentiamo e interveniamo. Rappresentiamo al fine di intervenire e interveniamo alla luce delle rappresentazioni. Dall’epoca della rivoluzione scientifica ha preso vita una sorta di “artefatto collettivo” che dà campo libero a tre fondamentali interessi umani: la speculazione, il calcolo, l’esperimento. La collaborazione fra ciascuno di questi tre ambiti porta a ciascuno di essi un arricchimento che sarebbe altrimenti impossibile. Per questo, come aveva insegnato già il filosofo inglese Francesco Bacone (ritenuto con Galilei il padre della scienza moderna), la scienza non è osservazione della natura allo stato grezzo. I sensi dell’uomo vanno ampliati mediante strumenti. I raggi dell’ottica di Newton, così come le particelle della fisica contemporanea, non sono dati in natura, sono i dati di una natura sollecitata da strumenti. Di fronte alla natura - come aveva affermato con una delle sue barocche metafore il Lord Cancelliere inglese - dobbiamo imparare a “torcere la coda al leone”. Da questo punto di vista la storia degli strumenti non è esterna alla scienza, ma ne è parte costitutiva e integrante. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  4 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune In altre parole: la definizione operativa accolta usualmente dagli scienziati tende sì a ricondurre i concetti ad un contenuto empirico, ma questo contenuto in realtà è quello filtrato da teorie e strumenti, come dall’esempio che abbiamo sopra riportato.  Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 5 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune 2 Categoriale e precategoriale La tesi di Husserl è, invece, che il fondamento di tutte le scienze - anche di quelle cosiddette empiriche - possa venire fornito soltanto dal «fiume eracliteo» delle intuizioni che precedono qualsiasi tipo di concettualizzazione e che ci coinvolgono nell’immediatezza della vita, personale e professionale, vissuta, la quale presuppone “il mondo circostante quotidiano della vita, in cui tutti noi, e anch’io in quanto filosofo, esistiamo coscienzialmente: non meno le scienze, in quanto fatti culturali inclusi in questo mondo, e gli scienziati e le loro teorie. Nei termini del mondo-della-vita: noi siamo oggetti tra gli oggetti; siamo qui o là, nella certezza diretta dell’esperienza, prima di qualsiasi constatazione scientifica, fisiologica, psicologica, sociologica, ecc. D’altra parte siamo soggetti per questo mondo, soggetti egologici che lo esperiscono, che lo considerano, che lo valutano, che vi si riferiscono attraverso un’attività conforme a scopi, soggetti per i quali il mondo circostante ha il senso d'essere che gli è stato attribuito dalle nostre esperienze, dai nostri pensieri, dalle nostre valutazioni, ecc., e nei modi di validità (della certezza, della possibilità, eventualmente dell’apparenza, ecc.) che noi realizziamo attualmente, in quanto soggetti di validità o che già possediamo da prima e che portiamo in noi in quanto abitualmente acquisiti, in quanto validità di questo o di quel contenuto che possono essere attualizzate a piacimento. -Naturalmente tutto ciò soggiace a una molteplice evoluzione, mentre ”il” mondo continua a essere un mondo unitario, e si corregge soltanto nella sua struttura di contenuto”.[...] Ora, se consideriamo noi stessi in quanto scienziati, nella funzione di scienziati in cui ora di fatto ci troviamo, al nostro particolare modo d’essere, di essere scienziati, corrisponde il nostro fungere attuale nel modo del pensiero scientifico, del nostro porre problemi e del nostro ricavare Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  6 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune soluzioni teoretiche in relazione alla natura e al mondo dello spirito; ciò a cui ci riferiamo non è dapprima altro che uno degli aspetti del mondo-della-vita già precedentemente sperimentato o, comunque, già presente alla coscienza e già valido scientificamente o pre-scientificamente. Fungono con noi gli altri scienziati, che vivono con noi in una comunità teoretica, che attingono o già possiedono le stesse verità, oppure che, grazie all’accomunamento di questi atti, stanno con noi nell’unità di operazioni critiche e nel proposito di un accordo critico. D’altra parte noi possiamo essere per gli altri, e gli altri per noi, meri oggetti; invece che nella comunità dell’unità di un interesse teoretico attuale, possiamo conoscerci reciprocamente attraverso l’osservazione; possiamo conoscere gli atti del pensiero, gli atti dell’esperienza e, eventualmente, altri atti, come fatti obiettivi, ma “senza interesse”, senza partecipazione, senza un’adesione o un rifiuto critico”. (E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit. pp. 134-135, 139). Ogni pensiero scientifico e qualsiasi problematica filosofica, secondo Husserl, implicano sempre certe ovvietà, per esempio la certezza che il mondo esiste, che è già sempre preliminarmente, e che qualsiasi rettifica di un’opinione di qualsiasi tipo, presuppone sempre il mondo in quanto orizzonte di ciò che senza dubbio è e vale. Anche la scienza oggettiva pone i suoi problemi sul terreno di questo mondo, il quale, però, è sempre già da prima, che è già a partire dalla vita prescientifica. Essa, come qualsiasi prassi, presuppone il suo essere; ma, insieme, si pone come fine la trasformazione del sapere prescientifico (che è imperfetto sia nella sua portata che nella sua consistenza), in un sapere compiuto, conformemente all’idea della correlazione tra mondo, che in sé è ben determinato, e verità scientifiche che lo spiegano, presentandosi come delle verità in sé. In altri termini, il suo compito è quello di attuare questa esplicazione attraverso un processo sistematico, attraverso gradi di compiutezza, utilizzando un metodo che permetta un costante progresso. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  7 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune In realtà Husserl tende a realizzare una descrizione dello strato precategoriale (o antepredicativo) posto a fondamento dell’edificio logico-categoriale. Questo strato può presentarsi sia come un piano autonomo d’esperienza che ignora la destinazione predicativa, sia come un’anteriorità funzionale, cioè come un precategoriale non autonomo in quanto indirizzato verso il piano predicativo (o categoriale). In questo secondo caso, il predicativo assume il valore di interpretazione ed esposizione linguistica dell’antepredicativo cioè dell’originario d’esperienza. Il criterio che egli assume, peraltro, richiede che ogni fondazione e chiarificazione conoscitiva acquisisca, dal punto di vista fenomenologico, la forma del rinvio all’intuizione fondante. In tal modo il rapporto tra sensibilità ed intelletto (è evidente qui il richiamo critico alle due “fonti della conoscenza”, di kantiana memoria) si traduce nel rapporto tra “sensibile” e “categoriale”: il non-categoriale, il precategoriale è collocato nella sfera del sensibile con tutta la sua valenza fondativa per gli atti logici superiori.  Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 8 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune 3 Agrimensura empirica e geometria scientifica Tra le pagine più note, nelle quali Husserl analizza il rapporto fondativo del precategoriale incarnato nel mondo-della-vita ed il categoriale consacrato nei paradigmi scientifici, quelle dedicate alla genesi della geomertia e della geometrizzazione della natura sono particolarmente idonee per le tematiche che stiamo analizzando. Husserl precisa subito che la sua indagine “genealogica” non mira ad una ricostruzione “storiograficamente corretta” delle origini della geometria (emblematicamente assurta a simbolo della scienza “esatta”, ma non “rigorosa”) bensì vuole rintracciare il senso profondo, originario della sua collocazione categoriale. “Il problema dell'origine della geometria (e sotto il titolo di geometria raccogliamo qui, a fine di concisione, tutte quelle discipline che si occupano delle forme esistenti matematicamente nella spazio-temporalità) non è qui un problema storico-filologico; non si tratta quindi di reperire i primi geometri che·abbiano formulato proposizioni, dimostrazioni, teorie geometriche, né quelle determinate proposizioni che essi possono aver scoperto, ecc. Il nostro interesse mira invece a risalire al senso più originario in cui la geometria si è costituita, in cui si è sviluppata attraverso millenni, in cui è ancora viva per noi e in cui continua a evolvere; noi indaghiamo cioè il senso in cui si è presentata per la prima volta nella storia - il senso in cui dev’essersi presentata, anche se nulla sappiamo, né cerchiamo di sapere, sui suoi creatori. Partendo da ciò che sappiamo della nostra geometria, oppure dalle sue forme più antiche tramandateci (per es. dalla geometria euclidea), cerchiamo di risalire agli inizi originari e ormai sommersi della geometria, a quegli inizi “originariamente fondanti” così come devono necessariamente essersi prodotti. Questo tentativo di risalire al senso originario si mantiene necessariamente nell’ambito delle generalità, ma, come Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  9 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune risulterà tra breve, si tratta di generalità ricchissime, la cui esplicitazione offre la possibilità di attingere problemi particolari e constatazioni evidenti che a loro volta si configurano come problemi. La geometria, per così dire, compiuta, a cui occorre rifarsi per risalire al suo senso, è una tradizione. La nostra esistenza umana si muove nell’ambito di un numero enorme di tradizioni. Tutto il mondo culturale, in tutte le sue forme, è per noi in base alla tradizione. Perciò le forme culturali non sono soltanto divenute causalmente: noi sappiamo anche che la tradizione è appunto una tradizione che si è costituita nel nostro spazio umano e in base all’attività umana, sappiamo che è spiritualmente divenuta - anche se in generale noi non sappiamo nulla della sua precisa provenienza e della spiritualità che l’ha di fatto determinata. E tuttavia, anche questo non-sapere include sempre, per essenza e implicitamente, un sapere che può essere esplicitato, un sapere di un’evidenza incontestabile”. (E. Husserl, ibidem, p.381). Questo sapere, continua Husserl, affonda le radici, nell’esempio specifico che egli illustra, nell’impiego empirico dei concetti geometrici. A questo livello possiamo certo accontentarci di determinazioni piuttosto vaghe, di una vaga tipicità; e dunque di confronti sommari, a occhio e croce. Ci possiamo contentare, ma beninteso secondo i casi. Vi sono situazioni in cui non ci contentiamo affatto. Se, ad esempio, dobbiamo vendere il nostro campicello o scambiare il nostro con quello di un altro, presumibilmente non saremo affatto soddisfatti da determinazioni tra il più e il meno. Cercheremo di escogitare metodi più precisi di confronto, dunque metodi di misurazione. Si vede subito allora in che senso la pratica della misurazione abbia a che fare con la geometria, e in particolare con la sua origine. Pur essendo motivati da interessi pratici, cominciamo tuttavia ora a porci problemi teorici, continua Husserl, sia pure in una forma relativamente disorganica. Per escogitare metodi di misurazione abbiamo bisogno di operare una certa Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  10 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune classificazione delle forme, scoprire certe relazioni tra esse o inventare dei ben determinati congegni per stabilire tra esse una relazione. In tutto ciò sono implicite numerose riflessioni teoriche che preparano la riflessione propriamente geometrica. Lo stesso problema di una classificazione tenderà, ad esempio, ad un certo ordinamento che prefigura la distinzione tra forme elementari e forme derivate e che non solo richiede un preciso intervento teorico, ma configura altrsì un possibile campo di indagine con fini propriamente ed esclusivamente conoscitivi. Questa origine della problematica geometrica non ha evidentemente un carattere “storiografico” nel senso consueto del termine. In altri termini, non ci sono “documenti” che mostrino che le cose siano andate proprio così, e questo è un altro elemento di notevole interesse che emerge dalle riflessioni di Husserl e che riguarda il concetto della storicità. È innegabile infatti che siamo comunque di fronte ad una descrizione “storica”, ma essa è condotta sul filo di una logica interna ai concetti, non è un racconto più o meno leggendario. E persino l’origine della riflessione geometrica dall’agrimensura ha forse queste caratteristiche di una connessione “genetica” non storiograficamente documentata in senso stretto, ma che rientra tuttavia, in un certo senso, nel pensiero di una storia della geometria alle sue origini. Scrive Husserl: “La metodica geometrica della determinazione operativa di alcune e poi di tutte le forme ideali a partire da forme fondamentali, in quanto mezzi elementari di determinazione, rimanda alla metodica esercitata già nel mondo circostante pre-scentifico-intuitivo, dapprima in modo rudimentale poi secondo regole d’arte, alla metodica della misurazione e in generale della determinazione misurativa. Le sue finalità hanno un’origine, che è rivelatrice, nella forma essenziale di questo mondo-della-vita. Le sue forme sensibilmente esperibili e sensibilmente- intuitivamente pensabili in esso e tutti i tipi pensabili, a qualsiasi grado di generalità, si Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  11 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune connettono continuamente le une con gli altri. In questa continuità essi riempiono la spazio- temporalità (sensibilmente intuitiva) che è la loro forma (Form). Ogni forma che rientra in questa aperta infinità, anche quando è data come un fatto nella realtà, è priva di “obiettività”, perciò non è determinabile intersoggettivamente da chiunque - per es. da un altro che non la veda di fatto -, né comunicabile nella sua determinatezza. Evidentemente a costui serve la misurazione. La misurazione è qualcosa di molto differenziato, il misurare vero e proprio non è che il suo momento conclusivo: da un lato si tratta di produrre concetti adatti per le forme corporee dei fiumi, dei monti, degli edifici, ecc. che di regola devono rinunciare a concetti e a nomi rigorosamente determinanti; innanzitutto per le loro “forme” (nell’ambito della somiglianza visiva), e poi per le loro grandezze e per i loro rapporti di grandezza e; ancora, per l’ubicazione, mediante la determinazione delle distanze e degli angoli che vengono riportati a luoghi e a direzioni presupposti noti e immobili. La misurazione scopre praticamente la possibilità di scegliere come misura certe forme fondamentali empiriche, che sono concretamente definite su corpi che di fatto sono generalmente disponibili ed empirico-rigidi, e, mediante i rapporti che esistono (e che devono essere scoperti) tra queste misure e le altre forme corporee, cerca di determinare intersoggettivamente e in modo praticamente univoco queste forme - dapprima in sfere ridotte (ad es. nell’ agrimensura) poi per nuove sfere di forme. Si capisce così come, in seguito all’esigenza, ormai desta, di una conoscenza “filosofica”, di una conoscenza che determinasse il “vero” essere, l’essere obiettivo del mondo, la misurazione empirica e la sua funzione empiricamente- praticamente obiettivante, attraverso la trasformazione dell’interesse pratico in un interesse puramente teoretico, potesse venir idealizzata e trapassare così in un pensiero puramente geometrico. La misurazione prepara così la geometria universale e il suo “mondo” di pure forme- limite”. (E. Husserl, ibidem, pp. 57-58). Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  12 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune Naturalmente la fenomenologia rappresenta in certo senso la guida di questo pensiero. Benché l’istante della transizione non possa essere documentato, è tuttavia chiaro che molte conoscenze geometriche siano state anticipate e presupposte nella tecnica degli agrimensori. Anzi in generale i problemi che sorgono nell’ambito della soluzione di difficoltà pratiche stimolano la ricerca sul piano teoretico–conoscitivo: la prassi tecnica genera motivi di riflessione teorica. E inversamente la riflessione teorica diventa un “mezzo della tecnica”; una volta che una scienza come la geometria si è costituita, quando cioè esiste un lavoro scientifico diretto in modo autonomo ad un universo di oggetti concettualmente definito, questo lavoro si ripercuote a sua volta sul terreno dei problemi tecnici suggerendo nuove idee e nuovi progetti.  Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) 13 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune 4 Logica trascendentale e mondo-della-vita Questa interconnessione tra precategoriale e categoriale non riguarda soltanto le scienze naturali e sociali, ma investono ovviamente anche le scienze formali e, tra queste, la logica, verso la quale Husserl, fin dall’inizio della sua attività filosofica, ha sempre mostrato particolare interesse. Dalle Ricerche logiche (1900) a Logica formale e trascendentale (1929) a Esperienza e giudizio (1939), egli traccia la via di una “genealogia” della logica, in polemica con il logicismo e lo psicologismo, Nello sviluppo del suo pensiero si impone a Husserl anche l’esigenza di chiarire che genere di rapporto sussiste tra la logica antepredicativa e la logica predicativa . La percezione sensibile, per quanto consista nel tendere da parte dell’io verso l’oggetto intenzionato, è sempre una conoscenza instabile, insicura, che non consente mai di possedere l’oggetto conosciuto in maniera definitiva. Questo è possibile soltanto mediante una conoscenza predicativa, cioè attraverso la logica, la quale ha la capacità di fissare l’oggetto e di conservarlo anche quando non è presente nella percezione. La conoscenza antepredicativa e quella predicativa, perciò, si differenziano nettamente e ciascuna si caratterizza per una propria specificità. Se però si analizza la genesi della logica, ci si rende conto che bisogna rifarsi alla percezione sensibile per spiegare la logica predicativa. Questo significa che la conoscenza predicativa, di cui appunto la logica è l’espressione più compiuta, riposa fenomenologicamente, cioè dal punto di vista della sua fondazione, sulla conoscenza antepredicativa, cioè si esplicita in logica trascendentale. Scrive Husserl: Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  14 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune “Chiarito il contrasto tra scienza obiettiva e mondo-della- vita, occorre tuttavia localizzare la loro essenziale connessione: la teoria obiettiva nel suo senso logico (in termini universali, la scienza come totalità delle teorie predicative, dei sistemi “logici” in quanto sistemi di “proposizioni in sé”, di “verità in sé” e, in questo senso, di enunciati logicamente connessi) è radicata e fondata nel mondo-della-vita, nelle sue evidenze originarie. Proprio per questo la scienza obiettiva ha una costante relazione di senso col mondo in cui sempre viviamo, e in cui, quindi, viviamo anche nella nostra qualità di scienziati accomunati a tutti gli altri scienziati - si tratta cioè di una relazione col comune mondo-della-vita. Ma così la scienza obiettiva è un’operazione di persone pre-scientifiche, di persone singole e di persone accomunate nell’attività scientifica, di persone quindi che appartengono al mondo-della-vita. Le loro teorie, le formazioni logiche, non sono naturalmente cose del mondo-della-vita nel senso in cui lo sono i sassi, le cose, gli alberi. Sono totalità logiche e parti logiche costituite da elementi logici ultimi. Per parlare con Bolzano: sono “rappresentazioni in sé”, “proposizioni in sé”, conclusioni e dimostrazioni “in sé”, unità ideali di significato, la cui idealità logica è determinata dal loro telos “verità in sé”. Ma anche questa idealità, come qualsiasi altra, non muta nulla al fatto che sono formazioni umane connesse per essenza alle attualità e alle potenzialità umane, e che quindi rientrano nella concreta unità del mondo-della-vita, la cui concrezione dunque ha una portata maggiore di quella delle “cose”. Ciò vale, correlativamente, anche per le attività scientifiche, sperimentali, per le attività che “in base” all’esperienza plasmano le formazioni logiche, in cui esse compaiono in forma originaria e in modi originari di evoluzione, nei singoli scienziati e nella comunità degli scienziati: quale originarietà delle proposizioni, delle dimostrazioni, ecc. che sono state elaborate in comune”. (E. Husserl, ibidem, pp. 158-159). Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633) '    15 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune Come potete notare, si tratta di un’ampia riflessione sul come le strutture logiche siano o meno adeguate alla dimensione della realtà oggettiva. In questo senso la logica trascendentale si presenta come logica dei fondamenti, ed è in seno ad essa che si costituisce la logica come scienza formale. La logica formale tradizionale, invece, ha ignorato la propria genesi, presupponendo come ovvia la validità delle proprie leggi. Al contrario, un giudizio logico deve essere valutato come un atto soggettivo di conoscenza che si impadronisce del suo contenuto. Per questo motivo le leggi logiche formali, che siano normative del giudizio, ma che non tengono conto del fatto che sono normative anche del suo contenuto, fanno sorgere interrogativi sulla validità dei loro giudizi sul mondo naturale e sulla verità ed evidenza dei loro contenuti. Seguendo questo punto di vista, Husserl sviluppa pienamente il tema della logica trascendentale in rapporto alle categorie di verità e di significato. Conseguentemente, la logica si configura qui come teoria delle teorie: essa non è solo un discorso logico sulla logica, condotto con i mezzi della logica, ma un metadiscorso sulla logica, che tuttavia non si presenta né come una sovrastruttura né come una forma speculativa. E’, a tutti gli effetti, una regressione, un ritorno ai fondamenti che l’hanno costituita nelle sue operazioni originarie, anche storiche, nonché nelle sue operazioni attuali. Le ricerche fenomenologiche, ribadisce Husserl, risultano necessarie alla logica pura, trascendentale. Ne rappresentano la sua fondazione intuitiva e precategoriale: in quanto la logica è da ricercare nelle operazioni costitutive, diventa logica filosofica, filosofia prima, teoria della teoria. Ma, badate bene, ciò non è in contraddizione con la fondazione precategoriale: è solo l’altra faccia della questione, poiché la fondazione deve sempre essere ristabilita nella presenza e nelle modalità temporali e quindi genetiche e storiche. Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore (L. 22.04.1941/n. 633)  16 di 17   Università Telematica Pegaso La rivincita della conoscenza comune Le scienze, invece, che non prendono in considerazione ciò che costituisce il loro fondamento trascendentale, cioè le condizioni per cui si danno, si risolvono in pure tecniche di manipolazione di simboli linguistici.Mauro Di Giandomenico. Giandomenico. Keywords: l’apertura semantica, “How Pirots Karulise Elatically” – pirots karulise elatically – pirots karulise – ‘implicazione’ – aperture semantica, Galileo, la retorica di Galilei, Galilei, lo stile di Galilei, Vinci, I corpi, la filosofia positivistica italiana  -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giandomenico: l’implicatura conversazionale: ‘Pirots karulise elatically; therefore, pirots karulise!” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757604051/in/dateposted-public/

 

Grice e Giani – implicatura mistica – l’implicatura di Catone -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Muggia). Filosofo. Grice: “It’s hard for me to judge Giani’s philosophy because I fought against the Italians during the so-called ‘second world war,’ so-called!” Grice: “But I would be willing to expand: if Giani developed what he aptly called a ‘mystique’ – so did we at Oxford – Churchill surely held his ‘mystique.’ Of course the Italian, being more scholastic, had to call it ‘scuola di mistica,’ – and the idea was that of an all-male chivalry order – aptly set at Milan!” Fonda la corrente filosofica nota come "Mistica". Partì come volontario di guerra e morì sul fronte.  Dopo aver frequentato il Liceo ginnasio Dante Alighieri di Trieste si trasferì a Milano, dove si iscrisse a Milano e quindi ai Gruppi Universitari, laureandosi. Anticipa l'imminente apertura della scuola sul foglio dei Gruppi Universitari, "Libro e moschetto" della Scuola di Mistica. Ne divenne direttore, carica che lasciò alla fine dell'anno seguente dopo aver scritto il suo ampio discorso da tenersi a Roma in occasione dellaI iunione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze che coincideva anche con il decennale della Marcia su Roma in cui enuncia i principi della nuova scuola.  Su impulso di Giani si comincia inoltre a pubblicare i Quaderni della scuola di mistica. Poche settimane dopo la riunionesi dimise da direttore con una lettera inviata a Mussolini, per contrasti interni con il segretario politico dei Gruppi Universitari. Imputa le dimissioni al mancato trasferimento della Scuola nella vecchia sede de Il Popolo d'Italia chiamato anche "Il covo" La richiesta di entrare in possesso de "Il Covo" puntava ad ottenere il possesso di uno degli ambienti più importanti dell'immaginario fascista. Continua quindi a collaborare con diversi quotidiani come "Il Popolo d'Italia" e "Gerarchia". "Lineamenti sull'ordinamento sociale dello Stato" gli fece ottenere la libera docenza e e quindi la cattedra di Storia a Pavia ma parte volontario per la guerra d'Etiopia arruolandosi col grado di capomanipolo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale nel CXXVIII Battaglione"Vercelli".  Rientrato in Italia, riassunse la guida della scuola, qui in occasione della chiusura dell'anno scolastico nell'aula della casa del Fascio di Milano. Rientrato in Italia riassunse la carica di direttore della "Scuola di Mistica" lanciando due importanti iniziative, rilancia la pubblicazione della serie di "Quaderni" che affrontavano differenti problematiche e sempre per sua iniziativa fu creata nell'ambito della scuola la rivista mensile, Dottrina che divenne l'organo ufficiale della Scuola, in cui pubblica  il "Decalogo dell'italiano nuovo”. Si dedica inoltre al giornalismo diventando direttore a Varese di "Cronaca prealpina" e collaborando a diverse testate, tra cui Tempo (Direttore: Alfredo Acito). Dalle pagine di "Cronaca prealpina" prese parte alla campagna fondata sui propri convincimenti del ‘spirito’ contrapposto al "biologico"  La Cronaca prealpina dopo la nomina di Giani a direttore arriva a quadruplicare la tiratura.   L'incontro a Roma con Mussolini in cui si decise la cessione del "Covo" ai "mistici" della Scuola. Su impulso di Giani, con una cerimonia presieduta di Starace, la sede ufficiale della Scuola di Mistica si spostò nel medesimo edificio che ospitò ai suoi primordi il giornale Il Popolo d'Italia, chiamato "il Covo". Il "Covo" negli anni era stato trasformato in una galleria. La palazzina e proclamata monumento nazionale con tanto di guardia d'onore  svolta da squadristi e combattenti. Per esplicita decisione di Mussolini, fu ufficialmente consegnata ai mistici della scuola. L'evento fu vissuto come una autentica consacrazione dei insegnanti riuniti intorno a Giani. In realtà la consegna era già stata disposta come risulta da un foglio d'ordini del PNF e in quell'occasione il consiglio direttivo era stato ricevuto a Roma da Mussolini. Mussolini li aveva spro continuare nella loro attività.  A Milano, in occasione del decennale dalla fondazione della scuola, organizzò il "Convegno nazionale di mistica" che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere il primo della serie. Obiettivo che sfumò a causa dell'entrata in guerra. L'incontro vide oltre 500 partecipanti ed ebbe l'adesione della maggior parte degli filosofi dell'epoca. Come gran parte dei "mistici", partecipa nuovamente come volontario alla seconda guerra mondiale, conflitto nel quale vedeva il presagio di una rivoluzione in vista di una nuova era.  Inquadrato nell'11º reggimento alpini prese parte alla battaglia delle Alpi Occidentali contro la Francia e venendo decorato con la medaglia d’argento al valor militare.Terminata la campagna di Francia in seguito all'armistizio tornò alla vita civile ma incominciata nel frattempo la guerra in nord Africa richiese più volte di partire volontario senza ottenere soddisfazione. Alla fine ottenne di partire  come corrispondente di guerra de Il Popolo d'Italia, della Cronaca prealpina e de L'Illustrazione Italiana presso i reparti della Regia aeronautica. Per quest'ultima realizza anche diversi servizi fotografici. All'attività di giornalista affiance anche quella di militare prendendo parte ad alcune azioni e ottenendo una medaglia di bronzo al valor militare. E richiamato in Italia dove riassunse la guida de "La cronaca prealpina".Nuovamente incorporato nell'11º reggimento alpini riparte infine come volontario per la campagna di Grecia, dove cadde sul fronte greco-albanese nella battaglia per la conquista della Punta Nord del Mali Scindeli. Si offre volontario per una pericolosa missione che prevede la conquista di una munita postazione greca. L'attacco ebbe inizialmente successo con la conquista della posizione ma riorganizzatisi i greci condussero un contrattacco. Nello scontro cadde. Il periodico L'Illustrazione Italiana scrisse, senza riportare dove o come avrebbe potuto registrare tali parole, che l'ufficiale greco che lo aveva colpito a morte avrebbe raccontato che nello scontro Giani gli si era parato davanti "come un dio o un demone".  Il corpo di Giani andò disperso e gli altri assaltatori che avevano preso parte all'attacco dovettero ritirarsi rapidamente incalzati dai soldati greci. Fu pochi giorni dopo incaricato delle ricerche Carati che era anche vice-direttore della Scuola di mistica. Le ricerche a causa della perdurante situazione di guerra furono nulle, e riuscì solo ad individuare il luogo in cui era caduto.  In quell'occasione, richiesta un'udienza al Duce, chiese che potessero partire per l'Albania il cognato Guido Giani e il fratello Aldo Sampietro. Questi ultimi rinvennero la salma sepolta in maniera anonima in territorio greco. Di qui la salma fu translata nel piccolo cimitero militare di Klisura.  Mussolini fu preso come principale punto di riferimento dalla Scuola di Mistica. Elabora un discorso programmatico in cui enuncia i principi fondanti della Scuola e della Mistica fascista. Compito nostro deve essere soltanto quello di coordinare, interpretare ed elaborare il pensiero del Duce. Ecco perché è sorta una Scuola di mistica ed ecco il suo compito: elaborare e precisare i nuovi valori  che sono nell'opera del Duce.  (Giani in La marcia sul mondo). Inizialmente i principi esposti da Giani facevano parte di un discorso più ampio da tenersi a Roma in occasione di una riunione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze. L'ampio discorso fu poi pubblicato nella serie dei "Quaderni" voluti da Giani con il titolo "La marcia sul mondo della Civiltà". Si impone un ritorno alle origini, ovvero al movimentismo rivoluzionario, riallacciandosi idealmente all'esperienza delle prime squadre d'azione e degli arditi della Grande Guerra quindi, secondo Veneziani "una più radicale rivoluzione coniugata al recupero di una più integralistica tradizione". Ma più che legati agli enunciati politici del manifesto di sansepolcro i mistici di quella esperienza esaltavano soprattutto la lotta contro la borghesia affaristica del primo dopoguerra. La mistica si considera rappresentante proprio di questo mondo ispirato dall'amore di patria e posta a guardia della rivoluzione permanente e in contrasto con gli opportunisti e i trasformisti. Individuava nell'epoca contemporanea *quattro* principali mistiche, destinate ad apportare in un primo tempo dei benefici ma poi a fallire: liberale, democratica, socialista e comunista. Liberalismo, democrazia, socialismo e comunismo sono le quattro mistiche dominanti nella societa. Il bilanciolo abbiamo già visto è per tutte negativo. Il liberalismo porta all'anarchia. La democrazia porta all'instabilità politica e sociale. Il socialism porta alla otta civile. Il comunismo porta alla vita primitiva. Queste quattro mistiche sono pertanto anti-storiche. A fronte di esse l'unica mistica in grado di superare tali crisi era quella come sviluppato nel capitolo intitolato "La marcia ideale" la cui conoscenza e diffusione presso le masse era compito della élite. Medaglia d'argento al valor militarenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'argento al valor militare «Volontario nella guerra d'Africa ove prese parte volontario a diverse pattuglie esploratori, chiese ed ottenne di essere anche in quest guerra assegnato ad un reparto combattente. Destinato all'11º alpini volontario a due azioni del battaglione Bolzano chiese di partecipare alla ardita discesa di due compagnie del battaglione Trento effettuata in una valle occupata dal nemico e avanzò con la prima pattuglia sotto intenso bombardamento, sprezzante del grave pericolo di sorprese e di accerchiamento nemico, esempio trascinante a ufficiali e soldati, e prova di dedizione alla patria, di alta fede e di valore.» Medaglia di bronzo al valor militarenastrino per uniforme ordinariaMedaglia di bronzo al valor militare «Corrispondente di guerra presso una squadra aerea disimpegnava il suo particolare e delicato servizio con alto senso di responsabilità. Spesso presente sugli aeroporti più avanzati e maggiormente battuti dall'offesa nemica allo scopo di rendersi conto di ogni particolare, partecipava volontariamente a difficili e rischiose missioni di guerra, dando sicura prova anche nelle più critiche circostanze di sereno sprezzo del pericolo e completa dedizione al dovere.» Medaglia d'oro al valor militarenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro al valor militare «Volontariamente, come aveva fatto altre volte, assumeva il comando di una forte pattuglia ardita, alla quale era stato affidato il compimento di una rischiosa impresa. Affrontato da forze superiori, con grande ardimento le assaltava a bombe a mano, facendo prigioniero un ufficiale. Accerchiato, disponeva con calma e superba decisione gli uomini alla resistenza. Rimasto privo di munizioni, si lanciava alla testa dei pochi superstiti, alla baionetta, per svincolarsi. Mentre in piedi lanciava l'ultima bomba a mano ed incitava gli arditi col suo eroico esempio, al grido di: «Avanti Bolzano! Viva l'Italia», veniva mortalmente ferito. Magnifico esempio di dedizione al dovere, di altissimo valore e di amor di Patria.» — Punta NordMali Scindeli (Fronte greco), 14 marzo 1941. Opere: “La via della gloria, anni 20 La marcia sul mondo della Civiltà Fascista, Lineamenti su l'ordinamento sociale dello Stato, Giuffré ed. La mistica come dottrina. Perché siamo, A. Nicola. Perché siamo mistici. Mistica della rivoluzione. Antologia di scritti, Il Cinabro,  Longo, “I vincitori della guerra perduta” (sezione su  Giani), Edizioni Settimo sigillo, Roma.Carini, Giani e la scuola di mistica fascista,  Mursia, Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su storia illustrate,Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su storia illustrate, Tomas Carini nella prefazione su  Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,Carini,  Giani e la scuola di mistica, Mursia,Tomas Carini, Giani e la scuola di mistica, Mursia, Carini, Giani e la scuola di mistica fascista, Mursia, Tomas Carini nella prefazione su Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,Grandi, Gli eroi, Giani e la Scuola di mistica, Cfr. a tale proposito le ricerche di Enzo Laforgia, una cui sommaria sintesi è nel sito varesenews Archiviato. Tomas Carini nella prefazione su Niccolò Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo, Il saggio, edito da Dottrina Fascista, riporta in forma integra la conferenza inaugurale tenuta da Giani per l'inaugurazione del corso per maestri della Scuola di Mistica. Cfr. a tale proposito le ricerche di Enzo Laforgia in Aldo Grandi, Gli eroi di Mussolini, BUR, Milano, Antonellis, Come doveva essere il perfetto, su storia illustrate, Veneziani, La rivoluzione conservatrice in Italia, Sugarcoedizioni, Varese, Longo, Gli eroi della guerra perduta, edizioni settimo sigillo, Roma,  L'Illustrazione italiana, Grandi, Gli eroi di Mussolini. Niccolò Giani e la Scuola di mistica fascista, cAldo Grandi, Gli eroi di Mussolini. Niccolò Giani e la Scuola di mistica fascista, cNiccolò Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,, Tomas Carini nella prefazione su Niccolò Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,Marcello Veneziani, La rivoluzione conservatrice in Italia, Sugarcoedizioni, Varese, Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,, Tomas Carini nella prefazione su Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo, Tomas Carini nella prefazione su Giani, La marcia sul mondo, Novantico Editore, Pinerolo,  Tomas Carini, Giani e la Scuola di mistica, prefazione di Marcello Veneziani, Mursia, Milano, Grandi, Gli eroi di Mussolini. Giani e la Scuola di mistica, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, RaidoSpeciale Scuola di Mistica, Raido, Roma, Arnaldo M., Coscienza e dovere.  Niccolò Giani MISTICA DELLA RIVOLUZIONE FASCISTA Antologia di scritti, 1932-1941, pp. 302, euro 15.00 In libreria dal 27 novembre   In breve: «Siamo mistici perchè siamo degli arrabbiati, cioè dei faziosi, se così si può dire, del Fascismo, uomini [...] partigiani per eccellenza e quindi anche assurdi [...]. Del resto nell’impossibile e nell’assurdo non credono gli spiriti mediocri. Ma quando c’è la fede e la volontà, niente è assurdo». (Niccolò Giani) Un’antologia che raccoglie i più significati testi di Niccolò Giani, tra i massimi esponenti della corrente più radicale, oltranzista e universale del Fascismo, la Scuola di Mistica Fascista.         Questa antologia rappresenta la prima raccolta organica dei più significativi scritti di Niccolò Giani nel periodo che va dal 1932 al 1941. È, a nostro giudizio, il modo migliore per illustrare senza filtri la sua persona, il suo pensiero e la sua azione. È un omaggio doveroso al testimone di quello che fu il Fascismo universale e intransigente che mai scese a compromessi con la “vita comoda”, al rinnovatore spirituale e politico di una intera generazione. Esempio di eroismo che, al di là della contingenza storica, seppe essere coerente con i propri principî vivendo l’ideale sino all’estremo sacrificio; quasi innalzando il Fascismo ad una categoria universale dell’essere, come fonte inesauribile di spiritualità cui innestarsi per fare la rivoluzione dell’uomo e del mondo. Niccolò Giani, nato a Muggia il 20 giugno 1909, cadde sul fronte greco il 14 marzo 1941, nello slancio del combattimento, trasfigurato ormai nell’eroismo muto. Dimostrò con la vita affermata oltre la morte, l’armonia tra pensiero e fede, la continuità tra dottrina ed azione, e della autentica Rivoluzione rimane il puro rappresentante della giovinezza nuova: per questo il suo esempio sarà il seme fecondo dell’aspro cammino di domani. Seppe con l’azione indicare la strada, con l’intransigenza insegnare l’esempio. I «tesserati» furono i suoi avversari. Contro di essi combatté, contro cioè i falsi, i presuntuosi, gli esibizionisti, i retorici, gli arrivisti; contro coloro, insomma, che considerarono la Rivoluzione come atto di ordinaria amministrazione, sfruttabile per fini personali.    Il Cinabro Ufficio stampa ufficiostampa@ilcinabro.it   INDICE: Saggi introduttivi: - Luca Leonello Rimbotti: Mistica Fascista. L’ordine della Milizia sacra - Maurizio Rossi: La Mistica Fascista dell’Uomo Nuovo. Tra milizia politica e metapolitica la scuola rivoluzionaria del Fascismo *** Introduzione: - Fernando Mezzasoma: Niccolò Giani discepolo di Arnaldo *** Decalogo dell’Uomo Nuovo La marcia ideale sul mondo della Civiltà fascista Generazioni di Mussolini sul piano dell’Impero Civiltà fascista civiltà dello spirito Aver Coraggio A difesa dell’Europa Fuori La mistica come dottrina del fascismo Le due Europe Mistica del fascismo, Corporativismo e Autarchia Il Centro di preparazione politica per i giovani. Fucina di Campioni della Rivoluzione Valore primordiale del “Covo” I soliti imbecilli L’equivoco Perché siamo dei mistici Il volto della guerra Testamento spirituale al figlio Niccolò Giani: Presente!Mistica Della Rivoluzione Fascista “E questo diritto alla prima linea, ad essere i disperati del Fascismo, è l’unica pretesa che, oggi, domani, sempre, i mistici del Fascismo accamperanno di fronte alla Rivoluzione, come, con vena veramente squadrista, ha detto Guido Pallotta nella sua relazione che ha avuto lo spirito e la mordenza del «menefreghismo» più autenticamente fascista. Prima linea, sul fronte esterno ed interno, contro il nemico di fuori e di dentro. Contro gli attentatori della nostra integrità territoriale, ma anche, e con uguale decisione e durezza, contro gli attentatori della nostra integrità spirituale.”  (Niccolò Giani)  Le conseguenze derivate dalla fine del primo conflitto mondiale e l’immediatarossi 5 crisi strutturale delle istituzioni e dei valori che investì, con una forza che non aveva avuto precedenti nella storia, le società europee, vennero allora giudicate come l’annuncio di un radicale mutamento di tutte le forme della vita politica e civile fino ad allora conosciute e complessivamente accettate. Una deflagrazione interna dei costumi, di certezze consolidate e di mentalità che modificò in maniera irreversibile l’immaginario collettivo di popoli e nazioni.  Niente sarebbe più stato come prima. Uno Spirito nuovo si affacciava con ruvida decisione e realismo eroico reclamando il proprio posto nella Storia. L’alba delle grandi rivoluzioni si affacciava sul continente europeo e i popoli si sarebbero messi in marcia affascinati da nuove e esaltanti Weltanschauung.  Per Arthur Moeller Van Den Bruck, uno dei primi e tra i più significativi esponenti della Rivoluzione Conservatrice tedesca, si tratterà di una presa di posizione a carattere diffuso più che evidente: “Assistiamo all’evento per cui tutto quel che non è liberale si unisce contro quel che è liberale. Noi viviamo i tempi di questa agitazione mondiale, che si produce per una estrema consequenzialità, e che si esplica in una rivoluzione radicale che prospetta la perdita da parte del nemico della sua posizione di potere: tale nuova situazione mondiale esordisce con un allontanamento dall’Illuminismo.”  Il periodo che immediatamente fece seguito al termine di un conflitto di così immensa portata, venne visto dai più attenti e acuti osservatori incredibilmente saturo di una genuina e stupefacente valenza rivoluzionaria e innovatrice, ciò significò l’inizio di una nuova stagione di entusiastiche mobilitazioni che avrebbero alla fine tonificato la fibra morale e politica del continente fino ad allora logorata ed estenuata da sovrastrutture ipocrite e corrose nel loro intimo che erano riuscite, attraverso innumerevoli sotterfugi, a sopravvivere a se stesse, sempre più annichilite da un pervasivo decadentismo culturale e morale e dal predominio di una mentalità borghese e oligarchica connotata dalle sue più perniciose vedute utilitaristiche e mercantilistiche.  Le conseguenze della fine della grande guerra significarono soprattutto una presa di coscienza collettiva e un’accelerazione formidabile dei fenomeni sociali, accompagnate entrambe da una esigenza totalmente nuova di considerare l’esistenza e i rapporti umani, esigenza che venne principalmente percepita prima dai combattenti e poi dai reduci come il frutto maturo della traumatica e allo stesso tempo travolgente esperienza della guerra di trincea, insomma un insieme di condizioni imprescindibili che prepararono il terreno e l’atmosfera per l’avvento delle ondate rivoluzionarie nazionalpopolari che misero in crisi valori e regole consolidate da tempo, assestando colpi mortali alle strutture politiche, sociali e culturali delle società borghesi liberal-democratiche.  Dalle forme statiche si passava alle forme dinamiche, nel senso jungeriano del termine.  Il Fascismo sarà la matrice principale che inaugurò la feconda ed entusiasmante stagione delle insurrezioni nazional-rivoluzionarie e il primo laboratorio culturale delle ancor più affascinanti sintesi nazionali e sociali.  Furono infatti i reduci del fronte, gli ex-combattenti che avevano creduto fino in fondo ad una particolare visione eroica della vita propria di una ideologia della guerra sviluppatasi nell’interiorizzazione del sacrificio bellico e del sangue versato – subendo poi la frustrazione di una vittoria conseguita sul campo di battaglia a duro prezzo che videro mutilata negli accordi di pace internazionali – a rappresentare la spina dorsale di una innovativa e volontaristica visione politica che pretendeva di coniugare un nazionalismo intransigente e guerriero partorito nelle trincee con le più avanzate e spregiudicate chiavi di lettura sociali.  La grande guerra di popolo aveva travasato nei combattenti il senso della tensione nazionale e sociale verso scopi e missioni comuni, una nuova coscienza collettiva che sarebbe stata cementata da un formidabile sentimento di fraterno e virile cameratismo, il culto della differenza e del radicamento nella specificità etnica della Stirpe italica.  Gli squadristi fascisti non fecero altro che travasare tutti questi motivi nelle battaglie di piazza.  Sorti dalla guerra di popolo, divennero avanguardia di popolo. E il 28 Ottobre 1922 sarà il coronamento dei loro sacrifici, la loro apoteosi.  D’altronde era stato lo stesso Mussolini a dire che l’esperienza della guerra avrebbe generato le migliori condizioni per la rivoluzione sociale e politica. Anzi, ne sarebbe stata la prefazione. Era il novembre 1916 e Mussolini combatteva sul fronte del Carso, nei ranghi del 11° Reggimento Bersaglieri: “Noi vinceremo la guerra: ma poi dovremo vincere la pace. Sarà duro; ma ci arriveremo. La società italiana deve assolutamente mutare. (…) Sui giovani bisognerà contare. Questa guerra che noi combattiamo e che con tragica definizione viene detta di logoramento, porterà alla ribalta delle lotte civili una generazione che riuscirà a fare quello che la nostra non è riuscita a fare: il riscatto sociale e politico del mondo del lavoro, al di sopra e al di fuori dei dottrinarismi che oggi lo incatenano. A ciò non saremmo mai arrivati se non avessimo voluto la guerra, rovesciato i vecchi feticci sostituendo alle vuote ideologie i fatti e le loro naturali conseguenze. Questo non sarà solo di noi, ma anche di altri popoli.”  Una lucida e profetica anticipazione di quanto sarebbe poi accaduto in tutta l’Europa.  Tutto questo si pose, in maniera del tutto naturale, in totale opposizione al principio democratico in politica e a quello liberale nel campo economico, all’insegna di una rivoluzionaria concezione elitaria, fortemente gerarchica e anti-egualitaria che reclamava la valorizzazione delle minoranze attivistiche e carismatiche con la conseguente affermazione del principio guida del Capo, con il mito dello Stato totalitario come asse formante e legittimante della Comunità nazionale e non ultimo la funzione pedagogica del Partito unico, soprattutto mediante una costante mobilitazione politica delle masse, una sacralizzazione della politica attraverso il ricorso a liturgie collettive, miti e simbologie, e una crescente militarizzazione della vita sociale e civile, l’intervento statale attraverso gli istituti del Corporativismo per una razionale direzione disciplinata dell’economia che ponesse termine all’epoca del predominio delle oligarchie mercantilistiche e parassitarie e riportasse la vita economica al servizio dell’interesse collettivo subordinandola alle necessità politiche nazionali.  Infine, l’affermazione sovrana di una particolare e severa tipologia umana di nuova impronta che avrebbe rappresentato lo spirito del nuovo tempo: l’Uomo Nuovo, l’Uomo integrale come manifestazione vivente di una Tradizione atemporale che ebbe la volontà e la capacità di tradursi in Rivoluzione.  Proprio nel senso di quell’interpretazione che Niccolò Giani seppe dare, facendosi portavoce di quegli ambienti del Fascismo intransigente e rivoluzionario che vollero interpretare al meglio gli insegnamenti mussoliniani: “Il Fascismo è un richiamo violento alla Tradizione, non un ritorno o una ripetizione. Per noi fascisti la Tradizione come lo dice il significato etimologico del termine e come Evola ha documentato, è e non può essere che dinamica. Altrimenti si parlerebbe di conservatorismo o di reazione. Invece, la Tradizione è continua coniugazione, attraverso il presente, del passato e dell’avvenire; è processo inesausto di superamento, è una fiaccola accesa con la quale ogni popolo illumina la propria strada e corre nel tempo verso l’avvenire. Ecco perché, oggi, Rivoluzione e Tradizione non si escludono, ma anzi si identificano e questo spiega il culto che noi abbiamo pel passato e dice ai soliti uomini dai paraocchi che l’italiano del secolo XX non può che essere fascista.”  Questa nuova visione della politica rappresentata dal Fascismo rappresentò inequivocabilmente la radicale negazione dei principi emersi dalla rivoluzione francese, una evidente antitesi storica e culturale di quanto fu incarnato dall’illuminismo, che costituì l’essenza di tutte le manifestazioni materialistiche ed economicistiche della decadenza moderna: da quelle individualistiche, liberali e democratiche a quelle cosmopolite, genericamente progressiste e marxiste.  Il Fascismo, anche nella sua più vasta comprensione europea, intese proporre in maniera concreta ed efficace un discorso radicalmente alternativo alla politica borghese e alla società borghese richiamandosi al concetto di avanguardia delle idee, un’avanguardia rivoluzionaria che fosse in grado, senza contraddizioni, di saldare assieme passato e presente vincendo così la sfida della modernità, sostituendo il vigore giovanile della passione idealistica e volontaristica alla decadente dissolutezza del conservatorismo borghese e il cameratismo militante radicato nella coscienza popolare alla società atomizzata e polverizzata delle democrazie liberali.  Un discorso ambizioso per un’avanguardia che ambiva ad essere al contempo simbolo della genuinità politica e della resurrezione spirituale, una speranza che venne riposta nel mito capacitante dell’Uomo Nuovo creatore di nuovi valori, l’esemplare di una specifica specie umana lanciata alla conquista del futuro senza per questo dover recidere le radici culturali e spirituali che lo mantenevano legato alla propria dimensione storica, etnica e popolare; nei confronti della quale si espresse il Duce parlando nel 1933 all’Assemblea delle Corporazioni: “L’uomo economico non esiste, esiste l’uomo integrale che è politico, che è economico, che è religioso, che è santo, che è guerriero.”   Quindi questa figura particolare dell’Uomo Nuovo, capace di raccogliere in sé tutte le sue forze creative, che la cultura rivoluzionaria del Fascismo proponeva e che non mancava costantemente di ricollegare alla stagione dello squadrismo, così intrisa di eroicità e di sacrificio, riconduceva alla stessa definizione dell’Uomo integrale di mussoliniana memoria, ovvero un uomo che non esistesse unicamente perché cartesianamente pensante, ma perché arricchito di tutte quelle virtù “romanamente” intese, eroiche, civiche e politiche, sia nella ragione come nei sentimenti.  Spesso e volentieri nell’immaginario intellettuale il discorso sull’Uomo Nuovo si andava a concretizzare poi nell’ideale della gioventù, una gioventù non solamente intesa in senso spirituale ma anche come dato anagrafico, poiché il concetto di gioventù rimandava all’ansia del cambiamento e all’impeto rivoluzionario, racchiudendo in se stessa gli ideali della forza e della bellezza, di una esuberante virilità aggressiva, l’anelito vitale di un futuro tutto da conquistare, proprio l’opposto di quanto ancora proponevano i rappresentanti delle democrazie borghesi con tutte le loro desuete convenzioni e i loro logori formalismi, con tutta la loro boriosa rispettabilità e lasciva ipocrisia.  Il Fascismo fu quindi profondamente giovane e irruento, meravigliosamente violento e lo fu sia spiritualmente che anagraficamente.  Il comune denominatore della più intransigente e autentica cultura fascista, quella derivata appunto dalla passionale ed eroica stagione dello squadrismo, si trovava nell’aspirazione alla realizzazione di un originale disegno politico ed esistenziale da esplicarsi mediante cambiamenti radicali frutto di una ferma volontà rivoluzionaria che armonizzava i riferimenti alla rivolta romantica dell’interventismo e alla mistica eroica evocata dalla guerra di trincea con i nuovi miti palingenetici di trasformazione della società e dello Stato. Questa cultura dell’azione che si nutriva dello spirito barricadiero di rivolta contro l’ordinamento borghese in nome di un rivoluzionario e fascista Ordine Nuovo era la caratteristica di quell’ambiente fascista che si riconosceva, anche per esperienza diretta, nel mito capacitante delle aristocrazie del combattentismo – quella trincerocrazia più volte evocata da Mussolini – e nella scuola di vita e di coraggio rappresentata dalla militanza squadristica che venne vissuta, letta ed interpretata non solamente come una reazione organizzata e armata volta all’annientamento dei focolai dell’insurrezionalismo marxista, ma soprattutto come militanza rivoluzionaria e idealistica volta alla rigenerazione della Nazione e alla creazione di uno Stato nuovo. Una specifica rilettura che si svolgeva anche in aperta polemica con coloro che ritenevano che la nascita del governo presieduto da Mussolini, all’indomani della marcia su Roma, rappresentasse la fase risolutiva del Fascismo.  In questo modo, il Fascismo, doveva e poteva assumere una superiore valenza metafisica affermando il suo essere come un completamento naturale e organico della storia della Nazione italiana, andando ben oltre la semplice insorgenza anti-sovversiva e anti-modernista – non a caso lo stesso Niccolò Giani volle mettere l’accento sul fatto che: “La Rivoluzione Fascista infatti non è stata reazione come qualcuno ha creduto in origine e come tuttora si crede da molti all’estero; è stata invece l’ostetrica della nuova storia. Il 28 ottobre 1922 è sorta una nuova civiltà capace di risolvere tutti i problemi della società contemporanea.”  Per costoro, che in fondo rappresentavano la vasta base della militanza fascista e anche quella intellettualmente più viva, l’agire politico del Fascismo non doveva assolutamente compromettersi con i residui della vecchia classe dirigente, che in virtù del processo di normalizzazione e di pacificazione avviato dal Duce si adoperavano nell’inserimento all’interno dei gangli del regime, doveva invece mantenere e tonificare una assoluta intransigenza dottrinaria senza incorrere in alcun cedimento politico e morale, perché se il Fascismo era una rivoluzione, doveva necessariamente procedere nei suoi obiettivi con mentalità e metodi rivoluzionari, come perentoriamente affermò un autorevole esponente dell’epopea squadristica della statura di Roberto Farinacci: “Bisogna insomma che la bestia proteiforme del vecchio conservatorismo sornione sia liquidata bruscamente; che le vecchie clientele d’interessi e d’ambizioni fiorite ai margini della vita politica italiana siano messe in mora, vigilate, controllate, sopra tutto tenute lontane, bisogna che sia impedito a chiunque di rifarsi, attraverso il Fascismo, una qualsivoglia verginità e continuare, sotto mentite spoglie, le abitudini peccaminose del passato. La vittoria deve essere integrale.”  Tra gli oppositori più accaniti della deriva moderata si evidenziarono gli ideatori della Scuola di Mistica Fascista, costituitasi a Milano il 10 Aprile 1930, tutti provenienti da quella generazione di giovani dei GUF che era cresciuta respirando l’atmosfera del Fascismo, maturando così una profonda convinzione nei miti fondatori del regime e una fedeltà assoluta nella persona del Duce.  Al loro fianco si schierarono altre personalità di spicco del Fascismo rivoluzionario: Berto Ricci con il suo universalismo fascista, Alessandro Pavolini e l’esaltazione della primavera squadristica, Edmondo Rossoni con tutte le aspettative del sindacalismo rivoluzionario.  Il 29 Novembre 1931, la Scuola di Mistica Fascista verrà intitolata a Sandro Italico Mussolini, il figlio prematuramente scomparso di Arnaldo Mussolini.  Niccolò Giani, Guido Pallotta, Fernando Mezzasoma e molti altri giovani entusiasti, avvalendosi della guida orientatrice di Arnaldo Mussolini, seppero rappresentare, attraverso l’opera che fu sviluppata dalla Scuola, una autentica e intransigente avanguardia intellettuale e morale posta a difesa dei valori espressi dalla Rivoluzione Fascista, che sempre più doveva farsi rivoluzione culturale e antropologica per meglio adempiere alla consegna rivoluzionaria che il Duce del Fascismo aveva dato alle nuove generazioni.  Sarà Niccolò Giani a spiegare gli scopi dell’istituzione: “Poiché una mistica è un postulato di tanti credo, e un valore assoluto non lo si può derivare che da una fonte indiscutibile, questa fonte non può essere che il Duce. Ecco perché la fonte deve essere quella, esclusivamente quella. Compito nostro deve essere soltanto quello di coordinare, interpretare ed elaborare il pensiero del Duce. Ecco perché è sorta una Scuola di Mistica fascista ed ecco il suo compito: elaborare e precisare i nuovi valori del Fascismo che sono nell’opera del Duce.”  Quindi una rivoluzione culturale, del carattere e dello Spirito che, attraverso interessanti rievocazioni del mito della romanità e della sacralità della Stirpe – rappresentazioni metastoriche e metafisiche della migliore tradizione aryo-romana – sarebbe approdata ad una coesione organica della Stirpe italica costituitasi in Comunità nazionale e avrebbe dato all’Italia fascista il diritto-dovere di adempiere ad una missione universale facendo del Fascismo il crocevia della storia europea del ventesimo secolo e il riformatore dei tratti essenziali della Civiltà contemporanea in ogni suo aspetto, la ripresa e il rinnovamento dell’Europa all’indomani del fallimento della democrazia liberale e delle utopiche promesse marxiste. Aprire la strada al secolo fascista.  Certamente nella visione della Mistica fascista elaborata dalla Scuola vi era la ferma consapevolezza che il Fascismo fosse una autentica rivoluzione totale della società italiana: spirituale ed etica, sociale e politica, ma al contempo anche una ripresa di tutte le tradizioni essenziali, però la memoria storica proposta non si sarebbe dovuta risolvere in un ripiegamento nel passato, l’immagine del passato non finì mai per schiacciare la dimensione del presente e tanto meno si configurò come un richiamo intensamente nostalgico, bensì le potenzialità ideologizzanti della rimemorazione storica vennero fatte espandere fino a provocare una vera e propria occupazione del cosiddetto campo dei ricordi – una lotta spirituale e rivoluzionaria per il dominio del ricordo e della memoria – che conducesse ad una riscrittura della cronologia nazionale che rispecchiasse le concezioni del pensiero irrazionalista, anti-intellettualista e pragmatista dei decenni trascorsi, un pensiero profondamente permeato di sfumature di matrice nietzschiana e soreliana.  Anche i richiami alla Mistica insita nel Fascismo erano animati dallo spirito di rivolta, contro le mentalità borghesi ancora sussistenti, delle nuove generazioni cresciute ed allevate nelle organizzazioni totalitarie giovanili e universitarie, una rivolta che si manifestava con i forti caratteri di un idealismo morale ed etico qualitativamente aristocratico esprimente l’esaltazione di una giovinezza istintiva, disinteressata e piena di spirito vitale, aggressiva, pura e decisa a dare battaglia a qualsiasi forma di conservatorismo e di borghese “buon senso” pur di affermare il carattere intransigente e le finalità rivoluzionarie sociali e spirituali del Fascismo.  Non vi era nessun punto di convergenza con eventuali nostalgie reazionarie, mentre invece era presente una totale e coerente aderenza alle istanze di trasformazione rivoluzionaria che il Fascismo esigeva e che ancor di più il Duce imponeva.  Per questi giovani attivisti non vi era altra strada per uscire definitivamente dalla crisi della modernità, esplosa alla fine del primo conflitto mondiale, che con un mutamento radicale del popolo italiano e una tale mutazione antropologica poteva provenire solamente da una fede ben salda che aveva iniziato a germinare in un primo tempo con l’esperienza della guerra nel mito della Nazione in armi, della guerra di popolo, proseguendo poi con l’esaltante epopea della lotta squadristica, per approdare infine nella costruzione dello Stato fascista di popolo, corporativo e totalitario, il compimento finale del rinnovamento sociale e spirituale della Stirpe e della grandezza politica della Nazione.  Nel corso degli anni che trascorsero dal 1930 fino all’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 la Scuola di Mistica Fascista assolse in maniera esemplare ai compiti che si era prefissata, ovvero l’ambizione di voler rappresentare l’infrangibile scudo morale, etico e dottrinario contro il quale si sarebbero dovute infrangere le velleità dei nemici del Duce e del Fascismo, soprattutto i nemici interni, i più pericolosi, quelli che si annidavano tra le pieghe del regime per minarlo alla base.  Affinché lo scudo della rivoluzione fosse solido i mistici della Scuola, i soldati politici dell’Idea, vollero essere loro stessi esempio di virtù civiche, morali e politiche, di fedeltà indiscussa nei confronti della guida della rivoluzione, il Duce, spesso descritto come il genio della Stirpe, l’Eroe che con la sua instancabile opera dava quotidianamente prova di rappresentare pienamente la coscienza e la voce dell’anima del popolo, soprattutto di un popolo a cui il Fascismo aveva restituito la dignità politica e sociale e un’unità spirituale che attingeva dalla viva coscienza di appartenere integralmente all’organismo della Nazione.  Da questa chiave di lettura emergeva, quindi, una superiore comunione mistica che legava il Duce al suo popolo, cementata dalla comune fede fascista, una fede intensa che a sua volta veniva elevata al rango di una sorta di religione mistico-popolare sacralizzata dal sangue offerto in sacrificio dai martiri dello squadrismo sull’altare della rivoluzione, una rivoluzione continua che, come affermava un giovane esponente della Scuola, procedeva impetuosamente la sua marcia: “I giovani della Mistica si sono irradiati tra le file delle generazioni vecchie e nuove e hanno dato il goccio d’acqua, il pezzo di pane del conforto, hanno sorretto i deboli, hanno convinto i pusillanimi. La Rivoluzione ha attraversato le ubertose valli della sua fase politica, ora sale. Guai a chi volesse tentare di derogare alle direttive di marcia per evitare le asprezze della salita e impedire che dalla politicità si torni alla rivoluzione piena e travolgente delle ore di audacia e di lotta.”  Per queste nobili motivazioni gli esponenti della Mistica fascista chiesero e ottennero nel 1939 che la Scuola divenisse la custode del famoso “Covo” milanese di via Paolo da Cannobio, il sacrario della rivoluzione delle camicie nere, appunto il Covo del fascio primogenito dove la fede fascista aveva mosso i primi passi e dove il Duce aveva chiamato all’adunata.rossi  Un luogo simbolico carico di suggestivi richiami emozionali, ben presente nell’immaginario collettivo della militanza squadristica, che avrebbe dovuto essere la fonte di irradiamento della Mistica fascista verso tutta la Nazione.  Il cosiddetto “Covo” del fascio primogenito rivestì sempre per i mistici fascisti un ruolo centrale nel loro immaginario dottrinario, rappresentava la fonte mitica della fede mussoliniana, il principio fondante del Fascismo, era come trascendere il tempo profano per riapprodare al tempo mitico della purezza dell’Idea, un riaccostamento di ordine metafisico a cui si poteva accedere soltanto attraverso i miti e i simboli, e la Mistica fascista era satura di richiami, di miti e di simboli: “Qui è tutta l’attualità e la contemporaneità del “Covo”. Attualità e contemporaneità che non dovranno mai tramontare. Non solo per noi, infatti, ma per i nostri figli e per i figli dei nostri figli il “Covo” deve e dovrà essere l’Arca dei valori della Rivoluzione, la bussola cui guardare nei momenti di indecisione, la guida cui ispirarsi, la stella polare che il navigante dello Spirito deve vedere sempre alta e lucente davanti a se. E ad esso oggi, domani, sempre gli italiani dovranno salire in pellegrinaggio, per meditare, per ispirarsi. Ad esso le generazioni si accosteranno sempre con stupore religioso per imparare che nulla allo Spirito è impossibile.”  Il Fascismo, come spesso ripeteva il Duce, era una fede coltivata nella lotta che aveva avuto i suoi caduti, i suoi martiri che immortalatisi vestendo la gloriosa camicia nera la avevano rafforzata e sacralizzata: “Se ogni secolo ha una sua dottrina, da mille indizi appare che quella del secolo attuale è il Fascismo. Che sia una dottrina di vita, lo mostra il fatto che ha suscitato una fede: che la fede abbia conquistato le anime, lo dimostra il fatto che il Fascismo ha avuto i suoi caduti e i suoi martiri. Il Fascismo ha oramai nel mondo l’universalità di tutte le dottrine che, realizzandosi, rappresentano un momento nella storia dello spirito umano.”  Adesso, questa fede, attraverso i mistici fascisti della Scuola aveva trovato i suoi intransigenti custodi e i suoi più appassionati apostoli.  Anche loro si stavano preparando al combattimento – nella sua duplice veste fisica e spirituale – aspirando di potere affrontare degnamente il supremo sacrificio per il Fascismo e onorare così la loro scelta di vita versando il proprio sangue per la causa rivoluzionaria.  Morire all’ombra dei gagliardetti neri: Mistica dell’azione – Mistica del realismo eroico – Mistica della fede. Fedeltà che era più forte del fuoco, come narravano antiche saghe.  Che l’intensa e interessante attività svolta dalla Scuola nell’approfondimento e nell’arricchimento della Dottrina fascista fosse il risultato di un grande impegno contrassegnato da un’altrettanto grande serietà venne comprovato dai numerosi riconoscimenti che ricevette, non ultimo l’apprezzamento e la manifesta simpatia avuta da parte di Julius Evola, ma il riconoscimento più importante, i mistici, lo ricevettero dal Duce che li encomiò pubblicamente il 20 novembre 1939, incontrando i quadri della Scuola a Palazzo Venezia, incitandoli a proseguire nel cammino intrapreso quali custodi della purezza dell’Idea e del mito rivoluzionario: “Io vi ho seguito in tutti questi anni da vicino e con vivissima simpatia perché considero la mistica in primo piano. Ogni rivoluzione ha infatti tre momenti: si comincia con la mistica, si continua con la politica, si finisce nell’amministrazione. Quando una rivoluzione diventa amministrazione si può dire che è terminata, liquidata. Potrei dimostrarvi che tutte le rivoluzioni sono passate attraverso questo ciclo: noi che conosciamo la storia dobbiamo impedire che la politica scivoli nell’amministrazione. Alle origini di ogni rivoluzione c’è la mistica: se la politica è il contingente, la mistica è l’immanente, essa rappresenta i valori eterni, essenziali, primordiali. (…) Voi dovete lavorare per l’avvenire. Per far questo occorre la fede. E’ facile ad un certo momento deviare nella politica: voi dovete essere al di fuori e al di sopra delle necessità della politica. Di queste cose ho parlato in modo molto sommario; ma tutte erano presenti in voi. Avete tempo di riflettere.”  Il secondo conflitto mondiale era però già iniziato e l’Italia sarebbe entrata in guerra l’anno successivo.  I mistici fascisti volendo essere, fino alle estreme conseguenze, la prima linea del Fascismo accolsero con felicità ed entusiasmo la notizia, chiedendo ufficialmente che gli venisse concesso l’Onore dell’arruolamento volontario “nei più rischiosi reparti di terra, di mare o di cielo”. Subito, ben 169 quadri dirigenti della Scuola partiranno per il fronte, convinti che il processo rivoluzionario fascista avrebbe avuto una formidabile accelerazione proprio per effetto della guerra. Molti altri mistici seguiranno a ruota l’esempio dei loro capi.  La loro esemplare condotta evidenzierà una magnifica esplicazione degli insegnamenti della Tradizione: se hai di fronte due strade, scegli sempre la più difficile. Poiché c’è sempre una strada per chi vuole percorrerla.  Sia Niccolò Giani, sia un’altra figura di eccezionale valore come Berto Ricci, testimonieranno la loro intransigente coerenza esistenziale e politica con la scelta del combattimento. Il primo volontario sul fronte greco-albanese dove troverà eroicamente la morte nel marzo del 1941, il secondo, sempre volontario, sul fronte africano dove coronerà la propria esistenza di credente nella fede fascista incontrando, altrettanto eroicamente, la morte il 2 febbraio 1941 a Bir Gandula sul Gebel cirenaico.  Nell’arco di un solo mese il Fascismo perse due tra i suoi migliori campioni.  Le vicende belliche decimarono di fatto il gruppo dirigente della Scuola che sarà costretta a cessare le sue attività. I pochi sopravvissuti di quell’esperienza raccolsero di nuovo la chiamata del Duce aderendo nel 1943 alla Repubblica Sociale Italiana, tra questi Fernando Mezzasoma che era stato il vicepresidente della Scuola e che ricoprì il dicastero della propaganda nella RSI, trasportando con il proprio esempio le intime motivazioni della Mistica fascista nell’esperienza repubblicana: “È questa nostra intransigenza nei confronti della Dottrina che abbiamo sposato, delle battaglie che combattemmo, delle realizzazioni che abbiamo attuate, che, se ci consente di accettare la collaborazione di qualsiasi Italiano in buona fede e di buona volontà che voglia aiutare la titanica fatica del Duce, ci obbliga tuttavia a respingere sdegnosamente qualunque patteggiamento con coloro che agiscono al servizio del nemico, uccidendo a tradimento i nostri migliori compagni di marcia e di battaglia, con coloro che nell’Italia invasa perseguitano i fascisti che a migliaia risorgono e insorgono per rendere dura la vita agli invasori e aprire la strada al nostro ritorno. Questa deve essere oggi la nostra missione di fascisti. Questo è il comandamento di Niccolò Giani. Questo è il suo insegnamento. Nel suo nome, e nel nome degli altri Caduti, i superstiti della Scuola di Mistica fascista chiamano a raccolta l’autentica gioventù italiana.”  Anche lui morirà poi nel 1945 assassinato dai partigiani.  Andarono tutti volontariamente incontro alla morte per onorare un patto di fedeltà e di fede che li legava al Duce e al Fascismo, così facendo coronarono una vita degna e ben vissuta, il loro abbraccio mistico con il Fascismo si consumò eroicamente in combattimento e di fronte ai plotoni di esecuzione.  Se ancora oggi, dopo i tanti decenni trascorsi, la loro memoria, la memoria delle tante battaglie ideali e materiali affrontate, viene nonostante tutto ancora sentita come viva, se il ricordo di questi uomini caduti con onore non in nome di una passione generica, ma per il Fascismo, per il compimento di una Rivoluzione che è rimasta scolpita nella Storia, torna ancora ad emergere non deve assolutamente avvenire perché i vivi di oggi debbano morire nel loro cuore, struggendosi nella nostalgia del ricordo, ma deve invece impetuosamente emergere affinché i morti di ieri possano tornare a vivere tra di noi.  Quella marcia, iniziata il 28 Ottobre 1922, non è ancora terminata.  Non ci consta che esistessero specifiche istituzioni pubbliclie, ma in proposito possiamo ricordare numerosi provvedimenti e diverse associazioni private. Fra quelli, le leggi agrarie, le disposizioni a favore dei debitori, le distri­ buzioni semigratuite o gratuite dì grano, fatte dagli edili; i congiari imperiali (che erano copiose elargizioni di farina, olio e carne disposte dagli imperatori). Provvidenze che mi­ ravano tutte a combattere, direttamente e indirettamente, le cause dell’indigenza o almeno a paralizzarne gli effetti, ben­ ché nella loro essenza e origine avessero carattere politico, cioè fossero prese sopratutto per cattivarsi il favore e la simpatia della plebe o evitare tumulti e sommosse. Fra le associazioni, sopratutto bisogna ricordare quelle costituite a scopo mutualistico ; e tale è il carattere dei collegia fune- raticia, dei collegia termiorum, delle casse di soccorso isti­ tuite da Giulio Cesare fra i suoi legionari. Anche nel campo dell’istruzione si devono ricordare istituti privati i quali istruivano la classe dirigente romana. E’ invece nelle opere pubbliche ohe specialmente i romani ai distinsero legando ai posteri terme e acquedotti, palestre e strade, circhi e palazzi olle ancora oggi, in parte, almeno, durano e sono efficienti. L’ORDINAMENTO SOCIALE DELLO STATO  SECONDO LA CONCEZIONE FASCISTA    Capitolo Primo    Pag.   LA TEORICA FASCISTA SULLA NATURA E SULLE   FUNZIONI DELLO STATO.' . . 3-10    Capitolo Secondo   IL CONTENUTO DELLA FUNZIONE SOCIALE DELLO   STATO .11-18    Capitolo Terzo    I PRECEDENTI STORICI DELLA FUNZIONE SOCIALE  DELLO STATO NELLA POLITICA E NELLA LEGI¬  SLAZIONE SOCIALE 19-32   Capo i - in generate .. 19   § 1. Nell’antica Grecia. 19   § 2. In Roma sino all’editto di Costantino. 20   § 3. In Roma dopo li riconoscimento ufficiale del cattoli¬  cesimo . 20   § 4. Durante il medioevo. 21   § 5. Dopo la riforma protestante. 22               XIV    Ordinamento sociale dello Stato fascista    Capo II - In Italia . 25   § 1. L’evoluzione e la trasformazione della legislazione sociale 25   § 2. La legislazione sulla beneficenza e sulla assistenza pub¬  blica e privata. 26   § 3. La legislazione sulla mutualità e sulla previdenza . . 2?   § 4. La legislazione del lavoro. ?t)   § 5. La legislazione sull’istruzione pubblica .... 30   § 6. La legislazione sull’igiene e sulla sanità pubblica . . 31   § 7. La legislazione sui servizi e sulle opere pubbliche . 31   Capitolo Quarto   GLI ELEMENTI DELL’ORDINAMENTO SOCIALE DELLO   STATO FASCISTA.33-47   Capo I - I soggetti . 33   Capo II - (Hi obiettivi . 36   § 1. Gli obiettivi relativi ai cittadini in genere .... 36   A. Gli obiettivi inerenti alle condizioni generali di vita . 36   B. Gli obiettivi inerenti in particolare alla fase di forma¬   zione e di preparazione del cittadino, a quella di  produttività e a quella di riposo. 37   g 2. Gli obiettivi relativi ai cittadini benemeriti .... 38   § 3. Gli obiettivi relativi ai cittadini non risanabili e non   rieducabili 38   Capo III - Gli strumenti . 38   § 1. Il criterio, profondamente corporativo, adottato dal legi¬  slatore fascista per la scelta degli strumenti attuanti la  politica sociale. 36   g 2. La famiglia. 40   g 3. L’associazione professionale . 42   § 4. Le istituzioni promananti, singolarmente o paritetica¬  mente, dalle associazioni professionali. 43   g 5. Gli enti locali. 43   g 6. Le opere nazionali parastatali. 43   Capo IV - I limiti . 44                     Indice-S onvmario    xv    PARTE SECONDA   LE ISTITUZIONI DEL NUOVO ORDINAMENTO  SOCIALE DELLO STATO FASCISTA  Di alcune considerazioni preliminari. 51   Capitolo Pbimo   LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLE CONDI¬  ZIONI GENERALI DI VITA DEL CITTADINO . . 55-118   Preliminari .   Capo I - ha- legislazione inerente alla sicurezza, all’igiene e   alla sanità pubblica . 56   § 1. Per garantire la sicurezza. 56   § 2. Per assicurare l’igiene e la sanità ...... 58   Capo II - La legislazione inerente alla previdenza ... 62   | 1. Per incrementare il risparmio .. 63   § 2. Per potenziare la mutualità. 64   £ 3. Per favorire la cooperazione. 64   § 4. Per diffondere le assicurazioni Ubere. 65   Capo III - La legislazione inerente alla assistenza di soccorso 65   § 1. Per l soccorsi in natura e in contanti. 66   § 2. Per i soccorsi medico-sanitario-ospitalieri .... 67   Capo IV - La legislazione inerente alla propaganda, all'inte¬  grazione culturale e al perfezionamento scientìfico . 68   § 1. Per favorire il perfezionamento scientifico .... 68   § 2. Per la propaganda e l’integrazione culturale .... 60   Capo V - La legislazione inerente all’integrazione della forma¬  zione e dell’educazione fisica e sportiva . 71   Capo VI - La legislazione inerente alla costituzione e all’in¬  cremento del nucleo familiare . 72   § 1. Per favorire la costituzione della famiglia .... 72   § 2. Per facilitare l’esistenza e lo sviluppo delia famiglia . 73   Capo VII - La legislazione inerente a particolari servizi pub¬  blici. 73   § 1. Per garantire il soddisfacimento di bisogni primari . . 74   § 2. Per assicurare i rapporti e i contatti economico-sociali . 75   § 3. Per valorizzare il patrimonio nazionale ..... 76             XVI    Ordinamento sociale dello Stato fascista    *   Capo Vili - La legislazione inerente al controlla, <UVadegua¬  mento e al collegamento ielle istituzioni dell’ordinamento  sociale e alla selezione dei suoi soggetti . 77   § 1. Per assicurare il controllo e l’adeguamento delle istitu¬  zioni sociali . 78   § 2. Per ottenere il collegamento nell'ambito dell’ordina¬  mento sociale . 78   •§ 3. Per assicurare la formazione della classe dirigente me¬  diante la selezione totalitaria del cittadini .... 79    Appendice al Capo Vili   IL PARTITO NAZIONALE FASCISTA E LE ORGANIZZA¬    ZIONI DIPENDENTI.80-116   Origine, natura e funzione sociale del P. N. F . 80   I. I Fasci di Combattimento .. 86   co I compiti . gg   3 - I soggetti .• . . 87   y. L’ordinamento. 87   II. L’Associazione nazionale famiglie Caduti fascisti e Muti¬   lati e Invalidi per la Causa Nazionale . 88   a- I compiti . 88   0 . I soggetti . 88   y. L’ordinamento. 88   III. L’Unione nazionale ufficiali in congedo d’Italia ... 88   • a- I compiti .. gg   &• I soggetti . 89   y. L’ordinamento. gg   IV. L’Unione nazionale fascista del Senato . 90   a- I compiti . gg   3 . I soggetti . 90   Y- L’ordinamento. 90   V. I Gruppi Universitari Fascisti . 90   co I compiti . 90   3 . I soggetti . 91   y. L’ordinamento. 91   VI . I Fasci Giovanili di Combattimento . 92   a- I compiti . 92   3 . I soggetti . 94   y. L’ordinament*. 94                            Indice-Sommario    XVII    VII. I Fasci Femminili .....   ♦     *    95   tt . I compiti .        95   0 . I soggetti .        95   y. L’ordinamento.        96   Vili. L’Opera Nazionale Dopolavoro .        96   a- I compiti .        96   I soggetti .        97   y. L’ordmamento.        9T   IX. Le Scuole superiori femminili        00   X. Le Associazioni fasciste ....        99   a . I compiti .        99   5 . I soggetti ..        101   y. L’ordinamento.        103   XI. Il Comitato intersindacale ....        104   a- I compiti .        104   0 . I soggetti .        105   Y- L'ordinamento.        105   XII. OU Uffici di Collocamento        105   tt . I compiti .        105   0 . I soggetti .        105   y. L’ordinamento.        106   XIII. L'Ente Opere Assistenziali        106   a- I compiti .        106   g. I soggetti .        106   y. L’ordinamento.        106   XIV. L'Opera Universitaria ....        107   a. I compiti .        107   0 . I soggetti .        107   y. L’ordinamento.        107   XV. Il Comitato olimpionico nazionale italiano       108   a. I compiti .        108   0 . I soggetti .   *       108   y. L’ordinamento.        109   Di alcune considerazioni sul P. N. E. .     *   *    109   La legislazione richiamata ....   .   .    .    113    DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SO¬  CIALI RELATIVE ALLE CONDIZIONI GENERALI  DI VITA DEL CITTADINO.116               XVIII    Ordinamento sodale dello Stato fascista    Capitolo Secondo   LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FORMA¬  ZIONE FISICO-MILITARE E ALLA PREPARAZIONE  PROFESSONALE-NAZIONALE DEL CITTADINO . . 119-167   Preliminari . 119   Capo I - La legislazione inerente al nucleo familiare per la   formazione fisico-militare del cittadino . 121   S 1. Per sopperire alla insufficienza relativa dei mezzi econo¬  mici della famìglia e sostituirla nella vacanza di alcune  sue funzioni. 121   § 2. Per integrare l’inadeguatezza assoluta di alcuni mezzi   della famiglia. 122   Appendice al Capo I   L’OPERA NAZIONALE PER LA PROTEZIONE DELLA MA¬  TERNITÀ’ E DELL’INFANZIA.122-189   I. L’origine, la natura e la funzione sociale deU’.O.N.M.I. , . 122   II. I compiti . 129   a- Per l’integrazione e il coordinamento dell’azione svolta   da altri enti o istituti o da privati. 130   3 - Pev la vigilanza e il controllo delle singole istituzioni   di assistenza. 131   Per la propaganda e la vigilanza suU’applieazione  delle leggi e dei regolamenti riguardanti l'assistenza  materna e infantile. 132   III. I soggetti . . 133   IV. L’ordinamento . 135   Dì alcune considerazioni suli’O. N. M. 1 . 137   La legislazione richiamata. 140   Capo II - La legislazione inerente all’istruzione e alla forma¬  zione professionale del cittadino . 142   § 1. Per garantire l’istruzione professionale del cittadino sino   al 14° anno di età. 143   § 2. Per favorire e incrementare l’istruzione professionale    Capo III - La legislazione inerente all’educazione e alla forma¬  zione fisica, premilitare, morale e nazionale del cittadino 149   Appendice al Capo III   L’OPERA NAZIONALE BALILLA PER L’ASSISTENZA E  L’EDUCAZIONE FISICA E MORALE DELLA GIO¬  VENTÙ’ .150-164                Indice-Sommario    XIX    I. L’origine, la natura e la funzione somale dell’.O.N.B. . . 150   II. I compiti . 155   III. I soggetti .. 160   IV. L’ordinamento . 161   Di alcune considerazioni sull’O.N.B. 162   La legislazione richiamata. 164   DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SO¬  CIALI RELATIVE ALLA FORMAZIONE FISICO-MI¬  LITARE E ALLA PREPARAZIONE PROFESSIONALE-  NAZIONALE DEL CITTADINO. 166   Capitolo Teszo   LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE ALLA FASE DI   PRODUTTIVITÀ’ DEL CITTADINO.189-100   Preliminari . 169   Capo I * La- legislazione inerente all’azione sociale attuata   dalle associazioni professionali ....... 172.   § 1. Per garantire l’azione sociale da attuarsi direttamente   dai sindacati . 174   § 2. Per assicurare l’azione sociale da attuarsi dai sindacati   a mezzo di speciali istituzioni. 175   Appendice al § 2 del Capo 1   IL PATRONATO NAZIONALE PER L’ASSISTENZA SO¬  CIALE .’ - • 176-183   I. L'origine, la natura e la funzione sociale del P.N.A.S. . . 176   II. / compiti . 179   IH. I soggetti . 181   IV. L’ordinamento . 181   Di alcune considerazioni sul P.N.A.S. 182   La legislazione richiamata. 183   Capo II - La legislazione inerente all’azione sociale attuata.   dalle corporazioni . 183   § 1. Per garantire il produttore obiettivamente e subiettiva-   mente di fronte alle condizioni del lavoro. 184   § 2. Per tutelare i reciproci rapporti fra i produttori nella   loro dualità di datori di lavoro e di prestatori d’opera . 186   § 3. Per favorire ii perfezionamento e l'elevazione professio¬  nale del produttore. 187                  XX    Ordinamento sociale dello Stato fascista-    capo III - La legislazione inerente alla conservazione dello  spirito nazionale e della preparazione fisico-militare del  produttore . 188   DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SO¬  CIALI RELATIVE ALLA FASE DI PRODUTTIVITÀ’   DEL CITTADINO. 189    Capitolo Quarto   LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE AL PERIODO DI   RIPOSO-VECCHIAIA DEL CITTADINO .... 191-105   Preliminari . 191   Capo I - La legislazione inerente all’obbligo delle garanzie pre¬  videnziali per la fase di riposo-vecchiaia . . . 193   Capo II - La legislazione inerente a speciali interventi statuali   a favore del vecchio bisognoso ....... 194   DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI 'SO-  CIALI RELATIVE AL PERIODO DI RIPOSO-VEC¬  CHIAIA DEL CITTADINO. 194    Capitolo Quinto   LE ISTITUZIONI RELATIVE AI CITTADINI CHE HAN¬  NO BENEMERITATO DALLO STATO .... 197-203    Preliminari . 197   Capo I - La legislazione inerente alle benemerenze collettive 198   Capo II - La legislazione inerente alle benemerenze individuali 200   DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI SO¬  CIALI RELATIVE AI CITTADINI BENEMERITI . . 202    Capitolo Sesto    LE ISTITUZIONI SOCIALI RELATIVE AI CITTADINI   ■ MINORATI NON RISANABILI E NON RIEDUCABILI 205-210    Preliminari . 205   Capo I - La legislazione inerente ai minorati assolutamente   non produttori . 208              Indice-Sommario    XXI    Capo II - La legislazione inerente ni minorati relativamente   non produttori . 200   DI ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLE ISTITUZIONI RE¬  LATIVE AI CITTADINI MINORATI NON RISANA¬  BILI E NON INEDUCABILI. 209   *   PARTE TERZA   LA POSIZIONE E I RAPPORTI DI RELAZIONE DEL  CITTADINO NEL NUOVO ORDINAMENTO SOCIALE   Di alcune considerazioni preliminari ...... 213   Capitolo Primo   LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO DALLA NA¬  SCITA ALLA MAGGIORE ETÀ’.215-236   Capo I - L’anione previdenziale e assistenziale dello Stato sino   al quinto anno . 216   § l. Per la costituzione della famiglia. 215   § 2. Per la esistenza e l’incremento della famiglia . . 217   § 3. Per la donna gestante. 218   § 4. Per li cittadino neonato . 218   A. Per Viilegittimo e l’esposto ....... 210   B. Per l’orfano. 220   § 5. Per iì cittadino infante.. 220   Di alcune considerazioni sull’azione previdenziale e assisten¬  ziale dello Stato sino al quinto anno. 221   Capo II - L’azione previdenziale e assistenziale dello Stato   dal sesto al quattordicesimo anno . 223   § 1. Per la formazione e lo sviluppo fisico, militare, morale   e nazionale. 223   § 2. Per la formazione intellettuale e professionale . 225   Di alcune considerazioni sull’azione previdenziale e assisten¬  ziale dello Stato dal sesto al quattordicesimo anno . . 228    Capo III - L’azione previdenziale e assistenziale dello Stato  dal quindicesimo al ventunesimo anno .    229             xxn Ordinamento sociale dello Stato fascista   § 1. Per il cittadino elle studia. 230   § 2. Per il cittadino che lavora. 233   Di alcune considera «ioni sull’azione previdenziale e assisten¬  ziale dello Stato dal quindicesimo al ventunesimo anno 235   Capitolo Secondo   DA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO PRODUT¬  TORE . 237-251   Preliminari . 237   Capo I - L’anione previdenziale e assistenziale dello Stato per   il cittadino ohe è produttore . 239   Di alcune considerazioni. 245   Capo II - L’azione previdenziale e assistenziale dello Stato per   la cittadina che è produttrice .247   § 1. Per la cittadina sposa e madre. 248   § 2. Per la cittadina lavoratrice 249   Di alcune considerazioni sull’azione previdenziale e assi¬  stenziale dello Stato per la cittadina che è produttrice 250   Capo III - L’azione previdenziale e assistenziale dello Stato   per la famiglia e i suoi membri . 251   Capitolo Terzo   LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO A RIPOSO . 253-254   Capitolo Quarto   LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO BENEME¬  RITO . 255   Capitolo Quinto    LA POLITICA SOCIALE PER IL CITTADINO MINORATO   NON RISANABILE E NON RIEDUCABILE . . . 257-258                In dioe-Sommario    XXIII    PARTE QUARTA   LA POLITICA SOCIALE DELLO STATO FASCISTA  PER GLI ITALIANI ALL’ESTERO   Di alcune considerazioni preliminari. 261   Capitolo Primo   DELL’AZIONE SVOLTA DIRETTAMENTE DALLO STATO   ATTRAVERSO AI SUOI ORGANI. 269-274   Capo I - Per la riorganizzazione, il potenziamento e l’esten¬  sione della rete consolare . 269   Capo II - Per i cittadini che emigrano . 270   Capo III - Per gli italiani all’estero . 272   Capitolo Secondo   DELL’AZIONE SVOLTA MEDIANTE LA STIPULAZIONE  DI CONVENZIONI BILATERALI E PLURILATERALI  E MEDIANTE L'OPERA DELL’O.I.L. 275-305   Capo 1 - Le convenzioni bilaterali e plurilaterali .... 275   Capo II - Le convenzioni intemazionali, le raccomandazioni e   le risoluzioni dell'O.I.L . 280   La legislazione richiamata. 294   DI ALCUNE CONSIDERAZIONI FINALI - - • ™  CAMERATI, Niccolò Giani apparteneva alla categoria dei mistici per i quali è bello vivere se la vita è nobilmente spesa ma è più bello morire se la vita è donata all'Idea. Arnaldo Mussolini fu il suo Maestro: da Arnaldo im­ parò che prima di agire e costruire è necessario ele­ varsi, purificare il proprio spirito, temprare il proprio carattere; allora soltanto si potrà essere certi che l'azione sarà feconda e l'edificio sicuro. Da Arnaldo imparò che per conoscere, giudicare e guidare gli al­ tri è prima indispensabile conoscere bene se stessi, punire inesorabilmente i propri difetti, affinare inces­ santemente le proprie virtù: allora soltanto si potrà aspirare all'onore del comando. Da Arnaldo imparò che solo il sacrificio può suscitare le opere grandi e buone e distruggere le cose piccole e vili. Ciò che —7   non costa non vale; ciò che non procura fatica e sof­ ferenza non dura; quanto è al di fuori di noi non conta; gli onori, le cariche, le ricchezze sono effimere e ca­ duche cose. Quello che importa è quanto è dentro di noi, perchè è nostro e nessuno potrà mai portarcelo via, neanche a strapparci la carne viva di dosso. Es­ sere se stessi in ogni momento, rimanere se stessi sempre: ecco la più grande conquista degli uomini. Uomo di fede Un uomo di fede fu Niccolò Giani. E la sua fede era di quelle che non vacillano mai, di quelle che restano intatte nella buona e nella cattiva sorte e che traggono anzi dalle difficoltà e dalle sfortune un più profondo contenuto e sempre nuovi motivi. La sua fede era di quelle alte cui fonti cristalline attingono le intelligenze chiare e gli animi trasparenti degli uomini puri i quali sanno che se si vuole raggiungere l'ultima cima, mol­ te vette bisogna scalare e talvolta anche scendere da alcune per risalire su aifre vette più alte ancora. In 8 i   Giani la fede nasceva da un inesausto tormento spi­ rituale, da un'ansia incontenibile di elevazione e di conquista per divenire, come dice il Poeta, «cara gioia sopra ia quale ogni virtù sì fonda ». Egli credeva in Dio, nel Dio di noi Italiani fascisti e cattoiici a cui dobbiamo non soltanto il dono misterioso della vita ma anche il privilegio di averci chiamati a continuare la missione di civiltà e di giustizia che la gente nostra svolge nel mondo da più di due millenni. Egli credeva nella dottrina politica enunciata da Mussolini, scaturita dall'azione, alimentata dalla fede, consacrata dal sa­ crificio e nella sua possibilità di instaurare un nuovo sistema di vita, di educare gli uomini a una visione vasta ed umana delle cose, di creare un nuovo tipo di civiltà italiana, ed europea. Credeva in Mussolini perchè lo considerava l'uomo della Provvidenza, l'e­ sponente di una razza eletta, il fondatore di una ci­ viltà universale, il protagonista e l'artefice di una nuòva storia, il condottiero di giovani generazioni, il DUCE, a cui non occorre chiedere prima di iniziare la marcia dove ci porta e quando si arriverà perchè dal giorno in cui un destino fortunato (o pose alla testa —9 ‘1   del suo popolo, la meta era già nei suoi occhi e la vittoria nel suo pugno. Credeva nei giovani nati e cresciuti col sorgere del Fascismo, educati alla severa scuola del Partito e li voleva rivoluzionari nello spirito e nel sangue, gene­ rosi ed audaci, pronti alla lotta e alla rinunzia. Sogna­ va una classe dirigente che sapesse dimostrare con l'esempio, nelle opere e nel sacrificio, di essere de­ gna del nostro grande popolo e del nostro grande Capo; una classe dirigente fatta di uomini integrali, forti della loro indipendenza morale — la sola ric­ chezza umana che non abbia un valore misurabile in denaro — e dotati di tutte le virtù spirituali, intellet­ tuali e fisiche che sono indispensabili per poter eser­ citare con dignità e con efficacia la missione dei co­ mando. Concepiva la famiglia nel senso più tradizio­ nalmente nostro; amava cioè la sana numerosa fami­ glia italiana, ricca di onestà e prodiga di figli, sboc­ ciata dall'amore tra l'uomo che vive lavorando o com­ battendo-per la Patria e la donna che nel piccolo gran­ de regno della casa vive nella serena ed operosa attesa del ritorno di lui; e se l'uomo non tornerà la 10 —   donna lo piangerà senza lacrime perchè egli sopravvi­ va nella fierezza dei figli, I quali continueranno, nella luce del suo esempio, l'opera sua. Credeva nella Patria come ne « la più pura, la più grande, la più umana delle realtà », amava la Patria « più della propria anima ». Tutto per la Patria: fu la sua consegna. Niente per lui valeva qualche cosa se non serviva alla Patria. Perchè la Patria è tutto e tutti; sè e gli altri; le generazioni che furono, che sono e saran­ no; la storia di ieri, di oggi e di domani. La Patria è la sintesi di tutte le più nobili aspirazioni. Essa è fatta di uomini da rendere sempre più degni e di territori da fare sempre più vasti. Per essa si lavora, si soffre, si spera; per essa si combatte, si vince o si muore. Giornalista della Rivoluzione e Maestro dei giovani Niccolò Giani fu un giornalista della Rivoluzione. Egli intendeva il giornalismo come una scuola di vita, come uno strumento di educazione e di formazione. Dalle agili colonne del suo giornale, la «Cronaca Preal- — 11   ■^ . " T T r pina », e da quelle della sua rivista « Dottrina Fasci­ sta » si battè accanitamente per la creazione di un giornalismo rivoluzionario, dinamico, coraggioso, un giornalismo che fosse in grado di svolgere una fun­ zione costruttiva di divulgazione, di propulsione e di controllo, un giornalismo che fosse degno di essere considerato un'arma affilata della Rivoluzione. Ma soprattutto maestro dei giovani egli fu. All'Inse­ gnamento si era consacrato con il religioso fervore con il quale soleva dedicarsi a tutte le attività rivolte ai giovani. All'Ateneo di Pavia, al Centro di prepara­ zione politica, alla Scuola di Mistica Fascista egli portò il contributo della sua beila cultura fatta di conoscen­ za e di azione, illuminata dalla fede, riscaldata dal sentimento, Alla Scuola di Mistica diede la parte mi­ gliore di se stesso. «Tutto quello che di buono e di meritevole è stato fatto dalla Scuola — ha detto Vito Mussolini, nostro Presidente — proviene unicamente da lui. Bisognerà ricordarlo sempre e presentarlo co­ me un mirabile esempio ai giovani che in lui potranno vedere l'espressione più sublime di obbedienza ai comandamenti del Duce ».     Era il migliore tra noi: il più limpido, ii più generoso, ii più puro. Delia nostra mistica fede fu l'aifiere più ardilo e i'apostolo più acceso. Egli voieva che dalia nostra Scuoia uscissero ì missionari, i portatori del no­ stro credo politico e fu egli stesso il più tenace e il più convinto assertore dei principi che sono a fonda­ mento deiia nostra dottrina. La Scuola sorse con lui per la volontà di un mani- poio di credenti che egli chiamava i «disperati del Fascismo », così come gli squadristi un tempo amava­ no chiamarsi « fascisti arrabbiati ». Aii'inizio la Scuola fu un'attività de! Guf milanese; divenne quindi un'attività di tutti i Gruppi Fascisti Uni­ versitari: oggi si è imposta al rispetto e ail'atten- zione di tutti i fascisti. La sua opera è rivolta ai gio­ vani, ma la sua azione è seguita ed amata anche dai camerati della vecchia guardia che vedono con in­ tima gioia esaltate e rinnovate ogni giorno, dagli al­ lievi della Scuola, le due più preziose virtù dello squa­ drismo: la fedeltà e la intransigenza. I camerati della vecchia guardia milanese sanno che il, nome di Niccolò Giani è legato alla riapertura — 13   del Covo di Via Paolo da Cannobio, prima sede del « Popolo d'Italia », prima trincea del Fascismo, che il Duce ha voluto affidare in gelosa custodia ai giovani della Scuola di Mistica perchè le giovani generazioni, accostandosi alle sorgenti genuine delia nostra Ri­ voluzione, cogliessero, dall'umile grandezza delle ori­ gini, la poesia e il fermento delia vigilia. Niccolò Giani fu soprattutto un fedele ed un in­ transigente. Taluni potrebbero chiamarlo un fanatico, ma solo I fanatici sanno dare movimento col sangue «alla ruota sonante della storia». Il suo spirito si ribellava a qualunque forma di com­ promesso; sul terreno della fede non ammetteva pat­ teggiamenti; il bello, il buono, il vero sono da un lato della barricata; dall'altra parte c'è il brutto, il male, la meschinità. Mi piace di ricordarlo ai Convegno di Mistica del febbraio 1940: eravamo alla vigilia delia nostra guer­ ra di liberazione e c'era in tutti noi una febbrile im­ pazienza di decisione. Il tema del Convegno era bru­ ciante: «Perchè siamo dei mistici?». I problemi del- 14 —   l'inteiligenza e deila cultura furono esaminati al lume della fede; i poveri dì fede furono sbaragliati e Giani dichiarò guerra a viso aperto a tutti gli spiriti troppo raziocinanti, agli innamorati della ricerca fredda e del ragionamento calcolatore. La dottrina che conquista è quella che sorge dalla fede e non quella che discende dalla indagine arida ed oziosa; la cultura che costruisce è quella che pene­ tra e trasforma e non quella che resta gelida ed inerte. li Convegno si svolse in un'atmosfera di fuoco e la risposta al tema che fu oggetto dei nostri appassionati dibattiti fu data dallo stesso Giani: « Fascismo uguale a spirito, uguale a mistica, uguale a combattimento, uguale a vittoria. Perchè credere non si può se non si è mistici, combattere non si può se non si crede, e vincere non si può se non si combatte ». Fu in quel Convegno, ò giovani camerati della Scuola di Mistica, che i giovani della generazione del Litto­ rio affermarono solennemente il loro diritto al combat­ timento, — 15   Soldato dì Mussolini Niccolò Giani fu tra i primi a partire. C'era in lui la preoccupazione morbosa di stabilire coi fatti una coe­ renza perfetta tra il pensiero e l'azione. Aveva già partecipalo come volontario alla guerra per la con­ quista dell'Impero, aveva chiesto ripetutamente di partire per la Spagna e non gli era stato concesso; finalmente sopraggiungeva la nuova prova lungamente attesa. Chi lo vide tenente degli alpini al Fronte Occidentale lo ricorda come un esempio di disciplina e di ardi­ mento. Ma la parentesi fu troppo breve: tornò insod­ disfatto, Andò in Africa settentrionale come corrispon­ dente di guerra del «Popolo d'Italia»; ma quando seppe che il suo reggimento era già sul fronte greco chiese di raggiungerlo. Non poteva vivere lontano dai suoi alpini, gli sembrava un tradimento. Partì per non tornare. Tre volte si offrì per azioni rischiose, tre volte fu appagato, la terza volta fu l'ul- 16   tima. I suoi uomini lo adoravano; con lui sarebbero andati dovunque: potenza insuperabile dell'esempio! Andò con un manipolo di 25 alpini a raggiungere una vetta lontana per compiere una ricognizione sulle po­ sizioni del nemico; assolse il suo compito felicemente e rapidamente, ma proseguì oltre: il suo programma era un altro. Aveva incontrato poco prima, lungo il cammino, un camerata di Milano e gli aveva affidato l'incarico di salutare per lui tutti gli amici di Mistica e di comunicare loro che egli era partito per un'impresa della quale si sarebbe dovuto' parlare. Mantenne la promessa. Alla testa dei suoi alpini raggiunse un'altra vetta, sulla quale alta sfolgorava la luce della gloria, e a bombe a mano assalì un presidio greco. Circon­ dato, lottò eroicamente, fino a quando una pallottola ' gli recise la gola, gli spezzò la vita, soffocò il canto della sua giovinezza. Così cadde Niccolò Giani. Egli è morto come era vissuto, non per sè ma per gli altri, Ètriste non potergli più vivere accanto, non poter più rinfrescare il nostro spirito alia polla purissima della sua fede; ma egli 17   ha chiuso la sua vita terrena in modo degno di luì, Arnaldo gli aveva insegnato che i! segreto della vita è tutto qui; saper vivere, saper morire, nel modo più degno. Niccolò Giani ha voluto insegnare ai giovani della sua generazione come deve vìvere e come sa morire un italiano di Mussolini. La nostra Scuola, o camerati di Mistica, non lo onora col pianto che egli non approverebbe. Il nostro ciglio è asciutto anche se il cuore in questo momento acce­ lera il ritmo dei suoi palpiti. Ma noi sentiamo che non un vuoto egli ha lasciato nelle nostre file, li suo spirito inquieto è con noi, dinanzi a noi, oggi come non mai, ad additarci la strada che conduce alla vittoria, ad ammonirci che il suo tormento deve essere anche il nostro tormento, la sua ansia anche la nostra ansia, il suo amore anche il nostro amore, oggi, domani, sempre. E noi sentiamo che Arnaldo, il suo ed il nostro Mae­ stro, lo ha accolto nell'altra esistenza, accanto al suo figlio prediletto e agli altri Martiri delia nostra Scuola, come il migliore dei suoi discepoli. Il mito di Roma contro Si guardi Ro- il mito di Jehova in ma repubblicana. Catone, Cicerone, Quale è il suo Tacito, Giovenale ideale? Ce lo di- e negli Imperatori ce Marco Porcio Catorie nel suo libro « De Agri cultura » laddove scrive che i romani « quando lodavano un uomo dabbene, 15   lo chiamavano buon agricoltore, buon colono. E con ciò si riteneva di dare la maggiore lode a colui che così veniva chiamato ». E ciò per­ chè « dalla classe degli agricoltori nascono gli uo­ mini più forti e i soldati più valorosi... e coloro che si dedicano a tale occupazione non concepi­ scono cattivi propositi ». Queste parole, questo saggio romano le scrive­ va più di 150 anni avanti Cristo, cioè, esattamen­ te, nello stesso periodo in cui Roma combatteva l’ultima e definitiva partita con la semita Carta­ gine. Ma, a questo proposito, ci si è mai chiesto perchè poi Cartagine era delendam, perchè Ro­ ma s’era fissata ili questo mito della distruzione totale della città di Annibaie? La risposta è una sola : la lotta tra le due rivali infatti non era solo politica ed economica : era ben di più : era lotta di civiltà, di sistema di vita. Roma rurale, Ro­ ma gerarchica, Roma guerriera ed eroica com­ batteva anche la Cartagine dei mercanti e della demagogia. Ecco perchè non è strano, ma, anzi, logico, necessario addirittura, che l’uomo che in Senato terminava i suoi discorsi col noto « cete- rum censeo Carthaginem delendam esse » fosse lo stesso che nel suo libro poneva l’ideale ro­ mano nella gente nata dai campi, cresciuta in mezzo alle bellezze e alle forze della terra, tem­ prata nelle lotte aperte e solari della natura. Più di un secolo dopo, un altro grande roma­ no, che gli ebrei aveva conosciuto perchè uno di 16   essi, Apollonio Molone, come ci dice il giudeo Lazare, aveva avuto per maestro : Cicerone, tuo­ nerà anche lui contro la loro mentalità. « Il tenere testa alla turba giudaica che spesso schiamazza nelle riunioni popolari e farlo nel­ l’interesse della Repubblica è prova di saldi prin­ cipi », diceva infatti Cicerone rivolto a Lelio, cinquanta anni prima di Cristo, nella sua orazio­ ne « Pro Fiacco ». E nel suo « De Officiis » (II, 89) si legge questo aneddoto che dice anche ai sordi in quale dispregio avessero i romani i traf­ ficanti di denaro. Ecco infatti come Cicerone rac­ conta che Catone rispondesse a chi lo interroga­ va sul miglior modo di amministrare i propri beni : « Bene pascere ». E in quale altro modo? fu richiesto a Catone. « Salis bene pascere » fu la risposta. E poi? « Arare » egli disse ancora. «£ che ne pensi del prestare ad usura?» cioè del prestare denaro a interesse. Rispose Catone : « E tu che ne pensi dell’uccidere un uomo? ». Come, quindi, i romani, con mentalità siffat­ ta, avrebbero potuto, non dico apprezzare, ma solo riconoscere la mentalità ebraica? E se è vero che nel 160 avanti Cristo con l’Ambasciata di Giuda Maccabeo si iniziano i primi rapporti di­ plomatici tra Roma e Gerusalemme, se è vero che nel 143 e nel 139 seguono altre ambasciate, se è vero che Giulio Cesare e Ottaviano li tolle­ rano, è altrettanto vero che gli ebrei anziché essere grati e devoti allo stato romano ricambia- 17 2   rio con disordini e con tradimenti la generosità dei Cesari, al punto che Claudio, da un decreto di tolleranza passa alla loro espulsione e ciò per­ chè, come testimoniano numerosi scrittori lati­ ni — da Persio a Ovidio, da Svetonio a Plinio, da Tacito a Giovenale — « gli Ebrei conside­ rano come profano tutto ciò che da noi è consi­ derato sacro » (cfr. Tacito, Hist.; V, 4, 5); per­ chè « essi hanno un culto particolare, leggi par­ ticolari, disprezzano le leggi romane » (cfr. Gio­ venale, Im. Lat.; XIV, 96, 104). Colle generazioni questo contrasto di civiltà e questa antitesi di istituzioni si acuiscono. È così che si arriva alla spedizione di Tito : all’assedio e alla distruzione di Gerusalemme. E in tal mo­ do, due secoli dopo Cartagine, anche sull’or­ goglioso regno di Giudea passa l’aratro romano e viene cosparso il sale. Così quei giudei che pretendevano di essere il popolo eletto e che per invidia di capi e per in­ comprensione ingenerosa di popolo avevano tra­ dito e condannato nostro Signore Gesù Cristo; quegli eredi del Profeta che smentirono la profe­ zia compiuta, furono dispersi per il mondo. La profezia del Golgota ebbe in tal modo realizza­ zione per mano di Tito, di quel Tito, il cui arco, forse per imperscrutabile volontà di quel Dio che egli inconsciamente servì, s’aderge ancora intatto contro il cielo eterno di Roma, quasi a testimonia­ re e ammonire le genti e il mondo intero della giu- 18   stizia e della verità che promanano dai sette colli sacrati all’Impero del Littorio e alla Chiesa di Cristo.Niccolò Giani. Giani. Keywords: implicature mistica, mistico, il mistico – la mistica del liberalismo – la mistica del comunismo – la mistica della democrazia – la mistica del socialismo – filosofia politica – dottrina liberale – dottrina comunista – dottrina democratica – dottrina socialista --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giani” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756746927/in/dateposted-public/

 

Grice e Giani – la radice italica del melodramma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I love Giani; for one, he was less fanatic than Nietzsche, even if it is Nietzsche’s fanaticism that attracts Strawson! For one Giani is more careful: if ‘music’ comes from the muses, which are Apollonian, why has Nietzsche to emphasise in a piece of bad rhetoric, that tragedy has its birth in the ‘spirit’ of “music” – surely Nietzsche means ‘Dionysian,’ but there’s no ‘music’ in Dionysus, only noise! Trust an Italian to correct Nietzsche on that point!” --   Appartene ad una famiglia dell'alta borghesia torinese con spiccate inclinazioni per la musica e per l'arte: lo zio  Giuseppe (Cerano d'Intelvi) fu pittore piuttosto noto, docente all'Accademia Albertina, così come il figlio di lui Giovanni (Torino). Si dedica al violino e condusse contemporaneamente gli studi  fino alla laurea. Si interessa inoltre al fermento filosofico di fine Ottocento, a Spencer, ma soprattutto Nietzsche: di Così parlò Zarathustra eavrebbe in seguito dato una traduzione, a partire dalla seconda edizione italiana (Torino, Bocca). Si appassiona, inoltre, al teatro musicale di Wagner, così come altri intellettuali torinesi, e lo difende. Risale la fondazione, per opera sua e dell'amico editore Bocca, della Rivista musicale italiana, in cui inizialmente hanno parte preponderante gli scritti di Giani, soprattutto recensioni sul teatro musicale contemporaneo e note sui testi poetici da musicare, anche se va probabilmente ascritto a Giani anche l'editoriale programmatico del primo numero, all'interno di una rivista che si propone di ospitare scritti musicologici ispirati al metodo positivistico diffuso tra i due secoli, pur restando aperta all'apporto di altre correnti filosofiche quali quelle dell'idealismo. In “Per l'arte aristocratica”, dimostra le doti di polemista che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita: in esso si confuta un giudizio di Torchi e si afferma che la cosiddetta "arte per l'arte" non solo non è immorale, ma è anzi la naturale evoluzione e conclusione dello sviluppo storico di questa manifestazione dello spirito umano. Dedica un saggio al “Nerone” di Boito, che egli da allora considerò incondizionatamente un maestro: al tempo Boito aveva reso pubblico il solo testo del Nerone, che venne accolto molto vivacemente e con alterna fortuna dall'ambiente letterario italiano. La posizione intorno al Nerone è singolare e indicativa di quali fossero i requisiti che la cerchia di Giani e Bocca ricercava nell'opera musicale. Questa tragedia farebbe parte del novero delle tragedie vere, quelle in cui ritmo, suono della parola, gesto, musica concorrono alla creazione di un che di superiore. Tuttavia, quando la musica del Nerone fu resa nota postuma, dichiara una certa delusione. Uomo dalla cultura enciclopedica, versato con competenza anche negli studi di letteratura, Giani cura L'estetica di Leopardi. Vede inLeopardi il luogo in cui le immagini della sua poesia si comporrebbero in un universo etico ed estetico coerente. All'interno della storia della critica leopardiana, pare avvicinabile ora alla posizione di Croce, di distinzione tra il momento della poesia e il momento della riflessione, ora a quelle positivistiche. Singolarmente,parla di musica e dell'analogia tra il ruolo del coro greco e il ruolo del coro nelle Operette morali solo nella conclusione, benché in termini acuti. Avrebbe contribuito ad un ulteriore campo degli studi letterari, quello della musica nel mondo antico. Apparve “Gli spiriti della musica nella tragedia” -- Fin dal saggio, si richiama alla nota opera di Nietzsche, “La nascita della tragedia dallo spirito della musica”. Giani non condivide l'opinione di Nietzsche secondo cui il razionalismo del teatro di Euripide avrebbe spento la portata dionisiaca della tragedia. La tragedia di Euripide permane ad un livello musicale altissimo. Per affermare questo ricostruisce il ruolo della musica nei testi tragici sulla base delle fonti antiche, dedicandosi alle singole parti e forme musicali dei drammi, sempre attento a sottolineare la valenza estetica complessiva della tragedia o melodramma, ma nel contempo senza trascurare le posizioni metodologiche della scuola filologica. Fino ad allora non aveva stretto profondi legami con i musicisti coevi (eccettuato Boito), si avvicina sempre più alle compositori. Saluta con favore Bastianelli e Pizzetti, approvandone principalmente le posizioni estetiche e la ricerca di una certa spiritualità nella music, tipica dei due esponenti del circolo fiorentino della Voce, ma prese le distanze ben presto dalle loro prove compositive, in particolare dai drammi musicali di Pizzetti, che non parvero a opere d'arte totalmente compiute.  Un legame creativo e biografico molto più stretto strinse con Ghedini, anche per via delle comuni frequentazioni torinesi: per Ghedini, che sta ancora cercando una personale posizione estetica e anda raggiungendo progressivamente le conquiste di stile e di linguaggio che lo avrebbero reso famoso, Giani valse come una sorta di pigmalione, suggerendo testi da musicare per le liriche e esaminando con occhio critico le composizioni di Ghedini.  Giani stesso fu librettista. Ridusse L'Intrusa di Maeterlinck, musicata da Ghedini ma mai rappresentata, e scrisse Esther per Pannain.Verso il termine della sua vita, divenne molto noto in tutta Italia per i suoi scritti di radicale confutazione di Croce. Non era particolarmente ostile all'idealismo di Croce, anzi considerava la teoria dell'arte come intuizione una delle chiavi per la valutazione della creatività anche musicale e teatrale. Tuttavia, a mano a mano che l'estetica di Croce veniva sistematizzata dal suo stesso autore, ma soprattutto da alcuni suoi pedestri seguaci mal tollerati dal nostro, attaccò tale concezione con il bellicoso pseudonimo di Luigi Pagano in La fionda di Davide, criticando che in essa non vi fosse posto per il lato tecnico e materiale della creazione e che addirittura la stessa musica non fosse stata debitamente considerata da Croce al medesimo livello delle altre arti che diedero lustro al passato italiano. Il posto di Giani nella storia della musicografia è tutto particolare.Pestalozza vi ha addirittura visto un predecessore della “fenomenologia musicale.”In realtà, ad un attento esame quantitativo dei suoi scritti, pare essersi dedicato assai poco a questa o quella musica in particolare, mentre il suo contributo fu assolutamente preponderante nei temi di estetica musicale.Fu una voce originale, fuori dal coro, che inizialmente difese il dramma di Wagner, quindi auspice fermamente all'interno dei testi musicati dai compositori qualità come la purezza e la letterarietà, infine spronò, pur da lontano, i compositori ad una libertà adogmatica e ad una ricerca continua di stile e di linguaggio, rendendoli attenti alla peculiarità della musica, che doveva essere cosa che egli ripete spessissimo nei suoi scrittila "figuratrice dell'invisibile", cioè l'elemento che dà corpo alle sensazioni, alle suggestioni, alle fantasie suscitate dai testi musicati e non immediatamente in essi esplicate. Una posizione la sua che può essere paragonata a quella del "critico-artista" teorizzata da Wilde, che Giani ben conosceva: un "critico-artista" nel senso di ri-creatore dei percorsi attraverso cui la composizione è venuta alla luce, e ignoti al compositore stesso, ma nei quali quest'ultimo riesce a identificarsi una volta che il critico li rivela a lui e al mondo. Dispose per testamento che i suoi libri venissero donati "ad una biblioteca di piccola Città preferibilmente Pinerolo" e proprio presso la Biblioteca Civica "Camillo Alliaudi" di Pinerolo ora si trovano, presso il Fondo che prese il suo nome.  Altre saggi: “Per l'arte aristocratica (in proposito di uno studio di Luigi Torchi), in “Rivista Musicale Italiana”, -- aristocrazia, democrazia, crazia – kratos – il concetto di potere --  Il “Nerone” di Arrigo Boito, in “Rivista Musicale Italiana”, L'estetica di Leopardi, Torino, Bocca, con lo pseudonimo di Anticlo:  Gli spiriti della musica nella tragedia greca, in “Rivista Musicale Italiana”, Milano, Bottega di Poesia, L'amore nel Canzoniere di Francesco Petrarca, Torino, Bocca, con lo pseudonimo di Luigi Pagano:  La fionda di Davide. Saggi critici (Boito, Pizzetti, Croce), Torino, Bocca. Dizionario Biografico degli Italiani Cesare Botto Micca, in morte di Romualdo Giani, in “Rivista Musicale Italiana”, Annibale Pastore, In memoria,, in “Rivista Musicale Italiana”, Massimiliano Vajro, “Rivista Musicale Italiana”, Luigi Pestalozza, Introduzione a «La Rassegna Musicale». Antologia, Luigi Pestalozza, Milano, Feltrinelli, Guido M. Gatti, Torino musicale del passato, in «Nuova Rivista Musicale Italiana». Guglielmo Berutto, Il Piemonte e la musica, Torino, in proprio, ad vocem. Stefano Baldi, “Fotografare l'anima” -- Romualdo Giani e Giorgio Federico Ghedini, in “Bollettino della Società Storica Pinerolese”, Paolo Cavallo,La vita, il fondo musicale, le collaborazioni musicologiche e gli interessi letterari, Pinerolo, Società Storica Pinerolese,. Con contributi di Casagrande, Baldi,  Betta, Cavallo, Balbo, Fenoglio.  GIANI, Romualdo. - Nacque a Torino il 28 febbr. 1868 da Francesco e da Clementina Guidoni, originari della Valle d'Intelvi.  Laureatosi in giurisprudenza non ancora ventenne, esercitò l'avvocatura patrocinando esclusivamente cause civili nel settore commerciale; allo stesso tempo si occupò con continuità di arte e letteratura. Creativo e versatile, ebbe profonde conoscenze della storia e della tecnica delle diverse arti, ampliate dai numerosi viaggi effettuati nelle principali città d'arte europee.  Nel 1894 fu tra i fondatori, con l'amico editore G. Bocca, della Rivista musicale italiana, alla quale collaborò ininterrottamente per trentasette anni, spesso valendosi di pseudonimi.  Esordì sul primo numero della rivista con la critica "I Medici". Parole e musica di R. Leoncavallo. Il dramma (Riv. mus. italiana, I [1894], pp. 86-95); sullo stesso numero diede il via alla rubrica Note sulla poesia per musica(ibid., pp. 141-143, 321-323), ove poneva in luce difetti e pregi dei testi inviati da autori sconosciuti per dimostrare che la poesia del melodramma era forma d'arte.  Nel 1896, in Per l'arte aristocratica (ibid., III, pp. 92-127), sostenne una vivace polemica con L. Torchi sull'autonomia dell'arte, alla quale parteciparono M. Pilo, D. Garoglio, A. Foulliée e altri; il G. volle dimostrare che la formula "l'arte per l'arte" o "l'arte aristocratica" non era cosa assurda e immorale, come sostenuto dal Torchi, ma l'ultimo effetto di un'evoluzione.   Nel 1901 pubblicò il saggio critico Il"Nerone"di A. Boito (Torino 1901; 2a ed. ampliata ibid. 1924; cfr. Riv. mus. ital., VIII [1901], pp. 861-1006, e XXXI [1924], pp. 199-392), che gli procurò l'amicizia dell'autore, il quale gli inviò numerose lettere in cui si dichiarava suo grande ammiratore. Nel volume L'estetica nei "Pensieri" di G. Leopardi (Torino 1904; 2a ed. ibid. 1928; cfr. Riv. musicale italiana, XXXV [1928], pp. 226-243) il G. oltre a ricostruire il pensiero estetico del poeta di Recanati, ne esaminò anche le teorie sull'arte musicale.  Nel 1899, per la "Biblioteca di scienze moderne" del Bocca, era stato pubblicato Così parlò Zaratustra di F. Nietzsche, tradotto da E. Weisel; il G., ritenendo la traduzione non fedele all'originale, ne approntò una nuova versione d'accordo con il Weisel, pubblicata, sempre dal Bocca, nel 1906. Nel 1913, con lo pseudonimo di Anticlo, diede alle stampe lo studio Gli spiriti della musica nella tragedia greca (Milano 1924; Riv. musicale italiana, XX, pp. 821-887). Nel 1917, durante il primo conflitto mondiale uscì L'amore nel Canzoniere di F. Petrarca (Torino 1917; in appendice Nota sul suono e sul ritmo), considerata dalla critica, forse, la sua opera più riuscita.  Il G. inoltre traduceva per diletto dal latino, soprattutto Tibullo e Orazio, e dal francese; come poeta pubblicò nel 1920 soltanto due libretti d'opera: Esther (Riv. musicale italiana, XXVII, pp. 611-648), tragedia lirica in tre atti ispirata dal testo biblico, mai musicata, sebbene offerta dal G. a I. Pizzetti, e L'Intrusa (ibid., pp. 340-358), un atto per musica, tratto dal dramma in prosa di M. Maeterlinck, musicato dapprima da G.F. Ghedini (1921; non rappresentato), e poi da G. Pannain (1926), che la rappresentò a Genova nel 1940.  La pubblicazione dell'articolo Il Vangelo e il Breviario,celebrazione dell'estetica crociana (in Riv. musicale italiana, XXXII [1925], pp. 571-598), apparso sotto lo pseudonimo di Luigi Pagano, rappresentò un attacco all'estetica crociana che diede origine a una polemica col Croce stesso. Il G., con logica inflessibile, dimostrò infondati alcuni concetti del filosofo, come l'eccessivo idealismo che considerava la musica estranea ai fenomeni fisici che la originano e alla tecnica, espressi in Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale (1902) e nel Breviario di estetica (1913), opere che il G. ironicamente chiama Vangelo e Breviario. Con Socrate e la pulce (ibid., XXXIII [1926], pp. 77-102) rispondeva allo scritto La musica e l'estetica dell'idealismo (ibid., pp. 61-76), in cui il Pannain assumeva la difesa delle tesi crociane. Questi saggi, compreso quello del Pannain, furono raccolti in seguito nel volume La fionda di Davide (Torino 1928) insieme con uno studio sul Boito, e la critica a Debora e Jaele di Pizzetti, giudicata un'opera mancata. Contemporaneamente il G. pubblicava il Sillabario di estetica (in Riv. musicale italiana, XXXV [1928], pp. 442-453), e a conclusione della polemica aggiungeva una Nota crociana, nel capitolo terzo de La fionda di Davide, in cui evidenziava ancora altre contraddizioni nella teoria del Croce. La polemica si riaprì nel 1929 con lo scritto La favola dell'aridità(ibid., XXXVI, pp. 311 s.) con il quale il G. insorgeva, in difesa del Seicento musicale italiano, contro un'affermazione del Croce che definiva "età di aridità creativa" il secolo compreso tra il 1550 e il 1650; la rettifica crociana Obiettanti e seccatori non soddisfece il G., che replicò con Il parto settimello (ibid., XXXVII [1930], pp. 249-254).  Il G. scrisse inoltre numerose recensioni e articoli sulla Rivista musicale italiana e sulla Rassegna musicale, a cui collaborò dal 1928, spesso sotto gli altri pseudonimi di H. Giraud e A. Cannella.  Il G. morì a Torino il 16 genn. 1931.  Oltre agli scritti citati si ricordano: "Savitri"Idillio drammatico indiano in tre atti di L.A. Villanis. Musica di N. Canti. La poesia, in Rivista musicale italiana, II (1895), pp. 95-112; Note marginali agli "Intermezzi critici" di I. Pizzetti, ibid., XXVIII (1921), pp. 677-690;Note Leopardiane, in Campo (Torino), n. 5, 18 dic. 1904; Estetica nuova, ibid., n. 9, 15 genn. 1905; Per una biografia di Berlioz, ibid., n. 26, 14 maggio 1905; Melodramma e dramma musicale, ibid., n. 37, 30 luglio 1905.  Fonti e Bibl.: G. Adler, R. G., Gli spiriti della musica nella tragedia greca, in Riv. mus. ital., XXXII (1925), pp. 113-115; L. Ronga, In morte di R. G., ibid., XXXVIII (1931), 1, pp. 115-124; C. Botto Micca, R. G. (Lo scrittore e il critico), in Il pensiero di Bergamo, VI (1931), 7; A. Pastore, In memoria di R. G., in Riv. musicale italiana, XLV (1941), pp. 50-53; M. Vajro, R. G., ibid., LIII (1951), pp. 337-368; A. De Angelis, Diz. dei musicisti, Roma 1928, pp. 244 s.; Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti, Le biografie, III, p. 189.Romualdo Giani. Giani. Keywords: implicatura.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giani” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Giannantoni – la dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Perugia). Filosofo. Grice: “I love Giannantoni; for one, he believes, with me, that there is Athenian dialectic, Roman dialectic, Florentine dialectic and Oxonian dialectic; like me, he has explored mostly ‘Athenian dialectic,’ and he has noted that its birth (‘nascita’) is in the ‘dialogo socratico,’ so it should surprise nobody that I have based my philosophy on the facts of conversation!” Si laurea a Roma sotto Calogero. In “Il dialogo di Socrate e la dialettica di Platone” attribuisce a Socrate una concezione molto laica della divinità e della religiosità («Religiosità, che Socrate, il quale era certamente una personalità religiosa, intendeva in modo del tutto diverso da come comunemente era sentita a quell'epoca»). La sua dottrina storico-filosofica si fonda sul principio che ogni seria riflessione filosofica si debba basare su un'accurata e rigorosa ricerca filologica delle fonti.  Questo spiega l'enorme dispiego di tempo dedicato all'elaborare la sua opera monumentale, “Reliche di Socrate” (“Socratis et Socraticorum reliquiae”). Giannantoni ha sempre seguito il criterio di Croce e Gramsci, secondo cui l'esposizione di un filosofo debba avvenire tramite l'esame storico cronologico (unita longitudinale) delle sue opere, allo scopo di prendere consapevolezza dell'evoluzione della dottrina e di separare da questa ogni sovrapposizione interpretativa personale non adeguatamente basata sulle fonti.  Convinto dell'onestà intellettuale come valore fondamentale cui deve rifarsi ogni interprete della storia della filosofia, capace perciò di rinunciare di fronte alla ricostruzione filologica dei testi anche alle proprie più profonde convinzioni personali. Traccia un profilo “ideale” dello «storico autentico» della filosofia, che ha il «dovere di farsi filologo rigoroso per avvicinarsi il più possibile al mondo del filosofo da lui studiato», ben sapendo che ciò «non basta ancora se non è accompagnato da una sensibilità filosofica e da una consapevolezza teoretica e storica insieme. Di qui conclude il fascino di una ricerca che, rendendoci consapevoli di una grande quantità di problemi altrimenti inavvertiti, termina in un autentico arricchimento spirituale. Il suo insegnamento è stato caratterizzato dalla volontà di essere semplice e chiaro nell'espressione del pensiero considerando questo un dovere morale dell'intellettuale nei confronti degli altri studiosi.  Anche allo scopo di realizzare una scrittura filosofica quanto più scientificamente precisa, ha compiuto studi approfonditi sulla logica di Aristotele e sulla storia della semantica filosofica (teoria del segno).  Nella sua vita e nella dottrina si è sempre impegnato nel mettere in pratica l'insegnamento socratico, così come fece il suo maestro Calogero: insegnando la conversazione basatio sulla regola d’oro: il rispetto verso il co-conversazionalista. Cura I Presocratici di Diels e Kranz. Altre saggi: “La metafisica dei lizii” (Roma, Rai); “Che cosa ha veramente detto Socrate” (Roma, Ubaldini); Cirenaici (Firenze: Sansoni); “Filosofia romana” (Napoli: Bibliopolis); “Filosofia italica in eta antica” (Milano: Vallardi); Le filosofie e le scienze contemporanee, Torino: Loescher, I fondamenti della logica de’ lizii” (Firenze: La nuova Italia); Le forme classiche / Torino: Loescher, “Volpe / Roma: Riuniti, Socrate. Tutte le testimonianze: Da Aristotfane e Senofonte ai Padri cristiani; Bari: Laterza, Aristotele. Opere; introduzione e indice dei nomi, Roma; Bari: Laterza, Epicuro. Opere, frammenti, testimonianze sulla sua vita; Bignone;.Bari: Laterza, I presocratici: testimonianze e frammenti / Bari: Laterza, Profilo di storia della filosofia, Torino: Loescher. La razionalitàmTorino: Loescher, Socratis et Socraticorum Reliquiae. Collegit, disposuit, apparatibus notisque instruxit G. Giannantoni,  2Bibliopolis. Anthropine Sophia. Studi di filologia e storiografia filosofica in memoria di Gabriele Giannantoni; Introduzione di Francesco Adorno: per Gabriele Giannantoni: un dialogo, Editore Bibliopolis (collana Elenchos), 2009  Deputati della V, VI, VII legislatura.  Op.cit. Bruno Centrone, ed.Bibliopolis, Enciclopedia Treccani, Bruno Centrone, Bibliopolis, Edizioni di filosofia, ILIESI CNR  La traduzione dei Presocratici da parte di Giannantoni è stata criticata da Giovanni Reale nell'introduzione alla sua nuova traduzione dei Presocratici del 2006, critiche riportate in due articoli-intervista comparsi sul "Corriere della Sera" nei quali  Giannantoni, di formazione gramsciana veniva accusato come curatore della "vecchia" edizione laterziana di avervi perpetrato «una certa manomissione del sapere filosofico», in ossequio all'ideologia e all’egemonia culturale marxista. Interpretazioni del pensiero di Socrate#Socrate: l'interpretazione di Giannantoni Guido Calogero La teoria sul pensiero greco arcaico.  Per chi abbia svolto la propria attività di ricerca o abbia compiuto la propria formazione scientifica nell’ambito della storiografia filosofica negli anni ’80 e ’90, il nome di Gabriele Giannantoni (Perugia, 1932 – Roma, 1998) è legato anche al Centro di Studio del Pensiero Antico (CSPA).   dal Consiglio Nazionale delle Ricerche Roma,1 su richiesta, appunto, di Gabriele Giannantoni – in sostituzione del precedente Centro di Studio per la Storia della Storiografia Filosofica –, il Centro di Studio del Pensiero Antico si inserì nel panorama nazionale e internazionale della ricerca storica come una realtà innovativa e contribuì allo sviluppo di una disciplina, la storia della filosofia antica, appartenente al duplice contesto della storiografia filosofica e delle scienze dell’antichità. Il Centro fu attivo in modo autonomo fino al 2001, quando, a seguito di una riforma che ridisegnò la rete scientifica del Consiglio Nazionale delle Ricerche, esso fu accorpato con il Centro di Studio per il Lessico Intellettuale Europeo per dar vita all’ Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee (ILIESI), sotto la direzione di Tullio Gregory.2 L’attività del Centro di Studio del Pensiero Antico fu inevitabilmente legata al percorso intellettuale e di ricerca del suo fondatore, benché in modo non esclusivo. In questo breve profilo si cercherà di rievocare, in primo luogo, i motivi culturali che furono alla base della costituzione di questa realtà, nonché alcuni modelli scientifici di riferimento che ne hanno determinato in certa misura la configurazione e l’attività; in secondo luogo, i contributi originali che il Centro è stato in grado di fornire all’area disciplinare di propria competenza, in termini di pubblicazioni, progetti e formazione, sotto la guida di Giannantoni e di coloro che ne coadiuvarono la direzione. 1 Decreto del Presidente del CNR. n. 6303, ratificato successivamente da una convenzione tra il CNR e “La Sapienza”, stipulata il 21 aprile 1983 e confermata dal Presidente del CNR fino al 2001. Per il testo della convenzione si veda “Elenchos”, 1, 1980, pp. 201-202. 2 Sull’iter di riforma che portò alla nascita dell’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee e per i riferimenti normativi, si veda Liburdi 2018, p. 49 e ss. Istituito nel 1979  presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “La Sapienza” di   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico MOTIVI CULTURALI E MODELLI ISPIRATORI Come accennato, l’attività scientifica del Centro di Studio del Pensiero Antico fu comprensibilmente orientata da precise scelte critiche e metodologiche di colui che ne aveva voluto l’istituzione. Per dare ordine a questo sintetico profilo, credo sia opportuno riassumere i motivi che ispirarono la promozione di un organo di ricerca mirato agli studi storici sul pensiero antico, in tre principali indirizzi: in primo luogo, la possibilità di considerare la storia della filosofia antica come una disciplina dotata di un proprio specifico (e in certa misura autonomo) profilo quanto a materia di indagine, arco storico e metodologia; in secondo luogo, la nascita, o rinascita, dell’interesse verso scuole filosofiche dell’antichità greca e romana tradizionalmente classificate come minori, in particolare, le cosiddette scuole socratiche e le scuole ellenistiche, che dalle socratiche discendono direttamente sotto l’aspetto storico e dottrinale; infine, la rivisitazione del patrimonio dossografico – cioè del complesso della tradizione indiretta che ha conservato, per estratti, parafrasi o compendi, il pensiero di quei filosofi antichi di cui non è giunto a noi né il corpus né una singola opera completa –. Quest’ultimo indirizzo si inseriva in una tendenza di studi continentale che fece della dossografia antica una vera e propria categoria storiografica con risultati particolarmente innovativi. L’interesse portato alla dossografia, oltre a sostenere gli studi nell’ambito delle filosofie di derivazione socratica e quelle ellenistiche (delle quali, per l’appunto, non si è conservato alcun testo d’autore), apriva un percorso di studi a cui Giannantoni era particolarmente legato e che lo vide impegnato sia come direttore del Centro che individualmente, e cioè la riconsiderazione di tutta la dossografia relativa alla filosofia presocratica. Una rapida messa a fuoco di questi tre indirizzi permetterà di chiarire quali interessi scientifici di Gabriele Giannantoni abbiano maggiormente pesato sulle strategie generali e sulle iniziative specifiche del Centro, nonché sulla formazione professionale che esso ha reso possibile. Quanto al primo indirizzo, la questione del profilo specifico della storia della filosofia antica presuppose, da parte di Giannantoni, una approfondita analisi della visione storica che la cultura filosofica italiana era venuta maturando intorno alla filosofia antica. In questa analisi, i cui esiti si leggono, non a caso, nell’articolo di apertura della 6 ILIESI digitale Temi e strumenti   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico rivista “Elenchos” intitolato La storiografia idealistica e gli studi sul pensiero antico (“Elenchos”, 1, 1980, pp. 7-44), svolge un ruolo chiave la rappresentazione che del pensiero antico seppe dare l’idealismo italiano, specie con Croce, e la sua valutazione critica. L’idealismo italiano si era infatti distinto per due caratteri, l’uno teorico, l’altro metodologico, che apparentemente non favorirono lo sviluppo di una moderna storiografia del pensiero antico. Per un verso, tanto Croce che Gentile vedevano nella filosofia antica (cioè greca) i limiti di un pensiero oggettivo, astratto e naturalistico, che mai sarebbe arrivato a concepire la positività dell’idea di infinito, né quella della soggettività. I punti più alti raggiunti dalla filosofia teoretica greca, Socrate, Platone, Aristotele, coincidevano rispettivamente con la delineazione del concetto, o universale astratto, con la sua separazione dalla realtà sensibile (la teoria delle idee trascendenti e la scienza come dialettica delle sole idee) e con una logica puramente strumentale (la sillogistica), alla quale sarebbe mancata la teorizzazione del giudizio individuale, o giudizio storico,3 nonché la capacità di superare l’astrattezza e attingere l’atto stesso del pensiero.4 Nella filosofia pratica parimenti i Greci antichi, pur non mancando di intuizioni profonde, non avrebbero superato il precettismo e l’empirismo, e la loro etica ingenua non sarebbe mai giunta a distinguere etica ed economica, morale e diritto, come categorie dello spirito.5 3 Giannantoni 1980, n. 13, rimanda a Croce 19092, di cui diamo qui i riferimenti da Croce 1996a, pp. 112-116, 352-356, 396-398. 4 Ciò Giannantoni ricavava, pur senza riferimenti testuali precisi, sia dagli excursus storici che possiamo leggere in Gentile 19543, presumibilmente alle pp. 112-113, 123-125, 202-206, e in Gentile 1917, vol. I, pp. 21-32, sia da Gentile 1964. 5 Giannantoni 1980, nn. 14 e 15, rimanda a Croce 19455; si veda Croce 1996, pp. 112-114, 224-225, 367-368, e a Croce 19273, si veda Croce 2007, pp. 164-165. ILIESI digitale Temi e strumenti 7   Figura 1: copertina di “Elenchos”, 1, 1980.    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Per l’altro verso, però, l’idealismo formulò una critica, entro certi limiti giusta e salutare, alla filologia classica – cioè alla filologia classica moderna sviluppata in Germania nel corso del XIX secolo, distintasi, tra le altre cose, per una predilezione della cultura greca rispetto alla latina –, colpevole sostanzialmente di non essere una disciplina veramente storica. La filologia classica, malgrado i grandi risultati raggiunti nella costituzione dei testi della letteratura antica, nella revisione della tradizione bizantina e nelle nuove acquisizioni, si affermò come una procedura tecnica complessa e molto raffinata ma priva della visione della storicità del documento, del suo autore, dell’ambiente della sua composizione, nonché del suo testimone. La questione, che emerse inizialmente nel campo delle edizioni letterarie,6 non è meno complessa per quelle filosofiche: i testi della filosofia antica richiedono anche una comprensione dei contenuti teorici e pretendono di essere inquadrati in sistemi di pensiero il cui senso trascende il ripristino del testo, o quanto meno se ne distingue in data misura. Questo fu il nodo che si dovette sciogliere perché si potesse cominciare a delineare una storia della filosofia antica che includesse tanto la capacità di fornire edizioni affidabili sotto il profilo testuale, quanto quella di storicizzare i documenti, cioè di comprenderne i contenuti alla luce di coordinate culturali congrue con le epoche di appartenenza. La storiografia idealistica è dunque imputata da Giannantoni di evidenti limiti interpretativi del pensiero antico, come fu ben presto mostrato, ad esempio, dalle due celebri monografie di Rodolfo Mondolfo sull’infinito nel pensiero greco e sul soggetto umano nell’antichità,7 che smentivano l’idea di un connaturato e irreparabile oggettivismo della filosofia greca. Tuttavia l’idealismo ha fornito un’importante lezione e soprattutto ha indicato con chiarezza un ostacolo da superare: 6 In particolare, la critica crociana a cui Giannantoni fa riferimento (1980, p. 18 s., n. 11) prese le mosse da edizioni di testi poetici e si volse contro la “mera filologia” e la Kulturgeschichte che, nella pretesa di restituire il senso del testo letterario, non apportavano comprensione né storica né concettuale. Cfr. ad esempio la recensione alla monografia del 1950 di Ettore Romagnoli su Aristofane e che si può leggere in Croce 2003, pp. 97-107. Dice Giannantoni al riguardo (p. 19): “...il problema del rapporto tra filologia e poesia, tra filologia e storiografia, tra filologia e filosofia sta al centro dell’elaborazione dell’idealismo italiano”. Giannantoni probabilmente pensava anche alle considerazioni gentiliane intorno al “filologismo” che affligge la storia e ostacola la costituzione di una storia della filosofia, in Gentile 19543, pp. 132-134. 7 Mondolfo 1933; Mondolfo 1958. 8 ILIESI digitale Temi e strumenti    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Tracciando nel primo dei due volumi in onore di B. Croce per il suo 80° compleanno, quello che è tuttora l’unico panorama complessivo degli studi di filosofia antica nel cinquantennio 1896-1946, Guido Calogero non ritenne di dover prendere in considerazione né Croce stesso né Gentile (e neppure De Ruggiero) quali interpreti del pensiero antico; né altri ne hanno trattato in modo approfondito (mentre studi importanti esistono sulle loro interpretazioni di altri periodi della storia del pensiero) ... la ragione ... è da ricercare in una persistente separazione, non solo concettuale, ma anche di organizzazione degli studi, che lo stesso idealismo ha contribuito non poco a consolidare, tra considerazione filosofica, ricostruzione storica e indagine filologica. Gli studi di filosofia antica hanno infatti sofferto in modo particolare di una vera e propria scissione tra quelli che erano considerati i compiti esclusivi del filologo e quelle che erano considerate le competenze dello storico e del filosofo: con la conseguenza che questi studi sono potuti apparire troppo filologici ... ad alcuni e ad altri, all’opposto, troppo filosofici per entrare di pieno diritto nell’ambito di ciò che si era soliti chiamare la “scienza dell’antichità”.8 Quando Giannantoni scriveva queste parole (cioè nel 1980), era persuaso che la scissione non fosse superata e fosse causa, oltre che di una durevole influenza idealistica, anche di un pregiudizio nei rispetti della filologia, malgrado i grandi progressi e le messe a punto di tanta prestigiosa filologia classica italiana.9 Stante, quindi, una situazione di progresso “zoppicante”, per così dire, degli studi storiografici italiani sulla filosofia antica, Giannantoni nutrì l’aspirazione di delimitare un preciso terreno metodologico cogliendo la preziosa occasione che il Consiglio Nazionale delle Ricerche gli offriva. Il secondo indirizzo è quello che, almeno a prima vista, rivela maggiormente la stretta relazione tra il percorso scientifico individuale di Giannantoni e lo spettro di interessi messi in campo da quanti hanno operato nel o col Centro, a cominciare dai suoi allievi. Tanto più che l’attenzione rivolta non solo a Socrate ma alle tradizioni socratiche ed ellenistiche non è del tutto indipendente dalla questione dell’impatto dell’idealismo italiano sulla fortuna della storiografia filosofica dell’antichità. Il giudizio crociano sui limiti delle filosofie di Socrate, Platone e Aristotele, ad esempio, diventa un vero e proprio deprezzamento delle tradizioni “minori”.10 Ed è appena necessario 8 Giannantoni 1980, pp. 7-8. Il riferimento a Calogero è da intendersi a Calogero 1950, pp. 43-59. 9 Si veda al riguardo il chiarimento di Giannantoni relativo all’opera di Giorgio Pasquali, che pervenne ad un’unità di filologia e storia come unità di metodo, non di contenuti, e che si caratterizzò tramite uno storicismo della filologia classica, profondamente diverso dallo storicismo idealistico: questo, inteso come riconoscimento nella storia e nella cultura di figure e “categorie” del pensiero e dello spirito, quello, inteso come intima connessione tra le rigorose tecniche filologiche e la conoscenza storica (cfr. 1980, p. 37). 10 Cfr. Croce 19455, p. 201: “... col considerare principalmente il contrasto delle passioni verso la volontà razionale sorsero le scuole opposte dei cinici e cirenaici, ILIESI digitale Temi e strumenti 9    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico ricordare che la figura di Socrate, a cui deve farsi risalire il terreno di ricerca costituito dalle scuole socratiche e buona parte di quello attinente alle tradizioni ellenistiche, fu al centro di importanti riflessioni teoretiche e storiografiche di Guido Calogero,11 che di Giannantoni fu il maestro. Abbiamo poi vari segni di un’interazione di tendenze di studio comuni a più scuole anche fuori dell’Italia. L’interesse per le tradizioni dette “minori”, tali cioè in quanto paragonate alle filosofie di Platone e Aristotele e, in più, conservate solo tramite tradizione indiretta, si manifesta già alla fine degli anni ’40 con studi seminali sui Sofisti, su alcuni discepoli di Socrate, in particolare Antistene di Atene e Aristippo di Cirene, sulla tradizione scettica.12 Proprio ad Aristippo di Cirene e alla sua scuola Giannantoni dedica la sua prima importante opera scientifica (Giannantoni 1958). In essa si profilano le problematiche, filologiche e storiografiche prima ancora che concettuali, relative alla intricata questione della eredità socratica: l’edizione critica di un corpus proveniente da molti e diversi testimoni; la possibilità di dirimere le fonti storicamente attendibili dalla ritrattistica aneddotica; la contestualizzazione del filosofo all’interno di un milieu composito in cui si intrecciano le influenze della Sofistica e della retorica classica e il magistero socratico. stoici ed epicurei e altrettali; ma le dottrine di tutte coteste scuole, se serbano qualche valore empirico come precetti di vita più o meno convenienti a individui, classi e tempi determinati, non ne presentano alcuno o scarsissimo, esaminate in quanto concetti filosofici; e cinici e cirenaici, stoici ed epicurei, piuttosto che filosofi sembrano monaci, seguaci di questa o quella regola”. Sulle “scuole socratiche minori” cfr. anche il giudizio, meno sommario, di Gentile 1964, pp. 141-177. 11 Com’è molto noto, Socrate occupò un ruolo centrale nella personale riflessione teorica di Guido Calogero, che elaborò la sua “filosofia del dialogo” esattamente sul modello del Socrate dei dialoghi platonici, nel quale il filosofo italiano vide la prima formulazione di un’istanza intellettuale e morale – il dialogo, appunto, contrapposto al “logo” conclusivo e assertivo – destinata a far giustizia della pretesa di fondare l’etica sulla epistemologia e sulla metafisica, e che sarebbe stata anche alla base della moderna concezione dello stato liberale e di diritto. Ma Socrate fu anche al centro di importanti lavori storiografici di Calogero, alcuni dei quali aprirono la strada alla ricerca della posterità del magistero socratico nel pensiero tardo-ellenistico e cristiano. Una visuale critica diversa da quella di Giannantoni, ma in linea con la percezione del ruolo capitale svolto da Socrate nella storia del pensiero antico. Mi limito su tutto ciò a rimandare a Giannantoni 1987 e a Brancacci 2017. 12 Per limitarsi alle opere principali: Untersteiner 1949, con moltissime riedizioni; Dal Pra 1950; Humbert 1967; Mannebach 1961; Decleva Caizzi 1966; Patzer 1970. 10 ILIESI digitale Temi e strumenti     Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Questi elementi appaiono, nella storiografia e nella filologia europea degli anni ’70, sempre più determinanti per la comprensione delle dottrine di personalità come Aristippo, Antistene di Atene, Euclide di Megara, Eschine di Sfetto. In più, il superamento della Quellenforschung tradizionale e l’approfondimento dei contenuti filosofici aprirono nuove possibilità di delineare il percorso che dalle scuole socratiche della seconda metà del IV secolo a.C. porta alle principali tendenze ellenistiche, il Giardino, la Stoa, il Peripato post- aristotelico, la scepsi pirroniana ed accademica. A questo complesso terreno di ricerca è dedicata una iniziativa che precede l’istituzione del Centro di Studio del Pensiero Antico benché sempre sostenuta dal Consiglio Nazionale delle Ricerche: il convegno “Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica”, organizzato nel 1976 dal Centro di Studio per la Storia della Storiografia (la cui direzione era stata affidata allo stesso Giannantoni), e i cui atti furono pubblicati nel 1977 dalla casa editrice il Mulino di Bologna. Le relazioni presentate al Convegno del 1976, mirate ad una ricognizione dello stato documentario delle filosofie riconducibili a Socrate o ad uno dei suoi discepoli, e dei rapporti concettuali tra queste tradizioni e le filosofie ellenistiche e di età imperiale,13 furono aperte dalla comunicazione dello stesso Giannantoni sul tema Per un’edizione delle fonti relative alle scuole socratiche minori, nella quale lo studioso esponeva i risultati di un già lungo percorso di ricerca, ma ancora lontano, nel 1976, dalla sua conclusione. In questa relazione vengono messe a fuoco le 13 Cambiano 1977; Celluprica 1977; Sillitti 1977; Decleva Caizzi 1977; Ioppolo 1977; Brancacci 1977; Donini 1977; Isnardi Parente 1977; Repici 1977. ILIESI digitale Temi e strumenti 11   Figura 2: copertina di G. Giannantoni, I Cirenaici. Raccolta delle fonti antiche, traduzione e studio introduttivo, Firenze, 1958.    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico peculiarità e la notevole problematicità, soprattutto sotto il profilo filologico, di una edizione di testi filosofici e di molti autori. Emerge da questo breve testo non solo uno stato dell’arte ma un criterio programmatico che non considera sufficienti, benché certamente necessarie, le sole competenze della filologia classica, ma pretende una sensibilità storica e una capacità di comprensione teorica che gli sforzi della Altertumswissenschaft tradizionale non avevano sempre garantito. L’edizione di testi filosofici di trasmissione indiretta non può limitarsi alla costituzione del testo e alla redazione di apparati critici da cui si desuma il meticoloso lavoro di collazione dell’editore, ma deve tener conto dei contesti storici e problematici nei quali sono vissuti tanto il filosofo quanto il suo testimone. Inoltre, un’edizione che sia, in più, una silloge di testi relativi a (e non provenienti da) molti filosofi, comporta di andare oltre la natura estrinseca14 della singola testimonianza (epoca e ambiente del testimone, distanza cronologica dall’autore, genere letterario della fonte, parametri stilistici, etc.) e di individuare alcune strutture di pensiero che, in un lasso di tempo abbastanza lungo, si facciano riconoscere per caratteri salienti e durevoli e, al contempo, riflettano le condizioni storiche che ne determinano la specificità (secondo i dettami dello storicismo), diventando pagine e capitoli di una lunghissima storia culturale; si configurino, cioè, come tradizioni: Il fatto è che a proposito di una raccolta di testi che riguardano uno o più filosofi, emerge molto più nettamente che in altri casi l’impossibilità di considerare la testimonianza antica come un dato puramente oggettivo, e quindi la necessità di storicizzarla fino in fondo: in realtà essa deve essere considerata come un capitolo di una vera e propria storia della cultura durata all’incirca un millennio, e perciò da ricondurre di volta in volta al suo tempo e alle tendenze storicamente determinate che la produssero: parleremmo di un Diogene irreale e mai esistito se pensassimo di poter adoperare come ingredienti mescolabili a piacere Epitteto e Dione Crisostomo, Luciano e Giuliano l’Apostata, un padre della chiesa e le epistole apocrife che vanno sotto il nome del cinico.15 Il terzo indirizzo, relativo alla dossografia, è quello che presenta, almeno in apparenza, un maggiore tecnicismo, perché volto alle problematiche ecdotiche ed interpretative attinenti allo studio di 14 Sulla cosiddetta filologia “esterna”, sul ruolo da essa svolto nelle edizioni filosofiche e sui suoi limiti, si veda Giannantoni 1980, p. 15, a proposito dell’opera di Girolamo Vitelli, la cui importanza per la storia della filosofia antica è legata specialmente alle edizioni critiche dei commenti aristotelici di Giovanni Filopono. 15 Giannantoni 1977, p. 22. 12 ILIESI digitale Temi e strumenti    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico dottrine riportate da testimoni spesso assai lontani, per cronologia ed orientamento intellettuale, dagli autori di cui si vuole conoscere il pensiero. D’altra parte, la dossografia si è rivelata un capitolo importantissimo di quella millenaria storia culturale che costituisce il terreno di indagine della storia della filosofia antica. Non si potrebbe ancora oggi redigere una storia della storiografia filosofica dell’antichità senza iniziare non solo dalle grandi raccolte di testi e frammenti allestite dalla filologia ottocentesca e comparse nei primi anni del XX secolo (le raccolte di Usener,16 Diels,17 Arnim,18 per citare degli esempi), ma anche dalla prima grande opera di analisi e comparazione dei testimoni, i Doxographi Graeci di Hermann Diels;19 come è altrettanto vero che non si può oggi fare a meno dei più recenti e sistematici contributi all’analisi della dossografia filosofica, cioè gli Aëtiana di Jaap Mansfeld e David Runia.20 I più importanti progetti editoriali varati negli ultimi decenni, inoltre, si sono strettamente legati alla problematica della dossografia e all’analisi dei testimoni, a lato di quelle condotte sugli autori e sulle tradizioni dottrinali. Allo studio di autori di grande notorietà e impatto della tradizione culturale antica, ai quali si deve gran parte della conoscenza dei filosofi precedenti, come Cicerone e Plutarco, si è venuta affiancando una sempre maggiore familiarità con testimoni meno noti ma che hanno rivelato un’importanza fondamentale, come Filodemo, Diogene Laerzio, Sesto Empirico, Galeno, Giovanni Stobeo. L’indirizzo dossografico fu quindi un segno della tempestività e della sensibilità di Gabriele Giannantoni nei rispetti di un terreno di ricerca che si veniva imponendo in ambito internazionale, e che di fatto contribuì alla dimensione internazionale dello stesso Centro, la cui attività progettuale e congressuale fu in buona misura dedicata alla dossografia di epoca tardo ellenistica ed imperiale. Si può far rientrare in questo ultimo indirizzo anche una linea di attività di studi la cui ragione storiografica fu oggetto di un vivacissimo 16 Usener 1887. 17 Diels 1903. 18 Arnim 1903. 19 Diels 1879. 20 Mansfeld-Runia 1997; Mansfeld-Runia 2009; Mansfeld-Runia 2010. È appena necessario ricordare che le parole stesse “doxographus”, “doxographia”, sono coniate da Hermann Diels. Sulla dossografia e sul suo sviluppo come categoria filologico-storiografica, cfr. Mansfeld 1998, rist. in Mansfeld-Runia 2010, Mansfeld 2002, rist. in Mansfeld-Runia 2010. ILIESI digitale Temi e strumenti 13    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico dibattito e che è nota come la questione delle dottrine non scritte di Platone. Sorta nell’accademia tedesca, in particolare a Tübingen, da un’ipotesi schleiermacheriana, la questione degli agrapha dogmata consisteva, molto in breve, nella convinzione che Platone avesse teorizzato una dottrina dei principi (Uno e Molteplice), della quale non resta traccia nei suoi scritti – perché oggetto di pura trasmissione orale all’interno dell’Accademia antica – ma solo sparsi indizi in pagine aristoteliche. Alla nascita, per così dire, del Centro, Giannantoni invitò Konrad Gaiser, ordinario di filologia classica all’Università di Tübingen e uno dei maggiori sostenitori di questa ipotesi, a tenere una lezione presso la Sapienza sul tema La teoria dei principi in Platone, il cui testo venne pubblicato nel primo numero della rivista “Elenchos”.21 Tuttavia, il punto che merita attenzione in questa sede è che la questione delle dottrine non scritte di Platone fu, oltre che un tema rilevante per se stesso, anche un “pretesto” per riconsiderare Aristotele come testimone egli stesso del passato filosofico, più precisamente per le cosiddette filosofie presocratiche. Com’è noto, Aristotele può essere considerato se non il primo testimone in assoluto delle precedenti tradizioni di pensiero, certamente il primo testimone che ne offre una informazione organizzata secondo criteri espositivi dettati dalle proprie esigenze filosofiche e che hanno inevitabilmente condizionato la visione storiografica moderna. Per quanto apparisse improprio, naturalmente, definire Aristotele un dossografo, il riesame della sua testimonianza della filosofia precedente, anch’essa una tradizione indiretta, apparve a Giannantoni una linea d’azione congrua con quelle relative alle scuole socratiche e le filosofie ellenistiche, ancorché meno visibile tra i risultati delle ricerche del Centro. A conclusione di questo primo paragrafo, ricordiamo che l’istituzione del Centro di Studio del Pensiero Antico non fu del tutto priva di modelli in Italia e fuori e che con alcuni di essi si instaurò una costante collaborazione. L’esempio più immediato, sia sotto il profilo tematico e scientifico, che sotto quello del funzionamento istituzionale, fu il – Léon Robin, una unità di ricerca del 21 Gaiser 1980. 14 ILIESI digitale Temi e strumenti  Centre de Recherches sur la Pensée Antique  Centre National de la Recherche  Scientifique (CNRS), ma operante all’interno e sotto l’egida    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico  dell’Université Paris-Sorbonne (perciò definito anche Unité Mixte de  Recherche, o UMR), in modo non troppo dissimile dai Centri di Studio  del CNR istituiti in regime di convenzione con i vari Atenei italiani. La  collaborazione con questo Centro si focalizzò sulle tematiche  socratiche e dette luogo al ripetuto scambio di studiosi tra le due sedi nel biennio 1994-1995 nell’ambito del programma di ricerca “Socrate e la storia del pensiero antico: rottura o continuità?”; i contributi  pubblicati nel 1997 sotto il titolo di Lezioni socratiche, a cura di furono   Gabriele Giannantoni e Michel Narcy, per l’Editore Bibliopolis di  Napoli. Un’altra importante istituzione scientifica a cui Giannantoni  guardò con particolare attenzione e con cui intrecciò stretti rapporti  scientifici nonché di cordiale amicizia è stata senz’altro il Centro  Internazionale per lo Studio dei Papiri Ercolanesi, oggi intitolato a  Marcello Gigante, che ne fu il fondatore nel 1969. I motivi di tale  collaborazione erano dettati ovviamente dall’interesse intrinseco per  la grande opera editoriale a cui il Centro fondato da Gigante era  votato. La pubblicazione delle nuove edizioni critiche dei papiri reperiti  nel sito ercolanese offriva alla comunità scientifica un patrimonio  inestimabile per la conoscenza dell’Epicureismo, della tradizione  socratica, dello Stoicismo. Ma furono anche ragioni metodologiche a  sancire un sodalizio importante, che si concretizzò in varie iniziative e  pubblicazioni cui parteciparono entrambi i Centri: i testi ercolanesi,  com’è molto noto, costituiscono un materiale che permette di  arricchire enormemente la conoscenza di molte importanti tradizioni  filosofiche e letterarie, a condizione di possedere un complesso di  conoscenze e tecniche interpretative che difficilmente possono  trovarsi nella medesima personalità e che però vanno applicate  contestualmente. In altre parole, l’esperienza collaborativa tra questi  due Centri, forti, l’uno, di una formazione propriamente storica e  filosofica, l’altro, di alte competenze filologiche, contribuì in modo  significativo a costituire quella storiografia della filosofia antica che  aveva, almeno per la cultura accademica italiana dei primi decenni  del ’900, faticato ad assumere uno statuto proprio.  ILIESI digitale Temi e strumenti 15  Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico L’ATTIVITÀ DI RICERCA DEL CENTRO E I SUOI RISULTATI: I PROGETTI, I CONGRESSI, LA FORMAZIONE Quanto detto nel precedente paragrafo trova un riflesso, diretto o indiretto, nelle attività di ricerca del Centro, nonché nelle sue pubblicazioni. L’interesse per il consolidamento della storia della filosofia antica come disciplina autonoma, dotata cioè di un suo impianto metodologico, oltre che di un preciso confine cronologico, viene perseguito tramite l’attività progettuale, congressuale e editoriale, di cui si dà qui una descrizione sintetica. Vale però la pena di ricordare, prima di tutto, una iniziativa promossa da Giannantoni dopo l’istituzione del Centro, in conformità di un indirizzo dell’organo direttivo della rivista “Elenchos”, e dedicata alla problematica storiografica: Nelle riunioni del Comitato direttivo della rivista “Elenchos” è emersa più volte l’opportunità di aprire una discussione sul metodo o, meglio, sui metodi attuali della storiografia filosofica relativa al pensiero antico. Si è pensato perciò di cominciare con una “tavola rotonda”, chiamando a parteciparvi esponenti di orientamenti diversi e significativi, ai quali è stato chiesto di intervenire liberamente su tre questioni principali: 1) se ha senso parlare ancora di una storia della filosofia (e quindi anche di una storia della filosofia antica) come disciplina a se stante e in sé autonoma; 2) quali innovazioni si possono riconoscere all’ampliarsi e al differenziarsi delle impostazioni teoriche che sono sottese ai vari approcci metodici alla storia del pensiero antico; 3) quale è il contributo che viene, una volta tramontato il vecchio mito classicistico, dall’applicazione di categorie elaborate dalle “scienze umane”.22 Alla tavola rotonda parteciparono Enrico Berti, Mario Vegetti, Carlo Augusto Viano, e lo stesso Giannantoni, ciascuno portando un contributo molto peculiare e strettamente conforme al proprio orientamento intellettuale. L’intervento di Giannantoni rispecchia le riflessioni condotte qualche anno prima e pubblicate nel già citato articolo di apertura della Rivista (La storiografica idealistica), di cui ripropone le premesse problematiche e a cui aggiunge precise prese di posizioni sulla specificità della storia della filosofia antica e sul modo di salvaguardarla: ... senza perdere di vista il fatto che lo scopo principale (scil. dello storico della filosofia antica) resta la comprensione dei testi che ci trasmettono il pensiero antico, ritengo necessario rivendicare l’imprescindibilità di una rigorosa e metodica impostazione filologica, anche se tale impostazione non può non venire assumendo sempre più, essa stessa, una fisionomia storica: quella della storia degli studi ... ciò dovrebbe indurre a uscire da un tradizionale isolamento e a promuovere una 22 Giannantoni 1983, p. 147. 16 ILIESI digitale Temi e strumenti    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico organizzazione del lavoro diversa e meno diffidente verso i sussidi che la tecnologia moderna può offrire. In ogni caso, la storia degli studi è ormai elemento costitutivo di ogni indagine che voglia avere un minimo di serietà, non solo per le conoscenze che ha acquisito ma anche per le divergenze che ha proposto. L’alternativa a questa impostazione è o l’arbitrio nella scelta dei riferimenti o l’illusione di un ritorno alla “lettura diretta” dei testi.23 In queste parole possiamo rintracciare ad un tempo la finalità della costituzione del Centro e la visione di Giannantoni del modo di operare storiografico: più che il cenno alle nuove tecnologie e più che l’esortazione ad abbandonare l’isolamento, sicuramente importanti l’uno e l’altra, conta sottolineare, a mio parere, il richiamo alla storia degli studi come parte integrante della storia della filosofia, in particolare della filosofia antica, affidata in larghissima misura alla tradizione indiretta. La “serietà”, cioè la plausibilità dei risultati della ricerca storico-filosofica sono messi a rischio dalla “illusione” di poter leggere (e capire) le parole del filosofo, specie se antico, senza gli strumenti della conoscenza filologica, linguistica e culturale nel senso più lato, conoscenza cui si perviene ricostruendo, ove sia possibile, anche una storia intelligente delle letture altrui. Uscire dall’“isolamento” è, allora, non solo la cooperazione tra colleghi ad un progetto scientifico unitario, ma anche la conoscenza e la valutazione delle migliori offerte interpretative che di un testo e del suo contesto siano state date entro un certo arco di tempo.  23 Giannantoni 1983, pp. 182-183. ILIESI digitale Temi e strumenti 17   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Sia nelle azioni istituzionali, che investirono e coinvolsero il complesso delle risorse del Centro, incluse le relazioni stabilite con il mondo universitario, sia nelle attività di ricerca individuali, un ruolo primario fu senz’altro svolto dalle tradizioni ellenistiche e dall’analisi della letteratura dossografica. Già nel 1980, il Centro organizza un convegno sullo scetticismo antico,24 e tra il 1982 e il 1986 coopera strettamente con l’Università degli Studi di Pavia e in particolare con Mario Vegetti, ordinario di Storia della filosofia antica di quella Università, e con i suoi più stretti collaboratori, sostenendo l’organizzazione di due importanti convegni: “La scienza ellenistica” (Pavia, 1982)25 e “ 1986).26 Ancora alla filosofia ellenistica è dedicata l’importante pubblicazione dei Proceedings del quarto simposio internazionale sulla filosofia ellenistica, che vide tra i suoi partecipanti esperti di caratura internazionale, alcuni di stretta collaborazione con il Centro stesso.27   Figura 3: copertina del primo volume di Lo scetticismo antico, Atti del convegno, a cura di G. Giannantoni, Napoli, 1981.  Le opere psicologiche di Galeno” (Pavia, 10-12 settembre 14-16 aprile    24 25 26 27 18 ILIESI digitale Temi e strumenti  Giannantoni 1981.  Giannantoni-Vegetti 1985.  Manuli-Vegetti 1988.  Barnes-Mignucci 1988.   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico Carattere sistematico ebbe anche la linea d’azione dedicata allo studio della dossografia. Il Centro organizza, nel 1985, il congresso internazionale sull’opera del biografo di età imperiale Diogene Laerzio (“Diogene Laerzio storico del pensiero antico”, Napoli-Amalfi, 30 settembre-3 ottobre 198528) e, nel 1991, il congresso internazionale sull’opera del medico scettico di età imperiale Sesto Empirico (“Sesto Empirico e il pensiero antico”, Sestri Levante, 28 maggio-1 giugno 199129). Si delinea in entrambi gli eventi un’unica prospettiva, grazie alla quale l’oggetto dell’indagine storiografica è, per così dire, duplice e contestuale: l’autore, cioè il filosofo il cui pensiero è oggetto di trasmissione da parte di un testimone, e il testimone stesso, la sua epoca, il suo orientamento, nonché la struttura formale della sua testimonianza, struttura che rivela assai spesso una tesaurizzazione delle informazioni attraverso i differenti metodi per la loro esposizione. Così, mentre l’opera di Diogene Laerzio, che già da lungo tempo aveva attirato l’attenzione della filologia classica, conserva una concezione ampia del genere biografico, restituendo non solo informazioni biografiche e dottrinali dei singoli filosofi nonché cataloghi d’autore, ma anche specifici schemi espositivi presi a prestito dalla letteratura storica (il più caratteristico è senz’altro quello delle “successioni”), l’opera di Sesto Empirico mostra le conseguenze sul piano storiografico di un modello propriamente concettuale, la diaphonia. Un altro forte sodalizio, quello con il Centro Internazionale per lo Studio dei Papiri Ercolanesi di Marcello Gigante, permise di allestire negli anni subito successivi un grande congresso internazionale sul tema “L’Epicureismo greco e romano” (Napoli-Anacapri, 19-26 ILIESI digitale Temi e strumenti 19   Figura 4: copertina di Diogene Laerzio storico del pensiero antico, Atti del congresso, “Elenchos”, 7, 1986.  28 Atti pubblicati nel volume 7 dell’annata 1986 della rivista “Elenchos”. 29 Atti pubblicati nel volume 13 dell’annata 1992 della rivista “Elenchos”.    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico maggio 1993),30 un evento di ampio spettro tematico e cronologico all’interno del quale poterono cimentarsi papirologi e papirologi ercolanesi, filologi classici, paleografi ed epigrafisti, storici, storici della letteratura e della poesia greca e romana e, ovviamente, storici della filosofia antica. Proprio di questo incontro fu il suo carattere transdisciplinare e, per quel che attiene alle attività in corso presso il Centro, la messa alla prova di molte ipotesi di lavoro anche individuali sulla relazione tra l’Epicureismo e le rilevanti tradizioni (le scuole socratiche, la Stoa, la scepsi accademica e pirroniana) che impegnavano in quegli anni sia Giannantoni in prima persona che il suo gruppo di lavoro operante presso la Sapienza e il Centro. Tra gli ultimi impegni di Giannantoni in qualità di direttore del Centro ci fu l’organizzazione di due altri convegni: “ “Empedocle e la cultura della Sicilia antica. Illustrazione di un frammento inedito della sua opera” (Agrigento, 4-6 settembre 1997).32 Il primo raccolse un gruppo consistente di esperti della cultura greco- romana e fu un raro esperimento di indagine lessicale da parte del Centro, volto a delineare l’area semantica dell’affezione (emozione, sentimento, malattia) nelle diverse manifestazioni della cultura classica antica, dalla letteratura, dal teatro e dall’arte figurativa, alla filosofia e alla medicina. Il secondo convegno fu un altro esempio del modo in cui Giannantoni intendeva inserire la vita scientifica del Centro all’interno di una rete di relazioni istituzionali, oltre che scientifiche e accademiche, perché il convegno, motivato dalla 30 Giannantoni-Gigante 1996. 31 Atti pubblicati nel volume 16/1 dell’annata 1995 della rivista “Elenchos”. 32 Atti pubblicati nel volume 19/2 dell’annata 1998 della rivista “Elenchos”. 20 ILIESI digitale Temi e strumenti   Figura 5: copertina del primo volume di Epicureismo greco e romano, Atti del congresso, a cura di G. Giannantoni e M. Gigante, Napoli, 1992.  Il concetto di  pathos nella cultura antica” (Taormina, 1-4 giugno 1994);31     Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico recente scoperta del Papiro di Strasburgo contenente una porzione del poema empedocleo, fu organizzato in collaborazione con la sovrintendenza dei beni archeologici di Agrigento. Esso inoltre doveva essere una prima tappa di un più ampio progetto dedicato alle tradizioni culturali e filosofiche della Sicilia e della Magna Grecia, e che non vide la luce per la scomparsa dello stesso Giannantoni. *** Sarebbe un errore pensare che le strategie e i progetti del Centro avessero come unici interlocutori le istituzioni accademiche italiane e straniere. Certamente, uno degli obiettivi di Giannantoni era quello di costituire un piccolo ma vivace e solido bacino collettore degli interessi intorno al pensiero antico, e tali interessi erano, di fatto, collocati nelle Università e organizzati secondo i modi della didattica e della formazione universitarie. Ma il Centro partecipò anche alla realizzazione di una delle maggiori iniziative che il Consiglio Nazionale delle Ricerche abbia dedicato al settore delle scienze umane, e cioè il progetto strategico intitolato “Il Sistema Mediterraneo. Radici Storiche e Culturali e Specificità Nazionali”.33 Questo grande progetto  fu articolato in cinque linee di indagine, la  prima delle quali dedicata al mondo antico, in particolare greco-  romano.34 Fu in questo contesto che Giannantoni, oltre a scrivere il  saggio La tradizione culturale greca in Magna Grecia e Sicilia,  apparso nel 2002 nel volume che raccoglieva i risultati delle attività  promosse dal progetto,35 maturò l’idea di una linea di attività, cui si è  fatto cenno, dedicata alle tradizioni filosofiche della Magna Grecia e  della Sicilia, linea che avrebbe dovuto raccogliere e mettere a frutto le  metodologie sperimentate nella più generale attività del Centro  33 Il Progetto Strategico, svoltosi negli anni 1995-2000 e coordinato da Antonello Folco Biagini fu varato nel 1994 dal 34 “ 35 Biagini 2002. ILIESI digitale Temi e strumenti 21  Comitato Nazionale di Consulenza del CNR per  le Scienze Storiche, Filosofiche e Filologiche, allo scopo di convogliare tutte le competenze rappresentate ed espresse dalla rete scientifica costituita dai Centri di Studio e dagli Istituti afferenti al Comitato stesso, in una grande area di interesse, appunto il “Mediterraneo”. Al fondo della decisione del Comitato era la convinzione che il Mediterraneo costituisse non un’entità identitaria ma un complesso “sistema” di realtà molteplici, tradizionalmente oggetto di indagine da parte di settori disciplinari indipendenti. Si trattava perciò di conferire unità strategica e di metodo ad una  naturale e fisiologica molteplicità di fenomeni culturali.  Origine e incontri di culture nell’antichità”.   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico  (studio della dossografia e delle tradizioni indirette). Rivisse, in questo  progetto non realizzato, l’antico interesse di Giannantoni per la  trasmissione delle cosiddette tradizioni presocratiche, molte delle  quali per l’appunto fiorite nelle aree magnogreche (l’Eleatismo, il  Pitagorismo, Empedocle, Gorgia di Leontini), e per il ruolo svolto in  tale trasmissione da Platone e Aristotele. A questo più antico arco  cronologico, si sarebbe poi unito il costante interesse per  l’Epicureismo, nella forma storica dell’Epicureismo campano.  Vale la pena ricordare, infine, l’attività formativa che il Centro  riuscì a svolgere, facilitata, come è facile comprendere, dalla  posizione accademica di Giannantoni. Il Centro di Studio del Pensiero  Antico si formò infatti raccogliendo i suoi allievi, che si unirono ai  ricercatori già in forza presso il precedente Centro di Studio per la Storia della Storiografia Filosofica. L’attività progettuale, inoltre, non si limitava alla sola attività di pianificazione scientifica e ancor meno alla sola organizzazione dei convegni, ma prevedeva lavori continuativi di studio collettivo e di confronto sulle tematiche di principale interesse e di rilevanza strategica.  I maggiori convegni venivano quindi preceduti  da seminari propedeutici sulle dossografie antiche, sull’opera di  Diogene Laerzio e su quella di Sesto Empirico, e su quest’ultimo  autore, anzi, si svolse un seminario aperto anche ai dottorandi di  ricerca della Sapienza. Nell’ambito del progetto strategico  “Mediterraneo” e quindi della linea di ricerca sul Mediterraneo antico,  il Centro ottenne dal Comitato di Consulenza per le Scienze Storiche,  Filosofiche e Filologiche tre borse di studio (1995-1996).  22 ILIESI digitale Temi e strumenti  Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico LE PUBBLICAZIONI DEL CENTRO  Un discorso a parte merita l’attività editoriale a cui il Centro riuscì a  dar vita. Due furono le iniziative editoriali, strettamente coerenti con  l’idea programmatica che ispirò la costituzione del Centro: la serie  “Elenchos. Collana di testi e studi sul pensiero antico”, e il periodico  “Elenchos. Rivista di studi sul pensiero antico”. La scelta del  medesimo nome per le due iniziative si spiegava facilmente in  riferimento all’orientamento intellettuale ed al bagaglio culturale dello  stesso Giannantoni, che riteneva la discussione, il confronto  (elenchos, appunto), in primo luogo, uno dei lasciti più significativi  della cultura filosofica antica, quello che maggiormente ha contribuito  alla formazione della coscienza moderna. Ma in secondo luogo, e  secondo un’angolatura più tecnica, Giannantoni vedeva nella  discussione, intesa come analisi critica, il metodo per eccellenza dello  studio del testo filosofico antico e della dottrina in esso contenuta,  come avevano mostrano i primi autori di una nascente “storia della  filosofia” ancora in forma di dossografia, Platone e soprattutto, com’è  assai noto, Aristotele. In omaggio dunque, all’ideale dialogico  trasmesso dal magistero di Guido Calogero, l’elenchos fu, nei limiti  del possibile, il contrassegno delle ricerche realizzate o promosse dal  Centro e divenne il nome delle due pubblicazioni, entrambe affidate  alla casa editrice napoletana Bibliopolis, Edizioni di Filosofia e  Scienza, di Francesco del Franco.  La collana era destinata in larga misura, benché non  esclusivamente, a premiare le ricerche individuali, le quali dovevano  concretarsi in studi monografici, edizioni di testi e strumenti per la  ricerca. Non deve stupire che in questa sede ci si limiti a mettere in  primo piano l’opera Socratis et Socraticorum Reliquiae, collegit,  disposuit apparatibus notisque instruxit Gabriele Giannantoni, 1990, 4  voll. Frutto di una ricerca individuale più che trentennale, preparato da  molte precedenti pubblicazioni, questa edizione delle testimonianze  relative a Socrate e alle scuole socratiche, corredata di apparati critici  e note di commento (e senza traduzione, secondo la prassi  dell’austera filologia classica moderna), rappresentò la più importante  espressione degli interessi tematici e dei principi metodologici che  caratterizzarono il Centro. Basterebbe infatti considerare i volumi  usciti nella medesima collana “Elenchos” votati alle tradizioni  socratiche, alle scuole ellenistiche, alla dossografia e alle edizioni di  ILIESI digitale Temi e strumenti 23  Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico  testi e frammenti di autori ancora  poco studiati, per apprezzare   l’impatto delle ricerche di Giannantoni su tutto il gruppo di ulteriori interessi e accolse studi accademica.   ricerca del Centro.36 Naturalmente  la collana non fu preclusa ad   critici su tematiche di grande  rilevanza nell’ambito del platonismo  e dell’aristotelismo e delle filosofie  della tarda antichità,37 promuovendo  in tal modo uno scambio costante  con la più ampia comunità   Quanto alla rivista, è forse  opportuno rimandare direttamente  alla Presentazione che Giannantoni  Figura 6: copertina del primo volume di G. Giannantoni, Socratis et Socraticorum Reliquiae, Napoli, 1990.  antepose al primo fascicolo: essa fa  molto ben intendere tanto la  relazione essenziale tra il programma scientifico del Centro e il periodico  che di quel programma doveva essere lo strumento di diffusione; quanto  l’apertura al dibattito scientifico che la rivista (e quindi il Centro stesso) si  prefiggeva; quanto, infine, la tempestività di un’operazione culturale che  il Consiglio Nazionale delle Ricerche ebbe la sagacia di sostenere:  Questa rivista ... intende dare attuazione ad uno dei punti programmatici contenuti nella convenzione stipulata tra il Consiglio Nazionale delle Ricerche e l’Università di Roma, e che sta alla base del neocostituito Centro di Studio del Pensiero Antico ... essa non è, tuttavia, in senso stretto espressione soltanto di questo Centro: al contrario, chi ha la responsabilità di dirigerla intende farne uno strumento di studio e di ricerca aperto alle collaborazioni più ampie, un punto di incontro e di confronto e un’occasione a disposizione sia di studiosi già affermati sia di giovani ricercatori ... Questa rivista è l’unica dedicata interamente al pensiero antico che si pubblichi in Italia38 e perciò essa non può non proporsi anche un compito di promozione di questi  36 I titoli della collana “Elenchos”, corredati da schede riassuntive, sono consultabili al sito web dell’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle idee http://www.iliesi.cnr.it/pubblicazioni.shtml 37 Mi limito a citare il grande progetto di traduzione e commento della Repubblica di Platone, promosso e diretto da Mario Vegetti, e i cui primi tre volumi furono stampati quando Giannantoni era ancora in vita: Vegetti 1998, 2000, 2003, 2005, 2007. 38 Questa situazione è rimasta invariata fino al 2007, e cioè fino alla comparsa della rivista “Antiquorum Philosophia”, edita da Fabrizio Serra Editore, Roma-Pisa, e diretta da Giuseppe Cambiano. 24 ILIESI digitale Temi e strumenti    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico  studi ... Ma essa si propone anche uno scopo più ambizioso; se è vero, come è vero,  che la storia del pensiero antico è un campo in cui debbono potersi incontrare ... gli apporti e le problematiche della storiografia filosofica e del metodo filologico; e se è vero, come è vero, che tanto la storiografia filosofica quanto il metodo filologico attraversano ... una fase di ripensamento critico molto profondo dei propri presupposti e delle proprie certezze, allora ad una rivista come questa spetta, in primo luogo, il compito di proporsi come sede di verifica di discipline diverse e di modi diversi di affrontare lo studio del pensiero antico e di aprire le sue pagine ... anche a contributi che per la conoscenza del pensiero antico possono venirci da storici dell’antichità, filologi classici, studiosi delle lingue e delle letterature classiche, archeologi, papirologi ... Per questi motivi di fondo – oltre e più che per la sua origine istituzionale – questa rivista si caratterizza per l’unità del campo di ricerca, non per l’unità dell’orientamento interpretativo ...39  CONCLUSIONI: LA PERMANENZA DI UN PATRIMONIO E L’ATTUALITÀ DI UN METODO In accordo con gli obiettivi enunciati nella Presentazione della rivista “Elenchos” e nel protocollo che lo istituiva, il Centro di Studio del Pensiero Antico si dotò di un consiglio scientifico che affiancò Gabriele Giannantoni nella direzione del Centro e delle pubblicazioni che esso produsse, il quale contò tra i propri membri eminenti storici della filosofia, quali Francesco Adorno, Enrico Berti, Giovanni Reale, Carlo Augusto Viano, Anna Maria Ioppolo, Aldo Brancacci e Vincenza Celluprica, nonché eminenti filologi classici e storici della letteratura greca quali Marcello Gigante e Luigi Enrico Rossi. Il Centro poté disporre di sufficienti risorse e di una struttura organizzativa40 che gli 39 “Elenchos”, 1, 1980, pp. 3-4. 40 Fecero parte del Centro in qualità di ricercatori inquadrati nei ruoli del Consiglio Nazionale delle Ricerche: Barbara Faes (direttrice del Centro nel 1999), Gigliola Caporali, Stefano Garroni, Vincenza Celluprica (direttrice del Centro per il biennio 2000-2001 e poi responsabile della linea relativa al pensiero antico nell’ILIESI fino al 2005), Lucina Ferraria, Aldo Brancacci (poi docente presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”), Bruno Centrone (poi docente presso l’Università degli Studi di Pisa), Francesca Alesse, Maria Cristina Dalfino, Luca Simeoni, Riccardo Chiaradonna (poi docente presso l’Università degli Studi di Roma Tre). Collaborarono in modo istituzionale e continuativo con il Centro Anna Maria Ioppolo (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”), Luciana Repici (Università degli Studi di Torino); Giuseppina Santese (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”); Giovanna Sillitti (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”); Carmela Baffioni (Università degli Studi di Napoli l’Orientale); Emidio Spinelli (Università degli Studi di Roma “La Sapienza”) e Francesco Aronadio (Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”). Molti sono stati i giovani che, nel corso della loro formazione post lauream sono venuti in contatto con Gabriele Giannantoni e con il Centro, lavorando fattivamente alla redazione di “Elenchos” o adoperandosi in attività editoriali e scientifiche in senso proprio. Tra questi mi è gradito ricordare Rosa Maria Piccione (Università degli Studi di Torino), Michele Alessandrelli (ILIESI-CNR), Diana Quarantotto (Sapienza Università di Roma), Francesco Fronterotta (Sapienza Università di Roma), Adriano ILIESI digitale Temi e strumenti 25    Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico consentirono di diventare un organismo collettore di attività di ricerca nel campo dell’edizione critica e dell’interpretazione dei testi della filosofia antica, fino al 2001. Chi scrive non crede che l’esperienza acquisita nei poco più che vent’anni di vita del Centro sia andata perduta né dimenticata. Quando, nel 2001, nacque l’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee, al suo interno fu garantita la prosecuzione e l’autonomia delle indagini relative alla storia della filosofia antica, per esplicito volere di Tullio Gregory che del nuovo Istituto fu il primo direttore. Queste indagini confluirono in una linea progettuale denominata prima “Storia del pensiero filosofico- scientifico e della terminologia della cultura mediterranea greco-latina, ebraica e araba” e successivamente “  Il pensiero filosofico nel mondo  antico: testi e studi”.41 L’impegno principale della linea fu  rappresentato da una serie di progetti che in parte proseguivano le  tematiche di studio e le strategie cooperative del Centro di Studio del  Pensiero Antico, e in parte introducevano nuove tipologie di analisi,  connesse alle tecnologie digitali. La continuità culturale fu inoltre  garantita dal mantenimento delle due pubblicazioni, la collana  “Elenchos” e la rivista “Elenchos”. Da questa permanenza delle  ricerche sul pensiero antico nella nuova realtà istituzionale si deve  ricavare non solo e non tanto l’attualità di una disciplina (che si è  comunque stabilizzata nel mondo accademico con la benefica  diffusione di cattedre e centri di insegnamento, in Italia e fuori),  quanto piuttosto l’attualità di un metodo di lavoro. Questo metodo di  lavoro, che potrebbe descriversi, un po’ aulicamente, come un nuovo  diatribein socratico, cioè come la capacità di discutere in modo  competente con i “morti” prima che con i vivi, rispecchia abbastanza  bene la disposizione intellettuale e comportamentale di Gabriele  Giannantoni, uomo tanto pacato nelle discussioni con i contemporanei,  quanto fermo nelle sue strategie di ricerca sul mondo antico.  Gioè, Matteo Nucci, Mariacarolina Santoro, Francesca Gambetti e Cristina Cunsolo (a quest’ultima si deve l’allestimento della bibliografia ragionata digitale Le tradizioni filosofiche e culturali greche della Magna Grecia e della Sicilia antica, ora in fase di aggiornamento ad opera di Francesca Gambetti). 41 A questa linea, diretta da Vincenza Celluprica fino al 2005, fanno riferimento i ricercatori già operanti nel Centro, a cui si aggiunge, dal 2010, Silvia M. Chiodi, specialista in storia delle religioni del mondo antico e del Vicino Oriente. 26 ILIESI digitale Temi e strumenti   Francesca Alesse G. Giannantoni e il Centro di Studio del Pensiero Antico BIBLIOGRAFIA Arnim 1903 = Hans von Arnim, Stoicorum Veterum Fragmenta, Lipsiae, Teubner. Barnes-Mignucci 1988 = Jonathan Barnes, Mario Mignucci (a cura di), Matter and Metaphysics. Fourth Symposium Hellenisticum, Napoli, Bibliopolis. Biagini 2002 = Antonello F. Biagini (a cura di), Il Sistema Mediterraneo. Radici Storiche e Culturali e Specificità Nazionali, Roma, CNR Edizioni. Brancacci 1977 = Aldo Brancacci, Le orazioni diogeniane di Dione Crisostomo, in Gabriele Giannantoni (a cura di), Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, Bologna, il Mulino, pp. 141-171. Brancacci 2017 = Aldo Brancacci, Il Socrate di Guido Calogero, “Giornale Critico della Filosofia Italiana”, s. 7, vol. 13, pp. 205-226. 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La Repubblica, traduzione Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Vol. VII (Libro X). e commento a cura di Mario e commento a cura di Mario e commento a cura di Mario e commento a cura di Mario e commento a cura di Mario Vegetti, Napoli, Bibliopolis, Vol. VII (Libro X).  a    BS’l RATTO <Ia 1 Bollettino (ti Filologia Classica  Anno XXIV. - Fase. 2-3-1 - Agosto-Setteiiibre-Ottobre 1917      X II 6xi|iòvtov di Soorate — Como già nei tempi antichi, cosi anello  più tardi il 3 r.|iàviov di Socrate lui sempre suscitato il più vivo inte¬  resso ed è rimasto lino ai giorni nostri oggetto di studio. Ma, per  quanto sia stato scritto attorno ad essa e per quanto no sia stata ago-  volata la compronsione por merito di Seliloiormacher e dei suoi suc¬  cessori, non si può dire clic si sia linoni riusciti a trovare una spie¬  gazione soddisfacente di questo fenomeno, che fu una dèlio cause dèlia  tragica fine del grande pensatore.   Le fonti, alle quali dobbiamo attingere nella nostra ricerca, sono,  come si sa', gli scritti di Platone o di Senofonte. Ma.qui ci troviamo  subito di fronte ad una questione molto discussa c cioè; quale dei due  autori sia rispetto alla dottrina socratica il più attendibile. Poiché i  rapporti di Platono o di Senofonte si contraddicono riguardo allo ma¬  nifestazioni del Satpdviov di Socrato in un modo assai pronunciato, è  chiaro che dalla decisione alla quale arriviamo rispetto a questo divario,  deliba infine dipendere la soluzione del problema.   1 > m ,to che nel diciottesimo secolo si fece strada il parere del leib-  niziuno Brucfecr, secondo il quale gli scritti di Senofonte sarebbero  per lo studio del socratismo i più veritieri, parere che ha avuto fino  ad oggi i suoi fautori. Di quest’opinione è in linea generalo anche  Hegel (IJ. 1|S. principio del secolo passato però, Schleiermacher (2) ed  altri insistettero che por la valutazione della dottrina socratica do  vesso tenersi maggior conto delle opere di Platone. Di fronte a queste  due correnti lo Zollerai sogni un indirizzo, elio possiamo chiamare  intermediario. Senza entraro in particolari, si può dire che, sebbene  gli atti attorno a questo divario non siano ancora chiusi, diventa sem¬  pre più salda la convinzione, che senza uno studio profondo di Platone  una comprensione del socratismo non è possibile (-1). Ma con ciò il no¬  stro quesito non è ancora risolto.   Secondo Platone il Sxigóvwv agisce in modo esclusivamente inibitorio,  esso non è mai incitativo. Secondo Senofonte, però, funziona nei due  modi. Si è, è vero, creduto che la contraddizione tra lo due versioni  fosse soltanto apparente, perchè, se il «aigóviov non inibiva Socrate  nel 6uo fare, ciò equivaleva, si è detto, ad un'atrcrmaziono nel senso   «C.   (1) G. W. F. Hegel, Vorl. ti. d. Gesch. d. l'Ii tfp s. Il, 2* ed., p. 69, 1812.   (2) F. Schleiermacher, Abkdl. kad. su Berlin, 1818, p. 50 seg.   (3) E. Zm.i.ER, Die Philosophie hen li, 1, t* '.al., p. 91 seg., p. 131    Mg. 1869.     (4) Cfr. G. Zuocantb, Socrate, pòrte prima, 1909.              35    ISOLI,ETTI NO L>1 FILOLOGIA CLASSICA    di un ordine positivo. In verità, però, mi sembra, che la diversità  venga con una talo interpretazione soltanto celata, ma non eliminata,  perchè in realtà le differenze tra i rapporti doi due autori sono do¬  vute a processi psichici in sè diversi. Corto, se qualcuno mi dice, ad  es. : non andare via ! quosto equivale praticamente al comando positivo:  rosta ! Ma con ciò la cosa non è fluita. So io non distolgo qualcheduno,  che devo guidaro, da una azione, che egli è in procinto di compiere,  do, è vero, con ciò il mio consentimento al suo proposito, ma la sua  azione scaturì da motivi sorti nella sua coscienza e prosegue secondo  leggi psichiche. E so, in un altro caso, lo freno con un semplice: no!  senza però dargli altri ordini positivi, io non permetto che egli ese¬  guisca quello che stava per fare, ma con ciò non gli indico ancora  quanto devo in sua vece intraprendere. Il suo agiro dipende di nuovo  unicamente da lui o si sviluppa ancora da motivi che sorgono in lui  stesso. Ma so gli dico: fa cosi ! allora lo sottopongo in senso positivo  ad una volontà non sua o lo faccio compiere un’azione, i cui motivi  sorsero nella mia coscienza e non nella sua. Egli diventa lo strumento  del volere di un’altra persona, e, se consideriamo il fatto dal lato etico,  la responsabilità per lo conseguenze di una tale azione cado in questo  caso interamente su di rao o per nulla su di lui. Non occorrono altri  esempi : in fondo la diversità doi due rapporti si riduco presso a poco  al caso citato. Secondo Senofonte, Socrate riceve anche ordini positivi  dalla divinità, egli compie quindi azioni, che non furono da lui deciso,  secondo Platone mai. Ogni sua azione procedo, secondo Platone, in se¬  guito a motivi, che appartengono alla sua propria coscienza, ed è sem¬  pre la sua volontà che lo fa agiro anche dopo che egli ha abbandonato,  per l'intorvonto del Baijióvwv, una decisione presa.   Como si vede, la differenza non si lascia eliminare. Per quanto si  corchi di celarla, essa riappare sempre. Mi sembra quindi più savio  di riconoscerla. Ma ciò facondo ammettiamo anche che una dello due  versioni non può essere esatta e cho si deve decidere, quale delle due  si abbia da riconoscere come vera.   Delle opero cho portano il nome di Senofonte, V Apologia viene oggi  quasi da tutti riconosciuta apocrifa. Per ciò non ne teniamo conto.  Degli altri suoi scritti sono per noi importanti i Memorabili ed il Con¬  vito. Faccio qui osservare che, dopo un esame della rispettiva lette¬  ratura o specialmente in base agli studi dello Schonkl(l), sono arri¬  vato alla conclusione cho per il nostro problema soltanto i passi Meni.  1, 1, 2 segg., Meni. I, 4, 15 segg. o Conv. 8, 5 sono con tutta sicurezza  da considerarsi come autentici. Per talo ragione lasciamo da parte in  questa breve nota i passi : Mem. IV, 3, 12, IV, 8, 1 o IV, 8, 5.   Dalle opero cho vanno sotto il nome di Platone e che trattano del  Saipóviov escludiamo il Teagete, perchè oggi generalmente ritenuto apo¬    lli K. Schenkl, Xenophont. Studien. Sitzungsber. d. K. Akad. d. Wiss . i  zu Wien, 1875, 1876.        BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA    36    orilo. L’autenticità dell'A Icibinde 1 è fortemente messa in dubbio, lo  accettiamo con riserva. Non posso decidermi di respingere 1 Fall frane,  malgrado lo obiezioni di Ueborwog (I). Dogli altri scritti platonici limino  per noi valore VApologià, YEutidemo, il Tediato, il Fedro e la Repubblica.   Senza entrare rpii noi particolari della questiono, (pialo sia I ordino  cronologico delle opere di Platone, dobbiamo intenderci sull'epoca in  cui fu scritta Y Apologia, perchè questo lavoro ci dà la più esatta in-  i rmazione intorno al Saipiviov di Socrate. La maggior parto dogli stu-  .dcigi — c ciò è per noi importante — fa salirò l’origine di quest o-  pcra ad un’epoca non molto distante dalla condanna o dalla morte del  illusolo, l’orsino autori elio sono del parere clic Platone 1 abbia scritta  a Megara, ammettono con ciò (dio questo importante documento ap¬  partiene al suo primo periodo di attivila, scientifica. Allo stesso risul¬  tato giunse Lutoslawski per mezzo del suo metodo stilometrico. Quan¬  tunque si debba riconoscere l’unilateralità di questo metodo e per  •quanto sarebbe arrischiato di fondarci unicamente su di esso, ci co-  -stringono nondimeno ragioni psicologiche di non negargli ogni valore.   Alla questione esposta si connetto quost’altra, cioè, so nell’Apologià  .di Platone si tratti di una fedele riproduzione di quanto Socrate real¬  mente disse davanti al tribunale di Atene, o se si tratti soltanto di  una riproduzione piu o meno fedele del contenuto dei suoi discorsi.  La prima opinione è quella di Schleiermacher (2), della seconda è  Stcinhart (3), elio vede nell’Apologià un'opera d'arte, in cui lo spirito  -socratico o quello di Platone si trovano armonicamente fusi insieme.  Ambedue le opinioni hanno avuto i loro fautori. Considerazioni psico¬  logiche mi hanno condotto nelle duo questioni accennato a con' inzioni  che risultano da quanto seguo.   Come si vuol spiegare l'influenza che quest'opera ha sempre eser¬  citata sui più grandi spiriti della razza umana, o come si potrebbo  comprendere la elevazione morale clic ognuno devo provare in sè,  quando vi si abbandona senza pregiudizio, so non si ammette che essa  suscita nel lettore la convinzione di sentire la parola viva di Socrate  stesso ? Quale valore potrebbo avere questo scritto, se si volesse con¬  siderarlo unicamente come una creazione d'arto, come una descrizione  dell’ideale platonico? In questo caso dovremmo bensì inchinarci da¬  vanti all’autore quale artista, ma in fondo avremmo cosi un Socrate  come Platono avrebbo desiderato che egli fosso, ma non come real¬  mente era. Non stava in Socrato piuttosto la verità incorporata da¬  vanti ad Atene decadente, davanti alla stessa Atene che egli aveva  conosciuta nello splendore del periodo di Pericle? Non era quest uomo  un idealo morale di una tale grandezza elio ogni tentativo di idealiz¬  zarlo maggiormente doveva necessariamente rimpicciolì rio ?    .y ■  ' ' V    v- V  /   f.'O-    ;!£■   : S    %     (1) P. Ueberweg, Unters. fi. d. Echtheit u. Zeitfolge piatoli. Schriflen ,  ,p. 201, 250, 1861.   (2) F. Schle i rum ache R, Plalons Werke, I, 2, 3* ed. p. 128, 1835.   (3) H. MQli.er e K. Stf.inhart, Plalons sàmmtl. Werke, li, p. 216, 1851.    — 3 —        37    BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA    Per quali ragioni poi l 'Apologia non fu scritta in forma di dialogo?  Nessuna introduzione, nessuna descrizione dello scenario, nessun nesso  tra i singoli discorsi, nessun accenno a circostanze secondarie inter¬  rompono l'azione in questo meraviglioso documento. Non dovremo con¬  venire che soltanto forti motivi psicologici indussero l’autore ad esporre  cosi lo sviluppo del processo? Non si dimentichi neppure quanto di¬  versamente Socrate parla della morte ne\\'Apologia e nel Fedone, la  qual opera, senza alcun dubbio, fu scritta molto più tardi. Nell’yfpo/ofna  è in verità Socrate stesso che parla, mentre nel Fedone è Platone che  motto, entro la cornice della realtà storica, la propria convinzione in  bocca al suo amato maestro.   Vi sono poi altri fatti psicologici da rilevare. Ricordiamo che Platone  ascoltava un maestro, che aveva seguito con tutto l'ardore del suo en¬  tusiasmo giovanile per lunghi anni, e dal quale emanava un lascino  che faceva dimenticare a lui come ad altri giovani greci la figura di  Sileno clic nascondeva il vero essere del grande innovatore. Ricordiamo  clic Platone era penetrato nello spirito della dottrina socratica come  nessun altro e clic egli solo è stato capace di salvarla interamente  per la filosofia occidentale. Gli orano quindi lamiliari tutti i partico¬  lari esteriori che sono caratteristici por ogni personalità umana o senza  i quali non possiamo neppure rappresentarcela. Conosceva esattamente  il timbro e la cadenza della sua voce, il suo vocabolario, il suo perio¬  dare, i suoi movimenti mimici e pantomimici, in breve tutti i numerosi  fattori clic, secondo la leggo della fusione psichica, cooperano a lar  sorgere in noi l’immagine di una persona a noi nota c che, tutti quanti,  esercitano la loro influenza dormito la riproduzione di un suo discorso.   È inoltro cosa saputa che ogni riproduzione di un discorso riesce  tanto più fedele, quanto piu l'attenzione rimaneva tosa, quanto mag¬  giore era l’interesse che l'oratore suscitava in chi l'ascoltava. Si può  immaginano un’attènzione piu concentrata elio nel caso presente?   Figuriamoci lo stato d’animo del giovano Platone, che pende dalle  labbra del suo maestro e che appercepisce attivamente ogni parola  da lui pronunciata; ridestiamo nella nostra immaginazione l’uragano  di emozioni che lo travolge, le fluttuazioni della sua anima tra la spe¬  ranza ed il timore, tra l'ammirazione della grandezza sovrumana  che si palesa e lo schianto per la certezza della perdita irrimediabile,  e si dovrà convenire elio l’organismo umano forse non sopporterebbe  tali stati d’animo una seconda volta. Sappiamo che emozioni come  queste non passano facilmente, ma (die tornano sempre in nuovo on¬  dato. Sappiamo inoltro che nessun moto d'animo rimane senza espres¬  sione o elio lo singolo persone a questo riguardo si comportano diver¬  samente. Anche l’anima dell’artista lui le sue reazioni ed ogni artista  le ha a seconda dell’arto, alla quale dedicò la sua vita. Ora, anche Pla¬  tone era artista o come tale non potevano rimaner mute lesile emo¬  zioni. Ma egli era anello scienziato, uno scolaro, anzi Io scolaro per  eccellenza, ili quoH'uomo che durante una lunga vita non aveva ccr-      BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA    :i8    rato altro ohe la verità. Oli era impossibile di rinchiudere in se ciò  clic aveva vissuto quel giorno. Cosi, appena può, prende lo stile por  dare uno slogo all'emozione olia lo soffoca. li se il suo stato non diede  luogo a fenomeni precisamente nllucinnttfri, nondimeno tutto ciò che  aveva visto e sentito, torna a vivere in lui, conio per il poeta vivono  ed agiscalo lo persone croato dalla sua fantasia.   Cosi, io penso, nacque VApologia platonica. Essa non è un rapporto  stonogralico, perché è certo olle anche questa riproduzione doveva su¬  bire quei cambiamenti che, secondo i risultati della trattazione speri¬  mentale. hanno luogo in tutti i processi riproduttivi. Perciò non ogni  parola ebbe il suo posto originario, un pensiero avrà avuto un'espres¬  sione un po' più breve, un altro una l'orma un po' più lunga, eco., ma  quanto al resto il documento è. come per il contenuto, cosi puro pol¬  la forma tanto fedele, quanto, data la mente Idi un Platone, era uma¬  namente possibile. Con ciò ho esposto II mio punto di vista rispetto  allo due questioni sovracconnatc. No risulta che dobbiamo fondarci nella  nostra ricerca4U/-quanto viene riferito in quest'opera intorno al &ti-  póviov di Socrate. Aggiungo die gli accenni contenuti negli altri scritti  di Platone non contraddicono in alcun modo i dati precisi dell’Apologià.   Per quanto concerno lo opero di Senofonte che ci interessano, bi¬  sogna ricordare che esse furono scritte parecchi anni dopo la morto  di Socrate, o die in esse i.on veniamo mai informati intorno al feno¬  meno da Socrate stesso. Desideroso di dimostrare l'innocenza del grande  filosofo, come puro la ingiustizia dell’accusa c della condanna, Senofouto  metto, convinto, beninteso, di scrivere la verità, il Saipòvcov di Socrate  in relazione colla fedo popolare nello divinazioni. Ciò non può sorpren¬  dere, quando si pensa all'abuso che il popolo di qucH'epoea, già invaso  dallo scetticismo, fece dei divinatori, c quando si tiene presente elio  Souofontc non ora filosofo, ma uomo politico. Per questa ragione non  dove recar meraviglia, se Senofonte non aveva compreso ciò che era  nuovo ed essenziale nella concezione socratica del fenomeno.   In Meni. I, I, 2 è detto clic la divinità (vi Saipòviov) dava segni a  Socrate ed in I, 4 viono aggiunto elio egli comunicava tali messaggi  a quelli clic lo ci re urlavano o elio aveva loro predetto ciò che dove¬  vano faro e ciò elio non dovevano l'aro, come puro elio quelli elio se¬  guivano questi consigli ne ebbero vantaggi, mentre gli altri elio non  li seguivano, dovevano poi pentirsene.   Meni. 1, 4 contiene il noto colloquio con Aristodemo. In 4, 11 Socrate  domanda ad Aristodemo, clic cosa gli dei dovessero l'aro per convin¬  cerlo elio si curavano anche di lui. A ciò Aristodemo, alludendo al  S-x.aó e.'j'i. risponde, un po' ironicamente, che dovevano mandargli dei  consiglieri per fargli sapere quello elio doveva faro e non fare, corno  Socrate pretendeva che fosse il caso spo.   In Cono. 8, 5 Socrate non aveva affatto parlato del suo Sxtgtìvwv o  non no parla neppure in seguito. Antistuno, però, gli fa il rimprovero,  come se egli se no servisse per trarsi d'impiccio.    5     39    BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA    È evidente che, se non avessimo lo rispettivo, opere platoniche, il  ixigiviov di Socrate sarebbe rimasto per sompro un fenomeno inespli¬  cabile. D'altra parte però le comunicazioni di Senofonte sono di grande  valore, in (pianto che fanno vedere il modo in cui in Atene si giudi¬  cava questo fonomono, ivi assai conosciuto.   Dall' Apologia ili Piatone apprendiamo che Socrate disse nel suo primo  discorso (Apoi. 31 c-d), che egli non si era occupato di altari politici,  perchè succedeva qualche cosa di divino o di demonico (Dstov r. -/.od  Sxqidvtov) in lui, che dai tompi della sua fanciullezza (è-/. r.x'.Sif) vi era  stata in lui una corta voce (qxov^ vi?) la quale, ogni volta che gli so¬  pravveniva, l’aveva trattenuto da qualche cosa, ma che non l’aveva  mai spinto a qualsiasi azione. Nel terzo discorso (40 a-c) Socrate spiega,  come la solita divinazione (r, siioSHtà poi prmxi)) l’avesse nel passato  sovento fermato, trattandosi anche di coso molto piccole (jiàvu érti opi-  xpotg), ma che il segno di Dio (vi r.ù 9-soO a^pstov) non gli era soprav¬  venuto durante tutto il giorno c neppure durante tutto il suo parlare,  mentre durante altri discorsi l'aveva spesso frenato. Dice ancoraché  la morte non poteva essere un male per lui, perché nel caso contrario  il solito segno (vò e!i»9-ò; a^pAv/J l'avrebbe cortamente trattenuto nel  parlare. Alla fine di questo discoi-so (41 <1) ripeto che il morire doveva  ora essere per lui la miglior cosa, perché altrimenti il segno (vo oij-  pstov) l'avrebbe avvertito.   Gli altri scritti di, Platone, dei quali dobbiamo tener conto, non pos¬  sono naturalmente iù avere il valore storico, elio abbiamo attribuito  all’Apologià, ma siccome i rispettivi passi, corno fu già detto, non sono  menomamente in contraddizione con quolli dell' Apologia, essi hanno  certamente un fondamento storico. In ogni modo illustrano, come Pla¬  tone vuole che il Sxwdvwv di Socrate venga inteso.   Nell'Atò/drtde I (103 a) l’autore si servo del fenomeno per iniziare  il dialogo. Socrate dice ad Alcibiade di non meravigliarsi, se da tanti  anni non gli avesse più parlato, perchè un ostacolo di natura non  umana, ma demonica (oùx ivD-piójiswv, àX/.i vi Sxipdviov ivawttopx) gliene  aveva impedito.   ììo\VEulifrone (3 b) questo domanda a Socrate, su che cosa Meleto  abbisi l'ondato la sua accusa. Socrate dico che Meleto gli rimprovera  di introdurre nuovi dei c di non credere negli antichi. E Eutifrono  gli risponde di aver capito ora, che è perchè Socrate parla sempre  del suo Sxtpóviov.   Noi Teetelo (150 c-151 a) Socrate parla della sua maieutica e dico che  molti discepoli l'avevano abbandonato, perchè, non comprendendo la  sua arto, lo tenevano in poco conto. Egli aggiunge che, se tali giovi¬  netti tornavano da lui, il ìoupóviov (ti yiyvò|ìevóv poi Sxqwviov) gli impe¬  diva di accoglierne alcuni, mentre ad altri non era contrario e che  questi facevano di nuovo progressi.   Nell 'Entidemo (272 o), un dialogo, in cui Platone fa vedere tutto  il vuoto ed il poricolo dell'arte solistica, Critono prega Socrate di         BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA    40    parlargli di duo solisti. Socrato consento o dico clic il giorno innanzi  ora stato seduto noi liceo od in procinto di andarsene, quando gli ora  sopravvenuto il solito sogno demonico (tò siwà-ò: ay iuCcv tò ìaqiòvt'vv}.  Poreiù ora rimasto seduto o tosto quei duo, cioè Kutidemo e Dioniso-  doro orano entrati.   Noi Fedro (241 a-d) Platone ha già oltrepassato di molto il socialismo  puro e semplice, come risulta dalla spiegazione elio dà dell’anima o  dello ideo. Dopo una meravigliosa descrizione del paesaggio vediamo  corno Socrato o Fodro si coricano sulla sponda dell’Ilisso nell'omhra  di un albero. Socrato ticno il discorso sul bel ragazzo che aveva avuto  molti amanti. Fedro vorrebbe clic continuasse su questo tema, ma So¬  crate gli risponde che, in procinto di attravorsare il fiume, gli era so¬  pravvenuto il solito segno demonico (tò ìxqiòvtòv t= usci tò siiottòs aijgEìovl,  gli era parso di sentire una corta voce (za{ tivx cpiovijv iìi-a aòTò!M=v  àzoùoai), elio lo impediva di andare via prima di essersi purificato da  un peccato commesso contro la divinità. Dice ancora che egli deve essere  veramente un divinatore, ma soltanto per ciò elio riguarda lui stesso,  e continuando rileva dm la sua divinazione rassomiglia all'arte di  quelli che leggono c scrivono male, perché anche questi possono ser¬  virsene soltanto per i propri bisogni. Con ciò egli passa man mano  agli splendidi discorsi elio tutti conoscono. — Platone si serve in que¬  st'opera con arte line del ìaqiòviov in modo similo a quello in cui so n'è  servito ncll’AHbiado e neU’Eutidcmo. Egli introduce il fenomeno per  rendere possibili i discorsi che seguono.   Nella Repubblica (VI, 496 c) Socrato dice elio il segno demonico (tò  ìaqiòviov ovjiietovJ non era stato concesso a nessuno prima di lui o quasi  a nessuno.   So analizziamo più da vicino il problema, vediamo che esso rac¬  chiudo in sé tre problemi clic dobbiamo risolvere l’uno dopo l'altro.  S’impone prima di tutto il quesito, corno mai Socrate abbia potuto  -chiamare il fenomeno in questione tò ìaqiòviov. A questo si connette  l’altro, cioè di sapere che cosa Socrate stesso abbia realmente inteso per  questo termine. In terzo luogo dobbiamo corcare, come la psicologia  empirica moderna possa spiogare questo fatto. II primo quesito e, fino  ad un certo punto, anemie il secondo fanno parte della psicologia dei  popoli, mentre il terzo appartiene esclusivamente alla psicologia indi¬  viduale.   I. Il significato del ìaqiòviov di Socrate dal punto di vista della psi¬  cologia dei popoli. — 11 concetto del demone è sorto da primitive ve¬  dute attorno all’anima. Esso ha avuto poi un lungo sviluppo, duranto  il quale, sotto l’influenza di rappresentazioni magiche, subisce molte  trasformazioni e acquista varie forme. All’epoca in cui appare l’eroe,  questi 'lue concetti si fondano man mano in una rappresentazione to-  talo, nella quale il concetto del demone perde il suo carattere imper¬  sonale, mentre l’eroe acquista dolio qualità sovrumane. Cosi nasce il  panteismo. Importante è però in tutto questo sviluppo, che la rappre-       53 BOLLETTINO L)1 FILOLOGIA CLASSICA    sontazione ilei demono non si perdo dopo la formazione degli dei pa¬  gani o elio corto qualità ili questi ultimi vengono attribuite anche ai  demoni. Per ciò accado olio lu coscienza popolare non distinguo sempre  nettamente tra dei e demoni. Nella Grecia il concetto del demone, sotto  l'influenza della poesia e della filosofia, subisce poi un’altra modifica¬  zione, in quanto i demoni vengono considerati come esseri elio stanno  tra gli dei o gli uomini. Si confronti a questo proposito la descrizione  deH'origino dell'Eros nel Convito di Platone (802 dj, come pure il primo  discorso di Socrate nel .['Apologià platonica (27 c).   Dal punto di vista della psicologia dei popoli si può diro elio col  «aipóviov di Socrate il concetto del demono torni nell'anima umana,  nella quale, per motivi psicologici e per processi di oggettivazione, è  nato, vi ritorna filosoficamente trasformato ed eticamente purificato (1).  E caratteristico per tutto questo sviluppo elio Socrate nel Convito di  Senofonte chiama l'anima umana un santuario dell’Eros (Vili, 1). ,   2. Come intende Soci'de il suo 8*i|lòviov ? — Prendo le mosse da un  punto ilei primo discorso AoW Apologia di Platone e precisamente dal  punto, ove Socrate invita Meleto a spiegare esattamente, se egli nella  sua accusa intenda di diro clic Socrate non creda negli dei dello Stato,  o so egli voglia addirittura accusarlo di ateismo. Quando Meleto an¬  nuisco a questNiltima interpretazione, l’accusato corea di far vedere  l'assurdità dell'assorziono, dimostrando dapprima che, chi crede in qual¬  che cosa di demonico, devo necessariamente riconoscere l'esistenza ili  demoni. E quando Meleto devo nuovamente ammettere che i demoni  sono figli di doi, la partila è ila Scorato quasi vinta. Comesi può ere-  dorè all’esistenza di tigli dogli dei, egli conclude, senza credere con ciò  anche a quella degli dei stessi ? Difatti, i giudici elio lo ritenevano  colpevole, erano in piccola maggioranza.   Se prendiamo questo passo insieme con quanto Socrate dice ancora  ilei suo 2xi|ióvtov o del suo concetto della divinità, abbiamo in mano la  chiave per la sua concezione del fenomeno. Faccio qui ancora notare  che intendo il termini vó ìzciivtov nelle opere di Platone, secondo l'os-  sorvaziono dello Schlcierinacher (2), nel senso di un aggettivo. Dico  questo per respingere l'opinione che Sperate abbia creduto in uno spe¬  ciale spirito custode.   Socrate scoglio il termine iò Saupòviov in conformità alla fedo popo¬  lare. Come i demoni, secondo questa, stanno tra dei o uomini e ven-  .,gono detti persino ilei, perchè da dei generati, cosi anche il demonico  in lui è generato dalla divinità. Per questo lo chiama anche tó 3-iCov,  il divino. Il nesso psicologico mi sembra qui evidente. Abbiamo qual¬  cosa di s'inilo nella designazione del suo metodo, il quale egli credeva  puro impostogli dalla divinità (Teeteto 150, o). Come a baso di tutte   (1) Clr. W. Wu.ndt, m/terpsi/eholOjfie li, 2, p, 3iìS. 19 ni; Clemente der  VSt/cerpsi/chol., p. 313. 1912.   (21 Op. cd., p. 309. — Cfr. puro B. E. Uaonaiihtks, The Ctnssical Retitelo,  XXVIII, ri, p. 185. 1911.    — 8 —        BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA    54    lo azioni di Socrate sta il bisogno etico della cortezza(1), cosi egli è  assolutamente certo che in casi, in cui la propria ragione lo lascia in  asso, una volontà divina lo trattiene in ogni circostanza, piccola o  grande, dolla vita, quando è in pericolo di non agire giustamente, cioè  di non compiere la sua missione. In questa cortezza, che forma una  parte della sua fedo religiosa, sta la giustificazione otica dolla ironia,  colla quale egli lancia l'accusa indietro sull’avversario. Ma oltre ad  essere qualche cosa di divino, il demonico in Socrate è poi anche qualche  cosa di umano, perché si produce nell’anima umana o diventa sua pro¬  prietà, cioè un oracolo interiore. Per ciò il demonico stava veramente,  come il demone della mitologia, in mezzo tra il divino e l'umano. Si  aggiunga elio Socrate ora in fondo persuaso che prima di lui questo  dono non era stato posseduto da nessun altro mortale. Ecco ciò che  vi ha di nuovo nella concezione socratica della divinazione, di fronte  a quella della fede popolare. Como dalla Repubblica di Piatone, questo  fatto risulta anche dalle superbe parole, colle quali Socrate si esprime  sul suo valore davanti ai suoi giudici (Apoi. 31 a-38c). Tali parole  può pronunciare un ammalato di mente, che si deve compatire, ma  quando escono dalla bocca di un Socrate, sono l'espressione di una pro¬  fonda convinzione religiosa, che deve scuotere chiunque miri a tini  etici. Importante è per la fede di Socrate che egli non cerca di scol¬  parsi in quanto al non credere negli dei dello Stato, ma solo in quanto  al sospetto di avere delle convinzioni ateistiche (Apoi. 35d).   Por quanto concorno la teologia socratica, elio al pari della sua  etica doveva rimanere ili carattere pratico, anziché sistematico (2),  è importante ricordare che Socrate trovò nella sua naz.iono il poli¬  teismo ellenico, corno Cristo trovò nella sua il monoteismo giudaico.  Socrate era, come ogni essere umauo, un tiglio del suo tempo. Educato  in (inolia religione ogli si riteneva, come Cristo, esteriormente legato  allo prescrizioni religioso in vigore. Come prendeva sul serio la mas¬  sima di Delfo: conosci le stesso, cosi rispettava l'altra di ubbidire alle  leggi. L’ultima parola del filosofo morente era la raccomandazione di  non dimenticare il sacrificio dovuto ad Esculapio (Fedone. 118), e poco  prima aveva domandata all'uomo, elio gli portava il calice fatale, se  ora permesso di farne una libazione. In questo modo Socrate non rag¬  giunse l'altezza dolla dottrina del Nazareno, ma si avvicina ad essa,  perchè sulla*larga base della religione popolare si eleva, quale sintesi  della sua conoscenza, la fedo in un Dio unico, al quale si deve ubbi¬  dire più che non agli uomini (Apoi. 29 d) c di cui egli si credeva un  apostolo (Apoi. 31 a). Socrate è tolcrautc verso la fede della moltitu¬  dine, ma il suo Dio è l’intelletto che governa l’universo e per il quale  non trova neppure un nome, un Dio onnisciente ed onnipresente, che    (1) A. Labriola, Socrate. Nuova edizione a cura di B. Croce, p. 5, 35, 76,  80 seg., 86 seg., 88 sei;., 150 si>g., 176, 274 seg. 1909.   (2) Cfr. A. Labriola, op. cit., p. 151, 155, 179 segg., 250 segg., 271 segg.       55      BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA    si cura ilei Leno di tutti gli nomini (Sonof., Meni. I, 4). Tutte le sue  pratiche religioso sono in fondo rivolto n quest'unico Dio senza nomo,  clic si rivela agli uomini in molti modi. Con una espressione di ledo  in questo Dio onnisciente, si chiudo ì'Apntoi/ia platonica(l). Tenendosi  presente questo concetto della divinità, si comprendo la sua incrolla¬  bile fede nel S»tpóvtov come in una rivelazione della medesima.   Il l'atto che il plurale oi '.Hol si trova in Platono come in Senofonte  accanto al sì neolaro 6 tei? potrebbe destare il sospotto elio Sorrato  accanto all'intelletto universale abbia ammesso ancora dolio altro forme  divino. Ma ciò è escluso. Egli sceglie il plurale in modo simile come,  per es., nella Genesi il plurale Eloliim sta por il singolare della di¬  vinità. Non è qui il luogo ili entrare in altri particolari. Ricordo sol¬  tanto elio troviamo precedenti in Senofane e che audio Anassagora  aveva già riconosciuto un unico principio immateriale che tutto or¬  dina secondo lini. Cho Socrate abbia conosciuta l'opera di Anassagora,  apprendiamo direttamente da Platone (Fedone. U7).   Non ho bisogno di rilevare che, con quanto fu esposto, sono sen¬  z’altro respinte le opinioni di Lèi ut o di altri, cho considerano Socrate  come un ammalato di mente, come pure il parere di Dii l’rel, che  mette il Sxqidvtov di Socrate in relazione collo proprio teorie mistiche (2).   3. // 8r.pó/tov di Sacrale dal punto di vista detta psicologia empirica  moderna. — So teniamo conto di tutti i fatti che Platone ci presenta,  è evidente che nel «atpivtov di Socrate si tratti ili un processo che ap¬  partiene al campo delle inibizioni psichiche. Naturalmente non può  trattarsi qui di una inibizione nel senso della dottrina intcllcttuuli-  tstica di Horbart. Ciò che nel nostro caso è inibitorio, non appartiene  all'atto al contenuto oggettivabile della coscienza umana, ma si trova  piuttosto dalla parte puramente soggettiva di essa, cioè da quella dei  sentimenti. Da questo punto di vista dobbiamo cercare di risolvere il  problema. L’inibizione procede da un sentimento totale, che si forma  in base ad un numero più o meno grande di intensivi sentimenti par¬  ziali, legati ad clementi rappresentativi che rimangono al limito della  coscienza e che non giungono all’appercezione. Con questo è inteso,  che non può trattarsi nel caso di Socrate, come è stalo ripetutamento  affermato, di processi allucinatoci (3). Nel fatto che l’inibizione parte  da un sentimento, al quale non corrisponde un contenuto oggettivo,  sta la ragione, perchè Socrato non può fare alcuna indicazione precisa    (l) Cfr. pure (I. /Cuccanti:, op. cit., pirte IV, c«p. XIII.  tX) F. I.ÉIX'T, L)it itóiiion de Si,croie ni. 1 4556. — C. Du Prel, Ine Ma¬  stiti d. alt. (ìrieclien, p. 121 seg. 1.333. E caratteristico che Du Prel l'accia uso  ilei Teapele , benché riconosca che questo non sia un'opera di Platone.   d) Cile Platone colla frase nel Fedro “ xxt -iva ipiovijv £So;a xùxcàsv ày.ofkJx: „  non vuol alludere ad una allucinazione, dimostra con molta chiarezza anche lo  Cuccante (op. cit., p. 372). Si aggiunga che. se il Szqicvtcv di Socrate avesse  tale origine, questo si rileverebbe in tutti i rispettivi racconti platonici, ciò che  non è assolutamente il caso.    - 10 —           BOLLETTINO DI FILOLOGIA CLASSICA 56    intorno al fenomeno, ma (leve in casi, in cui non lo chiama semplice¬  mente il demonico o il divino, contentarsi di termini metaforici. Parla,  ad es., di una voce, come oggi si usa il termine “ voce della coscienza,,.  Questo sentimento, sorto dapprima per via associativa, viene poi atti¬  vamente appercopito e, riferito alla divinità, acquista il carattere di  un motivo imperativo che, coll'intensità di una forza morale, lo co¬  stringe ad abbandonare un'intenzione presa. Dal fatto cho l’inibizione  viene da Socrate creduta un segno divino, si comprendo elio in lui  non possono mai nascere dei dubbi, come accadrebbe con altro persone.  Non vi è mai in un tal caso una lotta tra motivi in lui, mai alcun  conflitto tra doveri. Appena egli s'accorge dell’inibizione, è assoluta¬  mente sicuro di aver avuto trasmesso un divino “No,.. Cosi la rifles¬  sione o la fedo nel suo Sztjióv»/diventano i principi fondamentali, che  lo guidano nella sua intera attività filosòfica ed etica.   In ultima analisi si tratta qui di un fatto psichico clic si verifica in  ogni coscienza normale più o meno frequentemente, benché molte per¬  sone non lo osservino o non si lascino da esso frenare. Di James Stuart  Mill ci viene riferito elio egli osservò il fenomeno in se stesso molto  intensamente (1). A me molte persone hanno dotto di aver notato in  sè tali inibizioni sentimentali. Siccome Socrate ci informa che egli  aveva osservato il fenomeno spesso in sè dai tempi della sua fanciul¬  lezza, non è escluso che vi sia stata in lui por lo sviluppo di esso una  certa disposizione. Ma d'altra parto si devo ricordare (dio egli per tempo  si abituò a fare molto sul serio l'esame di se stesso o cho il fenomeno  era una parte integrale della sua fede religiosa. Dal momento cho egli  era corto cho il sentimento inibitorio era una rivelazione divina, questa  convinzione doveva dominare tutta l’anima sua. Dato questo continuo  autoesame in connessione collo sviluppo (lolla sua convinzione teolo¬  gica, si comprendo, come dovesse entrare in giuoco un principio che  governa ogni vita psichica, cioè quello dell’esercizio. L’ininterrotto  esercizio doveva renderlo capaco di riconoscere l'inibizione di ogni  grado appena sorta e di afferrarla coll'attenzione. Si aggiunga (die la  coscienziosità colla quale cercò continuamente di compiere la sua mis¬  sione, e colla quale mirava sempre ai medesimi lini, doveva renderlo  straordinariamente sensibile o facilitare la formazione di tali senti¬  menti. Cosi si spiega il frequente ripetersi del fenomeno in tutto lo  sue azioni. Io credo clic, con quanto fu esposto, siano trovati i punti  principali «he debbono guidarci nella spiegazione psicologica del Sacgóviov  di Socrate. Tornerò sull’argomento in un lavoro più esteso, ed in questo  sarà tenuto conto delle opinioni di altri autori più di quanto mi è  stato possibile di fare in questa breve comunicazione.    (1) G. Zuccante, op. cit., p. 378. JL ~jt    e 3    Federico Kiesow.    — 11 —                     ni            a   •n      ..t          i i ;. i •   ... »w> -ff.   '• * fl   ,<iì, i i          jT   JWi * 1 •- j- <|     *   . .ff' • . Mi l> . •         ‘                 " !   ' ' >   • 1 *' • v ‘ r • •» •• »   < OktJ     '( i tr'l ’ ! v>   fu . . ih /. J ’t. 1 1 ,    > t . ... ! i  T        Digitized by the Internet Archive  in 2016    https://archive.org/details/b24876057                  5    SOCRATE   ET    VoAmour Grec     ♦    SOCRATE   ET   IPAmour Grec   ( Socrates sanctus naiSepaatrjs )   D1SSERT ATlON DE   Jean-Matthias GESNER   Traduite en Francais pour la premiere fois  Texte Latin en regard   Par Alcide BONNEAU     PARIS   Isidore LISEUX , Editeur  Rue Bonaparte, n° 2  I 877    ^ Qt-FA-TE: f   <rv / /hio nT .•    T'pn iA /^ / ( / a_)      AVANT-PROPOS    jegg^arean-Matthias Gesner, 1’auteurde  «JgE cette curieuse dissertation, est  I S&fe l un erudit Allemand du xvm e sie-  cle, dont les travaux ne sont pas tres-  connus en France. On lui doit d’excel-  lentes etudes sur les Scriptores rei rus-  ticce , une Chrestomathie de Ciceron,  une Chrestomathie Grecque , des Lexi-  ques, une traduction Latine des ceu-  vres de Lucien, des editions de Pline  le jeune, de Claudien, de Quintilien,  de Rutilius Lupus et autres anciens    a    VI    AVANT-PROPOS    rheteurs, toutcs enrichies de notes sa-  vantes et de longs prolegomenes; plus,  un nombre formidable de dissertations  sur toutes sortes de sujets, Opuscula di-  versi argumenti (Breslau, 1743-45, 8 vol,  in-8°), parmi lesquelles son Socrates  sanctus pce der asta tire forcement l’oeil  par la bizarrerie de son titre.   Cette bizarrerie a valu au livre sa no-  toriete, et en meme temps lui a fait grand  tort. Beaucoup de gens, entre autres  Voltaire, malheureusement pour 1 ’erudit  Tudesque, n’ont pas ete au dela, et iis  ont construit sur cette minee donnee un  ouvrage tout entier de leur fantaisie, a  1 ’extreme desavantage du pauvre Gesner.  D’autres ont cru Voltaire sur parole et  sont arrives au meme resultat.   C’est Larcher, THelleniste, qui le pre-  mier chez nous mit en lumiere cet opus-  cule, dans son Supplemenl & THistoire  universelle de labbe Bapn (1767, in-8°),  en le citant parmi les ouvragcs a con-    AVANT-PROPOS    VII    sulter sur le proces de Socrate ; il se  contenta d’en faire mention, sans meme  traduire ni expliquer le titre, ne s’ima-  ginant pas qu’on put s’y meprendre, et  qu’un homme tel que Gesner fut suppose  capable d’une indecente apologie. Vol-  taire, dont le vif et alerte esprit se plai-  sait a effleurer les surfaces, sans presque  jamais approfondir, ne connaissait sans  doute pas Gesner et certainement n’avait  pas lu son Socrates. Le Supplement a  VHistoire nniverselle n’etait d 7 ailleurs  qu une refutation tres-savante, quoique  un peu lourde, de son Introduction a  1'Essai sur les maeurs , publiee d^abord a  part et sous le pseudonyme de 1’abbe  Bazin; quelques critiques justes qu’on y  rencontre le mirent de mauvaise humeur ,  et, battu sur divers points d’erudition, il  chercha une occasion de dauber Larcher,  a cote du sujet, selon son habitude. Il  crut la trouver dans le livre etrange qu’il  supposa, d’aprcs le titre cite qu’il inter-    VIII    AVANT-PROPOS    pretait mal, s’indigna de ce qu’on osait  donner comme faisantautoritedesimons-  trueuses elucubrations (le monstrueux  n’etait que dans ce qu’il imaginait), et  tantot sous le pseudonyme d’Orbilius,  tantot sous celui de M Ilc Bazin ( Defense  de mon oncle, un de ses pamphlets), il ne  cessa de poursuivre la-dessus de ses bro-  cards son inoflensif adversaire. Tres-  content d’avoir leve ce lievre, il a meme  reproduit son assertion plus que hasardee  dans le plus populaire de ses ouvrages ;  on la trouve en note de 1’article Amour  socratique , du Dictionnaire philosophi-  que. « Un ecrivain moderne, nomme  Larcher, repetiteur de college, dans un  libelle rempli d’erreurs en tout genre et  de la critique la plus grossiere, ose citer  je ne sais quel bouquin dans lequel on  appelle Socrate Sanctus pcderastes ; So-  crate saint b ! Il n’a pas ete suivi   dans ces horrcurs par 1’abbe Foucher. »  Larcher avait trop beau jeu pour ne    AVANT-PROPOS    IX    pas repliquer. II le fit dans sa Repons e .  la Defense de mon oncle (1767, in-8°),  opuscule rare, reimprime a la suite du  Supplement a 1’Histoire universelle :  « Vous m’attribuez , dit-il a Voltaire,  votre infame et infidele traduction du  titre d’une dissertation de feu M. Gesnera  Je n’ai point traduit le titre de cette dis-  sertation ; il ne pouvait se prendre que  dans un sens tres-honnete, mais il etait  reserve a M lle Bazin et a Orbilius de lui  en donner un infame. Cela ne vous suf-  fisait-il pas? Fallait-il encore me 1 ’im-  puter? »   Pour qui avait suivi toutes les phases  de la discussion, Larcher et Gesner etaient  innocentes; Voltaire restait convaincu  d’avoir note dfinfamie un livre sans le  connaitre. Mais ces temps sont loin ; per-  sonne aujourd’hui ne lit Larcher pour  son plaisir, et le Dictionnaire philoso-  phique est dans toutes les mains. Voila  pourquoi on croit generalement que Ges~    X    AVANT-PROPOS    ner a developpe le plus scabreux des pa-  radoxes et fait une apologie en regie d’un  vice honteux. Nous pourrions citer au  moins un de ceux qui, se fiant a Voltaire,  ont propage 1’erreur mise par lui en cir-  culation, et affirme que cette dissertation  n’est qu’un tissu d’invectives ; mais nous  ne voulons faire de la peine a personne.   Gesner, ecrivain des plus doctes et plus  estime encore pour son caractere que  pour son savoir, professeur de Belles-  Lettres a TUniversite de Goettingue, puis  bibliothecaire de cette universite, ne pou-  vait ecrire qu’une defense de Socrate,  une refutation des calomnies dont on a  obscurci sa memoire, et que la langue a  attachees a son nora d’une maniere en  quelque sorte indelebile par les mots de  socratisme et d 'amour socratique. Inquiet  et tourmente, comme il 1’assure, de voir  peser sur le pere de la Philosophie de si  indignes soup9ons, il a voulu remonter  aux sources, compulser tout le dossier    AVANT-PROPOS    XI    et reviser le proces sur les pieces memes.  II l'a fait d’une facon non moins inge-  nieuse que savante dans cette disserta-  tion lue a 1 ’Academie de Goettingue en  fevrier 1752, recueillie dans les Memoires  de cette academie (t. II, p. 1), dans les  Opuscula diversi argumenti de 1 ’auteur  et tiree a part en 1769 (Utrecht, in-8°).  C’est cette derniere edition que nous  avons suivie pour la reimprimer et la tra-  duire, ce qui n’avait jamais ete fait en  Francais, ni probablement dans aucune  autre langue. Gesner a-t-il reussi a dis-  culper entierement Socrate? Nous l’es-  perons; mais nous etions de son avis  avant d 7 avoir lu son livre, et, ccmme per-  sonne ne 1’ignore, c’est surtout chez ceux  qui pensent comme lui qu’un auteur, si  bon dialecticien qu’il soit, porte la con-  viction. Les esprits mal faits qui incli-  nent a 1’opinion contraire, et ceux-la  seront toujours difficiles a persuader,  persisteront peut-etre a trouver singulier    XII    AVANT-PROPOS    que Platon, interprete de Socrate, ait si  souvent parle de 1’amour; qu’il ait con-  sacre trois de ses plus beaux dialogues,  le Lysis , le Phedre et le Banquet , a cette  brulante passion; qu’il l’ait tant de fois  soumise aux analyses les plus delicates,  expliquee par les conceptions les plus  sublimes, les mythes les plus poetiques,  et que jamais, sauf un moment, dans  l’admirable episode de Diotime du Ban-  quet , il ne soit question de la femme.   Alcide Bonneau.      UEDITEUR AU LECTEUR   [TIRE DE l’eDITION D’UTRECHT, 1 768]    es hommes illustres, ceux qui sont  regardes comme tels non-seulement  par la posterite, mais par leurs  contemporains, ceux surtout dont le  plus grand eclat consiste precisement dans  leur vertu, sont souvent accuses, sur les plus  legers indices, de quelques travers, sinon  de defauts plus graves; et c’est la un travers     EDITOR L. S.    iros illustres, et non a posteris solis sed  coaevis tales habitos , eos maxime quorum  praecipua laus virtutis est , vitii alicujus  nedum criminis gravioris suspicari levibus ar-  gumentis, vitium id quidem non leve : reos agere  et condemnare crimen et piaculum ; in Christiano  homine, in homine , in barbaro.   Quanta istorum ignominia, tanta est gloria  piorum virornm qui versantur in probrosis his      XIV    l’editeur   qui Iui-meme ne manque pas de gravite. Se  faire a la fois 1’accusateur et le juge, c’est  une chose criminelle, un sacrilege, qu’il  s’agisse d’un Chretien, ou seulement d’un  homme, meme d’un paien.   L’ignominie de ceux-la rehausse d’autant  la gloire des hommes pieux qui s’appli-  quent a repousser ces odieuses attaques.  On peut le dire de Gesner, ce savant illus-  tre, du petit nombre de ceux qui depas-  sant par la science tous leurs contempo-  rains, font encore plus estimer en eux les  qualites du coeur que celles de 1’esprit ;  c’est un honneur pour lui d’avoir pris en  main la cause de Socrate, et un plus grand  peut-etre pour Socrate d’avoir dte le Client  de Gesner.   II nous a paru bon de recueillir dans  une edition nouvelle cet ouvrage de faible    conatibus coercendis. Gesnero, illustri nomini , e  numero paucorum illorum qui cum eruditione  coaevos possint excellere, animi dotibus quam  ingenii celebrari malunt, incertum an honori sit  caussam Socratis egisse, magis quam Socrati  Gesnerum habuisse patronum.   Visum fuit , memoriam brevis operae sed auro  contra noti carae nova editione colere. Docuit  vir praeclarus , scripto quidem, quam inani co-  natu virtus summi hominis sollicitata fuerit ab  obscuris obtrectatoribus , qui non solent deesse  virtuti. Docuit autem exemplo, pertinere ad    AU LECTEUR    XV    dimension, mais qui ne serait pas trop  cher paye au poids de For. Son excellent  auteur nous y montre, la plume a la main,  1’inanite des efforts diriges contre un sage  par ces obscurs detracteurs qui ne man-  quent jamais a lavertu; il nous fait voir  aussi, par son exemple, qu’il appartient a  tout honnete homme de defendre la cause  des gens de bien. II nous enseigne surtout  avec quel soin et avec quelle erudition il  est besoin d’ecrire dans de telles matieres,  ou l’on ne doit rien avancer qu’apres un  examen scrupuleux.   Profite donc, lecteur, de ce travail, plus  utile qu’il ne le semblerait au premier  abord; et si, par ignorance ou par trop  forte credulite, tu as rejetd loin de toi les  ecrits Socratiques, reprends-les maintenant  et garde-les avec amour. Il nous sera per-    bonos omnes bonorum virorum caussam : tum et  illud, in primis, ubi ejus modi res agitur, accu-  rate et docte scribendum esse, nec arripi quid-  piam absque subtili examine, et benevolo illo ,  debere.   Fruere, Lector , labore utiliori quam decet : et  si imprudentius forte abjeceris Socraticas char-  tas nimium credulus, abi continuo et in sinu  eas reconde. Integrum erit culpare qui Socratem  citant, tibi convenisset laudari Davidem et Sa-  lomonem : sed patiamur , bonum et pauperem  Socratem . , placide subridentem , sereno vultu ,    xvi l’editeur au lecteur   mis a notre tour de mettre en accusation  ceux qui font un crime a Socrate de ce  qu'ils trouveraient admirable s’il s’agissait  de David et de Salomon ; mais laissons le  bon et pauvre Philosophe s’interposer dou-  cement avec son placide sourire, son tran-  quille visage, et s’ecrier : Moi aussi, Vertu,  je t’ai honoree, Deesse !   Quant a ceux qui blameront cette apolo-  gie, non comme excessive, grands dieux,  car que pourrait-on dire de trop sur So-  crate ? mais comme inconvenante et depla-  cee, qirils prennent garde de tomber dans  Todieux de cette populace Portugaise tou-  jours prete, sinon a lapider ou a bruler,  du moins a exorciser a force de signes de  croix traces d’un doigt tremblant, le teme-  raire qui oserait croire que la Bienheu-  reuse Vierge Marie etait une Juive.    leniter interponere, Et ego te, Virtus ! colui  Deam,   Quibus fastidium movent elogia, justa Di boni!  quid enim de Socrate dici nimium potest? sed  quce magis opportune forsatn collocari potuis-  sent, videant ne in odium id evadat, quale est  plebis Lusitanae, si non rogum parantis aut la-  pides, saltim tremente digito averruncas cruces  describentis, si quis auserit credere, B. Virginem  Judaeam fuisse.      SOCRATE   ET    UaAmour Grec     IO. MATTHI. GESNERI V. C.   Socrates   SANCTUS T/E D E T{A STA    t nihil tam alte vel natura , vel  virtus , vel fortuna constituit, in  quo non vel deprehendatur ali-  quid labis et vitii , vel vires suas experia-  tur maledica invidia , cujus vocibus boni  etiam viri abripi se ad suspicandum certe  non nunquam patiuntur : ita mirum non  est , neque excelsam Socratis gloriam      Socrate   ET   L’qAMOU% g%ec    1 n’est rien de place si haut par la  nature, la vertu ou la fortune,  qui n’ait ses taches ou ses inv  perfections, ou que 1’envie ne s’efforce  d’atteindre, cette medisante envie dont  les clameurs poussent 1’homme de bien  lui-meme a soupconner le mal : c’est  pourquoi nous nc devons point nous     4 SOCRATE   obtrectatoribus suis carnis se. Ac de  Anyti Melitique criminibus, quibus op-  pressus est vir innocens , et, si forte vani-  tatis aut nugarum et cavillationum pos-  tulatus, et Scurrae nomine traductus est (i),  in prcesenti non erimus soliciti. Unum  crimen est, quod, varie jactatum, et plus  semel non sine specie in scenam reduc-  tum scepe me solicitum habuit, Fuerit ne  impuro ac detestabili puerorum amori  deditus? Hoc enim si verum sit, actum  est profecto de virtute viri, indignus est  cujus cum honore nomen usurpetur.    2. Postulatum esse hujus turpitudinis,  negari non potest. Mittimus , quae de  adolescentia viri ad libidinem proclivi    (i) Factum id esse a Zenone Epicureo, prodidit  Cic. de Nat. Deor. i, C. 34, ubi vid. Davis.    ET L’AMOUR GREC    5    etonner que lagloire si haute de Socrate  ait eu, elle aussi, ses detracteurs. Tou-  tefois nous ne voulons ni parier ici des  accusations d’Anytus et de Melitus sous  lesquelles succomba son innocence, ni  nous inquieter de savoir si ce grand  homine a ete incrimine de vanite, de  mensonge et de sophisme, affuble du  surnom de Bouffon[i). Une seule accu-  sation m’a souvent tourmente ; c’est  celle qui, sans cesse discutee, a toujours  ete remise en avant, non sans apparence  de justesse: Socrate etait-il adonne d  l’impur et detestable amour des jeanes  gargons ? Si cela est vrai, c’en est fait des-  ormais de la vertu de cet homme ; c’est  un indigne, lui dont on ne prononce le  nom qu’avec respect.   2. Qu’il ait ete accuse de cette turpi-  tude, le fait est certain. Negligeons ce  que Porphyre, d’apres Theodoret [De la    (i) Comme le fait PEpicurien Zenon, au dire de Ci-  c6ron {De Natura Deorum , i) ; consuit, la-dessus  J. Davies.    i .    6    SOCRATE    Porphyrius apud Theodoretum [Graecar,  affect. cur. ser. 4 pr.) memorat : nam  ibidem additur , illum c-ojo^ xat oioayrj  xouxou? a^aviaat xou; xurcous, impressas ve-  luti notas libidinum studio ac doctrina  abolevisse (1). Neque valde huc faciunt ,  quce ex eodem Porphyrio , qui Aristo-  xeno auctore usus sit, idem Theodore-  tus (Serm. 12 p. iy5, 8) memorat, par-  tim quod ad adolescendam primam viri,  de qua nobis sermo non est, pertinent ,  partim quod Archelaus Anaxagorae dis-  cipulus, honestus amator (spaax 7 ]$) ipsius  fuit. Ejusdem generis est, quod Cyrillus  (contra Julia. 6, p. 186, D) ex eodem  Porphyrio (in Historia Philosopha , libro  olim deperdito) refert , Socratem -po; xr ( v  twv aopootatwv yp7jatv acpo Spdxspov p.sv sivac,  aoizov os p.rj -poasTvat. t\ yap xaT;Ya[j.sxaT;, vj xat?  •/.oivat; y prjaQat fj-ovat?. Fuisse ad res venereas  aliquantum vehementem, sed injuriam  abfuisse, qui vel uxoribus solis, vel    (1) Conf. quae in fra de mali equi Socratici notis  dicentur. § 18.    et l’amour grec 7   cure des prejuges des Grecs , Disc. iv),  raconte de sa jeunesse, laquelle aurait  ete encline au libertinage ; 1’auteur  ajoute, en effet, au meme endroit qu’il  parvint a effacer en lui, par Venergie de  sa volonte \ jusqu’aux traces meme des  passions (i). Ne nous occupons pas non  plus de ce que le meme Theodoret  (Discours xn) emprunte encore a Por-  phyre, qui lui-meme suivait Aristoxene,  c’est-a-dire de ce qui se rapporte a la  premiere jeunesse de Socrate (elle n’est  pas en cause), et a ce disciple d’Anaxa-  goras, Archelaus, qui aurait ete, en tout  bien tout honneur, un ami fervent  (!pa<j-r]s) du philosophe. A la meme cate-  gorie appartient ce que S. Cyrille  [Contre Jidien, 6) a extrait de YHistoire  philosophi que de Porphyre, livre aujour-  d’hui perdu : a savoir que Socrate et ait  violemment pousse aux choscs de ia-  mour, mais qiiil s’abstint de faire tort a   (i) Voyez ce que l’on dit plus bas des marques  du « mauvais cheval Socratique. »    8    SOCRATE    (quam diu caelebs esset) communibus  uteretur. Nondum quidquam ex Por-  phyrio vel Aristoxeno, quem ille aucto-  rem sequitur, allatum est de horribili  scelere, Pcederastia : quod praetermissu-  rus non erat, qui satis hic in Philosophice  parentem iniquus est, Cyrillus. Decla-  mat igitur praeter rem Socrates alter  (Hist. Eccles. 3, 23, p. i gj, D), cum ita de  Porphyrio narrat, IIopcpupio; xou xopu^aio-  xaxoa xoiv <piXoao<ptov, Scoxpaxous, xov [3''ov oietu-  psv £v ifi YsypaixpiEvr] auxai <piA oaoow toxopta, xai  xoiauxa Tuept auxou ypa^a;xaxdXi7TEv, oia av p.7]xs  MeTaxo;, p.r[x£ v Avuxo; oi jpa^aixsvoi Swxpaxrjv  ItTictv e-zyjiprjGxv, ita traductum, ait, a  Porphyrio Socratem, talia de viro scripta,  quae neque accusatores ipsius Anytus et  Melitus dicere in ipsum ausi sint. Acci-  pimus, quod negat objectam in judicio  turpitudinem talem Socrati, quo nempe  argumento constet, famam viri hac tum  macula caruisse. Sed nec a Porphyrio  plura aut turpiora his memorata, quae  jam vidimus, satis illud argumento est ,  quod iniqui Socratis glorice homines,    9    ET L’AMOUR GREC   personne, en riusant jamais que de ses  propres femmes ou , durant son celibat,  des femmes qui apparticnnent a tout le  monde. Nulle part, soit chez Porphyre,  soit chez Aristoxene que Porphyre co-  piait, il n'est rien allegue de cet horrible  crime : Pederastie ! II ne Paurait point  passe sous silence, ce Cyrille si injuste  envers lepore de la Philosophie. IPautre  Socrate ( Histoire ecclesiastique, m, 23 )  avance donc une insigne faussete lors-  qu’il dit : « Porphyre a compose la vie  de Socrate, le coryphee des philosophes,  d’apres les histoires ecrites sur lui ; et il  nous a transmis, d Vaide de ces docu-  ments, des choses si monstrueuses que les  accusateurs de Socrate, Anytus et Meli -  tus, n’ont pas meme ose' les lui reprocher. »  Retenons seulement de ceci Taveu qu’on  n’en fit pas un grief a Socrate, lors du  jugement public, ce qui ressort de la  phrase elle-meme, et que cette tache fut  alors epargneeT a sa renommee. Mais  Porphyre n’a pas rapporte autre chose  ou des choses plus monstrueuses que ce    IO    SOCRATE    Cyrillus ac Theodoretus, non plura pro-  tulere, quibus fuerant haud dubie cau-  sam suam , si res facultatem dedisset,  ornaturi.    3. Nempe nec Aristophanes , qui cor-  ruptce ad impietatem et calumniandi ar-  tem juventutis accusat in Nubibus Socra-  tem . hujus criminis ullam mentionem  facit , non omissurus profecto , si illud  adhaerescere posse putasset. Nec forte  quisquam est ex omni antiquitate remo-  tiore illa, et temporibus Philosophi pro-  pinqua . , serius et severus accusator hujus  criminis. Lusit inter posteriores, pro  petulanti illo ingenio suo, Lucianus (de  CEco, ita enim potius dicendus erat ille  libellus quam de Domo, c. 4 , T. 3, p.  ig 2 , 83) cum accusat Socratem, qui non  erubuerit advocare Musas, virgines,  cuvsaojjiva; ia -aiBepaama, ut audirent  illos de puerorum amore sermones. At-  qui illi sermones, uti mox videbimus.    ET l/AMOUR GREC 1 I   que nous venons de dire ; nous en trou-  vons la preuve en ce que S. Cyrille et  Theodoret, deux detracteurs de Socrate,  n’en ont souffle mot, et qu’ils n’auraient  pas manque d’en orner leurs diatribes si  la chose eut ete possible.   3 . En second lieu, Aristophane qui, dans  ses Nuees , represente Socrate comme  un corrupteur de la jeunesse, comme  faisant de 1’imposture un enseignement,  n’a pas davantage mentionne cette accu-  sation; l’aurait-il omise, si elle eut pu  s’appliquer a Thomme qu’il bafouait? II  n’y a enfin personne, si l’on prend des  temoins dans cette antiquite reculee ou  dans les temps voisins du Philosophe,  qui se presente comme un accusateur  serieux et digne de foi. Plus tard seule-  ment Lucien, entraine par sa verve  moqueuse (dans 1’opuscule que l’on tra-  duit ordinairement De Domo et qu’il  vaudrait mieux traduire De CEco ,  chap. iv), reprocha a Socrate de n’avoir  pas rougi d ; invoquer les Muses, des    12    SOCRATE    reprehendant vehementer amorem : re-  spicit enim ad Phcedrum Platonis (p. 340 ,  G) de quo dedita opera dicendum erit.  Qua ? in Amoribus (c. 24. To. 2. p. 424 ,  go) in Socraticum amorem Platonicum-  que vel a Luciano, vel quicunque auctor  est, jocose et per calumniam dicuntur,  ea ad ipsum illum locum diluisse me  arbitror .    4. Sed veterum criminationes Maxi-  mus Tyrius ( Dissertat . 2S. 26. et 27  al. g. 10. 11) refutavit, ut non videatur  opus esse aliquid addi : cum praesertim  tanto magis et agnoscant innocentiam  Socratis, et illud crimen ab illo depel-  lant ut hujus, ita paullo superioris aitatis  homines, quo magis virum ex aequalium  ac paullo juniorum de illo scriptis ut  cognoscere possent, cuique contigit. Quin  ne consultum quidem judicarem veterem  litem resuscitare , nisi viderem, nuper    et l’amour grec i3   vierges, pour leur faire dcouter ces fa-  mcnx discours sur Vamour des jeunes  gargons. Mais ces discours, comme nous  allons le voir, blament fortement cette  sorte d’amour; Lucien fait, en effet,  allusion au Phedre de Platon dont nous  aurons a nous occuper. Ce que Fon dit  debamourSocratiqueet Platonique dans  les Amonrs , que ces dialogues soient de  Lucien ou de tout autre, n’est qu’une  plaisanterie ou une mechancete, comme  je\ l’ai demontre en temps et lieu (i).   4. Maxime de Tyr ( Dissertations 25 ,  26 et 27) a d’ailleurs refute toutes les ac-  cusations portees a ce sujet par les an-  ciens, etilserait inutile d’y rien ajouter.  Le meilleur argument, c’est que ceux qui  ont le mieux reconnu Tinnocence de  Socrate et repousse loin de lui avec le  plus de force 1’accusation infame, sont  les hommes de la generation qui a imme-   (1) Dans ses notes sur Lucien, dont il a fait une  edition et une traduction Latine tres-estimees. (Note  du Traducteur.)    H    SOCRATE    fuisse, et esse hodie homines eruditos, et  bonos viros, qui pravam de patre illo  Philosophia ? opinionem conceperint, quo-  rum non pono nomina, quia mihi non  cum ullo homine certamen esse volo,  sed cum opinione ea, quam praeterquam  quod falsam puto, etiam virtuti noxiam ,  praeter consilium quidem bonorum viro-  rum, humanitati certe adversam esse,  arbitror.    5. Qui autem fieri potuit, ut homines  neque indocti neque maligni in sinistram  falsamque de Socrate opinionem incide-  rint? ut apologia vir sanctus opus habeat?  Praeter naturalem illam -/.axor{0£tav nos-  tram, quae imis velut medullis fixa , et  superbiae illius nostrae nixa radicibus.    et l’amour grec i5   diatement suivi la sienne. Or, ce sont  les contemporains et leurs successeurs  immediats qui peuvent le mieux juger un  homme, en pleine connaissance de tout  ce qu’on aecrit sur lui. Je n’aurais donc  pas songe a ressusciter cette vieille que-  relle si je n’avais vu naguere, et tout  recemment encore, des hommes instruits,  vertueux, concevoir la plus mauvaise  opinion de ce pere de la Philosophie ; je  ne dirai pas leurs noms, ne voulant me  prendre corps a corps avec personne,  mais seulement avec une opinion que  je considere comme sans fondement,  nuisible a la vertu, et, contrairemcnt a  1’avis de ces gens de bien, defavorable a  1’humanite tout entiere.   5. Comment donc a-t-il pu se faire  que des personnages qui ne p£chent ni  par ignorance ni par mechancete, aient  concu de Socrate une opinion si facheuse  et si fausse? Pourquoi cet homme veri-  tablement saint a-t-il besoin d’etre de-  fendu? En dehors de cette maligni te    i6    SOCRATE    inter ultima vitia eradicatur, ceterasque  ex genere morum rationes, conveniunt  hic alia qucedam , quce facilem errandi  occasionem praebent. Magna pars docto-  rum etiam hominum legendi laborem  fugit, legendi uno tenore, continuata  attentione , totos veterum scriptorum  libros; sed satis habet decerpere quce-  dam, in quce primum incurrere oculi,  aut, quod deterius frequentius que idem,  repetere ab aliis excerpta, et e media  nonnunquam sermonum velut compage  evulsa, de quorum sic sententia non facile  sit judicare. Platonis libri , unde pleraque  Socratica peti hodie necesse est, multos  arcent ob Atticum illud sermonis genus,  breve et acutum, floridum praeterea, ac  semipoeticum, ipsamque disserendi ratio-  nem subtiliorem scepe, quam ut mediocri  attentione, non acutissimi homines illam  statim adsequantur. Nec licet , ut adhuc  res est, ad interpretes confugere ; qui  quoties vel nihil dicant, vel alia omnia  dicant, vix sine invidia licet commemo-  rare. Et tamen nisi attente legas, et to-    ET L.’AMOUR GREC    '7   naturelle qui reste fixee jusqu’au fond de  nos moelles, qui se fortifie de notre or-  gueil et qui ne s’arrache qidavec les der-  niers defauts, outre encore diverses rai-  sons tirees de nos mceurs, il a fallu pour  cela un concours de circonstances pro-  pres a faciliter 1’erreur. La plupart des  gens instruits eux-memes evitent la fa-  tigue de lire dans leur entier, avec une  attention soutenue, tous les livres ecrits  par les Anciens ; on a plus tot fait de  choisir quelques passages, les premiers  qui tombent sous les yeux, ou, ce qui est  bien pire, de s'en tenir aux passages  choisis par d’autres, a des fragments de-  taches de 1’ensemble et dont il est par  consequent difficile d’apprecier le sens  veritable. C’est ce qui arrive des livres  de Platon, d’ou il nous faut aujourd’hui  tirer toutc la doctrine Socratique ; iis  embarrassent bon nornbre de lecteurs  par leur style trop Attique, raffine et  aiguise, fleuri pourtant et semi-poetique,  par ces controverses si subtiles souvent  que, si 1’attention se relache, 1’esprit le    i8    SOCRATE    tos legas dialogos, et qua scripti sunt  lingua legas, non est ut de sententia  illorum, h. e. quam tribuat Plato sen-  tentiam Socrati, recte judices. Quare  mirum non est, si multi refugiant lectio-  nem ita laboriosam ; et illis veluti spinis  a familiari tractatione eorum librorum  deterreantur .    6. Denique si quid etiam tribuatur a  Platone Socrati, tamen, si illud Xeno-  phontis narrationi repugnet, non dubi-  taverim equidem, fidem potius adhibere  Grylli filio, memor illius, quod narrat  Laertius 3, 35, Socratem , cum Lysin  Platonis legisset, dixisse , to; tzoXKx uoj    ET l/AMOUR GREC 19   plus eclaire n’cn suit pas aisemcnt le fil.  Et il serait inutile, dans le cas present,  de recourir aux annotateurs ; ou iis  ne disent rien, ou iis disent tout  autre chose que ce qu’il faudrait ; on ne  peut s’empecher de leur en faire un re-  proche. Cependant, amoins de lire avec  un soin scrupuleux tous les dialogues de  Platon et de les iire dans la langue meme  ou iis ont ete ecrits, il n’est pas possible  de juger saineinent de leur doctrine,  c’est-a-dire de la doctrine que Platon  attribue a Socrate. Il n’est donc pas sur-  prenant que nombre de gens reculent  devant une si laborieuse lecture et  soient rebutes, comme par des epines,  du commerce familier de ces livres.   6. Enfin il faut dire que si Platon at-  tribue a Socrate une maniere de voir  contredite par la narration de Xenophon,  il n’y a pas a hesiter : c’est a Xenophon  qu’il faut se fier, si l’on se souvient du  mot rapporte par Diogene de Laerte  (ui, 35). Socrate, apres avoir lu le Lysis    20    SOCRATE    xaxe^uBeO’ 6 veavfoxo; ; Quam multa de me  mentitur adolescens! Tanto magis hoc  memorabile est , quod ille Dialogus ita  scriptus est, ut non modo tanquam per-  sona colloquens inducatur Socrates, sed  tanquam, qui ipsum illum dialogum  scripserit. Ceterum quia hic sumus, hoc  breviter indicamus, amatorium quidem  esse hunc libellum , sed nihil habere pu-  dendum ne Platoni quidem. Argumen-  tum hoc est : Queritur Lysidis amator  Hippothales, ab illo se non amari ; So-  crates ostendit, si velit amari, non adu-  landum esse puero, sic enim futurum  superbiorem ; sed illi potius ostenden-  dum, quibus rebus indigeat, et quam  parum in ipso sit boni (i). Deinde dela-  bitur in disputationem, Quis proprie  amicus sit vocandus? et, In quo insit  natura amicitia’ ? plenam illam quidem  cavillationum , sed praeclararum etiam  de amicitia sententiarum. Ceterum tri-   (i) Sic nempe ipse solebat Socrates in potestatem  quasi suam redigere adolescentulos, de quo que-  rentem audiemus Alcibiadem. § 3~.    ET L’AMOUR GREC    2 I    de Platon, se serait ecrie : « Comme ce  jenne homme invente souvent ce qu’il me  fait dire! » Le mot est d’autant plus  remarquable que, dans ce dialogue, So-  crate estpresente non comme un simple  interlocuteur, mais comme s’il avait  ecrit lui-meme tout le morceau. Pen-  dant quenous y sommes, disons brieve-  ment que cetouvrage roule sur 1’amour,  mais qu’il n’y a rien dont put rougir  Platon lui-meme. Voici le sujet : Hip-  pothales, qui aime Lysis, se plaint de ne  pas en etre aime; Socrate lui demontre  que s’il veut 1’etre, il ne faut pas qu’il  fiatte ce jeune homme, ce qui le rendrait  plus orgueilleux encore ; il vaut mieux  qu’il lui represente tout ce qui lui man-  que et le peu de bonnes qualites quhl  possede (i). On discute ensuite ces ques-  tions : Qui est digne d’etre appele un ve-  ritable ami? et, Quelle est la nature de  Tamitie? Controverse pleine, il est vrai,   (i) C’est ainsi que Socrate avait en effet coutumc  d’assujettir les jeunes gens & son autorite, et nous  voyons Alcibiade s’en plaindre. § 37.    22    SOCRATE    bui a Platone colloquentibus, de quibus  ipsi non cogitarint, vetus observatio est ,  de qua vid. Athenaeus Deipnos. i, i / ad  fin. p. 5 o 5 . Qiio dialogorum more se  excusat, etiam Varroni in Academico-  rum dedicatione Tullius. Neque ausim  Platonis ipsius, junioris praesertim, pa-  trocinium suscipere de mollioribus versi-  culis, quos Apulejus servavit (Apol.  p. 279 sq.) et Laertius Diogenes ( 3 , 2g) :  de quibus modo in neutram partem dis-  puto, causamque Platonis a Socratis  causa hac in re sejungo.    7. Quaecunque vero cum aliqua specie  testimonia Platonis contra Socratem pro-  feruntur, ea cum ex Phaedro, nescio  quam bona semper fide, corrupte quidem  et perverse non nunquam, depromi vi-  deam, propter ea pretium opera* putavi,    ET L’AMOUR GREC    23    de futilites, mais aussi de remarquables  definitions dePamitie. C ; est uneobserva-  tion qui a ete faite depuis longtemps,  que Platon attribue a ses interlocuteurs  des idees qu’ils n’ont jamais eues : on  peut consulter la-dessus Athenee ( Dei -  pnosophistes i, ii). Ciceron, qui avait le  meme defaut, s’en excuse sur le genre  meme du dialogue , dans son envoi des  Academiques a Varron. Je n’ose pas non  plus defendre Platon du reproche d’avoir  commis, surtout dans sa jeunesse, des  vers badins tels que ceux que nous ont  conserves Apulee (dans son Apologie) et  Diogene de Laerte (m, 29); vieux ou  jeune, jen’ai pas affaire a lui et je separe  completement sa cause de celle de So-  crate.   7. Entrelesdiverstemoignages fournis  par lui, ceux que Ton peut alleguer con-  tre Socrate avec quelque apparence de  justesse sont tires du Phedre ; pas tou-  jours bien scrupuleusement et quelque-  fois a 1’aide d’alterations ou de contre-    24    SOCRATE    non semel totum illum dialogum attento  animo perlegere , et uno quidem tenore ,  et lingua sua, ne quid eorum me falleret,  qua • saepe fraudi esse viris doctis, modo  dicebam. Ac spero non ingratum fore  aliis, quorum rationes non ferunt tam  longam solicitamque operam, si hic pos-  sint brevi studio cognoscere velut oecono-  miam illius libri et argumentum, inde-  que de toto consilio vel Platonis vel  Socratis arbitrari. Concedamus enim, ne  abuti videamur illa, quam modo propo-  suimus observatione, Socratis hic veram  sententiam bona fide a Platone proponi.    8 . Ac primo illud meminerimus, So-  cratem hic (p. 340, E) introduci senem,  tantum non decrepitum, quem facile ju-  venis Phaedrus viribus superet. Jam  fingitur Phaedrus audisse Lysiam dispu-  tantem, magis obsequendum gratifican-  dumque esse non amanti, quam amanti :  camque orationem Socrati prcelegere    ET L AM0UR GREC    25    sens. Cest ce qui m’a engage a lire  attentivement ce dialogue, et plutot deux  fois qu’une, dans son entier, et dans le  Grec, afin d’echapper a ces chances d’er-  reur dont j’ai parle plus haut et qui font  trebucher les plus doctes. II sera peut-etre  interessant, je 1’espere, pour ceux dont  1’esprit repugnerai-t a une besogne si  longue et si difficile, de connaitre sans  grande etude le sujet et pour ainsi dire  1’economie de ce livre, et de pouvoir  apprecier toute la theorie de Platon ou  de Socrate. Nous admettrons, pour ne  pas abuser de la reserve faite par nous  plus haut, que la doctrine de Socrate a  ete ici exposee de bonne foi par Platon.   8. Rappelons d’abord que Socrate y  est presente comme un vieillard, non  pas tout a fait tombe en decrepitude,  mais qu’un jeune homme, comme Phe-  dre, peut maitriser aisement. Phedre ra-  conte qu’il a entendu Lysias discourir  sur cette question : Un jeune homme  doit-il avoir plus de facilite et de com-    3    SOCRATE    2b   (a p. 338 , C. ad 33 g, G). Reprehendit  hanc Lysiae orationem , cante quidem et  multa cum ironia Socrates , et meliora se  audisse ait , quae dicere illum amabilis-  sime cogit Phcedrus. Incipit hic a Musa-  rum invocatione (p. 340 , G) quam calum-  niatur, ut modo dicebamus 3 ), Lu-  cianus : cum sit nihil in ea oratione non  virginum auribus dignissimum. Orditur  a definitione Amoris (p. 341, D) quem  vocat cupiditatem , quae incitate feratur  ad voluptatem ■ pulchritudinis, et inde,  quam mala res, quam noxia sit, ostendit  (ad p. 342, F) et claudit hexametro :   A'j-/.ol aova oi^ouV, ojq ~aToa epAouVjtv  1 r’ 1 !   |Sf/aTra’..   Ut cordi agna lupo est, puerum sic ardet amator.    9. Bene ista , et Musis faventibus. Sed  subito, At Amor tamen Deus est, inquit ,  et palinodiam parat , quae incipit (p. 3 43 .    ET LAMOUR GREC    2 7    plaisance pour celui qui ne 1’aime pasque  pour celui qui Faime ardemment ? II lit  ensuite ce discours a Socrate. Celui-ci,  avec beaucoup de finesse et ddronie,  trouve a blamer dans la composition  oratoire de Lysias et pretend qu'il a en-  tendu dire la-dessus autrefois de bien  plus belles choses; Phedre le conjure de  les lui rapporter. Socrate debute alors  par cette invocation aux Muses que Lu-  cien a calomniee, comme nous le disions  plus haut, car il n’y a rien dans tout le  discours qui ne soit parfaitement digne  des oreilles chastes. II commence par la  definition de 1’amour, qu’il appelle un  desir violemment entraine vers le plaisir  que promet la beaute ; il enumere en-  suite les ecarts auxquels il peut pousser  et conclut parcet hexametre :   Comme le loup aivic Vagneau , ainsi Vamoureux   [cherit le jeune garcon.   9. Voila qui est bien, grace aux Muses.  Mais aussitot : L’ Amonr est cependant  un Dieu, s’ecrie-t-il ; et il entrcprend une    28    SOCRATE    F) ab eo, uti dicat, non ideo amorem  damnandum fuisse, quod sit furor ; esse  enim furorem etiam bonum aliquem :  ipsam [jLavTixrjv 5. divinatoriam facultatem  esse a verbo [i-aiveaOai dictam , velut quan-  dam [j.avi/7]v s. furiosam. Talis furoris  plura genera enarrat , in his etiam ponit  amorem, cumque (p. 344, C ) magnae  felicitatis causa tum amantis cum amati  datum his esse divinitus, conatur osten-  dere. Ad eam demonstrationem sumit  primo hanc propositionem. Omnem ani-  mam esse immortalem, quam inde pro-  bat (quam bene vel male , nunc non dis-  putamus) quod principium motus sui in  se habeat.    1 0 . Deinde similem ait animam no-  stram, etiam antequam ea in corpus ve-  niat, bigae alatae cum suo auriga. Alte-  rum hujus biga 3 equum bonum ponit et  tractabilem (ibid. E), malum alterum ac  refractarium. Sic coelestia spatia ingre-  diuntur ista • cum suo auriga bigce, et    ET l’aMOUR GREC 2(J   palinodic en declarant tout d’abord que  1’amour n'est pas condamnable en soi,  qu’il estun delire, et que dans tout delire  il y a quelque chose de bon ; que fxavnxr],  la divination, derive du mot (jiodveaGai,  comme qui dirait [xavtxr), c’est-a-dire  folle. II compte diverses especes de  delires parmi lesquelles il place 1’amour,  et il s’efforce de montrer que c’est un  present divin fait a bhomme pour le plus  grand bonheur de celu*i qui aime et de  celui qui est aime. Sa demonstration  s’appuie sur cette proposition premiere:  Tonte dme est immortelle, dont il tire la  preuve (bien ou mal, ce n’est pas notre  affaire) de ce qu’elle a en soi le principe  de son mouvement.   io. Il compare ensuite notre ame,  avant qu’elle ne vienne habiter un corps,  a un attelage aile, compose de deux  chevaux et d’un cocher. L’un des  chevaux est excellent et docile ; 1’autre,  d’un mauvais naturel et retif. L’attelage  parcourt ainsi les espaces celestes, avec    3 .    3o    SOCRATE    Deorum aliquem secutce (Socratis anima  Jovem , p. 846 , D) ea spatia permeant.  In hoc volatu et illa equorum dissimilium  dissensione, alia; quidem anima; retinent  alas, et ad sublimia feruntur, contem-  plantur que ea etiam, qua; extra supre-  mum coeli orbem sunt (p. 345 , B). Alia;,  qua; partim in altum elata; viderunt plu-  ra, partim ab equo illo refractario impe-  dita; ac retractae, pauciora ; ruptisque  per illam equorum in diversa tendentium  luctam pennis atque amissis, cadunt, et  in corpora humana veniunt.    1 1 . Harum, pro gradu cognitionis  illius et inspectionis rerum coelestium  diverso, novem classes constituit (ibid. F).  Qua plurimum veritatis et rerum coeles-  tium vidit anima, ea inseritur semini, e  quo nascatur aliquis sapientias, pulchri,  doctrinas, et amoris studiosus, st? yovfjV    et l’amour grec 3 I   son cochcr, et s’elance a la suite de l’un  des douze dieux ( 1 ’ame de Socrate sui-  vait Jupiter). Dans cette course a travers  les espaces et malgre la lutte des deux  chevaux, si dissemblables, quelques ames  parviennent a garder leurs ailes, voya-  gent dans les regions etherees et con-  templent meme ce qui est au dela de la  voute du ciel. Les autres, parfois em-  portees jusqu'aux plus hautes regions,  parfois retenues et embarrassees par le  cheval retif, n’arrivent qu’a connaitre  une partie des mysteres ; dans cette lutte  des chevaux qui tirent en sens inverse,  elles brisent et perdent leurs ailes ; ces  ames tombent alors sur terre et sont  emprisonneesdans les corps des hommes.   1 1 . Suivant le degre de connaissance  qu'elles ont atteint dans la contempla-  tion des essences, Socrate divise en neuf  classes ces ames dechues. Celle qui a  per9u le plus de verite et de choses  sublimes, vient animer le germe d’ou  naitra un homme tont entier consacre au    32    SOCRATE    avopo? ycV7]ao[j.c'vO’j ? oiXoao^ou, 7) <pt\oxaXou, tj  fi.ouaixou Ttvos, x at spamxoy. Secundi fastigii  anima animabit regem, legibus, bello,  imperio, potentem : tertiae classis anima  civitatis familiaeque regendae et rei fa-  ciendae peritum : quartae, laboris aman-  tem eundemque in exercendis sanan-  disve versantem corporibus : quinti  ordinis animae vitam habebunt in vati-  cinando, aut in castimoniis initiisque  mysteriorum occupatam : sexti, poetas :  septimi, geometras aut fabros : octavi  sophistas aut cum factione populares :  noni denique animabunt tyrannidis cu-  pidos. Multa hic nec injucunda de hoc  ordine , de his vitee generibus, disputandi  occasio : sed maneamus in argumento  nostro.    12 . Ha’ omnes anima?, cum morte dis-  cesserunt a corporibus, in locum vel pce-    33    ET L’AMOUR GREC   culte de la sagesse, de la beaute , de la  Science et de Vamour ; Vdme du second  degre vivra dans le corps d’un roi juste ,  belliqueux et capable de commandere  celle du troisieme fonnera un homme  habile a administrer sa famille, sa cite  ou la chose publique ; celle du quatrieme  un athldte laborieux ou un medecin, tous  deux occupes soit d exercer le corps  humain , soit d le guerir ; les ames de la  cinquibme classe passeront leur vie , soit  d predire 1’avenir, soit d initier aux  abstinences et aux mysteres ; celles de la  sixieme former ont des poetes ; celles de  la septieme , des laboureurs ou des ou-  vriers,- celles de la huitieme, des sophistes  ou des chefs de factions populaires ;  celles de la neuvidme, enfin, des tyrans.  Ce serait peut-etre 1 ’occasion de dispu-  ter, et non sans agrement, des rangs  assignes a ces ames et de leur genre de  vie : mais restons dans notre sujet.   1 2.Toutes ces ames,quandle trepas les a  separees du corps, parviennent au sejour    SOCRATE    34   narum vel pr cerni orum perveniunt, et  mille exactis annis, accipiunt potesta-  tem eligendi sibi nova corpora , vitas  novas, sive hominum sive bestiarum .  Quce anima ter sibi, exactis millenis illis  annis, primam istam sedulo philoso-  phantis, sive pueros cum philosophia  amantis, vitam delegerit (p. 3g5, G) tou  <ptXocrocprjaavto; aooXc. 05, r] "atospaaxrJcjavTO;  [j.£xa <ptXoao<p''a;, ea, absoluta ista ter mille  annorum periodo , pennas denuo accipit,  quibus ut ante tolli, deum aliquem sequi,  contemplari coelestia , queat : cum reli-  quarum octo classium animae, non nisi  decies mille annorum periodo absoluta,  in primam illam conditionem restituan-  tur. Hoc ipsum quod primam et felicis-  simam classem Paederastarum philoso-  phantium constituit, quod tantum prae-  mium illis, compendium septies mille  annorum, tribuit Mythi hujus s. Allego-  ria ? auctor, sive Socrates fuit, sive Pla-  to ; hoc ipsum igitur jam satis monere  nos poterat, non posse hic sermonem esse  de re ita turpi , quam fuisse illud, cujus    ET LaMOUR GREC    35    des peines et des recompenses, et au bout  de mille annees, recoivent la permission  de choisir de nouveaux corps, soitd’hom-  mes soit de betes, et de vivre de nou-  velles vies. L’ame qui, durant trois revo-  lutions de mille annees, trois fois de  suite a choisi Texistence d’un homme  quicultive sincerement la philosophie, ou  qui aime les jeunes gens d'un amour  philosophique , a 1’expiration de cette  triple periode, recouvre les ailes qidelle  possedait autrefois et peut, comme au-  paravant, suivre l’un des dieux et con-  templer les essences celestes. Les huit  autres classes ne retournent a cette con-  dition premiere qu’apres une revolution  de dix mille annees. Ainsi la premiere  classe et la plus heureuse est celle des  philosophes amis des jeunes gens, et l’in-  venteur de ce mythe ou allegorie, que  ce soit Socrate ou Platon, la favorise  d’une exemption de sept mille annees :  cela seul nous avertit assez qu’il ne peut  etre question ici de ce vice infame dont  on accuse Socrate et que d’ailleurs les    36    SOCRATE    postulatur Socrates, ipsis etiam legibus  Atticis, paullo post ostendemus : sed ma-  gis hoc apparebit, si quis ea, qu ce sequun-  tur, apud Platonem paullo attentius  considerare mecum voluerit.   i 3 . Intelligentia hominum , ex pluribus  rebus sensu perceptis collecta, nihil est  aliud, quam recordatio illorum, quae  anima in illo volatu suo coelesti viderat,  quae sola verum illud ens sunt (t 6 ov-co;  ov, p. 346, A). Haec intelligentia maxima  est in illa prima philo sophantium paede-  rastarum classe : haec ipsa est, ob quam  alas soli recipiunt, quibus volatum illum  coelestem, deorumque comitatum tentant :  prae qua terrena hcec, et sensus externos  ferientia, ita negligunt, ut male sani  aliis et furiosi videantur, icocpa -/.ivouvts?,  quos commotos s. commotce mentis  vocat Horatius (Serm. 2, 3 , 2og et 278),  cum re vera divino quodam spiritu agi-  tentur, svOouaux^oviss, qui illos semper ad  coelestem illam pulchritudinem revocet,  quam in priore volatu viderant.    ET L AMOUR GREC 87   lois Athenicnnes reprimaient, comme je  le demontrerai tout a 1’heure ; cela de-  viendra plus evident encore pour qui  voudra bien examiner attentivement  avec moi ce qui suit dans Platon.   i3. L’intelligence humaine est formce  de la reunion des idees percues a l’aide  des sensations, et les idees ne sont rien  autre chose que les reminiscences de  ce que 1’ame a vu anterieurement dans  son vol celeste, c’est-a-dire des essences  veritables. Or 1’intelligence la plus com-  plete appartient a la premiere classe, a  celle des philosophes amis zeles des  jeunes gens, et c’est pourquoi seuls iis  recouvrent les ailes a 1’aide desquelles  iis pourront essayer de nouveau de par-  courir le ciel et suivre le cortege des  dieux. Detaches des soins terrestres et  de tout ce qui frappe les organes, iis pas-  sent pour des insenses et des hommes en  delire, -apa/ivoSvis?, de ceux qu’Horace  appelle des fren^tiqucs, des esprits trou-  bles, tandis que vraiment ce sont des en-    4    38    SOCRATE    14. Haec pulchritudo , qucc inest in  sensu, <ppov 7 ]<m (p. 846, E), in mentis  qua vult et intelligit prostantia, si ita in  oculos, ut alia quce videri his possunt,  incideret , ad mirabiles sui amores exci-  tatura esset. Jam pulchritudo sola corpo-  rum, hanc (Aotpav habet, hoc velut fatum,  et conditionem , uti subeat oculos, ut amo-  rem moveat. Hinc ponamus ipsa verba ,  ut existimare melius ac certius de tota  re possint etiam, quibus ad manus non est  Plato ipse, vel magnum volumen de pluteo  promere non lubet. c O piv oOv pu] vsoxeXt];,  ■Jj otscpQappivos, oux otjiiog evOevOs Exstas ©s'psxat  7ip6; auxo xo xaXXo;, Ostopisvo; a3xou xrjv xrjoE  smavupiiav. waxs ou as'6sxat 7rpoaopojv, aXX’  7]3ov^ 7:apaoou;, zBzpdtTzodog vo ptco (Batvstv S7Ct-  y stpsT xat 7iat8oa7EOpstv. xal u6pst x:poao|j.tXaiv,  ou os'ootxsv ou 8’ ata/uvsxai IIAPA ‘I^TXIIN ( 1 )    (1) Notabile est, Platoni etiam de Ijcgib. r .    ET LAMOUR GREC 3y   thousiastes, agites comme d’un transport  divin, qui les attire sans cesse vers cette  beaute celeste precedemment entrevue  par eux dans leur vol.   14. Cette beaute, dont Pessence reside  dans un sens particulier, la sagesse,  source de la volonte et de 1’intelligence,  s’il etait donne a l’oeil de 1’apercevoir,  comme toutes les autres choses visi -  bles, elle nous exciterait a d’admirables  amours. Mais c’est seulement la beaute  corporelle, telle est sa necessite fatale et sa  nature, qui frappe les yeux et nous porte  a 1’amour. Ici nous placerons le texte  meme afin que ceux qui n’ont point Pla-  ton sous la main ou qui ne se soucient  pas de tirer du rayon un gros volume,  puissent se faire une opinion en toute    p. 56g, E. hanc turpitudinem appsvwv np 6?  appevag, Ij OrjXsTwv xpog OrjXsix;, to ITAPA  •bTSIN To'X[j.7)p.a appellari. Non igitur Plato-  nem , vel Socratem adeo, feriunt divina illa ful-  mina Pauli Rom. /, 26 . sq., ut neque ea, qua ? in  idolatriam vibrantur.    40    SOCRATE    f,5ov7]v 0 -W.ojv. '0 8e apttteXrj?, 6 twv xdxe  TroXuGcapojv, oxav OsoEtSsg r.poaioTzov' t07), -/.aX-  Xo; eu [j.E[j.vr ( [x£vov rj uva ac;o$fj.axo ios'av —  oj? Geov a£'6sxai. Hcec ita verto, Hic ergo,  qui non est nuper illis mysteriis coeles-  tibus in illo volatu animarum initiatus,  aut, initiatus cum esset, corruptus est,  non celeriter, ut oportebat, hinc, ab hac  corporea, non vera, pulchritudine, illuc  fertur ad ipsam veram, coelestem pul-  chritudinem, cujus hic videt nomen,  umbram , similitudinem : itaque neque  inter adspiciendum eam, divinum quid-  dam colit : sed libidini se tradens, qua-  drupedis ritu inscendere formosum co-  natur, et genitale semen profundere, et  cum contumelia (vid. ad §. 18) congres-  sus formoso corpori , non veretur, nec  erubescit PRXETER NATURAM libidi-  nem persequi. At ille nuper initiatus,  qui multa eorum quae tum videbat ,  contemplatus est, ubi vultum divino  similem conspexit, qui pulchritudinem  illam veram bene imitetur, aut incor-  poream quandam illius speciem, verbo ,    ET L’AMOUR GREC    41   certitudc. « L’homme qui n’a pas un  « souvenir recent de son initiation aux  « mysteres, ou qui, recemment initie,  « s’est laisse depraver, ne s’eleve pas fa-  « cilement, comme il faudrait, de cette  « beaute corporelle, qui n’est pas la  « vraie, a cette beaute celeste, absolue,  « dont il ne rencontre ici-bas que le nom,  « 1’ombre, la ressemblance ; en 1’aper-  « cevant il n’y respecte rien de divin.  « Entraine par la volupte, il se precipite,  « comme une brute, sur 1’objet de ses  « desirs, ne cherche qu’a genitale semen  « profundere et, outrageant ce beau  « corps qu ? il etreint, il n’a pas honte, il  « ne rougit pas de poursuivre un plaisir  « contre nature ( 1 ). Au contraire, l’hom-  « me, encore plein des saints mysteres  « qu’il a longtemps contemples autrefois,    (1) 11 est remarquable que Platon, meme dans ses  Lois, appelle crime contre nature le commerce hon-  teux marium cum maribus, et feminarum cum fe-  minis. Les foudres de Saint Paul ( Ep . aux Rom. 1.  26) n’atteignent donc ni Platon ni Socrate, pas plus  que celles qu’il lance contre 1’idolatrie.    42    SOCRATE    virtutem speciosam : — Dei instar  colit.    i5. Deinde enarrat pheenomena quae-  dam hujus sancti et philosophici amoris ,  similia, ex parte Venerei, et quomodo  illa ' alce, quas amiserat anima , hinc de  novo crescant, sub Allegoria perpetua  describit, qua nihil aliud tandem indicat ,  quam enthusiasmum quendam , et injec-  tam divinitus philosopho cupiditatem  versandi cum pulchris, h. e. ingenio vel  forma potentibus, adolescentulis : quos  nempe captabat Socrates, qui sciret , cum  facilius sit formare ad sapientiam et  virtutem hanc aetatem, tum hos esse, a  quibus futura civitatis fortuna pendeat.  Hinc est quod se venari pulchros non dis-  simulabat (vid. Protagora > principium ,  frustra reprehensum Cyrillo contra  Julia, i, 6, p. i8j, A), quod Xenophon-  tem baculo etiam transverso objecto    et l’amour grec q'3   « en presence d’un visage presque divin  « ou d’un corps dont les formes lui rap-  it pellent 1’essence de la beaute, c’est-a-  « dire 1’essence de la vertu, adore comme  « en presence de la divinite. »   i5. Platon retrace ensuite quelques-  uns des phenornenes de ce saint et phi-  losophique amour, parfois peu different  de l’autre; il montre aussi comment re-  poussent les ailes autrefois perdues par  rame. C’est une allegorie perpetuelle  dont la conclusion est que le philosophe  con^oit, par une sorte de grace divine,  le plus fervent desir de vivre au milicu  des beaux adolescents distingues par la  perfection de leurs formes ou par leurs  dispositions naturelles. C’est ceux-la, en  effet, que Socrate ambitionnait de gagner ,  sachant qu’il est facile, a cet age, de les  tourner au bien et a la vertu, et que  c’est d’eux que dependent les futurs des-  tins de la Republique. II appelait cela  prendre les beaux garcons dans ses filets  (voyez la-dcssus le commencement du.    44    SOCRATE    velut exceptum, sibi adjunxit (Diog.  Laert. 2, 48). Ipsum illud hinc est , quod  gymnasia , conviviaque et deambulatio-  nes, quoscunque denique juvenum coetus,  sequebatur, quod ludos et jocos non refu-  giebat, quod se plane communem illis  faciebat , nec irrideri aut peti maledic-  tis refugiens. Ipsa illa ironia perpetua,  quod doceri se velle simularet , certe dis-  cendi causa disputare , ut accessum ad  Sophistas illi dabat , ita adolescentulo-  rum super bulae de se opinioni et praeci-  pitantiae blandiri videbatur. Sed perga-  mus Platonis Mython enarrare.    16. Philosophi illi amatores pulchro-  rum non indiscretim omnes amant , sed  (p. Sdy, C) quem quisque in illo coelesti  volatu Deum secutus est , ejus Dei si-  milem sibi quaerit amasium; qui Jovem ,  ut Socrates, Jovialem (Auvov x wa), Martia-  lem vero qui Martem, et sic Junonios.    ET L AMOUR GREC    45   Protagoras , blame a tort par Saint Cy-  rille), et il se fit de la sorte un disciple  de Xenophon qu’il arreta en lui barrant  le passage avec son baton. Voila pour-  quoi aussi il frequentait les gymnases,  les banquets, les promenades, tous les  lieux de reunion des jeunes gens, ne  fuyait ni les jeux ni les badinages, s’en-  tretenait avec tous et s’inquietait peu de  preter a rire aux medisants. Cette ironie  perpetuelle grace a laquelle il feignait  toujours de vouloir apprendre, pour  mieux enseigner, lui donnait acces au-  pres des Sophistes et flattait aussi la suf-  fisance et la presomption de la jeunesse.  Mais achevons d’exposer le Mythe de  Platon.   16. Ces philosophes amoureux des  beaux garcons ne s’attachent pas indis-  tinctement a tous ; selon le dieu quhls  accompagnaient dans les espaces etheres,  chacun d’eux choisit parmi les anciens  suivants du meme dieu celui qu’il doit  aimcr. L’ame qui etait, comme celle de    SOCRATE    46   Bacchicos , Apollineos : et talem ubi in-  ventum amare coeperint , faciunt omnia ,  uti Deo illi, quem ipsi secuti sunt, et cu-  jus jam similitudinem quandam in ipso  deprehenderunt, sibique adeo , reddant  quam similimum. Ita Socrates, Jovis in  illo volatu satelles, quaerit Joviales, ama-  tores natura sapientiae, et natos ad im-  perandum. Hactenus ergo bene res ha-  bet, sancti tales Paederaslce, J elices qui  sic amantur.    / 7 . Sed nec dissimulanda sunt quae  sequuntur apud Platonem. Redit Socrates  (p. 3 -lj, F) ad superiorem illum de Ani-  ma Mythum (’§. 10), quam triplicis na-  turae ponit scilicet. Sunt vellit equi duo,  est auriga. Equorum alter bonus, sanus,  verecundus, gloria • amator , qui sine pla-  gis, sola ratione auriga regitur : pravus  alter, qui multum ac temere una aufera-    ET L AMOUR GREC    47   Socrate, dans le cortegc de Jupiter, re-  cherche un suivant de Jupiter, et ainsi  des autres qui avaient choisi Mars, ou  Junon, ou Bacchus ou Apollon. Des  qu’ils Pont trouve, iis s’efforcent de  rendre celui qu’ils aiment semblable a ce  dieu dont iis retrouvent en eux-memes  le caractere. Ainsi Socrate, satellite de  Jupiter, recherchait pour les cherir ceux  qui avaient aussi suivi ce dieu, c’est-a-  dire ceux qui, par nature, etaient portes  a la sagesse et a la domination. Jusqu’ici  tout va bien ; de tels Pederastes sont de  vrais saints, et bien heureux ceux qui  sont aimes de la sorte !   17. Mais il ne faut pas dissimuler ce  qui vient apres dans Platon. Socrate re-  tourne au precedent Mythe de hame  qu’il a coniparee aux triples forces reu-  nies de deux chevaux et d’un cocher.  L’un des chevaux est bon, sam, plein de  retenue et d’emulation ; le cocher le di-  rige, sans avoir besoin du fouet et par  la seule persuasion : 1’autre est mechant    SOCRATE    48   tur , (impetu alieno potius feratur ,  smo judicio) dura ac brevi cervice, simus,  nigri coloris, glaucis oculis, suffusus san-  guine, petulantia contumeliaque gau-  dens, hirsutus circa aures, surdus, fla-  gello ac stimulis vix tandem concedens.  Operet ? pretium videtur mali equi notas  etiam Gra } ce ponere : cxoXt 65, ~oXu; eixrj  a'j[j. 7 :scpopr]|j.^vo?, xpaTEpauyrjv, ( 3 payuipayrjXo?,  aipLOTCpoacoro;, [xsXayypa);, yAauxop.p.a“0?, oepat-  [xo;, u6p ew; xal aXa^oveiac staTpo?, zept coxa  Xaaco; , xwipog , gaartyt p.S7a xdvxpwv [xdy.;   UTEclXOJV .   r<S\ Apposui Graeca , ut facilius judi-  cari possit , probabilisne sit conjectura, in  quam incidi , dum in hac equi mali de-  scriptione versor. Nempe, aut vehemen-  ter fallor, aut memorat hic Socrates non  tam equi mali proprie dicti signa, quam  sui corporis formam, quatenus vitiosum  inde ingenium colligebat physiognomon  ille Zopyrus. Hic enim , ut est apud Ci-  ceronem (de Fato c. 5), Stupidum esse  Socratem dixit et bardum, — addidit    ET L ; AMOUR GREC 49   et s’emporte facilement, sans raison au-  cune (c 7 est-a-dire qu’il semble dirige plu-  tot par une force exterieure que par son  propre jugement); il a 1’encolure courte  et dure, les naseaux apiatis a la maniere  du singe, le poil noir, les yeux glauques  le sang le tourmente et il est toujours en  rut et en querelles ; il a, de plus, les  oreilles velues, il est insensible a tout et  n 7 obeit qu’a peine au fouet et a 1’aiguil-  lon. Il est necessaire de transcrire, dans  le texte Grec, ces marques particulieres  du mauvais cheval.   18. J’ai cite le texte afin qu’on puisse  decider si la conjecture que me suggere  cette description du cheval retif a quel-  que vraisemblance. Ou je me trompe  fort, ou Socrate ici retrace moins les ca-  racteres d 7 un cheval defectueux que son  propre portrait, dans lequel le physio-  nomiste Zopyre trouvait les indices d’un  naturel vicieux. Zopyre, au dire de  Ciceron (Du Destin , chap. v) pretendait  en effet que Socrate etait lourd et stu~    DO    SOCRATE    etiam mulierosum. Illud de stupore con-  venire cum Homzne xpaTepau/7)v et (3payuxpa-  mox declarabitur : quod muliero-  sum dicebat, illud cum G6psa Ixatpop con-  gruit : novimus enim quos uSp-.sxa; tum  dixerit Graecia ( i ). Porro illud aipio-pd-  aw-ov plane pertinet ad notationem Socra-  tis, in quo cum deridetur a Critobulo (2),  tum ipse suaviter sibi illudit, et in eo  patulisque non modo deorsum sed in hori-  qontem naribus, non minus quam in ocu-  lis ultra frontem eminentibus, et labio-   (1) Unum ponamus exemplum e libello, quipree  manu est, Aristotelis Physignom. c. ult. p. / 18 1,  E. 01 (Jisya cpcnvotjvxs; papuxovov, OSpiaxa^. Ava-  tpspexat £~1 xoj; ovoj;. Physiognomones e simili-  tudine vocis asinina: argumentum ducunt ad libi-  dinem asininam. Conf. § 14, it. 32 .   (2) Xenoph. Sympos. c. 4, § /p, Socrates ad  Critobulum, formee sua: jactatorem, x; xoDxo ; w?  yap /a! Ip.o 0 ' zaXXtcjjv wv xauxa v.oxt.xCv.c,, Quid  istuc? quasi me quoque pulchrior esses, ita gloriaris.  Ad qua: Critobulus , Nrj Ata, rj Ttavxcov SsiX7jvwv  xmv sv aaxupixoh; alaytaxo; av eVtjv . Nisi te for-  mosior essem, ait, essem Sileuorum, qui in Satyri-  cis fabulis in scenam veniunt, turpissimus.    ET L t AMOUR GREC    5i    pide; il aurait ajoute : adonrtd anx plai-  sirs veneriens. Pource qui est dela lour-  deur, cela concorde avec 1’encolure  courte et dure ; adonne anx plaisirs ve-  neriens, repond a &'6peto; ItaTpo;. Nous  savons, en effet, quels etaient ceux que  les Grecs appelaient uSpiatat' (i). Quant a  la face simiesque, cette designation s’ap-  plique parfaitement au portrait de So-  crate ; il y a fait lui-meme agreablement  allusion en repondant aux moqueries de  Critobule ( 2 ). Il avoue que toute sa  beaute consiste en un nez epate et me-  nafant le ciel, en des yeux saillants et    (1) Contentons-nous d’un seul exemple tird du livre  que nous avons sous la main , le De Physiognomia ,  d’Aristote : Ceux qui ont la voix forte et grave  sont &6picrcai, par similitude avec Vane. De ce que  la voix £tait bruyante comme celle de l’ane, les phy-  sionomistes conci uaient qu’on devait avoir le tempe-  rament lascif de cet animal.   (2) Xenophon (Banquet, ch. IV, 19). Socrate dit il  Critobule, qui vante sa propre beautd : « Quoi donc ?  Tu crois etre plus beau que moi ? » Critobule lui  repond : « Si je n’etais plus beau que toi,je serais  le plus affreux de ces Silenes que Von voit paraitre  dans les drames salyriques. »    5 2    SOCRATE    rum tumore molli , pulchritudinem suam  prcedicat (Xenoph. Sympos? c. 5) sicut  in Platonis Convivio (vid. §. 35) Sileni  s. Satyri formam Alcibiades illi tribuit :  et in Tlieceteti Platonici principio Theo-  dorus negat pulchrum esse Thecetetum,  cum sit Socrati similis, tQ te cijxo-rjta xat  to s£w twv o[j.[j.aTtov, naso simo et eminen-  tibus oculis, licet minus quam Socrates  utraque re sit notabilis. Nempe hcec si-  gna cum haberentur, et naturales quae-  dam notce, hominis libidinosi, iracundi  et stupidi, non negabat illud Socrates,  verum eo majoris faciendam esse Philo-  sophiam ostendebat, quee tantum contra  vitiosam naturam valeret.    iy. Quoniam hic sumus, non injucun-  dum forte fuerit lectoribus nostris in  rem quasi preesentem ire, et ex artis,  qualis tum erat, praeceptis, Zopyri judi-  cium defendere. Vix autem opus est  admoneri lectores, non hoc agi, Num  veri aliquid sit in ea arte? Num ipso    ET L ? AMOUR GREC    53    des levres gonflees comme un abces ; de  meme dans le Banquet de Platon, Alci-  biade compare son masque a celui de  Silene ou d’un satyre, et au commence-  ment du Theatdte , l’un des interlocu-  teurs, Theodore, refuse toute grace a  Theatete en disant qu’il ressemble a So-  crate, qu’il est camard et que les yeux  lui sortent de la tete ; que pour etre chez  lui moins apparents que chez le maitre,  ces defauts n’ensontpas moins sensibles.  Socrate ne niait pas d’ailleurs que ces  particularites physiques n’indiquassent  un homme lascif, violent et d’un esprit  paresseux ; il en concluait seulement en  faveur de la Philosophie qui parvient a  dompter un si vicieux naturel.   19. Pendant que nous y sommes, il ne  deplaira peut-etre pas au lecteur d’aller  plus au fond sur ce chapitre et de de-  fendre les idees de Zopyre, idees basees  sur des regles alors acceptees. Il nes’agit  pas de savoir si cette Science est sure ;  est-ce que 1 ’excmplc meme de Socrate    SOCRATE    54   etiam Socratis exemplo ea refellatur, et  vanitatis convincatur? sed hoc modo ,  quod dixi, Utrum Zopyrus ex arte, et  ut oportebat, judicium de illo tulerit?  Exstat in operibus Aristotelis libellus,  <J>uaioyvoj[juxa inscriptus, quo superiorum  hujus artis consultorum collegisse prae-  cepta videtur . Hinc ea, quee ad formam  Socratis, qua ? ad equi hujus mythici na-  turam pertinent , huc transferamus.   2 0 . Igitur (c. 3, p. 1 1 j3, B) inter ’Avai-  c07j- ou hoc est stupidi , et sensu communi  pene carentis signa sunt ~'x nepl tov auysv a  aap'/.oj07) 7.ocl G'j[j.7ZB7zXsj[isva x a\ auvo£ 0 £|j.£va,  Ea quas adjacent collo carnosa, com-  plexa et colligata, itemque cervix crassa,  XGxytjkoq -ayjj;. Et (c. 6. p. I Ij8, C) Oi?  Ta "£p\ ta; xXeTBoc; aug~£pi~£cppaY(x£va £<ruv,  avodaQiyroL. Nonne totidem fere verbis  Ciceronianus Zopyrus? Stupidum esse  Socratem, et bardum quod jugula con-  cava non haberet, obstructas eas partes  et obturatas. Alia adhuc mala signifeat  ista conformatio. Olc xpd.yrj.oc r.ayyc xai    55    ET L’AMOUR GREC   ne temoigne pas du contraire ? Mais  Zopyre en a-t-il tire, en ce qui concerne  notre Philosophe, un pronostic judi-  cieux ? II y a dans les oeuvres d’Aristote  un opuscule intitule Physionomiques ou  ce philosophe parait avoir recueilli les  regles admises avant lui par les habiles.  Nous transcrirons celles qui se rappor-  tent au portrait de Socrate et au carac-  tere de son cheval mythique.   20. D ? apres Aristote (chap. m), les in-  dices d’un esprit lourd et presque prive  du sens commun sont le gonflement des  chairs qui avoisinent le cou, leur engor-  gement et leur replelion- ce qu’il con-  firme en disant au chapitre vi : « C’cst  un signe de betise que d’ avoir 1 ’cncolure  epaisse. » Zopyre, dans Ciceron, n’ex-  prime-t-il pas la meme idee? Socrate,  dit-il, etait lourd et stupide, parce quii  navait pas le cou bien degage, que ces  parties etaient cheq lui comme engorgees  et obstruees. Cette conformation indi-  que cncore bien d’autrcs dcfauts : la    56    SOCRATE    TzlioK, 0 o 1 uo£i 8 e!'s, Crassa et plena cervix  iracundos signat, exemplo taurorum : Ol?  8s [Bpayjj; ayav, irdfi ouXoi, Brevis nimium  quibus est, ii sunt homines insidiosi, lu-  porum instar. Talem modo vidimus  illum malum equum, xpaxepauyeva et [Bpa-  yuxpayjiXov. Talem nisi fallor se indicat  Socrates, aut potius talem significat  Plato Socratem, a natura fuisse.    21. Videamus reliqua. Equus malus  Socratis est — sp\ xa wxa ).asto;, hirsutus  circa aures. Libidinosi, Xayvou, apud  Aristotelem ( c . 3 extr. p. 1174, C) o t  xpdxoupot oaa$T?, densa pilis i. e. hirsuta  tempora. Deinde (c. 6. p. 1174, C) oi  xa yecXrj “aysa eyovxe; puopoi — avacpdpexai    £7ii xou; ovou;. Physiognomones crassa labia  stultitiae characterem faciunt, ob simili-  tudinem asinorum. Quid de se Socrates  (Xenoph. 1. c.) in ludicra cum pulchro  Critobulo contentione? Ata 76 r.ayla. syeiv  xa ylCkt], oux otst xa\ [xaXaxaSxspdv oou 'iyv.v xo  csfX7]p.a; Propter labia crassa suum putat  osculum mollius. Et, v Eotxa syw xaxa xov    et l’amour grec 5 7   nuque epaisse et charnue denote un  homme violent, par similitudo avec le  taure au ; ceux qui l’ont trop courte sont  ruses, par similitude avec le loup. Or,  cette indication, 1’encolure epaisse et  courte, figure parmi les marques du  mauvais cheval. Si je ne me trompe  Socrate avoue qu’il etait bati de la sorte,  ou plutot c’est ainsi que le depeint Platon.   21 . Voyons le reste. Le mauvais che-  val Socratique a les oreilles velues : Aris-  tote designe comme libertins ceux qui  ont du poil jusques sur les tempes. De  plus, les physionomistes notent les  grosses levres comme un indice de betise,  par similitude avec 1’ane. Or que lisons-  nons dans la plaisante discussion (Xeno-  phon, 1 ) de Socrate avec Critobule? —  « A cause de ses l&vres charnues il pense  que son baiser est plus sensuel », et plus  loin : « Je te par ais avoir, 6 Critobule,  une bouche plus difforme que celle de  Vane, avec ces bourrelets qui me tienncnt  lieu de levres. »    58    SOCRATE    aov Xoyov x at Ttov Ovojv aiayiov to GTOu.a lysiv,  turpius os quam habent asini illum  mollem labiorum tumorem habere tibi,  o Critobule , videor.   22 . Simus fuit, ut vidimus, Socrates :  at|jio-po'ato7:o; est malus equus. Quid Phy-  siognomones, atque adeo Zopyrus ? Si  fides Aristoteli (c. 6. p. iiyg, B.) 01  G'|j.7jV Eyovts; piva, Xayvor avacpspezai i~\ tou;  iXa^ou;, Simi sunt libidinosi, exemplo  cervorum. Patulas quoque versus nares  suas, qu£e possint odores undecunque  oblatos excipere, laudat sipojv Socrates  Xenophonteus , pra ? Critobuli naribus  humo obversis. Ot ;xev yao ao\ (xuxT7jpE; ei;  yrjv opcSat, ol 8’ eijloi ava“£"tavTat, wgte tx;  T:av~o0£v oGua; izpoa ov/yOou. At Physio-  gnomones ( I . C.), 0:; o! p.uxT7jp£$ ava"E^"a-  pL^vot, OupiojoEi;, Iracundi sunt, quorum  patula? nares, quod in ira diffundi so-  lent. Iracundum valde a natura fuisse  Socratem, non soli credamus Cy r rillo,  quamvis Porphyrium auctorem laudat ,  qui ab Aristoxeno se illud dicat acce -    ET LAMOUR GREC    59    22. Socrate, nous le savons, etait ca-  mard ; son mauvais cheval a les naseaux  ecrases du singe. Quel indice en tirent  les physionomistes et Zopyre ? Aristote  dit : « Les camards sont lascifs, par simi -  litude avec le cerf ». Socrate declare  quii a les narines lar gement ouvertes ,  comme pour subodorer de toutes parts  les parfums. Jaime mieux cela, dit-il,  que d’avoir, comme Critobule , un ne^  penche vers le sol. Mais d’apres les phy-  sionomistes, c’est 1’indice d’un tempera-  ment porte a la colere. Que Socrate ait  etedun naturel violent, nous ne nous en  rapporterons pas la-dessus seulement a  Saint Cyrille, quoique son temoignage  soit corrobore de ceux de Porphyre etd’A-  ristoxene et qu’il dise en propres termes :  « Socrate etait devenu si irritable qu’il  ne pouvait moderer ni ses paroles ni ses    6o    SOCRATE    pisse, ’'Ote <pXe-/0e't7] utzo zou TrdOou; toutou [de  ira sermo est) ostvrjv etvat xr ( v aayr][jLO(Hjvr)v •  ouoevo; yap ouxe ovopiato; azoa^saOat oSxe  -payjj.ato;, Eo importunitatis progressum ,  ut nullo neque verbo neque opere absti-  neret : sed ipsi de se credamus Socrati,  qui tam gravi ac molesto sibi, quam fuit  Xanthippe, patientia ? et mansuetudinis  gymnasio opus fuisse, fassus sit apud  Xenophontem [Sympos. 2, 10 ) BouXo'|ievo;,  dv0pco7tot; y prjoOat jcat opuXe Tv, Tauxrjv x&ttj-  ptat, sii eloco;, oxt, et lauxrjv 'j"Otaco, PAAIQS  TOIS TE AAAOIS 'AIIASIN, avOptfaoic  auveaouat, Quam ferre si posset, facilis  esset cum aliis omnibus conversatio.    23 . Unum superest : e^^OaXpto; erat  Socrates. Itaque ita jocabundus disputat  cum pulchro Critobulo, ut cum primo  convenisset, Pulchras esse res , quatenus  respondeant consilio, propter quod ha-  bentur ; roget eum , Cujus rei gratia ha-  beamus oculos? eoque, ut necesse erat ,  respondente, Ad videndum, inferat ,  Suos ergo pulchriores esse, qui Sta zo    ET CaMOUR GREC    6i    actions ». Croyons-en Socrate lui-meme;  dans le Banquet de Xenophon , il avoue  que le caractere acariatre de Xanthippe  fut pour lui la meilleure ecole de pa-  tience et de douceur; que par la suite il  lui fut plus facile de supporter la con-  tradici ion.    23 . Il ne reste plus qu’une chose : So-  crate avait les yeux saillants. Il dispute  la-dessus agreablement avee le beau Cri-  tobule, et le fait convenir d’abord que  toute chose est belle pourvu qu’elle re-  ponde au but en vue duquel elle existe.  Il lui demande alors : Pourquoi faire  avons-nous des yeux ? — Pour voir, re-  pond naturellement Critobule. — E/i bien  alors , dit Socrate, mes yeux sont les plus  beaux de tous, car iis me sortent de la    62    SOCRATE    £7it-oXatot sivat, quod emineant, non ea  modo, quas exadversum sint videant, sed  etiam quae a latere. Et cum diceretur ,  secundum hmc pulcherrime oculatum  (euo^OaXjj-GTa-ov : ) animal esse cancrum,  id ipsum affirmat. Jam Physiognomon  Aristoteles (c. 6. p. i ijg, D) "Oaoi i£6z>-  OaXjjiot, inquit , aS&vepoi, Fatui sunt, quibus  oculi eminent : rationem petit ab judicio  quodam decoris et convenientia ■ naturali ,  et ab similitudine asinorum. Male de  horum gente meritus est Stagirita :  quce videtur ex hoc prcesertim libello  contraxisse infamiam illam , qua ab eo  inde tempore, et Platonis quibusdam  dictis, onerata est : honestum superiori  cetate animal, cujus majestatem, ut Var-  roniano verbo utamur, (de R. R. 2, 5,  4) adhuc agnoscebat Homerus. De hac  re adjicietur potius huic disputationi  quoddam corollarium, quam ut longius  digrediamur a Socrate.    ET L’AMOUR GREC    63    tete, si bien que je puis voir non-seule-  ment devant moi, mais & droite et d  gaiiche. Son interlocuteur lui repond  qu’a ce compte les crabes ont de tres-  beaux yeux, et Socrate affirme que c’est  parfaitement vrai. Or, d’apres Aristote,  les yeux saillants sont 1’indice de la sot-  tise; il tire ce pronostic de certains rap-  ports naturels de convenance, de syme-  trie, et de la ressemblance que ces yeux  offrent avec ceux des anes. Le philosophe  de Stagyre a par la bien mal merite de  cette race inoffensive, et ce doit etre a  partir de ce petit traite qu’il acquit le  mauvais renoni confirme depuis par  Platon lui-meme. L’ane, cet honnete  animal, etait mieux apprecie des genera-  tions precedentes, et Homere se plaisait,  suivant le mot de Varron, a lui recon-  naitre de la majeste. Nous ferons de cela  un corollaire a cette dissertation pour ne  pas trop nous eloigner presentement de  Socrate (i).    (i) Gesner a «Jcrit un appendice intitulc De antiqua    SOCRATE    64   24. Nempe tempus est, ut videamus,  quorsum evadat ille de bono et malo  equo Myihus. Ad conspectum pulchri  (p. 34 j, F) bonus ille quidem aurigee  obsequitur, contineri se patitur, malo  alteri , quantum potest reluctatur. Simile  certamen est in pulchro, qui amatur :  repugnat malo isti equo bonus illius  jugalis, hic enim est (p. 348 , G) 6 [xo'£u£,  et ipse auriga adeo repugnat [aet’ dtSous  xat Xdyou, cum pudore et recta ratione. Si  ergo ita vincant meliora, et ad vitam  ordinatam, quae eadem philosophia est,  ducant illum currum, beatam et concor-  dem hic vitam agunt continentes se, et  decus suum tuentes, syxpatcTs auroiv xat  xdajjuot ovtss, in servitutem redacto illo  equo, cui vitiositas animae inerat; in li-  bertatem asserto eo, cui virtus. Tandem  vero alati ac leves denuo facti, sic de tri-  bus illis certaminibus (de quibus §. 12)   asinorum honestate, imprime i la suite du Socrates  sanctus pcederasta ; il ne nous a pas sembl£ otfrir  assez d’interet pour Ctre traduit. (Note Ju Traduc-  teur.)    ET L’AMOUR GREC    65    24. II est temps de voir ou il veut en  venir avec son Mythe du bon et du mau-  vais cheval. A Taspect de la beaute, ie  coursier docile obeit au cocher et se laisse  contenir; il resiste de toutes ses forces a  son mauvais compagnon. L/objet aime est  lui-meme en proie aunesemblablelutte ;  son bon cheval se defend contre les ten-  tatives de son mauvais compagnon d’at-  telage, que de plus le cocher s’efforce de  contenir par la pudeur et la raison. Si les  meilleurs instincts remportent la victoire  et conduisent le char dans les chemins de  la vie rangee, cest-d-dire de la philoso-  phie, les deux amant s vivent dans le bon-  heur et bunion, maitres d’ eux-memes  et regles dans leurs mceurs : iis ont  dompte le mauvais cheval, qui repre-  sente le vice, et affranchi 1’autre qui re-  presente la vertu. Recouvrant enfin leurs  t ailes et leur legbrete primitives , iis sor-  tent vainqueurs de ces trois luttes vrai-  ment Olympiques dont nous avons parle  plus haut. Socrate peut donc dire*sans  hesitation que ccux qui se prescrvcnt.    66    SOCkATE    vere Olympicis, unum vicerunt. Absque  hcesitatione igitur beatissimos esse dicit,  qui se puros et castos ab amore Venereo  servaverint.    25. At nunc sequitur apud Platonem,  in quo defendere illum , Platonem, in-  quam, nam Socratis causam hic segre-  gandum putamus (vid. 6) paullo diffi-  cilius est; tacuisset enim forte sapientius :  sed non iniquum (i) excusare. Nempe  his, quee modo prolata sunt, subjungit,  quee non scripta equidem malim : sed  pono, ne quid dissimulasse videar, ne  parum bona fide egisse. Quam vero caute,  quam suspensa velut manu illud ulcus  tractet, videre opera? pretium est. Eav’  os 8tatT7) <popzi7Ui)~ipx ~z xat A<I>IAO—  cptXoTtjxu) 8s yprfacjvzx'., -i/' av ~oj ev uiOat;  sitivi a)xA7) dasXsta Tci> axoXaTCto ajTOtv Gno-  JXiytco XaSovTE, xa\ tjrjya; xopojpo-j; aovaya-  yovTE et; toeutov, tf ( v u ~6 :wv -oXX oiv [xaxaot-    fi) Multum certe facilior causa Platonis, quam  alicujus Beneventani Episcopi : aut aliorum, quos  vrxterco sciens.    ET L'AMOUR GREC 67   purs et chastes, de 1’amour Venerien,  jouissent de la plus grande beatitude.    25. Ce qui suit, chez Platon, est un  peu plus difficile a expliquer; chez Pla-  ton, disons-nous, car ici nous croyons  devoir separer sa cause de celle de So-  crate; evidemment il aurait mieux fait  de se taire , mais il n’cst pas impossible  de l’excuser (i). A ces choses sublimes  que nous venons de transcrire, il en  ajoute d’autres que j’aimerais mieux lui  voir passer sous silence; je les exposerai  cependant, de peur de paraitre rien dissi-  muler et manquer un peu de bonne foi.  Il faut ici donner le texte pour qu’on    ( 1 ) Son cas est en effet moins grave que celui de  certain eveque de Bdnevent et de quelques autres que  je ne veux pas nommer. — (L’auteur fait ici allusion  a 1’archeveque Giovanni .delia Casa et a son fameux  Capitolo dei forno ; mais il ne 1’avait probablement  pas lu, et il se meprend, comme bien d’autres, surle  sens de ce celebre petit poeme. — Note du Traduc-  te ur.)    68    SOCRATE    cTr;v atpeotv £tXcTr ( v ~t /ai Ste^pa^avxo x x X.  Si vero vitam vivant LICENTIOREM  et A PHILOSOPHIA ALIENAM, ean-  demque ambitiosam, forte aliqua in  ebrietate aut qua alia negligentia depre-  hensas INCAUTAS animas equi illi  uiriusque amatoris indomiti, eodem con-  ducant, et sic illam quce beata vulgo vi-  detur electionem faciant, et (turpe illud  facimts) peragant : eoque peracto per re-  liquum tempus utantur quidem (illa  voluptate ) sed raro, quippe qui non  omnino deliberata mente (sed deprehensi  velut incauti ) hoc agant — etiam hi  praemium non parvum amatorii illius  furoris (non Venerei, de quo modo dic-  tum, sed philosophi , de quo §. i3) aufe-  runt : in tenebras enim illas et illud sub  terram iter non veniunt, etc.    ET L'AMOUR GREC 69   voie avec quelle prudence et sans ap-  puyer la main, il decouvre cet ulcere de  la civilisation Grecque. — « S’ils embr as-  sent , dit-il, nn genre de vie moins austdre,  etrangbre a la Philosophie et livree aux  passions desordonnees , il arrivera quau  milieu de Vivresse ou de quelque autre  etourderie les coursiers indomptes sur-  prendront leurs ames et les meneront l’un  et l’ autre au meme but,' iis prendront alors  le parti de faire ce en quoi , selon le vul-  gaire , consiste le supreme bonheur et  (c’est la le crime infame) satisferont leurs  desirs. Dans la suite , iis renouvelleront  leurs jouissances , mais rarement, parce  qxCelles ne sont pas approuvdes de l’dme  entiSre et qu’ils agissent comme par sur-  prise et sans defense. C’est pourquoi ce  qu’il y a encore d’excellent dans leur  amour (le pur amour pliilosophique et  non le desir Venerien) recevra plus tard  sa recompcnse ; iis niront pas, aprds leur  mort, dans ces tenebres et par ces routcs  souterraines,.., etc. »    yo    SOCRATE    26. Apertum est his, qui et sermonem  Platonis intelligunt, et non ultro qucerunt  crimina, non illum prcemium constituere  pceder astice turpi, non Philosophice genus  facere flagitiosum puerorum amorem :  sed summam c.ulpce esse hanc , quod di-  cat, si qui coelestis illius pulchritudinis,  quam in volatu illo suo viderint, deside-  rio icti, etiam pulchros amant, et dum  arctius eos complectantur, liberius cum  iis versentur, etiam ad turpe facinus ab  ebrietate, certe ex improviso, incauti,  proster deliberatam voluntatem, abri-  piantur, id quod ipsis contingat ob genus  vivendi licentius atque a Philosophia alie-  num, iis tamen prodesse primum illud7'io-  biliusque philosophandi propositum, ut  non cum reliquis ad inferos mittantur,  et ad poenarum locum (vid. §. 12) non  cogantur post ternas millenorum anno-  rum periodos , septem alias subire ete  sed facilius alas ut recipiant, quibus evo-  lare ad coelestia, deum aliquem sequi du-  cem possint. Hactenus reprehendat Pla-  tonem, si quis volet, non ut laudatorem    et l’amour grec 7 1   26. II est bien clair, pour qui veut  comprendre Platon et ne cherche pas de  griefs de son plein gre, qu J il n’assigne  pas cette recompense aux fauteurs du  vice honteux, qu’il ne fait pas de 1’igno-  minieux amour masculin un attribut  special des Philosophes. On voit, au con-  traire, combicn il blame ceux qui, les  yeux encore eblouis de cette beaute ce-  leste entrevue par eux dans leur vol an-  terieur, con^oivent des desirs pour la  beaute terrestre, recherchent les jeunes  garcons, et a force de les embrasser etroi-  tement, devivre familierement avec eux,  se trouvent entraines a 1 ’improviste, au  milieu de livresse, par surprise et sans  que leur volonte y ait part, a conimettre  l’acte immonde; cela leur arrive, parce  qu’ils ont adopte un genre de vie trop  libre et qu’ils negligent la Philosophie.  Iis tirent cependant ce profit, de s’etre  d’abord propose pour but cette noble  Science, qu’ils ne sont pas relegues aux  enfers avec tous les autres hommes ; apres  une revolution de trois mille annees, iis    SOCRATE    7 2   Pcederastice, sed ut clementem nimis ,  lentumque adeo castigatorem : qui prae-  sertim in aliis peccatis severum satis ac  durum se praebuerit (1 ).    27 . Sed , si cequi esse volumus, si de  nostris religionum doctoribus ecquos ex-  periri judices, videamus etiam , quid dici  pro ratione illa Platonis possit , quid pro  Socrate, quatenus et ipse non horribili  flagello sectari vitia id genus solebat.  Distinguamus legislatoris personam et  Philosophi. Legibus Atheniensium primo  antiquissimis illis a Cecrope , sanctitas   (1) Bona pars libri De re publica decimi in eo  consumitur, ut a"apat~r]Tou?, a^apa[xu0rjTOU?,  implacabiles sacrificiis Deos, ostendant. Vid. pras.  a p. 6 72 extr. et conf. qua: collegit Davis. ad Gic.  de Legib. 2. c. j 6 . p. i 3 j    ET L’AMOUR GREC 78   n’ont pas a en su.bir sept mille autres;  iis recouvrent plus vite leurs ailes et peu-  vent s’elancer vers les spheres celestes, a  la suite d’un des douze dieux. Que l’on  reproche donc a Platon, si l’on veut, non  pas de s’etre fait 1’apologiste de la Pede-  rastie, mais d’avoir ete trop clement,  de ne pas chatier assez ferme, lui surtout  qui pour de moindres fautes se montre si  dur et si severe (i),   27. Mais soyons equitables; prenons  d’honnetes gens pour juges de nos Phi-  losophes, voyons ce que l’on peut dire  en faveur de Platon ou de Socrate, et  jusqu’a quel point ce dernier a vraiment  neglige de flageller le vice en question.  II faut distinguer le legislateur du Phi-  losophe. Les plus anciennes lois Athe-  niennes, celles de Cecrops, proclamaient  la saintete du mariage. La loi de Dracon    ( 1 ) II emploie la majeure partie du X® livre de sa  Republique a montrer que les dieux sont insatiables  de sacrifices. Comparez avec ce qu’a <5crit Davies  sur le Tr ciite des lois , de Cicerrr.i.    7    74 SOCRATE   matrimoniorum constituta : Draconis  lex capite plectebat adulteros : Solon li-  beram faciebat marito potestatem sta-  tuendi in adulterum in facto deprehen-  sum , quidquid liberet. Itaque mirum  fuerit si masculam libidinem non punis-  sent.   28. Sed bene habet : supersunt monu-  menta Solonis hac etiam de re legum,  diligenter collecta a Sam. Petito (de Le-  gibus Att. 6, 5 et in Commentario  p. 468 sqq.) prcesertim ex vEschinis in  Timarchum (a p. 186 edit. Aurei. Al-  lobr. 1607. /•) et Demosthenis contra  Androtionem (a p. 421) orationibus :  unde hoc constat, qui vi vel persuasione  ingenuum corrupisset, produxissetve,  gravissima poena (quce ad ultimum sup-  plicium corruptoris et productoris, in-  terdum etiam corrupti, poterat progre-  di) affectum esse. Qui illam patiendi pro  mercede turpitudinem admisisset, si  effugisset poenam aliam, illi neque lice-  bat inter novem Archontas esse, neque    ET LAMOUR GREC 7 5   punissait de mort les adulteres; Solon  laissait la faculte au mari, dans le cas de  flagrant delit, de se faire justice comme  il 1’entendrait. II serait bien surprenant  que ces deux legislateurs fussent muets  a l’egard de Tamour masculin.    28. Mais nous avons mieux ; il reste  des lois portees par Solon sur la matiere  divers fragments precieusement recueillis  par Samuel Petit (voy. ses Lois attiques  et le Commentaire dont il a accompagne  cet ouvrage); ii les a surtout tires du  Discours contre Timarque, d’Eschine, et  du Discours contre Androtion, de Demos-  thene. Il y est dit : Quiconque, memesans  violence, aura debauche ou prostitue un  homme de condition libre sera passible  de la peine la plus rigoureuse. — (Le cha-  timent pouvait etre la mort, dans l’un  comme dans Tautre cas, et pour le liber-  tin, comme pour savictime.) — C elui qui  se sera prostitue pour de l’argent, s’il  echappe a toute autre peine, ne pourra ni    SOCRATE    76   fungi sacerdotio, neque syndicum creari,  neque ullum magistratum vel intra vel  extra urbem, neque sortito neque suf-  fragiis, capere, neque pro Praecone s.  oratore mitti usquam, neque sententiam  dicere unquam, neque in templa publica  intrare, neque in pompa coronata et ip-  sum coronari, neque intra sacros fori  cancellos (evto; twv t rj; ayopa? TteptppavTT]-  P’'wv) ingredi. Si quis vero damnatus im-  pudicitiae quidquam horum fecisset, ca-  pital erat. 0avato> r7)[j.'oua0w sunt verba  legis ab As schine recitata. Plura huc  transferri opus non est , cum rarum esse  Petiti opus desierit. Summa capita habet  etiam in Themide Attica ( 1 , 6) Meur-  sius.    2 q. Utrum seynpcr valuerint istce le-  ges? annon eas perruperit interdum au-    ET L AMOUR GREC    77   etre l’un des neu f archontes , ni remplir  aucune fonction sacerdotale , ni etre nomme  delegue d’une ville ; il lui est interdii  d’exercer aucune magistrature, soit en  dedans , soit en dehors de la cite , quii  ait et e designe par le sort ou par les  suffrages de ses concitoyens ; d’etre en-  voyd nulle part comme Herault, ou comme  orateur ; de prononcer aucune sentence ;  de penetrer dans les temples publics; de  faire partie des processions et d’y porter  une couronne sur la tetc; de franchir  ienceinte sacree de l’Agora. Qiiiconque,  deja condamne pour fait de prostitutiori ,  fera ou acceptera de faire une de ces  choses sera puni de mort. Puni de mort,  tel est le texte meme de la loi lue par  Eschine. II est inutile d’en transcrire ici  davantage, car Touvrage de Samuel Petit  est loin d’etre rare ; Meursius en a meme  donne, dans sa Themis Attique, les cha-  pitres importants.   29. Ces prescriptions eurent-elles tou-  jours force de loi? Ne purent-elles etre    SOCRATE    7 8   dacia , astus subterfugerit , eluserint  rhetores? annon ipsa poenarum gravitas  impunitati occasionem non nunquam de-  derit? an non professce impudicitiae ho-  minis utriusque sexus, libidinum publica-  rum victimce, toleratce sint? An denique  poetce non multa saepe impudenter scrip-  serint, fecerint? jam non quceritur. Uti-  nam non avxtxatrjyopia quadam repellere  possent veteres Attici cujuscunque vel sec-  tae vel cetatis homines, si qui acerbius ex-  probrare iis velint, quce de Comicorum pe-  tulantia sublegerunt illi apud Athenaeum  (i3, 8 p. 601 ) Deipnosophistce, et quae  colligere ex illa parentum cura apud  Platonem (Conviv. p. 3ig, E), Pceda-  gogos constituentium suis filiis, qui ne  quidem colloqui suis cum amatoribus  (turpibus nimirum et flagitiosis) eos pa-  tiantur : e. i. g. a.    3o. Ceterum severitate legum eo ma-  gis opus erat, quod obtentum fiagitiis    et l’amour grec 79   enfreintes par les audacicux, adroitemcnt  tournees par les gens ruses, eludees par  les avocats ? La rigueur du chatiment ne  favorisa-t-elle pas elle-meme Timpunite ?  Est-ce qu’on ne tolera pas des prostitues  de profession, victimes de 1’incontinence  publique et remplissant le role de l’un et  1’autre sexe ? Les poetes n’ont-ils pas ef-  frontement deerit ces turpitudes, ne les  ont-ils pas mises en action sur la scene ?  Cela ne fait aucun doute. Plut au ciel  que les Atheniens de nfimporte quelle  secte et de quelle epoque ne pussent re-  tourner Taccusation a ceux qui leur re-  procheraient trop vertement ces horreurs  etalees par les poetes comiques et recueil-  lies par les Deipnosophistes d’Athenee, ou  ce qu’on peut induire de 1’inquietude des  peres de famille confiant leurs fils, d’apres  Platon, a des precepteurs severes, pour  les empecher de s’entretenir avec leurs  amis, — des amis infames et detestables.   3o. Les lois devaient etre d’autant plus  severes, que les coutumes de la Grece    8o    SOCRATE    non nunquam praeberet (ut nempe res  sancta ? prope omnes , ut ipsce populorum  sceculorumque pene omnium religiones ,  atque ceremonice) ille puerorum amor ,  castus , legitimus, sanctus, quo tanquam  potentissimo virtutis cum bellicce tum  civilis incitamento utebantur qucedam  Grcecorum respublicce : quarum legisla-  tores, cum viderent, ignava fere esse  virtutis prcecepta, firmis licet nixa de-  monstrationibus, nisi ea affectu quodam  et tanquam spiritu animentur, nisi ev0ou-  aiaajxou quoddam genus accedat, quo acti  homines et commoda sua , et jacturas, et  salutem, et pericula et tormenta contem-  nerent. Hinc excogitata et in usum  civitatis recepta sunt splendida ista et  efficacissima remedia, Religio, Pudor,  Amor patrice, Gloria, res quondam po-  tentissimce, quod ex illarum effectibus  judicare pronum est: nunc prceclara quo-  rundam, qui sibi Philosophi videntur,  opera fere ad inanium vocabulorum stre-  pitus relata, et, dum relata sunt, etiam  redacta.    ET l’aM0UR GREC    8i    ( comme toutes les choses saintes, comme  les cultes et les ceremonies religieuses de  presque tous les peuples et de tous les  temps) donnaient plus de facilite a la  depravation. La fervente amitie entre  jeunes gens, Tamitie chaste, legitime, sa-  cree, etait favorisee, dans les republiques  de la Grece, comme le plus energique  stimulant du courage militaire et des ver-  tus civiles. Leurs legislateurs savaient  bien que ni la vertu ni le courage ne s'in-  culquent a 1’aide de demonstrations, si  bonnes qu’elles soient ; que 1’homme est  naturellement faible a moins qu’il ne soit  pousse par la passion et par 1’orgueil ou  entraine par cette espece d’enthousiasme  qui lui fait mepriser les aises de la vie, la  fortune, la vie elle-meme, et affronter les  perils et les supplices. C’est pourquoi l’on  mettait en jeu, dans Torganisme de la cite,  ces heroiques et sublimes mobiles, la Re-  ligion, 1’Honneur, 1’Amour de la patrie,  la Gloire, mobiles autrefois bien puis-  sants, comme nous pouvonsen juger par  ce qu’ils firent accomplir; aujourd’hui,    82    SOCRATE    3 i . In illis igitur rei publicce bene ge-  renda? incitamentis, an instrumentis?  erat Amor ille adolescentulorum tum in-  ter se, tum inter ipsos et natu majores :  inde illa sacra Amantium cohors The-  bis, et Cretensium. Quanta illius vis  esset, et quam metuendus esset miles  amator, svOouatwv, et ab Amore simul  atque a Marte bacchans, occurenti in  prcelio hosti, ita enarrat 2E liantis (H.  V. 3 , g) ut IvOo-jatav et furere ipse prope  videatur. Idem (c. io et 12) Laconica  qucedam circa eam disciplina? publica?  partem instituta commemorat : V. G.  ab illis multatum esse virum alioquin  bonum, ea de causa , quod nullum ha-  bere juniorem, quem amando sui si-  milem, et per hunc forte etiam alios,  redderet : itemque peccantis adoles-  centuli virum amatorem punitum , cui    83    ET l/AMOUR GREC   grace a de certains Philosophes, ou soi-  disant tels, ces grandes choses ne sont plus  que de vains mots, creux et vides, dont le  sens s’affaiblit a mesure qu’on en abuse.   3 1 . Ainsi, 1’Amour des jeunes gens, soit  entre eux-raemes, soit entre eux et leurs  ames , etait favorise partout en Grece ,  pour le bien de la chose publique ; voila  ce qui donna naissance a la cohorte sa-  cree des Amants , chez les Thebains et  chez les Cretois. Quel etait le courage de  ces sortes de soldats, quelle etait la ter-  reur qu’ils inspiraient, lorsqu’ils rencon-  traient Tennemi, ivres a la fois d’amour  et de sang : c’est ce que Elien nous a fait  connaitre, en partageant, pour nous les  mieux depeindre, leur impetuosite et  leur fureur. II nous indique aussi qu’il  y avait quelque chose de semblable dans  les institutions de Sparte ; un Lacede-  monien fut mis a 1’amende , quoique  excellent citoyen, pour avoir neglige d’ai-  mer quelque compagnon plus jeune que  lui, a qui il aurait inculque ses vertus et    SOCRATE    84   nempe illius imputari vitia posse cen  serent.    32 . Etiam illud Laconicum narrat , so-  litos ibi adolescentulos petere ab ama-  toribus , viris nempe bonis ac fortibus ,  stareveTv auTot ?, ut se adflarent. Interpreta-  tur illud verbum , Laconibus proprium,  sElianus per epav, amare : idem factum  ab Hesychio V. sp.-v£ Tjj-ou, et epa, eia7cver.  Multa similia ad utrumque Hesychii  locum viri docti , post Meursium (Mis-  cell. Lac. 3 , 6 ) sed nihil, unde ratio ap-  pellationis queat intelligi. Nec satisfacit,  quod refert, non probat Eustathius (ad  Odyss. A, 36 1 p. 1743 et ad E, 478  p. 240, 38 ) EtarevElxai yap tpaat, t 7j? pLOp^?  ti /at x i); wpa;, inspirari aliquid fornice et  pulchritudinis. Hcec enim Laconicce se-  veritati parum conveniunt, si fides anti-  quis, ipsique adeo JEliano in ipso illo,  de quo agimus , loco. Srap-ctaTT)? epio; ata-    ET LAMOUR GREC    85    qui eut ete capable, a son tour, de les  transmettre a d’autres. Lorsqu’un jeune  homme commettait une faute, les Spar-  tiates punissaientson intime ami, comme   responsable des vices qu’il lui tolerait.   /   32. Elien rapporte encore cette autre  coutume de Sparte, que les jeunes gens  exigeaient de ceux dont iis etaient aimes,  toujours choisis parmi les meilleurs et les  plus braves, ut se adflarent. II explique  le verbe ekjttvs Tv ( adflare ), propre aux La-  coniens, par cet autre : spav (aimer), et He-  sychius de meme aux mots EpjcvEtgou, ipS  et eiu7iveT. Divers savants ont accueilli cette  interpretation, a 1’exemple de Meursius;  mais je n’ai rien compris aux raisons  qu’ils en donnent. Je ne suis pas davan-  tage satisfait de Tassertion emise, sans  preuve, par Eustathe, dans son commen-  taire des chants IV e et V e de YOdyssee :  a Les inspires (i) sont guides dans leur    (i) On appelait indifTeremment ItaKVETxat, ii a-  7UvrjXa' (inspires) ou spacjiat (amants) ces couples   8    86    SOCRATE    ypov oux otosv x. t. X. Spartanus amor  turpe nihil quidquam novit. Sive enim  ausus fuerit adolescentulus pati turpia  (upo-v uzoaeivat) sive amator facere (£»|Bp6  oat) neutri quidem Spartee manere pro-  fuerit : aut enim patria privarentur, aut  vita ipsa. Quare illud ela-vetv s. s[j.7ivsTv,  illos £ta7iVTjXa;, quos eosdem aixa? vocat  Eustathius (Hesych. afcav, s-aTpov) ab in-  spirando s. adspirando divino quodam  spiritu, dictos arbitror , unde afflati, ut  7rveuu.atocpo'poi quidam et svOouaiwvTsc, divi-  no quodam furore perciti , ruerent. Hic  est ille furor, quem supra i3) tetigi-  mus, et de quo plura sunt in Platonis  Phcedro (p. 344, A. 346, A. 352, E).  Nempe spiritum 7iveSp.a quum dicebant an-  tiqui, non rem illi tantum cogitantem in-  dicabant, sed rem subtilem, magna ean-  dem movendi et agendi vi praeditam, etc.   de friires d’armes , si terribles dans les batailles.  'Etcnvelv (ad/lare) peut se traduire positivement  par meter les souffles ou metaphoriquement par  avoir des aspirations communes. ( Note du Tra-  ducteur.)    ET l’aMOUR GREC 87   choix par la beaute et 1’elegance corpo-  relle. » Cela me parait peu convenir a  cette severite Laconienne dont temoi-  gnent tous les anciens et Elien lui-meme,  a Tendroit en question : « On ignorait a  Sparte ce que detait que les impures  amours. Si quelque jeune homme eut ose  se prostituer , ou prendre 1’autre role, il  lui eut mal reussi de rester d Sparte; il  y allait pour lui de Vexilou de la mort. »  C’est ce qui me fait croire que ces inspires ,  designes aussi sous les noms de compa-  gnons, freres d’armes, par Eustathe et  par Hesychius, etaient ainsi appeles du  souffle ou de Tesprit en quelque sorte  divin qui les animait, lorsqu’ilsse ruaient  sur l’ennemi comme transportes d’une  fureur plus qu’humaine. Nous avons deja  parle de cette espece de delire, dont il est  si souvent question dans le Phedre de  Platon. Il convient en effet de remarquer  que les anciens n’entendaient pas comme  nous par esprit une faculte intellectuelle,  mais une essence subtile, douee d’une  grande forcc de mouvement et d’action.    88    SOCRATE    33. Non vagatur hcec extra oleas ora-  tio. Cum enim fuerit , quod, adhuc proba-  tum est, in Grcecia r.aiozptxizv.a. quaedam  honestissima, et sancta adeo , qua ad virtu-  tem, bellicam praesertim , et quidquid pul-  chrum est, incitari homines crederentur,  cum nomina spojvuo?, Ipaaxou, raioapaaxou,  itemque spwuivoy, -atot/.wv, et similia tur-  pitudinem nondum haberent : cum illud  raiSspaaxsTv res esset adeo honesta, ut quem  ad modum capital Romae erat servo, si  militarat, ita Solonis lege multaretur  quinquaginta plagis publice, qui servus  eXsuOspou 7ra'oo; spav, amare liberum pue-  rum, auderet : haec ita se cum haberent  omnia, nemo jam debet mirari, adoles-  centulorum esse amorem professum So-  cratem, fecisse illum, quae ante (§. i5)  dicta sunt, eaque scripsisse tanquam So-  cratis dicta Platonem, quae ex Phaedro  commemoravimus . Quod mitior est vel  Plato, vel ipse adeo Socrates, (si quis ei  tribuat, non satis ille quidem aequa ratio-  ne, quidquid apud Platonem ex ipsius  persona dictum ponitur) in hos etiam quos    ET L’AMOUR GREC 89   33. Cette digression ne nous a pas  eloigne de notre sujet. Puisqu’il existait  en Grece , comme nous venons de le  prouver, une jcatBspao-rfta tres-honnete ,  sainte, on peut dire, et reputee propre a  pousser les hommes au bien et a la vertu,  surtout a la vertu guerriere; puisque les  mots d’amants, d’amis, de 7tad>epa<jTcu et  de 7:aioi7.wv n’avaient rien de honteux ;  puisqu’il etait meme si honorable de se  livrer a cette zcaSspaardtix, que la loi de  Solon punissait de cinquante coups de  fouet, subis en pleine place publique,  tout esclave qui aurait ose aimer un jeune  homme de condition libre; puisque tout  cela est irrefutable, personne ne doit s’e-  tonner que Socrate ait professe 1’amour  des j eunes gens, qu’il ait lui-meme eprouve  cet amour et agi en consequence; que  Platon nous ait transmis, comme l’ex-  pression des doctrines de Socrate, ce que  nous avons cite du Phedre. Sans doute  Platon ou, si l’on veut, Socrate, quoiqu’il  ne soit pas equitable de lui attribuer tout  ce que son disciple lui fait dire, se montre    SOCRATE    90   mala libido ad turpitudinem transversos  abripuit 25 . 26) illud primo hanc  rationem , ut innuimus , habuit , quod nec  legislatorem hic, neque publicum accusa-  torem ageret ; sed Philosophum , sed  amatorem, amicum certe quidem, qui  non metu pcence deterrere a turpitudine  homines, sed virtutis amore revocare a  peccato vellet. Deinde erant forte, quibus  parcendum erat, juvenes a vitiis ejus-  modi non plane puri, Alcibiades , Critias ,  alii, 9[Xox''[j.o) illi quidem sed eadem «popti-  ■/Mxipcc et dcfikoaofM otattr) yprjaajxsvoi (vid.  §. 25 ) quos abscisse nimis ab omni fructu  Philosophice, ab omni ad virtutem reditu  excludere velle, et sic plane a se et a  virtute segregare, non erat consilii. Non  instituam hic comparationes, quce invi-  diam habere possunt : sed illud addam  unum, si forte aliquid veri sit ineo, quod  de liberiori Socratis adolescentia dictum  est /'§. 2) : si non mendax historia , e qua  refert Origenes contra Celsum , qui su-  periorem vitee conditionem primis Chris-  ti discipulis objecerat (l. 1. p. 5 o. pr.)    ET L AMOUR GREC    9 1   beaucoup trop clement envers ceux qu’un  infame desir pousse a Tacte honteux. Son  excuse, nous Tavons deja dit, c’est que ce  n’est pas ici un accusateur public ou un  legislateur qui parle, c’est un Philosophe,  un ami, un amant, et il essaye non de  detourner les hommes du vice en les ef-  frayant par la menaee des chatiments,  rnais de les dissuader d’une faute en leur  inculquant Tamour de la vertu. II y avait  d’ailleurs peut-etre autour de lui des  jeunes gens qui n’etaient pas irreprocha-  bles et envers lesquels il ne fallait pas se  montrertrop dur, un Alcibiade, un Cri-  tias, d’autres encore, pleins de fougue,  adonnes a une vielicencieuse et etrangere  a la sagesse; les priver de quelques-uns  des benefices de la philosophie, c’eut ete  leur fermer toute voie de retour au bien,  les eloigner de la personne du maitre et  par consequent de la vertu. Je ne cherche  pas a faire des comparaisons qui pour-  raient sembler malseantes; je veux ce-  pendant rapporter un fait, vrai ou faux,  qui a traita la jeunesse un tant soit peu    SOCRATE    9 2   Phcedonem e lupanari traductum ad  Philosophiam a Socrate : quid facere  illum oportebat in hac disputatione?    34. Nihil igitur est in Phcedro , quod  urgeat Socratem : si quid incautius dic-  tum sit , illa Platonis culpa fuerit : quam-  quam si universam circumstantiam , ut  a nobis ostensa est , quis consideret , etiam  hunc accusare , vel non excusare, ini-  quum videtur. De Convivio Platonis jam  non opus est multis disputare. Distin-  guat mihi aliquis personas loquentes : ad  universam libelli descriptionem, quam  vocamus CEconomian, ad Allegorian  denique ab amore Venereo ductam , ac  translatam ad animos, quorum lenonem  se et obstetricem ferebat Socrates : ad  hcec, inquam , mihi attendat aliquis, et    et l’amour grec q3   dereglee de Socrate. C'est Origene qui le  raconte dans son traite contre Celse.  Celse reprochait aux premiers disciples  du Christ d’avoir ete tires de conditions  abjectes; Origene repondit que Socrate  avait bien tire Phedon d’un mauvais lieu  pour le convertir a la Philosophie. J e vous  demande un peu ce que ce Phedon venait  faire dans la discussion.   34. On ne rencontre donc rien dans le  Phedre qui puisse incriminer Socrate; s’il  y a ca et la quelques paroles imprudentes,  c’est la faute de Platon. Encore, si l’on  examine bien toutes les circonstances,  comme nous 1’avons fait, il serait injuste,  tout en blamant Platon, de ne pas lui  trouver d’excuse. Nous ne nous etendrons  pas longuernent sur son Banquet. Que  l’on distingue bien les uns des autres les  interlocuteurs, que Fon fasse attention  a 1’ensemble du dialogue, a ce que nous  appelons 1’economie de 1’ouvrage, que  Fon analyse enfin cette allegorie tirce  de 1’amour physique, puis appliquee aux    94    SOCRATE    mirabor, si quid ibi sit , unde Jiagitio  ipsi praesidium, vel crimini in Socratem  jactato firmamentum peti possit. Sed est  in illo libro, quod maxime ad defenden-  dum a Socrate fagitium pertinet, quod  ut magis pateat, tota ultimee partis, et  velut actus postremi fabulae illius convi-  valis, CEconomia proponenda est, e qua  ipsa appareat, velle pro veris haberi Pla-  tonem, qua ’ in Alcibiadis personam con-  jecta de Socrate dicuntur.    35. Ebrius nempe Alcibiades ad eum  finem, ut neque pedes officium faciant,  comissator supervenit potantibus apud  Agathonem Socrati ceterisque. Hic, ex  lege compotationis , dextrum sibi accum-  bentem Socratem laudare jussus, obse-  quitur cum professione ebrietatis, ut  tamen (p. 332, G) vera se dicturum con-  firmet et redargui petat , si quid mentia-  tur. Ac primo sub imagine quadam lau-    et i/amour grec 9 5   idees, dont Socrate se donnait comme  l’entremetteur et Taccoucheur, et je serai  bien surpris si 1’on y decouvre quoi que  ce soit en faveur du vice infame ou a  1’appui de 1’accusation portee contre So-  crate. On pourra y puiser, au contraire,  les meilleurs arguments pour l’en defen-  dre ; mais il est necessaire d’exposer ici  toute 1’ordonnance de la derniere partie,  ou plutot du dernier acte de ce dialogue,  ou il est clair que Platon veut nous faire  tenir comme vrai ce qu’il a place, tou-  chant Socrate, dans la bouche d’Alci-  biade.   35. Alcibiade arrive a la fin du festin  dans un tel etat d’ivresse que ses pieds  refusent de le porter; il veut prendre sa  part de plaisir avec Socrate et les autres,  en train de boire chez Agathon. La, par  suite d’une convention adoptee entre les  convives, il est force de faire 1’eloge de  Socrate, assis a sa droite, et demande  de 1’indulgence, en se fondant sur ce  qu’il est ivre ; il affirme pourtant qu’il ne    SOCRATE    96   daturus Socratem , cum Sileno aliquo  (Conf. §. 18 J nominatim cum Satyro  Marsya , tibicine , illum comparat, cujus  figura, ex ligno, edolata ruditer atque  deformi, utebantur artifices pro theca,  quce intus haberet pulcherrimum aliquem  Mercuriolum (p. 333, F) : scilicet in  corpore deformi habitare animam pul-  cherrimam demonstrat : et esse tibicini  Marsyce similem Socratem, ob illam  vim demulcendi animos, cui resisti non  posset.    36. Deinde narrat, cum eundem pul-  chrorum sectatorem quendam ct capta-  torem videret, se, qui fiduciam fornice  haberet, sperasse, si pellicere virum ad  amorem sui (venereum nempe) posset,  eique se prceberet obsequiosum, impetra-  turum se ab illo admirabilem illam ar-  tem, et ablaturum, quce Socrates sciret,  omnia. Hinc narrat verbis quidem ho-  nestis modestisque , ct tamen venia ante    ET LAMOUR GREC    97   dira que la verite et exige, s’il se trompe,  qu’on lui donne un dementi. II com-  mence, pour louer Socrate, par le com-  parer a ces grossieres figures de bois  representant Silene ou le satyre Mar-  t syas, le joueur de flute, sculptees sans  travail et sans art, dont les statuaires se  servaient comme de gaines, et qui rece-  laient a 1’interieur quelque joli petit Mer-  cure ; ainsi, dit-il, dans un corps difforme  peut habiter une belle ame; de plus, So-  crate ressemble au joueur de flute Mar-  syas en ce qu’il a, pour charmer, une force  a laquelle nui n’est en etat de resister.   36. II raconte ensuite que le voyant  s’attacher a la poursuite des beaux ado-  lescents et s’efforcer de les prendre dans  ses filets, plein de confiance en sa beaute  parfaite, il avait essaye de lui inspirer de  1’amour, comptant bien qu’avec un peu  de complaisance pour ses desirs il obtien-  drait de lui qu’il lui communiquat son  admirable science, et qu'il gagnerait a  cela tous les talents de Socrate. Alcibiade    9    SOCRATE    98   exorata ebrietati , et pro? fatus (p. 334 ,  C) uti servi aliique profani aures obtu-  rent (zuXa<; 7: avo [xEyaXai xot; walv £7ri0E<?0s)  quam varie, et quibus veluti gradibus,  frustra continentiam Socratis, temperan-  tiamquefrecte fortitudinis hic nomen adji-  cit) tentarit. Summam facit hanc, (p.  334 , G) ut Deos Deasque testes faciat,  se cum totam noctem sub eadem veste  cum Socrate jacuisset, non aliter ab  illo, quam ut filium a patre, aut a fratre  majori frater deberet, surrexisse. Itaque  se frustratum spei esse in homine, quem  hac sola forte parte capi posse putasset.    3y. Enumeratis deinde aliis Socratis  virtutibus, bellica prcesertim , qua sibi  etiam vitam servarit, addit, non se tan-  tum contumelia tali ab eo affectum , sed  Charmiden etiam , Euthydemum et    et l’amour grec gg   place ici , mais en termes honnetes et  mesures, quoiqu’il se soit excuse sur son  ivresse et qu'il ait recommande aux es-  claves et aux profanes de se boucher les  oreilles, le recit des gradations savantes  et de tous les stratagemes vainement mis  en oeuvre par lui pour induire en tenta-  tion la continence, la temperance ou plu-  tot, comme il le dit fort justement, l’he-  roique fermete de Socrate. II conclut en  disant : Je prends les dieux et les deesses  d temoin quapres avoir repose toute une  nuit d cote de Socrate, et sous le meme  m ante au , je me levai d'aupres de lui tel  que je serais sorti du lit de mon pere ou  de mon frere aine. Ainsi, le seul point  par lequel il croyait que cet homme fut  accessible avait tout a fait trompe ses  esperances.   37. Apres avoir ensuite enumere les  autres vertus de Socrate et appuye sur sa  valeur guerriere, a laquelle il etait lui-  meme redevable de la vie, il ajoute qu’il  n’est pas le seul, du reste, a qui Socrate    100    SOCRATE    alios multos, quos ille amoris simulatione  deceptos in potestatem suam redegerit ,  ou? oiito; s^aTCatojv w; IpaartT)?, Tuatoty.a piaXXov  autos -/.aOiaTa-ai avi’ epaotou. Nempe adu-  labantur vulgo amatores , certe qui turpe  quid spectarent , pueris aetatula sua et  illa ipsa adulatione superbientibus. Alia  ratio Socratica , quae etiam supra (§. 6)  in Lysidis argumento declarata est. Sua-  vissima sunt reliqua in Symposio Plato-  nis : eo autem referuntur omnia , ut in-  telligamus Socratis hanc fuisse consue-  tudinem . , pulchrorum amorem uti prae se  ferret , cum illis suaviter et amice ut  versaretur, ut virtutis illos amore im-  pleret , reliqua omnia non tanti esse os-  tenderet , in quibus valde sibi elaboran-  dum vir sapiens existimaret.    38. Sanctus ergo Paederasta Socrates ,  et foedissimi , si quod usquam est , crimi-    ET L AMOUR GREC 101   ait fait un tel affront; que pareille chose  est arrivee a Charmis, a Euthydeme et a  bien d’autres qu’il avait feint d’aimer  tendrement, pour mieux les asservir et  les diriger. Les amis vulgaires, ceux sur-  tout qui esperaient de honteuses com-  plaisances, se faisaient les flatteurs des  jeunes garcons, et ceux-ci n’en etaient  que plus fiers de leur beaute. Autre etait  la methode Socratique, comme nous l’a-  vons montre plus haut en exposant le  sujet du Lysis. Ce qui suit, dans le Ban-  quet de Platon, est charmant ; tout aboutit  a nous montrer que telle etait la coutume  de Socrate de rechercher les bonnes gra-  ces des jeunes gens que distinguait un  exteneur gracieux, et de vivre avec eux  dans une douce et agreable intimite, afin  de leur faire aimer la vertu; ce point  obtenu, il jugeait facile de leur donner  les autres qualites qu’un sage doit s'ap-  pliquer a acquerir.   38. Ainsi, Socrate n’avait pour la jeu-  nesse qu’un amour chaste ; il etait pur du    9 -    I 02    SOCRATE    nis expers : a quo etiam alios avocare  studuit , quod Critice exemplo docet  Xenophon, ejus, qui post in triginta  tyrannis fuit , quem Euthydemi pudori  insidiari cum sentiret , utxov ti Tiaay eiv  dixit, suillo more prurire, eaque re ini-  micitias hominis factiosi et potentis sibi  contraxit; quibus carere poterat , nisi  potius fuisset officium.    3g. Sed admonet me Xenophon de  crimine alterius illo quidem generis, et  multo, ut in malis, tolerabiliore : quod  tamen ipsum etiam in illo adhaerescere,  quantum in me est, non patiar. Accusa-  tur, ut naturalis quidem , sed malce ta-  men libidinis suasor et leno quidam,  propter ea quce referuntur in Xenophon-  tis Convivio (c. 7 et g). Sed nec ibi quid-  quam est, cujus bonum Socratem, aut  illius amicos pudere debeat. Spectacula  exhibentur convivis mirabilia , partim    ET LAMOUR GREC    io3    vice infame entre tous. Bien mieux, il  s’efiforcad’en detourner lesautres, comme  Xenophon nous 1’apprend par 1’exemple  de Critias. Ce disciple de Socrate, devenu  par la suite l'un des Trente tyrans, avait  voulu attenter a la pudeur d’Euthydeme ;  lorsque son ancien maitre Bapprit : II a  le prurit du porc{ i), s’ecria-t-il ; paroles  qui lui attir£rent 1’animosite d’un homme  puissant et redoutable, ce qu’il lui eut  ete facile d’eviter, s’il n’avait mieux aime  faire son devoir.   3g. Mais Xenophon me fait songer a  une autre accusation qui a ete egalement  portee contre Socrate ; quoique moins  grave, elle n’en est pas moins facheuse,  et je l’en disculperai de toutes mes forces.  On lui reproche, a 1’occasion d’un inci-  dent rapporte par Xenophon, dans son  Banquet , d’avoir excite ses disciples a la  debauche, ce qui serait pernicieux encore,   (i) Concupiscit ad Euthydemum se affricare  quemadmodum porcelli solent ad saxa (Xeno-  phon, Memorabilia).    1 04    SOCRATE    etiam periculosa , et horrorem quendam  spectantibus moventia , inter districtos  gladios corpora saltu jactantium , aut in  figuli rota circumacta scribentium le-  gentiumque. Non placent ea Socrati, qui  aptius convivio spectaculum putat ipyjln-  Gat r.poc, tov auXov T/rJijiaTa, Iv oi; Xapixe; ts  •/.a't Qpat, xa\ Niifxcpat ypstaovtai, ad tibiam  edi motus et saltationes, eo habitu, quo  Gratiae, Horae, Nymphae a pictoribus  exhibentur.    Forte suspectum alicui fuit hoc quod  Gratice nuda; pingi solent. Sed huic sus-  picioni repugnat , quod dicitur Ariadne  illa saltatrix w; vop-sr, xcy.ocju.rjU.svr,, sponsce  autem profecto apud Grcecos nudce esse    ET L AMOUR GREC 105   bien qu’i.1 s’agisse ici de plaisirs confor-  mes au vceu de la nature, et de s’etre fait,  en quelque sorte, entremetteur. II n’y a  rien, dans ce passage, dont doivent rougir  1’honnete Socrate et ses amis. Des mimes  viennent d’executer devant les convives  toutes sortes d’exercices extraordinaires,  quelques-uns tres-dangereux et propres  a donner le frisson aux spectateurs; on  a vu les uns presenter leurs poitrines, en  sautant, a des pointes d’epees rangees en  file ; d’autres lire ou ecrire enfermes dans  une roue de potier mise en mouvement.  Ces exercices deplaisent a Socrate ; il  pense qu’il serait plus convenable, au  milieu d’un festin, de voir des danseuses  executer des poses, au son de la Jlute,  sous le costume que les pcintres pretent  d’ ordinaire aux Graces, aux Heures et  aux Nymphes.   Cela a pu paraitre suspect parce qu’on  a coutume de representer les Graces  toutes nues. Mais ce soupcon ne repose  sur rien, car la danseuse qui parut  alors, habillee en nymphe, representait    SOCRATE    I Ob   non solebant : nymphae in insectis ab  eo ipso dicta?, quod involuta? sunt. Gra-  tias decenter vestitas contemplari licet  in Grcecis monimentis apud Montfauc.  Ant. Expl. To. i Tab. iog ad p. ij6.  Movit forte eum, qui primus crimen  hinc excerpsit Socrati, a/r^a-coiv appel-  latio, qua? inter alia ad turpes figu-  ras refertur , quales olim Philcenidis et  Elephantidis commendatas libellis fuisse  constat (i), ut hic ejusmodi impudens  spectaculum suspicaretur . Sed tum inter-  jecta de amore disputatio ( 2 ) (c. 8) tum  ipsa perfectio exsecutioque consilii (c.  g) suspicionem illam eximunt. Aguntur  Ariadnes et Bacchi nuptice,sed illa ut in  scenam nihil veniat, pra?ter oscula et   (1) De quibus Spanhem. de usu et Praest.  numism. Diss. i 3 . p. 522 . sq. Hic ay 7 jfi a est  omnis gestus saltantium blandus, minax, derisor.  Vid. Lucia. de Saltat, c. 18. T. 2 p. 278 in  primis c, 36 . extr.   (2) Apertior, simpliciorque , et incautior adeo  Xenophontis de his rebus oratio , quam Plato-  nica : sed cujus summa eodem pertineat, uti ab  impura libidine ad sanctam animorum conjunc-  tionem homines revocentur.    F.T L^AMOUR GREC IO7   Ariadne, et les Grecs ne permettaient  pas le nu dans les roles de femmes  mariees. D’ailleurs, certains insectes  imparfaits sont appeles nymphes pre-  cisement parce qu’ils sont enveloppes.  On peut voir aussi, dans YAntiquite' ex-  pliquee de Montfaucon, que les Grecs,  meme sur leurs monuments, figuraient  les Graces decemment vetues. Celui qui  le premier a lance contre Socrate cette  accusation s’est peut-etre effarouche du  mot pose, qui, entre autres, est applique  a des images obscenes, du genre de celles  qu’on rencontrait dans les livres de Phi-  laenis et d’Elephantis (i); il a soupfonne  Socrate d’avoir reclame un spectacle lu-  brique. Or, ladiscussion surTarnour qui  intervient alors ( 2 ), 1’execution et l’ache-   (1) Spanheim (De prostantia et usu numisma-  tum antiquorum) parle de tout cela. On appelait  poses toute esp6ce de geste lascif, provocant ou  railleur, des mimes. ('Comparez Lucien, De la  Danse, ch. XVIII.)   (2) Le dialogue de Xenophon est bien plus franc,  bien plus simple et bien moins circonspCct que celui  de Platon ; tous les deux d’ail!eurs vont au meme    io8    SOCRATE    amplexus , cetera reservantur postsce-  niis (i).    but, qui est de detourner les hommes des plaisirs les  plus impurs et de les rapprocher dans une sainte  communion des ames.    (r) Tales saltationes s. repraesentationes etiam  pars sacrorum erant. Apud Lucia. in Pseudom.  c. 38 . To. 2 p. 244 xsXsx7]'v xtva cuvtaxaxat  Alexander , xai SaStyta?, xat tepocpavxta; —  In his mysteriis et sacris etiam est KoptoviSo?  yapto; cum Apolline — item riooaXstpiOU xai  pLTjTpo; AXs^avSpou yauo; — denique SsXrJvr^  xai AXs^avBpou spto? — Alexander ut Endymion  alter xaOsuSwv exsixo sv xw piato — cptXrjtxaxa  xs eytyvovxo xat ~£pt~Xoxa\, st 8s ar t r. oXXat  iqaav at 8a8ss, xay’ av xt xat xwv utco xoXtcou  sjxpaxxsxo. Apposui locum , quia hic etiam  7t$pt7tXoxa'i, et tamen nihil obscenum.    ET l’aMOUR GREC IO9   vernent immediat du divertissement qu’il  avait demande, enlevent toute force a  cette conjecture. Les mimes representent  les noces d’Ariadne et de Bacchus : mais  on ne voit rien de plus sur la scene que  des baisers et des etreintes amoureuses ;  le reste se passe derriere le rideau (i).   ( 1 ) Ces sortes de danses et de reprdsentations  faisaient partie des Myst6res. Dans lM lexander seu  Pseudomantis, de Lucien, on voit Alexandre, in-  troduit comme nouvel initii, passer par les 6preuves  du dadouque et de l’hi<5rophante. Parmi les scenes  religieuses auxquelles cette initiation donne lieu  figurent : les noces d’Apollon et de Coronis, celles  de Podalirius et de la mere dAlexandre, enfin les  amours d’Alexandre et de la Lune. « Alexandre,  comme un autre Endymion, etait couchd au milieu  du theatre; on dchangeait des caresses et des bai-  sers. S’il n’y avait pas eu D des torches en quan-  tite, peut-etre bien qu’il se fut laiss6 entrainer a  faire qucedam earum quce sub veste Jieri solent. »  Cest un peu ldger ; cependant il n’y a rien la de bien  obscene.   — Gesner aurait du citer Lucien plus complete-  ment ; ce passage du Pseudomantis offre un tableau  de genre exquis : « Alexandre, comme un autre  Endymion, etait couche au milieu du thdatre, faisant  semblant de dormir. II tombait de la voute, comme du  ciel, une certaine Rutilia, tr£s-jolie, qui jouait le  role de la Lune et qui dtait la femme d’un intendant  de 1'einpereur. Elie aimait vraiment Alexandre et    10    I IO    SOCRATE    40 . Finem et effectum negotii ita indi-  cat Xenophon : teXo; 0 i ol <jup.7ioToci ’.oovte;  T:ept6e6Xr]xdT:a; ts aXXrjXou c xai oj; et; euvrjv    aTr-.ovTa:, 01 (j.r,v ayauoi yaixetv £zw[xvuaav, 01  oe ysyap-rixoTec, ava 6 xvc£; Ijci xou; ? 3 C 7 COUS, a-rj-  Xauvov Tipo; xa; lauxujv yuvaTxa;, otim; xojxojv  xuy otsv . Tandem post blanditias quasdam ,  verecundas, maritales, complexi se invi-  cem sponsus et sponsa , i. e. manibus  implexis, vel brachiis mutuo cervici im-  positis, vel tergo circumjectis , velut  cubitum discedunt : ab hoc spectaculo  incalescentes , et ut paullo ante dicebat,  av£7iTEpo)|jiivoi (vid. no. ad §. i5) convivae  caelibes dejerant, se ducturos esse uxo-  res ; mariti autem equis conscensis domos  festinant, ut simili voluptate et ipsi  fruantur. Utinam vero e spectaculis et  theatris hodie ita discederetur ! utinam  Socratis hac parte disciplinam sequeren-  tur publicarum Voluptatum Tribuni.  Talia spectacula edere debebant Romani    eu 6tait aimee. Sous les yeux de son propre mari,   iis echangeaient des caresses et des baisers »   (Note du Traducteur.)    ET L’AMOUR GREC    l I I    40. Xenophon indique de la maniere  suivante la fin et les resultats de l’his-  toire. Apres toutes sortes de caresses  honnetes et maritales, les deux epoux se  tenant embrasses, c’est-a-dire, je pense,  les mains entrelacees ou les bras pas-  ses mutuellement soit autour du cou,  soit autour de la taille, s’eloignerent  comme pour aller se coucher. Echauffes  par ce spectacle et se sentant de furieu-  ses demangeaisons, comme s’il leur pous-  sait des ailes , les convives encore celiba-  taires /irent le serment de ne pas tarder  a prendre femme ; les maris monthrent a  cheval et se haterent de regagner le lo-  gis, pour gouter d leur tour de sem-  blables voluptes. Plut au ciel qu’aujour-  d’hui on quittat les spectacles et les  theatres dans de si bonnes intentions !  plut au ciel que cette partie de la disci-  pline Socratique fut pratiquee par les  ediles preposes aux plaisirs publics ! Ce  sont de tels divertissements qu’auraient  du decreter les empereurs Romains, sou-  cieux d’exciter toutes les classes au ma-    I 1 2    SOCRATE    principes , cum de maritandis ordinibus ,  et sobole Romana augenda soliciti erant :  talia conveniebant nuper Lutetia ? et Gal-  lice adeo universae, quum Ducis Burgtin-  dice natalem nuptiis mille puellarum  celebrarent : talia magnam Britanniam ,  si quid veri habent quorundam qucerelce,  Swiftiance praesertim , quas eo loco protu-  lit , ubi de abrogando clero disputat : aut  eorum , qui hodie peregrinos invitandos ,  supplendi populi causa . et civitate donan-  dos , censent.    41. Nempe incidit aetas Socratis in ea  tempora, ubi civium paucitate laborabat  exhausta bellis Persicis et Peloponnesia-  cis Attica , cui etiam lege matrimoniali  obviam ire, et afferre remedium , conati  esse dicuntur. Debemus notitiam hujus  legis ipsi Socrati, quatenus nulla forte  illius mentio extaret hodie, nisi de dua-  bus Philosophi uxoribus jam olim dispu-  tatum esset. Res cum queestioni. de qua    et l’amour GREC 1 I 3   riage ct d’accroitre la posterite de Re-  mus : iis auraient convenu naguere a  la ville de Paris et a la France entiere  lorsqu’on feta la naissance du duc de  Bourgogne en mariant un millier de  jeunes falles; iis auraient bien fait Faf-  faire de la Grande-Bretagne, s'il y a  quelque chose de vrai dans ces plaintes  dont Swift surtout s’est fait l’e'cho et qui  reclamaient 1’abolition du celibat despre-  tres; iis conviendraient encore a ces  pays ou l’on attire les etrangers en leur  conferant les droits civiques pour sup-  pleer au petit nombre d'habitants.   41. Socrate vivait a une epoque ou  1 ’Attique, epuisee par les guerres des  Perses et du Peloponese, souffrait de ne  plus avoir qu'une population clair-se-  mee ; on dit menae que les Atheniens s’ef-  forcerent de remedier a cet etat de choses  par une nouvelle loi touchant lesmaria-  ges. Nousdevons 1’unique renseignement  que l’on ait sur cette loi a Socrate , car  il n’en subsisterait aujourd’hui aucune    IO.    >4    SOCRATE    agimus conjuncta sit , illam , quam brevi-  ter jieri potest , expediemus. Duas So-  crati uxores vulgo tribui videmus, Xan-  thippen e qua Lamproclem susceperit, et  Myrto , Sophronisci atque Menexeni  matrem. In hoc conveniunt Cyrillus  ( contra Julia. I. 6. p. 186, D) et Theo-  doretus (Grcecar. Affect. curat, ser. 6 p.  ij4, 40) ac Diogenes Laertius (2, 26).  Porro de Xanthippe Cyrillus ex Por-  phyrio, 7tspi7tXa-/.asav XaQstv, clanculum in  ipsius amplexus venisse ; quod plane  repugnat Platoni et Xenophonti, qui  nullius conjugis prceter Xanthippen , jus-  tam uxorem , mentionem faciunt : tum  Theodoreto, qui tamen ipse quoque sua  debere ait Porphyrio, sed non tantum  pro TCspiTt^axetaav XaOsTv habet 7:po<j-XaxeTcjav  Xa6sTv, induxisse priori uxori, ut pereat  illa secreti , et furti amatorii notio : sed  etiam addit, solitas esse eas mulieres in-  ter se depugnare, deinde pace facta con-  junctim impetum facere in Socratem  ideo , quod is bella illarum non dirime-  ret : hunc vero utrumque genus pugna: •    et l’amour GREC I I b   mention sans la controverse autrefois  agitee au sujet de ses deux femmes.  Comme cette question tient a notre su-  jet, nous la discuterons bridvement. On  donne communcment a Socrate deux  femmes : Xantippe, dont il eut un de ses  fils, Lamprocles, et Myrto, la mere de  Sophronisque et de Menexene. S. Cy-  rille, Theodoret et Diogene de Laerte  sont tous les trois d’accord la-dessus.  Mais S. Cyrille, empruntant ce detail a  Porphyre, dit de Xantippe que son ma-  riage avec Socrate fut clandestin, qu’elle  se cachait pour 1’embrasser, ce qui con-  tredit absolument Xenophon et Platon,  puisqu’ils ne parient d’aucune autre  femme que de Xantippe, epouse legitime  de Socrate. Theodoret, qui lui aussi dit  tenir de Porphyre ses renseignements,  change 7iepi7tXoaEiaav XaOsTv en npovnXxxsT-  aav XafleTv et declare ainsi que Socrate  introduisit Xantippe chez sa premi^re  femme, ce qui ruine toute cette histoire  de mariage secret, et de furtifs baisers ;  bien mieux, il ajoutc que ces deux me-    SOCRATE    1 16   cum risu speci are consuevisse. Utri fi  dem habebimus?    42. Sed nondum est finis discordia-  rum. Theodoretum si audimus , induxit  Xanthippen suce jam Myrto Socrates :  sed Laertius negat convenire inter auc-  tores , utram prius duxerit. Idem ait ,  simul ambas habuisse Socratem , a qui-  busdam esse traditum. In hac sententia  etiam fuit auctor Dialogi Halcyon , qui  inter primos Lucianeos editur , in cujus  fine Socrates dicat , se Halcyonis amo-  rem in maritum suis conjugibus Xan-  thippee et Myrto prcedicaturum esse.  Antiqua porro esse illa relatio memora-  tur Callisthenis , Demetri Phalerei , Sa-  tyri Peripatetici , Aristoxeni Musici ,    ET L’AMOUR GREC I I 7   geres se battaient continuellement, puis  la paix faite, tombaient a poings fermes  sur le pauvre Philosophe, en lui repro-  chant de ne les avoir pas separees: pour  lui, il restait simple spectateur du com-  bat et voyait donner ou recevait lui-  meme les coups en souriant. A qui faut-  il s’en rapporter, de S. Cyrille ou de  Theodoret?   42. Et nous ne sommes pas au bout  de la querelle. Dapres Theodoret, So-  crate epousa Xantippe, dtant deja marie  a Myrto; mais Diogene de Laerte af-  firme que les auteurs ne sont pas d’ac-  cord et qu’on ne sait qui des deux il  epousa la premiere. Il dit aussi qu’il les  eut toutes les deux ensemble, et sur  quelles autorites repose cette assertion.  Elie a ete accueillie par 1’auteur du dia-  logue intitule Alcyon, imprime en tete  de ceux de Lucien; on y voit Socrate  proposer en exemple a ses deux femmes,  Xantippe et Myrto, 1’amour d’Alcyon  pour son mari. Plutarque (Vie d’Aris-    ii8    SOCRATE    Hieronymi Rhodii, apud Plutarchum  (vita Aristid. extr.) qui ceteris narrandi  auctorem fuisse ait Aristotelem in libro  de nobilitate, (rapi s-jyevsia;) qui tamen  liber an sit Aristotelis, Plutarchus dubi-  tat : narrant autem ita, Aristidis neptim  Myrto, vidua cum esset et paupercula,  domum ductam a Socrate, eique cohabi-  tasse, licet aliam uxorem habenti .    43. At non licebat a Cecrope inde  Athenis plure s una habere uxores. Qui  sit igitur, ut neque Comici exprobrarint,  neque Accusatores objecerint digamian  Socrati ? Hic nobis narrant Athenaeus et  Laertius legem, latam supplenda 1 multi-  tudinis civium causa. Exstabat Athenceo  prodente ipsum decretum a Rhodio Hie-  ronymo conservatum, wax' si-eivat xai ouo    ET 1/aMOUR GREC I i q   tide) rapporte que cettc opinion etait  ancienne, et qu ; elle fut partagee par  Callisthene, Demetrius de Phalere, Sa-  tyrus le peripateticien, Aristoxene le  musicien et Hieronyme de Rhodes;  Athenee dit de son cote qu’ils Tavaient  tous puisee dans le Traite de la No-  blesse d Aristote, livre dont cependant  Plutarque doute qu’Aristote soit l’au-  teur. Tous racontent que- Myrto, pe-  tite-fille d Aristide, etant veuve et se  trouvant dans une extreme pauvrete, fut  recueillie par Socrate dans sa maison et  qu’il cohabita avec elle, quoiquhl fut  deja marie.   4 J - Les vieilles lois de Cecrops inter-  disaient cependant a Athenes les doubles  unions. Pourquoi donc ni les poetes co-  miques, ni les accusateurs de Socrate ne  lui ont-ils reproche ou oppose ce cas de  bigamie ? Cest a ce propos qu’A.thenee et  Diogene de Laerte nous parient de cette  loi nouvelle_, edictee, disent-ils, dans le  but d’accroitre le nombre des citoyens.    120    SOCRATE    'systv yuvatxa; tov [3o'jaojj.£vov. Secundum haec  male accusaretur Socrates, qui et legi  paruerit de augenda sobole Attica , et  Aristidis progeniem viduitate et pauper-  tate extrema liberaverit.    V    44. Verum enim vero totum hoc de  duabus Socratis uxoribus , quin de lege  maritali etiam falsum esse , prcesertim  ex dissensu commemorato , itemque ex  Platonis et Xenophontis silentio arguit  Bentleius (1). Et habet , quantum est de  monogamia Socratis, magnum auctorem  Pancetium, quem laudat Plutarchus, qui  cum retulisset eam quce modo proposita  est de Myrto narrationem, satis illam  refutatam ait a Panaetio : cujus si opus  hodie extaret, facilior forte hodie esset  causa Socratis, quem tamen a turpi pue-   (/) In Dissertat, de Phalaridis et exteror.  Epistolis, § / 3 , p. /06 5 9 9.    ET l’aMOUR GREC 12 1   Athenee s’avance jusqida dire qu’il y  avait un decret, conserve par Hieronyme  de Rhodes, et ainsi concu : « 11 est per-  mis d’avoir jusqua deux femmes. » Si  cela est vrai, on accuserait mal a propos  Socrate, qui n’aurait fait qu’obeir a la  loi portee en vue de repeupler 1’Attique,  et qui de plus aurait sauve du veuvage  et de la mis&re la petite-fille d’Aristide.   44. Mais vraiment Phistoire des deux  femmes, tout aussi bien que celle  de la loi matrimoniale, paraissent en-  tachees de faussete a Bentley (1); il se  fonde surtout sur le desaccord que nous  avons signale et tire une grande preuve  du silence de Platon et de Xenophon.  Nous avons, pour ce qui est de la mono-  gamie de Socrate, une excellente auto-  rite, Pantetius, dont Plutarque fait le  plus bel eloge; apres avoir rapporte ce  que nous avons dit de Myrto, il ajoute  que cettefable a ete suffisamment refutee   ( 1 ) Dissertation sur les Epitres de Phalaris ,  Themistocle, Sacrale et Euripide (1697, iu-8").    I 22    SOCRATE    rorum amore, et a lenocinio turpi , et a  libidinosa digamia, vel sic satis libera-  tum esse confido.     123    ET L AMOUR GREC    par Panaetius. Si nous possedions son  livre, la cause de Socrate serait aujour-  d’hui plus facile a defendre; je pense  cependant avoir prouve qu’il ne fut ni  un corrupteur de la jeunesse, ni un  provocateur a la debauche, ni un bi-  game libertin.     TABLE DES MATIERES    Alcibiade; ses avances  repouss^es par Socrate,  p. 97-99.   Ame, comparde par Pla-  ton a un attelage ai!6,  p. 29, 47-65 ; — clas-  sification des ames  suivant le degrd de  connaissances acquises  avant la vie, p. 3 1 - 3 5 .   Amour philosophique,  p. 35 , 43; — raisons  qui dirigent les choix  dans cette sorte d’a-  mour, p. 45-47; — les  impuretes ou il peut  s’egarer, p. 69.   Analyse du Lysis, dialo-  gue de Platon, p. 21;  — du Phedre, p. 23 -  29; — du Banquet,  p. 95 et suiv.   Beaute morale et Beaute  physique, p. 39-41.   Bigamie; Socrate eut-il  deux femmes? p. 1 1 3  et suiv.; — la bigamie  etait-elle autorisde en  Grece ? p. 1 19.   Cohorte sacree des  amants, a Thebes et  en Crete, p. 83 .   Inspires; couples d’amis,  p. 85 - 87 -   Minies ; leurs exercices et  poses plastiques, p. io 5 .   riaiospaatsta, le mot  et la chose pouvaient  etre pris en bonne part,    chez les Grecs, p. 89.   Peines portees par les  Grecs contre les infa-  mes, p. 75.   Pronostics tirds par les  physionomistes de la  voix forte et grave, p.  5 1 ; — de lencolure  courte, p. 55 ; — des  oreilles velues, p. 57 ;   — des grosses levres,  p. 5 q; — du nez ca-  mard, p. 59; — des  yeux saillants, p. 61.   Representations mytho-  logiques et divertisse-  ments dans les festius,  p. 105-109 ; — dans les  mysteres, p. 109 (note);   — effets singuliers pro-  duits parfois sur les  convives par ces re-  pr^sentations, p. m.   Socrate; motifs ordi-  naires des accusations  portees contre lui, p.  1 5 — 1 7 ; — pourquoi il  recherchait les beaux  garcons, p. 43 ; — son  portrait physique, p.  49 et suiv.   Socrate l’ Ecclesiasti-  que ; comment il a ac-  cuse, sans preuves, So-  crate le Philosophe, p. 9.   Sparte ; coutume rappor-  t6e par Elien, p. 85 ; —  les amours impures y  etaient ignorees, p. 8.7.    Paris. — Imp. Motteroz, 3 i, rue du Dragon. Gabriele Giannantoni. Giannantoni. Keywords: la dialettica, dialettica, Epicuro a Roma, Calogero, il principio dialogo, Lucrezio, Cicerone. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giannantoni” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758022139/in/dateposted-public/

 

Grice e Giannetti – corpuscolarismo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Albiano di Magra). Filosofo. Grice: “I like Giannetti; for one, he is the only philosopher I know whose first name is ‘Pascasio.’ He taught at Pisa, but not in the tower – Oddly, while he is from Tuscany, there is a street (‘via’) in La Spezia named after him!” – Grice: “His logic was considered heretic, at least by the duke, who diligently expelled him from any obligation of teaching!” – Insegna a Pisa. Quando lascio la cattedra,  gli successe Grandi. Di formazione galileiana, fu un acceso nemico dei Gesuiti. Sollecitato da Grandi, che lo aveva anche introdotto a Newton, cura Galilei (Firenze). Rimosso da Pisa da Cosimo III de' Medici, vi fece rientro alla morte di quest'ultimo.  NC. Preti, Dizionario Biografico degli Italiani, Memorie storiche d'illustri scrittori e di uomini insigni dell'antica e moderna Lunigiana, Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 54, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  PASCASIO GIANNETTI Essendo Pascasio Giannetti tra'maestri più singolari di filosofia e di medicina dell' Universi tàdiPisa,quantoonoreaquelloStudio recasse non si può dire. Costui ebbea quelle scienze pro clive natura, e tanta forza e vivacità d'ingegno > che a sermonare e discorrere di materie mediche efilosofichepareanatoaposta.Fu e'diAlbiano di Lunigiana, e divenne lettore in detta Univer sità nel 1682 ; e così bene in cattedra sue dottri ne tratto, che per lo più savio discepolo del M a r chetti e del Bellini, cattedranti nobilissimi, tutti lo conoscevano. Nulla ignoto eragli di quanto G a   lileo e Gassendo aveansi ritrovato, e sostenitore acerrimo fu della filosofia corpusculare. Per ques stoguerra eterna pareva intimata avesse a tutti li Peripatetici e Scolastici ostinati; che ligii si di chiaravano agli antichi sistemi, quali adesso ricor dansi appenanelle scu ole de'monasteri. Per lo che il Giannetti futenuto per uno de'più arditi e co raggiosisostenitori degli insegnamenti novelli e assai molesto riuscì a'superstiziosifilosofanti, ma in particolar modo ai Gesuiti i quali, potendo al loramoltissimopressoCosmo IIIde'Medici,fece ro in grave sospetto cadere di errori di religione il Giannetti non solo, ma quasi tutta la Pisana Università. Per tale cagione , sendo state forti let tere scritte e minaccevoli ai professori con ordi nare,chenon volevasifilosofiademocratica,ilGian netti, cui sapea benissimo delle persecuzioni altrui schermirsi e rintuzzare le dicerie degli imperiti con la dotta e mordace sua lingua, difese con trion fo la causa per iscrittura,nè mai digua proposta sentenza cesso. Finalmente costretto nel 1706 di mutarcattedraedileggeremedicina,non ostan te filosofava su i nuovi sistemi anche interpretan do gliaforismid'Ippocrate e di Galeno,e men tre con eloquio squisito e con pompa di erudizio ne le materie mediche spiegavà,senza punto de nigrare alla gravità della scienza e del loco ; l' al trui cabale e leggerezze con vaghi scherzi e argu ti motti derideva. Moltissimo ancora si adoperò in fisiciani sperimenti e nelle savie cure di Michela gnolo Tilli per ogni maniera di lode famoso : nè mezzanamente sidistinse insieme con lo Zambes cari di Pontremoli suo collega a sperienze fare nti lissime su le terme del territorio Pisano e Luriena se,che servirono ad ambeduni di grande merito. Intra le altre fece minute prove su l'acqua salsa di Monzone di Lunigiana, e trovolla più efficace di quella del Tettuccio di Valdi Nievole, e poteró  183   Viri Paschasii Giannelli Albianeusis Philosoph. et Medicin, in Pisau. Acudem . Professoris logeniiacumine eloquen.et ingenua philosoph. libert. Quam difficillimis temporib, fere solus inter Acadlem. retinuit ConcesseratAun.S. MDCCXXXXII. Thomas Perelliuspraecept.et Amico DI PIER CARLO VASOLI Io non posso tacere di aver molte cose rica vato diquesto librodalle fạtiche e dagli scritti di questo Pier Carlo Vasoli di Fivizzano, il quale sembra avesse in mente d'illustrare sua patria , e però non deggio scordarmi di retribuirlo di grata inemoria, tanto più che molto distinto riuscì nel la medicina e buon coltivatore della poesia. Q u e stouomoerudito,comeraccontaincertosuoEr bariolo Lunense m . s., avendo studiato prima a Bolognae poiaPisaallascuoladelcelebreMar cello Malpighi, dove si dottorò verso la fine del  184 si estrarre il sale catartico a guisa di quel d' In ghilterra , se non venisse incautamente adulterata. Benespesso Pascasio dilettavasi d'investigare le azioni è i consigři degli uomini più che i segreti dellanatura,equasi Epicuro con aspreparoleab batteva i vizi ele inezie altrui. Mente profonda mostrò in tutto, ma poca industria: e vivendosi fino alla vecchiezza, dopo 57 anni di lettura in quella Università, nel 1742 morì in una villetta che avea a Capannoli su quel di Pisa, e sepolto nellachiesadiquellaterra,fugliperTommaso Pe relli suo scolare messo questo marmo sopra il se polcro, riferito ancora da inonsignor Fabroni in sua stor. dell'Univ. Pis. tom . 3. dove parla del Giannetti: = Pijs Manibus et Memoriae aeternae Cum paucisaetatis suae comparandi Obiit Octuagenario major in proxima Villula In quam post impetratam a docendo vacationem D. S. O. M. P.  GIANNETTI, Pascasio. - Nacque, da Polidoro, ad Albiano Magra di Aulla in Lunigiana, il 2 ag. 1661.  Avviato agli studi filosofici, li coltivò, insieme con quelli medici, presso l'Università di Pisa, dove era ben viva la tradizione galileiana e, in fisica e in medicina, era ben rappresentata la corrente meccanico-corpuscolarista. Fu il gruppo di docenti formatisi alla scuola di G.A. Borelli a istradarlo verso questa tradizione concettuale; soprattutto A. Marchetti, L. Bellini e D. Zerilli lo introdussero allo studio delle opere, oltre che di Galilei, di Gassendi e del Borelli. Parallelamente, il G. attinse da G. Del Papa gli stimoli di un diverso indirizzo, anch'esso presente nell'ateneo pisano, teso a far convivere, soprattutto in campo medico, il galileismo con esigenze di ordine pratico.  Laureatosi il 30 maggio 1682 in filosofia e medicina (promotore fu il Del Papa), il G. ottenne nello stesso anno la lettura di logica, che conservò fino al 1686, per passare poi a quella di filosofia naturale. Il suo magistero, argutamente antiaristotelico e apertamente atomistico, dovette risultare piuttosto efficace. Quando, verso il 1690, si delineò una reazione generale della Chiesa contro quelle interpretazioni dello sperimentalismo considerate arbitrarie e potenzialmente eversive dell'ortodossia religiosa, a causa dei possibili esiti materialistico-libertini, il G. fu direttamente coinvolto. Nell'ottobre 1691, insieme con altri sei lettori pisani, si vide intimare dall'auditore F.M. Sergrifi di non insegnare la filosofia atomistica. Per nulla intimidito, a detta di A. Fabroni, il G. alimentò le polemiche che seguirono con un libello, oggi perduto, in difesa dei lettori ammoniti. Poca sorpresa dovette quindi destare tra i contemporanei il provvedimento, preso dal governo di Cosimo III nel 1706, di trasferire il G. alla lettura di medicina teorica, mitigato dal permesso di tenere lezioni domiciliari di filosofia.  Come lettore di questa disciplina medica, il G. mostrò di voler tenere aperti spiragli per un discorso "moderno". Lesse gli Aforismid'Ippocrate, proclamandosi così seguace dell'indirizzo che privilegiava la pratica clinica sulle questioni di teoria medica, ma nel commentarli continuò a seguire i novatori.  In particolare, a quanto sembra, già in questa fase i motivi galileiano-gassendiani si erano venuti in lui incrociando con motivi della dottrina newtoniana. Da questa aveva recepito la tesi della struttura porosa della materia, che, attraverso l'ipotesi dei diversi ordini di combinazione dei corpuscoli, è assunta come matrice delle qualità macroscopiche dei corpi. È probabile che una delle fonti attraverso le quali il G. venne a conoscenza della teoria newtoniana sia stata il padre camaldolese G. Grandi, suo buon amico (Ortes ci riferisce che il Grandi "solea frequentemente conversare" nella casa del G.), ma, a differenza del Grandi, il G. non dovette essere pienamente in grado di coglierne l'impalcatura matematica, tanto da ritenerla conciliabile con la distinzione gassendiana tra punto matematico e punto fisico.  All'inizio del secondo decennio del XVIII secolo il G., insieme con B. Bresciani, G. Averani e altri, fu coinvolto dal Grandi nella preparazione della seconda edizione delle Opere di Galilei (Firenze 1718). Più tardi, alla metà degli anni Venti, il suo nome venne fatto in alternativa a quello del Grandi quale autore di un libretto pseudonimo (Q. Lucii Alphei Diacrisis in secundam editionem Philosophiae novo-antiquae r.p. Thomae Cevae cum notis Ianii Valerii Pansii, Augustoduni 1724), che segnò una nuova occasione di scontro tra i novatori pisani e i gesuiti del collegio di Firenze.  Il libretto, nato come replica alla prefazione del gesuita M. Dalla Briga al poemetto Philosophia nova-antiqua (Florentiae 1723), del confratello T. Ceva, fornisce una descrizione caricaturale delle forme di opposizione allo sperimentalismo che, a detta dell'autore, circolavano nel collegio fiorentino.  Non è chiaro se sia da collegarsi a questa polemica il basso profilo assunto dal G. nel quarto decennio del secolo. La relazione sullo stato dello Studio che G. Cerati presentò ai nuovi governanti nel maggio 1738, ci informa che "già da alcuni anni" il G., pur retribuito, aveva interrotto le lezioni pubbliche e si limitava a dare privatamente lezioni di filosofia. Il Cerati attribuiva ciò a non meglio precisate "indisposizioni del corpo", ma l'Ortes attesta che il G. godette per tutta la vita di ottima salute. Priva di riscontri è la notizia di una sua adesione alla loggia massonica fondata a Firenze nel 1733, loggia che però sicuramente accolse un buon numero di suoi allievi.  Il G. morì a Capannoli, presso Pisa, il 28 giugno 1742.  Quelle che sembrano essere le sue uniche opere a noi giunte si trovano a Firenze, Bibl. Riccardiana, ms. 3098 (Tractatus phisici iuxta recentiorum opinionem conscripti a Paschasio Giannetto) e a Pisa, Bibl. universitaria, ms. 177 (Philosophiae tractatus, datato 1714).  Fonti e Bibl.: Per la collaborazione del G. all'edizione fiorentina del 1718 delle Opere del Galilei vedi le lettere di T. Buonaventuri a G. Grandi, Pisa, Bibl. universitaria, Carteggio Grandi, 85, passim; sei lettere del G. al Grandi e alcune note di argomento fisico ibid., 92, cc. 19r-28v; Acta graduum Academiae Pisanae, II, a cura di G. Volpi, Pisa 1979, p. 549; G. Ortes, Vita del padre Guido Grandi, Venezia 1744, pp. 111-113, 133, 157; G.A. De Soria, Raccolta di opere inedite, Livorno 1773, pp. 190-192; A. Fabroni, Historiae Academiae Pisanae, III, Pisis 1795, pp. 410-413; F. Sbigoli, Tommaso Crudeli e i primi framassoni in Firenze, Milano 1884, p. 71; N. Carranza, Monsignor Gaspare Cerati provveditore dell'Università di Pisa nel Settecento delle riforme, Pisa 1974, pp. 85, 338, 362; Storia dell'Università di Pisa, Pisa 1993, pp. 143, 153 s., 520; M.A. Morelli, Per una storia di Andrea Bonducci, Roma 1996, pp. 14 s., 166 s., 230; Id., A Livorno nel Settecento, Livorno 1997, pp. 23, 62, 79.Pascasio Giannetti. Gianetti. Keywords: corpuscolarismo, implicature corpuscolare, Isaaco Newton, Galilei, Grandi, Giannetti -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giannetti: implicatura corpuscolare – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757992274/in/dateposted-public/

 

Giannetta search – another time?

 

Grice e Giannone – la terza Roma – e l’implicatura ligure – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ischitella). Filosofo. Grice: “Giannone is an interesting philosopher. He philosophised on the ‘citta terrena,’ which is a back-fromation from ‘celestial city,’ and by which he meant Rome! – Then he compared men – in their collectivity, to apes, even if ingenious ones!”  “Non solo i corpi, ma, quel che è più, anche le anime, i cuori e gli spiriti de' sudditi si sottoposero a' suoi piedi e strinse fra ceppi e catene.” Esponente di spicco dell'Illuinismo italiano, discendente da una famiglia di avvocati (anche se il padre era uno speziale), lasciò il paese natale per intraprendere gli studi a Napoli. Si laurea entrando ben presto in contatto con filosofi vicini a Vico. Fu praticante presso Argento, che disponeva di una vasta biblioteca, la frequentazione della quale fu essenziale per la sua formazione.  I suoi interessi non si limitarono soltanto al diritto ed alla filosofia, appassionandosi anche agli studi storici e dedicandosi alla stesura della sua opera storica più conosciuta Dell'istoria civile del regno di Napoli, che gli causò tuttavia numerosi problemi con la Chiesa per il suo contenuto.  Costretto a riparare a Vienna, ottenne protezione e sovvenzioni da Carlo VI, il che gli permise di proseguire indisturbato i suoi studi filosofici.  Il suo tentativo di rientrare in patria fu ostacolato dalla Chiesa, nonostante i buoni uffici dell'arcivescovo di Napoli recatosi a Vienna per convincerlo a tornare a Napoli. Fu costretto a trasferirsi a Venezia dove, apprezzatissimo dall'ambiente culturale della città, rifiutò sia la cattedra a Padova, sia un posto di consulente giuridico presso la Serenissima. Il governo della Repubblica lo espulse, dopo averlo sottoposto a stretti controlli spionistici, per questioni inerenti alle sue idee sul diritto marittimo e nonostante la sua autodifesa con il trattato Lettera intorno al dominio del Mare Adriatico.  Dopo aver vagato per l'Italia (Ferrara, Modena, Milano e Torino), giunse a Ginevra, dove compose un altro lavoro dal forte sapore anticlericale “Il Triregno: il regno terreno, il regno celeste, e il regno papale, che gli costò nuovamente la persecuzione delle alte sfere ecclesiastiche culminate con la sua cattura in un villaggio della Savoia, ove fu attirato con un tranello.  Rimasto nelle prigioni sabaude, fu costretto a firmare un atto di abiura che non gli valse tuttavia la libertà. Fu tenuto prigioniero nella fortezza di Ceva, dove scrisse alcuni dei suoi componimenti più famosi. Trasferito alla prigione del mastio della Cittadella di Torino. +“Dell'istoria civile del regno di Napoli” ebbe enorme fortuna mentre la Chiesa ne avversò le tesi ponendola all'Indice dei libri proibiti, comminando al filosofo una scomunica la quale obbligava Giannone a riparare all'estero. I temi trattati nell'Istoria, sviluppati su precisi riferimenti giuridici, forniscono una lucida descrizione dello stato di degrado civile del Regno di Napoli, attribuendone le cause all'influenza preponderante della Curia romana. Auspica in primis con quest'opera, «il rischiaramento delle nostre leggi patrie e dei nostri propri istituti e costumi».  Nel Triregno, opera aspramente avversata anch'essa dagli ambienti ecclesiastici, presenta la religione secondo un prospetto evolutivo: la Chiesa, col suo "regno papale", si contrappone al "regno terreno" degli Ebrei ma anche a quello "celeste" idealizzato dal Cristianesimo e il superamento del male, che lo Stato Pontificio così incarna, si realizzerà soltanto attraverso un cambiamento di rotta deciso, mediante ulteriore consapevolezza individuale raggiunta dall'uomo nel corso della sua vicenda Storica. Indi teorizza uno Stato laico capace di sottomettere l'istituzione papale, anche mediante un'espropriazione dei beni materiali del clero. La Chiesa porta avanti una forma di negazione di quella libertà individuale che deve essere posta come fondamento giuridico e sociale. Al filosofo sono intestati vari istituti scolastici, tra cui lo storico Liceo classico Pietro Giannone di Caserta, quello di Benevento, quello di Foggia, e quello di San Marco in Lamis.  Nel Capitolo settimo della Storia della colonna infame, Manzoni dedica al Giannone ampio spazio elencandone i numerosissimi plagi e gli errori che anche Voltaire gli rimprovera. Inizia paragonandolo a Muratori e indicandolo come "scrittore più rinomato di lui", poi aggiunge un lungo elenco (e raffronto) delle opere plagiate e degli autori, tra cui Nani, Sarpi, Parrino, Bufferio, Costanzo e Summonte: "...e chissà quali altri furti non osservati di costui potrebbe scoprire chi ne facesse ricerca". E conclude che se non si sa se fosse "pigrizia o sterilità di mente", fu certo "raro il coraggio".  Altre opera: Autobiografia: i suoi tempi, la sua prigionia, appendici, note e documenti inediti, Augusto Pierantoni, Roma, E. Perino, I discorsi storici sopra gli Annali di Tito Livio, Apologia dei teologi scolastici Istoria del pontificato di Gregorio Magno, “L'Ape ingegnosa” “Istoria civile del Regno di Napoli. 1, Napoli, Giovanni Gravier); Pietro Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli. 2, Napoli, Giovanni Gravier, Pietro Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli. 3, Napoli, Giovanni Gravier, Pietro Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli. 4, Napoli, Giovanni Gravier, Pietro Giannone, Istoria civile del Regno di Napoli. 5, Napoli, Giovanni Gravier,  aprile. Note  Pietro Giannone, Istoria civile del regno di Napoli, Capolago, Tipografia Elvetica,   l  Ibidem, note da 80 a 89  Fausto Nicolini, La fortuna di Pietro Giannone: ricerche bibliografiche, Bari, Laterza, Marini, Il giannonismo (Bari, Laterza). Vigezzi, PGiannone riformatore e storico. Milano, Feltrinelli, 1Giannoniana: autografi, manoscritti e documenti della fortuna di Giannone, Sergio Bertelli, Milano-Napoli, Ricciardi, Giuseppe Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di Giannone., Milano-Napoli, Ricciardi, Mannarino, Le mille favole degli antichi. Ebraismo e cultura europea nel pensiero religioso di Giannone, Firenze, Le Lettere, Giuseppe Ricuperati, La città terrena di Pietro Giannone: un itinerario tra crisi della coscienza europea e illuminismo radicale, Firenze, Olschki, TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Vita scritta da lui medesimo, Feltrinelli, testo in versione digitale della Biblioteca Italiana, 2003.//filosofico.net/giannone.htm.  De'Liguri duri e forti:loro estensioneinItalia;e come sopra tutti gli altri popoli tenesseró esercitati i Romani nella disciplinamilitare,sicchèfosserogliultimiad essersog. giogati. Livio in più occasioni parlando de'liguri,confessa che niuna provincia esercitò cotanto i romani nella virtù e disciplina m i litare, quanto la Liguria, poichè dura nelle armi , bellicosa amica di fatiche e di travagli, e di riposo impazienle , nelle sueguerrenon tostoerada’romanivintachesorgevapiùani mosaefortediprima:ishostis,velutnatus ad continendam inter magnorum intervalla bellorum romanis militarem discipli nam , erat : nec alia provincia militem magis ad virtutem acue bat(1).Nonabitavanoiliguri(eciòanche contribuivaalla loro bellicosa indole) in luoghi piani ed ameni e sotto tempe r a t o e m o l l e c l i m a , il q u a l e a v e s s e p o t u t o r e n d e r e s i m i l i a s è gli abitatori ; m a all'incontro occupando essi quella occidental parte d'Italiache ha per confine laGalliaNarbonense,vivendo in regioni montuose aspre ed inaccessibili, e per le angustie delle vie acconce a tendere aguali ed insidie; non temevano di numerosi eserciti, nè d'istromenti bellici , nè di macchine o d'altri apparati militari, difendendoli il suolo e l'arduità de'loro siti.E perciò essi militavano senza molto apparecchio mi cidiale:nihil,dice Livio,præter arma etviros,omnem spem inarmis habentes,erat, Gli antichi liguri erano divisi di qua e di là delle alpi e d e l l ' a p p e n n i n o in m o l t i p o p o l i o s i e n o c o m u n i t à , n o n a l t r i m e n t i di ciòche si èdeltodegli antichi etruschi, ed occupavano va stissime regioni. Le alpimarittime e gran parte delle medi terraneeeranodaessipopolate.Dilà dellealpiipiù celebri furono i liguri salii, i deceali e gli oxibi ; di qua furono i vedianzi,ivagienni,glistatielli,imagelli,gli eburiati, (1)Dec. IV,lib.9,inprinc.  265 >   266 i veliati , i tigulii, gl'ingauni , i salassi , i libici, i lau riniedaltri.Livio,oltrequestipopolida Pliniorapportati fa menzione di altri liguri posti di qua dell'appennino chia mati Apuani, i quali vinsero i romani e debellarono un eser cito consolare sotto Q. Marzin console , e nota che il luogo della sconfitta fino a'suoi tempi chiamavasi perciò il campo Marziano:famemoriaancora dialtriliguridilàdell'appen nino ch'egli chiama ligurifrisinati. Questi popoli aveano più città o vichi, dove dimoravano ciascuno nel proprio distretto ; e fra le città son da considerarsi alcune antiche ed illustri le quali, secondo la divisione dell'Italia fatta poi da Augusto in undici regioni, formavan parte della XI. Nella Liguria rivoltaal mare inferiorediquà delfiume Varo, che divide l'Italia dalla Gallia Narbonense , la prima città marit timaches'incontravaerade'ligurivedianzi chiamata Cime lion. Prossima a questa i massiliesi edificarono Nicea , oggi detta Nizza, alle radici delle alpi marittime, non lontana dalle foci del fiume Varo, che poi crebbe dalle ruine di Cimelio , cittàantichissima,la quale ebbe vescovi prima che da Costan tino Magno fosse stata la religione cristiana fatta ricevere nel l'imperio. Rimangono ancora le vestigia de'suoi ruderi ed il nome di Cimelio: l'anticasua cattedra fu unita a quella di Nicea, la quale non si appartiene già al la Gallia Narbonense , siccomealcunicredeltero,ma secondoPlinio,Tolomeoedaltri geografi antichi, alla nostra Italia, c o m e quella che è costrutta di qua del fiume Varo.Antipoli fondata pure da'massiliesi si appartienealla GalliaNarbonense,perchèerettadilàdelfiume: essa lungo tempo fu sotto i massiliesi loro fondatori, ed ora sotto ire di Francia è chiamata Antibo. Appresso Nicea nel mar li gustico siegue Monaco detta dagli antichi Porto di Ercole, indi AlbioInlemelio,Albingauno,Savona,Genua,Porto Delfino Tigulia, e più in dentro Segesta città de'liguri tigulii. Chiude questo confine il fiume Macra che da questa parte divide la Liguria dall'Etruria.  9 > > ? Dall'altra parte mediterranea ove si erge l'appennino ,ampio monte il quale con gioghi perpetui e continuali fino allo stretto Siciliano divide l'Italia per mezzo , avevano i liguri di qua e di l à d e l m o n t e m e d e s i m o 'n o b i l i s s i m e c i t t à ; e s p e c i a l m e n t e d a u n >   lalo del Po Libarna , Dertona , Iria , Barderate , Industria , Polentia, Potentia, Valentia,ed Augusta de'liguri vagienni. Quest'ultima città posta alle radici delle Alpi Cozie , non molto lontana dal monte Vesulo d'onde ilPo ha sua origine, fu dappoi resa colonia de'romani. Non ci rimane ora di essa alcun ve stigio, ma insua vece surse al luogo stesso ne'secoli da noi men lontani la città di Saluzzo sede un tempo di principi e capo del famoso 'marchesato di Saluzzo , la quale in fine da GiulioImeritòesserdecoratadelladignitàepiscopale.Ma sopra queste s'innalzarono nella Liguria tre città non meno antiche che illustri,Alba Pompeia,Asta,ed Aqui cittàde'liguristatielli. Alba posta nella Liguria montuosa presso l'Appennino nellarivadelfiume Tanarofudagliantichigeografichiamata Pompeia, e per distinguerla da Alba degli Elvii posta nella Gallia Narbonense, e per aver quella G. Pompeo rifatta e la sciati ivi vestigi di sua memoria e beneficenza. Ebbe vescovi antichissimi,poichè rapportasi ilprimo tra questi essere stato nell'anno 350 S. Dionigi discepolo di S. Eusebio, poi innal zato alla cattedra di Milano. E ne'secoli men remoti vi se dettero due uomini insigni che laillustrarono, uno per la pru denza civile,e fu Lazarino Fieschi de'Conti di Lavagna , al quale la regina di Napoli Giovanna contessa di Provenza nel 1350 commiseilgovernodelPiemonte,daluiquindiammi nistratoconsomma lodeecommendazione;l'altropersapienza é somma dottrina ed erudizione, qual fu il famoso Girolamo Vida,quelchiarissimopoetalatinochecilasciò l'incompara bilesuaCristeideedisuoidottidialoghiDe Republica. Acqui posta alla riva della Bormida in quella parte del Piemonte di là del Tanaro ,la quale Monferrato oggi si ap pella, fa edificatada’liguri statielli popoli potentissimi della  267 > Asla posta nella Liguria mediterranea non lontana dal Tanaro furesacoloniade'romani,edun tempofuseded’unodeglian tichi duchi longobardi. Ebbe anch'essa antichissimi vescovi,i quali quando l'imperio di Occidente passò a'germani , furono dagli imperatori molto favoriti ed a sommi onori innalzati; e non poco splendore recò a quella città aver seduto nella sua cat tedra vescovileilfamoso Panigarola,chiaroalmondo eloquenza e per tanti monumenti che lasciò di sua dottrina. > per lasua   montuosa Liguria. Fu detta Acqui dalle acque calde che quivi scaturiscono assai salutifere , siccome oltre la testimonianza diPlinio,l'istessaesperienza dimostra:efuchiamataAcqui de'liguri statielli, per distinguerla dalla Acqui sestia de' Salii posta nella provincia Narbonense . Fu anche sede di uno de'Duchi longobardi; ma la sua cattedra non è cotanto an tica quanto le due precedenti come quella che prende sua ori gine da'longobardi che furonoi primi ad erigerla. I liguri si stendevano anche di là del Po , é molte città le qualisecondoladivisioned'ItaliafattadaAugusto sono col locate nella XI regione alle radici delle Alpi , anche da'liguri traggon l'origine. Le prime che s'incontrano sono Vibiforo e Secusia, oggi detta Susa , le quali furon poi mutate in due colonie romane.Anche Torino Plinio fa derivare dall'antica stirpede’liguri;antiquaLigurum stirpe,egliscrisse(1)edisse il vero, poichè coloro che la fan derivare da'massiliesi , sica come Nicea ed Antipoli, vengono a togliere a questa città molto della sua antichità. Non è dubbio che i liguri sieno popoli d'Italiatantoantichi,chediessinon sisal'origine,onde sicredono indigeni del paese, nè mischiati con altrefore stiere nazioni , non altrimenti che Tacito credette de' ger mani : all'incontro de'massiliesi si sa l'origine ed il tempo nel quale profughi dalla Focide navigando nel mare inferiore e cercando nuove sedi,si fermarorro ne'lidi della Gallia Nar bonense innanzi detta Bracata. Ciò avvenne , secondo la te stimonianza di Livio (2), mentre in Roma regnava Tarquinio Prisco,quando laprima voltaigallipassaronoleAlpi,iquali dopo aver soccorso i massiliesi contro i salii che impedivano loro lo sbarco, se ne calaron pe' monti Taurini dalle Alpi Giulie nell'Insubria , discacciandone gli etruschi. Livio stesso ri ferisce che a'medesimi tempi i salluvii avendo passate le Alpi , si posarono intorno al fiume Ticino vicino a ’ liguri levi , anticagenteed indigenadique'luoghi.Salluvii, e'dice,qui, præter antiquam gentem Levos ligures, incolentes citra Ticinum amnem , expulere. Se dunque i liguri, chiamati da Livio gente antiea, quando i massiliesi poser piede nella Gallia Narbo (1)Lib.III,cap.17. (2 ) D e c , 1, lib . 5 .  > > > 268 >   nense tenevano questi luoghi ; più antica sarà l'origine di T o rino derivandola da’liguriche da'massiliesi,iqualisiccome molti e molti anni dappoi che furono stabiliti in Massiglia fon darono Antipoli e Nicea , molto maggior tempo appresso avreb ber dovuto fondare Torino più lungi che quelle.Si aggiunge che quando Anoibale calò per le Alpi in Italia , secondo rapporta Livio (1),Torino eragià metropoli degli antichi popoli Taurini,i quali reggendosi per se slessi aveano allora mossa guerra agl’in subri,ericusaronol'amiciziadiAnnibalecontrastandogli corag giosamente il passo, che egli sforzò a gran fatica.Inoltre Livio stesso rende testimonianza che la prima volta in cui i romani ? mosser guerra a’liguri fu per occasione che questi depredavano i campi di Nicea e di Antipoli , ciltà de'massiliesi soci de’ro mani ,e non già i campi di Torino, la qual città perciò non era de'massiliesi, ma abitata da’ liguri taurini. Furono questi popoli chiamati Tauriniche dieder nome alla città, siccome i monti a piè de'quali essa è posta furono anche detti Taurini, a cagione che dagli antichi i gioghi de *monti erano chiamati Tauri per la figura che sogliono avere simili a'dorsi o alle schiene di tori, ond'è che quel celebre monte che divide la Siria dal rimanente dell'Asia fu chiamato Tauro sic come alcuni altri popoli presso Plinio ed altri antichi geografi son chiamati anch'essi Taurini specialmente nella Scizia, per chè abitano presso i monti anticamente appellati Tauri. Ri dottipoiquesti popoliliguri sottolasoggezionede'romani, Augusto ingrandi la città, che perciò venne poi detta Augusta Taurinorum , non altrimenti che Lutetia Parisiorum da'parisii popoli della Gallia Lugdunense che l'abitavano. Ebbero i liguri salassi anche in questa XI regione un'altra città, chiamata da Strabone , Plinio, Tolomeo ed Antonino Augusta Prætoria (ora detta Aosta) per distinguerla dall'altra Augusla de'liguri vagienni già menzionata : è posta frà le due facce delle Alpi Graie e Pennine . Furon le prime dette da' greci Graie per lo passaggio di Ercole (nisi de Hercule fabulis crederelibet,comesaviamentedicePlinio),eleseconde (sic c o m e v o l g a r m e n t e si c r e d e v a ) d a l p a s s a g g i o d i A n n i b a l e c o ' s u o i  269 ! > (1)Dec. III,lib.1.   cartaginesifuronchiamatePoenine,secondoavvisòanchePlinio, benchèLivione dubiti.Checchèsiadiciò,èda osservarsi che da questa Augusta Prætoria , essendo per la sua situazione laprima cittàd'Italia,gliantichigeometriprendevanlamisura della lunghezza di questo nostro paese , tirando una linea per Capua fino a Reggio, ultima città sullo stretto siciliano (1). Fu dessa ancora città famosa ed illustre a'tempi de're longo bardi, quando questi tennero il regno d'Italia.Ad Eporedia , città posta nella stessa regione all'imbocco della Valle Augustana edalleradicidelleAlpi,oggi dellaIvrea,Pliniodà,senon così anticaorigine,nulladimenounaassaipiù illustre,scrivendo che fu da”romani fondata per impulso degli dei, secondo che da'librisibillinierastatolormostrato:Oppidum Eporediam, e'dice,SybillinislibrisaPopuloRomano condijussum(2).Fu antica colonia romana ,e perciò cotanto memorata da Cicerone, Strabone, Tacilo e da altri romani scrittori. Vercelli anche secondo Plinio dee riconoscere la sua origine da'liguri sallii poichè egli scrive: Vercelle Libicorum ex Salliis ortæ. E se dobbiamo prestar fede al vecchio Catone, Novara anche da’li guri ebbe origine, quantunque in ciò Plinio discordi, facendola derivare da' vocontii popoli della Gallia Narbonense. Questa era l'aptica Liguria che occupava tutta quella gran parte d'Italia occidentale, la quale poscia dal tempo che cangia emuta inomi,ilinguaggi,icostumi,iconfinietutto,sorti altre divisioni e nuovi domini . Furon poi queste regioni chia mateLanga,Monferrato,l'Astegiana,Piemontesuperiore,Mar chesato di Saluzzo, Piemonte inferiore ovvero tratto Torinese, Canavese,ValleAugustana,Vercellese e Biellese.Molti tra vagli i romani sopportarono per sottoporre tanti popoli liguri, poichè questi duri nelle armi e difesi da'luoghi inaccessibili si mantenner liberi, nè prima degli ultimi tempi della romana repubblica furono ad essa soltomessi. I romani cominciarono a sperimenlarli nelle armi dopo che si erangiàresiformidabili inItaliaedaltrove,dopocheebbervinto Pirro re di Epiro e lui costretto a ritirarsi nel suo regno , e dopo che nella prima guerra punica il console C. Lutazio diede  > ! (1) Plin., Hist. nat.lib. II , cap. 5. (2)Plin.lib.I,cap.17. 270   a'cartaginesi quella terribile rotta nelle isole agale, per la quale costoro furono forzati a chieder pace a'romani. Allora , finita questaguerra,ivincitoricominciaronoamuovere learmicontro i liguri intorno alla metà del sesto secolo di Roma . Livio , n e l l a s e c o n d a s u a d e c a , s e g u e n d o il s u o c o s t u m e , n e a v r e b b e certamentefattoconoscereleminute circostanze,ma questa deca interamente ci manca .L. Floro nell’Epitome ne rammenta ilprincipio dicendo: Adversus ligurestuncprimum exercitus promotus est. Ma da altri scrittori romani e da ciò che Livio stesso scrisse nella III e IV deca,lequali per buona sorte ciri mangono , è facile il conoscere che fin qui i romani non profittarono niente sopra i liguri, poichè è anche fuor di dubbio che nel principio della seconda guerra punica quando Anni bale passòleAlpi,iliguri gli prestaronoaiutocontroiromani; e Livio nel primo libro della III deca parra, che col loro fa. vore prese Annibale per insidie due questori romani con due tribuni de'soldati e cinque figliuoli de'sanniti dell'ordine eque stre.Nè dopo scacciatoAnnibaled'Italiasiperderonodianimo, sicchè non tenessero continuamente esercitati i romani nelle a r m i . D e c l i n a n d o il s e s t o s e c o l o d i R o m a , a m b i d u e i c o n s o l i C. Flaminio contro i liguri frisinati ed apuani (i quali scor r e v a n o f i n o n e ' c a m p i P i s a n i e B o l o g n e s i ), e M . E m i l i o c o n t r o glialtriliguridiqua dell'Appennino, furono destinati con due eserciti consolari a soggiogarli: e sebbene ciò avessero i consoli menato ad esecuzione, non mancaron quelli di risorger poi più animosi e forti che prima , sicchè fu d'uopo nel s e guenteannoa'successoriconsoliQ. MarzioePostumio,dopoche questi sispacciarono dalle inquisizioni de'baccanali, riprender la guerra , la quale a Q. Marzio riusci pur troppo infelice , poichè colto ilsuo esercito da'liguri apuanifraluoghistreltie dificili,fudissipatoinguisache,siccomescriveLivio(1),qua tuormilliamilitumamissa,etlegiunissecundæsignatria,undecim vexilla sociorum ac Latini nominis in potestatem hostium venerunt, et arma multa,quæ quia impedimento fugientibusper silvestres semitas erant, passim jactabantur: prius sequendi Ligures finem quam fugæ Romani fecerunt. Marzio fuggi dunque col residuo  (1)Dec.IV,lib.9. - 271   delsuoesercito:nonlamen,soggiunge Livio,obliterarefa mam reimalegestepotuit;nam saltus,undeeumLiguresfu gaverant,Martiusestappellatus.Nè minorifuronoglisforzi ne'seguenti anni de'consoli successori, Sempronio che pugnò contro iliguri apuani ed Ap.Claudio controiliguriingauni. Inbreve,diceLivio(1),eragiàridottoincostume"non de cretarsia'consolialtraprovinciasenon quellade'ligurionde erano quelli spesso intenti a formare nuove legioni per poter abbattere sì valorosi inimici;laqual cosa non ebbe effetto se non sotto L. Emilio Paolo il quale (essendogli stata proro gata la consolare potestà) con potente esercito spedito contro i liguri ingauni ottenne su questi piena viltoria, siccome più tardi M. Bebio l'ottenne su’liguri apuani .E finalmente soltanto verso la fine del secolo, insieme con gl'istri, co' galli cisalpini e con le genti alpine, furono i liguri sottomessi a'romani (2): de’liguri in fatti primieramente trionfo C. Claudio console l'apno 578 , e ne'posteriori anni furono quelli poscia del tutto debellati(3).Di questa costanzaedabitode'liguriallefatiche della milizia ed a soffrire patimenti e disagi, ben si accorse A n n i b a l e , il q u a l e p a s s a t e l e A l p i , n e l l e s u e p r i m e p u g n e c o n tro i romani, più che in altro popolo e più che ne'cartaginesi stessi,poseogni fiduciane'liguride'quali sivalse.E quando profugo da Cartagine ricovrossisotto Antioco re della Siria, il q u a l e a l l o r a a v e a g u e r r a c o ’ r o m a n i , il p i ù s a n o c o n s i g l i o c h e a quel principe pole dare, siccome Livio scrisse (4), fu che dovesse attaccare in due parti i romani dividendo in due classi lanumerosasuaarmata,eduna,dellaqualefossestato An tioco stesso il comandante e l'ammiraglio, diriger nella Grecia per discacciarne i romani , l'altra, dellả quale egli stesso A n nibale sarebbe stato il capitano supremo , dopo avere stretta lega co'cartaginesi, con le navi di questi inviare nel mar li gustico; poichè pensava che sbarcata la sua gente nella Li guria, egli fidando mollo nel coraggio e valore de'liguri osti nati difensori della loro libertà contro i romani , bene avrebbe  . 272 (1)Dec. IV,lib.10,inprinc. (2)Dec. IV,lib.10,et Dec. V, lib.2. (3)Florus Epit.,lib.7,Dec. V. (4)Dec. IV. >   273 . potuto unendo le armi liguri alle sue portar nuova formidabil guerra in Italia e porre nuovo assedio fino alle mura di Roma istessa ; m a quello stolto e vano re non appigliandosi a questo sano consiglio e volendo piuttosto seguire leadulazionide'suoi propricapitani,die'cagionealletantesue perditeesconfitte ed alla sua totale rovina. Ma riguardandosia'secolipiùanoivicini,non dovrà ta cersi un pregio che rese la ligure provincia assai più gloriosa di quante mai possano vantarsi di essere state avventurose madri di eroi e di semidei. Si celebrano cotanto presso i greci e le nazioni tutte del mondo Alcide , Bacco ed Ulisse per le lunghe loro peregrinazioni, per aver debellato i mostri , verteignoteterreescorsiincognitimari.Ma Ercolestesso Chi fu colui che rese isegni diErcolefavolavile a'naviganti industri? Chi fu colui che rese navigabili quelli che prima erano inaccessibili ed ignoti mari, e fece palesi ai noi regni non meno sconosciuli che vasti ? Chi fu colui che spiegando le fortunate sue antenne ad un nuovo polo , oscurò la fama di Alcide e di Bacco , se non il ligure Colombo ? Quanto ben gli si adattano, e con quanta maggiore proprietà e ragione con vengono à lui quelle lodi che Lucrezio diede al suo Epicuro , e che dal nostro incomparabile Torquato assai più acconcia mente furono attribuite al coraggio ed alla grandezza d'animo del Colombo, quando di lui canto : Unuom dellaLiguriaavràardimento All'incognito corso esporsi in prima: Nè ilminaccevol fremito del vento, Nè l'inospitomar,nèildubbioclima, Nè s'altro di periglio o di spavento Più grave e formidabile or si stima, Faran che il generoso entro a'divieti D'Abila angusti l'alta mente accheti (1). (1)Ger.lib.c.XV.  GIANNONE, Pietro. - Nacque il 7 maggio 1676 a Ischitella (Foggia), piccolo centro del Gargano, da Scipione (1646-1725), speziale, e Lucrezia Micaglia (1653-1709). Ebbe quattro fratelli: Francesca (n. 1680), Vittoria (1685-1735), Carlo (1688-1755) e Teresa (n. 1691).  Dopo aver compiuto i primi studi sotto la guida dell'arciprete del paese, Gaetano Serra, dal 1691 il G. studiò per due anni filosofia con un frate francescano. Fu inizialmente destinato allo stato ecclesiastico, ma la famiglia mutò parere e ai primi di marzo del 1694 il G. si trasferì a Napoli, dove, grazie all'aiuto del prozio materno, Carlo Sabatelli, iniziò a studiare diritto presso il procuratore Giovan Battista Comparelli. Nel 1696 divenne allievo di Domenico Aulisio, sotto la cui guida studiò diritto civile e canonico; iniziò poi gli studi storici nella Biblioteca Brancacciana e in quella del cardinale Gerolamo Seripando. Negli stessi anni il poeta leccese Filippo De Angelis lo introdusse alla filosofia di P. Gassendi e ai classici latini, greci e italiani.  Laureatosi il 4 sett. 1698 all'Università di Napoli, dallo stesso anno il G. iniziò a frequentare (anche se marginalmente) l'Accademia di Medinacoeli, in cui conobbe alcune delle maggiori figure della cultura napoletana, fra cui il giurista e poeta Nicola Capasso, il medico Luca Antonio Porzio, il filosofo Gregorio Caloprese e il medico Nicola Cirillo sotto il cui influsso abbandonò la filosofia gassendiana per abbracciare quella di Cartesio. Morto improvvisamente il Sabatelli nel 1700, il G. iniziò l'attività d'avvocato, conducendo il suo apprendistato presso Giovanni Musto, ma, insoddisfatto della sistemazione, si trasferì (su consiglio di don Giovanni Spinelli, che già lo aveva presentato all'Aulisio) presso Gaetano Argento. Per la formazione culturale del G. l'incontro con Argento si rivelò fondamentale, poiché a casa di questo, dal 1702, iniziò a riunirsi l'Accademia de' Saggi, che, proseguendo l'esperienza della Medinacoeli, riuniva un gruppo di giovani giuristi destinati a divenire il nerbo del governo napoletano durante il viceregno austriaco. Fu in quell'Accademia che maturò il progetto d'una nuova storia del Regno, cui il G. diede il suo contributo iniziando a lavorare all'Istoria civile del Regno di Napoli.  Grazie alla sua attività di avvocato, il G. si garantì un agiato tenore di vita che gli permise di chiamare a Napoli il fratello minore Carlo e l'ormai anziano padre. Il G. aveva nel frattempo iniziato una relazione con la popolana Elisabetta Angela Castelli, da cui ebbe due figli: Giovanni (1715) e Carmina Fortunata (1721). Anno decisivo per la sua carriera forense fu il 1715, quando divenne avvocato dei cittadini di San Pietro in Lama in una causa intentata contro il vescovo di Lecce Fabrizio Pignatelli intorno alla questione delle decime. In risposta a due allegazioni di Nicola D'Afflitto, avvocato del vescovo, il G. pubblicò la scrittura Per li possessori degli oliveti nel feudo di San Pietro in Lama contro monsignor vescovo di Lecce barone di quel feudo intorno all'esazione delle decime dell'olive, cui seguì, l'anno successivo, il Ristretto delle ragioni de' possessori degli oliveti. Tali testi, per la marcata e aperta adesione alle più avanzate tematiche giurisdizionaliste e per gli ampi riferimenti che il G. faceva alla storia del Regno, provocarono una forte e vivace discussione e possono considerarsi i suoi primi importanti lavori.  Molto scalpore suscitò nel 1719 la causa in difesa del nipote dell'Aulisio, Nicolò Ferrara, arrestato due anni prima con l'accusa di avere avvelenato lo zio. Vinta la causa, come compenso il G. ottenne dal suo assistito i manoscritti dell'Aulisio, di alcuni dei quali avrebbe poi curato l'edizione. Nel 1718 a Napoli il G. aveva pubblicato intanto, sotto lo pseudonimo di Giano Perontino (anagramma del nome del G.), la Lettera scritta da Giano Perontino ad un suo amico che lo richiedea onde avvenisse che nelle due cime del Vesuvio in quella che butta fiamme ed è più bassa la neve lungamente si conservi e nell'altra ch'è alquanto più alta e intera non duri che pochi giorni. Il breve scritto era frutto degli interessi scientifici che il G. aveva coltivato sin dal suo arrivo a Napoli (riscontrabili in tutte le opere sino a quelle del carcere) e dai quali, come avrebbe affermato nell'autobiografia, s'era dovuto allontanare perché assorbito dagli studi giuridici e storici.  Infatti il G., pur impiegando gran parte del suo tempo nell'attività forense, lavorava alacremente all'Istoria civile. Fu proprio per potervi attendere con più tranquillità che, nel 1718, comprò e restaurò una villa presso Posillipo, detta Dueporte perché si riteneva fosse appartenuta ai fratelli Giovan Battista e Niccolò Della Porta. Nei cinque anni successivi la stesura dell'Istoria lo assorbì sempre di più, tanto che i suoi continui ritiri a Dueporte gli valsero l'ironico soprannome di "solitario Piero". Alla fine del 1720, l'Istoria civile era ormai pressoché completata; il G. fece allora trasferire la tipografia di Nicolò Naso nella villa che il suo amico Ottavio Vitagliano aveva a Posillipo, vicino a Dueporte, e all'inizio del 1721 cominciò la stampa. Poiché, nonostante l'istruzione ricevuta, era più avvezzo al linguaggio giuridico (e al dialetto napoletano) che non all'italiano letterario, il G. chiese allora all'amico Francesco Mela di rileggere l'opera, volgendola, ove necessario, in buon italiano. Nel marzo 1723 l'Istoria civile del Regno di Napoli vedeva finalmente la luce, in un'edizione di 1100 esemplari (1000 in carta ordinaria e 100 in carta reale).   Scritta con lo scopo principale di difendere i diritti e le prerogative dello Stato contro la Curia romana, l'Istoria civile non intendeva tanto apportare nuovi contributi documentari alla storia del Regno, quanto offrirne una nuova interpretazione, esaminandone l'evoluzione dalla disgregazione dell'Impero romano sino al Viceregno austriaco.  Il G. non raccolse (se non per i primi libri) la documentazione direttamente dalle fonti, ma organizzò quella reperibile in altre opere, in particolare nell'Istoria del Regno di Napoli di A. Di Costanzo (L'Aquila, Cacchi, 1581), nell'Historia della città e Regno di Napoli di G.A. Summonte (Napoli 1601-43), nella Historia della Repubblica veneta di B. Nani (Venezia 1662) e nel Teatro eroico e politico de' governi de' viceré del Regno di Napoli di D. Parrino (Napoli 1692-94). Il procedimento gli causò, in seguito, l'accusa di plagio da parte di A. Manzoni nel capitolo VII della Storia della colonna infame, e poi da tutta la storiografia neoguelfa, rappresentata, tra gli altri, da G. Bonacci e C. Caristia. Il giudizio non coglieva l'importanza dell'Istoria civile, che non stava nella ricostruzione erudita degli eventi del Regno, ma nell'affermazione del principio dell'autonomia dello Stato.  In effetti, se dagli storici napoletani il G. traeva le notizie necessarie, i modelli storiografici erano però altri, italiani ed europei. Fra i primi Guicciardini, Sarpi e, soprattutto, il Machiavelli delle Istorie fiorentine: come quest'ultimo aveva attribuito alla Chiesa la responsabilità di avere impedito ai Longobardi la realizzazione in Italia di un forte regno nazionale, così il G. accusava Roma di avere troncato lo sviluppo dello Stato napoletano, distruggendo l'esperienza normanno-sveva con la chiamata di Carlo d'Angiò. L'avversione nei confronti degli Angioini è uno dei temi ricorrenti dell'Istoria civile: alla dinastia francese il G. imputava di avere diminuito il potere regio, accresciuto quello baronale, ma soprattutto di aver riconosciuto giuridicamente il Regno come feudo della Chiesa. A causa di tale acquiescenza verso il Papato, il Meridione avrebbe consumato il proprio distacco dal resto d'Italia, dove invece le dinastie regnanti contrastavano apertamente le pretese di Roma. Fra i modelli stranieri che avevano ispirato il G. erano J.-A. de Thou e U. Grozio, da cui il G. riprendeva la rivalutazione dei barbari, e in particolare dei Longobardi, visti come signori nazionali, nemici di Roma e di Bisanzio. Tanto il G. era avverso agli Angioini quanto mostrava simpatia per gli Aragonesi, i quali, pur fra incertezze e contraddizioni, avevano tentato di restituire al Regno l'autonomia dell'epoca normanno-sveva. Con il dominio spagnolo si era concluso tale tentativo e per questo il G. era fortemente critico verso Madrid, sottolineandone la politica di sfruttamento nei confronti del Regno. L'Istoria civile si concludeva con le pagine dedicate al dominio austriaco, nel quale il ceto civile riponeva le proprie speranze.  L'Istoria era dunque un'opera collettiva, non perché scritta a più mani - come malignamente sostenevano i nemici del G. -, ma in quanto "opera che raccoglieva e organizzava le esigenze del ceto civile" (Ricuperati, 1970, p. 163). Con l'Istoria civile il G. si era proposto di analizzare le ragioni del potere della Chiesa nell'Italia meridionale e in vista di ciò aveva dedicato ampio spazio all'epoca longobarda (l'unica per cui il G. ricorresse direttamente alle fonti). Per dimostrare soprusi e sopraffazioni della Chiesa sul Regno, il G. ricostruiva l'evoluzione politica del Papato, respingendone implicitamente l'origine divina; questo atteggiamento verso la religione, interpretata in chiave esclusivamente politica, rendeva l'Istoriaun'opera del tutto nuova nel panorama storiografico europeo ma motivava anche l'ostilità di Roma verso il Giannone.  Il 17 marzo 1723 il Consiglio municipale di Napoli (gli Eletti) concesse al G. una regalia di 195 ducati e lo nominò avvocato generale della città. Mentre copie dell'Istoria erano inviate a Vienna, a Napoli divampavano le polemiche. Le autorità ecclesiastiche protestarono perché l'opera non aveva ottenuto la licenza del tribunale vescovile (il G., in effetti, non l'aveva chiesta, ritenendola superflua poiché riteneva che l'opera non trattasse argomenti di giurisdizione ecclesiastica) e alcuni religiosi iniziarono a tenere prediche contro il Giannone. In seguito a ciò, il potere civile mutò atteggiamento: il viceré austriaco Friedrich Michael von Althann, che alla fine del 1722 aveva concesso al G. la licenza necessaria per la pubblicazione dell'opera, il 12 aprile, in una riunione del Consiglio del Collaterale, biasimò apertamente gli Eletti, i quali, peraltro, sin dal 7 aprile avevano congelato i provvedimenti a favore del G., nominando una commissione per valutare l'opera. Nello stesso tempo, il Collaterale ordinò la sospensione delle prediche contro il G. e la vendita dell'Istoria.  La situazione volse al peggio al momento del rito di s. Gennaro: poiché il sangue tardava a sciogliersi, il clero napoletano cominciò a sostenere che il santo fosse adirato con i Napoletani per la pubblicazione dell'Istoria civile. Contro il G. si diffusero allora in tutta la città poesie e libelli (diversi dei quali sono oggi conservati in un codice della Biblioteca nazionale di Napoli), mentre la curia arcivescovile si preparava a scomunicare l'opera. Ormai era a rischio la stessa vita del G., il quale, spinto anche dagli amici, decise di recarsi a Vienna per chiedere la protezione dell'imperatore Carlo VI. Dopo alcune esitazioni, il 1° maggio il G. lasciò Napoli per quella che sperava una breve assenza e che, invece, sarebbe stata una partenza senza ritorno. Raggiunta in incognito Manfredonia, da lì si trasferì a Barletta, riparando per alcuni giorni in una villa del fratello di Niccolò Fraggianni; nel frattempo a Napoli il sangue di s. Gennaro si scioglieva. Trovata una nave su cui imbarcarsi, il 25 maggio 1723 era a Trieste, il 27 a Lubiana e ai primi di giugno giungeva a Vienna.  In questa città il G. prese subito contatto con alcuni esponenti della numerosa comunità italiana, fra cui Alessandro Riccardi, Niccolò Forlosia e il medico e bibliotecario di corte Pio Niccolò Garelli, che portò una copia dell'Istoria all'imperatore Carlo VI. Nel frattempo, venuto a conoscenza della scomunica lanciatagli dalla curia arcivescovile di Napoli e della messa all'Indice dell'Istoria civile (1° luglio), il G. ricominciò a scrivere. Dapprima ritornò sul trattato Del concubinato de' Romani ritenuto nell'Impero dopo la conversione alla fede di Cristo, già iniziato a Napoli, poi scrisse due nuovi trattati: De' rimedi contro le proposizioni de' libri che si decretano in Roma e della potestà de' principi in non farle valere ne' loro Stati e De' rimedi contro le scommuniche invalide e delle potestà de' principi intorno a' modi di farle cassare ed abolire (che confluì nell'Apologia dell'Istoria civile). Negli ultimi mesi dell'anno la posizione del G. sembrò migliorare. Il 22 ottobre, in seguito alle pressioni viennesi, la scomunica fu revocata e in dicembre il G. ottenne udienza da Carlo VI, che l'anno seguente gli concesse una pensione annuale "sopra i diritti della Secreteria di Sicilia". Egli non riuscì, però, a ottenere un incarico ufficiale che, come aveva sperato, gli permettesse di tornare a Napoli in una posizione sicura. Decise quindi di fermarsi a Vienna e nel 1726 si stabilì nel palazzo della baronessa Therese Leichsenhoffen von Linzwal, con la sorella minore della quale, Ernestine, aveva stretto una forte amicizia.  Nel frattempo, in Italia apparivano diverse confutazioni dell'Istoria civile. Nel 1724 fu pubblicata a Roma l'Apologia di quanto l'arcivescovo di Sorrento ha praticato cogli economi de' beni ecclesiastici della sua diocesidell'arcivescovo Filippo Anastasio. In risposta Ottavio Ignazio Vitagliano pubblicò a Napoli, nel 1727, una Difesa della real giurisdizione intorno a' regi diritti su la chiesa collegiata appellata di S. Maria della Cattolica della città di Reggio, in cui, pur volendo difendere il G., finiva invece con il criticarlo. Il G. fu allora costretto a reagire con un proprio testo, diffuso a Napoli in forma manoscritta. Nel 1728 apparvero a Roma le Riflessioni morali e teologiche sopra l'Istoria civile del Regno di Napolidel gesuita Giuseppe Sanfelice: rispetto all'opera dell'Anastasio si trattava di un lavoro ben più articolato e problematico, tanto che il G. in un primo tempo aveva deciso di non replicare, ma durante la villeggiatura a Perchtoldsdorf (nei dintorni di Vienna) scrisse la Professione di fede. L'opera conobbe una vasta fortuna, testimoniata da un'imponente circolazione manoscritta, e segnò la definitiva rottura con la Chiesa cattolica. Un'altra Risposta del G. fece seguito alla pubblicazione delle Annotazioni critiche sopra il nono libro dell'Istoria civile di Napoli(Napoli 1732) del padre Sebastiano Paoli, scritte con l'aiuto dell'erudito e antiquario Matteo Egizio, esponente della parte più moderata del giurisdizionalismo napoletano, non disposta a seguire la lezione del Giannone.  Fallite le speranze di ottenere un incarico a Vienna, il G. riprese l'attività forense; oltre a diverse allegazioni per clienti viennesi e napoletani, nel 1725 scrisse il Ragionamento per il signor don Leopoldo Pilati, in cui difendeva i diritti di quest'ultimo alla nomina (poi non avvenuta) a vescovo di Trento dopo la morte di Giovanni Benedetto Gentilotti e, nell'autunno del 1727, il trattato De' veri e legittimi titoli delle reali preminenze che i re di Sicilia esercitano nel Tribunale detto della Monarchia, sulla complessa questione del Tribunale della Monarchia di Sicilia. Al 1731 risalgono due lavori di rilievo: la Breve relazione de' Consigli e dicasteri della città di Vienna, commissionatagli dal reggente Domenico Castelli, e le Ragioni per le quali si dimostra che l'arcivescovado beneventano… sia… sottoposto al regio exequatur, come tutti gli altri arcivescovadi del Regno, opera scritta su incarico della Città di Napoli.  Nel frattempo, con l'apparizione della traduzione inglese dell'Istoria civile (The civil history of the Kingdom of Naples, London 1729-31) iniziava la fortuna europea del G. e dell'Istoria. Sin dal 1728 il G. aveva cominciato a corrispondere regolarmente con gli eruditi tedeschi Siegmund Liebe e Johann Burckard Mencke, e con il figlio di questo, Friedrich Otto, iniziando la collaborazione agli Acta eruditorum Lipsensium. Nel 1729 scrisse la Dissertazione intorno il vero senso della iscrizione "Perdam Babillonis nomen" posta in una moneta di Lodovico XII re di Francia, da alcuni creduta coniata in Napoli l'anno 1502, che, tradotta in latino, uscì a Londra nel 1733 in un'edizione degli Historiarum sui temporis libri XXIV di J.-A. de Thou. All'inizio degli anni Trenta, il G. era ormai un intellettuale inserito nel contesto europeo, per i rapporti di collaborazione stretti con esponenti della cultura inglese e tedesca e per la sua conoscenza, maturata in quel periodo, delle opere che meglio rappresentavano quelle culture. In tal senso, un ruolo fondamentale aveva avuto la frequentazione con il principe Eugenio di Savoia, nella cui ricchissima biblioteca il G. aveva letto i più importanti testi del pensiero libertino e radicale europeo. Da queste sue fertili frequentazioni nei primi anni dell'esilio viennese derivò il progetto della sua opera principale, il Triregno, iniziata nell'estate del 1731, durante una villeggiatura a Medeling, e le cui prime due parti erano quasi terminate due anni più tardi, nel 1733.  Il Triregno si articola in tre parti: nella prima, il Regno terreno, il G. studia la religione ebraica e sottolinea come in essa non si conoscesse un aldilà, in quanto al popolo ebraico si prometteva esclusivamente il dominio sugli altri popoli senza alcun riferimento a mondi ultraterreni. Quello che Dio aveva promesso all'uomo nella Genesi era, dunque, esclusivamente un regno terreno. Nel successivo Regno celeste l'attenzione del G. si sposta al cristianesimo delle origini: studiando i testi neotestamentari, mette in evidenza come fosse stato il cristianesimo a introdurre l'idea di un mondo ultraterreno cui i fedeli erano destinati dopo essere stati giudicati sulla base delle loro azioni mondane. Il Regno papale, l'ultima parte, riprende il discorso iniziato nell'Istoria civile sulle origini del potere del Papato: dopo i primi secoli vissuti in conformità con l'insegnamento evangelico, i pontefici, approfittando della decadenza del potere imperiale dopo Costantino, costituirono il loro Regno sul principio della superiorità rispetto agli Stati mondani.  Nella composizione del Triregnoconcorrevano diverse tradizioni: la fondamentale esperienza del libertinismo erudito, con cui il G. era entrato in contatto negli anni della sua prima formazione napoletana, per influenza dell'Aulisio, dal quale il G. comprese l'importanza della storia ebraica. Molti temi delle Scuole sacre - l'opera di Aulisio uscita postuma nel 1723, pochi mesi dopo l'Istoria civile - ricomparivano, infatti, nel Triregno, filtrati dalle conoscenze acquisite a Vienna: la storiografia protestante tedesca (particolarmente evidente nel Regno celeste, dove forte è l'influenza delle Origines, sive Antiquitates ecclesiasticae di Joseph Bingham e delle Observationes sacrae di Salomon Deyling) e, soprattutto, il deismo europeo postspinoziano. In questo senso importante era stato il rapporto con gli scritti di John Toland (in particolare le Lettere a Serena, Origines Iudaicae e Nazarenus), dai quali il G. trasse la tesi secondo cui gli ebrei credevano nella mortalità dell'anima e non avevano idea di un mondo ultraterreno, e con la storiografia che con questi si era misurata criticamente (come le Vindiciae antiquae Christianorum disciplinae del luterano Johann Laurenz Mosheim).  Il Triregno non era, peraltro, del tutto slegato dall'Istoria civile. La matrice giurisdizionalista era evidente soprattutto nell'incompiuto Regno papale, dove il G. riprendeva il problema delle origini del potere ecclesiastico, affrontandolo, però, con gli strumenti della storiografia protestante: non più "istoria civile" del Regno di Napoli, ma di tutto l'Occidente cristiano. Di qui la persecuzione che la Curia romana mosse contro di lui, riuscendo, infine, non solo a farlo arrestare, ma a entrare anche in possesso dell'autografo del Triregno.  Si impedì così la pubblicazione dell'opera, ma non ne fu, tuttavia, impedita completamente la diffusione, che avvenne grazie a un apografo (probabilmente uscito dagli archivi romani in cui l'originale era custodito). Nel secondo Settecento diversi codici del Triregnocircolarono in Italia e in Europa, e negli anni Sessanta sembrò addirittura imminente una sua pubblicazione, poi non avvenuta, ad Amsterdam.  La conquista del Regno di Napoli a opera di Carlo di Borbone determinò la dispersione della comunità napoletana di Vienna. Ritenendo, con ragione, che fosse in pericolo la sua pensione, basata su rendite siciliane, anche il G. decise, allora, di partire. Lasciò Vienna il 28 ag. 1734, e giunse a Venezia il 14 settembre. Doveva essere solo un punto di passaggio sulla via per Napoli, ma le autorità borboniche gli rifiutarono il passaporto, temendo che un suo ritorno avrebbe compromesso le trattative per il riconoscimento papale del nuovo sovrano. L'ambiente culturale veneziano si rivelò, comunque, ricco di stimoli per il G., che strinse amicizia con il senatore Angelo Pisani, con il principe milanese Alessandro Teodoro Trivulzio, con l'abate Antonio Conti, con l'avvocato Giuseppe Terzi e con il libraio Francesco Pitteri. Con quest'ultimo, in particolare, si accordò per una nuova edizione dell'Istoria civile, per la quale approntò, come quinto tomo, quell'Apologia dell'Istoria civile cui lavorava da tempo e in cui confluirono i tre trattati composti a Vienna. In realtà, anche a Venezia il G. non mancava certo di nemici. Poco dopo il suo arrivo, Domenico Pasqualigo gli aveva offerto la cattedra di diritto civile all'Università di Padova, ma la Curia romana era riuscita a fare sospendere l'offerta. Nello stesso tempo, il nunzio a Venezia, Iacopo Oddi, faceva pressioni sul governo della Serenissima perché il G. fosse cacciato e consegnato alle autorità pontificie. Per screditare il G. venne diffusa la voce che egli avesse criticato la Repubblica veneziana in alcune pagine dell'Istoria civile, obbligandolo così a difendersi: la Risposta a tale accusa confluì anch'essa nell'Apologiadell'Istoria civile. Alla fine del marzo 1735 il G. si stabilì nell'abitazione del Pisani e un mese più tardi fu raggiunto a Venezia dal figlio Giovanni, che aveva lasciato a Napoli dodici anni prima. Riprese, allora, la stesura del Triregno, discutendone con i suoi amici veneziani. Fu nella villa del Pisani a Rovere di Crè (presso Rovigo) che, nel luglio 1735, il G. scrisse la Prefazione al Triregno. Anche questa volta, tuttavia, la tranquillità doveva rivelarsi effimera.  Dopo oltre un anno di complesse manovre sotterranee, il nunzio ottenne il risultato sperato: la notte del 13 sett. 1735, poco dopo aver lasciato, insieme con l'abate Conti, la casa dell'avvocato Terzi, il G. fu catturato da agenti del S. Uffizio, caricato a forza su un'imbarcazione e abbandonato nel Ferrarese, in territorio pontificio. Riuscì quindi fortunosamente a raggiungere Modena e vi restò nascosto per circa un mese, sotto il falso nome di Antonio Rinaldi, protetto, fra gli altri, anche da L.A. Muratori. Iniziò, allora, la stesura del Ragguaglio dell'improvviso e violento ratto praticato in Venezia ad istigazione de' gesuiti e della corte di Roma. Raggiunto, infine, dal figlio, il G. si recò a Milano, allora occupata dalle truppe sabaude, dove sperava nell'aiuto della famiglia del principe Trivulzio. Il 16 nov. 1735 fu ricevuto dal marchese Giorgio Olivazzi, gran cancelliere, il quale gli consigliò di scrivere a Carlo Vincenzo Ferrero marchese d'Ormea, ministro di Carlo Emanuele III di Savoia, per offrirsi come storico di corte. Quel che Olivazzi non poteva sapere era che l'Ormea s'era già accordato con il cardinale Alessandro Albani, offrendogli l'arresto del G. come contropartita per la concessione di un concordato favorevole allo Stato sabaudo al fine di chiudere lo scontro - aperto un ventennio prima da Vittorio Amedeo II - fra Torino e Roma. Da Torino partì quindi l'ordine di arresto del G., che però nel frattempo aveva già lasciato Milano per la capitale sabauda. Non considerando più gli Stati italiani un rifugio sicuro dopo l'esperienza veneziana, il G. aveva deciso di andare a Ginevra, dove era in contatto con l'editore Marc-Michel Bousquet (che sin dal 1729 aveva annunciato la sua intenzione di pubblicare una traduzione francese dell'Istoria civile). Mentre dava l'ordine di arrestarlo a Milano, l'Ormea non poteva immaginare che il G. fosse proprio a Torino, dove si fermò il 27 e il 28 nov. 1735. Giunse a Ginevra il 5 dicembre, dove, pur rifiutando di convertirsi al calvinismo, strinse amicizia con i teologi protestanti Jean-Alphonse Turretini e Jacob Vernet.   A causa delle sue precarie condizioni economiche, decise di pubblicare la traduzione francese dell'Istoria civile, per la quale s'era accordato già da tempo con il Bousquet. Questi, però, aveva sciolto proprio allora la sua società con lo stampatore J.-A. Pellissari, e si era trasferito in Olanda. Fu solo grazie all'aiuto di Vernet che il G. poté trovare un nuovo finanziatore nel libraio Jacques Barillot, ma, quando, all'inizio del marzo 1736, tutto era pronto per la nuova edizione dell'Istoria, il G. fu attirato fraudolentemente in territorio sabaudo e arrestato.  Sin dal 10 dic. 1735 il marchese d'Ormea aveva dato disposizioni per l'arresto al governatore della Savoia, conte Giuseppe Piccon della Perosa. La trama del rapimento è stata raccontata dal G. stesso, nella sua autobiografia, in pagine esemplari per chiarezza e drammaticità. A Ginevra egli aveva preso alloggio presso il sarto Charles Chénevé, da tempo amico di un doganiere sabaudo, tale Giuseppe Gastaldi, il cui fratello era aiutante di campo del conte Piccon. Dapprima Gastaldi si guadagnò la simpatia di Giovanni, il figlio del G., invitandolo spesso a Vésenaz (il piccolo centro savoiardo di fronte a Ginevra, dov'era la dogana) insieme con Chénevé. In questo modo egli venne a conoscenza dei movimenti del G. a Ginevra, informandone Piccon. Dopo aver rifiutato gli inviti del Gastaldi per tutto l'inverno, il G. accettò di assistere alla messa della domenica delle Palme nella chiesa di Vésenaz. Sabato 24 marzo 1736 si trasferì con il figlio a casa di Gastaldi. Questi, presi con sé alcuni soldati, irruppe di notte nella stanza del G. e arrestò lui e il figlio; il giorno dopo, Gastaldi si mise in marcia verso Chambéry. Il G. racconta la gioia del doganiere il quale, tenendo in mano un suo ritratto (probabilmente una copia dell'incisione fatta a Vienna da Jacob Sedelmayer) andava di paese in paese urlando di aver catturato "un grand'uomo".  Giunto a Chambéry la sera del 26 marzo 1736, Gastaldi consegnò i prigionieri al conte Piccon, il quale, il 7 aprile, ne dispose il trasferimento nella fortezza di Miolans, tradizionalmente deputata ad accogliere i prigionieri di Stato (quarant'anni dopo vi sarebbe stato rinchiuso anche il marchese de Sade). Ricevuta notizia dell'arresto, l'Ormea ne informò il cardinale Albani, al quale riferì anche l'intenzione di Carlo Emanuele III di non inviare il G. a Roma, ma di impegnarsi a tenerlo in carcere "perpetuamente". Per quanto la corte di Roma avrebbe preferito giudicare direttamente il G., il 5 maggio Clemente XII ringraziò il sovrano sabaudo per l'arresto del "sedizioso". Ormea e Albani si accordavano, intanto, perché il G. fosse processato dal S. Uffizio piemontese e costretto ad abiurare.  Durante la sua prigionia a Miolans (aprile 1736 - settembre 1737) il G. scrisse l'autobiografia (Vita di Pietro Giannone scritta da lui medesimo) e iniziò, aiutato dal figlio, una prima versione dei Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio, un'opera che intendeva offrire a Carlo Emanuele III per l'educazione del principe di Piemonte, il futuro Vittorio Amedeo III. Nello stesso periodo l'Ormea riuscì, grazie al conte Piccon e ad altri agenti sabaudi, a entrare in possesso dei manoscritti delle opere del G. (compreso quello del Triregno), che, dopo esser stati esaminati da Giovanni Antonio Palazzi, abate di Selve, bibliotecario e storico di corte, furono inviati a Roma. Il 15 sett. 1737 il G., separato dal figlio Giovanni (che fece ritorno a Napoli), fu trasferito a Torino (nelle carceri di Porta Po, prima, e nella cittadella, poi). Qui fu affidato alla cura spirituale del padre filippino Giovan Battista Prever. Nel marzo del 1738 prestò formale abiura dei suoi errori di fronte al vicario inquisitoriale, Alfieri di Magliano.  Il testo dell'abiura non era quello che la Curia romana si attendeva, tanto che - contrariamente alla prima intenzione - si decise di non renderlo pubblico. A convincere il G. ad abiurare era stata la speranza di poter tornare presto in libertà, ma il 15 giugno 1738 fu trasferito al forte di Ceva, dove sarebbe rimasto sei anni. Le istruzioni impartite al conte Giuseppe Amedeo De Magistris, governatore del forte, erano per la migliore sistemazione possibile nel castello (il G. fu rinchiuso nella prigione detta "la speranza": due stanze e un anticamera interamente rivestite in legno e chiuse da una porta di pietra). Gli era permessa qualche ora d'aria al giorno (purché non parlasse con nessuno, tranne il governatore e il confessore del forte) e poteva leggere e scrivere (purché le sue opere non uscissero da Ceva se non per Torino).  Nei sei anni di prigionia cebana il G. terminò i Discorsi sopra gli Annali di Tito Livio (conclusi nel maggio 1738) e scrisse altre tre opere: l'Apologia de' teologi scolastici (1739-41), l'Istoria del pontificato di s. Gregorio Magno(1741-42) e L'ape ingegnosa (1743-44). In esse riaffioravano molti temi del Triregno, soprattutto nell'Apologia de' teologi scolastici - dove l'autorità dei Padri della Chiesa era sottoposta a una vera e propria demolizione -, e nell'Istoria del pontificato di s. Gregorio Magno. Quest'ultima, inizialmente concepita come conclusione dell'Apologia, era una vera e propria prosecuzione del Triregno, nel cui Regno papale una vasta parte doveva essere dedicata a tale pontefice. Temi tipici degli autori libertini, in particolare del Toland, grazie a un sapiente uso della Naturalis historiadi Plinio il Vecchio, tornavano anche nelle pagine dell'Ape ingegnosa, vasto e complesso zibaldone, come recita il titolo, di "varie osservazioni sopra le opere di natura e dell'arte", denso di spunti autobiografici.  Nonostante la prigionia, la fortuna europea del G. continuava: nel 1738 ad Amsterdam era apparsa la traduzione francese dei libri sulla "politia ecclesiastica" (Anecdotes ecclésiastiques contenant la police et la discipline de l'Église chrétienne depuis son établissement jusqu'au XIe siècle), nel 1742 l'intera Istoria civile era stata tradotta in francese da C.-G. Loys de Bochat e G. Bentivoglio e pubblicata a Ginevra (ma con la falsa indicazione dell'Aja). Mentre a Torino la diffusione delle opere giannoniane preoccupava le autorità ecclesiastiche, a Ceva il G. entrava in contatto con esponenti della nobiltà locale, che lo incaricarono della stesura di alcune allegazioni forensi.  Nell'estate del 1744, a causa dell'avanzata delle truppe franco-spagnole, allora impegnate contro il Piemonte nella Guerra di successione austriaca, il G. fu trasferito a Torino, dove giunse il 3 settembre. In un primo tempo le condizioni della prigionia nella cittadella si rivelarono assai più dure: il governatore Ercole Tomaso Roero di Cortanze non aveva avuto, come invece il De Magistris, ordini particolari per il prigioniero, il cui trattamento non fu inizialmente dissimile a quello riservato ai molti prigionieri che affluivano nella capitale da tutto il Piemonte. La situazione fu aggravata dalla morte del marchese d'Ormea (maggio 1745), tanto che il 14 maggio 1746 il G. inviò al sovrano un lungo e disperato memoriale sul proprio stato e sulle angherie cui lo sottoponeva il maggiore della cittadella, il conte Giovan Battista Caramelli. Da allora le condizioni della sua detenzione migliorarono sensibilmente. Il suo ritorno a Torino non era passato inosservato; in pochi mesi il G. entrò in relazione con personaggi della corte e della cultura, come i bibliotecari dell'Università Paolo Ricolvi e Antonio Rivautella, e, soprattutto, con il residente inglese, Arthur Villettes, il quale gli fece avere diversi libri della propria biblioteca, grazie ai quali, oltre a quelli avuti dalla Biblioteca reale tramite Roero di Cortanze, il G. poté aggiungere nuovi capitoli all'Apologia de' teologi scolastici e iniziare una nuova versione, rimasta incompiuta, dei Discorsi. Il nuovo interesse destato dal G. suscitò la reazione delle autorità ecclesiastiche: il nunzio a Torino, mons. Ludovico Merlini, protestò presso il sovrano, il quale gli assicurò che le condizioni del prigioniero sarebbero divenute più severe.   In realtà il G. continuò a scrivere e a ricevere libri da Villettes e da Roero di Cortanze sino alla morte, sopraggiunta il 17 marzo 1748.  Il desiderio del G., formulato in una lettera all'Ormea nel marzo 1741, che sulla sua tomba fosse posta un'iscrizione da lui appositamente composta non fu esaudito: il suo corpo fu sepolto nella fossa comune dei prigionieri della chiesa di S. Barbara, all'interno della cittadella. La chiesa fu distrutta intorno al 1860.  Opere: Opere di Pietro Giannone, a cura di S. Bertelli - G. Ricuperati, Milano-Napoli 1971 (con un'accuratissima bibliografia), in cui sono comprese la Vitascritta da se medesimo, pagine scelte dell'Istoria civile, del Triregno, del Ragguaglio del ratto, delle altre opere del carcere e alcune lettere; Istoria civile, a cura di A. Marongiu, Milano 1970; Triregno, a cura di A. Parente, Bari 1940; Dopo la "Giannoniana": problemi di edizione, nuovi reperimenti di fonti e l'introduzione perduta del "Triregno", a cura di G. Ricuperati, in L'Europa fra Illuminismo e Restaurazione.Studi in onore di Furio Diaz, a cura di P. Alatri, Roma 1993, pp. 43-88; un manoscritto del Ragguaglio del ratto è stato pubblicato in Un testo inedito di P. G., a cura di A. Denis, in Archivio storico italiano, CLIII (1995), 4, pp. 709-761. Delle altre opere del carcere l'unica sinora pubblicata in edizione critica è L'ape ingegnosa, overo Raccolta di varie osservazioni sopra le opere di natura e dell'arte, a cura di A. Merlotti, Roma 1993 (con bibliografia dal 1971, pp. CXVII-CXXI). Per le lettere: P. Giannone, Epistolario, a cura di P. Minervino, Fasano 1983; Lettere autografe, a cura di P. Minervino, ibid. 1990 (in entrambi i casi l'edizione non è del tutto affidabile, cfr. la rec. di G. Di Rienzo, in Bollettino storico-bibliogr. subalpino, XCI [1993], 1, pp. 317-322).  Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Biblioteca antica, Manoscritti di Giannone(inventario a cura di G. Ricuperati, Le carte torinesi di P. G., in Memorie dell'Acc. delle scienze di Torino, classe di scienze morali, storiche e filologiche, s. 4, IV [1962]): nel 1992 il fondo è stato arricchito da documenti autografi del G., in gran parte relativi ai periodi austriaco e veneziano; F. Nicolini, Gli scritti e la fortuna di P. Giannone. Ricerche bibliografiche, Bari 1913; L. Marini, P. G. e il giannonismo a Napoli nel Settecento, Bari 1950; B. Vigezzi, P. G. riformatore e storico, Milano 1961; S. Bertelli, Giannoniana. Autografi, manoscritti e documenti della fortuna di P. G., Napoli 1968; G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di P. G., Milano-Napoli 1970; G. e il suo tempo, a cura di R. Ajello, Napoli 1980; A. Merlotti, Settecento e "Risorgimento ghibellino": Giuseppe Ferrari lettore di P. G., in Annali della Fondazione Einaudi, XXVIII (1993), pp. 301-358; Id., Negli archivi del Re. La lettura negata delle opere di G. nel Piemonte sabaudo (1748-1848), in Riv. stor. italiana, CVII (1995), 2, pp. 332-386; G. Ricuperati, P. G.: an itinerary in European free-thinking, in Transactions of the Ninth International Congress on the Enlightenment, Oxford 1996, pp. 242-245; H. Trevor-Roper, P. G. and Great Britain, in The Historical Journal, XXXIX (1996), 3, pp. 657-675; A. Hook, La "Storia civile del Regno di Napoli" di P. G., il giacobitismo e l'Illuminismo scozzese, in Ricerche storiche, XXVIII (1998), pp. 391-402; L. Mannarino, Le mille favole degli antichi. Ebraismo e cultura europea nel pensiero religioso di P. G., Firenze 1999.Grice: “One good thing about the Roman Church (you know, there’s a Jewish Church, too) is Giannone – he was rendered an ‘impious’ by the Church and imprisoned to death. This allowed him to philosophise on the Liguri – and he did!” Pietro Giannone. Giannone. Keywords: la terza Roma, autobiografia, ego-grafia – Vico, Giannone, Genovesi – Liguria – commento su Livio – regno terreno, regno celeste, regno papale --. Storia di roma antica -- giannonismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giannone” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51690283554/in/photolist-2mKGdrq

 

Grice e Gioberti – del bello – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Grice: “I like Gioberti; he published ‘Del bene, del bello,’ suggesting they are etymologically connected, and they are: BONUS alternates with BENE in Roman, and the dimintuvie, BENETULUS, gives ‘bellus’ – So the Roman implicature is that the ‘bello’ is a ‘little’ ‘bene’ – or gracious, comfortable, and proportionate, rather than having to do with ‘bene’ itself. – “like bene” – and affectionate diminutive, one hopes!” – Laureato, e parzialmente influenzato da Mazzini, lo scopo principale della sua vita divenne l'unificazione dell'Italia sotto un unico regime: la sua emancipazione, non solo dai signori stranieri, ma anche da concetti reputati alieni al suo genio e sprezzanti del primato morale e civile degli italiani. Questo primato era associato alla supremazia del Papa, anche se inteso in un modo più letterario che politico. Carlo Alberto di Savoia lo nomina suo cappellano. La sua popolarità e l'influenza in campo privato, tuttavia, erano ragioni sufficienti per il partito della corona per costringerlo all'esilio; non era uno di loro e non poteva dipendervi. Sapendo questo, si ritirò dal suo incarico ma fu arrestato con l'accusa di complotto e bandito dal Regno sabaudo senza processo. Andò a Parigi e Bruxelles per insegnare filosofia. Nonostante ciò, trovò il tempo per filosofare con particolare riferimento al suo paese e alla sua posizione.  Essendo stata dichiarata un'amnistia da Carlo Alberto,  divenne libero di tornare in patria. Al suo ritorno a Torino, fu ricevuto con il più grande entusiasmo. Rifiutò la dignità di senatore che Carlo Alberto gli aveva offerto, preferendo rappresentare la sua città natale nella Camera dei deputati, della quale fu presto eletto presidente.  Cadde il governo. Il re nominò Gioberti nuovo presidente del Consiglio. Il suo governo terminò. Con la salita al trono di Vittorio Emanuele II lla sua vita politica giunse alla fine. Ebbe un posto nel consiglio dei ministri, anche se senza portafoglio, ma un diverbio irriconciliabile non tardò a maturare. Fu allontanato da Torino con l'affidamento di una missione diplomatica a Parigi, da cui non fece più ritorno. Rifiutò la pensione che gli era stata offerta e ogni promozione ecclesiastica, visse in povertà e passò il resto dei suoi giorni a Bruxelles, dove si trasferì dedicandosi agli studi filosofici. I primi due licei istituiti a Torino celebrarono uno l'opera diplomatica di Cavour (il Liceo classico Cavour) e l'altro il pensiero, anche politico, di Gioberti (il Liceo classico Vincenzo Gioberti). Gli scritti sono più importanti della sua carriera politica; come le speculazioni di Rosmini-Serbati, contro cui scrisse, sono state definite l'ultima propaggine del pensiero medievale. Anche il sistema di Gioberti, conosciuto come “ontologismo”, più nello specifico nelle sue più importanti opere iniziali, non è connesso con le moderne scuole di pensiero. Mostra un'armonia con la fede che spinse Victor Cousin a sostenere che la filosofia italiana era ancora fra i lacci della teologia e che Gioberti non e un filosofo.  Il metodo per lui è uno strumento sintetico, soggettivo e psicologico. Ricostruisce, come afferma, l'ontologia e comincia con la formula ideale, per cui l'Ens crea l'esistente ex nihilo. Dio è l'unico ente Ens. Tutto il resto sono pure esistenze. Dio è l'origine di tutta la conoscenza umana (le idee), che è una e diciamo che si rispecchia in Dio stesso. È intuita direttamente dalla ragione, ma per essere utile vi si deve riflettere, e questo avviene tramite i mezzi del linguaggio. Una conoscenza dell'ente e delle esistenze (concrete, non astratte) e le loro relazioni reciproche, sono necessarie per l'inizio della filosofia.  Gioberti è, da un certo punto di vista, un platonico. Identifica la religione con la civiltà e nel suo trattato Del primato morale e civile degli Italiani giunge alla conclusione che la chiesa è l'asse su cui il benessere della vita umana si fonda. In questo afferma che l'idea della supremazia dell'Italia, apportata dalla restaurazione del papato come dominio morale, è fondata sulla religione e sull'opinione pubblica. Tale opera e la base teorica del neoguelfismo. In “Rinnovamento e Protologia” si dice che abbia spostato il suo campo sull'influenza degli eventi. La sua prima opera aveva una ragione personale per la sua esistenza. Un amico, avendo molti dubbi e sfortune per la realtà della rivelazione e della vita futura, lo ispirò alla stesura de “La teorica del sovrannaturale”.  Dopo questa, sono passati in rapida successione dei trattati filosofici. La “Teorica” è seguita dalla “Filosofia”, dove afferma le ragioni per richiedere un nuovo metodo e una nuova terminologia. Qui riporta la dottrina per cui la religione è la diretta espressione dell'idea in questa vita ed è un unicum con la vera civiltà nella storia. La Civiltà è una tendenza alla perfezione mediata e condizionata, alla quale la religione è il completamento finale se portato a termine. È la fine del secondo ciclo espresso dalla seconda formula, l'ente redime gli esistenti.  I saggi “Del bello” e “Del buono hanno” seguito l'introduzione. Del primato morale e civile degl'Italiani e Prolegomeni sulla stessa e a breve trionfante esposizione dei Gesuiti, Il Gesuita moderno, pubblicato clandestinamente a Losanna da Bonamici, ha senza dubbio accelerato il trasferimento di ruolo dalle mani religiose a quelle civili. È stata la popolarità di queste opere semi-politiche, aumentata da altri articoli politici occasionali e dal suo Rinnovamento civile d'Italia, che lo ha portato ad essere acclamato con entusiasmo al ritorno nel suo paese natio. Tutte queste opere sono state perfettamente ortodosse e hanno contribuito ad attirare l'attenzione del clero liberale nel movimento che è sfociato, sin dai suoi tempi, nell'unificazione italiana. I Gesuiti, tuttavia, si sono raduttorno al Papa più fermamente dopo il suo ritorno a Roma e alla fine gli scritti di Gioberti furono messi all'indice. I resti delle sue opere, specialmente “La filosofia della rivelazione” e la Prolologia espongono i suoi punti di vista maturi in molte parti. Tutti gli scritti giobertiani, tra cui quelli lasciati nei manoscritti, sono stati pubblicati daMassari (Torino). Il Ministero dei beni culturali ha affidato la redazione dell'edizione nazionale all'Istituto di Studi Filosofici "Enrico Castelli", presso l'Università La Sapienza di Roma. Altre opera: Prolegomeni del Primato morale e civile degli italiani, Enrico Castelli; Primato morale e civile degli italiani, Ugo Redanò; Introduzione allo studio della filosofia, Alessandro Cortese; Teorica del sovrannaturale, Alessandro Cortese; Del rinnovamento civile d'Italia; Vincenzo Gioberti, Del rinnovamento civile d'Italia, Del rinnovamento civile d'Italia, Scrittori d'Italia Bari, Laterza. Cfr. lettera di V. Gioberti a G. Leopardi  in Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, Firenze, Successori Le Monnier. Gioberti visse in Rue des marais S. Germain, hotel du Pont des Arts n° 3.  In lingua latina: "dal nulla", vedi anche la locuzione Ex nihilo nihil fit di Lucrezio. Antonio, su Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Istituto Castelli-Roma in.  Anteprima disponibile su  Anteprima della II edizione disponibile su books.google.  Giuseppe Massari, Vita di Gioberti, Firenze, Antonio Rosmini Serbati, Gioberti e il panteismo, Milano, Spaventa, La Filosofia di Gioberti, Napoli, Achille Mauri, Della vita e delle opere di Gioberti, Genova, Giuseppe Prisco, Gioberti e l'ontologismo, Napoli, Pietro Luciani, Gioberti e la filosofia nuova italiana, Napoli, Domenico Berti, Di  Gioberti, Firenze, Giorgio Rumi, Gioberti, Bologna, Il mulino, Mario Sancipriano,  Gioberti: progetti etico-politici nel Risorgimento, Roma, Studium,  Francesco Traniello, Da Gioberti a Moro: percorsi di una cultura politica, Milano, Angeli, Gianluca Cuozzo, Rivelazione ed ermeneutica. Un'interpretazione di Gioberti, Milano, Mursia, Mustè, La scienza ideale. Filosofia e politica in Gioberti, Soveria Mannelli, Rubbettino, Mustè, Il governo federativo, Roma, Gangemi, Alessio Leggiero, Il Gioberti Frainteso. Sulle tracce della condanna, Roma, Aracne,  Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Gioberti attuale – Il Popolo d’Italia -- Non bisogna cedere alla facile tentazione erudita di dare troppi precursori al fascismo, come si è fatto da taluno in questi ultimi tempi. Il fascismo ha molti precursori e e non ne ha nessuno. Non ne ha nessuno se alla parola « precursore » si dà un significato strettissimo o letterale, ne ha molti se la stessa parola viene interpretata in un senso più lato. ln quest'ultima categorià può esser posto Vincenzo Gioberti. Ecco un autore che appare oggi « attuale » più di quanto non fosse fra il 1840 e il 1850 o anche semplicemente venti anni fa. Ci sono nelle pagine dei suoi libri notazioni, istruzioni, moniti, previsioni che il tempo ha confermato. Si vuole oggi, dal fascismo, una gioventù studiosa, che sia forte nel corpo come nello spirito. Or ecco come il Gioberti, a proposito della necessità dell'educazione fisica giovanile, si esprimeva nel suo Primato: « I giovani indurino il corpo avvezzandolo al sole, allenandolo alla corsa e ai ginnici esercizì, rompendolo alle operose veglie e alle utili fatiche, costringendolo a nutrirsi di cibi frugali, a posare su dura coltrice e assoggettandolo in ogni cosa allo imperio dell'animo, il quale col domare i sensi; si rende libero e franco e si dispone ai nobili affetti, ai vasti e magnifici pensieri ». Il fascismo ha battuto sempre in breccia certi persistenti snobismi linguaioli, che sono ormai superstiti soltanto in piccoli gruppi. Vedete come Gioberti flagellava gli esotismi del tempo che facevano preferire le lingue straniere all'italiana, l'abietto « forestierume », come, con parola di scherno supremo, diceva il Gioberti: « Riscuotano dunque se stessi da ogni ombra di forestierume, non solo nelle cose gravi ma anco nelle leggere, perché queste concorrono a informare il costume, che in opera di mutazioni morali è la somma del tutto. E non lieve faccenda, ma gravissima e importantissima è la lingua nazionale così per la stretta ed intima congiuntura dei pensieri con le voci, onde gli uni tanto valgono quanto l'espressione che li veste (dal che segue che le parole non sono pur parole, ma eziandio cose) come perché essendo ·la favella lo specchio più compito e più vivo delle specialità morali e intellettive di un popolo, chi la trascura e disprezza non può essere veramente libero, né aver cara l'indipendenza e la libertà della patria. Perciò indizio grave di servilità e di declinazione civile e prova non dubbia di poco amore verso il luogo natìo, è il trasandare la propria loquela e il vezzo di parlare o di scrivere senza bisogno di lingua forestiera. Tale indegno costume è altresì basso e vile! ». Pochi scrittori hanno, più del grande pensatore torinese, posto in rilievo la somma importanza della lingua nella vita di un popolo e i pericoli insiti nel trascurarla o avvilirla. L'ostracismo che il regime ha dato agli eccessivi dialçttismi e ai tentativi di creare su basi regionali delle letterature dialettali, trova la sua più alta giustificazione in questo superbo brano ,di prosa giobertiana. E da ricordare che il Gioberti definisce la italiana come « la più bella delle lingue vive ». « Lo stile, dice Giorgio Buffon, è l'uomo; lo stile e la lingua, dico io, sono il cittadino. La lingua e la nazionalità procedono di pari passo, perché quella è uno dei principi fattivi e dei caratteri principali di questa, anzi il più intimo e fondamentale di tutti, come il più spirituale, quando la consanguineità e la coabitanza poco servirebbero ad unire i popoli unigeneri e compaesani, senza il vincolo morale della comune favella. E però il Giordani insegna che "la vita interiore e la pubblica di un popolo si sentono nella sua lingua", la quale "è l'effige vera e viva, il ritratto di tutte le mutazioni successive, la più chiara e indubitata storia dei costumi di qualunque nazione e quasi un amplissimo specchio in cui mira ciascuno l'immagine ·della mente di tutto e tutti di ciascuno". E il Leopardi non dubitò di affermare che "la lingua e l'uomo e le nazioni per poco non sono la stessa cosa" ». Parole queste che non saranno mai abbastanza meditate. Quanto alla missione di Roma nella storia italiana e in quella europea e universale, ecco alcune citazioni di Gioberti che hanno un sapore attualissimo. « Il genio orientale affine a quello dell'Italia, se non altro perché Roma fu una volta e sarà forse di nuovo un giorno, se posso così esprimermi, l'oriente dell'Oriente ». « Roma in effetto, nel bene come nel male, nei tempi antichi come nei moderni, è arbitra suprema e norma delle genti italiche ». La figura di Gioberti, quale filosofo e patriota, ci è giunta un poco deformata dalle polemiche del tempo. Ma bastano le citazioni di cui sopra per far vedere che la portata educatrice del pensiero giobertiano, non è diminuita con le vicende del tempo. Gioberti è « attuale », anche e soprattutto oggi, nell'Italia del Littorio. The next day in “Il Popolo d’Italia” by Scrittore Fascista. Ancora Gioberti (Pubblicato in « Il Popolo d'Italia », 11 febbraio 1934)  di Scrittore fascista  La prosa giobectiana è ricca di parole asprigne, saporose e di neologismi indovinati. Si incontrano parole come queste: schifiltà, infemminire nell'ozio, forestierume, perennare, sfasciume, smanceroso, attillature, disviticchiare, mollizie, delicature, uomini faticanti, laicocrazia, fogliettisti, ecc. Ma più importanti sono sempre i pensieri del filosofo torinese. In tutte le questioni egli ha un punto di vista, che rappresentando le verità fondamentali, vale, oggi, come nel 1850. Ecco con quali termini il Gioberti stabilisce i compiti e i doveri di un'aristocrazia degna di questo nome. Si tratta dell'educazione da impartire ai figli degli aristocratici. « Imprimano in essi la semplicità dei modi, la grandezza dell'animo, l'austerità del costume, la tolleranza nelle fatiche, la fermezza nelle risoluzioni, J'intrepidità nei pericoli, la generosità nei travagli; li assuefacciano a contentarsi del poco, a fuggire gli agi e le pompe, a tenersi per depositari anziché padroni della loro ampia fortuna, come di un tesoro da dispensarsi in opere di beneficenza e in imprese di utilità pubblica ». Nel Gioberti si trova l'incentivo e la giustificazione delle opere di ripristino archeologico, alle quali il regime si è particolarmente consacrato, non soltanto a Roma, ma in ogni parte d'Italia. Se Vincenzo Gioberti potesse vedere lo spettacolo meraviglioso della Roma di oggi, dovrebbe fare constatazioni diverse da quelle del suo tempo. Gli scavi, la esumazione e la restaurazione degli antichi monumenti, non giovano soltanto a documentare al mondo la nostra gloriosa storia trimillenaria, ma sono anche fonti di ricchezza, per il richiamo che essi esercitano su tutte le ·genti del mondo civile. Le poche decine di milioni spese per creare quei capolavori che sono la via dell'Impero, la via dei Trionfi, la via del Mare, sono già stati recuperati almeno cento volte, attraverso l'affluire ìnces.sante degli stranieri. Ma Gioberti insisteva sul lato educativo e morale delle ricerche archeologiche così esprimendosi: « Egli è doloroso a pensare che così pochi siano al dl d'oggi gli italiani solleciti di conoscere e studiare le patrie rovine e che tale inchiesta si abbandoni, come inutile, all'ozio erudito di qualche antiquario. L'archeologia non meno della filologia, ben !ungi dall'essere una scienza sterile e morta, è viva e fecondissima, perché oltre a rinnovare il passato, giova a preparare l'avvenire delle nazioni. Imperocché la risurre2ione erudita dei monumenti nazionali porta seco il ristauro delle idee patrie, congiunge le età trascorse colle future, serve di tessera esterna e di taglia ricordatrice ai popoli risorgituri, destandone ed alimentandone le speranze colla voglia e con l'esca delle memorie ». Tutta la storia d'Italia passa in rapide sintesi potenti nelle meditazioni di Gioberti. I periodi di grandezza e di miseria, gli alti e bassi del nostro popolo, trovano nel Gioberti un indagatore e un illustratore vigoroso e penetrante. Egli « sente » la storia e come s'inorgoglisce parlando dei periodi di splendore, è amaro e violento quando trae a descrivere le epoche di decadenza. Nella citazione che segue sono condensati tre secoli della nostra storia, i quali dal punto di vista politico sono stati oscuri, perché furono secoli di divisione e di servitù. « Le ultime faville di virtù e di carità patria perirono in Italia colla repubblica di Firenze; spenta la quale dalla truce e schifosa progenie dei secondi Medici, l'ingegno secolaresco, costretto a menar vita privata ed umbratile, non ebbe più altro campo dove esercitarsi che quello degli studi: in cui rifulsero ancora tre sommi laici, il Tasso, il Galilei, il Vico, che nel culto della sapienza poetica, naturale, filosofica, andarono innanzi a tutti, e risposero in un certo modo alla triade clericale e monachile del Bruno, del Campanella e del Sarpi. Ma il rinnovamento del ceto civile nella penisola e la creazione dell'Italia laicale è dovuta a Vittorio Alfieri, che, nuovo Dante, fu il vero secolarizzatore del genio italico nell'età più vicina e diede agli spiriti quel forte impulso che ancora dura e porterà quando che sia i suoi frutti ». Questa profezia del Primato si è avverata. L'impulso dato da Alfieri diede i suoi frutti col Risorgimento. Dopo una eclissi, tale impulso è lo stesso che scatenò il maggio radioso del '15 e la marcia di ottobre del '22. È l'impulso che fece vincere la guerra e trionfare la rivoluzione. Non ancora un secolo è passato e già queste parole del Primato giobertiano fiammeggiano nei cuori delle generazioni littorie. « Italiani - diceva Gioberti - qualunque siano le vostre miserie, ricordatevi che siete nati principi e destinati a regnare moralmente sul mondo! ». GIOBERTI, Vincenzo. - Nacque a Torino il 5 apr. 1801 da Giuseppe, impiegato, e da Marianna Capra. Un dissesto finanziario del padre, morto prematuramente, rese molto precarie le condizioni economiche della famiglia. Formatosi nelle scuole dei padri oratoriani, rivelò precoci interessi per la letteratura e per gli studi filosofici e teologici, e annoverò tra i suoi maestri e guide spirituali G.G. Sineo, poi ricordato come "il solo vero prete moderno" che avesse incontrato. Tuttavia il G. fu essenzialmente un autodidatta, che, nonostante la malferma salute, si dedicò con inaudita intensità alle più disparate letture, toccando anche il settore linguistico, storico, naturalistico, geografico, politico (con una precoce passione per N. Machiavelli), e lasciandone traccia in una congerie sterminata di appunti e di pensieri: in uno dei quali rivelava di essere stato "reso anti-monarchico dalla lettura dell'Alfieri, irreligioso, ma per poco, da Rousseau, pirronista dagli altri filosofi" (Meditazionifilosofiche inedite, p. 45). Tali frammenti provano come il giovanissimo G. accumulasse una rilevante cultura filosofica, in parte di tipo manualistico, ma in parte notevole ricavata da letture di prima mano (sebbene non sempre nella lingua originale) concernenti in special modo le opere di Platone, s. Agostino, F. Bacon, J.-B. Bossuet, G. Vico, G.W. von Leibniz, N. de Malebranche, G.S. Gerdil, J.-J. Rousseau e I. Kant. Quest'ultimo, unitamente alla "scuola scozzese" di Th. Reid, appariva al G. il filosofo che aveva riportato "nel campo dell'osservazione quel principio pensante, che molti aveano a tal segno obliato da confonderlo coi sensi e colla materia" (ibid., p. 167). Alla linea di pensiero che il G. definiva allora idealistica si affiancò il confronto ravvicinato, ma costellato di dissensi, con il tradizionalismo cattolico di J. de Maistre, L.-G.-A. de Bonald, F.-A.-R. de Chateaubriand, P.-S. Ballanche e delle prime opere di F.-R. de La Mennais. È da osservare che il G. conosceva bene il francese, appreso dalla madre, e, ovviamente, il latino, ma non il greco, mentre nel 1821 aveva iniziato, senza però approfondirlo, lo studio dell'ebraico e del tedesco.   In linea generale, prevalse nel giovane G. un orientamento eclettico, considerato peculiare dei "cristiani filosofi" e apertamente professato in opposizione allo "spirito esclusivo" dei sistemi, pur in un quadro teorico segnato dalla polemica antisensistica e dalla ricerca, non priva di momenti laceranti, di un punto di equilibrio tra una persistente venatura scettica e l'ancoraggio, punteggiato peraltro da corrosivi spunti anticlericali, alla religione cattolica, assunta come deposito di verità oggettive, attingibili per via razionale solo in maniera parziale e frammentaria. Oltre che sul piano teoretico, la necessità della rivelazione cristiana s'imponeva per il giovane G. sul piano pratico e politico, essendo "una religione rivelata e positiva l'organo indispensabile della morale nella società", ovvero anche "un'obbligazione sociale", chiamata a integrare "il mantenimento e l'accrescimento dei diritti", indicati come fine della politica. La ragionevolezza dell'adesione alle verità dogmatiche della fede cattolica, tenute distinte da quanto nella società religiosa vi è di accidentale e di transeunte, sostituiva, nel giovane G., l'idea di religione naturale d'impronta deistica, facendo salvi, da un lato, il principio di una rivelazione soprannaturale depositata nella Chiesa cattolica e, dall'altro, il concetto di un suo progressivo dispiegamento nella storia umana.  Membro dell'accademia ecclesiastica fondata dal Sineo e di quella dall'abate L. Solaro, il G. risentì dell'impronta - probabiliorista in campo morale e cautamente giurisdizionalista in campo ecclesiastico - della facoltà teologica torinese, da cui trasse alimento il suo vivace antigesuitismo. Addottorato in teologia il 9 genn. 1823, fu aggregato alla facoltà teologica l'11 ag. 1825, con la discussione di tre tesi: De Deo et naturali religione, notevole per la padronanza della relativa letteratura sei-settecentesca, De antiquo foedere, De christiana religione et theologicis virtutibus, la cui edizione accademica restò per quattordici anni l'unica opera del G. data alle stampe. Poco prima, il 19 marzo 1825, era stato ordinato sacerdote, dopo che la curia torinese e forse lo stesso arcivescovo C. Chiaverotti erano intervenuti per vincere la sua ritrosia all'ordinazione. Nel gennaio 1826 fu nominato cappellano di corte con uno stipendio annuo di 480 lire.  Notevoli zone d'ombra caratterizzano la fase successiva della sua biografia. La stessa renitenza del G. a tradurre in pubblicazioni l'immenso materiale accumulato, nonostante la notorietà acquisita negli ambienti colti e l'attività svolta in alcuni circoli filosofici e letterari, appare indicativa sia di una persistente fluidità del suo pensiero, sia della percezione di un sempre più chiuso clima intellettuale e politico, che il G. tendeva ad attribuire, sul fronte ecclesiastico, alle mene dei gesuiti e della "frateria" - da lui personalmente contrastati in occasione della vicenda che aveva coinvolto il teologo G.M. Dettori, allontanato dalla cattedra universitaria nel 1829 con l'accusa di giansenismo - e, sul versante politico, all'involuzione autoritaria del governo sabaudo.  Tra il 1826 e il 1833 la riflessione del G. sui rapporti tra religione e filosofia e tra religione e vita sociale seguì un percorso non lineare. Ne sono documento eloquente le lettere indirizzate a G. Leopardi (personalmente conosciuto nel 1828 a Firenze, durante un viaggio per l'Italia in cui il G. ebbe modo di incontrare anche A. Manzoni), le lettere al giovane amico e discepolo C. Verga e una lettura accademica sull'accordo della religione cattolica coi progressi della società civile (Ricordi biografici e carteggio, a cura di G. Massari, I, pp. 116-126).  Scrivendo al Leopardi da Torino il 2 apr. 1830, il G. confessava di aver professato nel passato "un puro teismo", e di aver mutato idea in seguito a nuove indagini sulla "verità del Cristianesimo (e quindi del Cattolicismo che è la sola forma invariabile di quello) come sistema dottrinale e come fatto storico", e di essere approdato a una "adesione intima, schietta, profonda alla religione cattolica", che gli aveva consentito di vincere "i fastidi, le amaritudini, i terrori, la malinconia" che fin allora lo avevano tormentato (Epistolario, I, pp. 41-44). Due anni dopo, reduce dall'aver "letto a furia" Le mie prigioni di S. Pellico, scriveva al Verga una lettera in cui, opposto "il cristianesimo di Silvio" a quello dei gesuiti, dei "nemici della filosofia e della civiltà", rivelava di essere divenuto assertore di una religione filosofica: cioè di una religione "immedesimata" e non solo conciliata con la filosofia, fondamento di una morale austera, "ispiratrice di azioni grandi e generose, e dell'oblio di se medesimo per intendere unicamente al bene della patria" (ibid., pp. 131-133).  Nei primi anni Trenta, anche in seguito alla lettura del Nuovo saggio sull'origine delle idee di A. Rosmini Serbati, il G. enunciò in modo più stringente e sistematico l'idea di una diretta connessione tra risorgimento filosofico e risorgimento nazionale, appellandosi a una tradizione filosofica autoctona, dispiegata genealogicamente da Pitagora al Rosmini, attraverso la scuola eleatica, la patristica latina, l'umanesimo e G. Vico (lettera a C. Verga, 23 dic. 1831, ibid., pp. 69-73). Dichiarandosi continuatore di questa linea ideale, il G. manifestò una speciale consonanza con il pensiero di Giordano Bruno, facendo a più riprese, in parallelo con l'evoluzione delle proprie idee politiche, professione di panteismo.  Tale collegamento è attestato da una lunga lettera, scritta probabilmente nella primavera-estate del 1833 ai compilatori della Giovine Italia e ivi pubblicata sotto lo pseudonimo di Demofilo nel 1834. Il G. vi esaltava il panteismo come la sola filosofia "destinata a fiorire un giorno col voto unanime dei buoni ingegni", affermando di avvertire nelle dottrine politiche professate dai mazziniani "un'applicazione di questi dettati" (ibid., II, pp. 5-25; cfr. anche lettera al Verga del 9 apr. 1833, ibid., I, pp. 167-172). La lettera, ripubblicata con intenti antigiobertiani nel 1849 non da G. Mazzini, come a lungo si credette, ma probabilmente da C. Cattaneo, col titolo Della repubblica e del cristianesimo, era rivelatrice di una radicalizzazione delle convinzioni del G., coinvolto in una serie di vicende destinate a mutare il corso della sua esistenza: vi si proclamava la necessità di una religione civile finalizzata alla liberazione dei popoli, ma, contemporaneamente, l'impossibilità di dar vita a "una religione veramente nuova […], tanto che i filosofi, e gli uomini universalmente cominciano a persuadersi, che fuori del Cristianesimo non v'ha religione"; e vi si accennava a una lettura escatologica, ma non solo ultraterrena, dell'idea cristiana di salvezza e di redenzione, implicante una sua dilatazione dalla sfera individuale a quella sociale, prefigurata nella promessa di un regno "da aspettarsi eziandio in questo mondo". Nell'accezione giobertiana, ispirata ora a un messianismo politico-sociale in vesti cristiane cui non erano estranei gli echi delle dottrine sansimoniane, il motto mazziniano "Dio e il popolo" diventava così il presupposto di una "cristianità novella", l'annunzio di un'epoca imminente in cui "Iddio sarà umanato non nel figliuolo dell'uomo, ma nel popolo", e destinato non alla croce, ma a un "regno stabile, a una pace perpetua, all'immortalità e alla gloria".   L'abito di prudenza e di riservatezza adottato dal G. non impedì che le sue idee destassero diffusi sospetti di ateismo anche presso i suoi superiori. Ciò lo indusse il 9 maggio 1833 a lasciare la carica di cappellano e a rinunciare al relativo stipendio. Nel frattempo si era affiliato a una società segreta, detta dei Circoli, e poi ad altra associazione patriottica di dubbia identificazione, forse i Veri Italiani; non sembra che mai entrasse nella Giovine Italia, sebbene coltivasse intimi rapporti con alcuni suoi affiliati, come l'abate P. Pallia. In seguito a delazione, fu quindi coinvolto nella repressione prodotta in Piemonte dalla scoperta della congiura mazziniana del 1833, arrestato con pesantissime accuse il 31 maggio e tenuto in carcere, senza processo, fino al settembre. Qui lo raggiunse un provvedimento immediatamente esecutivo che lo esiliava senza permettergli di incontrare alcuno dei suoi amici.  Per poco più di un anno, dall'ottobre 1833 alla fine del 1834, il G. visse a Parigi in una situazione assai precaria, che lo induceva ad autorappresentarsi nei panni di uno "sdottorato" e uno "spretato" (era privo di celebret per la messa), di uno che aveva "perduto tutto". Nonostante le relazioni intrecciate con i molti italiani insediati stabilmente o temporaneamente nella capitale francese, come il matematico G. Libri, A. Peyron, T. Mamiani, C. Botta, e con esponenti di primo piano del mondo accademico francese, come V. Cousin e J.-J. Champollion, visse in relativo isolamento, in una città che considerava il "microcosmo d'Europa" ma non amava, ascoltando le lezioni accademiche di C. Fauriel e di Th.-S. Jouffroy, impartendo per vivere lezioni private d'italiano e progettando, senza realizzarli, lavori di argomento filosofico o di polemica politica sulla sanguinosa repressione seguita alla congiura del 1833 e al tentativo mazziniano del 1834. Nella febbrile atmosfera intellettuale della monarchia di luglio il G. avvertì come sintomi di una crisi epocale, ma senza condividerne appieno i contenuti, i messaggi di rinnovamento sociale espressi dalla tarda scuola sansimoniana, da Ph.-J.-B. Buchez, dalle Paroles d'un croyant di F.-R. de La Mennais. Lo scenario parigino, che gli appariva connotato dalla totale estinzione del culto e della pratica cattolica, fornì nuovo alimento alla venatura apocalittica del suo pensiero, che gli faceva presagire come prossima la "fine del mondo; ma del mondo antico, donde sorgerà il nuovo", nel quale "gli ordini morali di Cristo" sarebbero diventati "gli ordini civili delle nazioni", compenetrando lo Stato sino a produrre "una società di uomini, retta da sé medesima, sotto la legge universale, una, libera, fiorente, morigerata, santa, ed esprimente la concordia del cielo colla terra" (lettera all'abate P. Unia, 14 maggio 1834, ibid., I, pp. 134-139). Per altro verso, si approfondiva sino a divenire inconciliabile il dissenso del G. nei riguardi della linea mazziniana e verso i movimenti insurrezionali, cui attribuiva la responsabilità di aver "impedita o spenta una metà almeno di quel civile progresso che altrimenti or sarebbe in Italia". Ne discendeva un caldo invito, rivolto ai suoi numerosi corrispondenti piemontesi, all'accorta prudenza e a un lavoro di lunga lena finalizzato a un apostolato politico basato sull'aperta propaganda delle idee patriottiche. Dall'insieme delle posizioni giobertiane dell'esilio parigino trasparivano una sostanziale sfiducia nel grado di maturazione raggiunto dalla coscienza nazionale del popolo italiano, "languido, diviso e inerte", un'attenuazione delle antecedenti pregiudiziali repubblicane e l'abbandono delle convinzioni panteistiche. Sul piano politico, il G. inquadrava ora la questione nazionale nella riapertura, ritenuta certa, del ciclo rivoluzionario in Francia e nella susseguente esplosione di una guerra europea, condizioni determinanti della liberazione dell'Italia dall'Austria e della cacciata definitiva dei "nostri tiranni".  Nel dicembre 1834 accettò, anche per ragioni economiche, l'offerta di assumere l'insegnamento di storia e filosofia nel collegio fondato a Bruxelles da P. Gaggia (un ex sacerdote italiano convertitosi al protestantesimo), che ospitava un centinaio di giovani cattolici ed evangelici. Forse anche in relazione alla più pacata atmosfera politica del Belgio, dove i cattolici erano parte attiva del sistema costituzionale sortito dalla rivoluzione del 1830, il G. proseguì nella revisione ideologica già profilatasi nel periodo parigino, prospettando più lucidamente che nel passato un'esigenza di conciliazione, che non implicasse identificazione, tra dogmatica religiosa e idee filosofiche e tra ordine soprannaturale e ordine civile. Dichiarava in proposito che, mentre in precedenza aveva immedesimato i dogmi cristiani colle idee, ora li disgiungeva, evitando di ridurre il cristianesimo a una simbolica filosofia, ma considerandolo invece "il compimento della filosofia medesima" (a P.D. Pinelli, 15 apr. 1835, ibid., II, pp. 239-243). Ne conseguì la decisione di produrre finalmente delle opere a stampa. Ai primi del 1838 vide infatti la luce a Bruxelles una sua "dissertazione religiosa" intitolata Teorica del soprannaturale, o sia Discorso sulle convenienze della religione rivelata colla mente umana e col progresso civile delle nazioni, composta in poco più di un mese sul finire del 1837 e stampata a spese dell'autore; cui seguirono, in rapida successione, l'Introduzione allo studio della filosofia (Bruxelles 1839-40), che ebbe una circolazione superiore a quella, inizialmente limitatissima, della Teorica, sebbene di entrambe le opere venisse interdetta l'introduzione nel Regno sardo; la Lettre sur les doctrines philosophiques et politiques de m. de Lamennais (dapprima anonima, nel Supplement à la Gazette de France dell'8 genn. 1841, poi con firma e con titolo leggermente mutato a Parigi-Lovanio, 1841); il saggio Del bello, composto come voce dell'Enciclopedia italiana e dizionario della conversazione (Venezia) diretta da A.F. Falconetti, e pubblicato anche come volume a sé nell'autunno del 1841, prima opera del G. edita in Italia, che doveva essere seguita da un altro testo destinato alla stessa sede, Del buono, uscito invece in forma autonoma a Bruxelles nel 1843; e le dieci lettere Degli errori filosofici di Antonio Rosmini (Bruxelles 1841; la seconda edizione, del 1843-44, portava a 12 il numero delle lettere e comprendeva altri scritti giobertiani).  Nella Teorica il G. faceva i conti con il proprio antecedente itinerario intellettuale e con le tendenze filosofico-religiose del suo tempo. L'opera, imperniata sull'analisi delle relazioni tra ordine religioso e ordine civile osservate sotto un'angolatura gnoseologica, etica e storica, aveva come principale obiettivo polemico la riduzione monistica della sfera religiosa a quella civile o viceversa, operata, secondo il G., dalle teorie razionalistiche e panteistiche, dal "cristianesimo politico" dei sansimoniani alla Buchez, dal tradizionalismo antimoderno di Maistre, Bonald e del primo La Mennais. Dalle dottrine tradizionalistiche, tuttavia, il G. prendeva, rielaborandola, l'idea di una rivelazione primitiva cui veniva fatta risalire sia l'attivazione (mediante il dono soprannaturale del linguaggio) della facoltà di conoscere e di volere e quindi l'origine della civiltà, sia l'infusione nella mente umana di verità sovraintellegibili, percepite come misteri, analizzabili razionalmente solo per via analogica, e fondanti l'ordine religioso. Ne discendeva una storia parallela, basata sul principio di distinzione e di interrelazione, della civiltà e della rivelazione religiosa, anch'essa rappresentata come progressiva, fino al suo compimento nella rivelazione cristiana, custodita integralmente e infallibilmente dalla Chiesa cattolica. Il tracciato di questo duplice cammino era per il G. contrassegnato dal progressivo incremento del ruolo della religione come "causa e stromento" di civiltà, e dal graduale accostamento degli ordini politici al modello di società organizzata costituito dalla Chiesa (visibile tra l'altro nell'applicazione alla sfera politica del sistema elettivo proprio degli ordini ecclesiastici). Emergevano pertanto dalle pagine della Teorica i lineamenti di una rilettura cattolica della genesi della civiltà moderna, in opposizione alla tesi delle sue origini protestanti, e una riaffermazione del primato della religione sulla civiltà e della Chiesa sullo Stato, che si traduceva nella confutazione dei sistemi politici, assoluti o democratici che fossero, i quali implicassero una subordinazione della religione alla volontà del sovrano. Si trattava, in definitiva, di un'apologia del cattolicesimo in senso civile, che nello scorcio conclusivo dell'opera assumeva una marcata impronta nazionale.  Tale impronta era ancora più forte nell'Introduzione allo studio della filosofia. L'opera era infatti imperniata sull'idea che toccasse all'Italia, dopo un lungo periodo di oscuramento della sua tradizione filosofica determinato dalla perdita dell'"indipendenza civile", promuovere la restaurazione della "vera filosofia", scomparsa dall'orizzonte europeo in seguito all'espulsione dell'"idea di Dio dallo scibile umano", e porre rimedio agli effetti devastanti prodotti sul piano politico dalla diffusione di falsi principî filosofici, generatori delle due contrapposte tirannidi prevalenti nel mondo moderno, quella dei despoti e quella del popoli, dipendenti "dallo stesso principio, e aventi uno scopo unico, cioè il predominio della forza sul diritto". L'Introduzione intendeva porre le basi di un organico sistema filosofico (inteso in senso molto estensivo), in grado di contrapporsi alle deviazioni psicologistiche, soggettivistiche o panteistiche della filosofia moderna generate principalmente, sul piano speculativo, dal pensiero e dal metodo analitico di Cartesio e, su quello religioso, dalla Riforma: un sistema imperniato sull'Idea, intesa, a suo dire, in un'accezione totalmente diversa da quella utilizzata dai sensisti, dagli idéologues e dai panteisti moderni (tra cui G.W.F. Hegel), e analoga invece a quella platonica e malebranchiana. Il riferimento all'Idea, intuita dalla mente umana come oggetto reale e in atto che esiste indipendentemente dal soggetto, cioè come Ente o principio ontologico e non solo gnoseologico, si realizza nel giudizio sintetico a priori o formula ideale "l'Ente crea l'esistente", che pone nell'atto creativo l'origine del mondo, e da cui scaturisce, in ragione dell'identica matrice della realtà generata e del pensiero, l'intera enciclopedia filosofica sul piano speculativo. Il principio contenuto nella formula ideale si esplica infatti in un secondo ciclo creativo che procede, a differenza del primo, dall'esistente all'Ente, e del quale è partecipe, come causa seconda, l'azione dell'uomo in quanto dotato di intelligenza e di libero arbitrio, che lo rende "in un certo modo creatore" e simile a Dio. Mentre il primo ciclo è il principale oggetto dell'ontologia, scienza dei principî, il secondo ciclo, nel quale si esplica la "vita attiva", è l'oggetto dell'etica, scienza dei fini.  Tra le molteplici applicazioni della formula ideale abbozzate nell'Introduzione assumevano un rilievo particolare quella concernente il rapporto tra religione e civiltà secondo lo schema relazionale già profilato nella Teorica, e quella riguardante la sfera della sovranità. In argomento il G., ponendo nell'Idea l'origine della sovranità, ne confutava sia il fondamento contrattualistico (visto come prodotto delle deviazioni soggettivistiche e sensistiche della filosofia moderna), sia l'identificazione con il potere assoluto di un principe. Definendo la sovranità come un processo discendente dall'Idea, ma nello stesso tempo partecipativo, il G. perveniva alla enunciazione di una formula politica (modellata sulla formula ideale), per la quale "il sovrano fa il popolo" ma "il popolo diventa sovrano", mediante "la trasformazione lenta, graduata e sicura del Demo in patriziato". Ciò si traduceva in un'apologia della monarchia civile o rappresentativa generata dal cristianesimo e già prefigurata negli ordinamenti medievali, vista come sintesi tra un potere tradizionale e un'"aristocrazia elettiva" chiamata a estendersi col progredire dell'incivilimento. Inoltre, distinguendo il diritto sovrano dal diritto del principe, il G. finiva per recuperare come "unico giure assoluto, essenziale, irrepugnabile" l'idea di sovranità nazionale, trasferendo alla nazione (una volta istituita come corpo politico) il carattere di primazia che i fautori dell'assolutismo attribuivano al principe: sino a proclamare non solo il diritto di resistenza nei confronti del principe assoluto, ma financo, in casi estremi, la legittimità della rivoluzione.   Il progetto di cui la Teorica e l'Introduzionecostituivano una prima cornice speculativa era sintetizzato in una lettera a T. Mamiani del 15 ott. 1840 (Epistolario, III, pp. 66-69), dove il G. esprimeva la convinzione che il solo modo di giovare all'Italia fosse quello di "creare una scuola di libertà temperata, morale, religiosa, italiana, una scuola di civiltà tanto aliena dal sentire dei demagoghi quanto da quello dei despoti"; indicava l'obiettivo di far della religione "una insegna nazionale" immedesimandola "col genio dell'Italia, come nazione", facendone "una di quelle idee madri che seggono in cima al pensiero degli uomini e signoreggiano ogni parte del vivere civile". Con l'aggiunta che, distinguendo "nella religione cattolica la credenza dall'istituzione" e insistendo sulla seconda, non sarebbe stato difficile convincere gli increduli che "il cattolicesimo, anche umanamente considerato, sia il migliore degli istituti religiosi possibili".  Un programma di così ambiziosa portata prefigurava un disegno in qualche misura egemonico sul piano culturale e induceva il G. non solo a entrare in diretta polemica con le opere di autorevoli esponenti del coevo pensiero europeo, come Cousin (in uno scritto concepito come appendice dell'Introduzione, ma pubblicato inizialmente a parte, a Bruxelles nel 1840, le Considerazioni sopra le dottrine religiose di Vittorio Cousin), e come Lamennais (in un opuscolo duramente critico verso le sue ultime opere filosofiche e politiche), ma soprattutto a competere con l'altro pensatore italiano, Rosmini, che aveva intrapreso a propria volta, con intenti non meno ambiziosi, un programma di edificazione di una filosofia cristiana capace di misurarsi con il pensiero moderno. Il dissenso nei suoi confronti si era già manifestato nell'Introduzione, dove alla dottrina rosminiana dell'Essere ideale era mossa la critica di perdurante e invalicabile psicologismo e perciò di soggettivismo e finanche di sensismo mascherato. Tale iniziale dissenso si tradusse in acre e prolungata polemica, specialmente in ragione dei successivi interventi dei seguaci del Rosmini, come M. Tarditi, l'abate L. Gastaldi, futuro arcivescovo di Torino, G. di Cavour, secondo i quali le tesi giobertiane menavano dritto al panteismo. Il G. ribatté colpo su colpo, incominciando dalla già citata alluvionale opera Degli errori filosofici di A. Rosmini, importante soprattutto per il fatto che l'autore vi tracciava il processo teorico attraverso cui era pervenuto alla formula ideale. Nella polemica il G. fu affiancato e sostenuto dai suoi amici e seguaci, come P. De Rossi di Santarosa, mentre risultò vano l'intervento pacificatore di N. Tommaseo.  Nella primavera del 1843, sempre a Bruxelles, il G. diede alle stampe l'opera che doveva dargli la celebrità, Del primato morale e civile degli Italiani, tirato nella prima edizione in 1500 esemplari. Concepito inizialmente come "un'operetta di non molte pagine", "un discorsetto non solo sul Papa ma sull'Italia", il Primato divenne strada facendo un ponderoso lavoro in due grossi volumi, la cui scrittura, iniziata nel 1842, procedette in parallelo con la stampa fino al maggio dell'anno successivo.  L'opera, dalla struttura sovrabbondante e magmatica, colma di formule apodittiche e di scarti lessicali, aveva tuttavia un suo asse portante nel tentativo di definire i caratteri originali e permanenti della nazionalità italiana sintetizzati in quello che il G. chiamava "genio nazionale". Plasmato da fattori naturali, come il sito geografico e la feconda mescolanza di stirpi pelasgiche ed etrusche, connotato dalla preminenza di elementi sacerdotali e aristocratici, dotato di un suo particolare "genio federativo" espresso dalla "società di popoli" realizzata dalla repubblica romana (poi tralignata in signoria imperiale), riflesso culturalmente da un'ininterrotta tradizione filosofica autoctona, il genio italico aveva trovato, secondo il G., una sua configurazione effettivamente nazionale per opera del Papato, che lungo il Medioevo gli aveva dato stabile forma avviando la traduzione in "ordini civili" dei dettati religiosi e morali del cristianesimo. Il tratto costitutivo della nazione italiana veniva così reperito in un principio ideale, convalidato tuttavia da fattori naturali di tipo etnico e confermato dalla storia: nell'essere l'Italia "nazione religiosa per eccellenza", dotata di un primato religioso determinato dal trapianto in Roma dell'Evangelo e dall'elezione provvidenziale della sede romana a sede apostolica, che si riverberava in un primato dell'Italia nell'ordine morale e civile, da cui traeva il carattere di "creatrice, conservatrice e redentrice" della civiltà europea. Il ruolo o la missione religioso-civile, che faceva degli Italiani "il nuovo Israele" e dell'Italia una "nazione sacerdotale", veniva perciò raffigurato dal G. come indivisibile da quello del Papato: il quale, mediante l'esercizio della potestà civile connaturata alla sua primazia religiosa, non solo aveva costituito la nazionalità italiana, ma le aveva altresì impresso i tratti suoi propri di nazione guelfa. Per converso, il declino della potestà civile dei pontefici, iniziato nel tardo Medioevo e culminato nell'Età moderna, si era tradotto nella decadenza, nell'asservimento politico, nella subordinazione culturale dell'Italia e nella frammentazione politico-religiosa dell'Europa. Il risorgimento italiano, concepito dal G. sullo sfondo di una riunificazione religiosa europea, veniva dunque a raccordarsi strettamente con la restaurazione della "scaduta potestà civile del Papa in modo conforme e proporzionato all'indole e ai bisogni del secolo". Tale formula conteneva il nocciolo della tesi centrale del Primato: posto che, secondo il G., l'esercizio della potestà civile pontificia, perno della più ampia potestà civile della Chiesa, era per sua natura suscettibile di assumere modalità variabili in relazione al cammino della civiltà in senso secolare, essa era chiamata a evolversi in maniera vieppiù adeguata alla propria originaria legittimazione religiosa e alla progressiva acquisizione di "indipendenza civile" e di "capacità nazionale" da parte dei popoli, assumendo le forme preminenti della forza morale, della persuasione, dell'influenza pacifica e pacificatrice. L'itinerario della potestà civile pontificia tracciato dal G. procedeva dunque dalla "dittatura", consona alle età barbariche, verso un "potere arbitrale", delimitato dal fatto di non "avere alcun effetto civile che non sia consentito alla libera [cioè liberamente] dalle parti gareggianti e deliberanti". Si realizzava così la saldatura tra la restaurazione-riforma del potere civile del Papato e il Risorgimento italiano: nel senso che la ridefinizione del primo avrebbe reso possibile l'esercizio effettivo da parte del pontefice del ruolo, mai assunto nel passato, di capo civile della nazione sotto forma presidenziale (o dogale) - un ruolo, dunque, istituzionale, analogo ma più forte di quello arbitrale -, e la contemporanea trasformazione in unità "nazionale e politica" della preesistente, ma virtuale, unità italiana senza che ne venissero toccati i legittimi poteri dei sovrani.  Quest'ultimo aspetto costituiva un altro snodo del Primato, che consentiva al G. di tracciare una via consensuale, pacifica e aliena da fratture rivoluzionarie per la costruzione dello Stato nazionale. Scartate come estranee alla natura e alla storia del genio italico le forme del dispotismo e della democrazia "demagogica" fondata sull'idea della sovranità popolare, e assumendo come punto di riferimento il riformismo settecentesco, in specie di Pietro Leopoldo e di Benedetto XIV, il G. raffigurava l'erigenda entità politica nazionale come una confederazione dei maggiori Stati italiani, retti a monarchia "consultiva" sotto la presidenza moderatrice del pontefice elettivo. La formula della monarchia consultativa veniva preferita a quella della monarchia rappresentativa per il fatto di non frammentare la sovranità, e di permettere ugualmente ai sovrani di governare secondo il voto della nazione, raccolto e filtrato da un corpo vitalizio di "veri ottimati" tratto da un'aristocrazia selezionata dal merito e dall'ingegno più che dal sangue nobiliare, agente come canale di collegamento con l'opinione pubblica. Un'attenzione particolare era dedicata dal Primato al potere dell'opinione negli Stati moderni, alle condizioni necessarie del suo sviluppo, al ruolo che il clero era chiamato a esercitarvi nel rispetto del "principio sacrosanto della libertà delle coscienze", alla funzione modernizzatrice delle élitesintellettuali. L'utopia della confederazione italiana (tale la definiva lo stesso G.) si traduceva in una forma politica composita, che richiamava in certa misura l'ordinamento ecclesiastico, caratterizzata dalla presidenza conciliatrice del pontefice, da un insieme di "aristocrazie civili e consultative, ciascuna sotto un capo ereditario investito del supremo comando", e finalizzata all'unione, all'indipendenza e alla realizzazione della libertà civile, tenuta distinta da quella politica, cioè costituzionale.  Scritto come libro "moderatissimo" per non "irritare gli animi" e consentirgli di circolare per tutta la penisola (il che accadde, nonostante gli interdetti dell'Austria e il divieto di smercio nello Stato pontificio), con l'esplicita intenzione di raccogliere i più ampi consensi, il Primato lasciava deliberatamente da parte argomenti di più immediata rilevanza politica, che pure il G. affermava di aver originariamente previsto, quali il predominio dell'Austria o la laicizzazione del governo dello Stato pontificio. Il Primatosegnava inoltre un ripiegamento rispetto ad alcune delle tesi sviluppate nell'Introduzioneallo studio della filosofia e conteneva positivi apprezzamenti nei riguardi della Compagnia di Gesù. Accolto con favore in ambienti laici ed ecclesiastici, compresi quelli gesuitici, ma stroncato da G. Ferrari nel quadro della polemica antigiobertiana che percorreva il suo saggio La philosophie catholique en Italie (uscito in due puntate sulla Revue des deux mondes nel marzo-maggio 1844, cui il G. rispose con una lettera pubblicata in appendice alla seconda edizione di Degli errori filosofici di A. Rosmini), il libro contribuì in modo rilevante alla formazione dell'opinione nazionale, pur a prezzo o forse in ragione delle sue reticenze e dissimulazioni, trovando una naturale collocazione nel contesto del riformismo moderato degli anni Quaranta, specialmente in Piemonte, grazie anche all'apologia, presente in certe sue pagine, della missione nazionale riservata allo Stato sabaudo sotto il profilo militare, e all'esaltazione del riformismo carloalbertino: temi subito ripresi e sviluppati, in senso più marcatamente sabaudista ma anche meno proclive all'idea del primato italiano, nelle Speranze degli Italiani di C. Balbo (che sul finire del 1844 ebbe parte principale nella nomina del G. a socio nazionale non residente dell'Accademia delle scienze di Torino). Di segno opposto furono le accoglienze riservate al Primato da G. Mazzini e dai neoghibellini. La prima edizione del Primato - la cui lettura era resa ancora più ardua dalla mancanza di un indice analitico - andò rapidamente esaurita, e il G. provvide tra il 1844 e il 1845 ad allestirne una seconda corretta, stampata dallo stesso tipografo belga, e comprendente un lungo testo introduttivo, che venne tirato a parte in 2000 copie col titolo di Prolegomeni del Primato. Qui il G. abbandonava alcune delle originarie cautele, con un pronunciamento a favore della monarchia rappresentativa e con un'acre denuncia degli orientamenti settari attivi nella Chiesa e identificati in particolare nell'Ordine gesuitico o, per meglio dire, nel "gesuitismo" inteso come categoria morale contrapposta al "cattolicismo" e incompatibile con la civiltà moderna e i suoi valori nazionali. Ciò innescava un'aspra controversia, destinata ad aggravarsi e a prolungarsi nel tempo, con eminenti scrittori della Compagnia, segnatamente con F. Pellico, fratello di Silvio, e C.M. Curci, non senza il sostegno e l'incoraggiamento del padre generale J. Roothaan.  I Prolegomeni segnavano una prima sterzata rispetto alle tonalità ecumeniche del Primato, e il riaffiorare nel G. di una virulenta vena polemica che trovò un successivo sfogo nella pubblicazione del Gesuita moderno, apparso a Losanna nel 1846-47. Una parte non trascurabile nella vicenda ebbe il passaggio del G. da Bruxelles a Parigi (1845), reso possibile dall'autonomia finanziaria assicuratagli dalla buona riuscita della sottoscrizione promossa a Torino da P.D. Pinelli per una nuova edizione delle sue opere complete. A Parigi, ove rinsaldò l'amicizia con G. Massari (divenuto nel frattempo suo discepolo e ammiratore), il G. si trovò nel pieno dello scontro sulle scuole delle congregazioni e nel cuore delle controversie sulla Compagnia di Gesù innescate dai corsi tenuti al Collège de France da E. Quinet e da J. Michelet. Soprattutto, suscitò grande eco nell'animo del G., che ne avrebbe tratto a più riprese corrosivi spunti antigesuitici, il coinvolgimento della Compagnia nei coevi conflitti politico-religiosi della Svizzera, sfociati poi nella guerra del Sonderbund.  Impostato come una replica alle critiche dei padri Pellico e Curci, Il gesuita moderno si trasformò strada facendo in un farraginoso lavoro in cinque volumi (l'ultimo dei quali di documenti) scritto dal G. in uno stato di tensione e di inquietudine che lo induceva a sospettare di una sistematica opera di spionaggio messo in atto da emissari della Compagnia nei suoi confronti. L'opera era un concentrato di argomenti antigesuitici ricavati dalla storia e collegati dall'idea dominante già abbozzata nei Prolegomeni: la radicale e irrimediabile ostilità dello spirito gesuitico, in quanto pervaso da misticismo, lassismo morale e autoritarismo, a un cattolicesimo civile, ispiratore del movimento nazionale. Nel rappresentare il gesuitismo come il principale e più subdolo nemico del Risorgimento, il G. prendeva anche in considerazione, in un'appendice al quinto volume, le tesi enunciate dal p. L. Taparelli d'Azeglio nel saggio Della nazionalità (1846), dove si affermava non essere l'indipendenza politica un attributo necessario della nazionalità, e veniva definito inammissibile il perseguimento di uno Stato nazionale se in conflitto con i diritti dei sovrani. Il G. vi contrapponeva un'idea di nazionalità come "creatrice di diritti", fattore sostanziale e incoercibile di identità di un popolo, in tal modo proclamando non solo l'incomponibile divaricazione tra due idee di nazionalità, ma anche prendendo definitivo congedo dalle sfumature legittimistiche del Primato.  Gli eccessi polemici del Gesuita moderno, singolarmente contrastanti con la moderazione del Primato, gli valsero un'accoglienza controversa e suscitarono non poche critiche anche da parte di cattolici liberali come Balbo, Rosmini e Tommaseo; ma assicurarono ulteriore udienza e popolarità all'autore e un'ampia circolazione, superiore a quella del Primato, all'opera, che non era stata interdetta dalla censura ecclesiastica ed era venuta a cadere in una fase in cui il vento antigesuitico spirava forte negli Stati europei (la seconda edizione, del 1847, fu tirata in 12.000 copie).  I cambiamenti avvenuti nella Chiesa e nella situazione italiana con l'elezione di Pio IX e l'accelerazione del movimento riformatore, gli atteggiamenti assai cauti, se non riguardosi, del nuovo papa, già lettore del Primato, nei confronti del G., e, viceversa, il moltiplicarsi delle critiche al Gesuita modernoin Italia e più ancora in Francia, specialmente per mano dell'archeologo Ch. Lenormant, indussero il G., sul finire del 1847, a porre mano a un nuovo lavoro, l'Apologia del libro intitolato "Il gesuita moderno", con alcune considerazioni intorno al Risorgimento italiano (Bruxelles e Livorno 1848). Qui la rinnovata battaglia contro il gesuitismo, estesa ora al partito francese dei "laici ipercattolici" capeggiato da Ch. de Montalembert, veniva a connettersi più direttamente con i progressi compiuti nel frattempo dal movimento nazionale e interpretati dal G. come una totale convalida delle proprie tesi. Sennonché, tra l'inizio della stesura e della stampa, progredita assai lentamente, e la conclusione del lavoro, compiuto nell'aprile 1848, erano intervenuti il sovvertimento della scena politica europea con la rivoluzione parigina del febbraio (direttamente osservata e idealmente difesa dal G.), la concessione degli statuti da parte dei maggiori sovrani italiani, la rivoluzione di Vienna e la crisi dell'Impero austriaco, l'insurrezione milanese, l'avvio della guerra in Italia. Inoltre la Compagnia di Gesù era stata espulsa da molti Stati, tra cui quello sabaudo, tanto da far pensare al G. che i gesuiti, dei quali aveva auspicato in lettere private l'espulsione, fossero "morti politicamente", pur continuando a sopravvivere "i loro spiriti". Tutto questo impose un rifacimento del capitolo finale dell'opera, più legato all'attualità, e la stesura di un lungo proemio, datato Parigi 8 apr. 1848, in cui i fatti italiani, a partire dalla rivoluzione siciliana del gennaio, entravano prepotentemente nella sua analisi, rendendo il libro ancor più eterogeneo nei suoi contenuti e il suo titolo ancor più inadeguato, ma accrescendone pure di molto l'interesse. L'opera vide finalmente la luce, in quattro edizioni quasi contemporanee, quando il G. era ormai ritornato a Torino.  Molteplici elementi imprimevano all'Apologiail tono di un manifesto programmatico, in linea con i numerosi interventi avviati dal G. su alcuni giornali liberali come la Patria di Firenze, l'Italia di Pisa, il Risorgimento e soprattutto la Concordia di Torino, diretta da L. Valerio: in primo luogo, l'esaltazione, condotta con toni volutamente forzati, dell'azione riformatrice di Pio IX, nel quale il G. indicava l'incarnazione provvidenziale del pontefice da lui stesso preconizzato, guida del Risorgimento nazionale interpretato come "un evento religioso, europeo, universale", promotore di "una rivoluzione fondamentale negli ordini umani del cattolicesimo" e di una metamorfosi del Papato da "aristocratico e monarcale" a "popolano e democratico come nelle sue origini"; in secondo luogo, la perorazione per la sollecita creazione di un regno costituzionale dell'Alta Italia sotto la dinastia dei Savoia, accompagnata dalla confutazione dei programmi municipalisti e repubblicani. Per altro verso, l'Apologia portò allo scoperto, sotto la sollecitazione degli eventi, venature del pensiero giobertiano in precedenza tenute in ombra, riflettendone gli approdi più recenti. Il libro era tutto attraversato dal tema della democrazia, non tanto intesa come ordinamento politico, ma quale prorompente e benefica "rivoluzione, che per la mole, l'estensione, la natura, l'importanza, la durata, non si può comparare a niuna di quelle che la precedettero, la quale avrà per ultimo esito di conferire al popolo la piena signoria delle cose umane"; rivalutava, rifacendosi alle opere di A. de Lamartine e di J. Michelet, l'opera dei giacobini nella Rivoluzione francese; assegnava a meta conclusiva del movimento nazionale, dopo la necessaria fase federativa, la costituzione di uno Stato unitario, accennando a una sua futura trasformazione in senso repubblicano; individuava il solo modo di perpetuare la monarchia pontificia in una riforma costituzionale dello Stato della Chiesa, che consentisse al papa, in quanto principe temporale, di regnare senza governare e di realizzare la "separazione assoluta del governo spirituale dal temporale".  Quando rientrò a Torino, il 29 apr. 1848, dopo oltre quattordici anni di esilio e accolto da entusiastiche manifestazioni, il G. era reduce da una prima cocente delusione politica, determinata dall'annuncio confidenziale, pervenutogli a Parigi e seguito da immediata smentita, della sua nomina a ministro dell'Istruzione nel gabinetto Balbo, fatta cadere dal veto di Carlo Alberto, che gli era e gli restò ostilissimo. In compenso, in un collegio torinese e in uno genovese era appena stato eletto a sua insaputa alla Camera subalpina, che alla metà di maggio lo proclamò proprio presidente. Fino alla fine di luglio, tuttavia, il G. non mise piede in Parlamento, perché ai primi di maggio, accompagnato da don G. Baracco, già era partito per una lunga peregrinazione politica, che lo avrebbe portato a Milano (dove ebbe un incontro col Mazzini), al quartier generale piemontese di Sommacampagna (dove fu ricevuto da Carlo Alberto), poi, attraverso la Lombardia e l'Emilia, a Genova, a Livorno, a Roma (dove soggiornò due settimane e fu ricevuto in tre diverse udienze da Pio IX), e infine, per l'Umbria e le Marche, a Bologna e a Firenze, donde rientrò, via Genova, nella capitale sabauda. Il viaggio per l'Italia, avvenuto in una fase in cui la guerra federale contro l'Austria aveva ricevuto un colpo letale dall'allocuzione di Pio IX il 29 aprile - il cui significato il G. tentò invano di minimizzare - e dalla reazione borbonica di maggio, fu tanto indicativo dei vertici raggiunti dalla popolarità del G., ovunque fatto oggetto di accoglienze trionfali e talora deliranti, e tanto ricco d'incontri con i più vari circoli politici, quanto povero di durevoli risultati. Nel corso di tale viaggio, affrontato con lena missionaria, il G. propagandò fervidamente alcune idee-guida: in nome della concordia nazionale combatté a spada tratta le ipotesi repubblicane di ogni genere, i movimenti da lui tacciati di municipalismo, i progetti per un'assemblea costituente, che finì tuttavia per ritenere inevitabile e non pericolosa a certe condizioni; invocò il pronto accoglimento dei voti di unione al Regno sabaudo del Lombardo-Veneto e la proclamazione di un forte regno dell'Italia settentrionale; tentò con la medesima energia di rilanciare la soluzione federale, contro i riaffioranti particolarismi statali e dinastici, non esclusi quelli del Piemonte; si adoperò per un consolidamento del sistema costituzionale a Roma, utilizzando anche i propri rapporti di amicizia con il ministro T. Mamiani.  Analoghi programmi il G. sostenne durante la breve vita del gabinetto Casati, al quale fu aggregato dal 29 luglio, giusto all'indomani del disastro di Custoza, in qualità di ministro senza portafoglio e poi dell'Istruzione, facendosi personalmente promotore della missione del Rosmini presso Pio IX, finalizzata alla stipulazione di un trattato confederale e di un nuovo concordato. Ma la firma dell'armistizio Salasco (9 ag. 1848) e l'interruzione della guerra con l'Austria lo colsero di sorpresa. Di fronte alla svolta che portò alle dimissioni del governo Casati, il G. abbracciò posizioni assai impopolari presso i moderati, dapprima avversando e poi perorando una richiesta di aiuto militare alla Repubblica francese, combattendo a spada tratta la richiesta di una mediazione diplomatica franco-inglese, schierandosi per una ripresa della guerra in una cornice federativa quanto mai inattuale. Le ombrosità e le ambizioni del G., che aspirava alla presidenza del Consiglio, ebbero modo di tradursi in aperto dissenso politico in occasione della formazione del governo presieduto da C. Alfieri di Sostegno (poi da E. Perrone di San Martino), che pure includeva tre amici del G. come il Pinelli, in posizione preminente, F. Merlo e Santarosa. Al nuovo ministero il G. dichiarò guerra aperta con un opuscolo dai toni aggressivi, I due programmi del ministero Sostegno (Torino 1848). Accusato il nuovo governo di spirito municipalista, cioè di disinteresse per le sorti degli altri Stati italiani, il G., che aveva lasciato il seggio parlamentare in occasione della sua nomina ministeriale, tentò, facendo appello all'opinione pubblica nazionale, di promuovere una politica alternativa basata sull'idea di una Costituente federativa con mandato limitato, da contrapporre sia all'inerzia del governo piemontese in carica, sia ai programmi di Costituente agitati dai gruppi democratici radicali. Fu quindi coinvolto nella fondazione della Società nazionale per la confederazione italiana, che tenne in ottobre a Torino il suo primo e unico congresso. Preceduto da un suo infiammato indirizzo "ai popoli italici" (dov'erano tra l'altro adombrati gli irreparabili guasti religiosi di un eventuale "funesto scisma d'Italia e di Roma") e aperto da un discorso introduttivo in cui il G. denunciò le colpe dei "repubblicani pratici" e le "disorbitanze dei democratici schietti e dei comunisti", il congresso si concluse con la faticosa elaborazione di un progetto di Costituente federativa e con la proclamazione del carattere irrevocabile della fusione delle regioni settentrionali nel Regno dell'Alta Italia.  Rieletto alla Camera nella tornata suppletiva del 30 settembre e nuovamente asceso alla presidenza dell'Assemblea, dopo le dimissioni del governo da lui accanitamente avversato il G. ebbe a metà dicembre l'incarico di presiedere il nuovo ministero, in cui assunse anche il dicastero degli Esteri. Salito alla presidenza del Consiglio non più come simbolo di unità e di concordia ma come esponente di maggior spicco dell'opposizione, nel discorso programmatico del 16 dicembre definì il proprio ministero con l'appellativo di democratico, cioè, come disse, volto a innalzare la plebe "a dignità di popolo", a serbare rigidamente l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge comune, a provvedere agli interessi delle province, con implicito riferimento alla difficile situazione genovese, a "corredare il principato d'istituzioni popolane, accordando con gli spiriti di queste i civili provvedimenti"; manifestò inoltre l'intenzione di riprendere la guerra interrotta, di promuovere una Costituente federativa italiana, e proclamò il diritto degli Stati italiani - di fatto, il diritto dello Stato sabaudo, cui attribuiva apertamente una funzione egemonica - di intervenire negli altri Stati della penisola per evitare sommovimenti rivoluzionari o interventi militari stranieri. Il G. s'inoltrò pertanto in una politica nazionale alquanto avventurosa, seppur coerente con il principio, carico di valore ideale ma povero di forza normativa e da lui ribadito in documenti ufficiali, per il quale egli affermava la sussistenza di un diritto della nazionalità, preminente sulle vigenti istituzioni politiche e imperativo nelle relazioni tra gli Stati italiani. Venne così progettando invii di truppe sarde nei punti critici della penisola e si propose come indesiderato mediatore tra i sovrani italiani e i loro popoli. Del tutto vani si rivelarono i suoi insistiti tentativi di intermediazione tra Pio IX, rifugiatosi a Gaeta, e la commissione provvisoria di governo di Roma, intesi a ricondurre il pontefice nel suo Stato con l'appoggio di truppe piemontesi subordinato al mantenimento degli ordini costituzionali; e volti nel contempo a impedire l'ingresso del Mazzini in Roma e la convocazione della Costituente italiana.  Sul finire dell'anno il G. chiese e ottenne dal sovrano lo scioglimento della Camera e l'indizione per il 22 genn. 1849 di nuove elezioni, che videro il suo personale successo in dieci collegi del Regno, ma produssero un'Assemblea decisamente sbilanciata sulla Sinistra democratica. Poco attento agli equilibri parlamentari, che considerava con un certo disdegno, abbandonate le velleità di convincere Ferdinando di Borbone e gli indipendentisti siciliani ad affidare alla Costituente federativa la composizione del loro prolungato conflitto, s'addentrò in un'avventura militare che doveva riuscirgli fatale. Dopo aver lungamente tentato, grazie anche ai suoi buoni rapporti con G. Montanelli, di indurre il governo democratico toscano a più moderati consigli circa i ventilati progetti di Assemblea costituente, posto di fronte alla traduzione di tali progetti in legge operativa e alla successiva fuga di Leopoldo II, il G. predispose in gran segretezza un intervento armato piemontese in Toscana, per riportare il granduca sul trono preservando il sistema costituzionale. La conoscenza del disegno, rivolto contro un governo di orientamento marcatamente democratico, e degli atti compiuti per realizzarlo, provocò la sollevazione del Parlamento sardo, una frattura profonda nella compagine ministeriale e le dimissioni del presidente del Consiglio, accolte di buon grado il 21 febbraio dal sovrano, pronto a sostituirlo con il generale A. Chiodo. Per sostenere le ragioni della propria politica, invisa ormai alla maggioranza dei gruppi parlamentari di ogni orientamento, il G. dette vita, in marzo, a un giornale politico, il Saggiatore, sul quale intervenne il 17 marzo per invocare l'unità degli spiriti in occasione della ripresa della guerra con l'Austria, da lui perorata ma ora altamente disapprovata per i modi in cui era avvenuta. Dopo Novara l'abdicazione di Carlo Alberto e l'ascesa al trono di Vittorio Emanuele II, il G., su invito del Pinelli, accettò di entrare come ministro senza portafoglio nel nuovo gabinetto presieduto da G. De Launay, nonostante il solco profondo che lo divideva dal primo ministro e dai suoi orientamenti conservatori, e di assumere l'incarico di inviato straordinario del Regno sardo a Parigi. L'indeterminatezza del compito affidatogli e gli atti poco amichevoli compiuti dal governo piemontese nei suoi confron ti non appena giunto a destinazione, indicavano che il vero significato della missione era quello di togliere di mezzo l'incomodo personaggio, anche per favorire le trattative di pace con l'Austria. Il G., che aveva preso a tessere relazioni con vari personaggi della vita politica francese e inglese, tra cui A. de Tocqueville, reagì con la consueta irruenza, troncò ogni rapporto ufficiale con il Regno sardo dimettendosi da deputato, da ministro e da inviato straordinario, manifestò a chiare lettere il suo pessimismo sulla situazione italiana, espresse il suo distacco dal Piemonte anche con la decisione di restituire le somme pervenutegli per l'edizione delle sue opere, e si ritirò in un secondo, volontario esilio.  Si aprì per il G. un altro periodo operosissimo sul piano intellettuale e di riflessione, non certo distaccata, sugli eventi di cui era stato protagonista. Nella corrispondenza privata, tutta intessuta di riferimenti alla situazione italiana, francese ed europea, ebbe modo di reagire, con sarcasmo misto ad amarezza, alla condanna comminata il 30 maggio 1849 dalla congregazione dell'Indice al suo Gesuita moderno, adottando pubblicamente la linea del silenzio anziché quella della sottomissione. Sul piano politico espresse a più riprese la convinzione che le idee repubblicane, colorate di socialismo, fossero in fase di inarrestabile ascesa, affermando, in una lettera del 1851, di vedere all'opera una Provvidenza tinta di rosso "perché ordina tutto al trionfo vicino o lontano di questo colore". Si dichiarava altresì fautore di un ordinamento scolastico saldamente nelle mani dello Stato, in quanto promotore e responsabile dell'"educazione nazionale", della gratuità dell'istruzione primaria, dell'assistenza pubblica ai vecchi, agli ammalati e "alla povertà che non trova da lavorare".  Mentre nella primavera del 1851 usciva a Capolago, per iniziativa e con un'introduzione del Massari, una raccolta di lettere, interventi e discorsi dalla fine del 1847 all'inizio del 1849, con il titolo di Operette politiche, il G. riprese in mano i propri lavori di argomento filosofico e religioso, editi e inediti, ma soprattutto si dedicò alacremente alla stesura di una nuova opera di ampio respiro che volle si stampasse a Parigi sotto la sua sorveglianza, pur affidandone la pubblicazione all'editore torinese Bocca: era Del rinnovamento civile d'Italia, che vide la luce nel novembre del 1851, in due volumi, il secondo dei quali contenente anche una nutrita parte documentaria.  Il Rinnovamento si presentava come una riflessione politica che, prendendo spunto dalla ricostruzione critica e storica degli eventi del '48, affrontava il tema generale delle mutate condizioni interne e internazionali in cui l'unificazione nazionale avrebbe ripreso il suo cammino. Il libro proclamava la fine della fase del Risorgimento e l'inizio della fase del rinnovamento, concepito come parte integrante "di un moto comune a quasi tutta l'Europa": il primo si era mosso nella logica di una trasformazione graduale delle cose, il secondo avrebbe assunto "aspetto e qualità di rivoluzione"; il primo era stato movimento autonomo, governato dalle condizioni dell'Italia, il secondo sarebbe dipeso "in gran parte dai fatti esterni"; il primo aveva dovuto limitarsi all'obiettivo di un sistema federale "perché non ve n'era altro possibile", il secondo non poteva escludere una possibile, e benefica, accelerazione storica verso l'unificazione politica. Su questa falsariga il G. affrontava dettagliatamente, traendo lezione dagli errori che a suo giudizio erano stati commessi da tutte le forze nazionali, una serie di argomenti di grande impegno: l'insostenibilità del potere temporale dei papi, "la maggiore anticaglia superstite dell'età nostra", dannoso all'Italia, all'Europa e soprattutto al cattolicesimo come causa di subordinazione del Papato alle forze della reazione interne ed esterne; il posto e la natura del partito conservatore e del partito democratico nella "politica nazionale"; le condizioni alle quali il Piemonte, "il paese più scarso di spiriti italici", dominato da una classe politica di patrizi e di avvocati "inclinati al municipalismo", guidato da una dinastia "stata finora impropizia all'ingegno, aristocratica e municipale", e nondimeno l'unico ad aver preservato gli ordinamenti costituzionali, poteva svolgere quel ruolo egemonico su scala nazionale che solo avrebbe salvato la monarchia sabauda da un fatale declino. Un argomento che l'autore adduceva a convalida delle proprie tesi, e che, diversamente dal Primato, implicava l'attribuzione al Regno sardo di un ruolo anche morale (pur rimanendo una futura "Roma laicale e civile […] il principio ideale della risurrezione italica"), era la politica ecclesiastica inaugurata dalle leggi Siccardi: un passo verso la "separazione assoluta tra le due giurisdizioni", la temporale e la spirituale, costituente "la prima base della libertà religiosa, che tanto è cara ai popoli civili", cornice necessaria alla formazione di un clero "liberale e sapiente", capace di purgare la religione "dagli errori e dagli abusi che la guastano".  Ma il Rinnovamento era pure un discorso di "scienza civile", secondo la definizione giobertiana, intessuto di riferimenti a Machiavelli, ma condotto sulla base dei "bisogni principali dell'età nostra, il predominio del pensiero, l'autonomia delle nazioni e il riscatto della plebe": a soddisfare i quali il G. poneva come condizioni l'esistenza di governi liberi, la costituzione di Stati a misura nazionale, il funzionamento di ordini civili atti a promuovere l'innalzamento della plebe a popolo. Per tale aspetto una funzione determinante veniva attribuita, da un lato, all'"ingegno", cioè alle élites intellettuali, chiamate a imprimere unità e coesione alla "sciolta moltitudine", e a impedire che sotto il simulacro della democrazia trionfasse invece la demagogia dei numeri e delle masse; dall'altro lato, alle riforme economiche, "unico riparo al comunismo politico", se volte a ripartire e a regolare le ricchezze (anche con l'imposta progressiva) e non a inaridire le sue fonti. Il Rinnovamento, percorso tra l'altro da fremiti antiborghesi, rifletteva una visione del movimento nazionale quale luogo d'incontro e d'interazione tra le "aristocrazie dell'ingegno", tratte dal popolo e da questo riconosciute, e le plebi anelanti al proprio riscatto sociale, garantite da una monarchia non solo costituzionale, ma anche schiettamente popolare.  Nel pubblicare il Rinnovamento il G. era convinto che l'opera sarebbe incorsa nell'interdetto della Chiesa; quando apprese che il S. Uffizio, con decreto del 14 genn. 1852, aveva condannato tutte le sue opere, in qualunque lingua pubblicate, si consolò col rilevare che, "involgendo nella proscrizione anche quegli scritti che furono conosciuti da tutti per irreprensibili", si erano meglio manifestati il puntiglio di Pio IX e la vendetta dei gesuiti.  I pesanti giudizi su figure eminenti della classe politica subalpina di cui il Rinnovamentoera cosparso, provocarono una tempesta di polemiche, cui il G. rispose con due opuscoli del 1852, il primo dei quali conteneva una risposta (che non cambiava, ma semmai aggravava la sostanza di quei giudizi) alle risentite reazioni di U. Rattazzi, di F.A. Gualterio e del generale G. Dabormida; il secondo intitolato Ultima replica ai municipali, aveva soprattutto di mira il Pinelli e C. Bon Compagni, schieratosi a difesa del vecchio amico del G. e ormai divenuto uno dei suoi bersagli preferiti, il quale si era ammalato gravemente nel bel mezzo della diatriba. La morte del Pinelli, sopravvenuta quando già l'opuscolo era stampato, creò grande imbarazzo al G., che stese a tamburo battente un Preambolo in cui rendeva giustizia sul piano personale alla figura del defunto, decidendo in seguito, dopo vari tentennamenti, di far distruggere le oltre 1200 copie già stampate dell'Ultima replica - di cui restò un solo esemplare - e di mettere in circolazione esclusivamente il Preambolo (Parigi e Torino 1852).  Fu l'ultima opera edita lui vivente: in assoluta solitudine il G. morì infatti improvvisamente, nel suo modesto appartamento di Parigi, il 26 ott. 1852.  Tra le sue carte rimase una mole imponente di frammenti manoscritti e di opere incompiute e inedite, costituenti nel loro insieme una specie di continente sommerso, non meno rilevante, per la conoscenza del suo pensiero, degli scritti da lui dati alle stampe. Questo materiale manoscritto fu in parte pubblicato postumo, con scarso rigore, dal Massari che, nel quadro di un'edizione delle opere inedite giobertiane, di cui uscirono a Torino 10 volumi, diede alle stampe nel 1856 i frammenti Della riforma cattolica della Chiesa e la Filosofia della Rivelazione, seguiti nel 1857 dalla Protologia, forse la maggior opera filosofica del G. maturo, che ne aveva incominciato la stesura negli anni Quaranta. Nel 1910, a cura di E. Solmi, furono editi, con criteri non meno discutibili, i frammenti della Libertà cattolica e della Teorica della mente umana, insieme con il dialogo Rosmini e i rosminiani. In seguito La riforma cattolica e La libertà cattolica furono ripubblicate, in modo più corretto, da G. Balsamo Crivelli nel 1924, e da G. Bonafede, insieme con la Filosofia della Rivelazione, nel 1977 e, lo stesso anno, nell'edizione nazionale delle opere, da C. Vasale. Appartenenti per la maggior parte alla produzione che il G. aveva definito "acroamatica", le opere postume, pur nel loro stato di incompiutezza, rivelano un G. che si confrontava in maniera più diretta con la critica della religione sviluppata dalla cultura primo-ottocentesca, anche nelle sue espressioni radicali. L'obiettivo di questi lavori era la dimostrazione dell'adeguatezza del cattolicesimo, liberato dalle sue deformazioni temporalistiche, autoritarie e "iper-mistiche", nel rispondere ai bisogni intellettuali e morali dell'uomo moderno. A questo fine il G. assumeva come fondamento del suo rinnovato discorso religioso-filosofico la nozione cattolica di tradizione, facendone il criterio ermeneutico dell'evoluzione storica delle forme religiose e dello sviluppo del cristianesimo in senso secolare. Ne derivava un'interpretazione molto audace per la sua epoca del rapporto tra libertà e autorità in materia religiosa e, in generale, della dogmatica cattolica. Tali opere dimostrano che il pensiero giobertiano in materia religiosa si era vieppiù spostato dall'asse della riforma ecclesiastica o politica a quella della riforma religiosa. Ciò spiega anche la riscoperta del G. in epoca modernistica; senza trascurare tuttavia che una parte molto consistente della cultura dell'Ottocento e del Novecento si è misurata con l'eredità giobertiana, dall'idealismo al federalismo (specialmente meridionale), dal gentilianesimo al nazionalismo e quindi al fascismo, dal popolarismo di L. Sturzo alla cultura democratico-cristiana.  Fonti e Bibl.: La principale raccolta di manoscritti giobertiani è quella giunta dopo varie vicende in possesso della Bibl. civica di Torino, che li conserva in 55 voll., 54 dei quali rilegati nel 1912 in maniera alquanto arbitraria e classificati in un indice sommario: si tratta di carte che il G. aveva con sé al momento della morte, riguardanti i frammenti miscellanei giovanili, appunti ed estratti di lavoro, e gli autografi delle opere più tardive, pubblicate postume. Alla stessa biblioteca sono anche pervenute una parte della biblioteca personale del G. (il cui principale nucleo fu peraltro venduto all'incanto dopo la sua morte), poche decine di sue lettere autografe e circa 2500 lettere di corrispondenti, il cui indice è stato pubblicato nel 1928 col titolo Le carte giobertiane della Bibl. civica di Torino da G. Balsamo Crivelli, al quale risale anche La fortuna postuma delle carte e dei manoscritti di V. G. ora depositati nella Bibl. civica di Torino, in Il Risorgimento italiano, IX (1916), pp. 665-694; cfr. anche P.A. Menzio, Cenni sulle carte e sui manoscritti giobertiani, in Atti della R. Accad. delle scienze di Torino, LI (1915-16), pp. 659-675. Manoscritti autografi riguardanti Il Rinnovamento sono conservati nella Bibl. nazionale di Napoli e presso l'Istituto per la storia del Risorgimento italiano di Roma, quasi integralmente pubblicati a cura di L. Quattrocchi nel III volume (Inediti) del Rinnovamento, ed. nazionale, Roma 1969.  L'Epistolario, a cura di G. Gentile - G. Balsamo Crivelli, I-XI, Firenze 1927-37, è lungi dall'essere esaustivo; le lettere sono riprese, salvo rari casi, da precedenti edizioni a stampa come: V. Gioberti, Ricordi biografici e carteggio, a cura di G. Massari, I-III, Torino 1860-63; Il Piemonte nel 1850-51-52. Lettere di V. Gioberti e G. Pallavicino, a cura di B.E. Maineri, Milano 1875; D. Berti, Di V. G. riformatore politico e ministro con sue lettere inedite a P. Riberi e G. Baracco, Firenze 1881; Lettere inedite di V. Gioberti e saggio di una bibliografia dell'epistolario, a cura di G. Gentile, Palermo 1910; Lettere di V. Gioberti a P.D. Pinelli, a cura di V. Cian, Torino 1913; G. - Massari. Carteggio (1838-52), a cura di G. Balsamo Crivelli, Torino 1920; Carteggio Lambruschini - Gioberti, a cura di A. Gambaro, in Levana, III (1924), pp. 277-409. Un numero cospicuo di lettere al G. fu pubblicato col titolo di Carteggio di V. Gioberti, I-VI, Roma 1935-38, in un'edizione che comprende lettere di P.D. Pinelli (a cura di V. Cian), di I. Petitti di Roreto (a cura di A. Colombo), di G. Baracco (a cura di L. Madaro), di G. Bertinatti (a cura di A. Colombo), di "illustri italiani" e di "illustri stranieri", a cura di L. Madaro. L'Edizione nazionale delle opere edite e inedite, avviata nel 1938 con la riedizione dei Prolegomeni del Primato, a cura di E. Castelli e affidata nel tempo a tre editori diversi, è giunta al vol. XXXVIII, con il secondo tomo dei Pensieri numerati, a cura di G. Bonafede, Padova 1995: comprende ormai tutte le principali opere del G., pubblicate con criteri non omogenei. Materiale giobertiano continua peraltro a venire alla luce: per es., Appunti inediti di V. Gioberti su R. Cartesio. La storia della filosofia, a cura di E. Bocca - G. Tognon, Firenze 1981.  Le principali bibliografie giobertiane sono quelle di A. Bruers, G., Roma 1924, che comprende circa 1400 titoli, fino al 1923, e di G. Talamo, in Bibliografia dell'età del Risorgimentoin onore di A.M. Ghisalberti, I, Roma 1971, pp. 168-172. Tra le voci enciclopediche: G., V., di G. Saitta, in Enc. Italiana, XVII; di L. Stefanini, in Enc. Cattolica, VI; di C. Mazzantini, in Enc. Filosofica, III; di F. Traniello, in Dict. d'hist. et de géogr. ecclésiastiques, XX. Per una sintesi delle interpretazioni: G. Bonafede, G. e la critica, Palermo 1950. Tra le opere più recenti: E. Passerin d'Entrèves, Ideologie del Risorgimento, in Storia della letteratura italiana (Garzanti), VII, L'Ottocento, Milano 1969, pp. 333-364; A. Del Noce, Gentile e la poligonia giobertiana, in Giornale critico della filosofia italiana, IL (1969), pp. 222-285; G. Derossi, La teorica giobertiana del linguaggio come dono divino e il suo significato storico e speculativo, Milano 1970; F. Traniello, Cattolicesimo conciliatorista. Religione e cultura nella tradizione rosminiana lombardo-piemontese (1825-1870), Milano 1970, pp. 31-51 e passim; E. Pignoloni, G. e il pensiero moderno, in Rivista rosminiana, LXIV (1970), pp. 155-175, 231-247; LXV (1971), pp. 4-23; Id., Le postume giobertiane nel giudizio della critica, ibid., LXV (1971), pp. 167-186; G. Martina, Pio IX (1846-1850), Roma 1974, pp. 64-70, 180-189 e passim; C. Vasale, L'ultimo G. fra politica e filosofia. Appunti sulle origini ottocentesche dell'ideologia in Italia, in Storia e politica, XV (1976), pp. 201-261; R. Romeo, Cavour e il suo tempo, II, Roma-Bari 1977, pp. 238-245, 338-341, 362-368 e passim; A. Galimberti, G., Gentile, Rosmini, in Giornale critico della filosofia italiana, LVIII (1978), pp. 172-187; C. Vasale, Riforma e rivoluzione nel G. postumo, in Storia e politica, XVIII (1979), pp. 395-441, 621-665; A. Rigobello, V. G., in Christliche Philosophie im katholischen Denken des 19. und 20. Jahrhunderts, a cura di E. Coreth, I, Graz-Wien-Köln 1987, pp. 619-642; S. La Salvia, Il moderatismo in Italia, in Istituzioni e ideologie in Italia e in Germania tra le rivoluzioni, a cura di U. Corsini - R. Lill, Bologna 1987, pp. 169-310; F. Traniello, La polemica G. - Taparelli sull'idea di nazione e sul rapporto tra religione e nazionalità, in Id., Da G. a Moro. Percorsi di una cultura politica, Milano 1990, pp. 43-62; Id., Il cattolicesimo riformato di V. G., in Storia illustrata di Torino, a cura di V. Castronovo, Milano 1992, IV, pp. 1101-1120; G.P. Romagnani, V. G., A. Chiodo, G. De Launay, M. d'Azeglio, Roma 1992; C. Vasale, Il significato del federalismo giobertiano nella storia d'Italia, in Stato unitario e federalismo nel pensiero cattolico del Risorgimento, a cura di G. Pellegrino, Stresa-Milazzo 1994, pp. 215-245; L. Pesce, Peyron e i suoi corrispondenti. Da un carteggio inedito, Treviso 1997, pp. 457-471 e passim; G. Rumi, G., Bologna 1999; G. Cuozzo, Rivelazione ed ermeneutica. Un'interpretazione del pensiero filosofico di V. G. alla luce delle opere postume, Milano 1999.  INDICE LIBRO PRIMO. INTRODUZIONE. Cap. 5. La sovrintelligenza Sezione seconda.ConceTTO,METODO E DIVISIONE DELLA FILOSOFIA (Dommatismo) Sezione prima .COSTRUZIONE DEL PRIMO TERMINE DELLA FORMOLA (l'Ente ). CAP. 1. Definizione del Primo.Distinzione del Primo psicologi c o e d e l P r i m o o n t o l o g i c o . Il P r i m o f i l o s o f i c o CAP. 2. Il Primo filosofico S I.Caratteristica del Primo filosofico Giobertiano.Po l e m i c a c o n t r o R o s m i n i . p a g . 1 3 2 - 1 5 8 - ) . II . Il P r i moèl'Entereale.Cosasialarealtà.Giob.nonar riva a dirlo chiaramente. Difello e pregio del suo concello della reallà (del concreto:unità del positi 55-72 72-99 vo e del negativo).pag.158-164. CAP. 3. Deduzione della realià dell'Ente dal concetto dell'Ente. 164-185 D. I. Dal giudizio l'Ente è non si deduce la realtà del. 126-185 1 2 6 - 1 3 1 131-16%  3 1 CAP. 1. L'intuito . pag . 1-99 . O ľ Ente. Sicontradiceall'ontologismo.- Sicon 100-119 Sezionc prima.LA CONOSCENZA CAP . 2. La riflessione psicologica CAP. 3. La riflessione ontologica Cap.4.Laparola. . 3-14 14-20 21-55 LIBRO SECONDO.COSTRUZIONE DELLA FORMOLA IDEALE   fondelarealtàcolpuroesserepag.165-170.- .II. Personificazione dell'Ente pag. 170-178.- S .III. Abbozzo della vera via di dedurre la realtà dell'Ente. Realtàosussistenza= intelligibilitàoidealità.Giob. non adempiequestaesigenza.pag.179-184.-Con . . 186-264 Cap.1.RelazionetraEnte edEsistente.Processoaprioriea posteriori.(Causa ed Effetto) . II.Prova dell'intuito (Identità dei due ordini ,onlo logico e psicologico.Verità dell'atto creativo).pag. 206-246. - S.III. L'intuito come prova dell'atto creativo.Dommatismo.Gioberti,Platone,Schelling ed Hegel.pag. 216-220. CAP. 3. Prove indirelte dell'intuito 248-253.- $. I. Lo spirito è produzione di sè stesso.pag. 253-260. – S. III.Intuito dell'intuito. $.II.Falsoconcellodellalibertàenecessilàdel pen  242-247 CAP. 4. Conseguenze della dottrina dell'intuito. 540 . 198-220 S.1.OntologismoePsicologismo.pag.200-206.- S. S.I.Epilogo:mancanza didialettica.pag.272-274- o 272-282 CAP. 2. L'intuito come conoscenza dell'atto creativo . .248-264 $.I. L'intuito immediato è la conoscenza empirica.pag. CAP.1.Epilogo.Confusione del(primo)pensabile edel(pri mo )conoscibile. . 266-272 Cap. 2. Falso concello del pensiero speculativo 189-198 265-311 . . 220-247 S. I. Duplice ordine psicologico: intuitivo e riflessivo. chiusione di tutta questa Sezione pag.184-185. Sezione seconda.COSTRUZIONE DEL SECONDO E TERZO TERMINE DELLA FORMOLA . Gioberti e Rosmini.Insussistenza delle ragioni re c a t e d a G i o b e r t i p e r d i f e n d e r e il p r i m o o r d i n e c o m e condizione del secondo : il concetto dell'infinito condizione del concelto del finito (concello dell'Ente condizione del concetto dell'esistente).La relazione ei suoi termini. L'ordine intuitivo come cognizione nonèchelascienza.pag.220-234.- S.I.Nuova instanza di Gioberti: concello del Necessario e del contingente. pag.235-241.- $.III,L'intuito del l'atto creativo è lo stesso processo a posteriori pag. pag.260-264. Sezione ( il N o o ) . terza,L'INTUITOSPECULATIVO O IL PENSIERO PURO   $.I.Prima prova delloSpinozismogiobertiano.pag. Cap. 5. Epilogo sulla identità e differenza tra Spinoza e Gio berti. Sezione terza,L'INTELLIGIBILITA'. $ . I.Identilà di crcazione e illustrazione.La vera i m m a 372-381 381-390 397-415 324 349  . 541 LIBRO TERZO.CONTENUTO DELLA FORMOLA 324-333.- $.II.Seconda S. III.Si considera di nuovo l'intuilo.Caralleristica. (Contenutodell'altocreativo)(Dio-Quantilà). 350-390 CAP. I. Caralleri dello Spinozismo:loro contradizione.Concello generaledelladifferenzatraSpinozaeGioberti. 350-356 Cap.2. Anticipazionedelconcello diDiocomerelazioneasso lula.Confradizione. Doppio concello dell'esislenic (ediDio) CAP . 3. Dio Quantità. Lo spirito : contradizione. La vera dili 356-364 collà . Cap. 4. Soluzione: Dio come Sviluppo. (Prima di Kant e dopo 364-372 Kant) nenza.Difetto delloSpinozismo.Doppia intelligibi. lità delle cose.pag.398-402.- S.II.Difficoltà con tro la immanenza nel sensibile.Paragone della co " gnizione colla visione.Meccanismo nello spirito.Con cello dello spirito (del conoscere ).Kant; l'empirismo. prova. pag. 333-344. - 306-311 siero.pag.274-279. S.III.Confusionedell'lilea CAP.1. FalsoSpinozismo(Diosemplicesostanza,noncausa).317-323 CAP. 2. Vero Spinozismo (Diosostanza causa). 317-349 e della rappresentazione.pag.279-282. CAP. 3. Relazione del pensiero puro coll'esperienza . 283-300 CAP.4.IlNoopassivoèilsenso 301-306 CAP, 5. L'Innatismo . IDELAE (Spinozismo). Sezioneprima.SPINOZISMO(forma dell'alto creali vo:meccanismo) pag.344-349. Sezione secondo.DIFFERENZA TRA GIOBERTI E SPINOZA. . .[ CAP. 1. Intelligibile assoluto CAP.2. Intelligibile relativo.Fondamento dellasoluzionedel problema 391-415 391-397   Gioberti riunisce idue difetti.pag.403-411.- S.III. Rispostaalla difficoltàprecedente,everoconcetto dell'intelligibilerelativo.pag.411-415. LIBRO QUARTO .COGNIZIONE DELLA REALTÀ DE CORPI, E ORIGINE DELLE IDEE, COME PROVE INDIRETTE DELLA FORMOLA .PASSAGGIO AL MISTICISMO. Sezioneprima.COGNIZIONEDELLAREALTA'DE'CORPI. .420-467 Cap. 1. Gioberti non ammette la prova,ma l'inluito della realtà dei corpi . . 426-429.S.II.Ragioni del realismopag.429.- S. III.Necessità di un principio superiore: cos'è. Galluppi:criticatodaGioberti.pag.430-437– ). IV.Certezza e verità.Fede e Scienza.Certezza e ve denza metafisica,efisica.Critica. pag.456-467. Sezione seconda.Origine delle idee.pag. precedenti,especialmentediRosmini.La generazio 483-489.S II.La dipendenza logica.a )Distinzione delSovrintelligibile edell'Intelligibile.Significato econseguenzadiquestadistinzione.b)Ragionee So  C a p . 2 . I d e a l i s m o e R e a l i s m o ( i m p e r f e t t i ): i d e a l i s m o a s s o l u t o ; certezzaedevidenza .. . . . 420-425 .425-443 9. Ragioni dell'idealismo;e suo difello.Rosmini.pag. . . . 468-538 Cap. 1. Significato generale della quistione.Critica de'filosofi . .479-526 S. I. Distinzione de'concelli in assoluti e relativi.pag. . .468-479 ritàdelmondo pag.437-443. CAP. 3. Dottrina propria di Gioberti sulla cognizione de'corpi; 542 e certezza ed evidenza di questa cognizione ..444-467 . 1. 1. Significato e difficoltà del problema . 2. solu zione:l'Individuazione (creazione:creareèindivi d u a r e ) . G i o b . p o n e b e n e il p r o b l e m a , m a n o n l o r i solve.Anzifaimpossibileogni soluzione;incono scibilità dell'alto creativo nella sua essenza.Perples silàdiGioberti3.Critica.pag.444-456– $.II. Certezza dellacognizione de'corpi.1. Distinzione della certezza in fisica e metafisica. 2. L'evidenza come fondamento della certezza in generale.3. Evi ne ideale (analisi e sintesi )pag. CAP. 2. La produzione ideale giobertiana : attività sintetica ori ginaria. Critica di questa dottrina   vraragione ( Ente cd Essenza ); dipendenza logica e generazione.Contradizioni.Doppio sovrintelligibile: Unità delle delerminazioni razionali , e Trinilà divi na.c)L'ldea come pura ragione o unilà delle deter minazioni razionali. Moltiplicilà astralla e unilà a stratla ( pura sintesi o dipendenza logica,e pura a nalisi ).Vera unità: unità della sintesi e dell'analisi; lamoltiplicitàcome momento dell'unità;unità- pro cessoassoluto.pag.489-509. -S.Ill.Larelazione del concello relativo coll'Ente ( creazione ). a ) D u e ipotesi:generazione,e creazione.Risultato ;assur dilà dell'allo creativo come punto di passaggio tra l'Ente e l'esistente.La creazione è l'aulogenesi dello spirito. b).La creazione è in sè generazione. Conse  guenze di questa dolirina pag.509-526. C A P . 3. Risultato generale deila doitrina di Gioberti sulla p r o duzioneideale.— PassaggioalMisticismo Elenco di Opere di Vincenzo Gioberti possedute dalla Biblioteca Nazionale di Torino (*) De Deo et naturali religione, de antiquo foedere, etc. Taurini, Bianco, 1825, in-8°. Teoricadelsovrannaturale.Brusselle,Hayez,1838,in-8°. La stessa. Torino, Ferrerò e Franco, 1849, in-8°. La stessa. Accresciuta d’un discorso preliminare e inedito intorno alle calunnie di un nuovo critico. Capolago, Tip. Elvetica, 1850, 2 tomi in 1 voi., in-8°. Degli errori filosofici di Antonio Rosmini. Brusselle, Hayez, 1841, in-8°. La stessa. Brusselle, Meline, 1843, 3 voi. in-8°. La stessa. Capolago, Tip. Elvetica, 1846, 3 voi. in-8°. Del primato morale e civile degli Italiani. Brusselle, Meline, 1843, 2 voi. in-8°. (i) Elenco favorito con gentile premura al Comitato Editore dal Prefetto della Biblioteca Nazionale Cav. Avv. Francesco Carta.   284 La stessa. Capolago, Tip. Elvetica, 1846, 5 voi. in-16°. Prolegomeni del primato morale e civile degli Italiani. Brusselle, Meline, 1846, in-12°. Introduzioneallostudiodellafilosofia.Brusselle,Hayez, 1840, 2 tomi in 3 voi., in-8°. Lastessa.Secondaediz.,Brusselle,Meline,1844,4vo¬ lumi in-8° Considerazioni sopra le dottrine religiose di Vittorio Cousin. Brusselle, Meline, 1844, in-8°. Il Gesuita moderno. Losanna, Bonamici, 1846, 5 vo¬ lumi in-8°. Lastessa. Torino, Fontana, 1848, 5 tomi in 3 voi., in-8°. Lastessa.Capolago,Tip.Elvetica,1847,7voi.in-16\ Apologia del libro intitolato « Il Gesuita moderno », con alcune considerazioni intorno al risorgimento italiano. Parteprima.Parigi,Renouard,1848,in-8\ DelBuono.Brusselle, Meline,1843,in-8°: La stessa. Capolago, Tip. Elvetica, 1845, in-16°. Essai sur le Beau, ou éléments de philosophie esthétique, traduìtde l’italien par Joseph Bertinatti. Brusselle, Meline, 1843, in-8°. Del Bello. Firenze, Bucci, 1845, in-8°. Allocuzione di un filosofo cattolico a Pio IX. Torino, 1847, in-12°.   285 Discorso pronunziato nell’adunanza generale per l’aper¬ tura del Congresso nazionale federativo la sera del 15 ot¬ tobre1848nelTeatroNazionale.Torino, G.PombaeC., 1848, in-8°. IdueprogrammidelMinisteroSostegno.Torino,Fontana, 1848, in-8°. Antiprimato papale e l’automatismo romano distrutto dal VangeloedaiSantiPadri.Torino,1850,in-16°. Lettre sur les doctrines philosophiques et Politiques de Lamennais.Capolago,Tip.Elvetica,1850,in-8°. Delrinnovamentociviled’Italia.Parigi, Crapelet,1851, 2 voi. in-8°. Operette politiche. In « Documenti della guerra santa d’Italia », voi. VII. Capolago, Tip. Elvetica, 1851. Preambolo dell’ultima replica ai Municipali. Parigi, Mar- tinet, 1852, in-8°. Risposta a Urbano Rattazzi. Sopra alcune avvertenze di Filippo Gualterio. Al Generale Dabormida. Torino, Ferrerò e Franco, 1852, in-8°. Della filosofia e della rivelazione, pubblicata per cura di GiuseppeMassari.Torino,ErediBotta,1856,in-8°. Pensieri e giudizi sulla letteratura italiana e straniera, raccolti ed ordinati da Filippo Ugolini. Firenze, Barbèra, 1856, in-12°. Della protologia, pubblicata per cura di G. Massari. Torino, Eredi Botta, 1857, 2 voi. in~8°.   286 Profezie politiche intorno agli odierni avvenimenti d'Italia. Torino, 1859, in~l2°. Pensieri, Miscellanee. Torino, Eredi Botta, 1859, 2 voi. in-8°. Ricordi biografici e carteggio, raccolti per cura di Giu¬ seppe Massari. Torino, Eredi Botta, 1860-62, 2 vo- lumi, in-8°. Studi filologici desunti da manoscritti di lui autografi ed mediti fatti di pubblica ragione per cura dell’avvo¬ catoDomenicoFissore.Torino,Tip.Torinese,1867, in-8u gr. Una lettera a Terenzio Mamiani in data del 28 maggio 1834, pubblicatadaVincenzoDiGiovanni.Roma,Tip.delle Terme, di a. Balbi, 1894, in-8°. Lettera sugli errori politico-religiosi di Lamennais. Vincenzo Gioberti e Giordano Bruno. Due lettere inedite, pubblicatedaG.0.Molineri.Torino, L.Kourt:eC. 1889, in-8°. Vincenzo Gioberti e Giorgio Paìlavicino. Lettere per cura di B. K. Maineri. (Piemonte (II) negli anni 1850-51-52). Milano,FratelliRechiedei,1875,in-l&'. METAFISICA PREAMBOLO. ONTOLOGIA PARAGRAFO 1. Dell'Enle, come concreto e reale. PARAGRAFO 2. Dell'Ente, come astratto ed ideale, CATEGORIA I. 86 CATEGORIA 4 . 104 PARAGRAPO . I. Dell'atto creativo. TEOLOGIA RAZIONALE-PARTE GENERALE. PARTE SPECIALE : 143 velazione e della Civiltà colla Reli . 161 'ART. 3. D. Primo Storico CATEGORIA 2. 91 100 CATEGORIA 6 . PARAGRAFO. 2. Del tempo e dello spazio. C A P . II. Delle convenienze della ragione colla R i COSMOLOGIA PARTE GENERALE, 3& 120 ivi   LOGICA fato,della fortuna e del destino,dell'ac cidente e della necessità. PARTE SPECIALE Della sovrintelligenza e del desiderio PARTE GENERALE. PARTE SPECIALE Della diffinizione e della divisione. 269 271 ART. 5. Del metodo. PARTE SPECIALE  284 , 253 pag. 193 • 204 221 227 234 gressisti , 110230 * 233 ART. 1. ART,2. PARAGRAFO 2. Della volontà umana . 212 218 PSICOLOGIA PARTE GENERALE. CAP. II. Dellefacoltàdellospiritoumano. ART. 4. Det raziocinio e delle sue forme esteriori. 273 A r t . 6 . Dell'arte critica. 9 C A P . I. Del 1. Ciclo generativo e Cosmogonico ART. 3, della forzacosmica.. 216 • 26 278 266 ART . i. Della proprietà delle parole. . C A P , I. Delle proprietà dell'uomo . ART. 1 Art. 2. ART. 2. 280 ART. 3. Dei giudiziie delleproposizioni. FINE DELL'INDICE.E SOMMARIO ITRE ULTIMI ANNI DI VITA,E LE OPERE POSTUME Prima di esporre la filosofia acroamatica si compie il ritratto della vita dell'autore- Giobertisiritiranellavitaprivata- come eiparla disè stesso cercadirompereognilegamenonpurecolGoverno, macogliuomini-comesostienelavita– lapovertàdiluidàoccasione adunattogenerosodelRosmini— pertenersiprontoastampareal cuna opera utile all'Italia non vuole dettare un Discorso sull'Alfie ri- qualieranoicasiimprovisichepoteanoindurloastampare— perchè opinava più probabile che la repubblica francese non ca desse — concetto che egli avea di Luigi Napoleone - i n che fu fal laceilsuo giudiziosullaFrancia— nellametà del51 pone inlucc il Rinnovamenlo – intento di questo libro : sua convenienza e diffe renzacolPrimato– censuratuttietuttocoll'intendimentochefae cia pro nell'avvenire - - -rottura col Pinelli e coi municipali - pole micaconesi— mortedelPinelli--sibrucianolecopiedel'opu scoloUltimareplicaaimunicipali— l'autorelascialapoliticaeri volge il suo animo tutto al le opere nuove da pubblicare — forse la troppatensionedimenteglinocque- morteimprovisaedoloreuni versale— quantodannofuallascienzaeallareligione– vocazione diGiobertinonmancataperlamorteintempestiva— leoperepostu me– quando furono scritteprimaodopoil48?- ilconcettoeil titolo di esse furon suggerito dalle circostanze o ne sono indipen denti?– Tuttociòcheoraèstampatoappartenevaadessesecondo l'intendimento dell'autore ? - - c quale fu quest intendimento ? - gli scritti postumi sono solo l'apparecchio e imateriali delle opere che volevadarealaluce- ildisegnoperòv'apparisce:qual'èdesso?-  CAPITOLO PRIMO   ragioni che rendono difficile a cogliere la connessione e la verita della dottrina contenuta nei detti scritti---apparente antinomia di cssa dottrina -come ho proceduto io per afferrarne l'unità e la germanaintenzione inqualformamisonrisolutodiesporla-fu benecheilMassaricurasselapubblicazionediessiscritti– pote vanoperòesseremeglioordinatidariuscirepiùintelligibili– ladot trina del Gioberti è più difficile di quella dell'Hegel. CAPITOLO SECONDO PRELIMINARI La filosofia acroamatica non è contraddittoria all'essoterica , ma solo tanto diversa - nesso tra l'una e l'altra — differenze della cognizione direttaospontaneadelRosmini,edelCousindalpensiero imma nentedelGioberti Doppiostatodelpensieroumano caratteri dellostatoriflessivoedellostatoimmanente– l'intuitodell'ente differisce da quello dell'esistente — in che consiste la strellezza spe cialedell'enteintelligibilecolpensieroimmanente -comel'attività dello spirito coesiste coll'Ente senza che questo sia subbiettivato condizioni proprie dello stato immanente - si rimuove una obbiezio nc-dell'attivitàumana -suodoppiostatoedifferenzedell'unostato dal l'altro- - della personalità — l a penetrazione del pensiero nello slalo immanente è diversa dalla compenetrazione dello stato successivo triplice proprietà del pensiero immanente analoga a tre momenti dell'ente- lospiritosebbeneunapersonanelpensieroimmanente non subbicttivizza la cognizione - l'ordine psicologico è proprio della riflessione:suofondamentoontologico– anchepropriodellarifles sione è l'ordine cronologico - che fa il tempo -- onde nasce il ripie gamento della intuizione sovra se stessa— falso modo d'intendere la visioneideale cheèlavitaanterioredescrittadaPlatonenelFe d r o - d i f f i c o l t à d i c o g l i e r e il p e n s i e r o i m m a n e n t e - - - l a d i s t i n z i o n e b e n nelladellaintuizionedallariflessionecorreggeladottrinaplatonica- obiezione del Grote - come vi si risponde - - dei giudizii – doppio giul. dizioobiettivo- lospiritoescedallostatoimmanente coll'affermare eglil'Ente-comesiafferrailpensicroimmanente- delmodocome  502 3.42   possediamo le idee - le quali nascono per via didisgregazione, non di generazione— deigiudiziianaliticiesintetici- sichiarisceundub bio-delraziocinio dellafilosofia:suadefinizione--filosofiaprima qual'è;sua distinzionedall'ontologia-obiezione contro laProtologia: risposta -dellacircuminsessionedeiveri:suaradice -criteriodelve ro - onde nasce l'evidenza e la certezza scientifica— che è un siste m a scientifico - in che senso i principii dipendono e sono illustrati dalle conseguenze — le une non sono affatto eguali in valore agli al tri--dell'ipotesi,deipostulati,edegliassiomi- seiprincipiisono astratti , onde si trae la concretezza , senza di che la scienza non avrebbevalore?- IlPrimodellascienzaèlaFormola ideale-c0 me siprova che è ilPrimo -mutua collegazione e dipendenza delle verità secondarie e primato relativo della formola -- l'unità scienti fica deve salire e fondamentarsi nell'unità ideale trasparente all'in tuito - il processo non fa la scienza perfetta - questa risulta dalla in tima unionedellacognizioneriflessivacollaintuitiva--dell'Ultimo della scienza – la parola è il passaggio dal pensiero inimanente al s u c cessivo - onde si cava la necessità della parola per l'uso del pensiero riflesso - origine del linguaggio : tre opinioni - - -sentenza dell'aulo re- comepuòdirsicheilsegnodellinguaggioèunitoal'Idea unità della dottrina di Gioberti su questa materia . CAPITOLO TERZO DOTTRINA DELL'ENTE C o m e l'unità e semplicità di Dio si accorda colla moltiplicità degli a l tributi - dell'unione dei contraddittorii in Dio - - trasformazione dia letticadeidiviniattributi— Hegelcontuttiipanteisticonfondeil processopsicologicocol'ontologico-l'antropomorfismoéopera del l'imaginazionenondellaragione dellafuturizionedivina-Iddioè insieme sovrintelligibile e intelligibile- negatività di Dio- come co nosciamol'Assoluto?— Dioèpersonale:obiezioni,risposte— Dio produttività infinita-lapotenzialitàel'attualitàsonodiverseinDio enellecreature- Dioèliberoenecessario- èbuono- l'esistenza di Dio è verità intuitiva pel pensiero immanente , dimostrativa pel  503 43-94   504 DOTTRINA DELLA CREAZIONE L'ideadicreazioneportasecoperduerispettil'ideadinulla—delcan 95-124  successivo- laprovadimostrativamiglioretraggesidallanozione dell'infinito- processoprotologicoedesplicativodelleattribuzioni dell'Ente - attribuzioni esterne ed interne- doppia eptate - dell'in finito;onden'abbiamol'idea- èdeterminato;mas'intendenonsi comprendedella presunzione divina dell'infinito potenziale nel suo atto — antinomie rislessive:ipanteisti frantendono l'idea dell'infi nito - assurdità dell'infinito nunerico - distinzione dell'infinito pos sibile o potenziale dall'attuale - due infiniti: ilrelativo e l'assoluto dell'infinito aritmeticomonadico. giamento-l'atlocreativoèunoinsè anchenell'estrinsecoéper fetto-puossiconsiderarepertrerispetticomeinfinito– l'infinità potenziale del finitosuppone ilpossesso attuale,benchè finito, del l'infinitàattuale-incheconsistesiffattopossesso— l'attocreativo intervieneintutto— ècausachel'unitàdell'Ideasisparpagliain molteidee- igenerisonovari-lavarietàspecificadellecosede riva dalla maggiore o minore intensità dell'atto creativo CAPITOLO QUARTO zioneèdivisioneemoltiplicazione- rispettoall'esistentel'attocrea tiyo è sintetico e analitico - differenza della causalità finita dall'in finita-cheèilcronotopo--suaunità- comedall'unitàdell'istante edelpuntosibiforcailtempoelospazio— l'intervalloèuno-5e nesidelcronotopo- doppiovaloredelpuntoedell'istante- dell'in ternitàedell'esternità- l'unitàdelcontinuosirappresentainordine lospazioeiltempohannouncentro al discreto sotto tre aspetti— del passato , sintesi del continuo e del discreto nei modi del tempo -- del presente e del futuro- l'eternità non cresce — doppio continuo , attualeepotenziale -infinitazionedelcronotopo-inchesensoilmon do è cterno - ogni epoca e stato mondiale è una palingenesia verso il p a s s a t o , e u n a c r e a z i o n e v e r s o l ' a v v e n i r e - il c r o n o t o p o e l ' u n i v e r soinfinitisonorealicomeintelligibili– l'indivisibilitàdelcronotopo dal pensiero colto dal Kant- del pensiero divino e umano-- interio la crea   DOTTRINA DELL'ESISTENTE debbonsidiresull'esistente- questosomigliaall'entepereffettodella creazione- incheconsistel'improntadell'entecheportainsèl'esi stente diversosensodatodall'autoreallevocimetessiemimesi quale è il senso che in quest'opera si dà alla prima -- distinzione dellapotenzaedell'atto- metessipotenziale,intermedia,eattuale l a m i m e s i - e s s e n z i a l e a l l e f o r z e c r e a t e è il c o n c r e a r e e il g e n e r a r e : prove- carattere del primo momento dello sviluppo dinamico -- due 64 125-166  505 Difficoltà di esporre la materia-nesso delle cose dette con quelle che ritàeesterioritàdelpensieroumano irrazionalitàdelvero nella s u a c o n c r e t e z z a - c o m e il p e n s i e r o u m a n o c o n o s c e il c o n t i n u o - l ' i m manenzadell'eternodatocidalpensiero— l'estensioneeladurata esprimono ilimitidell'esistente — Dialettica;ildiverso,ladualità, lamoltiplicitàappartengonoall'essenzadellacreazione- incheversa ladialetticaeondetraeilnome duedialettiche:realeeideale che forma il moto o vita dialettica- la dialettica consta di due m o menti,sebbene sembra che constidi tre- glieterogenei,cioè idi versi ed opposti,non sono contraddittorii---differenza della eteroge neità dalla contraddizione –secondo un certo rispetto l'eterogeneità èinDio-l'opposizioneriguardailnegativodellecose- ilcontrap postoèdiversodall'opposizione- glieterogeneiimportanogliomoge neieviceversa-cheèilterzoarmonicoodialettico come mai il conflitto dialettico pruduce l'armonia — uell'unione dell'omogeneo ed eterogeneo quale prevale— ciò che è l'opposto in natura è l'antino mianellascienza– dellaantinomiarealeedell'apparente– della guerra- lapolemicaèlaguerranell'ordinedelpensiero- delloscet ticismo - lo scetticismo obbiettivo non è sofistico -che sono l'errore e la colpa - due periodi distinti della storia della filosofia - - -divisione eriunioneèilprocessouniversaleedialettico- diversitàdiprocesso delladialetticadell'Enteediquelladell'esistente dellaschemato logia - - -della sofistica - - - il moltiplice e il conflitto son ridotto ad unità ed armonia mediante la mediazione dell'infinito. CAPITOLO QUINTO 1   ciclidellavirtùconcreativadelleesistenze realtàd'unaintelli gibilitàrelativa- ilsensibileèlafugadell'intelligibilerelativoda sèstesso,lasuamoltiplicazione,diversificazioneerottura-prove causa percuil'intelligibilecreatosimanifestacomesolosensibile negliordinideltempo differenzadellanostradottrinadaquelladei sensisti — nozioni che racchiude l'idea del sensibile- la successiva distruzioneerinnovazione delle forme sensibilièilnisusdiessoa diventareintelligibili- ilsensibileconsisteessenzialmentenelare lazione tra l'uomo intelligente e la natura intelligibile - del sensibile interno ed esterno - se il sensibile può o no conoscersi- si chiarisce ilsignificatodellaparolasensibile- ilsensibileschiettononsipuò pensare- prova che la sensazione non è lacognizione- qual'èl'og getto della cognizione del sensibile - - come si risolve l’antinomia ap parenteditrovareinescogitabileilsensibileepurepoterlopensare la dottrina nostra è la sintesi delle diverse dottrine precedenti Galluppi,Rosmini,Platone- nelladottrinadiGiobertinonbisogna confondere l'intelligibile assoluto,l'intelligibilerelativoeilsensi bile- la teorica dell'intelligibile relativo non annienta ilsovrintelli gibile— siviendivisandopiùparticolarmentelamimesi—mimesi prevalente-esteriorità,apparenza,fenomeno,conflitto,passaggio, metamorfosi-la gerarchiamimeticadeglienticonsistenellavarietà deigradiconativi-sinotanoiprincipali dellaluce-lamaggiore intelligibilità nella natura corporea si manifesta mediante la finalità , dell'uomo;ilcorpo,chiloforma —delsonnoedeisogni—l'istinto l'anima e il corpo in parte diversi , in parte uni - doppio stato del la vita;latenteeinanilesta—duevitedell'uomo- dellepassioni:la gloria,lamalinconia,lanoia- facoltàdell'animo:ilsenso,l'imagi nazione,lamemoria,laragione— lescoperteeitrovatiapparten gono allo sviluppo metessico del Cosmo -- che cosa è la scienza- lo spirito creato è l'anima del mondo , lo spirito uniano è l'anima della lerra- gl'intelligibiliintelligentirelativinonsonogiàdellosteso generedue speciedimentalità -cheèilpensiero- inchesifonda l'identitàdelmondo- metessiprevalente:suadefinizione-doppia u n i t à , la d i v i n a d e l l ' a t t o c r e a t i v o , e l ' u n i t à m e t e s s i c a e c o n c r e a t i v a dellarelazione;essasovrastaaiterminichelacostituiscono- due relazioni--natura speciale della relazione che corre tra l'Ente e l'esi  506   CAPITOLO SESTO DECORSO DELL'ESISTENTE Del progresso : che n'è il tipo e il principio – il progresso considerato 167-250  507 stente— l'azione finita è reciproca , quindi inseparabile dalla passio no:l'unitàloroèlarelazione,larelazioneinfinitaè unamla rela zioneèilveraceassoluto cherappresentalarelazione essaè l'appicco del finito coll'infinito - riscontro del vero col mondo - le relazioni sono nelle cose,enon solo nello spiritonostro,enella mente divina -- falsità della dottrina dell'Hegel che pone l'assoluto e il concreto nelle sole relazioni - la specie non è un'astrattezza la specie non è l'idea specifica-metessicamente non si distingue il tutto dalle parti- come raffigurarci la concretezza della potenza - dellecontagionimoraliemateriali- l'armoniadellamimesierumpe sempreerisiedesostanzialmentenellametessiiniziale diversità della metessi mimetica dalla finale -dell'implicazione e dell'inter nitàdellecose- qual'èilprogressometessico- v'èunapermanenza metessica di ciò che passa mimeticamente- Idea,metessie mimesi - ilpassaggiodellamimesiècreazioneeannientamente- accordodi dueopinioniopposte- trecondizionimondiali— vanitàdellecose umane inquantopassanoesiannullano- delladottrinadiProtago ra- scienzamimeticaemetessica--Comemaiilrealepuòrassomi gliarsiall'ideale?- Comemaiilfinito,ilrelativoecontingentepuò rassomigliareilnecessario,l'assolutol'infinito? Comemailecose materiali possono rassomigliare il pensiero ? in riguardo alla metessi iniziale, alla mimesi ,e alla metessi linale lamimesièprogressivaneiparticolari,soloregressivanel genera le- ilregressoèleggedelprogresso– l'andamentocosmicosial terna di progressi e di regressi— la vita è la sintesi e il dialettismo del progresso e del regressoma conferma di ciò si trova nell'esame dell'uomo,dellareligione,dell'arteedellascienza- ilprogressoquan do è passato diventa regresso - accordo dei progressisti e dei regres sisti-delaperiodicità– ècircolareeregressivadisuanatura— ha luogo nelle parti dell'universo, non nel tutto - la forza rallenta   508 tricenecessariaallasocietàcomeallanatura seilprogressosia reale o apparente --- la periodicità perfetta è sola apparente - corso migliorativodituttol'universo- ilprogresso nascedall'intreccio deltempocollospazio- Individuoegenere--processoestrinseco dell'atto creativo- l'evoluzione è nelle idee , nella metessi , non già nell'Idea—checosaèlagenerazione- essenzialeallagenerazione è l'idea di specie, la quale non è astratta soltanto- la generazione è l'estrinsecazione più viva della metessi specifica delle cose,eap partieneallamimesi -dellasessualità—dov'èilprincipiogenerativo se nello sperma o nell'uovo- della donna e dell'uomo - la sessualità riscontratacolladialettica dellafemminilitàedellavirilità–del conjugio — dell'individuo compiuto e in che consiste la sua essenza e valore -- l'individuo e l'Idea sono nell'ordine attuale idue estre midellarealtà— influenzadelpensieroneglieffettidellagenera zione la generazione e la nutrizione sono le principali azioni tantodelcorpoquantodellospirito— altreconsonanzetrailcorpo e l'anima - del psicologismo e dell'ontologismo - come ci può essere concretamente insegnata l'attinenza del genere coll'individuo -due classi d'individui- - se l'individuo è sparito dinanzi alle masse - che cosaèlaplebe- relazionedell'ingegnocollamoltitudine -comepuò affermarsi che nell'ingegno v’abbia qualcosa del divino - Dell'amo r e , d o v ' è il s u o t i p o , e q u a l e n ' è l ' e s s e n z a - l ' a m o r e a s s o l u t o e i n finito è l'identità --ch'è l'amore rispetto all'esistente nello stato m i mctico dell'amoreattivoedelpassivo- delpuroe corrollo Ca gione dello scisma tra l'amor del cuore e quello dei sensi — che è l'idealedell'amore--delmaritaggio- deldivorzio– l'amorecorro traidissimiliarmonici-universalitàdell'amore--parenteladell'amo recolBelloecolBuono--delBelo--originedelmalc- duemorale, p a r t i c o l a r e e u n i v e r s a l e – o t t i m i s m o r e l a t i v o n o n a s s o l u t o - il m a l morale è impossibile nell'etica divina e universale - l'antinomia a p parente della natura seco stessa si risolve mediante la necessità de gli ordini --contraddizione della natura nello stato presente --dell'in felicità umana--scopodellavitaterrestre--della virtùedellalibertà umana— l'uomoèpotenzialmenteonnispecie,puòsalireescendere nella gerarchia cosmica - la giustizia cosmica procede per ragione geometrica - dell'abito- è verso l'anima ciò che l'accrescimento e  >   509 la nutrizione verso il corpo - la virtù è sforzo , è la trasformazione dellamimesiinmetessi-ed ilsagrifiziodell'individuoalaspecie- La Società ha un fondamento metessico e idealee logico-lapolizia è una metessi iniziale - la polizia dell'uomo comincia coi primi prin cipii della sua vita— individualità e polizia principiano e crescono di conserva--unitàdinamichedellanostraspecie– divisionedelgenere umanoingenericheespecifiche– dellanazionalitànaturaleearti ficiale- lamisuradell'ampliazionedell'unitàèiltermometrodella civiltà-doppiaunificazionedeipopoli--autorità morale— ilpotere sovrano è fontalmente l'Idea— formazione primordiale della socie tà- unitàprogressivadeivaricetidellasocietà— dellaplebeedel l'ingegno - intento della riforma politica moderna - nel mondo tutto èordinatoallosvolgimentodelpensiero— ciòcheaccadeorainEu ropa è in certa guisa una ripetizione di ciò che accadde in Grecia dellademagogia:dominiodellaRussia —unitàsovrannazionale- unità intermediatralasovrannazionaleelanazionale- l'egemoniamo dernadoverisiede-delPrimato,assolutoerelativo- alcunititoli del primato italiano- il Cielo che rappresenta alla mente umana - della causa e dell'effetto negli ordini finiti- attinenza della terra col c i e l o - i v a r i m o n d i f a n n o u n s o l o u n i v e r s o - il m o n d o n o n è s o l o u n aggregato, ma un aggregante - da che è prodotto l'individualità nei corpi- gerarchiadegliesseri--dellaNuidità -ilprincipioeilfine si somigliano e differiscono - della materia in astratto e in concreto -- lapotenzagenerativaessenzialeaogniforzacreata- dellapreesi stenzadeigermi--dellaleggecentripetainorganogenia- ilcentri fugismo non è la stessa cosa dell'ipotesi della preesistenza dei ger mi —laforzaprimitivaquandoerumpenell'attocominciacolladualità ocollamoltiplicità?-gradidellaforzacreatauniversalmente- dei cinque gran regni della natura - della mutazione delle specie- sunto delladottrinadell'autore- dueleggidell'esistente:leggedietero geneità,eleggediomogeneità— dellapolarità– infinitonumerico solo possibile nello stato di metessi - due soluzioni di esso - infinito aritmeticomonadico - l'infinitoèilsovrannaturale-due errorisul mondodell'ottimismo— infinitàpotenzialedellacreatura -delfu infinito e del sarà infinito.  251-349   510  mo 343-370 CAPITOLO SETTIMO SECONDO CICLO CREATIVO Palingenesia Del secondo ciclo creativo ; ritorno del'esistente al l'ente – è solo per approssimazione -- la creazione non ebbe prima, perchè fu un Pri ilsecondociclocreativoèumanoedivino- comeilprincipio e il fine sono finiti e infiniti -- che cosa è specificatamente la palia genesia--come siamcerticheesiste– lapalingenesiaèobietiva esubiettiva,cosmicaeindividuale— delprogressorelativoedel progressoassolutodellecose comesideeintenderechelostato palingenesiacosiamentalitàpura— dellamorte– dell'immortali tà--l'esistenzaeinamissibile- lamorteèunsaltoegradosecondo chesiguardaildiscretooilcontinuo— futuritàparticolaredel l'anima— la palingenesia consiste nell'acquistare la coscienza che nonsiha- èilcolmodellacoscienza– duepresunzionidel'infi nitopotenziale– delliberoarbitrio- ilprocessopalingenesiacoè unprocessogenerativo- due metamorfosi:mondaneeoltramonda ne– obiezionecontrolarealtàdellapalingenesia:risposta– igno riamol'avvenire– haancheunabasenell'esperienza--nelapa lingenesial'internitàsaràesternata- divarioerassomiglianzatrala cosmogoniaelapalingenesia- inchesensolanegazionedell'im mortalità umana è vera - unità dello stato palingenesiaco - comuni cazionedell'intelligenzaedell'amorecoll'infinito dellafelicitàe beatitudineassoluta-l'uomonellapalingenesiaopera- ideadelpro gressopalingenesiaco– larivelazionepalingenesiacanonescluderà ogni elemento misterioso. CAPITOLO OTTAVO RELAZIONE DELLA PROTOLOGIA COLLA RIVELAZIONE Il Gioberti prima cercò verificare psicologicamente l'idea di mistero poisiproposedimostrarlaontologicamente infineporgerneuna   511 prova universaleeprotologica- lametessièilsovrannaturale- unione dialettica del naturale e sovrannaturale nell'atto creatico - ilsovrannaturale èuniversale;ènelprincipionelmezzo enel fiue- la natura senza la sovrannatura è in contraddizione seco stessa- la dottrina del nostro autore toglie l'opposizione tra il naturalismo e il sovrannaturalismoesagerati- ilsovrannaturaledell'ordineattuale è la metessi anticipata nel seno della mimesi -nel sovrannaturale e nelsovrintelligibilev'haunelementonaturaleeintelligibile~-due spe ciedisovrannaturale— differenzatrailsovrannaturaleel'oltrena turale--ideadellareligione- religioneperfettaèlarivelata— ari velazione è l'apice della cognizione- necessaria ad accordare la ri flessionecoll'intuito duerivelazioni- larivelazioneimmanenteè virtuale— la potenza primitiva delle due rivelazioni è l'intuito- la rivelazione sovrannaturale spiega le potenze dell'intuito rimase in fecondepermancodiparolaacconcia- larivelazioneesterioredi vieneinteriore- treconseguenzcimportanti- intentodelGioberti- nel suo sistema la ragione e la fede entrano l'una nell'altra – l'idea d e l l'infinitoèilvincolotrailsovrintelligibileel'intelligibile- essenzadel mistero:misteriteologici,antropologici,e teoantropologici- imi steririvelatinonsonoeffetto,ma principiodiragione-esempidella feconditàrazionaledeimisteririvelati- ilmisteropertieneallara gione e la supera ad un tempo — tre membri della formola, tre es senze,tremisteri-veradottrinadelGioberti- nellavitaterrenail sovrintelligibile non diventa mai intelligibile- il vero sovrintelligi bilenoniscema- delmiracolo:sesipensa,èpossibile-checosa èilmiracolo- ogniprodigioimportaunfattoobbiettivoeunfatto subbiettivo--ilmiracoloeladisposizioneeattitudineacrederlo si corrispondononell'unitàmetessica- ilfattomiracolosononènelco smo,ma nellapalingenesia- imiracolidecrescono— lanatura(mi mesi ) e mito e simbolo del sovrannaturale (metessi, palingenesia) il cristianesimo importa un nuovo atto creativo, ciò come avviene ? - perchè si tralasciano di esporre partitamente i dogmi religiosi attinenze della rivelazione colla scienza,e della religione colla filo sofia 371-399    CAPITOLO NONO CONCLUSIONE DELL'OPERA Perchè mi son risoluto a tessere questa conclusione-- il lettore non ri  - 512 cordando più le cose lette negli altri volumi non avrebbe potuto giudi care quest'ultimo - m'è piaciuto altresi di dare uno sguardo su tutto ciòdamepensatoescritto— occasionedell'opera- caratteredela maggiorpartedegliegeliani—come èdeltatoillibrodelprof.Spa ventasullafilosofiadiGioberti- lemieConsiderazioni— suiaspra menteripreso- soliloquio- neiprimivolumimostraiunpo'diri sentimento - l'esposizione della seconda parte si fa con modi dice voliallascienza- checosamihafattoperseverarelungamentein questa opera , perchè l'idea di essa non si era prima incarnata l'Italia al la stregua della filosofia dominante oltrealpi - perchè era nomala terra dei morti— lotta interiore del pensiero di Gioberti ragione del suo tardi stampare— la lotta cessa nel 1835 : creazione d'unanuovadottrina--lacuipellegrinitàstanelnessodellareligione collafilosofia -perquattroannisecostessoesaminalabontàeve rità del nuovo sistema - tre stadi del suo processo intellettuale- le nazionicoesistonoinsiemecsigiovanoscambievolmente- lanuova vitad'Italianecessariaalprogressoumano- ciòchehannocompiuto nel mondo i Francesi e i Tedeschi — difetto della civiltà da essi pro dotta— scopodellarinascenzaitalica— caratteredellavitaitaliana dall'AlfieriaGioberti nelqualeciòcheeravirtualeeastratto divieneconcretoeeffettivo— chiudeunepocaenecominciaun'al tra - medesimezza dell'idea individuale che costituisce l'eccellenza di Gioberti coll'idea sostanziale che costituisce ilgenio nuovo na zionale - rifà in sè tutto il processo anteriore dello spirito u m a n o quando acquistò il suo spirito intera coscienza di se medesimo - sti mò che iconcetti natigli in mente erano stati indirizzali ad un alto linedallaProvvidenza– siapparecchiaadeseguireildisegnodivi no- moto dall'individuo alla nazione e alla specie- come nel divul gare la sua dottrina e farla fruttare si mostrasse tradizionale e n o vatore ad un tempo --procedette per l'antagonismo degli estremi per 1 l   513 meglio far spiccare l'armonia del mezzo—dissimulò una parte del suo pensiero -- la filosofia la religione e la nazionalità italica sono unite e connesse subbiettivamente e obbiettivamente  mosse dal l'idea al fatto, dai principi al metodo di esposizione -carattere delle opereessotericheedelleacroamatiche- Giobertipossedevauna dottrina ben divisata e armonica , di cui avea piena consapevolezza – ciòsinegadaicritici- sidiscutelalorosentenza -sigiungeaduna conclusionc lutta opposto alla loro con solo l'esame dei fat ti -- si cerca allrcsi la dottrina intrinsecamente e logicamente e si ha lo stessorisultamento, perchéquasituttiicriticihanfranteso trinadiGioberti- ilmedesimo ladot è accaduto al Prof. Spaventa - qua l'èilconcellonuovoch'ioneporgo- essoèstatoignotofin'ora; nelle scuole d'Italia s'è insegnato solo la parte essoterica- di questa ècontrappostol'Hegelianismo- venutoiltempochesistudiaecol liva la parte acroamatica che contenendo la sintesi ed armonia di questoediquella,delpresenteedelpassato apre la via alla spe culazioneavvenire- nellacontroversiaintornoaGiobertibisogna separarelatesistorica,dallafilosofica— caratterichedistinguono, la dottrina di Gioberti da quella di Hegel , e il moto civile d'Italia daquellodiGermania- solol'Italiahaoggiunaveramissionestori ca,ilcuidelineamento trovasidegliscrittideltorinese—riscontri tra le parti in cui fu divisa la dottrina c i vari periodi del rinnova - mentonazionale– comel'egemoniapiemontesehaprodottoisuoi frutti, così li produrrà il Primato – il primato è tutt'uno colla riu novazione del pensiero italiano- ogni nazione ha da natura un sito intellettivo- - che dee cavare dal suo l'Italia- oggello della scienza sulural'idealitàinfinita– riformareligiosacnuovavitadelcattoli cismo - senza una filosofia e leologia infinitesimale ogni ristorazione religiosaèindarno-provailrecentemotodiGermania- ilDöllin ger non ha ragione di biasimare gli italiani- i vecchi cattolici sono oppostosofisticodeiGesuiti– quindicontinuanolasofisticareli giosa che travaglia la nostra età-diseltano d'una teologia veramente nuova e proporzionata al bisogno- mentre coi loro ciechi colpi con tro il papismo gesuitico ne han mostrato più che mai la necessità— senza di quella non si può distinguere l'essenziale dall'accessorio nella religione, nè accordare ildivino coll'umano-carattere della 63   nuovateologia- modocomedeeprocederelariformacattolica- l'entratura di essa appartiene al laicato,e in ispezieltà all'italiano così lagerarchia non sarà annientata,nè scossa,ma condotta a ri formarsidasè— ilmoloitalicoristabiliràperfezionatal'unitàmora le e civile d'Europa – esso perciò è indirizzato ad una meta più alta diquellaacuiègiuntalaGermania— iforestierimalintendonoe mal giudicano l'Italia ; in parte ne han colpa i fautori della coltura tedesca -ragionedell'imitazionetedescatranoi--devecessareedar luogo alla produzione paesana nell'ordine dei pensieri ,dei senti menti e delle azioni.La teorica della conoscenza nel Gioberti .   Esposizione e critica.   In uno degli ultimi scritti, — certo V ultimo scritto filosofico, —  pubblicato pochi mesi prima di chiudere la sua lunga e intensa  operosità, Antonio Rosmini, discorrendo della necessità speculativa  di tener distinta nell' essere la forma ideale dalla reale, usciva in  queste solenni parole: ' L'esperienza tuttavia e la storia della fi-  losofìa dimostrano, che e' è una somma diMcoltà a distinguere e  mantenere costantenftnte distinta nella mente la forma ideale ed  obbiettiva dell'essere, dalla forma reale, e me ne somministrò non  ha guati la prova quel facondo e immaginoso scrittore che diede  a me biasimo e mala voce d'aver proposta e stabilita una tale  distinzione, dettando tre volumi col titolo de' miei errori. Laonde  con tutto lo zelo e la fidanza egli si pose di contro a me, quasi  abbarrandomi il passo, e si dichiarò perfetto realista: incolpando  gli stessi scolastici realisti, di non essere stati tali abbastanza, ec-  cetto alcuni pochi. Ma pace a quell'anima ardente: e torniamo  alla storia *) ,.   Si sa che gli avvenimenti politici del quarant' otto avevano rav-  vicinato i due grandi avversar], smorzato perfin le ire implacate e  sospettose del torinese, che faceva pubblica ammenda della vivacità  frequente delle sue polemiche, dichiarando che, appena conosciuto  di persona il Rosmini, aveva cominciato anche lui " a venerare     ') RoiKiNi, Ariat. esposto ed esaminato, Torino, 1857, pre&z. p. 36. La  prefazione di quest'opera postuma era Btnta pubblicata dal Bosmìnì Hteeao  nella Riviìta contemporanea di Torino, au, ir, voi. II, fase. 17» e 18', decembre  1854 egenoaio 1855; riprodotta poi nella Poliantea Caffo^ca di Hilauo, an.  IV, 1855.     Digitizcdby Google     Rosmini e CHoberH 247   con tutta Italia tanta sapienza e tanta virtù , ^). — Quanto al Ko-  smini, benché l' animo suo non si fosse mai inasprito, i fatti del  ' 48 lo conciliarono di più col Gioberti, e non è questo il luogo  dì ricordare le belle prove da lui date de' suoi sentimenti verso il  filosofo esule per la seconda volta '), e poi quando fa morto, e  quando prima, nel ' 49, ebbe a G-aeta a difenderne calorosamente  la fama a l' ing^no contro le insinuazioni e le malignazioni d' un  gran gesuita ^).   Ebbene, tutto ciò e il tempo corso in mezzo e il cammino in-  tanto fatto nella scienza, non lo rimossero fino al termine, come  s' è visto dall' ultimo suo scritto dianzi citato, dalla posizione già  tenuta di contro al Gioberti. E questi, dal canto suo, ìn quel di-  scorso che premise alla seconda edizione della sua Teorica del  sovrannaturale, e che si può considerare come Y ultima sua scrit-  tura di genere puramente filosofico, rimaneva anche lui al suo posto,  nonostante l' om^gio quivi reso alle virtù e alla sapienza dell' av-_  versarlo; poiché scrìveva: *U Rosmini ed io siamo d'accordo nel  recare alla riflessione la possibilità dell'errore, e il suo rimedio  all'intuito che la precede. Ma dissentiamo intorno al contenuto di  tale intuito ; il quale al parere dell' illustre Roveretano, non ci poi^e  che un ente astratto, iniziale, destituito di sussistenza ; laddove, al     ')■ Discorso preliminare tìiU 2' Bàìz.ifiìla Teorica del sovran7iaturide(i850]  I, ^ n. Vedi pure ciò ohe, quasi nel tempo atesBo, ne scriveva nobìlmeate nel  Rinnovamento àvUs, lib. I, cap. XIII; ediz. Napoli, Morano, 1864, 1, 285 e aegg.   !) Vedi quel che HCTisae Q. Uassuii, nella bua Bitiista pdiHca del 15  luglio 1855 nel Cimento di Torino (voi. VL B. 3", p. 86) commemoiando il Ro-  smini. Sono due pagine dimenticate, e che hanno tuttavia molta importansa per  le opinioni politiche e per la biografia del Rosmini; T. pure Tommaseo, A. Ro-  smini, (in Rimala Contemporanea dal 1855, voi. IV) §. 28,   ') H Liberatore. — Chi fu presente al colloquio e ne scriveva poi a Baff.  De Ceaare.attesta che le parole «eloquenti dette dalBosmini in quella occasione  lìaHciiono il più autorevole e più meraviglioso elogio del Gtiobeiti >. Tedi  Db CssAaB, Dopo la wndanna del S. Uffi,ziOt in N. Antologìa, 16 luglio  1888, p. 205.     .dbyGoosle     348 G. Gentile   mio, ci dà un concreto effettivo, che nel primo de' suoi termini  è assoluto e apodittico. Or qual'è il miglior fondamento del vero?   ^ l'astratto o il concreto? T insusaistente o il reale? l'incoato o l'as-   l soluto?, ').   I due filosofi, adunque, compiono la loro carriera filosofica con  opposta sentenza intomo al principio della loro dottrina, nonostante  la polemica vigorosa per dottrina e dialettica che s' era in propo-  sito dibattuta; talché si direbbe che essa non abbia avuta nessuna  efficacia sulle dottrine de' due filosofi. Questo però è appunto quello  che ci rimane ancor da vedere.   f~^ Come il Rosmini abbia introdotto V. Gioberti nel campo della   ' moderna filosofia, cioè della filosofia kantiana, l'abhiam veduto e  dimostrato nel terzo capitolo della prima parte del presente studio;  coachiudendo, che già nella Teorica del sovrannaturale egli ci ap-  parisce sì un rosminiano, ma un rosminiano il quale vuole andare  avanti al Rosmini. Neil' opera che seguì immediatamente dopo,  V Introduzione aUo studio della Filosofia, si delinea ben nettamente  la nuova posizione speculativa del Gioberti ; e si vede quali essen-  ziali modificazioni, secondo lui, debbono subire le dottrine del filo-  sofo roveretano.   Ma prima di studiare cotali modificazioni, vediamo come si  muove in questa nuova opera il pensiero dell'autore.  / La concezione della storia filosofica qui è l'es^erazloae di quella  donde sì rifa nel Nuovo Saggio il Rosmini; ma certamente è mo-  dellata sovra di essa. Pel Rosmini, come s'è notato, v'ha sistemi  che peccano per eccesso e sistemi che peccano per difetto di apriori  nella spiegazione del fatto del conoscere : da una parte falsi idea-     *) Op. cit, I, 2K. Cfr. Errori filoaqfiei di A. Bosmini, II, 126-134. —  L'ultima parola venunente à nel Rmnovat>ieato civile, dove al lib. n, oap. 7*,  (voi. II, pag. 191), è detto ancora uoa volta « Cosi, per cagion d'esempio, il  divorzio introdotto da un chiaro nostro psicologo tra il reale e l'ideale, non  si puA comporre stando nei termini della psicologia sola; e se si muove da  questo dato pei salir più alto, si riesce di necessità al panteismo dell'Hegel e  de' suoi seguaci >.     DigitizcdbyGOOgle     Jtosmitii e Gioberti 249   iiami, e dall'altra falsi empirismi. Ma nell'idealismo, oltre l'errore  di ammettere più elementi a priori che non ne siano richiesti a  quella spiegazione (Platone, Aristotele, Leibniz) può esservi un  più grave difetto : quello di far soggettivo, come avviene in Kant, Va  priori ricercato in seno alla conoscenza, la quale, se vuol essere vera  e certa, dev'essere invece oggettiva. Onde pel Rosmini Ì sistemi  sbagliati si riducono al postutto al sensismo o all'idealismo sog-  gettivo, cfae è una specie di scetticismo mascherato ; dacché il pla-  tonismo, a parte l'eccesso dell' a priori che va corretto, trova grazia  appo lui per l'assoluta separazione posta fra cotesto a priori e il  soggetto umano che conosce. E contro il sensismo e l' idealismo  soggettivo e si può dire (poiché pel Rosmini il senso era la fa-  coltà soggettiva per eccellenza) in genere, contro il soggettivismo  ei si proponeva di scendere in campo col Numo Saggio.   Contro questo soggettivismo insorge parimenti la filoso&a del  Gioberti; il quale raddoppiando d'ardore per le dottrine platoniche  riconosciute pure in fondo al contenuto filosofico delle dottrine  cristiane, tutti gli opposti sistemi involge in una comune condanna  con quel sensismo, che ormai, quando usciva il suo libro, era già  morto e sepolto cosi in Italia come in Francia; talché dimostrare  sensistica una teorica, era lo stesso che averla giudicata senza  appello.   E sensistica, a parere del Gioberti, è tutta la filosofia moderna  in Europa; a cominciare da Renato Cartesio; il quale, del resto,  non fece se non applicare alla filosofia il metodo che aveva già  fatto ben trista prova con Lutero, nella Protesta, proclamando la j  intimità autonoma della fede religiosa. . -J   Cartesio sensista? " Parrà strano, scrive il Gioberti, a dire che  il sensismo sia conforme ai principii cartesiani, e che il Locke,  il Condillac, il Diderot, con tutta la loro numerosa ed infelice pro-  genie, siano figliuoli legittimi del Descartes; quando questi pre-  tese nlle sue dottrine un teismo purissimo al sembiante, e volle  stabilire sopra uua salda base la spiritualità degli animi umani.  Ma il teismo del Descartes é puerilmente paralogistico. Il suo dubbio     .dbyGoosle     250 Q. OmHk   metodico e assoluto, e il riporre eh' egli fa nel fatto del senso in-  timo la base di tutto lo scibile, conducono necessariamente alla  negazione di ogni realtà materiale e sensibile , *). E che altro è  il sensismo? ' Spogliato dalle contraddizioni de' suoi partigiani, e  ridotto al suo vero essere dalla logica severa di Davide Hume,  riuscendo a un giuoco aubbiettivo dello spirito, che, rimossa ogni  realtà, è costretto s trastullarsi colle apparenze, è propriamente  scettico e si manifesta come l' ultimo esito di ogni dottrina, che   _, metta nel sentimeuto dell'animo proprio i princlpii del sapere . *).   1 II Descartes, adunque, è uu sensista, e a lui si deve tutta la   serie di errori di cui è iutessuta la storia della filosofia moderna ;  egli è l'iniziatore, purtroppo, fortunato del moderno sensismo psi-  cologico, poiché pone come principio della filosofia un fatto, che  come tale non può essere se non un sensibile ^).   Insomma il Locke e il Gondillac sono cartesiani. " Né rileva che  i successori di Locke facciano caso della sensazione sola, e non  del sentimento interiore, imperocché questo e quello convengono  nell'essere forme sensitive, destituite di obbiettività assoluta , *).   \ Il Gioberti, insomma, intendeva parlare di soggettivismo, e di-  COTa sensismo, che è pure una direzione speculativa molto diversa. La  colpa bensì non è propriamente sua, perchè risale al Galluppi ; il  quale nella sua teoria della sensazione (che qui il Gioberti ripete)  aveva con essa confusa la percezione o rappresentazione e la coscienza,  introducendo nel seno stesso di quella le distinzioni che sorgono     ') Introdwi., lìb. 1, c&p. l" (ediE. di Firenze, Poligrafia italiana, 1846)   I, m.   ») Ibid., p. m-12.   3) «... E certameiite la seoteiiEa ; io penso, dunqm sono, equivale a questa:  io sento di oaeere pensante ... e più concisamente : io sento, dunque sono . . .  n pensiero conosciuto per via della liflesaione, ò un meco fatto della coscienia,  cbe appartiene al senso interiore; onde il Cartesianismo che muove da quella,  colloca in un fenomeno della facoltà sensitiva la base della scienza >. Tntrod.,  lib. I, oap. 3" (n, T7 e segg.).   *) Op. àt., n, 78.     n     DiBiiizMb, Google     Rosmini e Qioberti 2&1   invece per cotesti fatti ulteriori della psiche '). Del resto, il Gio-  berti risente presto l' iDcooTeuiente che deriva dal fare un sensista  delio stesso Cartesio, pel quale il fatto della coscienza, invece che  un sensibile (donde, secondo il Gioberti, stesso non può derivarsi  mai l'essere) era una cosa stessa con l'essere, e quindi noD un  semplice principio psicologico '), ma una inscindibile unità del prin-  cipio psicologico e dell' ontol<^Ìco, che se fosse stata fecondata,  avrebbe già fatto procedere di molto la filosofia moderna. Infatti,  quando ai accinge a classificare tutte le scuole filosofiche figliate dal  sensismo cartesiano, comprendendo nella seconda categoria i se-  guaci del lochiamo, egli è costretto a porre &a i caratteri di questo  * il ripudio della ontologia cartesiana, come ripugnante ai principii e  al metodo del Descartes, e troppo simile all'antica, dichiarata dal  francese filosofo insuMciente e buttata fra le ciarpe ; e l'ommis-  sione e lo sfratto implicito e tacito di ogni ontologia , ').   E già da questa medesima classificazione de' sistemi resulta  cbiaro che il nemico preso di mira è precisamente quello stesso  del Rosmini: cioè il soggettivismo, il falso so^ettìvismo, che ri-  pete le sue origini da Cartesio, anzi {ed ecco l'intreccio significan-  tissimo della filosofia eterodossa con la falsa filosofia!) da Lutero.  Nelle cinque categorie, in cui dovrebbesi, secondo il Gioberti, par-  tire tutta la storia della filosofia moderna, così vengono distribuiti  i vai^ indirizzi: nella 1" Cartesio e la sua scuola: nella 2' Locke;  nella 3' Spinoza, i panteisti tedeschi e in parte Giorgio Berheley^;     ') Eppure il Gioberti stesao aveva combattuta questa teorica galluppiaaa,  nella n. 3* della Teorica (II, 319 e segg.) imputando al filosofo di Tropea  < di Bveie considerato come semplice e indivisibile ciù che è ancora composto,  Bocomunando per tal modo elsmenti svariatisaimi con una sola voce >.   *) < Il paicologiamo ed il BcnHÌaino sono identici : l' uno è il Henstsma ap-  plicato al metodo, l'altro è il psicologismo adattato ai principii »- — Introd.,  I. 30 (il, 83 e eegg.)- Gtt- p. 83 e segg. e 3^ e segg. Ha < Cartesio è sen-  sista nei principii e nel metodo * p. 83.   3) Op. cit., voi. Sf p. 85.     .dbyGoosle     252 a. Gentile   nella i* Kant e i sensisti francesi dal Condillac in poi *) ; ' infine  nell'ultima classe si debbono collocare gli scettici assoluti, che  giunsero al dubbio universale, mediante i principii del sensismo,  aiutati da una logica s^^ce ed inesorabile; ... il cui principe è  Davide Hume , *).   CapOTolgimenti, come si vede, ce n'è piti d' uno; e come va che  il Gioberti confonde il fenomenismo del Berkeley con l'idealismo  assoluto di Fichte, dì Schelling e di Hegel, e l'idealismo trascenden-  tale di Kant col sensismo di CondillacPEcco: secondo lui, " l'asso-  luto dei filosofi tedeschi non è l'idea schietta, ma bensì l'idea  mista di elementi sensitivi, e per dir meglio un concetto, un astratto,  un fantasma, frammescolato di elementi ideali , (p. 85); insomma  è un assoluto fantasticato dalla mente umana ; e cosi il Kant con-  verrebbe coi sensisti ' nel dare alla cognizione la proprietà del  senso, facendone una facoltà aubbiettiva, e quindi considerando il  vero, come relativo , (p, 86). — È chiaro che la causa della con-  fosione nel primo e nel secondo caso è la medesima; per Gioberti,  r a priori di Kant e de' suoi successori è falso perchè contraddit-  torio: è posto come a priori, perchè necessario ed universale; e  intanto lo si fa subbiettivo, e quindi particolare all'individuo che  conosce, e come esso contingente.   Questa falsa maniera d' intendere il nuovo soggettivismo, che  cominciava con la teoria della sintesi a priori dal negare definiti-  vamente quello scetticismo, cui fin allora il so^ettivismo era sempre  stato come equivalente, — è un'eredità che il Gioberti raccoglie  dal Rosmini, e rivolge subito, come or ora vedremo, contro di lui.   E già si può dire, che l'avesse raccolta nella Teorica del so-  vrannaturale, quando, a proposito dell'eclettismo francese, aveva     ') E petcbè esclndecne ì materìaliati del aec. XVIII, le cui open, come  ricorda opportunamente il Imnge, precedettero i libri e le dottrine del Con-  dillao?   ') Op. dt, p. 86.     .dbyGoosle     Bosmim e Oioberti 253   parlato dì un * razionalismo imperfetto , che consente col sensismo  ' nel so^ettivare interamente e parzialmente la conoscenza „ ^),  e meglio altrove, discorrendo dell' egoismo psicologicor cui avreb-  bero appartenuto Cartesio, Reid e Kant, e del quale * l'egoismo  ontologico metafisico di un celebre filosofo tedesco, che im  sima r ente stesso coll'esistenza individuale, sarebbe la nect  conseguenza , *).   I! Gioberti, invero, come il Rosmini, non conosce altn  gettìvismo che il falso antropometrismo individualistico  goreo, il soggettivismo, che il Rosmini combatteva in Em.  Pel soggettivismo, a parer del Oioberti, tot capita, tot senti  donde, secondo il principio di Lutero, tanti cristianesimi  cristàani, e ' tante filosofìe quanti sono i filosofanti, se et  Descartes, rinnovatore della verità subbiettiva, immaginata di  già e da Protagora , ^. Di guisa che è un errore, dice Ìl I^  paragonare la riforma cartesiana a quella socratica ; avendo 8  presentito la teorica delle idee assolute, che venne poscia es]  da Platone, e dovendosi quindi interpetrare il suo vvia^i •  quasi — contempla e studia te stesso nella idea divina.   In breve: la salvezza della scienza è nel platonismo, nella  razione dell'idea dal soggetto, nella oggettività della conos  E si deve anche far forza alla storia e in Socrate trovare PI  se in Socrate si vuol trovare un principio di sana filosofia,  menti del maestro di Platone non si fa che una ripetizione d  tagora, come sono Cartesio e Kant, — il famoso " sofista i  nisberga , !   Questa falsa interpetrazione della storia, in gran parte  fondamentalmente rosminiana, non pone del resto, il Oioberti  bene egli sei creda, fuori del criticismo kantiano, come non ne  escluso il Rosmini. Ed è davvero curioso a vedere il gran     ') NotaXH; n, 329.  *) Nota XVn i n. 338.  ») Introd., I, 3»; H, 76.     .dbyGoosle     354 Q. Gentik   glìere invano che tutti i filosofi italiani della prima metà del secolo  fanno tra loro, accusandosi TicendeTolmente di kantismo e di  so^ettivismo, intanto che ognun d'essi, senza accoi^erseae, vi  rimane impigliato. Galluppì accusa Rosmini; Testa, Galluppi e  Rosmini; De Grazia, Galluppi e Rosmini egualmente; Gioberti e  Mamiani, Rosmini; e questi, il Gioberti. — Così, il Rosmini era  persuaso che tutta la sua attività filosofica fosse una guerra con-  tinua contro il sensismo e il soggettivismo. Ebbene, vien fuori Ìl  Gioberti a proclamare che ancora il sensismo è la dottrina filo-  sofica predominante in Europa; dacché non tutti i razionalisti si  potesser dire immuni dal comun vizio, avendosi a distinguere uu  razionalismo ontologico e un razionalismo psicologico; ìl secondo  de' quali separa bensì, come non fa il sensismo, l' intelligenza dal  senso, ma a quella non dà altro fondamento che il soggetto, lo  stesso fondamento, in fine, del senso, senza perciò poter conferire  alla cognizione veruna certezza oggettiva. E in questo razionalismo  psicologico o psicologismo, che vogliasi dire, con Kant e Reid e  Stewart, va, secondo il Gioberti, annoverato anche il Rosmini, non  correndo alcun mezzo possibile Ira Io psicologismo e l'ontologi-  smo, che anche lui, il roveretano, rifiuta; sebbene né il filosofo  italiano né i due Scozzesi possano propriamente rientrare nel quadro  della quÌntnplÌG« classificazione del sensismo cartesiano, ossia della  moderna filosofia.  '"~ Oi certo il falso criterio onde il Rosmini aveva delineato una  storia della filosofia, passato al Gioberti, era agevole rivolgerlo  contro lo stesso Rosmini. Sennonché, quel che importa rilevare è  l'esigenza che l'uno e l'altro afiFermavano, ribellandosi a quel  cotale soggettivismo, in cerca di uno stabile e certo oggettivismo.  Il Rosmini, come s' è veduto, vuole introdurre nella cognizione  un elemento necessario ed universale, che sia veramente tale, e dì  cui ammette un intuito costitutivo dell'intelletto, un intuito che,  secondo una critica n^ionevole, devesì interpetrare come una sem-  plice aflfermazìone della universalità e necessità (trascendenza, e  quindi — pare — opposizione all'individuo contingente) AeWa^Hori     Digitizcdby Google     Rosmini e Gioberti 255   della cognìzioDe. E il Gioberti prende la stessa posizione di contro  all'empirismo, pur senza ripetere una critica che era stata fatta,  ma accettandone benal il resultato.   ' Oggi si tiene per certo, egli scrive nell' Introduzione, che il  Toler derivare con Locke i concetti razionali dalla sensazione e  dalla riflessione, ovvero col Condillac e co' suoi seguaci, dalla sen-  sazione sola, è un assunto d'impossibile riuscimento; e che, sì come  il necessario non può nascere dal contingente, né l' oggetto' dal  soggetto (ecco l'unica concezione rosminiana d'oc/petto e soggetto:  oggetto = necessario: soggetto = contìngente), così i sensibili od este-  riori non possono partorire l'intelligibile , •). — Pel Gioberti la  questione stessa dell'origine dell' intelligibile, di cotesta idea, in-  volge una repugnanza; giacché, essendo essa oggetto immediato  ed eterno, come necessario ed universale della cognizione, non ha  nn principio né una genesi. Potevasi senza dubbio osservare al-  l' autore, che appunto la definizione stessa che egli dà della idea,  inchìnde il teorema, che gli avversarj volevan dimostrato.   Comunque ciò sìa, egli ammette bensì un' altra questione, che  è la vera questione della ideologia rosminiana ; la quale è volta a  indiare " se derivando la cognizione dell'Idea da una facoltà spe-  ciale, che dicesi mente o intelletto o ragione, ella è acquisita od in-  genita; cioè, se l'uomo può su^atere, eziandio pure un piccolissimo  spazio di tempo, come spirito pensante, ed esercitare la facoltà cogi-  tativa, senz'avere l'Idea presente; e quindi ne va in cerca e se la  procaccia; ovvero, se ella gli apparisce simultaneamente col primo  esercizio della mente, tantoché il menomo atto pensatìvo e l'Idea  siano inseparabili , *). E tal quistione, che brevemente si può espri-  mere, se l'Idea sia o no innata (nel senso kantiano di forma si-  multanea alla esperienza) ei la risolve affermativamente, come il  Rosmini, dichiarando che a suo avviso ( * per rispetto nostro , )  non si può assegnare altra origine all'Idea, che l'origine medesima  dell' esercizio intellettivo.     «)Iiib. I, oap. 3»j n, 6. *) le     .dbyGoosle     ■m     266 O. Gentile   Questa apparizione dell'Idea simultanea al primo esercizio della  mente corrisponde per l'appunto a quello che il Rosmini avrebbe  detto propriamente nozione ■■) dell'idea dell'essere. Anche pel Gio-  berti cotesta nozione è la stessa intelligibilità, la evidenza stessa;  anche per lui " non arguisce nulla di subbiettivo, oè risulta dalla  struttura dello spirito umano, secondo i canoni della filosofia cri-  tica , *) ; anche per lui è " l' ometto della cognizione razionale in se  stesso, aggiuntovi però una relazione al nostro conoscimento , *).   L' intuito di cotesta idea è dal Gioberti stabilito con breve di-  samina del procedimento del conoscere, e benché egli non se ne  rimetta al Rosmini, è chiaro che psicologicamente la lacuna, che  egli stesso poi riconobbe in questa parte della sua teorica, devesi  alla grande efficacia esercitata sulla sua mente dallo studio di Ro-  smini ; talché, scrivendo quasi di getto, come fece, l' Introduzione,  non avrà pensato che ci volesse molta discussione a solidare     già muorevasi la mente   iegazione del conoscere.   nella esposizione, del   Ione fece il Massari nel     un'ipotesi, la quale, per l' indirizzo per cui ^  sua, era assolutamente necessaria alla spie  Si accorse di poi del mancamento ; e lo v  resto tanto piaciutali, che AeW Introdtizio  Progresso di I^apoli, quando già l' intrapresa polemica col Rosmini  cominciava a fargli guardare più attentamente ogni parte della  costruzione filosofica, cui aveva posto mano. B al Massari, ai 17  giugno del 42, scriveva: "Ho riletto quel poco che ho detto del-  l'intuito iLviW Introduzione e l'ho trovato ancor più scarso che non  credevo; tanto che la critica che vi ho fatta di non esservi steso  davvantaggio e con nu^giore precisione su questo punto manca  affatto di fondamento , *) ; e a' 20 lugho tornava a scrivergli : * Non     ') < Nozione io chiamo un'idea considerata sotto questa relazione, in quanto  doè ella mi serve, a rendermi note le cose >; Bosuini, Prindpj di acietua mo-  rale, in Optre, ed. Bstelli, TX, 2 n.   ») Inirod., I. 3"; II, 8.   ') Ibid., p. 5.   *) Cart, n, 375. Il MAasÀBi aveva fatto una analisi dell' Introduzione ( la  1* ohe ne faue fatta in Italia) in tie puntate del Frogreeso del i841.     Digitizcdby Google     Bosmmi e Gioberti 257   è come vi ho detto che uDa iBcuoa, proreniente dal mio testo del-  l' Introduzione; ODde può parere che l'intuito sia una facoltà mi-  steriosa conforme all'inspirazione dei mistici; laddove no  la cognizioae umana e ordinaria, spogliata però del repli  riflessivo. L'ho definito, credo, nel libro degli i/rrori , '). -  questa definizione dell'intuito corrisponde evidentemente i  trina già esposta del Rosmini, che l'intuito dell'idea si rit  un lavorio riflessivo sulla cognizione ordinaria, mediante  cesso d' astrazione.   Nel Gioberti non s' incontra una teoria compiuta del f  noscitivo, come si trova nel Bosmini. Ma qualche accennc  qua e là, basta a dimostrarci che, sebbene l'autore sia de  che la psicologia, per dirla con la parola sua, non debb  fondamento né propedeutica alla ontologìa, della quale egli  trattare specialmente, tuttavia l' ideologia rosminiana giace  alla sua dottrina. Egli ammette un' ' attività intima e s<  sima, che rampolla dall'unità sostanziale deWanimo, e con  primo raggia intorno a sé le molteplici potenze, donde na  varie modificazioni di esso animo , *); ripetizione, anzi de  d'un punto del rosminianismo, da noi già messo in rilii   L'intelletto, la facoltà dell'intuito secondo il Rosmini,  presso il Gioberti una " energia contemplativa „ che  venir meno, ossia non può cessar d' intuire il suo termine, se  durre,in grazia di quell'unità sostanziale dello spirito, la ce  simultanea dell'esercizio deliamente^); come nel Rosmii     •) Cart, n, 381 e aegg.   ^Infrod., I, 2° (1, 135). Animo dice il Gioberti; per castigatezz  tuna di lingua, lovece di anima, spirito.   ') < Tutte le potenze dell' aaimo amano esseDdo collegate inBieme  dosi a vicenda, è inverosimile il aupporre che l'energia contemplat  ▼eoir meno, «enza che le altre facoltà a proporzione se ne riaentan  cap. 5° (1, 138). Altrove dice che t l'intelletto è ti mezzo, con cui I  prende la manifestazione naturale del verbo ■; 1, 2° (1, 196). Ma egli no  a questo propoailo, una terminologia costante.     .dbyGoosle     258 G. Gentile   dell'intelletto vedemmo esser necessario non solo alla costituzione  dell'intelletto, ma anche, per l'unità del soggetto, a tutta la fun-  zione del conoscere.   Né pel Gioberti l' intuito ha un valore diverso da quello indi-  cato nella teoria del filosofo roveretano; come sarà agevole accor-  gersene esaminando con la brevità necessaria la teoria giobertìana  della riflessione.   L'iatuito rosminiano vedemmo essere non vera e propria cogni-  rjone, ma condizione di ogni conoscenza, e però un vero a priori  kantiano, una pura forma dell' intelletto, che come tale distruggeva  l'antica concezione di oggetto opposto e separato dal soggetto,  — avendo dimostrato che il nuovo oggetto non esisteva per sé, fuor  della sintesi, essenzialmente soggettiva, co' dati offerti dal senso ed  elaborati nel soggetto. E il Gioberti scrive: 'Egli è vero che l'in-  tuito diretto della mente non basta a fare la scienza, ma ci vuol  di pili quella ridessione che ho denominata ontologica dall'obbietto  in cui ella si adopera. La quale arreca nel suo oggetto quella di-  stinzione, chiarezza e delineazione mentale, che senza alterarne  r intima natura, lo fanno scendere, per così dire, dalla sua altezza  inaccessibile, e accomodarsi all'umana apprensiva... Se l'intuito  fosse solo, l'uomo assorbito dall'idea non potrebbe conoscerla,  perchè ogni conoscenza importa la compenetrazione del proprio  intuito, e la coscienza di noi medesimi , ; vale a dire la coscienza  dell'intuito e la coscienza del soggetto, che in fondo sono una me-  desima coscienza; dacché, anche pel Gioberti, l'intuito è costitutivo  del soggetto, e non v'ha soggetto senza l'intuizione immanente  dell'Idea. Sicché l' intuito giobertiano neanch'esso fornisce una ef-  fettiva conoscenza, ne è bensì anch'esso la pura condizione, la pura  forma a priori, la quale ha bisogno, come qui dice l' autore, della  riflessione *).   Orbene, che è questa riflessione, e qual'è l'ufficio suo? Essa     *) «La riflesBione pertanto dee accompagnue l'intuito primitivo >; I, 30,  (H 107).     DigiiizMb, Google     'l,     Bosmim e Gioberti 259   è come un intuito secODdario, cioè un replicamento cosciente del-  l'atto coatemplativo della Idea; ma, appuoto perchè cosciente, non  è più puro intuito, non è più condizione, ma atto di coscienza: essa è  già coscienza. — La riflessione importa quindi una determinazione  soggettiva e però una modificazione pur soggettiva; poiché l'intuito  è vago e indeterminato, mentre ogni atto di conoscenza è essen-  zialmente determinazione ed unità; elementi che all'intuito non  possono essere aggiunti dall'oggetto suo, che non ha in sé né de-  terminazione, . né principio veruno di determinazione. ' Nel primo  intuito la cognizione è vaga, indeterminata, confusa, si disperge,  si sparpaglia in varie parti, senza che lo spirito possa fermarla,  appropriarsela veramente, e averne distinta coscienza... L'intuito  secondario, cioè la rimessione, chiarifica l'Idea, determinandola; e  la determina, unificandola, cioè comunicandole quella unità finita,  che è propria, non già di essa Idea, ma dello spirito creato , *).   La riflessione, adunque, si deve considerare come una funzione  determinatrìce dell'intuito, o vogliam dire dell'» priori; funzione  fondata sull' unità del soggetto, di quell'attività intima e sempli-  cissima, che dianzi rilevammo. — Ma in che modo avviene la de-  terminazione? " Ciò succede, mediante l'uniOne mirabile dell'Idea  colla parola. La parola ferma e circoscrive l'Idea , ^); unione mira-  bile e ' misteriosa ,, donde s'inizia la conoscenza, come lo era quella  percezione intellettiva, per la quale Rosmini faceva sviluppare l'atto  del conoscere; ma unione necessaria, unione, come s'è visto, senza  la quale non v'ha umana conoscenza^).   E alla percezione intellettiva l'atto prodotto per la riflessione  si riconnette anche per la natura della parola, che si sostituisce  in esso alla sensazione rosminiana. Il Gioberti infatti, definendo la     ») Introd., I, 3°, (II, 11).   «) Op. cit, l. e.   3) iLa parola, easendo il priocipio determinativo dell'Idea à altreai  una condizione neoeBjacia della esistenza e della certezza rlfleasiva» I, 3°;   n, 12.     >dby Google     jm^-     2d0 0. Gentile   parola, come ogni segno, per un sensibile, osserva: * Se adunque  ella BÌ richiede per ripensare l'Idea, ne segue che il sensibile è neces-  sario per poter riflettere e conoscere distintamente l'intelligibile •).  II cbe consuona con la doppia natura dell'uomo composto di corpo  e d'animo, e annulla quel falso spiritualismo, che vorrebbe con-  siderar gli organi e i sensi, come un accessorio e un accidente  della nostra natura „ . Sulle quali parole è bene cbe meditino quanti  sono che l'intuito giobertiano sogliono appaiare con quello del  Malebranche. Anche il Gioberti, come il Rosmini fa ricorso al sen-  sibile e Io ritiene necessario alla formazione dell'Idea; e il senso  anche lui fa costitutivo dell' oi^anismo unico dello spirito.   Sennonché, sulla natura di questo nuovo sensibile proposto dal  Gioberti solvono varie difficoltà, sulle quali non è pcasibile sor-  volare, volendo fornire una idea non troppo manchevole della sua  teorica della cognizione.   Vedemmo altrove (part. I, cap. 3") come già fin nelle Miscel-  lanee, che sono sì prezioso documento della formazione della mente  del Gioberti, si accettasse e si lodasse la teoria bonaldiana del lin-  ' S^^SS^°- ^^^ 1"' nsll^ Introduzione è detto: ' Parecchi scrittori mo-  derni assai noti, fra' quali il Bonald merita un luogo particolare,  hanno avvertita la necessità del linguaggio per l'esercizio del pen-  siero , *}. Ed è senza dubbio dal Bonald eh' egli ha mutuato la sua  dottrina, che ha, pel modo come sorse, una grave ragione storica.   È noto che l' empirismo inglese e il sensismo francese sì pro-  ponevano di spiegare il linguaggio umano, come una invenzione  dell'uomo, Tommaso Reid per primo, (poiché le profonde intui-  zioni del Vico passarono inosservate), nelle sue Ricerche stdl' in-  tendimento (1763), dimostrò che il linguaggio nel suo più ampio     ') Cfr. Teor. Sovr-, II, 35 < Senaa la contezia di qualche aenaibile, le idee  non aorebbeia acceBsibili alla mente nostra*. Teoria che bÌ conferma e ai de-  fiaiace meglio nella Protoloffia, per la qaale cfr. i Inoghi dUti dallo Spàtbhti.,  nella FUoa. di Oiob., p. 53 n.   *j Introd., nota S' del voi. II, p. 213.     Digitizcdby Google     Bosmini e Qioberti 261   significato è naturale prima che artificiale. Definiva egli Ìl lin-  guaggio, — definizione, ai badi, espressamente citata e accolta dal  nostro Gioberti, '■) — ' tutti i segni onde gli uomini fanno uso per  comunicarsi reciprocamente i loro pensieri, le loro conoscenze, le  loro intenzioni, i loro disegni e i loro desiderj , *}. Pel Reid v' ba  due specie di lingu^gio : un linguaggio naturale, formato da quei  vocaboli, che non hanno un significato convenzionale, ma ne hanno  uno che tutti intendono naturalmente e per istinto; e un linguaggio  artificiale, costituito dei vocaboli non aventi altra significazione se  non quella attribuita loro convenzionalmente dagli uomini. Che vi  sia un lii^uaggio naturale è innegabile: e l'attestala sopravvi-  venza stessa di esso al linguaggio artificiale: le modulazioni della  voce, ì gesti, i tratti del viso o la fisonomia, — mezzi tutti onde  l'uomo esprime naturalmente i pensieri, — sono per l'appunto le tre  classi alle quali riduce il Reid tutti gli elementi di cotesto lin-  guaggio.   Ora è ovvio dedurre, siccome fa appunto il filosofo scozzese,  che il linguaggio artificiale presuppone ÌI naturale, senza di cui  gli uomini non avrebbero potuto intendersi per convenire nei signi-  ficati di quei vocaboli onde resulta Ìl loro linguaggio artificiale.  Di modo che se, come vuole l'empirismo, il linguaggio fosse dovuto  solver per un'invenzione umana, come la scrittura o la stampa,  tutte le nazioni, dice il Beid, sarebbero ancora mute, come i bruti.   Né meno stringente è la critica dal Bonald opposta alla teo-  rica del Gondillac ') nelle sue Eicerche filosofiche. Secondo il Bonald  il linguaggio ci è dato primitivamente con la prima conoscenza;  a causa della necessaria simultaneità della idea con la sua espras-   *) < Le parole sono i segni principkli, ma non i soli Bagni, come sa oiaaouuo;  tntti i sentimeati sodo veri segni deUe cose, secondo la bella e profonda dottrina  di Tommaso Eeid >; Introd., nota l' al voi. II, p. 211.   *) Rech. sur V entendemenf humain, trad. Jouffro;, oliap. IV, sect. 2 in  OtMvres (Paria 1828), H, 88.   ') Combatte la teoria com'era stata formulata da) CoDdiUac; ma tiene por  conto delld OBservazioni di Hobbe» di Locke e di tutti i Bensisti.     Digitizcdby Google     aione (espressione, si noti, anche semplicemente * mentale « )■ S  contro i sostenitori dell'opposta sentenza, osserva che essi comin-  ciano dal supporre, contro ogni autorità ed ogni ragione, l'uomo  in uno stato primitivo bruto e insociale, e a tal grado di barbarie,  da essere perfino privato della facoltà di conoscere e comunicare  i proprj pensieri, per attribuirgli nello stesso stato i pensieri, i sen-  timenti, le affezioni, le intenzioni, i bisogni, Io spirito d' invenzione  e d'industria dell'uomo sociale e civilizzato , ').   Lo critica del Bonald è in fondo identica a quella del Reid.  Si presuppone nell'uomo sfornito tuttavia del linguaggio, cbe gli  tocca inventare, qualità o attitudini necessarie all'invenzione; le  quali non possono non equivalere al possesso del linguaggio che  vien negato, comecché in una forma primordiale e naturalmente  rozza. E questa ingenua teoria del vecchio empirismo che fon-  dava la società io un contratto, la religione su un arbitrio dì  legislatori, e Ìl linguaggio in una invenzione convenzionale, è stata  anche in quest' ultimo campo, sconfitta dalla moderna scienza della  linguistica comparata; la quale se tra Max MuUer e il Witney  discorda intorno alia necessità delle relazioni che intercedono fra  il pensiero e la parola, ha però definitivamente e concordemente  stabilito che il linguaggio è un fatto speciale, primitivo e naturale  dell'uomo, non essendovi alcuna società, per quanto barbara e  selvaggia, che non ne sia fornita; del pari che la sociologia e la  scienza delle religioni comparate hanno provato l' originarietà, cioè  l'apriorismo, del fatto sociale e del religioso.   Ed è appunto merito della scuola teologica francese, come  osserva giustamente il Janet ^), di aver dimostrato contro i filo-  sofi francesi del sec. XVTII la vanità delle teorie intorno all'o-  rigine fattizia e riflessa di tutti i fatti i più importanti dell'uomo  sociale. Al Bonald poi spetta particolarmente la lode per quel che è  del linguaf^io; e a lui specialmente volgeremo l'attenzione, giacché     ') lUeherches phiioaophiquea, ohap. Il, in Oeuvres ( Paria 1858 ) p. 107.  *) La ph&os. de LamtnnaU, p. 18.     Digitizcdby Google     Bosmini e Oioberii 263   egli connette questa teorìa con quella della rivelazione neceasaria  per l'umana conoscenza, siccome fece tra noi il Oiobeiii.   II Bonald, con l' Histoire comparée del Degerando alla mano,  rileva che la filosofia non è riuscita peranco a fissare un punto  fermo, un criterio sicuro di certezza e di verità, anzi per tutti i  sistemi è finita nello scetticismo e nel soggettivismo; e si chiede  quindi se non fosse possibile " trovare nei fatti sociali un fonda-  mento alle dottrine filosofiche piìl solido di quello che s' è cercato  fin qui nelle opinioni personali , ') ; e questo fondamento gli pare  appunto di trovarlo nel linguaggio, che, dimostrato non potersi in-  ventare dagli uomini, deve (non essendovi, secondo lui, altra via)  essere stato comunicato da Dio alla società umana, e in questa  appresa via via dagli individui.   Si direbbe che il criterio del Bonald riesce sottosopra a quello  altrove rilevato dal Lamennais; che questa parola, che possiamo  accettare come saldo fondamento di certezza, data da Dio all'umano  consorzio, è precisamente la rivelazione. Ma quel che v'ha di ori-  ginale nel Bonald, e prova che il Gioberti ne dipende io modo spe-  ciale, è la teoria della parola coma atto o strumento necessario  del pensiero; vale a dire che, dato che il linguaggio, tutto il  linguaggio aia rivelazione divina, il pensiero dì cui il Bonald  dice che la parola è il corpo, è esso stesso tutto una rivelazione,  cioè ha tutto per se stesso un fondamento di certezza obbiettiva o  sovrumana, nel senso di universale. La quale è appunto la teoria  del Gioberti, che ammette bensì una conservazione, ma anche una  alterazione della forraola ( = contenuto della rivelazione, coni' è  contenuto dell' intuito) ; e fa che il pensiero che rimane, anche al-  teratasi la rivelazione, possa tuttavia cogliere il vero. Di guisa  che la rivelazione (l'elemento sensibile della conoscenza) non è ac-  cidentale ed esterno al pensiero, ma necesaario e quindi costitutivo  di esso ; sicché, essendo il pensiero un fatto, cotesto elemento sen-  sibile, ne dipende e gli è strettamente connesso.   *) BecA., p. 42.-     .dbyGoosle     264 O. Gentile   Questa rivelazione, adunque, ha ud valore tutto speciale, in  quanto è qualcosa d' intrìnseco al pensiero stesso, tale perciò che  il ricorrervi non sia per quello un esautorarsi o uà apprendere  dal di fuori, ma bensì uno sviluppare se stesso; laddove, presso il  Ijameanais del Saggio suW Indifferenza, il pensiero infermo per se  medesimo e incapace d' attingere il vero, si dee abbandonare, quasi  per chiederle conforto, alla rivelazione esteriore. Pel Gioberti la  rivelazione va cercata nella vita stessa del pensiero, equivalendo  alla parola, che è tale a sua volta, che senza di essa, come aveva  osservato il Bonald, il pensiero non esisterebbe. Chi rigetta la  rivelazione, viene a rigettare secondo il Gioberti, la parola, ossia  lo strumento necessario alla cognizione riflessiva dell'Idea; epperò  non può attinger questa, senza la quale — lo vedemmo già eoi  Kosmini — il pensiero cessa di essere '■). La necessità dì questo  è pertanto la stessa necessità della rivelazione, considerata unica-  mente per rispetto a quell' ufììcio che dee compiere nel fatto della  conoscenza.   Sennonché, cosi considerata, a che si riduce la rivelazione? Essa  ci deve offrire la parola, ossia i segni delle cose, Ìl dato sensibile  che circoscrive l'idea dell'essere e le dà attuale esistenza di cono-  scere; e, come dice l'autore, ' una successione di sensibili, per cui  essa Idea rivela se medesima all' intuito riflessivo dello spirito  umano, e compie l'intuito diretto, che li porge da sé *).   Non è del nostro tema trattare ampiamente di questo punto  della filosofia del Gioberti, che richiederebbe una troppo lunga di-  samina. E bisognerebbe sovrattutto discuterla, — come in parte  ha fatto, da quel gran maestro che era, lo Spaventa — nelle opere  postume, una delle quali è appunto dedicata alla filosofia della     ') B il QiOBBBTi dice: «Il ripudio assoluto della tradizione religiosa e  Bcientifica si trae dietro neceasariacoente quello della parola. Ora, siccome l'aiuto  della parola è neceaaarìo per conoscere riflessivamente l'Idea, chi lo rifiuta  dee eziandio dismetteie e gittar da sé ogni cognizione ideale. Ha tolta l' Idea,  che rimane? Nulla ».-- /«(roA, I. 3»; II, 51.   ») Op. «(., I, 3"; n, 107.     .dbyGoosle     Sosmini e Gioberti 265   rivelazione. Ma esse furono tutte scritte dopo la polemica col Elo-  amÌDÌ, e sarebbe perciò inopportuno il prenderle come un punto di  partenza, volendo discorrer di quella.   Gì basta notare, che nella stessa Introduzione la teoria della  parola va messa in relazione con le dottrine del Reid e del Bonald,  dalle quali deriva, e co' principj rosminiani già adottati nella Teo-  rica del soEiannaturale ; che deve intendersi {secondo la distinzione  di parola naturale e artificiale, ripetuta dallo stesso Gioberti) '),  come parola naturale, cioè come segno della cosa, o sua rappre-  senlanions, il che corrisponde appuntino alla teoria rosminiana della  sensazione, per la quale si determina e circoscrive l'ente indeter-  minato. Infatti, secondo il Gioberti, la parola artificiale non può  esprimere se non le idee già espresse, e presuppone quindi la pa-  rola naturale, la rappresentazione *).   Ora, se anche pel Gioberti ogni concetto si forma per una de-  terminazione che si fa per la parola dell' essere indeterminato del-  l'intuito, ciò avviene, come s'è visto, per opera della riflessione;  la quale richiamerebbe perciò, secondo s'è pur notato, la percezione  intellettiva del Rosmini. — Ma il Gioberti, come ha mutato la parola,  ha mutato anche, o crede d'aver mutato, il concetto. Alla sua fìlo-   'J 4 La potenza dell'intuito per attuarsi ha d'uopo della parola, cioè del  sensibile! La parola è di due specie: naturale e artificiale. Questo è il lin-  guaggio elle non può eaprimere che le idee già espresse. Il linguaggio del-  l'arte è sempre una traduzione del linguaggio della natura; è verso di esso db  che la scrittura verso In parola artificiale >. Kioi d. Rivela):., Toriao, Botta,  i8o6, p. 89.   ') Meglio potremmo solidare questa interpetrazione discutendo le difficoltà  che fa insorgere la teoria della parola cori com' è esposta uell' Introduzùtne, o  prima facie par che quivi debba intendersi, esaminando la critica fattane dal  Tbsta nelle sue Considerazioni aopra l' InlrodtiziorK aUo st. ddla JHo*. di  V. Q., Piacenza, Del Majno, 1845, part. n, p. 32 e segg. Ma non ist htc locus.  Con la critica del Testa consuona in alcuni punti quella di V. Db Gbaziì,  ne' suoi Discorsi au la logica di Hegel e su la Filos. speculativa { Napoli,  Tip. de' Gemelli, 1350) 2' rass.; e mutuata dal Testa pare l'obbiezione che il  critico calabrese muove all'ipotesi dell'intuito (iTÌ,p. 100) nel Gioberti.     .dbyGoosle     ^^T1     aee O. Gentile   sofìa, che per la spi^azìone della conosceoza ha bisogno del fatto  della rivelazione egli coutrappone la filosofla eterodossa, la quale,  rifìutaodo lo strumento della rivelazione, non può ammettere una  riflessione che rifaccia T intuito e conduca perciò al possesso del-  l'Idea; e deve quindi rinunciare alla Idea, appigliandosi alla per-  cezione del sensibile, il quale può essere l'oggetto del senso esterno,  come dell'interno, ossìa materiale ed estrinseco, o spirituale ed  intrinsepo. Donde, doppia eterodossia, sensismo da una parte e psi-  cologismo dall'altra; e in ambo i casi ' la sostituzione del sensi-  bile all'intelligibile, come principio, onde muove la filosofia , ');  ossia un metodo il quale, come vedemmo, conduce direttamente  al soggettivismo, allo scetticismo, al nullismo, dacché è vano lo  sforzo dei sensisti e de' psicologisti, di trarre dal sensibile l'in-  telligibile.   La filosolia eterodossa, dunque, ammette bensì anch' essa la  riflessione; ma la sua rifiessione si differenzia essenzialmente dalla  riflessione della filosofìa ortodossa, in quanto, non servendosi di  quel mezzo che solo mette in grado di tornare, dopo il primo in-  tuito, fìno al termine di questo, si deve necessariamente fermare  al fatto della mente (per parlare dello psicologismo che c'inte-  ressa) e rimaner quindi semplice riflessione psicologica, in luogo  di pervenire all'Ente intuito immediatamente e farsi, come dovrebbe,  ontologica.   ' Lo strumento, onde lo spirito umano si vale in psicologia,  è la riflessione psicologica, per cui il pensiero si ripiega sovra se  stessO; e afferma, non già la propria sostanza, ma le proprie ope-  razioni solamente. All'incontro nell'ontologia lo strumento è la  contemplazione, la quale si divide in due parti, cioè in uu intuito  primitivo, diretto, immediato, e in un intuito riflesso, che chiamar  si può riflessione contemplativa e ontologica , >). Cosicché la ri-  flessione psicologica è una operazione semplice ; l' ontologica una     ') Introd., I, 3"; II, Bi e segg.  *) Introd., I, 3»; II, 104 e aegg.     DigitizcdbyGOOgle     Boamini e Gioberti 267   operaziooe duplice; quella si esercita sopra il prodotto soggettivo  di una precedente operazione (l'intuito)-; questa sopra l'oggetto  stesso della operazione precedente, che rifa maturandola.   Si potrebbe dire perciò, che la riflessione ontologica sia la stessa  riflessione psicologica aggiuntavi la ripetizione dell'intuito. Infatti  * nell'ontologia lo spirito, ripensando, si rifa sull'oggetto imme-  diato dell'intuito stesso.. . Ma, egli è vero che nella riflessione  contemplativa •}, la mente rivolgendosi all'oggetto ideale, si ripiega  pure di necessità sull' intuito proprio, che lo apprende direttamente ;  onde il tenor psicologico del rìpensare accompagna sempre l'altro  modo di riflettere; tuttavia queste due operazioni, benché simul-  tanee, sono distinte, perchè hanno il loro termine in uu oggetto di-  verso , *).   Una critica non molto difficile qui può sorgere conti'o questa  dottrina della riflessione ontologica. Se l'intuito lascia uno stato  speciale nella mente, un fatto, tal che sia possibile coglierlo con  la riflessione psicologica, due casi si posson dare: o in esso v'ha  uno specchio fedele dell'oggetto proprio dell'intuito, e allora la  riflessione psicologica è fondamento di una conoscenza oggettiva  per eccellenza, e non soggettiva, come pretende il Gioberti; o non  si riflette affatto (ovvero, che è lo stesso, non si riflette fedelmente)  il termine dell' intuito, e in tal caso questo primo intuito è per-  fettamente inutile.   Il dilemma ci pare senza uscita. La riflessione ontologica del  Gioberti sarebbe davvero un secondo intuito, se potesse traspor-  tare la determinazione sopravvenuta con la parola (dato sensìbile)  dall'interno del soggetto, dove interviene, nello stesso oggetto; il  che è impossibile, perchè secondo la sua teoria la parola è un sen-  sibile.   E perchè dovrebbe potervela trasportare, cotesta determina-     *) Cobi è par detta dal Oìobei-ti la riflesBione ontologica; mentre la psico-  logica è pur detta osservaHva (p. 105).  «) latroduz.. l, 3", II, 104.     .dbyGoosle     868 G. Qmiile   zionep Perchè, avvenendo la determinazione nella riflessione, es-  sendo questa ontologica, il sensibile, principio della determinazione,  dovrebbe ripensarsi coli' intelligibile, e come questo (poiché si tratta  di un secondo intuito), fuori del soggetto; il che, ripetiamo, è im-  possibile.   Di certo la riflessione ontologica è l' espressione, benché non  esatta, d'una giusta esigenza del pensiero, come or ora vedremo;  ma contrapposta, com'è dal Gioberti, a una riflessione psicologica,  fallisce al suo scopo, non potendo sfuggire alle conseguenze dello  accennato dilemma. Sennonché, il Gioberti ci dice: ' La rifles-  sione psicologica non ha per termine diretto il pensiero, come pen-  siero, ma il pensiero come sensibile intemo, cioè come atto dello  spirito, e quindi non riguarda direttamente l'Intelligibile, che si  congiunge col pensiero e lo illustra. Egli è vero che la riflessione  del psicologo si connette per indiretto coli' Intelligibile ; ma cì6  non prova nulla in favore dei psicologisti; imperocché non ne  partecipa, se non mediante quell'intuito mentale, che, al parer  mio, è il vero e necessario strumento dell' ontologo , •}•   L'equivoco qui è evidente: la riflessione psicologica non coglie  il pensiero come pensiero, cioè in quanto intuisce l'Idea^, ma  lo coglie, secondo Gioberti, come un sensibile intemo ; dunque la  riflessione ontologica non fa altro che cogliere il pensiero come  pensiero.   Ora, se la riflessione psicologica presuppone anch'essa un intuito,  e (poiché, parlando contro il psicologismo, il Gioberti si riferisce  specialmente al Rosmini) un intuito, che, come vedemmo nella  esposizione della teorica rosminiana, è costitutivo del pensiero, é   ») Introi., I, 3» i U, 109.   ') Nella FUoB. iella Uivdaz., il Qioberti scrive : < Una meate aeiiEa idee,  e in igtato di tavola rasa perfetta è una contraddizione. La facoltà con cui  la meate creata afferra questa rivelaiione [la riveUsioae imuaQente, virtuale,  che diventerà attuala pei opera della riflessione; v. ivi, p. 87] che fa, la sua  assensa, è l'intuito»; p. 88 Né pia uè raeao di ci6 che dell'intuito aveva  detto il Rosmini!     DigitizcdbyGOOgle     ■^ ■»- -w'-     Rosmini e QvAerii 369   la sua propria essenza, — come può fare a ritornare sovra un  pensiero ehe non siasi già appropriato l'Intelligibile, e Io abbia  ancora fiiori di sé, e sia ancora in atto d'intuirlo? Insomma sì  può concepire un intuito immediato dell'Intelligibile come essenza  del pensiero, che pur lasci il pensiero sempre al puro stato di tcAida  rasa, sempre in atto di guardare l'Intelligibile, senza mai vederìo?  Il pensiero pel Rosmini intanto è pensiero, in quanto ha un  intelletto costituito dall'intuito dell'intelligibile; non può quindi  riflettersi su se stesso, senza trovare in sé non già Ìl semplice atto  astratto dell'intuito, ma sì l'atto concreto, ossia l'atto terminante  nell'Intelligibile: la forma, in una parola, dell'intelletto. E l'equi-  voco propriamente consiste in ciò : nel concepire l' intuito imme-  diato come una pura dualità; dove, al pari della visione corporea,  da cui immaginosamente è desunta, non può essere se non un'unità  sintetica, di soggetto ed oggetto. L' intuito ond' è fornito l' intel-  letto è una nozione, in cui Ìl soggetto e l'oggetto, come nel pro-  dotto della sensazione, sono affatto indistinti. Ora se la nozione  è qualcosa di perfettamente uno, ripiegandosi sovra di essa, lo spi-  rito non può non coglierne il contenuto, che è per l'appunto l'Intel-  ligibile. — SI' equivoco si fa manifesto quando l' autore soggiunge  che questo scambiamento di metodi (psicologico ed ontologico) gli  ' riesce un trovato cosi bello, come l'assunto di chi adoperasse le  dita e le orecchie, per apprender la luce e distinguere ì colori in  essa racchiusi „ (p. 105). Qui sì immaginano la luce e ì colori  come oggetti o segni esterni e indipendenti dell'organismo sensi-  tivo, in che si rappresentano; per modo che a noi, sapendoli lì ad  aspettare di esser da noi sentiti, sia dato scegliere lo strumento  più acconcio alla bisogna. Laddove fìa dal 1834, quando fu pub-  blicato il celebre Manuale di fisiologia di Giovanni Mailer, si sa  da tutti che non v'ha nulla di più falso. Quello che not sentiamo  e diciamo luce e colori, non è se non per la nostra sensazione e nella  nostra sensazione. Ma il Oioberti ignorava questo concetto della  soggettività della sensazione, comecché avesse già appreso dagli  scozzesi quella teoria della percezione esteriore, per la quale ve-     .dbyGoosle     270 ^ 0. Oentile   nivano per sempre seppellite le vecchie idee imniagiiii, che solo  la leggerezza filosofica di Ippolito Taine doveva più tardi esumare  nella sua haldanzosa quanto vana guerriglia contro la filosofia  classica francese in genere, e per questo punto contro il Royer-  Collard >).   Or, come è uno shaglio credere che il colore che diciamo di  vedere con l'occhio, sia fuori dell'occhio, talché se si avesse modo  di riflettere sulla visione, si rifletterebbe sul semplice atto del ve-  derlo, ma non propriamente sul colore; così soltanto un equivoco  può far pensare che nella nozione rosminiana fornita dall' intuito  dell'Intelligibile, non siavi altroché l'atto dell'intuire; di guisa  che la riflessione sovra di essa pervenga soltanto indirettamente  all'oggetto, sul quale cotesto atto si esercita. L'oggetto qui è  una cosa stessa con l' atto, siccome vedemmo altrove discorrendo  dell'intuito; oggetto ed atto sono una cosa sola nell'intuito in-  tellettivo, che è atto insieme e forma dì esso, secondo la teoria  del Rosmini.   E questa è la vera ragione che il Tarditi avrebbe dovuto op-  porre al Gioberti, per dimostrargli infondata, come tentò di fare  nella prima e nella seconda delle sue famose lettere, la distinzione  fra le due riflessioni psicologica ed ontologica *). Le quali si po-   ') Convengo pienamente nella controcritica oppostagli dal Janet nel primo  de' suoi scrìtti en La crke phUoaopMques, Paris, 1865, p. 26 e segg. Li teoria  scczzcBe toRlienda l'inutile intermediario dell'immagine tra l'oggetto sensibile  e il soggetto sensitivo, fece di certo un primo passo verso quell'unità del  tatto della sensazione, che non poteva d'altronde concepirai senza i nuovi prin-  cipj del kantismo, di cui giustamente la psicologia genetica tedesca si con-  sidera come un fedele compimento. — Vedi in proposito gli scritti del  TabÌktino in Giom Napdet. di FUob. e Lett. del 1880 e 81 e del Cm*p-  PELLi, ivi. QnelH del primo bqu pure raccolti nei Saggi fUoeofici, Napoli,  Morano, 1885, pp. 37-128. — Dopo la pubblicazione di quwto votame  il Chiappelli tornò sull'argomento nella Filosofiti delle Scude Italiane, voi.  XXSI (1885), in un art. sulle Attinenze fra il criticiamo kantiano e la pri-  coloffia inglese e tedesca.   ') « Siccome, osservava il Tarditi, noi non possiamo riflettere su ne»aa     DigitizcdbyGOOgle     Rosmini e Gioberti 271   trebberò ira loro distinguere solamente pel dÌTerso oggetto (e a  questo soltanto s'è appellato come a ragion distintiva in un passo  deìV Introduzione già citato il Gioberti); talché se l'una noa ha,  né può avere un oggetto diverao dall' altra, è chiaro che la distin-  zione non possa più farsi.   n Gioberti, veramente, negava più tardi che la distinzione si  desuma soltanto dall' oggetto ; e voleva che si fondi anche sul  metodo {Errori, I, 151 e segg.); e dava sulla voce al Tarditi, che  ciò non aveva saputo vedere •). Ma come sosteneva la sua sen-  tenza ?   ' La diversità dei metodi in ogni ordine di ricerche consiste . . .  in quella del veicolo, che si dee scegliere per conseguire l'oggetto  ricercato; e la natura del veicolo è determinata da quella dell'og-  getto medesimo, considerata non in sé semplicemente, ma nelle  sue attinenze con le facoltà e le condizioni del cercatore , *). E  più in là: ' Il punto, a cui si vuol giungere, determina l'indirizzo  che si dee tenere; l'intervallo che s'ha da correre, insegna le ope-  razioni da farsi, per superare gli ostacoli e toccare la mèta , ').   Ora^ senza dire dei caratteri differenziali che il Gioberti poi  indica nei due processi che vuol distinti, basta notare che la sua  deduzione avrebbe un valore soltanto nel caso eh' ei avesse dimo-  strato essere realmente distinti i due pretesi oggetti di riflessione,  poiché, a confessione dello stesso Gioberti, la natura del metodo     oggetto se Doa quanto da noi o intuito se ideale, o percepito se reftle; pad  la riflesBÌoDe passare egualmente dall' oggetto atl' intuito, e dn questo a quello;  anzi ta rìfleasioue sull'intuito non puA essero completa, imparziale, quale s'ad-  dice al filosofa, se non coasidera l'intuito, e nel soggetto di cui è atto, e nel-  V oggetto in cui termina, e dal quale Sformalo*; Leti, d'un Sosminiano,  Z\ p. 38 ; e si riferisce alla teorìa della rytesiione filosofica del Rosmini ; cfr.  p. S e segg. Or se si distìngue e separa, come fa il Tarditi, atta da oggetto,  il Gioberti ha cagione. H vero è ohe essi non sono afiatto distinti.   ') Leti, eit, I, 19-20.   •) Errori. I, 153.   3) Op. eit., I, .158.     .dbyGoosle     272 G. Omtile   è determinata dalla natura dell' oggetto. Contro il Tarditi che  ammetteva un atto di intuire distinto attualmente da un oggetto  intuito, egli aveva ragione; perchè se vi sono due termini di di-  versa natura, noi non possiamo giungere a ciascuno di essi con  un medesimo processo. Ma conviene prima provare quella distin-  zione di atto e di oggetto nell'intuito; la quale è, pift che altro,  presupposta dal nostro autore.   E peccando il suo ragionamento di una siffatta petizion di  principio, né potendosi altrimenti che per astrazione distinguere  r atto dall' oggetto, il Gioberti non può dire nemmeno che la re-  plicazione dell'intuito, cioè la riflessione, si differenzi! per l'oggetto  e pel metodo; poiché il metodo potrebbe esser diverso solo allof  che fosse differente l' ometto. E se il metodo trae i suoi caratteri  specifici dall'oggetto, e se l'oggetto è uno e inscindibile, come  si può distinguere una riflessione psicologica e una riflessione onto-  logica?   Il pensiero non si può riflettere se non sopra di sé, come pensiero;  e siccome è costituito tale dall'intuito dell'essere, che gli dà l'idea  dì questo, la riflessione non può non comprendere direttamente  questa idea dell' essere, che è oggetto dell' intuito.   Che se l'intuito si considera nel suo intimo e profondo signi-  ficato, secondo la critica da noi fattane, cioè io quanto esprime  l'oggettività vera (non la falsa oggettività fantasticata, con la im-  maginaria opposizione, a risolver la quale # ricercato l'intuito),  e però la vera soggettività, vedasi quanta ragione più si abbia di  volere una riflessione che, a differenza della riflessione suU' intuito,  faccia riflettere lo spirito sullo stesso oggetto dell'intuito. — E a  questo punto noi volevamo arrivare. — Perchè Gioberti distingue  una riflessione ontologica dalla riflessione dei psicologisti ? Qnesta,  egli dice, si ferma a un fatto dello spirito ; quella ci conduce fino  allo stesso oggetto ; e quella è però da preferirsi, se si vuole evitare  il soggettivismo. Or si veda che fedele rosminiano è fin nell'afferma-  zione di questa esigenza il Gioberti ! La critica sbagliata Fatta dal  Kosmini delle forme kantiane, ecco che egli la rivolge una seconda     DigitizcdbyGOOglc     Jìosmini 6 QwberH 27   Tolta contro il Rosmini medesimo. Gioberti, infatti, si accorge (  l'intuito rosminiano è una pura e semplice forma dell'intellet  ne più né meno delle forme di Kant; se ne accorge e gli pare, dìei  l'insegnamento del Itosmini, di vedersi risorgere innanzi il fosco fs  tasma del soggettivismo. Quindi non gli basta un intuito, coi  bastava al Iio3mÌDÌ, onde salvare l'oggettività, cioèl'universal  e la necessità della scienza, e gliene vogliono due, un doppio ìntu  intuito riflesso o secondario, o veramente una riflessione oni  logica. Bisogna davvero che questa Idea stia fuori del soggel  umano, stia da sé, e bisogna cbe si vada sempre fino a lei, ti  per un semplice intuito (potenza o virtualità di conoscere), vi  per un intuito riflesso, reale ed effettivo conoscere.   Ma il guajo è che se l'intuito, l'intuito scempio, sul quale  esercita la " riflessione eunuca , ^) del Rosmini, è un semplice s<  sibilo interno, o meglio, un semplice dato soggettivo (che pel G:  berti quel termine ha questo significato) — opperò individuali  contingente, — non c'è modo di provare che non sia un sempl  dato soggettivo anche lo stesso intuito doppio, che gli si vuol (  stituire. À rigor di logica, infatti, la critica stessa che il Qiobe  muove al Rosmini, si può muovere a lui, e si può continuare  l'infinito contro chi intenda l'oggettività, cioè l'universalitì  necessità delle forme di cognizione, come opposizione al sogge  conoscitore. Giacché l' intuito è sempre la stessa operazione, ed i  plica sempre la medesima relazione tra soggetto ed oggetto,  che si eserciti una sola volta, sia che si eserciti due volte,  riflessione ontologica rifa l'intuito circoscrìvendone l'oggetto  dato sensibile, offerto dalla parola. Ora, se il prìmo^intuito i  era bastato a cogliere l'intelligibile, perchè e come deve potè  cogliere il secondo ? — L'aveva evolto, dirà il Gioberti; ma appui  perciò bisogna ripeterlo, quando si vuol predicare del dato sensil  quella intelligibilità, e formare il concetto. — Ma anche a  v' ha risposta; cioè, l'intuito non è, come s' è visto un precedei   *) Errori, I, 144.     .dbyGoosle     -^?5^"     274 G. Gentile   cronologico della percezione intellettiva, dell'atto (che il Gioberti  dice riflessione) della determinazione dell'Idea, del differenzia-  mento della primitiva identità. E se non precede cronologicamente,  come non deve, né può, poiché non v'ha l'identico senza la diffe-  renza, né l'universale fuori del particolare, né l'uno fuori del vario,  é falso i! concetto d'un replìcamento dell'intuito nella percezione  intellettiva o nella riflessione; perchè il replicaraento presuppor-  rebbe l'intuito come un precedente anche cronologico, oltre che  logico ; con che si tornerebbe al vecchio concetto dell' a priori.   La riflessione ontologica, adunque, non può intendersi come in-  tuito riflesso, cioè come doppio intuito, nonostante l' esigenza che  r Intelligibile aia intuito nell' occasione stessa della percezione sen-  sitiva, oltre che solo; per la semplice ragione che da solo non è mai  intuito, se non come presupposto logico, come un quid trascendente  il fatto della conoscenza. D'altronde, il secondo intuito che si com-  prende in cotesta riflessione ontologica, non è né più né meno che  una ripetizione del primo ; talché, insuMciente il primo, non pub  non essere, e il Gioberti non dice perchè né come non debba es-  sere insufficiente il secondo, E perciò, rifiutato il primo, egli non  aveva nessuna ragione di tenersi contento al secondo, come aveva  avuto torto, a fil di logica, il Rosmini, rifiutando le forme kan-  tiane, a contentarsi di quel suo primo intuito. Ma come l'errore  del Rosmini risguardava la sua interpetrazione di Kant, ma non,  ci pare, la sua teorica, ed anzi era prova, come s' è più volte notato,  delia buona esigenza da lui avvertita di una perfetta universalità  e necessità nel conoscere; così, con la sua teoria della riflessione  ontologica, il Gioberti, se crede a torto di correggere il "Rosmini  e con esso anche il Kant, dimostra anche lui di avere avuto il  giusto concetto dei bisogni essenziali della scienza.   E v' ha di più nel Gioberti. Questi sente più forte una esigenza,  che non si può dire sia stata trascurata dal Rosmini, comecché  in lui non sembrasse pienamente soddisfatta ; vale a dire l' esigenza  dell' unità non pure come compimento della dualità della sintesi,  ma altresì come sua base, fondamento ed inìzio.     Digitizcdby Google     Rosmmi e Oioberti 275   Infatti, con la riflessione ontologica 8Ì ritrae la differenza nel  seno stesso delU identità; perchè la parola, principio determina-  tivo, aiceome è una rivelazione dell'Idea, così è strumento di quella  riflessione, che risale fino all'Idea stessa, a guisa d'un quadro, in  cui s' incornicia la vaga Idea sconfinata, tanto per lasciarsi vedere  dal finito spìrito umano. Ma quadro e Idea sono una medesima cosa;  tanto che la parola è detta rivelazione dell'Idea, ed è propria-  mente parola dell' Idea medesima. Sicché la differenza qui scatu-  risce dal fondo stesso dell'identità, dall'Idea; e la funzione dello  spirito, per cui si apprende insieme l' identico e il diverso, è pre-  cisamente la riflessione ontologica, che si rifa dal centro stesso  dell' identico ; laddove, secondo il Gioberti, la riflessione psicologica  non si rifaceva se non dall' atto stesso dell'intuito di cotesto iden-  tico, cioè da un fatto sensibile, epperò da un diverso; il quale, d'al-  tronde, se pure era un identico relativamente all' ordine dei cono-  scibili, non conteneva però in sé il principio della differenza.   Il Gioberti, adunque, senza riuscire a dimostrare l' insufficienza  della riflessione rosminiana, con la critica di questa e col volervi  sostituire una riflessione più compiuta, mirava a porre su più solido  fondamento la oggettività del conoscere, e a giustificare più sicu-  ramente quella vera sintesi a priori che per questa via accettava,  attraverso il Rosmini, da Em. Kant; fondandola su quell'unità indis-  solubile di identico e di diverso, di uno e di moltepUce, di uni-  versale e di particolare, di necessario e di contingente, nella quale  è la vita e la spiegazione del pensiero e del mondo ; unità, del resto,  di cui sentì pure il bisogno Rosmini, come in parte s'è visto e  meglio si vedrà nel capitolo ohe s^ue.   E per conchiudere intanto su questo punto, diremo che la ri-  flessione ontologica non è una operazione differente dalla riflessione  psicologica, che il Gioberti attribuisce al Rosmini; non potendone  differire pel metodo, poiché non ne differisce per l'oggetto, e non  potendo per questo differirne, poiché non esiste quella duplicità di  c^getto, che è presupposta dal Gioberti, e che ne sarebbe condi-  zione necessaria e sufficiente. L'immediatezza dell'intuito, come     .dbyGoosle     378 0. OmHle   forma del conosoere, esclude essa appunto ogni distinzione tra atto  d'intuire e oggetto intuito, siccome distrugge l'opposizione, che  pur presuppone col suo letterale significato, fra soggetto ed oggetto. Della proprietà delle parole. 1: La parola , prima che fosse scrilla,è parlata : la parola parlata fu inventata da Dio,come abbiamo detto di sopra,elascritlurafuun trovatodell'uomo,einspeciedel sacerdozio , secondo l'opinione del Gioberti, La parola artificiale, come espressione dell'Idea, non è già ilVerbo ereatore, m a l'immagine del Verbo, cioè il vero Verbo dellamente umana;e quindiilveromedialoreidealetra lo spirito e l'Idea.Se adunque lo spirito contempla l'Idea a traverso della parola, egli è chiaro, che la parola dee yelare appena e non coprire l'Idea,come terso cristallo corpi sottostanti ; quindi ella dee essere trasparente, e in ciò consiste la sua semplicità e perfezione, Dalla sempli cilà dellaparola nasce la proprietàdellevoci,lapuritàe l'eleganza dei vocaboli ; le quali doli della parola si tra yasano nelle frasi,che esprimono l'unione armonica delle yuci mediante i concetti ; e per via delle frasiriverberano quindi nello stile, e generano la bellezza del discorso. I m perocchè il discorso è bello allora quando le voci,le frasi, e quindi lo stile che ne deriva, sono semplici,proprie, pure ed eleganti. Infatti la parola è semplice, quando vela a p pena ilconcetto,e non lo copre dinanzi all'occhio della mente, nel qual caso la parola è per l'opposto materialé, e oscura.L a parola è propria , se è un ritratto fedele del concetto che esprime ; ed è sempre tale , ogniqualvolta  266 linguaggio ; della precisione dei concetti mediante le dif finizioni ,e della loro partizione mediante le divisioni dell'organismo dei concelti mediante i giudizii ; delle pruove delle verità seconde mediante i raziocinii';.e in fine del processo della mente secondo il lenore obbieltivo delle idee mediante ilmetodo. Ma poichè in tuttequeste operazioni della mente si può cadere inerrore,ogni qual volta non si fa buon uso dei canoni logici e dellaloro applicazione , quindi entra innanzi la critica a giudicar dell'uso che si è fatto dei canoni logicali , mediante il giudicatorio supremo dei principii che sovraslano alle stes. seleggi.Diche noidividiamoluttalamateriadiquesto capitolo in tanti distinti articoli . ART. 1.   conserva la suasemplicità. Quando la parola è propria mantiene a capello la corrispondenza perfetta tra l'Idea e il suo segno sensibile, se ella siguilica l' Idea increata, cioè l'Ente ;'e se ella esprime l'idea creata,cioè l'esistente è anche propria , oġniqualvolta conserva la corrispon. denza tra lamimesi e lametessi.Quindi è,che la lingua primitiva, la quale ebbe due parti, l'una divina,e l'altra umana, fu eminentemente propria ; imperocchè la parte divina di quella lingua consisiente nella rivelazione dei verbi originali manteóne,perchè divina,la corrispondenza tra l'Idea e il segno,e la parte umana,consistente nel l'invenzione dei nomi primilivi,mantenne ancora la cor rispondenza tra la mimesi e la metessi , perchè A d a m o pernominare isensibilicoiloroproprii nomi, lidedusse dagl' intelligibili, cioè dalla loro radice melessica. Quindi è,ancora , che nelladivisione delle lingue avvenuta pel fatto diBabelen,on re,che non abbia più o meno perdule e guaste molte pri. milive sue forme ; che non costi di n o m i e verbi anomali, eteroclili, difettivi, e di molte altre irregolarità di linguag gio , sicchè ogni lingua compare una rovinadel primitivo idioma. Quindi è finalmente,che gli scrillori autichiper che erano studiosissimi della proprietà delle voci c dello stile (onde le loro distinzioni dei varii generi di stile,te nué, mezzano, sublime ) perciò sono appellati classici, e sono isoli che abbianobuona scuola,cioè ispirano e pro ducono altri scrittorigrandi.  267 2. Abbiamo detto che dalla proprietà nasce la purità l'cleganza e la bellezza della lingua e dello stile;e quindi del discorso.E infattilavoce proprio nella lingua italiana importa il concelto di identità, cioè della medesimezza di una cosa con seco stessa:importa pureilpossessoche una cosa ha di sè medesima,perchè la cosaposseduta èquasi parte è in certo modo faltura eziandio del possidente. Quindi il vocabolo proprietà è spesso sinonimo di m e desimezia ;cosìl' amor proprio è l'amor di sè; è desso an, cora sinonimo di possessione ; così gli attributi specifici di una cosa,iqualine sono leproprietà,sono la cosa stessa, perchè le qualià e i modi degli esseri sono la sostanza m o dificata,valquantodirelamimesidella metessi.Adunque laproprietàdelparlarealtronon èchelacorrispondenza della mimesi colla melessi del discorso; la quale corrispoc   3. M a se la proprietà del linguaggio è la fonte di tulti i pregi del parlare e dello scrivere, la improprielà del parlare poi è una delle cause principali degli errori ontologici e logici, che producono la declinazionedellafilosofia,como avvertimino nella prima parte di questo corso. L'errore in generale altro non è che lo sviamento dell'intelletto nella cognizione della verità ; e come tale si distingue dall'igno, ranza , la quale non importa la cognizione alterata del vero,ma bensìla privazione assolutadella cognizione,E poichè al vero si oppone il falso; perciò siccome il vero si gnisica, in quanto è desso l'essere, così il falso n o n si goifica, secondo la bella espressione del Tasso, perchè € desso ilnon essere  268 denza costituisce la dialettica del linguaggio, e quindi la improprietà ne è la sofistica. Ora la purità delparlare i m porta la sua pulitezza, la quale è una speciedi proprietà; imperocchè la pulitezza,mostrando la cosa nella sua forma nativa, fa che la cosa sia identica a se stessa, yalquantodire che l'apparenza risponda allasostanza"; ilche importa in altri termini che la cosa abbia possesso di sè medesima. E poichè la politezza importa la scelta di ciò che costiluisce l'orpamento degli oggelti maleriali; cosi nella lingua l'ele ganza è inseparabile dalla purità delle voei.E siccome alla pulitezza si oppone l'immondezza, che illaidisce edeforma gli oggetti, così all'eleganza si oppone la vanità che li al. teraedeformacome sefosseunamaschera straniera:al. treltanto succede nella lingua e nello stile.Dalla stessa fonte della proprietà e semplicità del linguaggio scaturisce la bellezza dello stile e del discorso.Imperocchè quando il lin guaggio vela appena e non appanna l'idea o il concetto, se ne rende allora ilritratto fedele, come abbiamo detto di sopra ; nel quale caso l'idea increata o creata manifesta n a turalmente e senza ostacolo la sua luce diretta o riflessa n e l l a p a r o l a . O r a il b e l l o e s s e n d o l o s p l e n d o r e d e l l ' i n t e l l i . gibile, sia assoluto,sia relativo, che sirivela a trayerso il sensibile, cosi quando la parola è semplice e propria, è a n cora bella necessariamente ; e quindi la bellezza del di scorso in sè raccoglie tulle le qualilà della parola e dello stile, cioè la semplicila e la propriela , la purità e l'ele ganza. > c i o è il n u l l a c h e n o n h a , n è p u ò a . vere virtù di significare. Ora le cause degli errori sirie ducono a due principali, onde le altre derivano, cioè ally   269 l i m i t a z i o n e d e l l ' u o m o , e q u i n d i d e l l e s u e f a c o l t à , e a l l' a l terazione della parola,come espressione dell'Idea;ben'in leso però, che anche questa seconda dipende dalla prima , siccome dicemmo nella prima parte di questa Istituzione. Dalla limitazione dell'uomo e delle sue facoltà nacque lo sviamento del libero arbitrio in ordine alla legge, e quindi l'esistenza del male morale ; il quale fu cagione delmale intelletsuale, inquanto fucagione del predominio del sen sibilesuil'intelligibilee dellepassioni sullaragione,onde deriva l'alterazione dell' Idea, e quindi l'esistenza del'l e r rore.Ma qualunquesia,diceilGioberti,lacausadellacor ruzione egli è indubitalo, che in origine l'alterarsi dell'Idea è congiunto equasi coetaneo a quellodellaparola;laddove in appresso,e nelcommercio tradizionale,ildisordine tra passa nei pensieri dai segni ; sicchè l'improprietà della parola è la causa, e l'errore èl'effetto. Imperocchè,quando Ja parola è impropria , siccome ella non mantiene più la perfettacorrispondenzatra l'Ideaeilsegnochelaesprime, cosi i concetti ideali sono travisati dai concetti sensibili in. chiusi nella parola, e l'Idea viene adulterala dalla metafora o dalla etimologia . Nel quale caso i concelti ideali si c o r rompono proporzionatamente,se giả , come avvertimmo altrove,una nuovarivelazione, o un magisterioesteriore, organato dall'Idea istessa , ñón impedisce tali corruzioni della parola, serbando incorrolta quellagenuina e originale corrispondenza fral'Ideà eilsuo segno esteriore.Idea gtnerale dell'opera, e tua diritieue in due libri. — La tloria delle religioni appar- tiene a snella della Blotofia. — Si ritolrono alcune obbieiioni in contrario. — Perpe- tuità della Blotofia. — Del metodo critico aegailo dall’ autore nelle rirerebe aloriebe. — Si liepolide ai nemici delle eonpilatìoni. — Del metodo dottrinale, oaaerralo dall' auto- re; perebd egli anteponga la. linloti all’ analisi. — Cenni sopra nn’ opera precedente.— Prorotsione cattolica dell’ autore. — RUpoala a ehi te aoeuta di eiaer troppo ratlolico. •— La moderazione' nelle dottrine non è oggi di moda. — Via {utile e compendiosa, per giungere alla gloria. <—In che senso l’ antere sìa sago del progresso. —Sua pro- trata, intorno alle persone generalmente; agli scritlori risi ed ai morti, in itpeeio. — Di Giorgio Byron. — Dei sentimenti , che mosiero l' auloro a scrirere. — Contro la sella degP Italogalli. — Funesti influssi della Francia. — Della eterodosna moderna in generale, e della filosofia germanica in particolare. — Gl’Italiani debbono filosofare da sé. — Dello stile filosofico. — Importanza della lingua in ordine alle cose. — {.odi ifi An- tonio Cesari. — Contro i cattisi amatori d’idee. — Dei parolai. — Contro la barbarie dello scrirere, che domina in Italia. — Della cbiaretxa, bresild, semplicità, precisione, c purezza del dettalo. — Esempi italiani di elocuzione filosofica perfette. — Del modo, con cui si può inoorar nella lingua. — Scusa dell' autore , intorno alla lingua e allo alile da lui adoperato. — Eaorlazioue ai giorani italiani. — L’Iililà della sera filosofia. — Elsa non dee sparenlare i buoni goreroi, né i buoni principi. — Sua opportunità, Gioberti Inlrud. Voi. I. 21 Digitized by Google   r lG-2 per ristorare la religione. — La Gloa^fia dee cucre collìfaU specialmente dai cbicrici. — Lodi del chiericato italiano. - Del sacerdoiio frnncese ; sua antica dottrina, e suo virtù io ogni tempo. — Del modo, eoo <ui li coltivano le lettere da oleum chierìci franoesi. ~Della parlecipasìonc dei chierici olla vita sociulo» —Della liberti cattolica nel culto delle dottrine. » Che il clero catiolico dee essere emìnenle anche nelle scìen* se profun<’, per sortire picnamt nte rt-netlo del suo o>ini^te/io. — Di certe sette politi* che, che nocciono alla religione. ~ Dei ti elogi laici, che ioondcAO la Francia: loro tracotanza. ^ Al'eanza della filosofia colla religione. La dottrina cattolica é la sola dottrina religiosa, che abbia un valore acientifico. — Come la novità si accordi coli*anti« chità nello cose filosoticlic. — Si concbiude, esortando gl* lioliaui a I. barare le sc cuse ipecuialve dai nuovi barbari. LIBRO PRIMO. DELLE DOTTBLNE C.4P1T0L0 PU1.M0 Della dcelinaztone delle scienze spcculalive in generale. Cunirapposlo fra- lo sla o fìorcnle delle matetnatiche e fi*ichr, e lo s(|uallure della fihtsofìa ai ili nostri. » Sue cagioni gencr-chc. — Cobsidenuioui a <ju sia propos to sul'o stalo delia filosofia nelle varie parli d'Europa. —D.vario, che corre Ira le duii'ine fiancesi o U’de.-che, nato dalle loro diverse attinenze colla religione. — Di Renalo Descartes. ^ 1 semi'li moderni sono suoi d’srepoli assai piu legiilmi del Malebranche, e di altri antichi cartisiani. Dd panteismo germanico; temperalo dalle tr iduioni religiosa: l*idea «i è oscurata, non eslin a del tutto. ^ Di Emanuele Kant. Perelié t Tedeschi prot<‘Slanti furono io filosofia più a ioni dall' eaipielà, che i Francesi rallo(ici. ^ Dtver* sita d«‘ir ingegno spcculat vo, presso i Francesi e i Tedeschi. — Se ne cerca la causa nella storia, e nelle origÌr>i di queste due nazirni. — Delia tilosofia inglese : sue difie* n’nte dalla francese, e dalli germanica. — Dei fìloSvfi ftaìiaiii del secolo quiiidcciao, c del seguente. — Di Glambaitisla Vico : sue lodi. ~ Epiio{:o d.-I quadro. CAPITOLO SECONDO. Della dedinazione degli eludi specidatici, in ordine al soggetto. lufeiiurilà speculaliia e rnoralo dei popoli modcToi, verso gli antichi. — La no-a speciale dciruoQio moJeroo è Ir frivoUzza. — La cagione di questo vizio è la debolezza della faiol.à volihva. — Inlluruza dtl voli re nella cogoiziouv, e oelf ingegno delP uomo. — La modioiriià letteraria dui moderni nasce dalle hggcrizza dei loto animi. — Esempi S 2»S * Digitized by Googic  es»e bi chiude il capitolo. . - Note. Aula prima. Siti diltflanti tpleoJ Jì c Itiili, elle h fanno Ja m.eilri. 71 1 1 ptincipii dal Ufi 2^ 3. V 5. 6. T. 8. 9^ 10. 11. 12. 13. 11. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. Clw il inftoilo El<w>fict> »i J>e di durre dai principi!, e non I metodo. Il ig. Coiaio «.elude la «tiri» delle religioni da quella dtlU Bloiplia. Del cullo reciproco de’ moderni Rfillofi ff.nceii. Di una iKioea Enciclopedia. Sopr. OD* «poitigi. recefllo di Giorgio Djroa. 117 l'i. 1 lit 125 125 129 i6. 13t) 131 132 ii, i6. IM ii, Ai nemici delle wItiglieMf. Sullo lingua e luU' eluguenia francese. Sul primato della Fraocia. L'.terodomia modarna non i fono ancora al «uo fine. Della periiia di Paolo Luigi Cuarier nella lingua a negli icrillori italiani, Paw dal Letiinj; mila lobrielA « ammauralega degli antichi tceitlofi. Sull'uli-iU dei buoni giiirnali «ccletiailici. Pmm del Leibnu «olla libertà cattolica dcKii «eritteri, Querela del tig. Cousin eoutro il clero ffauceee. P«Mu del Leibnii contro i dùaipatori delle antiche dotUine. Sull' apoilaiia lU alconi prelati ruwù Delle cagioni della H>rorma. Che la tinceritA di Renato Denartei nel proretiani cattolico è per lo meno dubbia.- Il Malebranche non è earleeiano intorno al primo principio dellalua filoaoCa. 143 Clia il «ig. Coutin ha ao concetto mollo ineaatio dello Spinci.Mio. 144 Pawo del Courier tuH'iitiulo aotTilo dei moderni. 1^ ^ ; iò 5,  163 rcceoli e ìuliani di una Tolontà forte : Napoleooet e Vittorio Alfieri. — Lodi deli’ Al> fieli. — La fursa della volontà dipende in gran parte dall* educasioae. ^ Cbe co a sia r educatione. — Saa oeceuilA. — Delle varie forme, che prese 1’ educazione, tecoodo il ccM’to dei tempi e la varieii di'! popoli. — Po pubblica presso gli antichi ; qoasi pub- bloa nei basti tempi. » OelP opera dei chierici nell' iostitusione dei giovani. —> L’cdu* catione diveone pnvate, piesso i moderni. —Cagioni di ciò: false teorirlie in politica e IO pedagogia, inglesi e francesi. — Di G angiacomo Rousseau. — Errori del suo Emito. — Delle doUrìne poi tieba snlla liberti dell' ednratione. — Falsili loro. L’e* ducaaioQ^ manca quasi alTatto nello stato presente di Europa. » Difetti dei metodi vi* genti dell* insegnare. L’ias«gnameoto pubblico dee < ssere uno, forte, e dipendente dal* lo stalo. — Frivolezza dell' insegoamenlo cattedratico, quale si usa oggidì nei paesi più civili. » Dei giornali. — Diretti, e danni dei giornali, come per lo piò si scrìvono in Francia. *— Nuocono al'e lettere e al e sciente dalia parte di chi scrive, e di chi leg* ge. — Necessità dell’ iniìtiiuzione pubblica, e di un supremo poto<e educativo. — Quella non lìpugna ai costumi, oè questa alla libertà politica dei moderni. —> Che M»sa sia r iagfgiiu spccuUtivu. — D<2 tla setta dei sofisti moderni, e deg'ì artefici di parole. ^ Quàlìià loto. — Si chiamano a rtssrgoa le prìneipai diti diU’ ingegno sfeeulativo, e con Digìtized by Google   23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. Pano d«l Leibnii tull’abbierion» morale JcrU onioi moderni. Sulla patria di Napoleone. Pano dfl tig. Cuusin mila balta«lia di Waterloo. Pel gioiliiio, che il tilt. Villeoiain ha recato mll' AlCeii. Sugli errori della pueriiia. ^ Sull* uUbU di tre clasii di gioroali. Soll’aliBio Jei generali. Lodi di alcuni illmiri eruditi fraaceii. Pano del Malebraoche augi’ iugegni friToli. In che modo il genio naiionale poeta imprimere la ma forma nelle icieate «peculatiee. Sull' indola morale, e lugli ulUnii UUmli del Goèlhc. Itt 143 . 149 1^ 152 132 138TAVOLA. E SOMMARIO     Diuu. Pag-   SCDU bill' iCTOKI.     Le lodi d'ililia nim sana oggi pericolose per la sua modcslio. —  Sano opportune, e perchè. — Scopo del preienle dilcorsa. —  L'aifluiui di CMO non t per ilcaa Ter» iiigiiiriUD agli tlnnieri.  — L* doUriiu del primalo itili IBO è necetMtfai per rÙHltun-  ziuie delle sci une flloMBclie neita pcniioli.   PASTE nanu.   Dell' Hlonooiia uwlnUi e rdtlin In genere. — Di qidia cbe con.  peti (He uDoni in paiticoUrc — Lt isdice dell' tiatononùi è  neDi virtù creatrice, — L'Italia è anlmMina peraccdiema; rau-  lonomia i la boM della mi* nMggionma. — DeOnitionE del pri-  mato italiano in noiTerale,— La petùxria per It ina poitora è il  centro monte del nondo civile. — Convenienu geogniGehe dell'  lUUa coir India e colla HeMpoUmia. -^-La religione b flprtndpal   / S)ndimeiito.del primato italiano. — II principio calttdieo è Ime-  panbile dal genio narionile d'Italia. — Opinione dei ghibellini  e del flloioll nominali a questo propoaiUi, e aun falsiln. — Del  Hachiavelli , del Sarpi e <li Amalitii ih ìlmcm. — Ln xt» iIiiL-  Irina naiionnle d'Italia i quella dei rufIIì e dei realisti. — ì!,s\iii-   cattolicismo e dall' Italia. — L'Italia è la nniiuuc creatrice: Suo  ing^DO inventivo, c sul) liuiilà delle sue opere. - Essa c pure la  naiione redentrice degli altri popoli, e non puA essere redenta     440     T1V0L& E SOnARIO     per open loro. —I papi non (nrono !■ caoM della divisione iT ita-  lia, and lì mottnrono benemeriti In ogni tempo ddroniU iu-  liana ed enropea. — ObUeiionl e liipoile. — .Dei don nemici  perpetui dellt penisela. — Fati perpelui e glorie di Roma in ósni  tempo. — L'Italia non dee invidiare alle altre Milani la gran-  dena e la potenia disgiunte dalla gìnitliia. — Vino a qual segno  i coiHiuisU e II dominio temporale dell' antieo imperio romano '  sinno stati legitUini.— Gmdeiie supcnliti della modema BÓma.  — Della PMpapnda c ddle mitiioni. — Puagone del SiTerlo e  dd Boonaparte.— L^Iialia/itaempTB la più co9inopoK(Ìca delle  nanoni. — li auo principato si Tonda Mrratlutto nella religione,  j la quale di sua natura suvrasla a ogui cosa umnoa. — L' Italia tal '   in si lultc le cuii<ii£i<iiii ilei ^un nai limale c politica risorgimento,  \ sema ricorrere «Ilo somniossc iiilcsthie, alle imitaiioai e inva-  j sioni Farcsilere. — Dell' umane ÌUliaoa. — Essa non può uUenersi  colio rivoluiioiii, — [l principio dcU' unità il.iliani è il Pajia; il  quale jiiiii unilìenrc h penisola, mediante una confeclemiinne  ilc'suui principi, — Vanlnggi di una lega ilaliana. — Il governo  folemlivo è connalurale all' llalia, e il pili imturale ili lutti i  goterni. — Danni della centralità cccessita. — La sicoreiia e la  prosperità d'iLalia non sì possono conseguire altrimenti che con  un' alleaniB italica. — 1 lUrcslieri non possono impedire i]uett'  alleanza, e non che opporvisì , debbono deiideratlo. — Semi dell'  autore se entra a iliscorrcrc ili caie dì stato. — L'opinione nasce   Ida pìccoli principii , ma dee essere edncato dai senno della ni-  liane, — Dna province (oprattutlo debbom cooperare a ^TOfjr  l'opim'aue Hi-iriiiatì"imieiiVTlnnii « ti Piwnnnl>. _ ^Bìj^^ )jj \f  Itoma pei popoli, e sua imparzialità fra i pedali ed i prindpi. —  I L'onilA italica sareblie di grande utilità ■iWti religione cattolica , .   loro'genio. — Deli.i (]d.s;i ili S^ii.iia e luili. — .l[lincnzc c cor-  risponderne delle famiglie regnatrid tugl' incrementi civili dei  popoli. — itrfi^ nnn^^ ^pip rtr il Piemonte, n delle sorti  c he le Mno^reDiral|e ^\]f Ptnuy^fjm. — Delta concordia fra  T'popoli 0 i principi italiani. — D difetto di osa ta la cauta     TAVOLA E SOMMARIO     principale del c)iM:atlinicnla d' Italia. — Errore ili chi .illribuÌKe  tal decadi nHMi lo nib qualità della stirpe o alla religione. — ti'in- ■  forlunia ilcgl' llaliaiii aiiehe pur quvsta parte iiarque dai fores-  tieri. — Frincipii di risurgiiiienlo nel secalo passala , e rili^nu  cìtIIì (alte dai ptiaeipi ooslrali. — Inlerratte dgfla rivolaiioiKi  rranceM , ora è il tempo opporUum di ripigiUrte. — Necessitai di  ordinare la pubblici opìaione. — Dne modi con cni quesla ai ap-  I>alc9a ; lit parola dei tmi e la alampa. — Della monarehia con-  ■ullatiia, e del Consiglio civile. — La Btarapa non dee essere  MTva , iiv liceniiusa. — La sala via per evitare amenduc gli  ccccs^ , ilà neir affidarne l'iodlriuo a un caniiglio censorio".  — nella iniportwii* della iiuapa per la civUU. — UtlliU della  signoria indivlH p« riRmnata gli siali. — Si esortai» I prineipi  ilaliani a toDdare l'amona d' Italia.— Del dirello delle rìibnne  nriii lane a leniate in Italia , dorante il secolo scorso. — Decli-   ii.ii e siitcessiva del genio iiaiiunale della penisola. — Iliscre-   iiiiiiii: 111 uiieslo genio da quello dei Francesi. — Critica del galli-  canìsmo. — Di Benigna Bassuel : censura riverente dell' ing^u  e itelle opere di qncslo gran teologo. —1 II sacardoiia primflivo  eUw dna poteri, l'ODO reHgloM e l'alln drile. — Pormola so-  ciale : La («roonui* erta MÌl gli ordini civili, — U ncerdoiio  è il Primo politico. — Ciisto rinnovA a compimenlo il sacerdoiio  primigenio. — Necessità del potere civile nel sacerdoiio cria-  liiino. — ( Lode dei Gesuiti del Paiaguai. — Il polerc civile della  Chiesa non toglie la dislùuione, che corre rra lo «lato civile e il  lacerdoiio. — Dea toma, par mi pam il poleniàTile dal Mce^  doxio, cioè la dillaliaa e failiitralo, canispondenli ai due cfcU  civili delle nazioni. — Legittimiti della dittatura ejerdiala dai  Poniclici del medio evo. — Il ciclo dittatorio Gniscc quando c   |jerioilo della dtilti'i lefulare il'lulia <■ crKiirops, — Dell'arbì-  tr.ilo, iraliiiso ilal sacerdoitn. — Il l'.ipa c l'unico [iiiocip io dell'   guerra. — La dittatura pontiScale non lurna inulìle in alcun     TAVOLA E SOMMARIO     Icinpo ; MU applicaiiane presenle e foUin. — 11 I^pa è U prin-  cipio dell' anioDe d' lUlia. — Il polcn civile del Mnrdouo non  è contrario ali* ipirìlualiU e HnUU dclb rai indole e del suo  ■nìtuslerìD. -I Del (HtiiHiiùnm. — Crilict de'snoi prÌDcipii in-  tono tU* cotUluiiom della Cb'ma e al dogma caUolico. — Dei  doveri delle varie ciani dei dUadini, in ordine all'aoioDe d'IU'  lia, -/Danni cbe nascono dalle dottrine esagerate di libertii. —  Esortaiioneagli esuli ilalìaiii. —- Del dcbilo che linririu gl'llnliani   gli adalatoridei pririi'ipi. — l>i^i wihili, -- M ji.il ri/Min i' i!i[licil-  menle srilabilc nelle soeiclà civili. — Due specie iJi palriilalo;  fendala t civile. — U primo è im^nevole, Oioesto e vitupe-  ralo. — 0 secondo pnì euer lodevole e ntik, quando venga ac-  compagnalo da eerte condiuoni. — I cattivi nobili tono la rovina  delle nontrcbie. — Dei chierici secolari. — In che modo essi  pouano partecipare alle cose politiche. — I^i del chicrieala  Italiano. — Perch6 l' episcopato dì alcune province cattoliche sia  stalo Ulvolla per l'addielro men ragguardevole degli altri ordini  derieali. —(Del frati. — Apologia del m(MMchÌ«no. — Suoi  benefiri rÌq)«llo alla drilU etirqiei. — Quando traligna ai miri  rìfonnare, non abolire. — Dd moMchlinwwientalee delPocci-  dcntale. — Como ijueila si poiH rendere fmtluoio al nodro inri-  vilimento. — Danni che nascono dai diìoiirì degeneri. — In cbs  modo irrati possano influire salutarmeate nella politica ecotqM  rare ai progresai civili. — Essi debbono mettere ndl' opinione il  precipuo fondamento della loro vHa. — D colto ddle iciauie e  dèlie lettere in generale, ma i^edalinenie della aiosoBa, ddia po-  litica e dell'istoria si addice al loro minislerìo. — La scienia  ideale i inoiiaslìca [ter ecccllcnia. — Esurlaiionc ai venerandi  alunni dei chiu;lru ilaliaiio. — Della digniu'i clericale. — Gli ec-  ctcsiaslici debbunu guardarsi cautamenle dall' impicciolire o avvi-  lire le co» della rclìgiuiic. — Si uLbiclla che Ì popoli moderni  sono men grandi degli antichi. — Risposta. — Ddla lollerann  cristiana. — Perche nei tempi addietro violala In alcuni paeii-  — Tali viotaiioDÌ non si possono imputare alla Cbieta cattolica. —     TAVOLA E tìOMMAniO     Delk àoleeiia, |)ru(1enia e risi:rva clericali: nel dtspularr a nei  conversare. — Si rancluitc moslrando che il risorgimento d'ilalia  I non pai iver luogo , sa non ri rimetlono in onora gl'ingegni pri-  I vileglati, e non «i soUrae rindiiiuo delle cose ri TOlgo degli  j nomini oiediocrì.     nn HL TONO PIIMO.   S&SlOSS   La riflessione ontologica ferma, circoscrive, determina , chia- rifica l’Idea, cioè Dio: ma nella parola si rannicchia, s'incarna, si compie l’ Idea : la parola porge l’idea cosi rannicchiata ed incorni- ciata ed incarnata e compiuta alla riflessione. Qui covano , pare , molte contraddizioni. Se la riflessione, che chiarifica e ferma l'Idea; qual bisogno ch’essa Idea si rannicchi c si restringa nella parola? qual bisogno che la parola compia l’Idea, se la riflessione arreca distinzione, chiarezza, delineazione nella medesima? Se quel che fa la parola, fa la riflessione altresì, una delle due è superflua: am- metter l’una c l'altra, è metter luna in contraddizione dell’altra : supporre cioè che l’una non basti, senza l'altra, a ciò a che basta veramente. Mavia: prendiamol’una e l’altra perdelerminalricidel- l'Idea, cioè di Dio. 11 Gioberti diceva che nell'intuito l’uomo è as- sorbito dall’Idea, non la conosce neppure. Siccome dall'altra parte diceva eziandio, che « lo spirito trova se stesso in Dio e il mon- do in se medesimo »; ne viene che anche la riflessione è in Dio as- sorbita collo spirito : che il mondo lo è pure: e col mondo la pa- rola, parte di esso. In cotale assorbimento dell'uomo, della rifles- sione, della parola ; assorbimento che toglie ogni cognizione , non è assurdo c contraddittorio il dire che la riflessione e la parola , o tulle due insieme, servano a svegliare lo spirito assopito , esse assopite; servano a chiarire e determinare, esse confuse e indeter- minate nella universale confusione ed indeterminazione del Ciclo e della terra, del Creatore c delle creature ? n) Inlrod. li. p. 136-137. b) lìti pillilo rhe li'ga. e) Errori l. p. 201. Digitized by Google  )  55 Cosa sarebbe l'intuito Gioberliano ? a) la visione -di I)io crean- te; cioè della natura divina, dell’atto creativo, de’ termini di code- sto atto. Cos'è la parola? un segno creato b). L’intuito dunque do- vrebbe pure vedere la parola: la parola sarebbe parte della formu- la, intuita per natura da tutti gli uomini; chi* l'Ente creante non può essere veduto senza gli effetti del suo operare. Ma se nell’og- getto dell’intuito è la parola, è la riflessione altresì, come cosa creata anch’essa; se l’Idea col creare illustra c), e quindi deter- mina; illustra la parola altresì e la riflessione. Ecco nuova contrad- dizione e circolo nel dire che la riflessione e la parola servono a delincare all’intuito ciò ch’egli ha ad oggetto delincalo dalla natu- ra: illustrare ciò onde vengono esse illustrate. La quale contraddizione o circolo risulta da molte altre sen- tenze del Giebcrli applicabili al proposito presente. Sentenza sua è. di frequente, che i sensibili sono per sè inconoscibili; e solo per l’intelligibile, cioè per l’Idea, siano conosciuti. « L’apprensione sen- si sitiva non è un elemento intellettivo » </). 11 sensibile non può « essere pensalo altrimenti, che nell’intelligibile » r) « L’intelli- « gibile rischiara appunto i sensibili, perché li produce, come l’En- « te e i sensibili sono illustrali dall' Intelligibile, perché ne deri- « vano, come esistenze » Avca detto prima « l’Eute è altresì « l’Intelligibile, c le esistenze sono i sensibili ». Le creature so- no per sè inintelligibili, nè s’intendono che « in virtù dcU’intcl- g Errori i. p. 56. h) Errori li. p. 141. v) Ivi p. 163. l) Ivi p. 159-160. m) lntrod. ii. p. 14. n) Errori n. p. 45. un vero sensibile >. Errori i. p. 257. g) « Il sensibile è subbiedivo è inconosci- f). « ligibililà assoluta » n bile di sua natura » A): « è per se stesso inconoscibile e sub- ii bieltivo, non intellettuale, nè obbiettivo,. è rispetto alla nostra co- se gnizione un pretto nulla » i). « L'intelligibile (l’Idea, l’Ente) ii inonda lo spirito di un continuo chiarore, e gli rende conosci- li bili tutte le cose » l). Ora « La parola come ogni segno, è un , <i sensibile » m). Dunque per sé inconoscibile-, inintelligibile. Solo l’Idea, l’Intelligibile la rischiara, la illustra, la Ja intelligibile all’uomo. « Tanto è lungi, che la parola provi l'Idea razionale, che anzi que- ll sta dimostra l'autorità di quella. » n). « Questa (la parola) e la a) Dico sarebbe, perché il Gioberti stesso Io distrugge in mille maniere, come vedemmo, e vediamo rontimitinenle. t) Siccome it sensibile appartiene alla categoria delle esistenze, e queste pro- cedono dall'atto creativo, la parola b di tua natura un effetto della c reazione. L’idea -« crea «I segno che l’esprime . Primato, il. p. 15. e) Errori li. p. 352-353. ri) lntrod. n. p, 165. e) Ivi p. 166. f) Ivi p. 562. Qui de» esserci corso errore di stampa, o nella sostituzione deila voce Iati ad esistenti; o nella punteggiatura. Perche l'Eulc non deriva dall'Intelligi- bile come esistenza. Dovrà leggersi, crrdo, il periodo: « I.’ Intelligibile rischiara ap- « punto i sensibili, perché li produce, come l’Ènte; e i sensibili ccc. » Digitized by Google   56 « riflessione stessa ripugnano, se non sono antivenute o guidate da « un lume intellettivo, da cui, (e non dalla parola che per se stcs- « sa 6 un mero sensibile) l’evidenza e la certezza provengono » a). Come pertanto può dirsi che la parola « si richiede per ripensare « l’Idea »; che « il sensibile è necessario per poter riflettere, e « conoscere distintamente l'intelligibile »? b). Una cosa inconosci- bile per sé, non conoscibile che per l’Idea; come potrà servire ad illustrare, a chinrirc l’Idea, da cui riceve lutto il chiarore che pos- siede? L'idea illumina la parola; la parola illumina l’Idea? Non v’ha circolo qui c contraddizione? Che se amiamo trarne Inora qualciin'aitra, il modo non man- ca. Il Gioberti scrive talora, che « l’idea, incarnandosi in una for- * ma sensata, scade sempre dalla propria altezza » c). L’idea dun- que, se s'incarnasse nella parola, veramente scadrebbe secondo quel testo; perderebbe di sua perfezione. Come può stare pertanto che la parola, determini, illustri l'Idea, la compia, cioè la perfezioni? come può stare che l’Idea per compiersi c perfezionarsi s'incarni in un sensibile, che la guasta e la rende imperfetta ? La parola ch’è detta in un luogo dal Gioberti « un sensibile in « cui s'incarna Vintelligihile »; diventa in un altro « una copia mon- « diale, contingente e linita del modello divino, necessario e infi- « nilo, c un individuamenlo dell’idea eterna » d). Siccome questo modello c idea eterna è l'Intelligibile stesso, Dio; quindi la parola è una copia, un individuamenlo di Dio nel quale s’incarna Dio. E notate, che « tante sorti di parole create si trovano, quante sono « le specie della esistenza »; una parola matematica meccanica ed idraulica, che sono i numeri , le figure, i movimenti; una parola fisica, cioè i fenomeni di natura; una parola estetica c sono i ti- pi fantastici; una parola storica, c sono i fatti transitori o perma- nenti degli uomini, gli eventi ed i monumenti; una parola sovran- naturale, e sono gli avvenimenti ffrodigiosi e sensibili; una parola liturgica « ordita di emblemi e simboli; c infine una parola grani- li malicale, parlata c scritta, ma per se stessa arbitraria , c però « diversa dalle specie anteriori, che sono tutte naturali e) la (piale « serve ad esprimere i concetti dell’animo e quindi a tradurre ogni « altro genere di favella » /). Di tutte pertanto le cose create dee dirsi ciò che della parola grammaticale: sono sensibili in cui s'in- carna Iddio; sono altrettanti individuamenti di lui; che lo compio- no, lo determinano, lo fermano, lo circoscrivono, lo illustrano: quan- tunque siffatta incarnazione lo umilii veramente , sconci. a) Errori i. p. 208. b) Inlvofl. u. ii. li. e) Ges. Moti, tv: p. li. d) Prima!-» li. p. 10. e) Anche la parola sovrtwnnfurtile ? fi Ivi. lo abbassi , lo r Digitized by Google   57 Nasce però curiosità di sapere, perchè mai nella parola s’in» carni l'Intelligibile; ina nou « in quanto rispleude aU’intuilo ><: *ib- bene « in quanto riverbera (cioè ridette) sulla riflessione » in quel punto famoso di contatto che lega Dio coll’uomo ? La riflessione, si è detto, che mediante la parola circoscriveva , compiva l’idea o) ; quindi la parola preceder dovrebbe la riflessione. Ma se la parola contiene l’Idea in quanto riflette mila riflessione dell'uomo ; la ri- flessione sarà preceduta alla parola: così la riflessione va innanzi alla parola; e la parola va innauzi alla riflessione nella stesso tem- po. Eccoci di nuovo ucU’uno via uno. Se la dottrina della riflessione determinatrice e illustratrice deU'iuluito fosse vera, dovrebbe dirsi che la riflessione guida per mano l'intuito, lo signoreggia. Or bene di ciò fa le risa il Gio- berti contro i psicologisti: « lo aveva credulo finora che la cecità « sia la causa principale per cui non si scorgouo gli oggetti: ora « siccome l'intuito, non che esser cieco, è la fonte della risiane, e v la riflessione non cede, se non in quanto partecipa alla luce intui- « tira, dovremmo dire, alla stregua dei psicologisti, che tocca al « cieco il guidar per mano, non mica gli altri ciechi, (il che sa- « rebbe già degno di considerazione), ma chi 6 veggente in mo- ie do perfetto; cosa per vero singolarissima ». h) Bene slà. Ma quel- li l’Ontologo, che pone per una parte l'intuito del Sole stesso Eter- no Divino; e immagina dall’altra una riflessione e un inondo di pa- role che sono necessarie a determinare, fermare, ed illustrare il so- le, da che sono esse creale ed illustrate; quegli è che s'introniBtte di far guidare i veggenti perfettissimamcnle da’ ciechi; che si pensa di accendere il sole di mezzogiorno colle tenebre della mezzanotte. 11 Gioberti consuona al Rosmini nel riconoscere la necessità della parola per la riflessione. Differisce però dal medesimo nel- l’asscgnarne la ragione : per dir meglio: il Rosmini ne dà ragione, ('impossibilità di spiegar altrimenti la formazione delle idee astrai- le: il Gioberti non ne porge nessuna, c). Imperocché non sembra- mi prova quel dire che « il punto indivisibile , di cui abbiamo « discorso di sopra, » (il punto che lega Dio e l’uomo combacian- tisi), « non può esser termine del ripiegamento riflessivo, se non ve- « stendo una forma sensibile. E siccome non è sensibile per se stes- ti so, siccome versa in una mera relazione intelligibile, l’unico mo- ti ilo, con cui possa rendersi sensato, consiste nell'incorporazione « mentale d) di un segno, cioè della parola » e). Ma perchè quel o) I.a rbiama perciò . un semplice insinimentn necessario per mettere la ri- flessione in commercio colf intuito »; Errori i. p. 200, « Strumento riflessilo * p. 215. « Semplice segno insidine male » p. 2t9. » stimolo per mi rumineia «I al- « luorsi (l'iiniiiio umano), e il polline ette lo feconda »; Primato, II. p. 15: « occs- • sione, cagione, inslrnnirntale del lero ». Necessità della parola. Bello p. 137. 6) Introd. il. p. 134. e) Rosmini, S. Saggio, sezione V. p. 2. e. 4. a. I. Filo». Polii. Voi. p. 151-153. d) Incorporazione spirituale. c) Errori i. p. 201. Digitized by Google  58 punto, rhY' puro relaziono intelligibile, ohe anzi è la cagnizinne, ro- llio vedemmo , perché « non può esser termine del ripiegamento « riflessivo, se non vestendo una forma sensibile, se non renden- ti dosi sensato, se non incorporandosi in un segno »? Il Gioberti noi dice. Altri osserverà nondimeno che non solo noi dice ma nem- meno può dirlo nel suo sistema: che perciò é impossibile al Gio- berti di provare la necessità della parola. Egli afferma, che « l’uo- « ino nou può meglio nel suo stalo attuale riflettere senza parola, « che favellar senza lingua, vedere senz’occhi, c pensare senza cor- « vello. Senza il linguaggio l'uomo ha ragione; ma non uso di ra- ti gione, ha la riflessione in potenza, non in atto » a). Il che dice essere « applicazione speciale ili una legge generale dello spirito. La qual legge si è, che la riflessione universalmente non si può cser- « citare, se non mediante il concorso del sensibile coirintelligibile » l). Ora di quale dell»* due riflessioni, già distinte da lui, parla il no- stro autore? Dell’ontologica: perchè dell’altra confessa che « il sen- sibile è l’oggetto medesimo dell'alto riflesso, onde la parola non en- ti Ira necessariamente nel suo esercizio, se non in quanto tal ri- ti flessione si connette colla riflessione ontologica; imperocché il sen- " sibilo per essere pensato non ha d’uopo di un altro sensibile, che « lo vesta e lo rappresenti » c). lo nè ammetto nè ripudio tale ra- gione: ma l'ammette il Gioberti certamente. Dunque a sola la ri- flessione ontologica è la parola necessaria. Perché? perchè « in os- ti sa il sensibile non è somministrato daH'oggello dell’operazione « il quale è il stdo intelligibile i d). Sla codesto e falso: è falso che oggetto dell’ ontologica riflessione sia il solo intelligibile, se- condo il Gioberti. Non ci ha egli appreso che « la riflessione on- « tologica, tramezzando fra le due altre operazioni (intuito e rides- ti sione psicologica), abbraccia congiuntamente il soggetto e l 'oggetto « c li contempla con un allo unico? » c); che nella riflessione Oli- ti tologica lo spirito si ripiega sovra di sé in quel punto indivisi- « bile, in cui il soggetto tocca l’oggetto , c abbraccia quindi l’og- « getto medesimo , come intuito dal soggetto? » f). Dunque non è l'intelligibile solo, l’oggetto della riflessione ontologica; ma è il soggetto eziandio, cioè il sensibile, oggetto della psicologica. Ma se questo non ha ili bisogno di sensibile, di parola, per essere ripen- salo; se non n'ha bisogno l’ intelligibile, Dio, intelligibile per se stes- so: come n'avrà bisogno il punto in che si congiungono si legano si toccano si combaciano Dio e l’uomo ? l’nione di due termini, l’uno intelligibile per sé, l’altro per l'intelligibile, unione di' è relazione intelligibile', perchè avrà d'uopo di sensibili, di segni, ad esser og- getto di riflessione ? n’ Krrnri i. p. '20 fi. JThi|I. 201). r\ hi p. ini. di Iti. e Krrori t. p. 136, [) Iti p. 201. ,.  Digitized by Google   59 Che se « prima di credere alla parola, bisogna intenderla » a); la parola a nulla servirà se non in quanto sia già in quel punto, unione, unità, eh e la cognizione. £ se altronde la cognizione dovrà esser vestila della parola , per diventar riflessione ; la veste dovrà insieme essere il vestito, perché riflessione si ottenga, cioè cogni- zione vera , come la chiama il Gioberti. Questa è una di quelle « soluzioni ed avvertenze » di cui non v’ ha « il menomo vesti- li gio » in altri sistemi prima del Giobcrliano li). Il che niuno vorrà negareDella unicertalilà ecientifica dellafarmolu ideale. Aimcoio punto. Prtamiolo. — L* formolo roiionale dee contenere I* organismo degli eie- menti ideali.—Per conoscere questa organizzazione, bisogna riscontrare essa forinola 1 coll albero enciclopedico.^-L’enciclopedia si compone di tre parti , filosofia, fisica e matematica, cko corrispondono alle tre membra della iormola.—Della filosofia in ispe- cicr si stende per tutta la formolo.—Dell* ontologia, psicologia , logica, etica e ma- tematica ; come si connettano coi rari termini di quella. — Tavola rappresentativa deiralbero enciclopedico, conforme alC organismo ideale.—Spiegazione generica del- la tavola. —Dello scienza ideale. —Della teologia rivelata e della filosofia.—Princi- pato universale della prima.—Maggioranza della seconda sulle altre scienze. — Primato dell'ontologia fra le varie discipline filosofiche ; necessario, acciò queste siano in fio- re. —Della teologia universale. . 7 Digitized by Google   Articolo secondo. Delia matematica. — La matematica tiene un lnogo mezzano tra la fi- losofìa e |a fìsica —Insufficienza della filosofia moderna, per dare una teorica soddi- sfacente del tempo c dello spazio. — Dichiarazione di queste due idee, c dell* oggetto loro, mediante la forinola ideale. 14 Articolo terzo. Della logica e (Iella morale. —Queste due scienze hanno ciò di comu- ne, che appartengono al termine medio della formolo. —Della logica in particolare, c delle varie sue parti — Dell* etica in ispccicr. — Dei due cicli creativi, e dei loro riscontri. — Convenienze, che corrono fra loro. — Della legge morale. — Dell* impe- rativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre momenti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal fisico, che ne conseguita. —Della pena eterna. 17 Articolo quarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo membro della formolo. — Dei duo cicli generativi. —- Varie sintesi, di Cui si compongono. — Dell' ordine dell* universo. — Del concetto teleologico. — L* idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 26 Articolo quinto. DelCestetica. —Del sublime e del bello, t-Delle varie loro specie, e del modo in cui si connettono colla formolo. —Del inaraviglioso. 29 Articolo sesto. Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesia- no. — Quindi i suoi tizi. — Gli stateti odierni, non hanno veri principii, perché man- cano della cognizione ideale. — 1 difetti della teorica hanno luogo del pari nella pratica. —La civiltà moderna dee fondarsi su quella dei bassi tempi. —Dell* apof- tegma del Machiavelli, che le instituzioni si debbono filirare veto i loro principii. —In che senso sia vero..—Benefici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni.— Di Cesare, institufore della tirannide imperiale. — Connessila della licenza colle dottrine di Lutero e del Descartes. — Della idealità delle nazioni. — L* Idea é fonte del diritto. —Attinenze del dovere col diritto, c delle varie specie loro. —Della sovranità. — La sovranità assoluta è 1* Idea. — Della sovranità relativa c ministeriale. — Non si trova in separato nel governo o nel popolo. —La società non è d’ instituzione umana, ma divina. —Cosi anche il potere sovrano. —Due doti essenziali di questo potere , intorno al modo, con cui si tramanda e perpetua di generazione in generazione. — For- inola della politica. —Assurdità del suffragio universale. —La capacità dee,accompa- gnare il potere sovrano; ma non basta a costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indi- pendente dai sudditi. —La perfezione della sovranità consisto nell* unioqe del potere tradizionale colla sufficienza elettiva. — Il sovrano non può mai farsi da sé in nessun ca- so. — Ogni potere sovrano è divino. — Inviolabilità del potere sovrano. — Delle rivolu- zioni, e dello con’rarivoluzioni: che cosa si debba intendere sotto questi nomi. —Laverà rivoluzione, essendo 1* attentato contro una sovranità legittima, è sempre, illecita. — Lo stato politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini primitivi c anticati. —La mo- narchia é necessaria al di d* oggi alla libortà europea. — L' investitura della sovranità in una famiglia é inviolabile, corno il dominio privato. — Il potere ereditario, c la capacità elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli. — Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica intorno all* inviolabilità del potere sovrano. —1 fautori del- la licenza invertono la formula politica. 31 Asticolo settimo. Epilogo. —L* idea divina ó la suprema forinola enciclopedica'. — Universalità dell’ idea divina. — L* ontologismo non é un metodo ipotetico, corno quello dei psicologisti. — Iddio è 1* Intelligibile: é 1* alfa e 1* omega della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea divina nelle varie parti della filosofìa. Si Digitized by Google   CAPITOLO SESTO. Dtll'a conservazione dellaforinola ideale. La conservazione della forinola è opera della rivelazione. — Definizione di questa. — Suoi diversi periodi. — La confusione della filosofia colla religione nocquc in ogni tempo ab- la scienza ideale. —Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi —Del razionali- amo teologico fiorente al di d’oggi. — Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La cri- tica storica dei ra/ionalisti pecca per difetto di canonica. —Il razionalismo confondo insieme i rari ordini di fatti e di veri. — Sua vecchiezza. — Dei Doceti. — Il raziona- lismo è un vero naturalismo, i— Del sovrannaturale : sua definizione. — Necessità di esso, per l’ integrità dell’ Idea. — Possibilità e convenienza morale del miracolo. — Universalità dell’ ordino sovrannaturale. — L’Idea cristiana è universale, come l'Idea della ragione. — Nullità sintetica o filosofica dei moderni razionalisti. — Il Cristianesi- mo é la religione universale. — Non si può mettere in ischicra cogli altri culti. — Sua singolarità. —Le false religioni non distruggono l’ universalità del Cristianesimo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di ogni tempo. -—Si confuta una sentenza del- lo Strausse. — Le false religioni sono lo sole, che debbano temere dei progressi civili. — Il Cristianesimo sovrasta, e non Sottostà alla coltura più squisita. — La civiltà moder- na, che lo combatte, è una barbarie attillata Delle prove interne della .rivelazione. — Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della Bibbia risulta dalla perfezione dell' Idea, chfe vi è rappresentata. — O- scurità della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai la- vori sincrctici dell' ingegno umano. — Concorso c predominio delle prove esterne od interne della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspirazione dei libri sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni dei razionali- sti. — L’ ermeneutica di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela- zione. — Della predestinazione degl’ individuile dei popoli. — Eccellenza delle nazioni e delle lingue semitiche. Dei popoli giapctici : loro divario dai Semiti. — Delle na- zioni madri. — Degl’Israeliti; conservatori dell’Idea perfetta, prima di Cristo. — Dei fati -del popolo ebreo. — Della scienza acroamatica ed essoterica. — Fondamento natu- rale, o universalità di questa distinzione. — Della ordinazione civile e religiosa degl' Israe- liti. — Oltre la dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica c tra- dizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa 'distinzione presso il popolo eletto. — Il Cristianesimo rese essoterica la scienza acroamatica degl' Israeliti. — L’alternativa dcl- racroaraatismo c dclf essoterismo èia sola variazione, che si trovi nella storia dell' Idea rivelata. — Perchè Mosé non abbia insegnata espressamente i’ immortalità degli animi umani. — Gli Ebrei non tolsero dagli stranieri la loro angelologia e il dogma della ri- surrezione. — Del sensismo proprio dei razionalisti.’— Falsità del loro metodo nel cer- care 1’ origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina esso- terica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti c i Gentili. — Del fìguralismo ebraico. — Non è un trovato recente degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle iustituzioni mosaichc. — La furinola idea- le e il telegramma , erano il nesso della scienza acroamatica ed essoterica presso gl* Israeliti. Gl • 203 Digitized by Google  CAPITOLO SETTIMO. Dell' alterazione dellaformolo ideale. La barbarie non fu lo stato primitivo dogli uomini.*—La storia delle religioni tion comincia dal sensismo, — Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la cultura primitiva. —Vicende civili delle nazioni. —Del patriarcato. —- Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto 1’ imperio ieratico. —'I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. —Effetti salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. —Il sacerdozio conservò le reliquie dell’ antica dottrina acroamatica ; fondò 1* essoterica. — In che modo la mitologia .é la simbolica potessero esser- opera della moltitudine. — La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari indirizzi della fi- losofìa gentilesca.—Riscontri . dell’antico c del nuovo paganesimo. —Vari gradi, per cui passò l' alterazione della forinola ideale', oscurità, confusione, dimezzamento e disorga- nazione.— Cagioni dell’ alteramente : predominio del senso e della fantasia; influenza del linguaggio sull’idea, e dell’ essoterismo sull’ acroamatismo ; dispersione dei popoli, perdita dell’unità universale. — Del culto dei fetissi. Di un doppio moto contrario, re- gressivo e progressivo, delle instituzioni religiose.—Esempi.—Quattro epoche della co- gnizione ideale: intuitiva, immaginativa, sensitiva e oslrattiva.-»-Se nel vario e succes- sivo alterarsi della forinola, si mantengano i suoi tre membri, e come? Tavola delle trasformazioniontologichedellafòrmolaideale, corrispondentiaivaristatipsicolo- gici dello spirito umano. —Dichiarazione della tavola. —Dell’ epoca intuitiva; corno 1' uomo ne sia scaduto. —Il mal morale consisto nella negazione del secondo ciclo crea- tivo.— Dei mezzi sovrannaturali per conservare lo stato intuitivo. —L'essoterismo fu l’oc- casione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del naturalismo fanta- stico c dell’ cinanatismo propri di questa epoca. — Indole poco scientifica dell’ ema- natismo. — Sua forinola. —w Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli cmanatisti. — Della loro dualità primordiale, e delle dualità successive. — Dell’ androginismo , e delle dee madri ; loro connessione coll’ emanati- smo. I fautori di questo sistema confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del Kincrctisino emanatistico. — Dei due cicli di tal dottrina: 1’ emanazione. *— Del ciclo remanativo: sua natura. —Corrompe la morale, c introduce il pessimismo. —Delle varie età cosmiche, secondo i miti di molti popoli Gentili. — come 1’ ottimismo c il pessimismo si accozzino insieme nel sistema degli em&ftatisti. —Degli aratori, della teofanie o logofanie permanenti e successive, e delle apoteosi. —Come il sovrintelli- gibile si trovi alterato fra queste favole. —Del politeismo; nato dall’ emanatismo. Sua indole, e sue varie forine. —Tutti i popoli politeisti conservano una reminiscen- za della unità ideale. — Dell’ idolatria : sua natura. — Del panteismo: ò una riforma ieratica dell’ emanatismo. —Il panteismo scientifico non potè essere il primo sistema nella via dell’ errore. — 1/ emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una mede- sima dottrina, l’uno sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. —Proprietà speciali del panteismo. —Universalità del panteismo nel re* gnu dell’ errore. —Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. —Qual sorta di progresso possa avero Terrore. —Varie forme del panteismo* —Della condizione del sacerdozio i ——  201 Digitized by Google   dopo la rovina dello stato castale. —Dei Misteri, da cui uscì la filosofia laicale.— Dell’ateismo. —Questo sistema non potò essere anteriore al secondo periodo della fi- losofia secolaresca. —Si rigetta l! opinione di un ateismo indico antichissimo —Del sovrintelligibile. —Serbato in parte dai sacerdoti, o perduto affatto da' laici filosofan- ti, salvoclié dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia e della Grecia. —Dei tentati- vi antichi c moderni, per riedificare umanamente il sovrintelligibile. —Si conchiude, accomando brevemente il tenia del secondo libro NOTE. IQS Nota prima. Sulle denominazioni moderne dell* Io e del Me. 159 , 160 16.1 164 I6l> & Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. 166 Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. IL IL ÌL L IL Del tempo e dello spazio, secondo il processo ontologico. Passi del Leibniz e del Malebranche sul tempo e sullo spazio. Della importanza, che la religione dà alla vita temporale. Degli attributi divini ontologicamente considerati. 7j IL £. liL LL 14. 15. Ifii 12. 18. liL 11L 2Qi 2 1 . 22. 23. 24. 25. 26. 22. 21L Influenza della colpa primitiva in tutte le parti del pensiero e dell'aziono umana. 172. Dei vari sistemi sulla natura delle esistenze. IL Sull*infinità del mondo. 173 Sugli assiomi di finalità o di causalità. 174 Se l'abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire al Cristia- nesimo? Sull’origine della sovranità in alcuni casi particolari. Dell'orgoglio civile. Sui diversi modi, con cui si può dimostrare l’esistenza di Dio. L'idea di Dio non è solamente negativa. I7(i 112 178 179 IL 180 18J bit. Sulla voce rivelazione. Di varie spezie del razionalismo teologico. Dei miracoli posteriori allo stabilimento del Cristianesimo. Passo del Malebranche sull’idealità del Cristianesimo. Passo del Leibniz sulla rivelazione. . Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella risurrezione dei morti. Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’ esi- stenza degli angeli. I razionalisti confondono la dottrina acroamatica colla essoterica. Sul fatto di Babele. . Del sincretismo dei falsi culli, doma, mito e simbolo zendico, ISci culti barbari l’ Idea è esclusa dalla religione, c non dalla scienza umana. 19^ Gioberti. Iniroduz. Voi. III. ‘Hi * « IL 1112 IL IL * 182 184- Jb. 18J Digitized by Google   206 29. 30. 31. 32. 33. 1/antropomorfismo e il psicologismo essoterico. 194 Del panteismo di Ulrico Zuinglio. 195 Passi dello Spinoza conformi alle dottrine del razionalismo teologico. 19ti Sul psicologismo degli eretici. Ib. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col psicologismo e col fa- talismo.DELLA DECLIAAZIOSE DAGLI SITUI SPECl'LATIV I, I* OHUISE ALL' UGGETTO. Della Idea. — È primitiva, indimostrabile, evidente, e certa per sé stessa. — Necessità della parola . per determinare c ripensare l'Idea. — 1 progressi della cognizione ideale rispondono alla per- fezione dello strumento, con cui si lavora, cioè della parola. — Il linguaggio fu inventato dall' Idea, clic parlò sè stessa. — 1/ evi- denza c la certezza riflessiva abbisognano della parola. — Il sen- sibile è necessario per poter ripensare l’intelligibile. — L'Idea è l’unità organica, la forza motrice, e la legge governatriec del genere umano. — L'Idea è l’anima delle anime, l'anima della società universale. — Ella può oscurarsi, ma non ispegnersi affatto. — Del suo primo oscuramento, e degli effetti, clic ne seguirono. — Perdita dell’ unità ideale , c morte morale del genere umano. — Diversità delle stirpi. — Dell’ instaurazione sovrannaturale dell’ unità primitiva. — Del genere umano secondo l'elezione, sostituito al genere umano, secondo la natura. — La Chiesa è la riordinazionc elettiva c successiva del genere umano. — Vicende storiche della Chiesa. — Colla perdita dell’ unità ideale venne meno al genere umano la sua infallibilità,chepassònellaChiesa.—Quandoil genereumano riacquisterà questo privilegio. — Chi è fuori della Chiesa, è fuori del genere umano. — Composizione organica della Chiesa. — La , Digitized by Google   474 TAVOLA E SOMMARIO. Chiesa c conservatrice e propagalrice dell’ Idea : unisce il prin- cipio della quiete a quello del molo. — Delle forinole definitive della Chiesa. — Della scienza ideale, razionale e rivelata. — Attinenze reciproche di queste due parti. — La scienza razio- nale, o sia la filosofia, si distingue in due grandi epoche, ciascuna delle quali corrisponde a una rivelazione. — Il nesso fra la rivelazione e la filosofia è la tradizione. — I.’ alteramente della tradizione, e quindi della verità, fu nella sua origine una confusione delle lingue. — L* effetto di questa confusione fu il gentilesimo. — L’organizzazione ecclesiastica è la sola via, con cui si possa conservare intatta la tradizione. — Della Chiesa giudaica, c della sua diversità dalla cristiana. — La filosofia gentilesca avea colla rivelazione primitiva una relazione diversa da quella, che corre tra la filosofia cristiana c la rivelazione evan- gelica. — Due tradizioni, religiosa c scientifica. — Due classi di sistemi filosofici; gli uni tradizionali e ortodossi; gli altri anli- tradizionali ed eterodossi. — I primi suddividonsi in progressivi, cregressivi.—Qualitàprincipali,percuii sistemieterodossisi distinguono dagli ortodossi. — La filosofia ortodossa è perpetua. — Vari modi, con cui i sistemi eterodossi possono rompere il filo della tradizione. —Tre.età della filosofia cristiana. —Dell’età moderna.—Delpsicologismo: definizionediesso,edell'onto- logismo, che gli è contrario. — Il psicologismo è l'eterodos- sia moderna delle scienze filosofiche. — Renato Descartes è il suo fondatore ; gran matematico , meschinissimo filosofo. — Paralogismi puerili del suo metodo. — Presunzione intollerabile del suo assunto e delle sue promesse. — Cagioni, per cui il Car- tesianismo invalse, ed ebbe una certa voga. — Due dottrine c due letterature in cospetto P una dell’altra, tra il secolo decimoquiuto c il sedicesimo. — Abusi e disordini, che allora regnavano. — Necessità di una riforma’ cattolica. — Tre riforme eterodosse ; due religiose, la terza filosofica. — Il tedesco Lutero, e l'italiano ocino, autori delle due prime; il francese Descartes, della terza. — Vizi della Scolastica, che prepararono gli errori più moderni. — Analogia del metodo protestante col metodo cartesiano. — Il Descartes non liberò la filosofìa, come oggi si crede, ma la ridusse Digitized by Google  TAVOLA E SOMMARIO. WS in scrvilu. —Contraddizioni ridicole della sua dottrina. —Il Descartes non somiglia a Socrate pel metodo, ne a Platone per la teoricadelleideeinnate.—Vizidelpronunziatocartesiano: io pento, dunque tono. — Il sensismo nc è la conseguenza. — Assur- dità del sensismo. — Il predominio del sensismo ha impicciolita — la filosofia moderna. — Danni recati da esso agli studi storici. — La religione è la chiave della storia. — La filosofia nata dal ('.ar- tesianismo si divide in cinque scuole. — Del razionalismo psico- logico diverso dall’ ontologico. — Due classi di filosofi francesi. — Di alcuni eclettici francesi in particolare. — Si annoverano i diversi vizi e inconvenienti dell' eclettismo, e quelli del psicolo- gismo. — Obbiezioni dei psicologisti : risposta. — Del senso ontologico. — L'ontologismo è conforme all’ indole e al processo del Cristianesimo. — llicpilogazioue delle cose dette in questo capitolo. CAPITOLO QUARTO. (IELLA FOIJIOLA IDEALI. I Che cosa s’intende per forinola ideale. — Metodo, che l’autore si propone di tenere in questa ricerca. — Del Primo psicologico ontologico c filosofico. Il Primo filosofico abbraccia i due altri. — Varie dottrine sul Primo psicologico e ontologico. — Teorica di Antonio Rosmini intorno al concetto dell’ente consideralo, come Primo psicologico : si riduce a quattro capi. — Critica del sistema rosminiano : il Primo filosofico è l’Ente reale. — L'Ente reale è astratto e concreto, generale e particolare, individuale e universale nello stesso tempo. — La filosofia moderna erra spesso, mutando il concreto in astratto. — Vari generi di astrazione c di compo- — sizione. — Il Primo filosofico contiene un giudizio. — Doti spe- ciali di questo giudizio : 1° consta di un solo concetto, che si replica su se stesso ; 2° è obbiettivo, autonomo e divino, vale a dire, che il giudicante è identico al giudicalo. — Il giudizio di- ,-   476 TAVOLA E SOMMARIO, vino essendo il primo anello della filosofia, questa è una scienza divina e non umana nel suo principio. — Il giudizio divino, con- tenuto nel Primo filosofico , non basta a costituire la forinola ideale. — Ricerca di un altro concetto per compiere la formola. — Della nozione di esistenza : analisi del concetto e della parola. — Egli è impossibile il salire logicamente dal concetto dell’ esis- tenza a quello dell' Ente. — Bisogna adunque discendere dal con- cetto dell' Ente a quello di esistenza.— Necessità di un concetto in- termedio per effettuar questo transito nel processo discensivo. — L’idea di creazione è il legame tra le due altre. — Obbiezioni controdiessa: risposta.—IIprocessopsicologicocorrispondeall’ ^ontologico. — Lo spirito umano è spettatore continuo, diretto e immediato della creazione. — L'idea di creazione contiene un fatto primitivo c divino, che è il primo anello delle scienze fisiche e psicologiche; quindi tutta l’ umana enciclopedia è divina nel suo principio. — Compimento della formola ideale. —- Altro giudizio contenuto in essa formola. — Distinzione c inseparabilità psico- logica dell’Ente e dell’esistente. — Del vero ideale e del fatto ideale.—Obbiezionecontroil nostroprocessoideale:risposta. — Dell’ organismo ideale. — Problemi metafisici, che non si pos- sono risolvere , se non colla nostra formola , e ne confermano la verità. — 1° Del necessario c del contingente. — 2“ Dell’ intelli- gibile. — 3° Dell’ esistenza dei corpi. — Cattivo metodo di molti filosofi nel combattere l’idealismo. — 1° Dell’ individuazione. — !i° Dell’ evidenza c della certezza. — Possibilità del miracolo provata a priori. — Nuove obbiezioni contro la formula ideale : risposta. — 6° Dell’ origine delle idee. — Vari sistemi dei filosofi su questo punto. — Critica della dottrina rosiniuiana, che tulle le idee nascano da quella dell’Ente, per via di generazione. Esposizione sommaria della nostra dottrina sull’origine delle idee : si riduce a tre capi. — Convenienza della nostra dottrina con un pronunzialo del Vico. — 7° Dei giudizi analitici c sinte- tici. — Esposizione della nostra dottrina sulle varie classi di giu- dizi sintetici. — 8° Della natura del raziocinio. — Cenni su altre quislioni, che si attengono alla nostra formola. — L’aver dis- messa o trascurata l’idea di creazione è la causa principale degli ^ —  Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 477 orrori filosofici. — Vane promesse ilei moderni eclettici, c flebo- — lezza della filosofia presente. — Per ristorarla, bisogna abolire il psicologismo. — Il Cristianesimo rinnovò la forinola ideale. — Ili santo Agostino : sue lodi : fondò la scienza ideale. — Della scienza ideale cattolica : sue prerogative. — Degli Scolastici : loro difetti. — Del nominalismo e sua influenza sinistra nel rea- lismo. — In che consista il perfetto realismo. — Si critica il principio fondamentale di Cartesio colla scorta della formola ideale. — Di Benedetto Spinoza. — Tre epoche della filosofia te- desca. — L’ontologismo dei panteisti tedeschi è solo apparente. — Critica del loro sistema. — Vizi del panteismo in generale. — Convenienze del panteismo coll' eterodossia religiosa, e in ispecie colle opinioni ilei protestanti, c con quelle degli Ebrei, dopo la divina abrogazione del loro culto. 1 44» prima.. II. 4. 9. 0. 7. 8. 9. 10. 11 . 12. 13. 11 . 19. 10. Le sensazioni sono segni delle cose. Passo del Leibniz sul nesso del pensiero colla parola. 279 Sulla base ontologica della veracità. 281 Indivisibilità morale ilei Papa c della Chiesa. 282 Sullamutabilitàdelvero,secondoi panteisti. 283 Sulla universalità logica dell’errore. 285 Passo dello Spinoza sull’ ontologismo. 283 Passo del sig. Cousin sul psicologismo del Descartes. 28(1 Giudizio del Leibniz su Cartesio c sulla sua dottrina. 287 Del valore del Descartes nelle scienze fisiche. 28S Parere di Cartesio sulla speculativa dei matematici. 292 Passo del Mcujot su Cartesio. Ih. Dei furti letterari del Descartes. 293 Esame dello scetticismo cartesiano. 293 Passo dell' Aucillon sullo stile del Descartes. 29!) Della presunzione e dell’ arroganza del Descartes. 300 NOTE. 277 Digitized by Google   478 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 23. 26. 27- 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 33. 36. 37. 38. 39. 40. 41. TAVOLA E SOMMARIO. ^ Sopra una sentenza del Vico. .706 A che e (Trito i capi della Riforma scemassero il sovrin- telligibile rivelalo. 307 Che gl’italiani hanno l’ingegno scultorio. Ib. Divario tra i Sociniani e i moderni razionalisti. Ib. Esamedell’opinionediCartesiointornoalsuorogito. 308 Sul IVo di Lutero. 328 Sul circolo vizioso del Descartes. 329 Esame dell’opinione cartesiana, che Iddio possa mu- tare le essenze delle cose. 333 Vera idea della filosofia socratica c platonica. 314 Sulle idee innate del Descartes. 343 Sopra una sentenza del Thomas. 316 Passo del Leibniz sul Cogito di Cartesio. 317 Il secolo attuale continua il precedente. Ib. Passo dello Stewart sulle sciocchezze dei filosofi. 348 Passo del sig. Cousin sugli studi forti. Ib. Sulla religione di Napoleone. 349 Critica di due opinioni del sig. Jouffroy. 331 Il sig. Cousin non conosce il sistema del Malebranche. 361 Quando nacque la filosofia moderna , secondo il sig. Cousin. 366 Dell’ ontologismo cristiano. 367 Vari passi del Malebranche sulla visione ideale. 369 Si esamina la dottrina del Rosmini sulla visione ideale. 377 Capitolo primo. L’ente ideale del Rosmini è insussis- tente, benché non sia subbiellivo. Capitolo secondo. L’ente ideale del Rosmini è obbiet- tivo c assoluto, benché si distingua da Dio. Tassi di san Bonaventura c di Gersonc sulla visione ideale. 444 Medesimezza del concreto c dell’astratto, dell'indivi- dualeedelgeneralenell’ordinedellecoseassolute. 132 Passi del Malebranche e ilei Leibniz sull’ eloquio ideale. •* 433 Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 479 42. Sulla confusione dell’ essere coll’ esistere. 4556 13. / l’asso del Vico sul divario, che corre fra le voci 44. 43. 16. 47. 48. 49. 30. 31. 32. 33. I I essere ed esistere, e sull’ uso improprio, che ne fa il Descartes. tb. Passi del Descartes, in cui questo filosofo sinonimo l ’ essere coll’ esistere. 437 Sulla voce esistenze adoperata nella formula. 439 Sulle nozioni del necessario, del possibile, del con- tingente, e sui principii, che ne derivano. Ib. Della dualità ideale. 462 Passo del Malebranche sulla impossibilità di di- mostrare l’esistenza dei corpi. 463 Sulle convenienze del sistema cartesiano collo Spi- nozisrno. 464 Passo del Leibniz sullo stesso proposito. 468 Sopra due obbiezioni del Paulus contro il sistema dello Spinoza. Ib. Cenno sulle tradizioni panteistiche dei Rabbini. 471 Di una opinione dell' Hegel tolta dal Leibniz.DELIA LNIAERSALITA SCIENTIFICA DELI A FORMULA IDEALE. Articolo primo. Preambolo. — La forinola razionale dee contenere l'organismo degli clementi ideali. — l’er conoscere questa orga- nizzazione, bisogna riscontrare essa forinola coll'albero enciclo- pedico. — L'enciclopedia si compone di tre parti, filosofìa, fìsica e matematica, che corrispondono alle tre membra della forinola. — Della filosofia in ispecie : si stende per tutta la forinola. — Dell’ ontologia, psicologia, logica, elica c inaleinatica ; coinè si connettano coi vari termini di quella. — Tarala rappresenlalira dell’ albero enciclopedico, confórme all’ organismo ideale. — Spiegazione generica della tavola. — Della scienza ideale. — Della teologia rivelata e della filosofia. — Principato universale della prima. — Maggioranza della seconda sulle altre scienze. — Pri- mato dell’ontologia fra le varie discipline fìlusoGchc; necessario, acciò queste siano in fiore. — Della teologia universale. I Articolo secondo. Della malemalica. — La inatcmalica tiene un luogo mezzano tra la filosofia c la fisica.— Insufficienza della filo- sofia moderna, per dare una teorica soddisfacente del tempo e dello spazio. — Dichiarazione di queste due idee, c dell’ oggetto loro, mediante la furinola ideale. 17 Articolo terzo. Della logica c della morale. — Queste due scienze hannociòdicomune,cheappartengonoal terminemediodella Digifeed by Google   400 TAVOLA E SOMMARIO. forinola. — Della logica in particolare, e delle varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei due cicli creativi, e dei loro riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra loro. — Della legge morale. — Dell’ imperativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre mo- menti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal lisico, che ne conseguita. — Della pena eterna. 23 Articolo qlarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo membro della forinola. — Dei due cicli generativi. — Varie sintesi, di cui si compongono. — Dell’ordine dell’ universo — Del concetto te- leologico. — L’ idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 43 Articolo qlirto. Dell' estetica. — Del sublime e del bello. — Delle varie loro specie, c del modo, in cui si connettono colla for- inola. — Del maraviglioso. 32 Articolo sesto. Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesiano. —Quindi i suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri principii, perchè mancano della cogni- zione ideale. — I difetti della teorica hanno luogo del pari nella pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato dal Cristia- nesimo; vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi dilibertàpolitica: l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del sistema ortodosso. — La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine recenti c sorelle. — Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La civiltà moderna dee fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del Ma- chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In che senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni. — Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. — Della sovranità. — La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere sovrano. Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si tramanda Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 461 c perpetua di generazione in generazione. — Forinola della poli- tica. — l.a Immissione della sovranità dee essere proporzionala alla partecipazione della scienza ideale. — Se tutti i cittadini pos- sano partecipare ai diritti politici? Assurdità del suffragio uni- versale. — l.a capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma non basta a costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indipen- dente dai sudditi. — l.a perfezione della sovranità consiste nell' unione del potere tradizionale colla sufficienza elettiva. —Dei due cicli generativi della politica. — 11 sovrano non può inai farsi da se in nessun caso. — Della distribuzione della sovranità fra i cittadini. — Ogni potere sovrano è divino. — Nello stato primitivo delle nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno opochissimiindividui,nèpareggialafratullii cittadini.—In- violabilità del potere sovrano. — Delle rivoluzioni, e delle con- trarivoluzioni: checosasidebbaintenderesottoquestinomi.— La vera rivoluzione, essendo l’attentato contro una sovranità le- gittima, è sempre illecita. — La vera contrarivoluzione c onesta, se non è violenta c tumultuaria. — Lo stato politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini primitivi e anticali. — La mo- narchia è necessaria al dì d'oggi alla libertà europea. — L'inves- titura della sovranità in una famiglia è subordinata alla salute pubblica. — È inviolabile, come il dominio privato. — Il potere ereditario, e la capacità elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli. — Delle corti. — Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica intorno all’ inviolabilità del potere sovrano. — 1 fautori della licenza c del dispotismo invertono le due forinole politiche corrispondenti ai due cicli ideali. !56 Articolo settimo. Epilogo. — L’idea divina è la suprema forinola enciclopedica. — Universalità dell’ idea divina. — L’ontologismo non è un metodo ipotetico, come quello dei psicologisti. — Iddio è l'Intelligibile : è l’alfa e l’omega della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea divina nelle varie parti della filo- sofia. 144 Digitized by Google   r 402 TAVOLA E SOMMARIO. CAPITOLO SESTO. de.i.la ccmsEavAziosz deli,a rutmm.A ideale. La conservazione della forinola è opera della rivelazione. — Defini- zione di questa. — Suoi diversi periodi. — La confusione della filosofia colla religione nocque in ogni tempo alla scienza ideale. — Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi. — Del razio- nalismo teologico fiorente al di d’oggi. —Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La critica storica dei razionalisti pecca per di- fetto di canonica. — Il razionalismo confonde insieme i vari or- dini di fatti e di veri. — Sua vecchiezza. — Dei Doceti. — Il razionalismoèunveronaturalismo.—Delsovrannaturale: sua definizione. — Necessità di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Pos- sibilità e convenienza morale del miracolo. — Universalità dell’ ordine sovrannaturale. — L’Idea cristiana è universale, come l’Idea della ragione. — Nullità sintetica c filosofica dei moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è la religione universale. — Non si può mettere in ischiera cogli altri culti. — Sua singolarità. — Le false religioni non distruggono l’universalità del Cristiane- simo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di ogni tempo. — Si confuta una sentenza dello Strausse. — Le false religioni sono le sole, che debbano temere dei progressi civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non sottoslà alla coltura più squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è una barbarie attillata. — Delle prove interne della rivelazione. — Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della Bibbia risulta dalla perfezione deli’ Idea, che vi è rappresentata. — Oscurità della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai lavori smerdici dell’ in- gegno umano. — Concorso c predominio delle prove esterne od interne della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspi- razione dei libri sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni dei razionalisti. — L’ ermeneutica Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 463 di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela- zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei popoli. — Eccellenza delle nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli giapetici : loro divario dai Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ; conservatori dell' Idea perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo. — Della scienza acroamatica ed esso- terica. — Fondamento naturale, e universalità di questa distin- zione.—Della ordinazione civile e religiosa degl’ Israeliti. — Oltre la dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica e tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa distinzione presso il popolo eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la scienza acroamatica degl’ Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e dell' essoterismo è la sola variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea rivelata. — Perchè Mosè non abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità degli animi umani.—Gli Ebrei non tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e il dogma della ri- surrezione. — Del sensismo proprio dei razionalisti. — Falsità del loro metodo nel cercare l’origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina essoterica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti e i Gentili. — Del figuralismo ebraico. — Non è un trovato recente degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle institu- zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il letragramma, erano il nesso della scienza acroamatica ed essoterica presso gl’ Israeliti. 1ì>5 CAPITOLO SETTIMO. OEll’ ALTERAZIONE (IELLA EOREOLA IDEALE. lai barbarie non fu lo stato primitivo degli uomini. — La storia delle religioni non comincia dal sensismo. — Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la cultura primi- tiva. — Vicende civili delle nazioni. — Cinque forme successive di stato e di reggimento politico. — Anomalie storiche nell’ effet- Digitìzed by Google  404 TAVOLA E SOMMARIO. luazione di esse. — Del patriarcato. — Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto l'imperio ieratico. — I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. — Effetti salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. — Il sacerdozio conservò le reliquie dell’antica dottrina acroamatica fondò l’essoterica. — In che modo la mitologia e la simbolica po- tessero esser opera della moltitudine. — La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari indirizzi della filoso- fìa gentilesca. — Riscontri dell' antico e del nuovo paganesimo. — Vari gradi, per cui passò l’alterazione della formola ideale : oscurità , confusione , dimezzamento e disorganazione. — Ca- gioni dell' alteramente : predominio del senso e della fantasia ; influenza del linguaggio sull’idea, c dell’ essoterismo sull' acroa- matismo ; dispersione dei popoli, e perdita dell’ unità universale. — Del culto dei felissi. — Di un doppio moto contrario, regres- sivo e progressivo, delle instituzioni religiose. —Esempi. — Quattroepochedellacognizioneideale: intuitiva,immaginativa, sensitiva e astrattiva. — Se nel vario e successivo alterarsi della formola, si mantengano i suoi tre membri, c come?— Tavola delle trasformazioni ontologiche della formolo ideale, corfispondenti ai rari stati psicologici dello spirito umano. — Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca intuitiva; come l’uomo ne sia sca- duto. — Il mal morale consiste nella negazione del secondo ciclo creativo. — Dei mezzi sovrannaturali per conservare Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo fu l’occasione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del naturalismo fantastico c dell’ emanatismo propri di questa epoca. —Indole poco scientifica dell’ emanatismo. — Sua formola. — Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli emanatisti. — Della loro dualità primordiale, c delle dualità successive. — Dell’ androginismo, e delle dee madri ; loro connessione coll’ ema- natismo. — I fautori di questo sistema confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei due cicliditaldottrina: l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. — Corrompe la morale, e introduce il pessimismo. — ;  Digitized by Google   TAVOLA F. SOMMARIO. 16S Pelle varie età cosmiche, secondo i inili di molti popoli Gentili. — Come l’ ottimismo e il pessimismo si accozzino insieme nel sistema degli emanalisti. —Degli «talari, delle teofanie o logo- fanie permanenti e successive, e delle apoteosi. — Come il sovrin - telligibile si trovi alterato fra queste favole. — Del politeismo; nato dall'emanatismo. — Sua indole, e sue varie forme. — Tutti i popolipoliteisticonservanounareminiscenzadellaunitàideale. — Dell' idolatria : sua natura. — Pel panteismo : è una riforma ieratica dell’ einanatismo. — Il panteismo scientifico non poli- essere il primo sistema nella via dell’ errore. — L’emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. — Proprietà speciali del panteismo. — Universalità del panteismo nel regno dell’errore. — Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di progresso possa avere Terrore, — Varie forme del panteismo. — Della condizione del sacerdozio dopo la rovina dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci la filosofia laicale. — Dell’ ateismo. — Questo sistema non potè es- sere anteriore al secondo periodo della filosofia secolaresca. — Si rigetta l’ opinione di un ateismo indico antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. — Serbato in parte dai sacerdoti, c perduto affatto da' laici filosofanti, salvocliè dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei tentativi antichi c moderni, per rie- dificare umanamente il sovrintelligibile. — Si conchiude, accen - nando brevemente il tema del secondo libro. 239 NOTE. Nota prima. Sulle denominazioni moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del tempo c dello spazio, secondo il processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e del Malebranche sul tempo e sullo spazio. 30 380 Digitized by Google   ICO 4. 8. G. 7. 8. 9. 10. 11. 13. 13. 14. 18. 16. r* i* p £ 2L. 22. 23. 24. 28. 2G. 37. 28. TAVOLA E SOMMARIO. Della importanza, che la religione dà alla vita tempo- rale. .188 Degli attributi divini ontologicamente considerati. 190 Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. .191 Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. 393 influenza della colpa primitiva in tutte le parti del pensiero e dell’ azione umana. 405 Dei vari sistemi sulla natura delle esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406 Sugli assiomi di finalità e di causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli Stali Uniti. 412 Se l’ abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire al Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi particolari. 410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può dimostrare l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih. Sulla voce ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424 miracoli posteriori Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del Malehranchc sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla rivelazione. 430 Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri- surrezione dei morti. 431 Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’ esistenza degli angeli. Ib. 1 razionalisti confondono la dottrina acroamaliea colla essoterica. 444 Sul fatto di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti, -toma, mito e simbolo zcndico. 445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla religione, e non Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 467 L’antropomorfismo è il psicologismo essoterico. 446 Del panteismo ili Ulrico Zuinglio. Ih. Passi dello Spinoza conformi alle dottrine del raziona- lismo teologico. Sul psicologismo degli eretici. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col psicologismo e col fatalismo. 4SI 4SS AMDELIA LNIAERSALITA SCIENTIFICA DELI A FORMULA IDEALE. Articolo primo. Preambolo. — La forinola razionale dee contenere l'organismo degli clementi ideali. — l’er conoscere questa orga- nizzazione, bisogna riscontrare essa forinola coll'albero enciclo- pedico. — L'enciclopedia si compone di tre parti, filosofìa, fìsica e matematica, che corrispondono alle tre membra della forinola. — Della filosofia in ispecie : si stende per tutta la forinola. — Dell’ ontologia, psicologia, logica, elica c inaleinatica ; coinè si connettano coi vari termini di quella. — Tarala rappresenlalira dell’ albero enciclopedico, confórme all’ organismo ideale. — Spiegazione generica della tavola. — Della scienza ideale. — Della teologia rivelata e della filosofia. — Principato universale della prima. — Maggioranza della seconda sulle altre scienze. — Pri- mato dell’ontologia fra le varie discipline fìlusoGchc; necessario, acciò queste siano in fiore. — Della teologia universale. I Articolo secondo. Della malemalica. — La inatcmalica tiene un luogo mezzano tra la filosofia c la fisica.— Insufficienza della filo- sofia moderna, per dare una teorica soddisfacente del tempo e dello spazio. — Dichiarazione di queste due idee, c dell’ oggetto loro, mediante la furinola ideale. 17 Articolo terzo. Della logica c della morale. — Queste due scienze hannociòdicomune,cheappartengonoal terminemediodella Digifeed by Google   400 TAVOLA E SOMMARIO. forinola. — Della logica in particolare, e delle varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei due cicli creativi, e dei loro riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra loro. — Della legge morale. — Dell’ imperativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre mo- menti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal lisico, che ne conseguita. — Della pena eterna. 23 Articolo qlarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo membro della forinola. — Dei due cicli generativi. — Varie sintesi, di cui si compongono. — Dell’ordine dell’ universo — Del concetto te- leologico. — L’ idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 43 Articolo qlirto. Dell' estetica. — Del sublime e del bello. — Delle varie loro specie, c del modo, in cui si connettono colla for- inola. — Del maraviglioso. 32 Articolo sesto. Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesiano. —Quindi i suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri principii, perchè mancano della cogni- zione ideale. — I difetti della teorica hanno luogo del pari nella pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato dal Cristia- nesimo; vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi dilibertàpolitica: l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del sistema ortodosso. — La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine recenti c sorelle. — Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La civiltà moderna dee fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del Ma- chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In che senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni. — Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. — Della sovranità. — La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere sovrano. Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si tramanda Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 461 c perpetua di generazione in generazione. — Forinola della poli- tica. — l.a Immissione della sovranità dee essere proporzionala alla partecipazione della scienza ideale. — Se tutti i cittadini pos- sano partecipare ai diritti politici? Assurdità del suffragio uni- versale. — l.a capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma non basta a costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indipen- dente dai sudditi. — l.a perfezione della sovranità consiste nell' unione del potere tradizionale colla sufficienza elettiva. —Dei due cicli generativi della politica. — 11 sovrano non può inai farsi da se in nessun caso. — Della distribuzione della sovranità fra i cittadini. — Ogni potere sovrano è divino. — Nello stato primitivo delle nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno opochissimiindividui,nèpareggialafratullii cittadini.—In- violabilità del potere sovrano. — Delle rivoluzioni, e delle con- trarivoluzioni: checosasidebbaintenderesottoquestinomi.— La vera rivoluzione, essendo l’attentato contro una sovranità le- gittima, è sempre illecita. — La vera contrarivoluzione c onesta, se non è violenta c tumultuaria. — Lo stato politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini primitivi e anticali. — La mo- narchia è necessaria al dì d'oggi alla libertà europea. — L'inves- titura della sovranità in una famiglia è subordinata alla salute pubblica. — È inviolabile, come il dominio privato. — Il potere ereditario, e la capacità elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli. — Delle corti. — Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica intorno all’ inviolabilità del potere sovrano. — 1 fautori della licenza c del dispotismo invertono le due forinole politiche corrispondenti ai due cicli ideali. !56 Articolo settimo. Epilogo. — L’idea divina è la suprema forinola enciclopedica. — Universalità dell’ idea divina. — L’ontologismo non è un metodo ipotetico, come quello dei psicologisti. — Iddio è l'Intelligibile : è l’alfa e l’omega della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea divina nelle varie parti della filo- sofia. 144 Digitized by Google   r 402 TAVOLA E SOMMARIO. CAPITOLO SESTO. de.i.la ccmsEavAziosz deli,a rutmm.A ideale. La conservazione della forinola è opera della rivelazione. — Defini- zione di questa. — Suoi diversi periodi. — La confusione della filosofia colla religione nocque in ogni tempo alla scienza ideale. — Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi. — Del razio- nalismo teologico fiorente al di d’oggi. —Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La critica storica dei razionalisti pecca per di- fetto di canonica. — Il razionalismo confonde insieme i vari or- dini di fatti e di veri. — Sua vecchiezza. — Dei Doceti. — Il razionalismoèunveronaturalismo.—Delsovrannaturale: sua definizione. — Necessità di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Pos- sibilità e convenienza morale del miracolo. — Universalità dell’ ordine sovrannaturale. — L’Idea cristiana è universale, come l’Idea della ragione. — Nullità sintetica c filosofica dei moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è la religione universale. — Non si può mettere in ischiera cogli altri culti. — Sua singolarità. — Le false religioni non distruggono l’universalità del Cristiane- simo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di ogni tempo. — Si confuta una sentenza dello Strausse. — Le false religioni sono le sole, che debbano temere dei progressi civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non sottoslà alla coltura più squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è una barbarie attillata. — Delle prove interne della rivelazione. — Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della Bibbia risulta dalla perfezione deli’ Idea, che vi è rappresentata. — Oscurità della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai lavori smerdici dell’ in- gegno umano. — Concorso c predominio delle prove esterne od interne della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspi- razione dei libri sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni dei razionalisti. — L’ ermeneutica Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 463 di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela- zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei popoli. — Eccellenza delle nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli giapetici : loro divario dai Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ; conservatori dell' Idea perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo. — Della scienza acroamatica ed esso- terica. — Fondamento naturale, e universalità di questa distin- zione.—Della ordinazione civile e religiosa degl’ Israeliti. — Oltre la dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica e tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa distinzione presso il popolo eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la scienza acroamatica degl’ Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e dell' essoterismo è la sola variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea rivelata. — Perchè Mosè non abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità degli animi umani.—Gli Ebrei non tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e il dogma della ri- surrezione. — Del sensismo proprio dei razionalisti. — Falsità del loro metodo nel cercare l’origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina essoterica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti e i Gentili. — Del figuralismo ebraico. — Non è un trovato recente degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle institu- zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il letragramma, erano il nesso della scienza acroamatica ed essoterica presso gl’ Israeliti. 1ì>5 CAPITOLO SETTIMO. OEll’ ALTERAZIONE (IELLA EOREOLA IDEALE. lai barbarie non fu lo stato primitivo degli uomini. — La storia delle religioni non comincia dal sensismo. — Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la cultura primi- tiva. — Vicende civili delle nazioni. — Cinque forme successive di stato e di reggimento politico. — Anomalie storiche nell’ effet- Digitìzed by Google  404 TAVOLA E SOMMARIO. luazione di esse. — Del patriarcato. — Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto l'imperio ieratico. — I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. — Effetti salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. — Il sacerdozio conservò le reliquie dell’antica dottrina acroamatica fondò l’essoterica. — In che modo la mitologia e la simbolica po- tessero esser opera della moltitudine. — La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari indirizzi della filoso- fìa gentilesca. — Riscontri dell' antico e del nuovo paganesimo. — Vari gradi, per cui passò l’alterazione della formola ideale : oscurità , confusione , dimezzamento e disorganazione. — Ca- gioni dell' alteramente : predominio del senso e della fantasia ; influenza del linguaggio sull’idea, c dell’ essoterismo sull' acroa- matismo ; dispersione dei popoli, e perdita dell’ unità universale. — Del culto dei felissi. — Di un doppio moto contrario, regres- sivo e progressivo, delle instituzioni religiose. —Esempi. — Quattroepochedellacognizioneideale: intuitiva,immaginativa, sensitiva e astrattiva. — Se nel vario e successivo alterarsi della formola, si mantengano i suoi tre membri, c come?— Tavola delle trasformazioni ontologiche della formolo ideale, corfispondenti ai rari stati psicologici dello spirito umano. — Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca intuitiva; come l’uomo ne sia sca- duto. — Il mal morale consiste nella negazione del secondo ciclo creativo. — Dei mezzi sovrannaturali per conservare Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo fu l’occasione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del naturalismo fantastico c dell’ emanatismo propri di questa epoca. —Indole poco scientifica dell’ emanatismo. — Sua formola. — Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli emanatisti. — Della loro dualità primordiale, c delle dualità successive. — Dell’ androginismo, e delle dee madri ; loro connessione coll’ ema- natismo. — I fautori di questo sistema confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei due cicliditaldottrina: l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. — Corrompe la morale, e introduce il pessimismo. — ;  Digitized by Google   TAVOLA F. SOMMARIO. 16S Pelle varie età cosmiche, secondo i inili di molti popoli Gentili. — Come l’ ottimismo e il pessimismo si accozzino insieme nel sistema degli emanalisti. —Degli «talari, delle teofanie o logo- fanie permanenti e successive, e delle apoteosi. — Come il sovrin - telligibile si trovi alterato fra queste favole. — Del politeismo; nato dall'emanatismo. — Sua indole, e sue varie forme. — Tutti i popolipoliteisticonservanounareminiscenzadellaunitàideale. — Dell' idolatria : sua natura. — Pel panteismo : è una riforma ieratica dell’ einanatismo. — Il panteismo scientifico non poli- essere il primo sistema nella via dell’ errore. — L’emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. — Proprietà speciali del panteismo. — Universalità del panteismo nel regno dell’errore. — Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di progresso possa avere Terrore, — Varie forme del panteismo. — Della condizione del sacerdozio dopo la rovina dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci la filosofia laicale. — Dell’ ateismo. — Questo sistema non potè es- sere anteriore al secondo periodo della filosofia secolaresca. — Si rigetta l’ opinione di un ateismo indico antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. — Serbato in parte dai sacerdoti, c perduto affatto da' laici filosofanti, salvocliè dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei tentativi antichi c moderni, per rie- dificare umanamente il sovrintelligibile. — Si conchiude, accen - nando brevemente il tema del secondo libro. 239 NOTE. Nota prima. Sulle denominazioni moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del tempo c dello spazio, secondo il processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e del Malebranche sul tempo e sullo spazio. 30 380 Digitized by Google   ICO 4. 8. G. 7. 8. 9. 10. 11. 13. 13. 14. 18. 16. r* i* p £ 2L. 22. 23. 24. 28. 2G. 37. 28. TAVOLA E SOMMARIO. Della importanza, che la religione dà alla vita tempo- rale. .188 Degli attributi divini ontologicamente considerati. 190 Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. .191 Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. 393 influenza della colpa primitiva in tutte le parti del pensiero e dell’ azione umana. 405 Dei vari sistemi sulla natura delle esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406 Sugli assiomi di finalità e di causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli Stali Uniti. 412 Se l’ abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire al Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi particolari. 410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può dimostrare l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih. Sulla voce ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424 miracoli posteriori Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del Malehranchc sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla rivelazione. 430 Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri- surrezione dei morti. 431 Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’ esistenza degli angeli. Ib. 1 razionalisti confondono la dottrina acroamaliea colla essoterica. 444 Sul fatto di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti, -toma, mito e simbolo zcndico. 445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla religione, e non Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 467 L’antropomorfismo è il psicologismo essoterico. 446 Del panteismo ili Ulrico Zuinglio. Ih. Passi dello Spinoza conformi alle dottrine del raziona- lismo teologico. Sul psicologismo degli eretici. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col psicologismo e col fatalismo. 4SI 4SS AMDELIA LNIAERSALITA SCIENTIFICA DELI A FORMULA IDEALE. Articolo primo. Preambolo. — La forinola razionale dee contenere l'organismo degli clementi ideali. — l’er conoscere questa orga- nizzazione, bisogna riscontrare essa forinola coll'albero enciclo- pedico. — L'enciclopedia si compone di tre parti, filosofìa, fìsica e matematica, che corrispondono alle tre membra della forinola. — Della filosofia in ispecie : si stende per tutta la forinola. — Dell’ ontologia, psicologia, logica, elica c inaleinatica ; coinè si connettano coi vari termini di quella. — Tarala rappresenlalira dell’ albero enciclopedico, confórme all’ organismo ideale. — Spiegazione generica della tavola. — Della scienza ideale. — Della teologia rivelata e della filosofia. — Principato universale della prima. — Maggioranza della seconda sulle altre scienze. — Pri- mato dell’ontologia fra le varie discipline fìlusoGchc; necessario, acciò queste siano in fiore. — Della teologia universale. I Articolo secondo. Della malemalica. — La inatcmalica tiene un luogo mezzano tra la filosofia c la fisica.— Insufficienza della filo- sofia moderna, per dare una teorica soddisfacente del tempo e dello spazio. — Dichiarazione di queste due idee, c dell’ oggetto loro, mediante la furinola ideale. 17 Articolo terzo. Della logica c della morale. — Queste due scienze hannociòdicomune,cheappartengonoal terminemediodella Digifeed by Google   400 TAVOLA E SOMMARIO. forinola. — Della logica in particolare, e delle varie sue parti. — Dell’ etica in ispccie. — Dei due cicli creativi, e dei loro riscon- tri. — Convenienze, ebe corrono fra loro. — Della legge morale. — Dell’ imperativo. — Del dovere, e del diritto. — Dei tre mo- menti dell’ imperativo. — Del mal morale, e del mal lisico, che ne conseguita. — Della pena eterna. 23 Articolo qlarto. Della cosmologia. — Versa nel terzo membro della forinola. — Dei due cicli generativi. — Varie sintesi, di cui si compongono. — Dell’ordine dell’ universo — Del concetto te- leologico. — L’ idea di fine ci è somministrata dal ciclo creativo. 43 Articolo qlirto. Dell' estetica. — Del sublime e del bello. — Delle varie loro specie, c del modo, in cui si connettono colla for- inola. — Del maraviglioso. 32 Articolo sesto. Della politica. — La politica moderna deriva dal psicologismo cartesiano. —Quindi i suoi vizi. —Gli statisti odierni non hanno veri principii, perchè mancano della cogni- zione ideale. — I difetti della teorica hanno luogo del pari nella pratica. — Del governo rappresentativo. — Originato dal Cristia- nesimo; vizialo dall’eresia e dai cattivi filosofi. — Due sistemi dilibertàpolitica: l’unoeterodosso,cl’altroortodosso.—Suc- cessione storica del sistema ortodosso. — La libertà licenziosa e il dispotismo sono due dottrine recenti c sorelle. — Gloriose me- morie della seconda epoca del medio evo. — La civiltà moderna dee fondarsi su quella dei liassi tempi. — Dell’ apoftegma del Ma- chiavelli,chele«istituzionisidebbonoritirareversoi loroprin- cipii. — In che senso sia vero, — Rendici influssi del Papato nella civiltà delle nazioni. — Danni fatti alla medesima dall’ Imperio. — Di Cesare, institutore della tirannide imperiale. — Conuessità della licenza c del dispotismo colle dottrine di Lutero e del Des- cartes. — Della idealità delle nazioni. — L’ Idea è fonte del di- ritto. — Attinenze del dovere col diritto, e delle varie specie loro. — Della sovranità. — La sovranità assoluta è l’Idea. — Della sovranità relativa e ministeriale. — Non si trova in sepa- rato nel governo o nel popolo. — La società non è d’ «istituzione umana, ma divina. — liosì anche il potere sovrano. Due doti essenziali di questo potere, intorno al modo, con cui si tramanda Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 461 c perpetua di generazione in generazione. — Forinola della poli- tica. — l.a Immissione della sovranità dee essere proporzionala alla partecipazione della scienza ideale. — Se tutti i cittadini pos- sano partecipare ai diritti politici? Assurdità del suffragio uni- versale. — l.a capacità dee accompagnare il potere sovrano; ma non basta a costituirlo. — Il potere sovrano dee essere indipen- dente dai sudditi. — l.a perfezione della sovranità consiste nell' unione del potere tradizionale colla sufficienza elettiva. —Dei due cicli generativi della politica. — 11 sovrano non può inai farsi da se in nessun caso. — Della distribuzione della sovranità fra i cittadini. — Ogni potere sovrano è divino. — Nello stato primitivo delle nazioni la sovranità non è mai posseduta da uno opochissimiindividui,nèpareggialafratullii cittadini.—In- violabilità del potere sovrano. — Delle rivoluzioni, e delle con- trarivoluzioni: checosasidebbaintenderesottoquestinomi.— La vera rivoluzione, essendo l’attentato contro una sovranità le- gittima, è sempre illecita. — La vera contrarivoluzione c onesta, se non è violenta c tumultuaria. — Lo stato politico di un popolo dee corrispondere a’ suoi ordini primitivi e anticali. — La mo- narchia è necessaria al dì d'oggi alla libertà europea. — L'inves- titura della sovranità in una famiglia è subordinata alla salute pubblica. — È inviolabile, come il dominio privato. — Il potere ereditario, e la capacità elettiva importano del pari alla civiltà dei popoli. — Delle corti. — Conformità della nostra sentenza colla dottrina cattolica intorno all’ inviolabilità del potere sovrano. — 1 fautori della licenza c del dispotismo invertono le due forinole politiche corrispondenti ai due cicli ideali. !56 Articolo settimo. Epilogo. — L’idea divina è la suprema forinola enciclopedica. — Universalità dell’ idea divina. — L’ontologismo non è un metodo ipotetico, come quello dei psicologisti. — Iddio è l'Intelligibile : è l’alfa e l’omega della scienza. —Si termina, riandando il primato dell’ idea divina nelle varie parti della filo- sofia. 144 Digitized by Google   r 402 TAVOLA E SOMMARIO. CAPITOLO SESTO. de.i.la ccmsEavAziosz deli,a rutmm.A ideale. La conservazione della forinola è opera della rivelazione. — Defini- zione di questa. — Suoi diversi periodi. — La confusione della filosofia colla religione nocque in ogni tempo alla scienza ideale. — Analogia dei moderni razionalisti cogli antichi. — Del razio- nalismo teologico fiorente al di d’oggi. —Si divide in due parti. — Suoi fondatori. La critica storica dei razionalisti pecca per di- fetto di canonica. — Il razionalismo confonde insieme i vari or- dini di fatti e di veri. — Sua vecchiezza. — Dei Doceti. — Il razionalismoèunveronaturalismo.—Delsovrannaturale: sua definizione. — Necessità di esso, per l’integrità dell’ Idea. — Pos- sibilità e convenienza morale del miracolo. — Universalità dell’ ordine sovrannaturale. — L’Idea cristiana è universale, come l’Idea della ragione. — Nullità sintetica c filosofica dei moderni razionalisti. — Il Cristianesimo è la religione universale. — Non si può mettere in ischiera cogli altri culti. — Sua singolarità. — Le false religioni non distruggono l’universalità del Cristiane- simo. — Accordo di questo colla civiltà crescente di ogni tempo. — Si confuta una sentenza dello Strausse. — Le false religioni sono le sole, che debbano temere dei progressi civili. — Il Cris- tianesimo sovrasta, e non sottoslà alla coltura più squisita. — La civiltà moderna, che lo combatte, è una barbarie attillata. — Delle prove interne della rivelazione. — Sua medesimezza coll’ Idea perfetta. — La Chiesa è la parola esterna dell’ Idea. — La divinità della Bibbia risulta dalla perfezione deli’ Idea, che vi è rappresentata. — Oscurità della Bibbia in alcune parti. — Sua mirabile semplicità, e sua differenza dai lavori smerdici dell’ in- gegno umano. — Concorso c predominio delle prove esterne od interne della rivelazione, secondo le varie ragioni. — Della inspi- razione dei libri sacri. — Sua definizione, natura, estensione. — Si risolvono alcune obbiezioni dei razionalisti. — L’ ermeneutica Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 463 di questi si fonda in un falso metodo. — Etnografia della rivela- zione. — Della predestinazione degl’ individui c dei popoli. — Eccellenza delle nazioni e delle lingue semitiche. — Dei popoli giapetici : loro divario dai Semiti. — Delle nazioni madri. — Degl’ Israeliti ; conservatori dell' Idea perfetta, prima di Cristo. — Dei fati del popolo ebreo. — Della scienza acroamatica ed esso- terica. — Fondamento naturale, e universalità di questa distin- zione.—Della ordinazione civile e religiosa degl’ Israeliti. — Oltre la dottrina pubblica, essi avevano una scienza secreta, acroamatica e tradizionale. — Ragioni, in cui si fondava questa distinzione presso il popolo eletto. — Il Cristianesimo rese esso- terica la scienza acroamatica degl’ Israeliti. — L’ alternativa dell’ acroamatismo e dell' essoterismo è la sola variazione, che si trovi nella storia dell’ Idea rivelata. — Perchè Mosè non abbia inse- gnata espressamente l’ immortalità degli animi umani.—Gli Ebrei non tolsero dagli stranieri la loro angelologia, e il dogma della ri- surrezione. — Del sensismo proprio dei razionalisti. — Falsità del loro metodo nel cercare l’origine delle idee e delle credenze. — Attinenze reciproche della dottrina essoterica. — Differenze, che correvano, per questo rispetto, fra gl' Israeliti e i Gentili. — Del figuralismo ebraico. — Non è un trovato recente degl’ Israeliti ellenisti. — Falso concetto dato dal sig. Salvador delle institu- zioni mosaiche. — I,a formola ideale e il letragramma, erano il nesso della scienza acroamatica ed essoterica presso gl’ Israeliti. 1ì>5 CAPITOLO SETTIMO. OEll’ ALTERAZIONE (IELLA EOREOLA IDEALE. lai barbarie non fu lo stato primitivo degli uomini. — La storia delle religioni non comincia dal sensismo. — Per quali cagioni diminuisse, o si spegnesse presso molti popoli la cultura primi- tiva. — Vicende civili delle nazioni. — Cinque forme successive di stato e di reggimento politico. — Anomalie storiche nell’ effet- Digitìzed by Google  404 TAVOLA E SOMMARIO. luazione di esse. — Del patriarcato. — Dello stato castale : sua origine. — Del predominio dei sacerdoti : sua legittimità. — Genio religioso delle società costituite sotto l'imperio ieratico. — I sacerdoti autori principali della civiltà risorgente. — Effetti salutari della loro influenza nelle colonie antiche e moderne. — Il sacerdozio conservò le reliquie dell’antica dottrina acroamatica fondò l’essoterica. — In che modo la mitologia e la simbolica po- tessero esser opera della moltitudine. — La riforma ieratica dell’ acroamatismo produsse la filosofìa. — Vari indirizzi della filoso- fìa gentilesca. — Riscontri dell' antico e del nuovo paganesimo. — Vari gradi, per cui passò l’alterazione della formola ideale : oscurità , confusione , dimezzamento e disorganazione. — Ca- gioni dell' alteramente : predominio del senso e della fantasia ; influenza del linguaggio sull’idea, c dell’ essoterismo sull' acroa- matismo ; dispersione dei popoli, e perdita dell’ unità universale. — Del culto dei felissi. — Di un doppio moto contrario, regres- sivo e progressivo, delle instituzioni religiose. —Esempi. — Quattroepochedellacognizioneideale: intuitiva,immaginativa, sensitiva e astrattiva. — Se nel vario e successivo alterarsi della formola, si mantengano i suoi tre membri, c come?— Tavola delle trasformazioni ontologiche della formolo ideale, corfispondenti ai rari stati psicologici dello spirito umano. — Dichiarazione della tavola. — Dell'epoca intuitiva; come l’uomo ne sia sca- duto. — Il mal morale consiste nella negazione del secondo ciclo creativo. — Dei mezzi sovrannaturali per conservare Io stato in- tuitivo. — L’essoterismo fu l’occasione della perdita di esso. — Dell’ epoca immaginativa. — Del naturalismo fantastico c dell’ emanatismo propri di questa epoca. —Indole poco scientifica dell’ emanatismo. — Sua formola. — Due sorti d’ emanatismo : psicologico e cosmologico. — Dottrina dinamica degli emanatisti. — Della loro dualità primordiale, c delle dualità successive. — Dell’ androginismo, e delle dee madri ; loro connessione coll’ ema- natismo. — I fautori di questo sistema confondono la teogonia colla cosmogonia. — Del sincretismo emanatistico. — Dei due cicliditaldottrina: l’emanazione.—Delcicloremanativo: sua natura. — Corrompe la morale, e introduce il pessimismo. — ;  Digitized by Google   TAVOLA F. SOMMARIO. 16S Pelle varie età cosmiche, secondo i inili di molti popoli Gentili. — Come l’ ottimismo e il pessimismo si accozzino insieme nel sistema degli emanalisti. —Degli «talari, delle teofanie o logo- fanie permanenti e successive, e delle apoteosi. — Come il sovrin - telligibile si trovi alterato fra queste favole. — Del politeismo; nato dall'emanatismo. — Sua indole, e sue varie forme. — Tutti i popolipoliteisticonservanounareminiscenzadellaunitàideale. — Dell' idolatria : sua natura. — Pel panteismo : è una riforma ieratica dell’ einanatismo. — Il panteismo scientifico non poli- essere il primo sistema nella via dell’ errore. — L’emanatismo e il panteismo sono sostanzialmente una medesima dottrina, l’uno sotto una forma fantastica e poetica, l’altro sotto una forma scientifica. — Proprietà speciali del panteismo. — Universalità del panteismo nel regno dell’errore. — Tutti i falsi sistemi vi si riferiscono. — Qual sorta di progresso possa avere Terrore, — Varie forme del panteismo. — Della condizione del sacerdozio dopo la rovina dello stato castale. — Dei Misteri, da cui usci la filosofia laicale. — Dell’ ateismo. — Questo sistema non potè es- sere anteriore al secondo periodo della filosofia secolaresca. — Si rigetta l’ opinione di un ateismo indico antichissimo. — Pel so- vrintelligibile. — Serbato in parte dai sacerdoti, c perduto affatto da' laici filosofanti, salvocliè dalle tre scuole mezzo ieratiche dell’ Italia c della Grecia. — Pei tentativi antichi c moderni, per rie- dificare umanamente il sovrintelligibile. — Si conchiude, accen - nando brevemente il tema del secondo libro. 239 NOTE. Nota prima. Sulle denominazioni moderne dell’ lo c del Ile. 379 2. 3. ut. Del tempo c dello spazio, secondo il processo ontolo- gico. 380 Tassi del Leibniz e del Malebranche sul tempo e sullo spazio. 30 380 Digitized by Google   ICO 4. 8. G. 7. 8. 9. 10. 11. 13. 13. 14. 18. 16. r* i* p £ 2L. 22. 23. 24. 28. 2G. 37. 28. TAVOLA E SOMMARIO. Della importanza, che la religione dà alla vita tempo- rale. .188 Degli attributi divini ontologicamente considerati. 190 Di alcune dottrine erronee sulla bontà e pravità degli atti umani. .191 Errori di un giornalista francese sull’ amor di Dio. 393 influenza della colpa primitiva in tutte le parti del pensiero e dell’ azione umana. 405 Dei vari sistemi sulla natura delle esistenze. 4M Sull’ infinità del mondo. 406 Sugli assiomi di finalità e di causalilà. 407 Del traffico degli schiavi negli Stali Uniti. 412 Se l’ abolizione della schiavitù e del servaggio si debba attribuire al Cristianesimo? 413 Sull’ origine della sovranità in alcuni casi particolari. 410 Dell’ orgoglio civile. 418 Sui diversi modi, con cui si può dimostrare l’esistenza di Dio. 430 L’idea di Dio non è solamente negativa. Ih. Sulla voce ritelazionc. 423 Di varie spezie del razionalismo teologico. 424 miracoli posteriori Dei allo stabilimento del Cristiane- 433 simo. Passo del Malehranchc sull'idealità del Cristianesimo. 429 l’asso del Leibniz sulla rivelazione. 430 Sulla credenza antichissima dei Samaritani nella ri- surrezione dei morti. 431 Si esamina la dottrina filosofica dello Schleiermacher c dello Strausse sull’ esistenza degli angeli. Ib. 1 razionalisti confondono la dottrina acroamaliea colla essoterica. 444 Sul fatto di Babele. Ib. Del sincretismo dei falsi culti, -toma, mito e simbolo zcndico. 445 Nei culli barbari l’Idea è esclusa dalla religione, e non Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 467 L’antropomorfismo è il psicologismo essoterico. 446 Del panteismo ili Ulrico Zuinglio. Ih. Passi dello Spinoza conformi alle dottrine del raziona- lismo teologico. Sul psicologismo degli eretici. Convenienze della dottrina pclagiana col sensismo, col psicologismo e col fatalismo. 4SI 4SS AMDELLE CONVENIENZE DELLA FORIOLA IDEALE COLLA RELIGIONE RIVELATA. Scusa dell’ autore. — Il sovrintelligibile e il sovrannaturale sono i due perni della religione. — Analisi del primo. — Si escludono le false origini, che si possono assegnare al concetto, che Io rap- presenta. — Della sovrintelligenza. — In che consista la natura speciale di questa facolti. — Sua analogia coll’istinto. — Del sen- timento, che l’uomo ha delle sue potenze non esplicate. — Defi- nizione delia sovrintelligenza. — Come il concetto negativo del sovrintelligibile nasca da questa facoltà. — Obbiettività del so- vrintelligibile ; adombrata dalla filosofia orientale. — Analogia del sovrintelligibile col numeno di Emanuele Kant : sbaglio del criticismo. — Dei sovrintelligibili naturali. — Attinenze del so- vrintelligibile cogl’ intelligibili. — Come il sovrintelligibile debba essere riconosciuto e rispettato dalla filosofia. — Dei sovrintelli- gibili rivelati. — Loro importanza, e armonia coi dogmi razio- nali. — I sovrintelligibili della rivelazione hanno un margine indeterminato. — Del sovrannaturale. — In che consista, e sue attinenze colla formula. — Connessione del suo concetto colla magia dei popoli pagani. — Varie spezie di sovrannaturale. — Necessità dell’ idea di sovrannaturale per la filosofia della storia : sua importanza per la filosofia in genere. — Il sovrannaturale appartiene al secondo ciclo creativo : sue relazioni con esso. — Dimostrazione a priori della realtà dell' ordine sovrannaturale. — L’ alterazione di quest' ordine costituisce il regresso. — Della   484 TAVOLA E SOMMARIO. forinola sovrannaturale : sua corrispondenza colla razionale. — Del ciclo cristiano : sua risoluzione. — Della Chiesa ; com' ella sia il perno dell’ incivilimento. — Del sincretismo delle sette cris- tiane eterodosse, e della idolatria rinnovala per opera loro. — Confutazione di un passo del sig. Guizot sull’ unità religiosa. — Della superstizione : in che consista. — Del processo a priori della fede cattolica. — Due cicli rivelativi corrispondenti ai due cicli creativi. — Necessità della fede per ben filosofare. — La fede sola colloca l’uomo nel suo stato naturale. —Ragionevolezza della disciplina cattolica. — L’ educazione ideale è impossibile fuori di essa. — Lo scetticismo esclude la vera grandezza, anche umana, dell’ ingegno. — La fede è libera, e in ciò consiste il suo merito.—Tredotidellafedecattolica, utilissimeall'uomoeal filosofo. — Efficacia di questa virtù, per avvalorare l' ingegno on- tologico. — Quanto all’ abito ontologico conferisca la credenza del sovrannaturale. — Tutte le virtù teologali influiscono profit- tevolmente nell’ uomo pensante e operatore. — Della vera misti- cità, e sue differenze dalla falsa. — Empietà dell’ autonomia razionale. — Necessità della fede per la conservazione dei princi- pii ideali. — L’ incredulità moderna è la cagione precipua della debolezza degli animi c degl’ingegni. — Utilità dei misteri in genere per l’abito filosofico. — Si considerano, per questo ris- petto, alcuni misteri in particolare. — Della predestinazione, e della eternità delle pene. — Della inviolabilità scientifica della teologia. — Di certi novellini teologi, e della temerità loro. — L’invenzione nelle cose ideali è impossibile. — Della giovinezza perpetua del Cristianesimo cattolico. — Di una certa classe di gementi, che credono morta o moriente la religione : si combat- tono i loro timori. — Della larghezza dell’ Idea cattolica : sua utilità per le scienze in generale. — Necessità della filosofia per far fiorire la teologia, come scienza — La teologia e la filosofia hanno bisogno l’una dell’altra. — Delle cagioni, per cui la teo- logia cattolica c scaduta dal suo antico splendore. — Il clero cat- tolico dee essere un concilio di sapienti. — Dee coltivare special- mente le scienze filosofiche. — Dell’ acroamatismo ieratico, ch'egli si dee proporre. — I laici, che coltivano la filosofia, debbono Digitized by Google   TAVOLA E SOMMARIO. 435 incominciare una nuova era razionale, sotto la sovranità intellet- tiva della Chiesa. — La filosofia eterodossa, che regnò finora, è morta per sempre. — Si concbiude il capitolo e il primo libro, esortando gl' Italiani a intraprendere l’ instaurazione delle scienze speculative. 2. 5. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 1S. 13. Sulla voce essenza. 15I Del sovrintelligibile presso i filosofi eterodossi. 161 Attinenze del sovrannaturale col sovrintelligibile. 16£ Del sovrannaturale iniziale c finale del Cristianesimo. 16i Del sovrannaturale transitorio o continuo. 1615 Su alcuni passi del sig. Guizot. 166 Sopra un cenno teologico del sig. Nisard. 175 Sul fatto morale della giustificazione. 174 Sulle varie epoche filosofiche della storia. 176 Delle idee pure. 178 Sul valore teologico dei razionalisti tedeschi. 179 Il decadimento della filosofia prova la verità del cat- tolicismo.Grice: “Italians find it harder than the Germans to conceal their nationalism. Hegel is studied everywhere, but Gioberti is felt to be TOO Italian, and he is. There are not two sentences in Gioberti that do not mention Italy! Hegel could philosophise on being (the absolute being is the King of Prussia) – but philosophers elsewhere took his remarks in a generalized way, not a German way. Unlike with Gioberti, who cannot hide his ‘italianita’. The fact that Mussolini wrote on him did not help. And that, along with Gentile, and the Italian mainstream intelligentsia, the Italian risorgimento is only a stone’s throw away from Fascism!” Grice: “Lorenzo Giusso, whom I like, wrote a bio of Gioberti which I thought the best, it’s in Vita e Pensiero, and in the series, “UOMINI DEL RISORGIMENTO” Gives him sense!” -- Vincenzo Gioberti. Gioberti. Keywords: del bello, estetico, il bello, metessi, implicatura metessica – mimesi – Plato on mimesis and metexis, protologia, ontologismo, statua all’aperto, Milano – nella serie uomini del risorgimento, bruno, gentile. -- Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Gioberti," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757919514/in/datetaken/

 

Grice e Gioia – filosofia ad uso de’ giovanetti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Piacenza). Filosofo. Grice: “I joked with the maxim, ‘be polite’ – surely it’s difficult to make that universalisable into the conversational categoric imperative (‘be helpful conversationally) – but apparently Italians are less Kantian than I thought!” -- Grice: “I love Gioia; he is like me, an economist when it comes to pragmatics – see my principle of ECONOMY of rational effort; I studied thoroughly his fascinating account about the origin of language, before I ventured with my pritological progressions!” Dopo gli studi nel Collegio Alberoni veste l'abito talare, mantenendo tuttavia un orientamento di pensiero tutt'altro che ortodosso tanto in filosofia, per l'influenza dell'utilitarismo di JBentham, dell'empirismo di  Locke e del sensismo di Condillac, quanto in teologia per l'influenza del pensiero di Giansenio.  Il suo interesse si rivolge ben presto anche alle questioni politiche. Vince il concorso bandito dalla Società di Pubblica Istruzione di Milano sul tema "Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia", alla quale partecipano 52 concorrenti. La sua dissertazione, in cui sostiene la tesi di un'Italia libera, repubblicana, retta da istituzioni democratiche e basata su comuni elementi geografici, linguistici, storici e culturali, prefigura, come la maggioranza di quelle presentate, l'unità italiana, benché questa tesi non sia gradita ai francesi che in quel periodo occupano il nord Italia. La notizia del premio ricevuto gli giunge però in carcere. Nel frattempo è stato arrestato con l'accusa di aver celebrato a scopo di lucro più di una messa al giorno, anche se sono in realtà le sue idee politiche giacobine a renderlo inviso all'autorità. Viene scarcerato grazie, forse, alle pressioni di Bonaparte, e ripara a Milano. Il Trattato di Campoformio, con la cessione di Venezia ad Austria da parte della Francia in cambio del riconoscimento austriaco della Repubblica Cisalpina, lo spinge però ben presto a diventare oppositore della Francia.  Dopo aver rinunciato al sacerdozio, si impegna nella professione giornalistica fonda "Il Giornale filosofico politico", stroncato dalla rigida censura austriaca per le posizioni sempre più apertamente patriottiche che Gioja vi sostiene. Dalle colonne del "Giornale Filosofico Politico" scrive una lettera aperta al duca Ferdinando d'Asburgo-Este, in cui denuncia i danni patiti in carcere. Bonaparte viene sconfitto dalle truppe austriache nella Battaglia di Novi Ligure e Gioia viene arrestato nuovamente dagli austriaci, per essere scarcerato in seguito alla vittoria francese a Marengo. Viene nominato storiografo della Repubblica Cisalpina: l'anno successivo pubblica "Sul commercio de' commestibili e caro prezzo del vitto", ispirato dai tumulti per il rincaro del pane, e "Il Nuovo Galateo". Viene rimosso dalla carica per le polemiche seguite alla pubblicazione e alla difesa del suo trattato "Teoria civile e penale del divorzio, ossia necessità, cause, nuova maniera d'organizzarla"  L'apprezzamento per i suoi solidi e realistici studi di economia e di statistica, ai quali sono prevalentemente rivolti il suo interesse e la sua attività, gli valgono però la nomina alla direzione del nascente Ufficio di Statistica: in questa veste inizia una febbrile attività fatta di studi corredati da tabelle, quadri sinottici, raffronti demografici, causa di nuove ed accese polemiche e della rimozione dall'incarico. Tale attività gli rese uno dei primi studiosi ad applicare i concetti di Statistica alla gestione economica dei conti pubblici (ad esempio per le tasse, gabelle, e così via). Grazie alle sue conoscenze statistiche ed economiche elabora concetti fortemente innovativi per l’epoca che ne fanno il precursore del moderno dibattito giuridico in materia di risarcimento del danno alla persona con una concezione che supera la questione patrimoniale.  Notissima in medicina legale la sua regola del calzolaio, che anticipa il concetto di riduzione della capacità lavorativa specifica:  "...un calzolaio, per esempio, eseguisce due scarpe e un quarto al giorno; voi avete indebolito la sua mano che non riesce più che a fare una scarpa; voi gli dovete dare il valore di una fattura di una scarpa e un quarto moltiplicato per il numero dei giorni che gli restano di vita, meno i giorni festivi..".  E ancora, seppur meno noti, concetti come: "Ne' casi d'indebolimento o distruzione di forze industri, considerando il soddisfacimento come uguale al lucro giornaliero diminuito o distrutto, moltiplicato per la rimanente vita utile dell'offeso, noi restiamo molto al di sotto del valore reale, giacché una forza umana può essere riguardata come Mezzo di sussistenza Mezzo di godimento Mezzo di bellezza Mezzo di difesa   Filosofia della Statistica (libro originale) “Rendendo paralitico, per es., l'altrui braccio destro o la mano, voi togliete al musico il mezzo con cui si procura il vitto divertendo gli altri, al proprietario il mezzo con cui si sottrae alla noia divertendo se stesso, alla donna il mezzo con cui gestisce e porge con grazia, a chiunque il mezzo con cui si schernisce da mali eventuali difendendosi".  Si tratta di principi rivoluzionari per l’epoca, forse frutto di quel particolare mix di cultura che deriva dalla sua formazione che inizia da sacerdote e approda a concezioni rivoluzionarie; è il primo che riesce a prefigurare nell’uomo non solo una sorta di macchina che produce reddito, ma anche un soggetto che attraverso il lavoro realizza la propria personalità. In Italia oltre un secolo e mezzo dopo, negli anni ’80 del novecento, in sede giuridica inizierà il dibattito sul superamento del risarcimento del mero danno patrimoniale per tener conto degli aspetti relazionali e dinamici della persona riassunti nel concetto di danno biologico. Sul filone di queste tematiche gli veniva intestata a Pisa un'ssociazione scientifica medico giuridica che raccoglie giuristi, medici legali e assicuratori.  Il "Nuovo Galateo" Testo fondamentale nella storia dei Galatei, il "Nuovo Galateo" di Gioja fu scritto per contribuire alla civilizzazione del popolo della Repubblica Cisalpina. Il testo conosce ben tre edizioni. La prima si sofferma in particolar modo sulla definizione laica di "pulitezza" – cf. Grice, ‘be polite’ -- intesa come ramo della civilizzazione, arte di modellare la persona e le azioni, i sentimenti, i discorsi in modo da rendere gli altri contenti di noi e di loro stessi. È divisa in tre parti: "Pulitezza dell'uomo privato", "Pulitezza dell'uomo cittadino", "Pulitezza dell'uomo di mondo".  Nella seconda edizione, Gioja ridimensiona il concetto di "pulitezza" come l'arte di modellare la persona, le azioni, i sentimenti, i discorsi in modo da procurarsi l'altrui stima ed affezione. La vecchia ripartizione è sostituita da: "Pulitezza Generale", "Pulitezza Particolare", "Pulitezza Speciale". Nella terza edizione risale, a differenza dell'edizioni precedenti, enfatizza l'importanza del concetto di "ragione sociale", considerato dall'autore il fondamento etico del galateo che avrebbe portato felicità e pace sociale mediante le buone maniere. Fu membro della Loggia massonica "Reale Amalia Agusta" di Brescia, che prese il nome dalla moglie del principe Eugenio di Beauharnais, primo Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia. A lui è intestata la loggia N. 1114 di Piacenza all’obbedienza del Grande Oriente d’Italia. Crollato il dominio napoleonica, Gioja produce le sue opere maggiori: il "Nuovo prospetto delle scienze economiche”; il trattato "Del Merito e delle Ricompense"; "Sulle manifatture nazionali"; "L'ideologia". Gli ultimi tre libri vengono messi all'Indice e il suo fecondo lavoro è interrotto da un nuovo arresto per aver cospirato contro l'Austria partecipando alla setta carbonara dei "Federati".  Dopo quest'ultima peripezia, nonostante i sospetti da parte del governo austriaco, ha finalmente davanti a sé qualche anno di serenità e compone la sua ultima opera, "La filosofia della statistica.” Nel cimitero della Mojazza fra tante ossa ignorate dormono senza fasto di mausoleo le ceneri di Melchiorre Gioia. Prende il suo nome il Liceo Classico di Piacenza. Rosmini, suo avversario in politica come in religione, lo accusò di pretendere di proporre un codice morale, fondato su principi palesemente opportunistici, mentre con disinvoltura richiedeva sussidi e regali dai titolari del potere politico per elogiarne le benemerenze nelle proprie pubblicazioni periodiche, e lo dichiara pubblicamente un "ciarlatano". Altre opera: Del merito e delle ricompense,  2, Filadelfia, s.n., Riflessioni sulla rivoluzione. Scritti politici, Nuovo Galateo, Il Nuovo prospetto delle scienze economiche, Distribuzione delle ricchezze, Milano, presso Gio. Pirotta in santa Radegonda, Melchiorre Gioia, Produzione delle ricchezze,  2, Milano, presso Gio. Pirotta in santa Radegonda, Consumo delle ricchezze, Milano, presso Gio. Pirotta in santa Radegonda, Melchiorre Gioia, Azione governativa sulla produzione, distribuzione, consumo delle ricchezze,  2, Milano, presso Gio. Pirotta in santa Radegonda, Sulle manifatture nazionali,  Dell'ingiuria, dei danni, del soddisfacimento e relative basi di stima avanti i tribunali civili. L’Ideologia. Filosofia della statistica. Note: Francesca Sofia nel Dizionario Biografico degli Italiani.  Ettore Rota nella Enciclopedia Italiana, Cfr. Solmi, L'idea dell'unità italiana nell'età di Napoleone in Rassegna storica del Risorgimento, Fonte: Francesca Sofia, Dizionario Biografico degli Italiani, rTreccani L'Enciclopedia Italiana, riferimenti in.  Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori,Mimesis-Erasmo, Milano-Roma, Ignazio Cantù, Milano, nei tempi antico, di mezzo e moderno: Studiato nelle sue vie; passeggiate storiche, Antonio Saltini, Maria Teresa Salomoni, Stefano Rossi, Via Emilia. Percorsi inusuali fra i comuni dell'antica strada consolare, Il Sole, Barucci, Il pensiero economico di Gioia, Milano, Giuffre, Manlio Paganella, Alle origini dell'unità d'Italia: il progetto politico-costituzionale di Gioia, Milano, Ares,Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Nicola Pionetti, Melchiorre Gioia: il progetto politico per un'Italia unita e repubblicana, Piacenza, EdizioniLir,. Luisa Tasca, Galatei. Buone maniere e cultura borghese nell'Italia dell'Ottocento, Firenze, Le Lettere, Gioia (metropolitana di Milano). Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  MEnciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.  Melchiorre Gioia, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  fare alcun cangiamentosenza indebolirla. Egli previene così i suoi lettori contro ogni idea di riforma, e svolge nel loro avimo un timor macchinale cootro ogoi innovazione delle leggi. In generale tutte le metafore, i paragoni, le parziali analogie,lesomiglianze superficiali non possono far breccia che nell'animo del volgo;agli occhi del filosofo i paragoni non sono ragioni; essi possono schiarire una proposizione , provarla mai. CAPO VII. Parlare. Abbiamo veduto che le macchine sono utili e necessarie al chimico, i telescopiall'astronomo, i disegni al meccanico, le figure al geometra. Le parole sono forse egualmente utili, egualmente necessarie all'esercizio del pensiero? Tre oggetti simili mi si presentano facilmente allo spi rito, dice Condillac; se passo al quarto, sono obbligato, per maggior facilità, d'immaginare due oggetti da una parte, due dall'altra ; se voglio fissarne sei, fa duopo che li distribuisca due a due, o tre a tre; crescendo questi oggetti, la mia vista si confonde, io non posso più numerarli.Al contrario, se dopo d'averne considerato uno gli unisco un altro, e a questa unione appongo il nome due; se a questi aggiungo un terzo,ed allanuova unione appongo ilnome tre,ecosi di seguito, caratterizzando con parole distinte ogni aumento progressivo d'unità, arriverò ad annoverare moltissimi oggetti facilmente. Alla stessa maniera,se ogoi volta che voglio pensare ad una persona,sono costretto a richiamarmi ad una ad una tutte le sue qualità, onde non confonderla con un'altra ,  Le note tracciate sulle carte di musica rappresentano i suoni che si eseguiscono daglistrumenti; le parole pronun ciate o scritte rappresentano le idee che si piagono bel l'animo. 1   mi troverò nel massimo imbarazzo.Siano,a cagione d'esem pio,come segue,lequalitàd'una persona: Fisiche= Sessomaschile,anni20,capellibiondi, fronte alta, cigli biondi, occhi neri, naso lungo, bocca grande, meoto prominente,marca nera sulla guancia destra, mano sinistra storpia,piede destro zoppo,linguaggio balbettante, accento francese. Morali= Melanconia,dissolutezza,mancanzaallepro messe, viltà,abitudine alla menzogoa, jocostanza .... Civili= Patria,Rodez inFrancia,condizione,awmo gliato, professione, possidente... Se la mia attenzione deve afferrare tutte queste idee alla volta, si troverà insufficiente al bisogno; molto maggiore si farà la difficoltà, se per pensare nel tempo stesso ad altra persona , sono costretto a schierarmi avanti alla mente con egual melodo tutte le qualità che la caratterizzano. Se al contrario chiamo la prima Pietro, la seconda Paolo , potrò facilmente richiamarmi l'una e l'altra, distinguerle tra di loro, paragonar!e insieme.... Queste parole sono poi ancora più necessarie,allorchè si vogliono esprimere le qualità comuni a molti oggetti, a cagiode d'esempio, le qualità che si trovano in tutti gli u o miniod intuttiglianimali,ilchecostituisceleideeastratte, come sidissedisopra,ovveroallorchèsivoglionoesprimere gli oggetti creati dalla nostra mente, come le idee di gloria, d'iofamia , di virtù, di vizio ... Sebbene quando pronuncio le parole uomo , animale. non mi si schiarino alla mente tutte le idee elementari che bo unito a queste parole , cionnonostante ne veggo il  140 TEORIA DELLA SENSAZIONE porto, ne seolo le differenze, ne scorgo le somiglianze, alla stessa'maniera che sebbene pronunciando i numeri 100,000 e 10,000 non vegga le unità che li compongono , so però che l'uoo sta all'altro come 100 a 10, ovvero come to a 1, e conoscendo la maniera con cui questi dumeri sono stati formali,posso,ogni voltache voglio,separarne lemaggiori masse , scendere alle minori , per arrivare alle minime e fi. palmente agli elementi.Supponete che per isbaglio qualcuno invece di dire che 1000 è decuplo di100 ,dica che 100 ė decuplo di 1000 ; ben tosto l'abitudine chenoi abbiamo acquistata d'attribuire a queste parole certe relazioni tra di esse,agisce sulloro suono, e cifa scorgere all'istante l'as surdità dell'accennata proposizione. Il linguaggio si è per rap   141 noi come quelle traccie che il piede del viaggiatore imprime sull'arena di un vasto deserto, le quali lo guidano, quand'egli voglia,al punto doode parti. Le parole che nella loro origine eranonomi propri, diveonero insensibimente nomi appellativi. Può in conse guenza accadere in forza delle associazioni ideali e sentimen taliche uo nome generalerichiami uno degli individui ai quali s'applica. Ma lungi che ciò sia necessario alla forza del raziocinio, è sempre una circostanza che tende ad illu derci.Si può paragonare uno spirito che ragiooa ad un giu d i c e c h e d e v e d e c i d e r e t r a c o n t e n d e n t i. S e i l g i u d i c e n o n conosce se non le loro relazioni al processo,s' egli ignora i loro pomi , s'egli li designa per lettere dell'alfabeto o pe’no mi fittizidiTizio,Cajo,Sempronio,eglièquasinecessaria mente imparziale.Cosi in una serie di ragiopanenti noi cor riamo medo rischio diviolare le regole della logica,allorchè la nostra attenzione si fissa sui semplici segni,e quando l'im maginazione, presentandoci oggetti individuali, non esercita sulnostro giudizio la sua influenza e non viene a sedurci con accidentali associaziooi. Le parole facilitano vie maggiormente l'esercizio del pen siero, 1.° Quando il loro suono imita il suono della cosa espressa , come sono le parole belato, cigolio,scricchiolare. Anche le parole tracotante, orgoglioso, baldanzoso .... colle vocali piese rinfiancate dalle acconce consonanti,e colla moltiplicità delle sillabe spirano una cerla audacia di suono analoga all'indole dell'oggelto che esprimono ; 2.° Quando accennano l'uso o la proprietà della cosa indicata; cosi Fieberrinde o scorza della febbre nel linguag gio tedesco, che accenna l'uso e laproprielà di questo ve getabile , é preferibile alla parola Quin-quina. Per la stessa r a g i o n e l e p a r o l e c u i il n u o v o s t i l e i n d i c a v a i m e s i n e l l ' a n n o , avevano più pregi che quelle dell'antico: fiorile ossia il mese d e ' f i o r i, v e n d e m m i a t o r e o s s i a il m e s e d e l l a v e n d e m m i a , e r a n o nomi ben più espressivi che maggio e oltobre.... ATTENZIONE ERAZIOCINIO.  Al contrario, allorchè si dà il nome di Pino del Nord al'alberoprezioso chetuttelenazionimarittimeriguardano come migliore per le alberature , si fa supporre che questi bei pininon possono crescere s e donne'climi glaciali, mentre trovansi nella Lituania,in altre provincie più meri dionali, in quelle stesse i cui fiumi corrono verso il Mar Nero.   La parola Gallo d'India rammentando che questo ani male è natio d'America, fu ignolo ai Romani , venne uel l'Europa oel 16.° secolo, è per più titoli preferibile all'insi gnificante parola pollo. Coquetterie infrancese(civetteria)rappresentaalvivo ilcarattere d'una donna galante, che tiene a bada mille amanti,a guisa d’no gallo che vezzeggia cento galline ad un tempo (1). Al contrario allorchè gli antichi chimici ci parlavano del fegalo di zolfo, del butirro d antimonio dei fiori di zinco .... spingevano il pensiero sopra immagini non applicabili agli oggettiche volevano iudicare; 3.° Quando le parole serbano tra di esse un cerlo rap porto costante,come leparole quaranta,cinquanta, sessan ta,sellanta,Ollanta,novanta,ciascuna dellequaliavendo la stessa desinenza , è formata dalla moltiplicazione del fat. comune dieci, ne'numeri naturali quattro, cinque, sei....dello stesso ordine progressivo de numeri nalurali. Siano i nomi delle nuove misure Myriametro uoilà di Kilometro unità di Ectometro unità di (2) L'influenza del linguaggio sulle operazioni del pensiero si scorge sulla nazione chinese ; la quale , a fronte delle altre incivilite,  142 TEORIA DELLA SENSAZIONE 0.01 di metro Centimetro unità di 0.001 di metro Si vede che dalla massima alla minima misura v'è una pro. gressione decrescente che segue la stessa legge, di modo che essendo data una di esse, si possooo ritrovare le prece deotie lesusseguenti.Alcontrarioleantichemisuredipo sla,lega,lesa,pertica,passogeometrico,passo ordinario, braccio,auna,piede,pollice,linea,punto....non es sendocrescentio decrescentinellastessaproporzione,D00 aveodo tra di esse rapportocomune, confondono la m e m o ria ( V. p. 80 , 81 ), e colla notizia d'una di esse non si può giungere alla cognizione d'alcun'altra;dicasi lo stesso dellealtremisure ede'pesi puovi ed antichi,calcolati iprimi in ragione decupla e costante, i secondi senza nessuna ra gione graduata e regolare (2). (1) Cesarolti. tore Decimetro unità di 0.1 di metro Metro upità di 10 metri 10,000 metri 1,000 metri Decametro 100 metri unità di   ATTENZIONE E RAZIOCINIO. 143 diritla,ne avrò ildoppio in questa.Dimando qual è il u nunero de'gettoni che avevo da principio in ciascuoa 6 mano? « Qui si banno due condizioni note, o , per parlare « come i malematici, due dati; l'uno, che se fo passare 6 un gellone dalla diritta alla sinistra , ne avrò egual o u u mero in ambe le mani ; l'altro che se lo fo passare dalla « sinistra alla diritta, ne avrò il doppio in questa. Ora roi «vedete,che,s'eglièpossibiletrovareilnumero ch'iovi u dimando , ciò non può farsi, se non osservando le rela « zioni che haono i dati fra loro; e comprendete che tali « relazioni saranno più o meno sensibili, secondo che i dali « saranno espressi in un modo più o meno semplice. quan u do le si toglie un gellone , è eguale a quello che avete u nella sinistra, quando a lei se ne aggiunge uno , esprime « reste il primo dato con molte parole. Dite dunque più ubrevemente:ilnumero dellavostradestra,scemalod'una unità,è uguale a quello della sinistrapiù un'unilà;ov « vero:ilnumero della destra meno un'unità è uguale a si può dire quasi barbara, sottomessa ai pregiudizi più assurdi, sta zionaria da più secoli,altesa l'imperfezione della sua lingua.Mentre le nostre liogue d'occidente e le più belle d'oriente riproducono lulle leparole con un solo numero di lettere diversamente combinate , nella lingua chinese, quasi ciascuna parola ha il suo segno partico lare; lo studio della scrittura esige quindi un tempo infinito. L'in certezza e l'indeterminazione del senso delle parole passando a vi cenda dal linguaggio orale alla scrittura,dalla scrittura al linguaggio orale, producono una confusione da cui i più dotii possono appena schermirsi colla più grande fatica.Egli è evidente che siffattalingua non è buona che a perpetuare l'infanzia d'un popolo , desaligando seoza 'frutto le forze degli spiriti più distinti, ed offuscando nella loro sorgente ipriini Jampi della ragione. Gioja. Elein, di filosofia. « Se voi diceste : il numero che avete nella destra  4. Acciò il discorso faciliti l'esempio del pensiero,è necessario che sia minimo il numero delle parole,invariabile l'oggetto indicato,precisata, ovunque è possibile, la quantità · trarrò l'esempio da Condillac: isAvendode'gelloninellemiemani,senefo passar « uno dalla mano dirilla alla sinistra, ne avrò tanti nell'una « quanti nell'altra; e se nefo passar uno dalla sinistra alla « Non si tratta d’indovinare codesto qumero , facendo « delle supposizioni ; bisogna trovarlo ragionando e passando « dal cognito all'incognito per uoa serie di giudizi. 11   quello della sinistra più un'unità ; o infine ancor più bre «vemevle:ladestraweno unoegualeallasinistrapiùuno. pio in questa. Dunque il numero della mia sinistra sce malo d'una unità è la metà di quello della destra accre « sciuto d'una unità; e per conseguenza esprimerete il se « condo dato dicendo : il numero della vostra mano diritta « accresciuto d'una unità è uguale a due volte quello della 6 vostra sioistra scemato d'una unità. « Tradurrete questa espressione in un'altra più sem “ plice , se direte : la destra accresciuta d'un'unità è uguale « a due sinistre scemate ciascuna d'uu’unità ; e giungerele “ a questa espressione la più semplice di tutte : la dirilla « più uno uguale a due sinistre meno due. Ecco dunque le « espressioni, alle quali abbiamo ridotti i dati : u Questa sorta d'espressioni chiamasi equazioni in m a «tematica.Sono compostediduemembriuguali.Ladirilla u m e n o u n o è il p r i m o m e m b r o d e l l a p r i m a e q u a z i o n e : l a « sinistra più uno, il secondo. « Le quantità incognite sono inescolate alle cognite in 6 ciascuno di questi membri. Le cogoite sono meno uno più uno , meno due : le incognite sono la diritla e la sini “ sira, coo cui espriaiete idue numeri che andate cercando. « Finchè le cognite e le incognite sono cosi mescolate w in ogni membro delle equazioni,non è possibile risolvere u ilproblema.Ma nou v'è bisogno d'un grande sforzo du « riflessione per osservare, che se vba un mezzo di traspor “ tare lequantità d'un membro all'altro, senza alterare « l'eguaglianza che passa tra loro, possiano , bon lasciando « in un membro che una sola delle due incogaite; sepa “ l'arla dalle cognite, colle quali è mescolala. Questo mezzo si preseula da sè stesso; perchè se la « diritlameno uno è uguale alla sinistra più uno, duoque  144 TEORIA DELLA SENSAZIONE « Per tal guisa di traduzione in traduzione arriviamo « alla più semplice espressione del primo dato. Ora quanto « più abbreviarete il vostro discorso, più si ravvicioeranno « le vostre idee,e quanto più saraono vicine, più vi sarà « facile di conoscere tutte le loro relazioni. Ci resla a tral * tare il secondo dato come il primo , e bisogna tradurlo u nella più semplice espressione. « Per la seconda condizione del problema, s’io fo pas “ sare un geltone dalla sioistra alla diritta, ne avrò il dop « La diritta meno uno uguale alla sinistra più uno. « La dirilta più uno uguale a due sioislre meno due.   ATTENZIONE E 'RAZIOCINIO. 145 « La diritta uguale alla sinistra più due. « La diritta uguale a due sinistre meno tre. « li primo membro di queste due equazioni è laslessa quantità; la dirilta; e vedete che conoscerete questa quan lità, quando conoscerete il valore del secondo membro e dell'altra equazione. Ma ilsecoodo membro « della prima è uguale al secondo della seconda , poiché « sono uguali l'uno é o altro alla stessa quantità espressa “ dalla dritta; duoque potete formare questa terza equa u ziove: « La sinistra più due uguale a due sinistre meno tre. « Due più tre uguale a due sinistre meno una sinistra. « Due più treuguale ad una sinistra. “ Cinque ugualead una sinistra. « Il problema è sciolto. Avete scoperto che il numero de'geltooi che ho nella mano sinistraè cioque.Nelle equa u zioni , la diritta uguale alla sinistra più due , la diritla uguale a due sinistre meno tre, troverete che sette è il nu 6 Inero chc ho vella diritta. Ora questi due numeri cioque 6 e sette,soddisfanno alle coodizioni del problema. quando un problema è così facile,come quello scioltopur 6 ora, essa ne abbisogna maggiormeote, quando iproblemi  66 65 56 dell'una « la diritla jolera sarà uguale alla sinistra più due: e se la “dirittapiùunoèugualeadue sinistremeno due,dun « que la diritta sola sarà uguale a due sinistre meno tre: « Sostituirete dunque alle due prime le due seguenti equa zioni. 6.Allora non vi resta che una incognita, la sinistra, e a ne conoscerele il valore , quando l'avrete separata, vale a » dire,falte passare tutte lecogoite dalla stessa parte. Di - rete dunque Voi vedete sensibilmente in queslo esempio come la asemplicitàdelle espressionifacilitailraciocinio,ecom ú prevdele che se l'analisi ha bisogno di tal linguaggio sono complicati. Così il vantaggio dell'analisi nelle male 6 m a t i c h e n a s c e u n i c a m e n t e d a l p a r l a r e s s e il l i n g u a g g i o p i ù “ semplice.Una leggiera idea dell'algebra basterà per farlo 6 ipleadere » (1). (1) « In questa lingua non si ha bisogno di parole. Il più si «esprimecolseguoto,ilmeno cou--;iuguaglianzacon « siindicaou le quantitá con lellere o citre:Ý , per es.,sarà ilnu 6 mero de'geltoni che ho nella destra, e Y quello della sinistra. e   Non sarà fuoridi proposito l'osservare che non alla sola semplicità del linguaggio, come pretende Coodillac , sonodebitricidellaloroperfezionelematematiche,ma anche 1.o alla prudenza de'loro seguaci, la quale consiste nel rite nersi nei limiti delle sensazioni e loro rapporti; 2. all'inva riabilitàde’rapportitraglioggettidaessichiamatiad esa m e ; 3.o alla possibilità di sottomettere le loro conclusioni alle verificazioni de'sepsi e degli strumenti. Cominciamo dal 1.°:esistono degli oggetti estesi;ecco la sensazione: glioggetti estesi possono misurarsi gli uni per gli altri; ecco l'osservazione che produce la geometria. L'es. senza dell'estensione, gli elementi che la compongono, s o n o indagini che i matematici abbandonano agli oziosi metafisici, e quindi non si espongono ai loro errori. Dite lo stesso delle altre quantità esaminate dai matematici. a « Cosi X – 1 = Y to 1, significa che il numero de'gettoni che ho « nella destra, scemato d'un'unità è uguale a quelloche ho nella asinistra,accresciutod'un'unità,e X41 =2Y -2,significache « ilnumero della mia destra accresciuto d'un'unità è uguale due volte a quello della mia sinistra diminuito di due vuità.Ï due dati « del nostro ploblema sono dunque rinchiusi in queste equazioni: 5Y •FinalmentedaX = Y+ 2,caviamoX = 5 to 2= X = 2 Y - capiamo egnalıneote X = 10  146 TEORIA DELLA SENSAZIONE 2. « X fo 1 = 2 Y - 2 che diventano, separando l'incogoitadel primo membro “Y +2= 2Y - 3 a che diventano successivamente 9 6X uX 2.Y -3 « De'due ultimi menibri di queste equazioni facciamo 662 2Y "2*3=2Y-Y “2of3= Y lamatematicanonvisonocircolipiùomeno ro tondi, linee più o meno perpendicolari,superficie più o meno quadrate , la misura di tutti i triangoli è uguale alla base moltiplicata per la metà dell'altezza....E quando un rapporto come quello del diametro alla circonferenza, cagiond'esempio,nonpuòessereespressoconesattezza i matematici continuano ad essereesatii,additando la quan tità relativa all'uso che se ne debbe fare, e che i seosi più 6X – 1 = Y to 1 66 Y+2 0 7;cda 3   ATTENZIONE E RAZIOCINIO. 147 fini non potrebbero additare con precisione maggiore.I m a tematici non dicono,ilcircolo sirassomiglia al triangolo come un oratore dirà, l'uomo si rassomiglia al lione, e sarà costretto a lunga circonlocuzione per fissare la specie di ras somiglianza ch'egli annunzia, CAPO VIII. Allasorpresadeve succedereinciascunolapersuasione divedereun essereinteramentesimilealui,essendosimili le forme e i moti esteriori (pag. 25 , 26 ). Infatti meolre it selvaggio A,acagioned'esempio,staccaun frattodalvi cino albero, il selvaggio B , che si ricorda d'avere fatto più vollelostesso,spintodallafame,conchiudecheA èmosso (1) I tre antecedenti riflessi dimostrano falsal'asserzionedi Con dillac, cioè che « le matematiche non bando sulle altre scienze altro «'vantaggio che di possedere una migliore lingua,e che si procure “ rebbe a queste uguale simplicità e certezza , se si sapesse dar loro « de'segnisimili».Languedu Calcul,pag 7,8,218.  Continuazione dello stesso argomento. 3.° Le ideematematiche possono essere rese esteriori, cioè visibili, palpabili, misurabili, in una parola sono suscel tibilid'esseregiudicatedai sensiedaglistrumenti.Coll'ajuto delle cifre e delle figure tracciale sulla tavolta,o rappre sentate da corpi solidi,iconcetti matematici compariscono rivestiti di forme visibili per chi ha gli occhi , tangibili per chi ne è privo. L'espressione dei rapporti di quantità è sol tomessa ad una verificazione sensibile, facile, immediata ; n i s s u n o h a f i n o r a o s a t o r i g e t t a r e il g i u d i z i o d ' u n a b i l a n c i a , o sospettare l'imparzialità d'una tesa, o la veracità del gra fomeiro ... (1). 9 1. Cenno sull'origine delle lingue. Colla scorta de'principii esposti nell'antecedente sezione, ci sarà agevole cosa il seguire i filosofi nelle congetture con cui spiegarono l'origine delle lingue. Si suppongano due selvaggi A e B che s'incontrano la prima volta. Il primo sentimento che si svolgerà oel loro animo,sarà lasorpresa sempre figliadella novilà. !   Queste conclusioni si rinforzano in ragione de'movimenti e delle azioni che ciascuno eseguisce, perchè a queste azioni sono associate idee e sentimenti uguali. B inteude dunque le azioni di A , leggeodo nel proprio animo e consultando la propria memoria. A intende le azioni di B per gli stessi motivi ; si può dire che l'uno è specchio all'altro. B accorgendosi che comprende le azioni di A ,conchiude che A comprende le sue. B compresii sentimenti di A ,vedeodogli eseguire certe azioni;eglicercherà di far comprendere isuoi,ripetendo le azionistesse:ecco illinguaggio de'gesti. I sentimenti da comunicarsi o riguardano oggetti esterni presenti o lontani, ovvero riguardano gli interni sensi del l'animo. Allorchè l'oggetto è presente, gli occhi direlti verso di esso,ildito che loaccenna,labacchettachelolocca,il corpo che si slancia verso di esso o se ne allontana , for mano tutto ildizionario della lingua:questi segni possono essere chiamati indicatori. Allorchè si tratta d'oggetti lontani , per esempio , d'un animale che si riuscì ad uccidere, o d'un altro da cui si fu morsi,ilselvaggio ne ripete l'accento,l'urlo,ilgrido,e ne esprime cogli atteggiamenti delle mani, delle braccia, della testa le forme piùrimarchevoli. Questi segni possono essere chiamati imitatori. Il rumore prodotto da un torrente che precipita, da un monte che scoscende, dal vento che fischia,  148 TEORIA DELLA SENSAZIONE da uguale sentimento. A porta alla bocca il frutto e lo m a stica; B rammentando ilpiacere che provò mangiandolo, con chiude che A lo prova ugualmente. Ad improvviso rumore A sospende l'operazione del mangiare, alza il capo immota col guardo fisso dal lato donde proviene il romore ed in attodi chi tende l'orecchio; B colpilo dallo stesso rumore e dagli atti di A , sente sorpresa e timore , e conchiude che A è sorpreso e intimorito.Cessato il rumore, A riprende tranquillamente l'operazione del mangiare; la calma che suc cede nell'animo di B gli dice che A si è calinato. Dopo questa scoperta il bisogno reciproco di comuni. carsi a vicenda i propri sentimenti sembra naturale , perchè è naturale la reciproca debolezza e comuni i pericoli. I due selvaggi intendendosi reciprocamente, possono sperareun ajuto ne'loro bisogni, un sollievo de loro dolori, una difesa contro gli assalti delle beslie feroci,   ATTENZIONE E RAZIOCINIO. 149 I segni indicatori, imitatori, figurati, divengono triplice canale dicomunicazione pe'sentimenti e leidee in forza delle leggi d'associazione. Classificando gli elementi di questo linguaggio secondo la natura de materiali che servono a formarlo, se ne distin gueranno tre specie, i gesti, le parole, la scrittura sim bolica. (1) La storia antica ricorda spesso l'uso de'simboli anche presso nazioni già uscite dalla barbarie e sopratutto pressole nazioni orien tali. Dario essendosi inoltrato nel territorio della Scizia colla sua ar mata,ricevettedalredegliSciti un messo che,senza parlare,gli  daltuonochescoppia. ilcantodegliuccelli,gliaccenti delle passioni sono altretanti suoni che il selvaggio ripete per farneiolendere l'oggetlo ad ogni momento di bisogno,ac compagnandoliperlopiùcoigesti. Se91 Allorché sitratta di esprimere i propri bisogni, i pro pri timori,in somma le affezioni che von simostrano ai sensi, il selvaggio ripete dapprima quelle attitudini del corpo c h e le a c c o m p a g n a n o ; p e r e s e m p i o , B v e d e o d o il l u o g o o v e rimase spaventato , ripeterà i gridi e i moti dello spavento , accidA nonsiespoogaaldaonocuifuespostoeglistesso. Un sordo e muto volendo indicarci,che fu calpestato da un cavallo, esprime dapprima con ambe le mani,il moto preci pitoso de'piedi del cavallo, quindi accenna ilproprio corpo c h e c a d e s u l s u o l o ; p o s c i a r i p e t e il m o t o d e l c a v a l l o , e s c o r r e colle mani le varie parti del corpo nelle quali fu calpestato. Dopo i segni esterni che accompaguano gli affetti, il sel vaggio,aguisade'sordie muti,coglielasomiglianzache scorge tra i sentimeoti dell'animo e le qualità de'corpi esterni, e si serve di queste per indicare quelli; per es., le passioni vive s'assomigliano alla fiamma, il loro contrasto allatempesta,la loro calma a cielo sereno,l'animo dubbioso a due mani che pesano due corpi...; ecco i gesti simbo lici e figurati. La prima specie comprende le azioni e le attitudini del corpo impiegate per imitare le forme e i moti degli oggetti esteriori;la seconda , gli accenti della voce con cui si ripe tono i gridi degli animali, e i suoni che accompagnano il moto degli esseri inanimati ; la terza, la pittura che si farà soventi sulla sabbia , sulla corteccia degli alberi, od altro , sia degli oggetti che si vuole indicare ,sia delle azioni che vi si riferiscono (1).   I suoni della voce altrondee le articolazioni che gli ac compagnano , possono, sia per sè stessi, sia per la loro c o m binazione, presentare colleidee molteanalogie che non col piscono a prima vista, ma che sono facilmente sentite ed avidamente accolte dalle società che si pregiano di dire molte cose nel ininimo tempo, e colla minima fatica possi bile. Il linguaggio articolato dovette dunque arricchirsi di giorno in giorno. L'invenzione delle parole indicatrici de generi e delle specie,impossibile aspiegarsi agiudizio di Rousseau, sem bra facilissima, giacchè se un albero particolare A in dato luogoe tempo fu iodicato colla parola albero, è cosa natu. rale che la stessa parola venisse applicata ad un albero sia m i l e , q u i n d i a d u n t e r z o , a d u n q u a r t o . . . . C o s i c c h è si per mancanza d'altra parola che io forza della legge d'aoa. logia (pag. 24 e 25)il nome proprio dovette divenire no me appellativo. Si giunse finalmente a far uso di segoi affatto arbitrari e vi si giunse in due maniere; dapprima per la degenera zione successiva del linguaggio primitivo e imitatore, poscia per convenzioni espresse. dodicipezziilcadavere,e glispedi alle dodici tribù di I s r a e l e , i n t e n d e n d o c o s i d i r e n d e r e c o m u n e a d e s s e il s u o d o l o r e , e chiamarle alla vendetta. Il suo linguaggio fu inteso e il suo desiderio soddisfatto:la tribù di Beniamino fu sterminata.  150 TEORIA DELLA SENSAZIONR De'gesti non si può fare grande uso nelle tenebre de con persone alquanto distavti;la scritlura simbolica,benchè più perfetta de'gesti e permanente, soggiace agli stessi in convenienti, oltre di essere più difficile: al contrario gli accentidella voce,pronti,facili,variabiliintuttelemaniere, pon tolgono dall'occupazione chi ne fa uso, e lasciano il potere di parlare e diagire; queste ragioni fecero prevalere i suoni articolati. De'dotti laboriosi hanno spiegato come la lingua pri mitiva alterata dal tempo, dallamischianza del popolo, e da diverse altre cause, si trasformò nelle nostre liogue moderne ; presentóun uccello, un sorcio, una rana e cinque freccie; col quale simbolo il re voleva dire che se i Persiani non fuggivano come gli uccelli,nonsinascondevanointerracomeisorci,nonsisommer. gevano nell'acqua come lerane,cadrebberovittimedellefrecciedegli Scili Il Levila d'Efraim volendo vendicare la morte della sua sposa , ne fece   ATTENZIONE E RAZIOCINIO. 151 e come questa alterazione seguendo un corso differente nei differenti paesi, rese le lingue sì dissimili tra di loro. Quanto alle convenzioni che furono fatte,non è neces sario molto schiarimento. Si osservò che le parole non erano segni d'idee e di sentimenti, se non perchè gli uomini ac consentivano a prestar loro lo stesso senso. Allorchè dunque conveone esprimere delle idee nuove, pulla si trovò di più semplice che d'intendersi per scerre loro una parola. Questa convenzione, formata dapprima tra di quelli che avevano più pressante bisogno di designare questa idea, divenne in seguito comune agli altri. Ciascuna arte, ciascuna scieoza presentò le sue parole alla società , e lingue particolari. I segni arbitrari dovettero laloro forzasolamente alla doppia abitudine di quelli che gli impiegano e di quelli a cui si dirigono. S 2. Cause de'diversi sensi associati alle stesse parole. II Queste azioni,questi segni esteriori,che il ragazzo imita, sono uniti (nella mente di quelli che gli servono di m o dello)a deisentimenti;questi sentimentilosonoadalcune idee ; i sentimenti e le idee a suoni articolati. Il ragazzo imita dapprima i movimenti, ripete poscia i suoniarticolatio leparole,acagione d'esempio,padre, madre, vizio, virtù, religione, demonio ....  Il ragazzo non ha bisogno d'inventare i segni artificiali delle idee; egli gli impara soltanto; ciò che per gli antichi fu un lungo sforzodi genio, non è per lui che un esercizio meccanico della memoria . Bentosto il ragazzo deve provare un principio disenti mento , ridendo all'altrui riso, piangendo all'altrui pianto, fremendo all'altrui fremilo ... benchè ne igoori la causa. Ma l'idea,s'ellaesiste,essendosemprelapiùdiffi cile, la più lontana, la meno interessante a conoscersi, il ragazzo èimitatore come lascimia (pag.41).Gli a l t r u i m o t i , i g e s t i , l ' a c c e n t o , P a r i a , il t o n o , t u t t i g l i a t t esteriori lo colpiscono nei primi anni della sua vita e d o c cupano la sua attenzione;egli è spinto ad imitare ed arió petere tutto ciò che vede, ed isuoi organi mobili cootrag. gonol'abitudinedimolte azioni,priache ilpensierosia capace di penetrarne lo scopo e d'osservarne ilmotivo (ins ginocchiarsi,fareilsegnodella croce,piegarela fronte, giungere le mani , levarsi il cappello, fuggire nelle tenebre, baciar l'altrui mano , fare inchini.... )   La ripetizione frequente diquesti suoni,gesti,sentimenti gli unisce con stretti nodi e taliche quando i suoni vengono a colpirel'orecchio o sipresentano alla memoria,spingono gli organi motori ai gestirelativi, e il sistema sensibile agli associati sentimenti.Questa è la cagione per cui esempi ripe tuti, antiche abitudini forzano la maggior parte degli uomini ad ammirare , fremere, tremare,sdegnarsi, passionarsi in tutti imodi al suono delleparole le più insignificanti,le più va ghe , le più vuote d'idee, e che appunto per la violenza dei sentimenti associati si sottraggono alla apalisi. Conviene a n che osservare che più le parole sono confuse ed oscure, più piacciono e soddisfanno il gusto degli ignoranti (1). Queste ragioni ci spiegano il motivo per cui le stesse cose fanno impressioni diverse, secondo che sono pronunciate in una lingua o in un'altra. Si osservò , dice Rayoal , che i Giudei stabiliti in gran numero alla Giamaica si facevano giuoco d'ingannare itribunali di giustizia.Un magstrato so spettò che tale disordine potesse provenire d a ciò che la B i b bia,su'dicuidovevanogiurare,eratradottainidioma in glese;fu quindi decretato che per l'avenire iGiudeigiure. rebbero sul testo ebraico.Dopo questaprecauzione glisper giuri divendero infinitamente più rari.Per simile motivo A u gustolasciòsussislereeademmagistratuum vocabula,acciò ilpopolo conchiudesse che sussisteva ancora la repubblica, s u s s i s t e n d o i n o m i d e l l e s u e m a g i s t r a t u r e , e il r i s p e t t o m a c chioale eccitato neglianimi popolari dalle parole si,fis sasse sulle nuove cariche che ritenevano le antiche denomi nazioni. (1) Nel 1666 trovandosi Leibnizio a Nuremberg seppe che ri era in quella città,una compagnia di chimici , che col più profondo se greto travagliavano alla ricerca dellapietrafilosofica.'Ildesideriod'en t r a r v i, g l i s u g g e r i o y ' i d e a c h e p r o d u s s e l ' e f f e t t o b r a m a t o ; e g l i e s t r a s s e dagli antichi alchimisti una serie di frasi oscure , la cui unione for mava una lettera più oscura ancora e non intesada luistesso.Questa lettera divenne un titolo peressere accolto: Leibnizio, tanto più a m mirato quanto meno inteso, fu riconosciuto addetto esegretariodella società.Bailly, Éloge de Leibnitz.  152 TEORIA DELLA SENSAZIONE ragazzo o non la verifica che tardi, come l'idea di padre, o non la verifica che in parte, come quella di vizio, o,non la verifica mai nè può verificarla, come l'idea di demonio , magia,angelo,fortuna esimili.   Per eguale ragione, allorchè le idee più belle e più su blimi vengono tradotte in lingua usuale,bassa, plebea, per dono parte di quel pregio che conservano in una lingua an tica o straniera. Quella specie di spregio che si attacca agli usi volgari e quella specie di rispetto che va unito alle lin gue morte od estere, sembra comunicarsi all'idea e degra darla a'nostri occhi o sublimarla. L'indeterminazione del linguaggio più in morale e legi slazione ha luogo,cbe nelle arti e nella storia naturale:gli oggetti di queste sono verificabili e misurabili coi sepsie cogli strumenti , quindi le stesse parole risvegliano in tutti presso a poco lestesse idee:al contrario gli oggetti morali non essendo verificabili con eguale precisione, restano nella nebbia della fantasia; le parole, da cui vengono indicati, partecipano della loro oscurità ed incostanza,eper lopiù risvegliano idee diverse nelle diverse teste in ragione delle circostanze in cui furonoapprese (V.pag.27-29).Pre tendere che le slesse parole ( principalmente se trattasi di cose morali)risveglinointuttele stesseidee,eglièpre tendere che quando è mezzo giorno a Milano sia mezzo giorno dappertutto. Nei giardini d'Epicuro la parola virtù risvegliava idee ridenti e piacevoli; sotto i portici di Zenone, idee fosche e melanconiche. Legge significava la volontà di lutti per un Greco , la volontà d'un solo per un Persiano. le indicava per l'addietro un despota sciolto da ogni legge, attualmente quest'idea è più limitata , ed ha diversi signifi, cati a L o n d r a , A m s t e r d a m , C o p e n h a g u e. Libertà nella m e n t e del filosofo indica la somma delle azioni non vincolate dalla Jegge;nellamentedel volgo,lafacoltàd'invadereibeni de'ricchi e di far nulla. Il massimo danno dall'indetermina zione delle parole si fa sentire ne'trattati tra,le nazioni, in cui la loro ambiguità diviene,causa o pretesto di guerre, nei codici criminali in cui l'oscurità d'una frase estende Barbi. trio del giudice a danno dell'innocente ( ),ne?contratti, nei codici civili, nelle tariffe daziarie, in cui l'incertezza d'un'e spressiooe è fonte di mille liti tra i cittadini, e vessazioni al (1) Havvi alla China noa legge che condanna a morte quegli che non mostra sufficiente rispetto alsovrano. Comparve un giorno nella gazzetta della Corte un aneddoto non raccontato con perfetta esaltezza : il redattore fu arrestato, e i tribunali décisero'che mentire nelle gaz zelte della corte era non mostrare sufficiente rispetto al sovrano , quindi il redattore fu messo a morte,  ATTENZIONE E AAZIOCINIO.“ 153   commercio. La divisione uniforme del regno in dipartimenti, distretti, cantoni,comuni, l'uniformità de'pesi, inisure, monete , gli stessi libri nelle università , la stessa educazione ne'licei.... lendono a dare alle parole la stessa significa zione, a diminuire le dispute, e quindi una somma noo de. finibile di coilisioni sociali. Oltre l'indeterminazione del linguaggio proveniente dal modo con cui l'impariamo e dalla natura dell'oggello che esprime,bisogna dire che in ogni lingua non v'baquasi una parola che rappreseoti sola una idea chiaro-distinla da se stessa;lutte prendono sensidiversi dal posto che occupano nel discorso,dalle parole che le seguono o le precedono, dall'accento, dal gesto, dagli atti che le accompagnano. La medesima parola unita ad alcune ti mostra un dato espelto d'idee,uo altro,sesicollegaconaltre;piùavanti,piùin dietro le ne farà vedere dei diversi; detta con un tuono as severante, ha un senso; con un tuono di meraviglia, un allro; con irrisione, un terzo; con inlerrogazione, un quar to. ..cosicchèsipotrebbeassomigliareleparoleaicolori delle peone d'un colombo, che variano secondo ilmoto del s o l e , d e l c o l o m b o , 'd e l l ' o s s e r v a l o r e . Sono quindi quovi,footi d'errori i diversi sensi che le stesse parole esprimono passando da un ordine di cose ad un altro. Un oratore, dopo avere esaltato i nomi di molti personaggi illustri dell'antichità, si dirige così a'suoi udi iori:ingrati chenoisiamo!noi cilngniamo della brevita della vita, mentreiè innostro polere di renderci immortali. Egli è evidente che questa argomentazione confonde due m a niere di vivere che sono distiolissime e diverse. : Lo stesso difetto sifa vedere nella seguente massima di Rousseau :.... se la natura ci ha destinati ad essere sani, l'uomo che medita è un'animale depravato. Perchè questa sentenza fosse'vera,converrebbe provare che il primo ed unico destino dell'uomo è di essere sano ; che la virtù consiste nella sanità, e che la meditazione è in compatibile coi buoni costumi. Allora un dollo sarà un es sere depravato come ilsoldato che espone la sua sanità e la sua vita in difesa della patria : si potrà dire che ogni a m malato è uno scellerato,un mostro; che un monco è un  154 TEORIA DELLA SENSAZIONE Sano è qui'addiettivo del corpo,e significa uno stato fisico; depravalo è addiettivo dell'auimo,e significa uno stalo morale.   ATTENZIONE ERAZIOCINIO. 157 animale depravalo, avendoci la natura destinati ad essere sani come ci ha destinati ad avere due braccia ... Aliro esempio. Bernardin de Saint Pierre vuole che as. solutamente sibandisca l'emulazione dallescuolepubbliche; e per provarech'ella è inutile,argomenta così: Analizziamo questo argomento: l'emulazione per im parare la lezione, per fare dei temi, per studiare le scienze è inutile ugualmente che per giocare, bere, mangiare. L'e mulazione è dunque da una parte e dell'altra la ripetizione della stessa inutilità, e per conseguenza si devono ritrovare pelll'un caso e nell'altro le medesime cause di questa dop pia inutilità. Le funzioni dell'animo non son esse egualmente natu r a l i, e g u a l m e n t e a g g r a d e v o l i c h e q u e l l e d e l c o r p o ? - - E g u a l mente naturali? lo rispondo di no , se per naturali inten desi necessarie ed imperiose. Egualmente aggradevoli ? Q u e stoèpossibile,ma lacausasirifondenelpiacered'essere applaudito, ammirato, ricompensato; quindi l'autore non s'accorge che coi buoni effetti dell'emulazione lepla di pro varne l'inutilità. Finalmente l'interesse, la mala fede, le passioni lulle a b u s a n o d e l l e p a r o l e , p e r c i ò , a l d i r e d i P a r i n i , il m e r c a n t e è « Pronto inventor di lusinghicre fole 6 E liberal di forastieri nomi 6'A merci che non mnaivarcaro imonti.  уоро campagna,come sono necessarie talvolta per farli stu diare? Questa piccolapopolazione ha forse immaginato delle astuzie, e inventati degli artifizi per allungare gli studi, e per ottenere un tema più difficile? 1 Ho io avulo bisogno nell'infanzia di sorpassare i miei compagni nel bere, mangiare, passeggiare, e per corvi pia cere?E perchèèeglislatonecessariocheimparassiasor passarline'mieistudi,pertrovarcidilello?Non hoiopo. tulo instruirmi a parlare e ragionare senza emulazioni ? Le funzioni dell'animo non son esse egualmente naturali, «gual mente aggradevoli che quelle nel corpo? Ora l'emulazione è inutile oel bere e nel mangiare , per che queste operazioni sono comandate dal più pressante,dal più imperioso de'bisogoi,l'awore della vita;ma quantivi e conciliano la santità e la grassezza coll'inerzia e l'ignoranza ? Gli scolari temono forse tanto le ricreazioni quanto temono la dieta? Sono mai state necessarie le mi nacce ed i castighi per condurli al refettorio o farli partire per la   Cromwel, per coprire le sue viste atobiziose col manto della religione,aveva dato alla maggior parte de'suoi reg. gimentiinomi deisantidelTestamentoVecchio.Cromwel, dice uno scrittoreanonimo di quel tempo,ha ballulo illam buro in tutto ilVecchio Testamento; sipuò imparare la ge nealogia del nostro Salvatore dai nomi de'suoi reggimenti. Il commissario di guerra non aveva altra lista che ilprimo ca pitolo di S. Matteo. In tutti itempi, in tutte le religioni,in tuttiipartili,ilfanatismo,ilquale non sipiccò mai diequità, diede a quelli che voleva perdere, non i nowi che merita vano,ma inoai che potevano loro nuocere.Socrate,che depurando le idee superstiziose, le conduceva all'unità di D i o , r i c e v e t t e il t i t o l o d ' a l e o d a i s a c e r d o t i d i C e r e r e : e m p i o chiamavasi presso gli Egiziani chi von adorava un gatto,un bueourcoccodrillo;sidava daiCartaginesilostessoti toloachiabborrivailsacrifiziodelleumane vittime.Ne'pri mi secoli della chiesa i Pagani davano a lutti i Cristiani il nome di Giudei, sforzandosi direuderli odiosi non potendo dimostrarlı irragionevoli. Alla China i nostri missionari che diffondeodo lareligione di Cristo diminuiscono ilconcorso ai tempii de'falsi idoli, e quindi i proventi de'sacerdoti, ven gono da questi dipinti come ribelli ed accusati di congiura coutro loStato.Le espressioni odiose sono uo'arma troppo favorevolealla calunnia perchè ella non s'affretti a farne uso. Egli è sempre un vantaggio l'avere pronta una parola di sprezzo per caralterizzare i torti che si riaproverano ai propri avversari. Con una di queste parole si prova lutto, si risponde a tutto, si difende la propria opinione, si distrugge l'altrui....APascal,che contantasagacitàsvelònellesue lettere provinciali la corruzione della morale gesuitica, fu ri sposto ch'egli era quattordici volte eretico. Gli uomini saggi si guarderaono sempre dalle espressioni dipartito ed esclu sive, e che traggono seco idee accessorie infinitamente varia bili e talvolta cootrarie. Essi dirapoo, a cagione d'esempio, questa legge è conforme all'interesse pubblico,elo prove r'anno svolgendo la somma de'beni di cui è feconda , ma non diranno , per es., questa legge è conforme al principio della monarchia o della democrazia, giacchè se vi sono delle persone nelle cui teste queste parole risvegliano idee d'appro vazione, ve ne sono altre nelle quali succede tulto l'opposto ; quindi se i due partiti si mettono alle prese, la disputa non finirà che colla stanchezza de'combattenti, e per cominciare  156 TEORIA DELLA SENSAZIONE   ATTENZIONE E RAZIOCINIO. 157 CAPO IX. Combinare od inventare. La ninfa della tignuola d'acqua che si trova ne'nostri fiumi, dice Darwin , e la quale s’involge in cerle casucce di paglia, di sabbia, di gusci,s a ben far si che questa sua abi lazione sia alla ad equilibrarsi coll'acqua ; e perciò quando èsoverchiamentepesante,viaggiungeun bocconcellodipa 'gliaodilegno,equando troppoleggiere,unpezzellodi grossa rena.  il vero esame, converrà rinunciare a queste parole appas sionate ed esclusive, per calcolare gli effetti della legge in bene e in male. Osservano gli storici che nel corso della guerra del P e loponneso successe taletrambusto nelleidee e ne'priocipii, che le parole più usuali cambiarono di senso; si diede il nome didabbenaggineallabuonafede,didestrezzaalladu plicità, di debolezza alla prudenza, di pusillanimità alla m o derazione, mentre i tratti d'audacia e di violenza passavano per slaoci d'animo forte e di zelo ardente per la causa pub. blica. Una tale coofusione del linguaggio è forse uno de'sin tomi più caratteristicidella depravazione d'un popolo.Jo altri tempi si può offendere lavirtù; ciò non ostante se ne riconosceancoralasua autorità,quando lesiassegnano de'limiti; ma quando si giunge sido a spogliarla del suo nome, ella perde i suoi diritti al trono, e il vizio se ne im. padronisce e vi si asside tranquillamente. Per capire ciò che succede allora in una nazione, basterà osservare ciò che succede nelle società de'viziosi e scellerati. I ladri, gli ag. gressori , i monetari falsi, i contrabandieri si formano un linguaggio o uo gergo tutto proprio che confonde tutte le idee di vizio e di virtù. Uniti da sentimenti uniformi, volendo vendicarsi dell'opinione pubblica che li rispioge da sè, si compiacciono ad affrontarla; quindi nel loro dizionario sono escluse tutte le impressioni del rossore, alterati i sentimenti del giusto e dell'ingiusto, associate idee scherzevoli ad atti criminosi e nefandi. Una vespa, continua lo stesso scrittore, aveva colla una mosca grossa quasi com'era ella medesima. Posi le ginocchia a terraper meglio osservare,evidiche ellaseparòlacoda e la tesla da quella parle del corpo a cui sono annesse le   ale. Prese ella quindinelle zampe questa porzione di mosca, e s'alzò con essa dal terreno circa due piedi, ma un venti cello leggiere scuotendo le ale della mosca,fece capovolgere l'animale nell'aria, ed egli scese ancora colla sua preda a lerra. Osservai allora distintamenle che colla bocca letagliò primieramente un'ala, e poi l'altra, e quindifuggi via non più molestata dal vento. Questi due animalelti,che sanno disporre le cose in modo , ossia ritrovare mezzi tali da oltenere il fine bramalo, ci danno le prime idee dell'arte di combinare o invenlare. Duhamel osservò che il felore delle sale degli spedali cresceva, avvicinandosi al soffitto; egli immaginò quindi uo ventilatore che facendo comunicarequesta parte delle sale con l'aria esteriore, caccia laria guasta. La combinazione di Dubamel oon suppone nella disposizione dei mezzi più cognizionidiquelledellatigauolaedellavespa:ma ilfine ottenuto essendo molto vantaggioso all'umanità, la combi nazione è più pregevole ; il pregio di questa combinazione cresce, se siriflette ch'ella è applicabile ad altri oggetli, a cagione d'esempio,ai vascelli in mare. lo fatti vi sono delle combinazioni saggissime profondis, sime , e che suppongono infinita destrezza nell'esecuzione; ma siccome non arrecano alcun vantaggio,non hanno alcun pregio agli occhi del saggio. Boverick,meccanico d'uva de, strezza e d’upa perseveranza prodigiosa, fabbricò una catena di duecento anelli che col suo catenaccio e la sua chiave pesava circa un terzo di grano. Questa calena era destinata ad iocatenare una pulce.Egli fece una carrozza che s'apriva e si chiudeva a inolla, era tratla da sei cavalli, portava quattro persone e due lacchè,era condolia da un cocchiere, ai piedi del quale stava assiso un cane, e il lutto veniva strascioato da una pulce esercitata a questo travaglio.L'in. venzione e l'esecuzione di questa macchina puerile fanno desiderare che Boverick avesse impiegalo meglio i suoi la- lenti.Grice: “”Si suppongano due selvaggi” – exactly my way of proceeding. Gioia has a lot of sense. An engraving’s caption has it: ‘statistico e filosofo’ – And I like the fact that like Socrates he did ‘elementi di filosofia ad uso de’ giovanetti’!” -- Melchiorre Gioia, Melchiorre Gioja. Gioia. Keywords: filosofia ad uso de’ giovanetti, galateo, pulitezza, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gioia” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51758072475/in/dateposted-public/

 

Grice e Giorello – il libertino – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo.  – Grice: “I like Giorello: he philosophises on evil and good – the devil wrestles with the angel – but also on Mickey Mouse that he calls ‘topolino’ – “la filosofia del topolino” – and perhaps ore exotically for us Oxonians, on ‘la filosofia di Tex,’ a ‘fiumetto’ of 1948!” –Si laurea a Milano sotto Geymonat). Insegna a Milano. Membro de la Società Italiana di Logica” e de la Societa Italiana di Filosofia della Scienza. Giorello divise i suoi interessi tra lo studio di critica e crescita della conoscenza con particolare riferimento alle discipline fisico-matematiche e l'analisi dei vari modelli di convivenza politica. Dalle sue prime ricerche in filosofia e storia della matematica, i suoi interessi si erano poi ampliati verso le tematiche del cambiamento scientifico e delle relazioni tra scienza, etica e politica. La sua visione politica e di stampo liberal democratico e si ispira, tra gli altri, a Mill.  Si occupa anche di storia della scienza in particolare le dispute novecentesche sul "metodo"e di storia delle matematiche (“Lo spettro e il libertino”). Cura “Sulla libertà” di Mill. Ateo, filosofa in “Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo.” Altre opere: Opere  Filosofia della matematica, Milano, L’nfinito, Milano, UNICOPLI, Lo spettro e il libertino. Teologia, matematica, libero pensiero, Milano, A. Mondadori,  Le ragioni della scienza, Roma-Bari, Laterza,Filosofia della scienza, Milano, Jaca Book, Le stanze della ricerca, Milano, Mazzotta, Europa universitas. sull'impresa scientifica europea, Milano, Feltrinelli, La filosofia della scienza, Milano, R.C.S. libri & grandi opere, Quale Dio per la sinistra? Note su democrazia e violenza, Milano, UNICOPLI, La filosofia della scienza, Roma-Bari, Laterza, “Lo specchio del reame: riflessioni sulla comunicazione: Longo, Epistemologia applicata. Percorsi filosofici, e Milano, CUEM,  I volti del tempo, e Milano, Bompiani, Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del mito, Milano, Cortina,  Di nessuna chiesa. La libertà del laico, Milano, Cortina, Dove fede e ragione si incontrano?, con Bruno Forte, Cinisello Balsamo, San Paolo, La libertà della vita, Milano, Cortina,  Il decalogo. I dieci comandamenti commentati dai filosofi, II, Non nominare il nome di Dio invano, Milano, Albo Versorio, Giulio Giorello relatore al convegno internazionale "Science for Peace", Milano, La scienza tra le nuvole. Da Pippo Newton a Mr Fantastic, Milano, Cortina, Kos. Rivista di medicina, cultura e scienze umane,  4: Dio, Patria e Famiglia, Milano, Editrice San Raffaele, Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, Milano, Bompiani,  Il peso politico della Chiesa, Cinisello Balsamo, San Paolo, Viaggio intorno all'Evoluzione, Mascella, Zikkurat Edizioni & Lab, Harsanyi visto da Giorello, Milano, Luiss University press, Lo scimmione intelligente. Dio, natura e libertà, Milano, Rizzoli, Ricerca e carità. Due voci a confronto su scienza e solidarietà, Milano, Editrice San Raffaele,  Introduzione a Apostolos Doxiadis e Christos H. Papadimitriou, Logicomix, Parma, Guanda,  Lussuria. La passione della conoscenza, Bologna, Il Mulino,. Senza Dio. Del buon uso dell'ateismo, Milano, Longanesi,. Il tradimento. In politica, in amore e non solo, Milano, Longanesi,. Premio Nazionale Rhegium Julii Saggistica. La filosofia di Topolino, Parma, Guanda,.  Noi che abbiamo l'animo libero. Quando Amleto incontra Cleopatra, Milano, Longanesi, TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   CULTURAAddio a Giulio Giorello, filosofo della scienza e difensore della libertàBy Vincenzo VillarosaPosted on 16 Giugno 2020 È morto all’età di 75 anni il filosofo Giulio Giorello, per le conseguenze dell’influenza da COVID-19, dopo aver trascorso due mesi di degenza in ospedale ed essere stato dimesso alla metà di maggio. Successore del maestro Ludovico Geymonat alla cattedra di Filosofia della Scienza dell’Università Statale di Milano, il 12 giugno scorso il filosofo aveva sposato la compagna Roberta Pelachin. Il Premier Giuseppe Conte lo ha ricordato, in un messaggio sui social, come un pensatore che ha saputo riflettere sui rapporti tra etica, politica e religione.  Nato a Milano nel 1945, Giorello si laureò in Filosofia alla fine degli anni Sessanta e in Matematica, qualche anno dopo, seguendo la tradizione antifascista e marxista del maestro Geymonat e il difficile tentativo di contrastare le divisioni tra pensiero scientifico e umanistico. In seguito, fu docente di Meccanica razionale all’Università di Pavia e poi alla Facoltà di Scienze presso l’Università di Catania, a quella di Scienze naturali all’Università dell’Insubria e, infine, al Politecnico di Milano.  L’accademico milanese fu presidente della SILFS (Società italiana di Logica e Filosofia della scienza), ma i suoi studi spaziavano dalla mitologia all’antropologia e alla psicologia evolutiva fino alla bioetica e alle neuroscienze. Uno tra i più bravi epistemologi italiani, insomma, capace di unire il rigore per gli studi sul metodo della scienza alle riflessioni sull’ambiente sociale e politico nel quale si muove la ricerca scientifica.  Accanto all’attenzione per le discipline fisico-matematiche e all’accrescimento della conoscenza scientifica, Giulio Giorello analizzava le modalità complesse e contraddittorie della convivenza sociale e politica. Sulla scia del pensiero del filosofo John Stuart Mill – di cui aveva curato l’edizione italiana dell’opera Sulla libertà, nel 1981 –, scrisse, in particolare, pagine illuminanti sulla natura, i limiti e la possibile difesa della libertà umana.  La sua instancabile attività di saggista era basata su un’approfondita conoscenza della produzione saggistica e del dibattito internazionale intorno al discorso scientifico. La testimonianza di questa ricchezza culturale è rintracciabile nella preziosa direzione editoriale della collana Scienza e idee per Raffaello Cortina Editore e nella capacità di divulgazione espressa, tra l’altro, nella collaborazione alle pagine culturali del giornale Corriere della Sera.  Tra le opere di saggistica, ricordiamo Filosofia della scienza (Jaca Book, 1992) e due contributi recenti di divulgazione scientifica come La filosofia della scienza nel XX secolo (con Donald Gillies, Laterza, 2010) e La matematica della natura (con Vincenzo Barone, Il Mulino, 2016). Nelle opere Di nessuna chiesa. La libertà del laico (Cortina, 2005) e Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo (Longanesi, 2010), infine, Giorello parlò del valore della laicità in maniera antidogmatica e rispettosa della visione del mondo dei credenti.  La curiosità intellettuale e la personalità liberale del filosofo e matematico milanese si espresse anche nell’interesse sul rapporto tra la cultura definita alta e quella popolare presente, ad esempio, nel mondo dei fumetti. Il suo saggio pop su La filosofia di Topolino (con Ilaria Cozzaglio, Guanda, 2013) ne è una divertente ma non banale rappresentazione.  La perdita di Giorello toglie alla scena italiana e internazionale uno dei più attenti conoscitori dell’articolato cammino della filosofia e del sapere scientifico e, allo stesso tempo, un difensore delle libertà individuali e collettive, senza le quali non è possibile alcun accrescimento e consolidamento del patrimonio culturale dell’umanità.  RELATED TOPICS:FILOSOFIA, LETTERATURA, PRIMA-PAGINA, SOCIETÀIndice 0. Introduzione... p.7 1. Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo... p.11 1.1. Il settenario... p.11 1.2. Il vizio della lussuria... p.12 1.2.1. Origine e delineazione del vizio nel Medioevo... p.12 1.2.2. Vizio del corpo... p.13 1.2.3. Vizio dell anima... p.15 1.2.4. I coniugati e la lussuria. «Se non riescono a contenersi si sposino, meglio sposarsi che ardere (I Cor. 7,9)»... p.17 2. La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno... p.19 3. La lussuria come potere nel Canto V dell Inferno... p.31 4. La lussuria come piacere e dolore nel Canto V dell Inferno... p.44 5. La lussuria come filosofia nel Canto V dell Inferno... p.52 6. La lussuria come inganno e come sovversione nel Canto V dell Inferno... p.61 7. La lussuria nel Canto V dell Inferno: conclusione... p.66 Bibliografia... p.70  0. Introduzione Non v è dubbio che fra gli insegnamenti che Dante può riservare agli uomini del terzo millennio ci sia anche quello di puntare su un solo profondo amore al centro di tutta un esistenza, persistente anche oltre la soglia della morte, capace di rinnovare la vita di una persona, di orientarla al meglio. Come afferma Emilio Pasquini nel suo libro Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, la lettura della Divina Commedia dantesca si mostra rilevante anche nel terzo millennio. Ovviamente, un opera di qualche secolo fa rischia di non essere più adatta alle generazioni contemporanee. Ogni epoca conosce tendenze critiche differenti per quanto riguarda la Commedia, ogni generazione [ ] legge il suo Dante 2, e quindi, come lo pone Renzi, siamo prigionieri anche noi del nostro tempo 3. Pasquini segnala che, di tutti gli episodi della Commedia, soprattutto quello di Paolo e Francesca risulta molto interessante per i lettori di oggi 4. L amore-passione che forma il nucleo della storia continua a intrigare. Rappresenta una delle idee riguardanti l uomo tra cui Dante, in un modo meraviglioso, stabilisce legami nei suoi versi. Quelle connessioni creano la celebre feconda ricchezza di Dante, la quale fa sì che tanto all epoca (quando si trattava della fede, della relazione tra Creatore e creatura) quanto oggi (ormai importa la nostra coscienza etica) si scoprono delle idee sorprendenti e chiarificatrici nell opera 5. Accanto a questo, la storia dei due lussuriosi illustra pure la persuasione [di Dante] della presenza, nella vita di ognuno, di un gesto decisivo che sanziona la sorte eterna dell uomo [ ]. Oggi, asserisce Pasquini, una simile prospettiva riguarda (e riguarderà in futuro), su un piano totalmente terreno, le scelte radicali che decidono il corso di un esistenza, le svolte cruciali che imprimono alla vita di un individuo una precisa e irreversibile direzione, decidendo del suo destino in terra 6. 2 Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, Paravia, Bruno Mondadori Editori, 2001, pp.257. 3 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.12. 4 Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, cit., pp.259. 5 Ibidem, pp.269. 6 Ibidem, pp.275. 7  Introduzione Si può aggiungere che, in generale, la ricerca della sapientia mundis del giovane Dante s inserisce perfettamente nella visione contemporanea del mondo, la quale è completamente fissata sull acquisizione di nuove conoscenze e su uno sviluppo personale completo. Parallelamente, si rivela adatto alla società di oggi l avvertimento di Dante adulto che tale ricerca deve essere interrotta quando rischia di condurre non alla magnanimità ma alla folia. 7 D altronde, Inglese segnala che il carattere realistico del poema, dei suoi personaggi e delle sue scene illustra che Dante utilizza il mondo terreno come una metafora dell oltremondo, l altro mondo è reso sensibile e leggibile con le forme del nostro mondo 8. Anche questo aspetto della Commedia fa sì che i lettori di oggi possono capire abbastanza facilmente il mondo sotterraneo evocato dal poeta. La conoscenza del mondo, inoltre, stabilisce il legame tra il commento di Pasquini e quello del filosofo Giulio Giorello, la cui teoria riguardante la lussuria non concorda con la visione cristiana del fenomeno, esposta nel primo capitolo della presente tesi. Ne risulta che la lussuria, dal punto di vista cristiano, si presenta come un fenomeno disprezzabile. Si tratta di una caratteristica umana da combattere e da eliminare. Il filosofo, invece, adotta un punto di vista molto differente nella sua recente monografia Lussuria. La passione della conoscenza 9. Propone un analisi molto originale del vizio, mirata a provocare, nel ventunesimo secolo, una sensazione di liberazione nel lettore della letteratura d ispirazione cristiana sul soggetto. Giorello considera la lussuria non solo come un peccato, ma anche, e in primo luogo, come una libertà: E per ciò [la lussuria] può costituire il nucleo di una società aperta e libertaria, insofferente di qualsiasi costellazione di dogmi stabiliti 10. Anche se il concetto centrale della tesi vi è inquadrato in un contesto quotidiano, universale e laico, non viene trascurato il significato cristiano del termine. L autore approfondisce il concetto di lussuria descrivendo come il desiderio lussurioso può manifestarsi in varie forme: parla della lussuria come potere, come filosofia, come inganno Andando al fondo della nozione di lussuria, stabilisce delle relazioni significative tra vari testi, autori e concetti. 7 Ibidem, pp.271-273. 8 Giorgio Inglese, premessa, in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, Roma, Carocci editore, 2007, pp.9. 9 Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, il Mulino, Bologna, 2010. 10 Ibidem, risvolto della sopraccoperta. 8  Introduzione A mio giudizio la lettura del Canto V dell Inferno dantesco nell ottica proposta da Giorello può offrirmi, e con me a tutti i lettori del capolavoro di Dante Alighieri, una lettura fresca e interessante di questi versi già ampiamente commentati. Vorrei dimostrare che le sue idee nuove permettono di attualizzare questa parte del testo dantesco anzi, tutta la Commedia- e di agganciarlo alla società del ventunesimo secolo (cf. Pasquini, cf. supra). Tutte le manifestazioni della lussuria contemplate dal filosofo verranno applicate al Canto V, poiché i suoi ragionamenti permettono di gettare nuova luce sul testo dantesco e di presentarlo a una società diventata quasi completamente laica, nella quale la religione cristiana è diventata un vago ricordo di altri tempi, un fenomeno soltanto latente (cf. supra). Anche nel libro di Giorello l aspetto religioso della lussuria non è quello più importante, ma è sempre presente in modo velato. Ciò significa che predomina la ricchezza rappresentata dalle varie manifestazioni del concetto denominato lussuria, a scapito della visione cristiana del fenomeno, la quale predica la restrizione di questo vizio. Tutto ciò spiega perché i concetti delimitati da Giorello, in combinazione con commenti da parte di Pasquini, mi faranno da filo conduttore per redigere la presente tesi. L accostamento evidenzierà paralleli e complementi interessanti. Dato che il mio scopo è l elaborazione di una nuova analisi della lussuria nel celebre Canto V prendendo come guide alcuni studiosi contemporanei, l aggiunta di pensieri e di ragionamenti provenienti dal libro Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante di Lorenzo Renzi arricchirà ancora l esposizione, tra l altro la parte nella quale si tratta della colpevolezza o dell innocenza di Paolo e Francesca. Renzi, nel suo libro, vuole reagire sia alla retrocessione di Francesca in generale, sia all interesse privilegiato mostrato dai critici per la tirata lirica di Francesca 11. L autore specifica che l episodio di Francesca forma, infatti, una metonimia della Commedia, cioè la parte per il tutto: [ ] drammatizza e presenta in exemplo la palinodia di Dante, il suo abbandono degli errori giovanili, del mondo dell amore terreno e della sua poesia (lo Stil novo), per cominciare l ascensione. Riferendosi a Paolo Valesio, afferma però anche che il personaggio di Francesca si rivela tanto intrigante che la palinodia rischia di diventare il suo contrario, una palinodia della 11 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.12. 9  Introduzione palinodia: una nuova esaltazione dell amore terreno 12. Accanto al riferimento a Valesi il testo di Renzi offre ancora molte informazioni sorprendenti riguardanti altri autori e commentatori. Giorgio Inglese, poi, è il quarto critico principale che sarà evocato. Il suo commento all Inferno mi ha procurato vari elementi chiarificatori, distinguendo, nella Commedia, una struttura e una poesia, per esempio, o puntando sull importanza, nel Canto V, di contrasti forti. Anche lui si mostra un difensore di una dantistica del terzo millennio. La maturità della disciplina ( la quantità [dei studi] è ormai misurabile solo con i mezzi dell elettronica ) non implica però stagnazione, e lo dimostra bene, per quanto riguarda la Commedia, proprio la vitalità del genere commento 13. In ogni capitolo della presente tesi, una nozione filosofica evidenziata nel libro già citato di Giorello si trova alla base delle idee sviluppate nel capitolo relativo. A quei ragionamenti s intrecciano varie riflessioni dalla parte di Pasquini, Renzi, Inglese e alcuni altri commentatori. 12 Ibidem, pp.7-8. 13 Giorgio Inglese, premessa, in Commedia. Inferno di Dante A lighieri, cit., pp.12. 10  1. Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo Come capitolo introduttivo presenterò un resoconto generale del paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo, incluso un attenzione particolare per la storia del vizio della lussuria. Baserò questa visione d insieme sul volume I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo di Carla Casagrande e Silvana Vecchio, pubblicato dalle Edizioni Einaudi nel 2000. 1.1. Il settenario Anzitutto si deve segnalare che il sistema dei vizi capitali non è un invenzione di un individuo. Si tratta piuttosto di una raccolta di idee che si è sviluppata attraverso secoli, continenti e persone diversi; di un enorme enciclopedia nella quale si trova di tutto, un efficace schema classificatorio per parlare [...] del mondo 14. Un topos, per così dire. Una volta che il paradigma aveva ottenuto la sua forma definitiva, ben circoscritta, ha avuto un successo immenso, tanto presso i chierici quanto presso i laici. Si potrebbe dire che, per quanto riguarda l Occidente, la storia medievale di questi sette vizi inizia con gli scritti di tre ecclesiastici: Evagrio Pontico, Giovanni Cassiano e Gregorio Magno. Cassiano (V secolo), avendo delineato nelle sue opere l insieme delle teorie del suo maestro Pontico sui sette vizi capitali, ha scritto una delle opere più significative per la cultura tanto religiosa quanto laica del Medioevo. Fino al XV secolo, il settenario dei vizi capitali, al quale Cassiano ed Pontico attraverso gli scritti del suo allievo- ha contribuito, ha avuto grande successo. Dante, quindi, ha vissuto in un epoca che accordava molto importanza all idea dei sette vizi capitali. Si deve specificare che tanto Pontico quanto Cassiano distinguono otto vizi capitali, al posto di sette: gola, lussuria, avarizia, tristezza, ira, accidia, vanagloria e superbia (elenco tratto dall opera di Casagrande e Vecchio). Magno, nella sua opera Moralia in Job (fine VI secolo), ne distingue sette; non menziona più l invidia come vizio capitale. Anche Moralia in Job costituisce un opera di notevole importanza per la cultura medievale: è molto più di un 14 C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, Torino, Einaudi, 2000, pp.xvi. 11  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo commento: esegesi, teologia, etica si mescolano a comporre un disegno di larghissimo respiro 15. Il paradigma dei vizi capitali porta, naturalmente, l impronta dell ambito nel quale è stato lavorato, cioè l impronta della società monastica non solo quella occidentale. Infatti, Cassiano aveva apportato all Occidente conoscenze orientali egiziane, siriane-, adottate dalla cultura monastica orientale, raccolta nell Egitto. Anche il suo maestro, Pontico, aveva imparato molto sui vizi capitali in quel crogiolo culturale che fu Alessandria d Egitto alla fine del IV secolo 16, e nelle sue riflessioni, idee della filosofia occidentale si sono confuse con questa sapienza proveniente dall Oriente. Di più, le idee rappresentate dai sette vizi capitali risalgono, infatti, alle difficoltà proprie alla vita nel monastero: Per i monaci essi rappresentano gli ostacoli da superare lungo il cammino di perfezione al quale si sono votati, in una continua battaglia contro se stessi e contro quel mondo che si sono lasciati alle spalle 17. Detto questo, si può inquadrare la nascita e lo sviluppo del settenario, almeno per quanto riguarda il Medioevo. In quello che segue tratterò più in dettaglio la storia medievale di uno dei vizi capitali, cioè di quello che costituisce il nucleo centrale della mia tesi: la lussuria. 1.2. Il vizio della lussuria 1.2.1. Origine e delineazione del vizio nel Medioevo Non solo il cristianesimo ha trattato il desiderio sessuale con diffidenza. Già nella cultura pagana, gli individui si sfidavano da persone che riconoscevano apertamente di sentire tali voglie. La religione cristiana si è adeguata molto abilmente a queste preoccupazioni, riunendole in un vizio capitale chiamato lussuria. Denominando così sentimenti vari e irrequieti, la fede calma, crea ordine nel mondo, nella società, nella vita particolare di ogni persona che si riallaccia alla tradizione cristiana. Diventa molto attraente in questo modo. Lo sviluppo di paradigmi simili contribuisce alla popolarità di una concezione di vita, tanto di visioni di tipo religioso come di concezioni pagani. 15 Ibidem, pp.xi. 16 Ibidem, pp.xii. 17 Ibidem, pp.xv. 12  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo Cassiano descrive la lussuria, situandola nell ambito della natura propria agli uomini, come un vizio intrinseco, come un aspetto essenziale della specie umana. Magno monaco e papa-, anzi, pone che essa sarebbe un attività tutto naturale del corpo, che, per di più, sarebbe intento da Dio. Da un punto di vista laico (nel senso di ateistico), si vede apparire, in questo discorso, una concezione molto moderna della sessualità umana. Rimanendo nel contesto cristiano, il papa, sviluppando una tale visione, crea infatti un idea che spiana la via per la lussuria: se forma un desiderio proprio all uomo tanto naturale quanto il bisogno di mangiare e di bere, non si può evocare più niente per intimargli l alt. Ma, a dire il vero, la visione della lussuria divisa in modo più ampio durante i secoli medievali è quella ideata da Agostino. Secondo lui, l elemento chiave che trasforma la sessualità dell uomo in un attività peccaminosa, sarebbe stato il peccato originale. Prima della ribellione di Eva e Adamo contro Dio, i due primi esseri umani sarebbero stati i padroni assoluti dei loro organi sessuali, presenti per rassicurare la procreazione della specie umana. Dopo, invece, come punizione reciproca per la loro disubbidienza a Dio, queste parti dei loro corpi diventano insubordinati, non li possono più controllare. Anzi, sono quegli organi del corpo a poter dominare l anima dell essere umano. Lì si ritrova il primo vero aspetto della pena imposta ad Adamo ed Eva. La seconda è rappresentata da una conseguenza irrimediabile del fatto che si sta parlando dell attività responsabile per la generazione: l uomo trasmette quel peccato di padre in figlio, per l eternità. Per forza, i figli nascono peccatori. Nonostante il fatto che la visione agostiniana della lussuria era molto diffusa durante il Medioevo, si comincia già a rivederla nel XII secolo. Si osserva infatti un processo di desessualizzazione del peccato originale 18. Implica l accettazione della concupiscenza come una delle conseguenze del peccato originale, non come l effetto principale di questo. Tuttavia, la sessualità non viene tolta dall ambito peccaminoso nel quale era stata introdotta: La natura era ormai inevitabilmente corrotta 19. 1.2.2. Vizio del corpo Cassiano attribuisce alla lussuria (denominata, in un primo momento, la fornicazione), tutto come alla gola, lo statuto di vizio carnale, un vizio cioè che implica 18 Ibidem, pp.151. 19 Ivi. 13  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo necessariamente la partecipazione del corpo 20. Rivendica non solo la cooperazione degli organi sessuali, ma pure quella di tutti gli organi legati alle esperienze sensoriali: gli occhi, le orecchie, il naso, la bocca e le mani. La lussuria, infatti, si presenta come il solo vizio capitale che coinvolge ognuno dei cinque sensi. Nel Medioevo, la collaborazione tanto versatile del corpo umano alla fornicazione approda all idea che questo corpo non solo partecipa allo svolgimento del vizio, ma ne subisce anche le conseguenze. Quelle, naturalmente si tratta di conseguenze di atti peccatori-, non appaiono sotto forme agrevoli: terribili mali di testa che i medici non sanno come curare, progressiva perdita delle forze, vita breve e, su tutto, l immonda malattia che attraverso piaghe ripugnanti e maleodoranti consuma lentamente ma inesorabilmente il corpo, la lebbra 21. Per di più, il debole corpo umano è inestricabilmente connesso con il vizio della fornicazione: senza la presenza di un corpo, non si può manifestare la lussuria. Il vizio rivendica la sussistenza della carne umana per poter apparire. Si tratta quindi di un peccato intrinseco al fisico umano. A dire il vero, la lussuria non tocca a qualsiasi corpo. Si ritrova essenzialmente in fisici maschili. Questo aspetto della fisionomia della fornicazione non deve sorprendere: si parla di un peccato il quale carattere ed essenza sono stati messi a punto negli monasteri abitati da ecclesiastici maschili (fra le altre i padri fondatori del settenario dei vizi 22 : Pontico, Cassiano e Magno). A lungo, le donne non entravano nel discorso sulla fornicazione, tranne come oggetti degli impulsi lussuriosi maschili. Non vengono mai considerate capaci di intervenire come iniziatrici per quanto riguarda questo peccato. La femmina, invece, ritenuta un essere più debole che il maschio, era creduta molto suscettibile delle avance peccatori esibite dal suo corrispondente maschile. Inoltre, l insieme di gioielli, profumi, tenute ecc. (l ornatus, come scrivono Casagrande e Vecchio) che mette l accento sull eleganza femminile si considerava un tutto che serviva essenzialmente a rendere i corpi delle donne ancora più attraenti e, di conseguenza, più sensibili ai suggerimenti lussuriosi dalla parte dei maschi. Peraldo descrive le donne che si vestono e si truccano per andare a ballare tramite una metafora memorabile: [sono 20 Ibidem, pp.152. 21 Ibidem, pp.153. 22 Ibidem, pp.155. 14  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo come] un esercito di soldatesse del Diavolo che si prepara a dare battaglia per strappare a Dio l anima degli uomini 23. Quindi, nonostante il fatto che le donne non possono esibirsi come istigatrici del vizio della lussuria, sono consapevoli degli effetti che hanno i loro fisici sui loro complementi, si avvalgono di queste loro qualità, e così, inconsapevolmente, incitano negli uomini gli impulsi che li portarono ad atti lussuriosi. 1.2.3. Vizio dell anima Fin qui, la lussuria è stata dipinta come un vizio essenzialmente corporale. A dire il vero, la sua origine non è soltanto carnale, ma si trova nell interiorità più profonda dell anima umana. Proprio i monaci abitanti dell ambito nel quale è cresciuta l idea del vizio capitale abbordata- hanno (tra l altro) riconosciuto che il nucleo della fornicazione sarebbe di natura spirituale. Nel vangelo secondo Matteo si può leggere una frase che non lascia adito ad alcun dubbio: Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (Mt. 5, 28) 24. Ma questa idea non implica che il corpo non potesse essere lussurioso. Inserisce piuttosto una fase intermedia nell insieme di fasi propri all azione peccaminosa. In primo luogo nascono le idee lussuriose nell anima dell uomo; in seguito si osserva che, da questi pensieri, sorge una specie di corpo virtuale (questa costituisce quindi la tappa alla quale si riferisce nella sentenza evangelica); infine l atto adultero si svolge per quanto riguarda il corpo reale, di carne e ossa. A proposito della nozione di carne, si dovrebbe ancora specificare la differenza, quanto al peccato della lussuria, tra carne e corpo, vale a dire: quando l anima cessa di pensare, immaginare, ricordare, assecondare, ascoltare, in una parola servire il corpo, il corpo cessa di essere carne, oggetto e strumento di quel desiderio eccessivo e disordinato che ha colpito l uomo dopo il peccato originale, per tornare a essere solo corpo, un aggregato di materia che garantisce la vita dell individuo 25. 23 Ibidem, pp.157. 24 Il nuovo testamento, a cura di Giuliano Vigini, revisione di Rinaldo Fabris, Milano, Paoline Editoriale Libri, 2000, pp.47. 25 C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, cit., pp.160. 15  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo Si potrebbe dire, dunque, che, riguardo alla fornicazione, non ci entra il corpo umano vero e proprio, ma un suo equivalente virtuale, come l hanno formulato Casagrande e Vecchio. In effetti, già nell ottica agostiniana della lussuria è inclusa l idea che gli impulsi concupiscenti corporali, da soli, non costituiscono sensazioni peccaminose. È precisamente la condiscendenza dell anima alle pulsioni carnali che trasforma queste ultime in impulsi peccatori. In seguito, si deve segnalare, in questo capitolo, il punto di vista piuttosto sorprendente di Pietro Abelardo (XII secolo) sul vizio capitale della lussuria, soprattutto per quanto riguarda la relazione tra anima e corpo. Abelardo sosteneva che tanto la concupiscenza quanto l atto sessuale e i compiacimenti che lo accompagnano avevano fatto parte della natura dell uomo a partire dal peccato originale. Affermava che l elemento vizioso stava solamente nella transigenza dell anima umana al corpo (carne, infatti) corrispondente. Con questa teoria, Abelardo sviluppa, a dire il vero, una concezione molto moderna della sessualità umana. Non per niente le sue asserzioni hanno provocato moltissime reazioni alla sua epoca. La notevole importanza dell anima in quest ambito viene confermata dalle conseguenze che ha il vizio della lussuria non solo per il fisico dell uomo ma anche, e specialmente, per la sua anima immortale. La fornicazione corrompe il corpo umano, lo rende impuro e infangato; ma è ancora molto più dannosa all anima: una volta imbrattata da questo peccato, lo spirito dell essere umano, debilitato e confuso, incoerente, è sull orlo della rovina. Si tratta di un vizio talmente onnicomprensivo che abbraccia tutti i livelli e strati dello spirito; si espande in tutti gli angoli della mente. Il danneggiamento dell anima dalla lussuria si rivela incontestabilmente il più grave nell indebolimento della ragione, componente più nobile e preziosa dello spirito umano. Mina il potere della capacità più eccezionale dell uomo, cioè la potenza di dominare tutti i suoi sentimenti, emozioni e impulsi facendo appello alla ragione. In effetti, non solo la Chiesa si preoccupava dalla decadenza della ragione sotto l influsso di attività sessuali. Prima della tradizione cristiana, un ampia tradizione pagana aveva cercato di offrire uno sfogo a simili preoccupazioni. In questo modo, ha potuto crescere, fra le altre prima in ambito pagano, poi in contesto cristiano-, l idea che l intelligenza concetto concepito come positivo- dovrebbe essere capace di mettere l uomo nella 16  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo possibilità di controllare gli impulsi carnali concepiti come negativi. Dato che gli ultimi avvicinavano l essere umano dall animale, il contrasto tra questi di una parte, e la nobiltà incontestabile della ragione umana d altra parte, si rivelava grandissimo. Se è vero che tale opposizione si presentava palesemente in contesto scientifico, per dirlo così intellettuale, filosofico ecc.-, la sua importanza per la vita quotidiana dell uomo medio è inequivocabile, visto la funzione [della ragione] di garantire la misura, la compostezza, l equilibrio nella vita di ciascun individuo 26. Trasposto in ambito letterario, il dualismo fra la ragione e gli stimoli carnali, e, più in particolare, la follia nella quale può sfociare la vittoria riportata dalla carne alla ragione, s impadronisce dei protagonisti dei romanzi cortesi. Il fenomeno rappresenta il culmine assoluto dell incostanza confusa che può essere provocata in varie misure dalla lussuria. 1.2.4. I coniugati e la lussuria. Se non sanno vivere in continenza, si sposino; è meglio sposarsi che ardere (I Cor. 7,9) 27 Tra tutte le persone che non scelgono la castità come cura della lussuria, i coniugati formano un gruppo speciale. Il matrimonio, in effetti, non elimina la lussuria, ma nella misura in cui vieta tutti i rapporti extraconiugali e limita quelli coniugali [a quelli che servono alla procreazione e quelli che sono necessari per soddisfare le sensazioni concupiscenti dei coniughi ed evitare, in questo modo, che commettono il peccato della fornicazione], la contiene e la riduce 28. La storia del concetto di matrimonio, per quanto riguarda il vizio della lussuria, si rivela alquanto complicata. In primo luogo si deve segnalare che la ragione per la quale certi cristiani propendevano per la castità e non per il matrimonio consisteva nel fatto che il matrimonio limitava solamente la lussuria; non poteva escluderla. Ma, allo stesso tempo, questo fatto veniva anche rivendicato dai credenti che volevano proteggersi dalla lussuria: il matrimonio, dopo tutto, delimitava la portata del vizio. Poi, Agostino aggiunge che considera l unione coniugale un bene, certamente inferiore a quello della castità, ma comunque un bene, e questo non solo per la procreazione dei figli 26 Ibidem, pp.167. 27 Il nuovo testamento, cit., pp.603. 28 C. Casagrande, S. Vecchio, I sette vizi capitali: storia dei peccati nel Medioevo, cit., pp.172. 17  Il paradigma dei sette vizi capitali nel Medioevo ma anche per la società naturale che l unione tra i due sessi comporta 29. Di più, pone che Dio avrebbe previsto l unione carnale tra gli uomini e i loro complementi femminili prima del peccato originale, visto che entrambi i sessi erano già dotati di organi sessuali chiaramente visibili e differenti prima che Eva ed Adamo disubbidivano a Dio. Il peccato non sta dunque nel coito [...] ma nell uso che gli uomini [...] ne fanno. 30 Queste idee agostiniane sono state molto diffuse durante tutto il Medioevo. Finalmente, si deve ancora segnalare che il legame stabilito tra il vizio della lussuria e il matrimonio fa sì che il peccato si estende dall essere umano individuale alla comunità intera. Può corrompere tutta una società; non si tratta più di un vizio dannoso alla vita e all anima di una singola persona, a tal punto che minaccia tutta la specie umana. Da questo punto di vista, il peccato occupa una posizione particolare, anzi unica nel settenario dei vizi capitali. 29 Ibidem, pp.173. 30 Ivi. 18  2. La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno Nella sua esposizione sulla lussuria come potenza (o impotenza) Giorello asserisce che la lussuria [ ] è mescolanza di tutte le cose del mondo, rotture d ordine, spezzatura 31. Nel caso di Paolo e Francesca, di certo, la lussuria è stata responsabile di una rottura dell ordine quotidiano, anzi, dell ordine del mondo come i due innamorati lo conoscevano. La spezzatura della loro realtà viene causata direttamente dalla potenza (cioè, dalla potenza nel senso filosofico della parola: potenza come volontà) che costituisce una parte essenziale del desiderio lussurioso che sperimentano. Dal momento in cui cedono alla loro volontà lussuriosa, Francesca, consapevolmente, abbandona suo marito, pone fine al suo matrimonio. Nel v. 107 Caìn attende chi a vita ci spense 32 il nome di Gianciotto è taciuto per disprezzo, non certo per femminile riserbo 33. Neanche Paolo può più tornare indietro; la relazione tra lui e suo fratello è irrimediabilmente danneggiata. Il bacio dei due lussuriosi segna un passaggio chiave nella loro storia lussuriosa. Dopo una fase di dubbi e di disperazione, è arrivato il momento in cui decidono di rinunciare a tutto quello che è familiare, e di perdersi in un avventura della quale sanno che gli porterà sia la felicità assoluta sia la perdizione. La tragica combinazione di tenerezza e di rovina è illustrata dal v. 106 Amor condusse noi ad una morte 34 : la prima e l ultima parola del verso si rispondono fonicamente AMOR condusse noi ad una MORte. Inglese chiarisce che, in questo modo, il verso s iscrive nella lunga tradizione di una diffusa paretimologia (Federigo dall Ambra, son. Amor che tutte cose: Amor da savi quasi A! mor si spone ). Per di più, la parola morte, nel Canto V dell Inferno, conclude la serie di proposizioni principali il cui soggetto è Amore 35. In questo senso, la lussuria si presenta come una mescolanza di tutte le cose del mondo: ogni diritto ha il suo rovescio. Di rado, la realtà nella quale vivono gli esseri umani offre una gioia senza che, contemporaneamente, appaia anche qualcosa che tempera questo sentimento. È un dato che si manifesta in modo particolarmente chiaro in situazioni 31 Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.23. 32 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, revisione del testo e commento di Giorgio Inglese, Roma, Carocci editore, 2007, pp.90. 33 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, Roma, Carocci editore, 2007, pp.90. 34 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.90. 35 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.90. 19  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno lussuriose. Paolo e Francesca propendono non solo per la felicità (lussuriosa) ma anche per l aspetto penoso che essa implica. Da quanto appena enunciato risulta che la dimensione della lussuria identificata come la volontà forma una caratteristica fondamentale del fenomeno. Se manca una forte volontà, non si può parlare di lussuria. È appunto dalla volontà umana che procede il desiderio di qualcosa. Dal testo di Giorello emerge che il desiderio an sich deve, infatti, considerarsi come essenzialmente lussurioso. Nel caso di Paolo e Francesca, si tratta del desiderio dell altro. Dante presta molta attenzione all espressione di tale potenza. È probabilmente una delle più belle manifestazioni dello spirito umano: unica, forte, ma anche tragica. Forse la bellezza risiede, appunto, nella tragicità. Quello che un essere umano può realizzare grazie alla volontà commuove solo quando si mescola con altre caratteristiche come, in questo caso, il tragico. Il desiderio umano, giudicato lussurioso per definizione, è presente nel Canto V non solo nella decisione presa da Paolo e Francesca. Ci troviamo nella prima parte dell Inferno, cioè all inizio del viaggio sotterraneo di Dante personaggio. E siccome Dante parla, infatti, di ognuno di noi, ci troviamo all inizio del viaggio che ogni peccatore potrebbe desiderare, un giorno. Anche lui sperimenta un forte desiderio. Si trova sulla via della perdizione, e vuole ritrovare la retta via. Vuole andare verso la luce divina, è in cerca di una direzione nella sua vita. Questa aspirazione predomina su tutto il suo essere, come il desiderio di Francesca domina su Paolo e vice versa. Inoltre, Giorello pone che la laicizzazione è la lussuria dell emancipazione dalla soggezione alla natura e/o alla divinità emancipazione che costituisce la premessa di una società politica matura 36. Secondo me, l autore suggerisce che l assunto che la laicizzazione sia un processo lussurioso sarebbe ovviamente consono alla visione cristiana della lussuria che la considera un vizio capitale. Classificare la laicizzazione tra le varie forme in cui può manifestarsi la lussuria le conferirebbe lo statuto di un azione peccaminosa. L idea principale che vuol esprimere il filosofo in questa frase, però, è che il desiderio umano di venir liberati dall assoggettamento a un potere superiore si rivela lussurioso, poiché si tratta di un desiderio. Dante personaggio, tuttavia, desidera di esser assorbito completamente dalla luce divina del Dio cristiano. E aspira alla stessa sorte per tutti i suoi contemporanei. L opposizione 36 Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.26. 20  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno tra la volontà evocata da Giorello e quella di Dante personaggio illustra il punto di vista del filosofo sulla lussuria. Che il carattere di un fenomeno sia o non sia lussurioso non dipende dalla sua religiosità o laicità. Uno degli aspetti essenziali della lussuria è la forza immensa della potenza umana che fa sì che la lussuria può esistere. Oltre a ciò, l autore menziona che la lussuria istituisce il nesso tra conoscenza e oblio 37. L aspetto della lussuria che è analizzato e commentato in questo capitolo, la potenza, costituisce la forza che spinge un essere umano ad avere curiosità e a cercare risposte alle proprie domande. In questo senso, forma, infatti, l anello che lega l ignoranza e la conoscenza. Dante personaggio vuole conoscere il mondo sotterraneo, e desidera sapere se e come si può salvare. Dalla sua curiosità, quindi dalla sua volontà, sorgerà la comprensione dei fenomeni che vuole capire. Si può pure trasformare la conoscenza in oblio per il tramite della lussuria. Una volta che la conoscenza è ottenuta, è possibile che essa provochi l oblio di altri fatti conosciuti nell essere umano che la ottiene, com è illustrato dall epopea mesopotamica la Saga di Gilgames alla quale si riferisce Giorello. Nel Canto V, tuttavia, si osserva il contrario. Quello che era conosciuto nel passato non è dimenticato, come pone appunto Francesca dopo che Dante le ha chiesto di raccontare come lei e Paolo si sono rivelati i sentimenti amorosi reciproci: E quella a me: Nessun maggior dolore/che ricordarsi del tempo felice/nella miseria: e ciò sa l tuo dottore. Chiaramente, i due lussuriosi si ricordano benissimo quello che sapevano prima del momento in cui la loro volontà di conoscere li ha messi sulla via della perdizione, cioè, prima del momento in cui si baciavano e s appropriavano la conoscenza dell altro. Anzi, in questo passo, Dante autore utilizza letteralmente il verbo conoscere: Ma, s a conoscer la prima radice/del nostro amor tu hai cotanto affetto/dirò come colui che piange e dice 38. Ciò illustra l importanza ardente del significato del termine. Per di più, Giorello pone che la potenza della dea [Venere] è quotidiana [ ], non solo eccezionale 39. Si potrebbe sostenere, quindi, che la caratteristica della lussuria rappresentata da questa volontà incredibilmente potente non si manifesta unicamente in situazioni o momenti eccezionali. Costituisce una forza sempre presente nell essere 37 Ibidem, pp.28. 38 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.91-92. 39 Giulio Giorello, Lussuria. La passione della conoscenza, cit., pp.35. 21  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno umano, gli appartiene. Non sarebbe capace di liberarsi da essa, se lo volesse. Questo, però, gli è connaturale: si tratta di una parte dello spirito umano troppo essenziale. Senza di essa non sarebbe più un uomo. Per di più, rappresenta un impulso troppo gradevole. All uomo piace infinitamente provare una tale energia dentro di se. Gli dà l idea che potrebbe, infatti, realizzare il progetto che ha in mente, che potrebbe trovare la risposta alla sua domanda. Gli dà il coraggio necessario per dare ascolto ai sentimenti che lo sopraffanno e per arrischiarsi in una ricerca o una situazione che possibilmente finirà male. È questo il momento in cui la volontà lussuriosa, quotidiana, alleggiando, diventa eccezionale. Questo momento speciale si osserva pure nella storia di Paolo e Francesca. Dopo un lungo tempo di voler esser insieme (da solo), arriva quel punto in cui il desiderio di Paolo di sapere come sarebbe di trovarsi nelle braccia della donna amata, diventa troppo forte. La bacia. Un momento riempito in modo molto eccezionale di volontà lussuriosa. Giorello menziona anche che la dea Venere (e quindi la lussuria) può rivelarsi maestra di inganno 40. Certo, nel Canto V, si osservano delle azioni ingannevoli: Francesca tradisce suo marito, Paolo suo fratello. All aspetto ingannevole della lussuria, però, sarà dedicato un altro capitolo della presente tesi. Ciò che colpisce nelle pagine sulla lussuria come potenza in Lussuria. Passione della conoscenza, e che potrebbe dar luogo a una riflessione interessante, è un idea che deduce da un testo di Agostino, Città di Dio. Secondo Giorello si può capire da quest opera che, secondo Agostino, la fiacchezza della nostra volontà (contrapposta alla forza di quella divina) sia ben peggio [ ] di qualsiasi fisica impotentia coeundi 41 perché nell ordine naturale l anima è anteposta al corpo. Agostino descrive la lotta della passione [il corpo] e della volontà [l anima] parlando della lussuria, affermando che esiste almeno l imperfezione della passione nei confronti della pienezza della volontà 42. Ciò pone l accento sul valore più grande della forza mentale che è la volontà dell uomo a paragone del suo corpo fisico. Rileva la preziosità e la versatilità della potenza, la quale è valutata non solo dai fedeli cristiani ma anche da laici. Si potrebbe sostenere, quindi, che si tratta di un punto di vista comune e, di conseguenza, unificatore. L unione d idee 40 Ibidem, pp.36. 41 Ibidem, pp.39-40. 42 Agostino, Città di Dio, Introduzione, traduzione, note e apparati di Luigi Alici, Milano, Bompiani, 2001, pp.684-685. 22  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno cristiane e laiche (nel senso di provenienti dagli antichi) si ritrova, appunto, nella Commedia dantesca. A mio giudizio questa fusione è una delle caratteristiche più meravigliose dell opera. Si rivela in modo splendido nel passo su Paolo e Francesca. La ricchezza del Canto V proviene, tra l altro, dall enumerazione dei nomi di Semiramide, Cleopatra, Tristano, e di tutti gli altri personaggi lussuriosi della mitologia classica menzionati dalla guida di Dante, Virgilio. Inglese spiega che sono donne antiche e cavalieri (v. 71): insomma, l intero mondo del romanzo epico-amoroso, che aveva, di fatto, connesso in un ciclo unico Troianorum Romanorumque gesta et Arturi regis ambages [ avventure ] pulcerrime (Dve I x 2) 43. La loro apparizione conferisce un atmosfera unica all Inferno cristiano. Evocano la grandezza delle storie antiche di alcune coppie famosissime. Risulta dai versi quanto sono care a Dante, tutto come la sua fede. Il ricordo della disperazione, dell amore e della perdizione caratteristico di queste storie si mescola, nel Canto V, ai sentimenti (simili) di Paolo, Francesca e Dante. Per quanto riguarda quella relazione emotiva triangolare tra Dante, Paolo e Francesca, si può segnalare che la sua forza emozionale è ancora aumentata dal fatto che, per Francesca, la visita del pellegrino forma un opportunità unica per confessarsi (dal punto di vista dei colpevolisti di Renzi) o per comunicare e quindi rendere immortale la sua tragica storia d amore (secondo la visione dei giustificazionisti di Renzi, cf. infra). Inglese afferma che gli incontri fra il P. [Dante personaggio] e i dannati si presentano come un momento affatto eccezionale nello svolgersi (che non ha però vero svolgimento) della pena di questi ultimi [ ]: per un motivo superiore ossia, per l edificazione del P. e poi dei viventi che leggeranno il resoconto del viaggio la Provvidenza suscita in alcuni dannati un estremo atto di personalità (v. 84) [ vegnon per l aere, dal voler portate 44 ]. Sul piano poetico, ciò si traduce in una forte drammatizzazione degli episodi: Francesca, per esempio, non avrà mai un altra occasione di confessarsi, di dare forma verbale al proprio tormento 45. 43 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.87. 44 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.88. 45 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.89. 23  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno Da quello che precede, risulta che un estremo atto di personalità implica una volontà potente, dato che la volontà costituisce una parte essenziale dell essere umano. Si potrebbe dire che, con l ultima frase, Inglese si presenta come un colpevolista, poiché dare forma verbale al proprio tormento può significare dare forma verbale al suo peccato e al modo in cui lo strazio della punizione infernale la tortura. La seconda parte della frase di Inglese, però, potrebbe anche essere interpretata come dare forma verbale al modo in cui entrambi il ricordo del tempo d i dolci sospiri 46 e quello della fine tragica della sua storia d amore la tormentano. Allora, per quanto riguarda Francesca, Inglese si presenterebbe non solo come un colpevolista, ma anche come un giustificazionista. Ritornando alle donne antiche e cavalieri, Renzi asserisce quanto segue: Se ci sarà ancora una critica letteraria dedita a leggere con attenzione i testi, qualcuno noterà, per esempio, che la pietà di Dante per Francesca, primo segno della sua partecipazione emotiva alla storia di Francesca, seguita poi dallo svenimento, era già cominciata al v. 72 e si riferiva alle donne antiche e cavalieri, dunque a tutti quei fantasmi letterari che prima sono definiti peccator carnali. Dunque Dante non solidarizza solo con Francesca. 47 Mentre Virgilio annovera nome dopo nome, Dante personaggio sente come, nel suo cuore, cresce la compassione. Ascoltando la sua guida, diventa sempre più commosso, triste e silenzioso per tutto quell amore disperato, perso. Anche lui ha amato e perso la persona amata. Pasquini pone che non si ha soltanto il dramma cruento dei due giovani amanti riminesi; c è anche il dramma interiore di Dante che si sente personalmente coinvolto in quella tragedia 48. Questo dramma interiore che sperimenta il pellegrino di fronte alla tragedia romagnola si spiega, secondo Pasquini, dall atto d accusa di Beatrice nel Purgatorio (cf. infra). Qualcosa di Francesca ritorna in Dante e nel suo personale traviamento, sotto la spinta del rigoroso atto d accusa cui lo sottopone Beatrice; il che spiega con chiarezza, quasi completandolo, il suo turbamento che non è solo pietà di fronte alla tragedia romagnola. 49 46 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.91. 47 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.11-12. 48 Emilio Pasquini, Dante e le figure del vero. La fabbrica della Commedia, cit., pp.259. 49 Ibidem, pp.262. 24  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno Secondo Pierre-Louis Ginguené (1748-1815), autore di Histoire littéraire d Italie, non è stato il Dante filosofo e teologo che si rivela in altri passi della Commedia che ha scritto l episodio di Paolo e Francesca, ma è stato il Dante innamorato di Beatrice. 50 In questo senso, il Canto V parla da Enea e Didone, Tristano e Isotta, Paolo e Francesca, e pure di Dante stesso. Di conseguenza, tratta anche di ognuno di noi, poiché il passaggio di Dante personaggio attraverso l inferno, il purgatorio e il paradiso celeste rappresenta il viaggio simbolico di ogni peccatore che desidera ritrovare la retta via. Ginguené, per di più, non evidenzia la pietà di Dante, ma nota che la pena in fondo, se non è mite, è la più piccola fra tutte quelle previste dal poeta 51. Renzi spiega come questo non sembra una grande osservazione, ma la riprenderanno, in genere senza conoscersi l uno con l altro, molti critici, da Foscolo [Discorso sul testo della Commedia 52 ] a Teodolinda Barolini [Dante and Cavalcanti (On Making Distinctions in Matters of Love): Inferno V in Its Lyric Context 53 ]. E ci aggiunge: Bruno Nardi [Filosofia dell amore nei rimatori italiani nel Duecento e in altri 54 ], che era l unico che di queste cose se ne intendeva davvero, ha notato che, tra i peccatori nella carne, Dante ha punito i golosi più gravemente dei lussuriosi, invertendo l ordine di San Tommaso 55. Forma un argomento che sostiene la tesi di Ginguené secondo la quale l unico vero autore dell episodio di Francesca sarebbe stato il Dante amante di Beatrice, e certamente non il Dante teologo. Anche per Francesco De Sanctis (in Francesca da Rimini 56 ) e per Benedetto Croce (La poesia di Dante 57 ), segnala Renzi, Dante, come teologo e come cristiano, disapprova i peccati dei lussuriosi. Inglese definisce la pietà di Dante ( pietà mi giunse e fu quasi 50 Pierre-Louis Ginguené, Histoire littéraire d Italie, citato da Lorenzo Renzi in Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.134. 51 Ibidem, pp.135. 52 Ugo Foscolo, Discorso sul testo della Commedia, in Id., Studi su Dante, a cura di Giovanni Da Pozzo, Firenze, Le Monnier, 1979, pp.175-573. 53 Teodolinda Barolini, Dante and Cavalcanti (On Making Distinctions in Matters of Love): Inferno V in Its Lyric Context, in Dante studies, 116, 1998, pp.31-63. 54 Bruno Nardi, Filosofia dell amore nei rimatori italiani nel Duecento e in altri, in Id., Dante e la cultura medievale, Bari, Laterza, 1929, pp.1-88, il passo che interessa con i riferimenti a san Tommaso è alle pp.81-82. 55 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.135. 56 Francesco De Sanctis, Francesca da Rimini, in Id., Lezioni e saggi su Dante, a cura di Sergio Romagnoli, Torino, Einaudi, 1967, pp.633-652. 57 Benedetto Croce, La poesia di Dante, Bari, Laterza, 1966, pp.73-75. 25  La lussuria come potenza nel Canto V dell Inferno smarrito 58 ) un profondo turbamento in cui sono fusi l orrore per il peccato e il dolore per l umanità peccatrice giustamente punita 59. Per De Sanctis e per Croce, da un punto di vista emozionale, invece, Dante non condanna i lussuriosi. Croce sottolinea pure il potere estasiante che ha avuto il libro narrando la storia di Lancillotto e Ginevra sui due peccatori. Asserisce però che Dante, al contrario di altri poeti, riesce a rompere e a superare l incantesimo dolce dell amore. Così, afferma Renzi, il critico italiano è riuscito a ottenere un momento di sovrano equilibrio nella storia della critica [della Commedia], e in particolare dello scontro tra colpevolisti [quelli che considerano Francesca una peccatrice integralmente responsabile delle vicende] e giustificazionisti [quelli che si fanno paladino della donna] 60. D altronde, per quanto riguarda la colpevolezza o l innocenza di Francesca, Inglese segnala che la donna, affermando che Amor, ch al cor gentil ratto s apprende 61, da un punto di vista psicologico si rivela sincera, ma che, nella prospettiva etica del poema, [è] obiettivamente falsa poiché Amore [è] sempre soggetto delle azioni determinanti [ prese costui della bella persona/che mi fu tolta: e l modo ancor m offende./amor, ch a nullo amato amar perdona/mi prese del costui piacer sì forte/che, come vedi, ancor non m abandona./amor condusse noi ad una morte ] 62. Da quest angolatura, infatti, tutte le due ipotesi (tanto quello della colpevolezza quanto quello dell innocenza di Francesca) rientrano nelle possibilità. Si può considerare Amore come il vero colpevole, o giudicare che la donna si è arresa a lui, caso in cui lei si rivela responsabile per le vicende. Secondo Inglese, l aggettivo leggieri che si trova nel v. 75 e paion sì al vento esser leggieri 63 farebbe parte di un idea esclusivamente poetica (e quindi non strutturale) che vuole dimostrare, al lettore, il peso carnale del peccato d amore. Tutto come questo formerebbe un suggerimento puramente poetico, Francesca, nella poesia, vive come anima tormentata dalla passione d amore, mentre dalla struttura è dannata per adulterio incestuoso 64. Quindi, quello che De Sanctis e Croce attribuiscono a Dante teologo e 58 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.87. 59 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.87. 60 Lorenzo Renzi, Le conseguenze di un bacio. L episodio di Francesca nella Commedia di Dante, cit., pp.144. 61 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.89. 62 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.89. 63 Dante Alighieri, Commedia. Inferno, cit., pp.87. 64 Giorgio Inglese, commento al testo in Commedia. Inferno di Dante Alighieri, cit., pp.87. 26La storia di Giulio Giorello  In Articoli04-08-2020di Marco Ciardi Dopo la scomparsa di Giulio Giorello, ho letto molti ricordi a lui dedicati. Uno dei migliori è senz’altro quello di Vincenzo Barone, che compare nelle pagine di questo numero di Query . Ringrazio sentitamente Enzo per avere accettato di scriverlo.   image Io vorrei contribuire alla memoria del nostro grande studioso (e amico) sottolineando soltanto uno tra i molti suoi meriti. Giulio era anche un ottimo storico della scienza e delle idee.   Tale merito gli è stato riconosciuto da uno dei maestri del Novecento in questo settore, Paolo Rossi Monti (il cui nome ricorre spesso in questa rubrica e al quale è stato dedicato il primo numero di “Parastoria”, su Query n. 9, ormai otto anni fa). Recensendo uno dei tanti bellissimi libri di Giorello, Prometeo, Ulisse, Gilgameš. Figure del Mito (2004), Rossi scriveva: «Giorello è stato, da giovane, allievo di Ludovico Geymonat. Insegna (e si è prevalentemente occupato di) filosofia della scienza. Attualmente è anche Presidente della Società Italiana di logica e filosofia delle scienze. Come il suo libro dimostra, non solo utilizza una grandissima quantità e varietà di testi, ma anche conosce come pochi (e minutamente) la storia e i luoghi dell’Inghilterra e, più ancora, dell’Irlanda. Giorello è del tutto consapevole del fatto che il suo libro è una sorta di labirinto. Dentro quel labirinto (che ha una struttura geometrica) egli conduce (a volte trascina) il lettore. Le avventure di idee hanno la strana (per alcuni insopportabile) caratteristica di essere un po’ avventurose: di portare molto lontano dall’idea che la filosofia abbia il compito di mettere ordine nel mondo, di trasformarlo (come diceva il mio antico maestro Antonio Banfi) in “una linda casetta”. Una parte consistente della filosofia italiana sembra impegnata a confrontare accuratamente fra loro i testi di cinque o sei rispettabili filosofi di lingua inglese, a commentarli, a commentare i risultati del confronto, a polemizzare con gli altri commentatori tentando, nel più dei casi, arzigogolate mediazioni fra tesi contrapposte. Di una cosa non mi pare lecito dubitare: Giulio Giorello non fa parte della vasta, soporifera e innocua schiera degli oscuri e instancabili “roditori accademici”».[1]   L’espressione “roditori accademici” era un rimando a quanto scritto sul tema da Paul K. Feyerabend,[2] un pensatore con cui Rossi ha spesso polemizzato, ma per il quale nutriva profonda stima.[3] E che anche Giorello, non a caso, come ha ricordato Barone, ben conosceva. Sua la prefazione all’edizione italiana di Against method. Outline of an anarchistic theory of knowledge, edito in originale nel 1975, e pubblicato da Feltrinelli nel 1979.[4]   Rossi citava spesso, con orgoglio, che il suo libro che compendiava decenni di ricerche sui rapporti tra scienza e magia, Il tempo dei maghi. Rinascimento e modernità (2006), fosse uscito nella collana “Scienza e idee” diretta da Giorello per Raffello Cortina.[5] Perché sapeva quanto Giulio avesse chiaro cosa significasse fare storia della scienza, come ricordava nell’analisi del libro di Enrico Bellone, Molte nature. Saggio sull’evoluzione culturale (2008): «La parola chiave del processo storico – come nota Giulio Giorello nella brillante prefazione che ha scritto per questo libro – è imprevedibilità. Accade infatti spesso nel presente (ed è accaduto spesso nel passato) che gli scienziati siano stati costretti a “vedere” cose diverse da quelle che avrebbero invece dovuto scorgere sulla base delle proprie credenze personali».[6]   Come ci ha ricordato Barone, Giulio Giorello era laureato sia in filosofia che in matematica. Per questo motivo, come aveva presente Paolo Rossi, Giorello non ha mai pensato che il semplice fatto di essere scienziati equivalga, per coloro che svolgono tale professione, ad una autorizzazione «a parlare di testi che non hanno letto, a prendere posizioni su questioni che non conoscono, ad esprimere opinioni su problemi che non hanno mai avvicinato».[7] Del resto, già oltre un secolo fa il matematico Paul Tannery, uno dei padri fondatori della storia della scienza come disciplina specifica, affermava che «per essere un buono storico non basta essere scienziato. Bisogna prima di tutto volersi dedicare alla storia, cioè averne il gusto; bisogna sviluppare in sé il senso storico che è essenzialmente differente da quello scientifico; bisogna infine acquisire una serie di conoscenze particolari, di ausilio indispensabile per lo storico, che sono invece del tutto inutili allo scienziato che si interessa solo al progresso della scienza».[8] Anche per questo, Giorello era un fautore delle collaborazioni. Come quella (tra le innumervoli) con il fisico Elio Sindoni, che ha portato alla realizzazione dell’affascinante Un mondo di mondi. Alla ricerca della vita intelligente nell’Universo(2016), dove Giulio, nella parte storica di sua competenza, mostra (anche in questo caso) una conoscenza approfondita e raffinata degli argomenti trattati. Mostrando, ad esempio, in nome di quella “imprevedibilità” alla quale si accennava poco fa, come il “romanziere” Jules Verne avesse, sul tema dell'abitabilità dei mondi, idee molto più chiare e precise dello “scienziato” Camille Flammarion.[9]   Del rapporto tra “le due culture” Giorello ha sempre preso il meglio (non dimentichiamo che il celebre testo di Charles P. Snow sull’argomento fu introdotto in Italia dalla prefazione di Ludovico Geymonat). Ed era consapevole del ruolo decisivo della scuola nello sviluppare un processo di apprendimento diverso rispetto a quello tradizionale: «C’è soprattutto da vincere la scommessa circa “l’avvenire delle nostre scuole”, come direbbe Friedrich Nietzsche. Chi guarda attentamente alle grandi svolte del pensiero scientifico e alla stessa innovazione tecnologica non può non constatare come gli aspetti più creativi abbiano travolto qualsiasi steccato disciplinare. Valeva ieri per le dottrine di Copernico o per quelle di Darwin, vale oggi per le frontiere della cosmologia o per quelle della biologia, per non dire dell’informatica e dell’alta tecnologia. Potremmo dilungarci su non pochi esempi di virtuose contaminazioni nelle scienze come nelle lettere. Ma ci limitiamo qui a ricordare che la separazione delle culture è l’effetto più deplorevole dell’atteggiamento che concepisce le acquisizioni dell’avventura umana come entità fisse, sospese nel cielo platonico delle idee.»[10] Perciò Giulio (sempre utilizzando le parole di Paolo Rossi) provava «una invincibile ripugnanza» per «gli elenchi di scoperte e di ritrovamenti tecnici, per le sfilate di risultati eternamente veri e di errori eternamente falsi».[11] Ancora Giorello: «Cosa c’è di meglio per qualsiasi creazione dello spirito umano che venire utilizzata, contestata, magari stravolta in un dibattito (come è appunto quello scientifico), in cui in linea di principio nessuna opinione è immune da critica o revisione? L’ospitalità che la scienza offre a qualsiasi “straniero” (ricordiamoci delle parole di Milton) è di questo tipo. Non c’è miglior rispetto che quello che prende forma nelle modalità del conflitto».[12] Grazie di tutto, Giulio   Note   1) P. Rossi. 2018. A mio non modesto parere. Le recensioni sul “Sole-24 ore”, a cura di R. Bondì e M. Rossi Monti. Bologna: Il Mulino, pp. 224-225. 2) P.K. Feyerabend. 1981. La scienza in una società libera. Feltrinelli: Milano, p. 213. 3) P. Rossi. 1999. Paul K. Feyerabend: un ricordo e una riflessione, in Un altro presente. Saggi sulla storia della filosofia.Bologna: Il Mulino, pp. 161-167. 4) P.K. Feyerabend. 1979. Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza (1975). Prefazione di G. Giorello. Milano: Feltrinelli. 5) Cfr. ad esempio, P. Rossi. 2018. A mio non modesto parere, cit., p. 259. 6) Ivi, p. 389. 7) P. Rossi. 1999. Ci sono molti Galilei?in Un altro presente, cit. p. 134. 8) P. Tannery. 1904. De l'histoire générale des sciences, in “Revue de Synthèse”, 7, n. 12, p. 3. 9) G. Giorello. 2016. Flammarion, lo “scienziato”, sconfitto da Verne, il romanziere, in Un mondo di mondi. Alla ricerca della vita intelligente nell'Universo. Milano: Raffaello Cortina Editore, pp. 62-68. 10) G. Giorello. 2005. Per una Repubblica delle Scienze e delle Lettere, in Le due culture, a cura di A. Lanni. Venezia: Marsilio, pp. 116-117. 11) P. Rossi. 1967. Considerazioni conclusive, in Atti del Convegno sui problemi metodologici di storia della scienza. Firenze: Barbera, p. 182. 12) G. Giorello. 2005. Per una Repubblica delle Scienze e delle Lettere, cit., p. 118.Grice: “The etymology of libertine ruins it! – or ruins the concept. A slave liberated, being of a low class condition, would be criticized for his excesses of freedom!” Giulio Giorello. Giorello. Keywords: il libertino, implicatura speculativa – specchio e il reame: la communicazione -- “il fantasma e il desiderio” “lo spettro e il libertino” “lo specchio del reame” – “il libertino” “lo scimmione intelligente” lo specchio di Narciso, Bruno, Leopardi-- -- -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giorello” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756347867/in/dateposted-public/

 

Grice e Giorgi – l’implicatura di Bacco – filosofia italiana – filosofia leccese -- Luigi Speranza (Cavallino). Filosofo. Si laurea a Perugia con Givone con “L’estetico” --. studia con Seppilli e Arcangeli Studia etnomusicologia della “Grecìa salentina”, rivalutando i brani in "grico". Altre opere: “Pizzica e rinascita”, La Gazzetta del Mezzogiorno”. Cura “La danza delle spade e la tarantella. Insegna a Lecce. “Le strade che portano al Subasio passando dal Salento” (Ed. Del Grifo, Lecce), “Tarantismo e rinascita: i riti musicali e coreutici della pizzica-pizzica e della tarantella” (Lecce, Argo); “La danza delle spade e la tarantella: saggio musicologico, etnografico e archeologico sui riti di medicina” (Argo, Lecce). “Pizzica-Pizzica, la musica della rinascita. La tarantella del tarantismo e la sua resurrezione: struttura musicale, stato dell'arte e neotarantismo” (Lecce, Pensa MultiMedia); “L'estetica della tarantella: pizzica, mito e ritmo, Congedo Editore, Galatina); “Pizzica e tarantismo: la carne del mito dall'etnomusicologia all'estetica musicale, Galatina, Edit Santoro); “Il tarantismo come mito: dagli errori di De Martino alla rivalutazione del pensiero mitico, Galatina, Congedo); “Il mito del tarantismo: dalla terra del rimorso alla terra della rinascita, Galatina, Congedo); “I poeti del vino, Galatina, Congedo); “La pizzica, la taranta e il vino: il pensiero armonico, Galatina, Congedo, “La rinascita della pizzica, Galatina, Congedo);  Husserl e la Krisis, 3ª in “Segni e comprensione”, Milano); Il francescanesimo tra idealità e storicità, 3ª in “Segni e comprensione”, Porzincula (S.Maria degli Angeli); “Il canto popolare salentino, in Convegno Di Studi Demologici Salentini, Copertino. F. Noviello e D. Severino, Capone, Cavallino Pierpaolo De Giorgi, Il tarantismo secondo Schneider: nuove prospettive di ricerca, in, Quarant'anni dopo De Martino: il tarantismo, Atti del Convegno, Galatina, La iatromusica carne del mito: la pizzica pizzica tra etnomusicologia ed estetica musicale, in, Mito e tarantismo Pellegrino, Pensa MultiMedia, Lecce, La pizzica pizzica immensa risorsa culturale del Sud, in, Terra salentina: i Sud e le loro arti, materiali del Convegno di Arnesano, La Stamperia, Leverano, Pierpaolo De Giorgi, “Il ritorno di Dioniso” a proposito di un libro diPellegrino, in “Segni e comprensione”, Fra aborigeni e tarantismo, in, Settimana di promozione culturale pugliese C. Minichiello, Pensa MultiMedia, Lecce, Le tradizioni popolari nei disegni di Nino Severino, greco, Copertino, Diario di bordo, in, La czarda e il vento: antologia di autori salentini, G. Conte, Congedo Pierpaolo De Giorgi, Poesia sintetica, in, Il cuore di Amleto: testi, grafiche e fotografie di autori contemporanei salentini e ungheresi, nota introduttiva di G. Conte, traduzioni di F. Baranyi e A. Menenti, Veszprém, Pierpaolo De Giorgi, I fogli, in “L'Immaginazione”; Chiedendo e schiodando, La vita amico è l'arte dell'incontro e Maestà delle volte, in Omaggio al Salento, Torgraf, Galatina, In marcia di pace verso Assisi e Trilogia del molto e ben comunicare, in  Omaggio a Maglie cuore del Salento, Torgraf, Galatina, Fantastica pizzica, in, Salentopoesia, festival nazionale di poesia con musica e danza, Gallipoli, Conte, Lecce, Gheriglio in disegno e preghiera, in, Salentopoesia,  festival nazionale di poesia con musica e danza, Lecce, 5Conte, Lecce,  Isola nel Trasimeno, in, Salentopoesia, festival nazionale di poesia con musica e danza, Monteroni, Conte, Lecce, Pierpaolo De Giorgi, S'è cambiato il mondo? e Leggeri Cieli da Leggere, in Luigi Marzo: mostra di pittura, Spello, catalogo, Spello, Lascio un cielo di luce cinica, in Sulle ali di Pegaso senza mai cadere. Marzo: mostra di pittura, Città della Pieve, Tipografia Pievese, Città della Pieve 1998. Discografia Album Fantastica Pizzica (MCDiscoexpress) Pizzica e Trance (MCDiscoexpress) Pizzica e Rinascita (CDSorriso) Il tempo della taranta: pizzica d'autore (CDDrim) 5Pizzica grica: to paleo cerò (CDPlanet Music Studio) Pizzica e RinascitaRistampa (CDC&M) Taranta Taranta (CDIrma records). La pizzica la taranta e il vino. Il pensiero armonico – Pierpaolo De Giorgi  4 Gennaio 2022   G.B.  Il libro è stato pubblicato la prima volta nel corso del 2010 e dopo undici anni riteniamo particolarmente ricordarlo per la sua attualità culturale. Pierpaolo De Giorgi, peraltro, è socio della nostra ASSOCIAZIONE APSEC e collaboratore di questa nostra rivista.  “La ricerca innovativa e serrata compiuta da Pierpaolo De Giorgi, in tanti anni di impegno nelle acque agitate dell’etnomusicologia e dell’estetica, approda finalmente al porto sicuro dello studio La pizzica, la taranta e il vino: il pensiero armonico.    Accade allora che scoperte e sorprese, esposte con cura e rigore scientifico, si susseguano qui continuamente e senza soluzione di continuità, offrendo una concezione finalmente reale del tarantismo e della sua musica terapeutica, la pizzica pizzica, come pure del decisivo ruolo simbolico e religioso del vino nella civiltà mediterranea. Sono esperienze direttamente connesse con quelle antecedenti del dio Dioniso, il nume più significativo della Magna Grecia e dei territori da essa influenzati, archetipo dell’adesione entusiastica alla vita, della reciprocità e del dialogo.   Tramite Dioniso, nella musica e nella danza, come pure nel vino e nell’ebbrezza, l’uomo recupera il contatto con le radici più profonde dell’essere, che si manifestano armoniche, duali e complementari. Per questo i simboli della taranta, della pizzica pizzica e del vino sono rimedi psicologici che restituiscono l’armonia perduta e che si pongono come un’efficace risorsa anche oggi, per costruire un nuovo umanesimo. Sono simboli mitici, che collaborano con quelli della festa e del rito, e vengono prodotti da un soggetto collettivo. Devono essere considerati come arte tradizionale, alla stessa stregua dell’arte individuale. Nel delineare i confini di queste concezioni, De Giorgi rimedita il brillante ma non del tutto sufficiente “pensiero meridiano” di Nietzsche, di Camus e di Cassano.   In Puglia, come in gran parte del mediterraneo, “il pensiero armonico” è il pensiero della rinascita e della misura, valori indispensabili anche oggi per un corretto cammino della coscienza verso la comprensione di se stessa e dell’uomo verso la propria natura divina.”  Indice CAPITOLO I IL PENSIERO ARMONICO E LA RICERCA IN PUGLIA La Puglia e il pensiero armonico Il mare, l’armonia degli opposti e la luce mediterranea Il pensiero armonico come incontro di mythos e di logos Le radici elleniche della tradizione pugliese Archeologia e storia. Etnomusicologia ed estetica della tarantella La ricerca comparativa sui brindisi e le analogie con la pizzica pizzica Il mito e il pensiero armonico del Mediterraneo nella contemporaneità L’ambivalenza del mito e la misura armonica La misura armonica e il cristianesimo Monoteismo e panteismo Noi e i miti del tarantismo e del labirinto. Verso un nuovo umanesimo  CAPITOLO II I BRINDISI E LA PIZZICA PIZZICA COME SIMBOLI DI RINASCITA I brindisi e la pizzica pizzica come simboli di rinascita in Puglia La festa e il pensiero mitico della rinascita La forza estetica di un’arte speciale del leccese, la pizzica pizzica Pizzica pizzica, tarantella e bellezza L’umanesimo mediterraneo e la bellezza mitica della pizzica pizzica e della tarantella Le civiltà del vino e l’ambiente poetico tradizionale della Puglia I brindisi, la tradizione popolare e il soggetto collettivo La ricerca etnomusicologica ed estetica e i brindisi tradizionali Il ritmo armonico della pizzica pizzica e la gestione delle contraddizioni  – La cumbersazione e i brindisi  CAPITOLO III IL TEMPO CICLICO, LA RIVOLTA COLLETTIVA E IL PENSIERO ARMONICO TRA ARTE E MITO Il tarantismo come rito di rinascita e il tempo ciclico come attività psichica collettiva di rivolta Nietzsche, l’eterno ritorno e il recupero del pensiero arcaico del Mediterraneo  – Le analogie dello Zarathustra con il tarantismo La vita come conoscenza: grandezza e miseria di Nietzsche.  – L’eterno ritorno dell’identico e l’eterno ritorno dell’analogo Gli errori di De Martino e le intuizioni di Camus. La rivolta come lotta contro il negativo e come affermazione dell’essere e della vita I brindisi, la pizzica pizzica e il rito del tarantismo come affermazioni della vita  – La ierogamia e la rinascita I simboli della rivolta e dell’inversione terapeutica Il ruolo di inversione della pizzica tarantata: mito, ritmo e analogia La pizzica scherma di Torrepaduli e la rivolta mitica I risultati dell’analisi etnomusicologica: la biritmìa simbolica. La pizzica pizzica come analogon della dynamis armonica universale  CAPITOLO IV PENSIERO ARMONICO E SOGGETTO COLLETTIVO Il ritorno al cielo del Sud e i fraintendimenti di Nietzsche. Dioniso e il pensiero armonico L’aióresis dionisiaca e la Processione dei Misteri di Taranto.  – Il mare come simbolo armonico e come terapia L’intenzionalità collettiva: il teatro tragico del tarantismo e la tragedia greca Il tempo ciclico e la Magna Mater: l’evoluzione della coscienza La Grecia e il governo rituale degli archetipi. Pizzica pizzica e labirinto I brindisi tradizionali e la pizzica pizzica come arte tradizionale collettiva L’arte collettiva tradizionale come arte del mito. L’umanesimo della misura  CAPITOLO V IL SIMPOSIO, I BRINDISI E L’UMANESIMO DELLA MISURA La tradizione pugliese e il simposio greco e magnogreco Il brindisi e il simposio L’ethos del vino come armonia degli opposti La sperimentazione del divino e l’etica della misura Il pensiero armonico, l’agape e il rischio della dismisura La sublimazione del simposio La dismisura e la degenerazione del simposio  CAPITOLO VI L’EMERSIONE DEL PENSIERO ARMONICO DALLA RICERCA E DALLA COMPARAZIONE La danza, le uova e le corna come simboli simposiali di rinascita Il gesto dionisiaco delle corna nelle musiche e nelle danze della rinascita I saperi tradizionali dell’equilibrio mensurale del pensiero armonico: il ritmo e la benedizione La città di Brindisi, l’origine del nome brindisi e il Bacco in Toscana La cena della spillazione Il porto di Brindisi e le corna rituali come simbolo di rinascita. Il brindisi di Dioniso e di Semole come benedizione Indice dei nomi Iconografìa comparativa  Lecce Tarantula. Antropologia simbolo e iniziazione dalla Tradizione alla Contemporaneità Incontri culturaliINCONTRI CULTURALI Tarantula. Antropologia simbolo e iniziazione dalla Tradizione alla Contemporaneità Da Ernesto De Martino ad oggi la Pizzica Salentina, la Taranta e tutto quel mondo che attorno ad essa ruota in maniera spettacolare e folklorico, in realtà nasconde studi e tradizioni che affondano le loro radici in un passato lontano. In una prospettiva più ampia si può dire che in Europa c'è un luogo che da qualche tempo a questa parte ha espresso una incredibile sequenza di suoni, stili, artisti, esperimenti e contaminazioni culturali. Questo luogo è il Salento. La Terra del Rimorso - come la definì Ernesto de Martino - si è trasformata nella Terra dello spettacolo delle tradizioni. Riportando con forza la cultura popolare, l'attenzione per le radici, al centro dell'immaginario giovanile e del consumo pop, il Salento si è rivelata una meta a cui non si può rinunciare. A cinquanta anni dal viaggio della troupe di Ernesto de Martino nel Salento, quei luoghi si sono trasformati in altro, dimenticando l’Oltre. Negli ultimi vent'anni il Salento è stato spettatore della nascita delle dance hall del Sud Sound System, e dell'irruzione sulla scena della pizzica, sottratta da un lato al folklore, dall'altro all'accademia sino poi al più grande world music festival del mondo, la Notte della Taranta. Degli aspetti antropologici dell’argomento e di quelli iniziatici, simbolici ed esoterici se ne occuperanno Maurizio Nocera e Pierpaolo De Giorgi in un incontro dibattito senza precedenti  Mail Presidente Ass. Thorah – piscopo.grazia@libero.it    Biografie relatori   Pierpaolo De Giorgi, laureato in Filosofia, è etnomusicologo, filosofo, musicista e poeta. Ha fondato e guida “I Tamburellisti di Torrepaduli”, con i quali ha suonato in Italia e in tutto il mondo, provocando la nascita-rinascita del genere musicale pizzica. Ha inciso sette dischi, che hanno venduto più di centomila copie, scrivendone i testi poetici e le musiche. Sue liriche sono state tradotte in greco e in ungherese. Assieme al pittore Luigi Marzo, ha pubblicato il noto volume Le strade che portano al Subasio passando dal Salento (Del Grifo 1991). Ha tradotto in italiano La danza delle spade e la tarantella di Marius Schneider (Argo, 1999) e ha pubblicato numerosi volumi di ricerca, tra i quali Tarantismo e rinascita (Argo, 1999), L’estetica della tarantella (Congedo 2004), Pizzica e tarantismo (Edit Santoro, 2005), I poeti del vino (Congedo 2007), Il mito del tarantismo (Congedo, 2008), La pizzica, la taranta e il vino: il pensiero armonico (Congedo 2010), La rinascita della pizzica: testi, poesia e storia dei Tamburellisti di Torrepaduli. La via della Taranta (Congedo 2012) che riformulano radicalmente le indagini sul tarantismo e sulla tarantella iatromusicale.  Maurizio Nocera - “Maurizio Nocera (classe 1947) … è un eccellente rappresentante di quella genia … di intellettuali militanti, che sono sempre di meno, oggi, in giro. “Impegnato” dalla punta delle (consumate) scarpe fino alla radice dei (pochi) capelli, infaticabile viaggiatore, talent scout, esploratore di mondi diversi, inguaribile sognatore, gran parlatore, insegnante, politologo, promoter culturale, contastorie, indefesso ricercatore e divulgatore di patrie memorie, bibliofilo, collezionista, scrittore, salentino al cento per cento eppure cittadino del mondo, giornalista, poeta, saggista, storico, critico letterario, editore.” (Paolo Vincenti, Io e Maurizio Nocera, in http://spigolaturesalentine.wordpress.co m/2010/07/03/spigolautori-maurizio-nocer a/). Maurizio Nocera è segretario provinciale dell'ANPI di Lecce.Grice: “Giorgi is not an Italian philosopher; he is a Leccese philosopher. You have to be Leccese to be a Leccese philosopher, and only a Leccese philosopher will NOT appropriate TARANTA – as Martino did – misunderstanding it – The idea of Nietzsche on Bacco is all very well, but Giorgi notes that you have to have the Leccese experience to understand all this”. Pierpaolo De Giorgi. Giorgi. Keywords: l’implicatura di Bacco, il ritorno di Dioniso; mito. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giorgi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756207767/in/datetaken/

 

Grice e Giorgi – fiducia nella fiducia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Vernole). Filosofo.  Grice: “Giorgi discovered a phenomenon I often overlooked: meta-trust: ‘la fiducia nella fiducia e, alla Parsons, la fiducia di ego con alter, e alter con ego. Grice: “I love Giorgi, for various reasons; unlike Sir Geoffrey Warnock, or me, who base our Kantian-type morality on trust, Giorgi recognises a very apt distinction between trust and ‘meta-trust’ – fiduccia nella fiduccia: fiduccia nell’altro!” Insegna a Salento. Si laurea a Roma con “il giuridico e il deontico” – Fonda il Centro Studi sul Rischio a Lecce. Studia i sistemi sociali. Altre opera: “Sociologia del diritto” Manuale di diritto del lavoro e legislazione sociale” “Azione e imputazione” “La società”; “Diritto e legittimazione” “Mondi della società” o, con Stefano Magnolo” “Filosofia del diritto” “Futuri passati”  Fiducia è un meccanismo, un dispositivo di riduzione della complessità. Fiducia non è un valore positivo dell'agire o dell'esperienza; non rappresenta una preferenza rispetto al suo opposto, non ha valore morale di preferibilità. Fiducia e sfiducia sono grandezze non convertibili. Dare fiducia ad altri o suscitare fiducia in altri non sono qualità morali, disposizioni buone, né preferibili o migliori in assoluto. Il riscontro della loro preferibilità è la situazione, la conferma della validità dell'orientamento alla fiducia può essere reperita solo nella dimensione temporale, l'accertamento dell'opportunità può essere dato solo dal futuro. La funzione della fiducia, infatti, si dispiega nella tensione fra presente e futuro. In questa tensione si proietta nel presente il dramma dell'incertezza e il rischio del non sapere. Il sapere, infatti, esclude il rischio e rende inutile la fiducia. Il non sapere, invece, impone al singolo, al sistema personale o sociale, la necessità di reperire un dispositivo di assorbimento dell'incertezza che rischia di paralizzare l'agire. Il problema, allora, è il tempo; lo spazio di questo tempo è il presente, una estensione temporale della cui durata ci si rende conto soltanto quando è finita, cioè quando è già diventata un passato. Lo spazio della fiducia è questo. Solo in questo spazio si può avere fiducia. In esso cioè si può costruire, sviluppare, mettere alla prova quella inevitabile avventura che è l'anticipazione delle aspettative dell'altro. Fiducia non è altro che questa anticipazione che orienta l'agire e l'esperire. Ma è un'avventura del presente che anticipa il futuro nella rappresentazione di colui che ha fiducia, perché si serve solo delle risorse di una propria prestazione effettuata in anticipo e costruita su una propria rappresentazione del mondo. Una risorsa esterna, una certezza, renderebbe inutile dare fiducia [...]. La fiducia costituisce una mediazione tra la complessità del mondo e l'attualità dell'esperienza. Una mediazione drammatica, rischiosa, che si sostiene sul sapere di non sapere, che produce da sé le risorse che investe e con le quali si espone al futuro anticipandolo e all'altro rappresentandosi le sue aspettative [...]. Fiducia non è affidamento all'altro. Fiducia non è il racconto dell'altro. Non ci sarebbe il dramma, non ci sarebbe neppure la possibilità di raccontare l'altro, se fiducia avesse a che fare immediatamente con l'altro. Fiducia ha a che fare con la propria rappresentazione dell'altro; essa è affidamento alle proprie aspettative dell'altro. Fiducia è esposizione del sé. Fiducia è abbandono al sé, per questo c'è il rischio, il dramma, la tensione. (R. De Giorgi, Presentazione dell'edizione italiana, in N. Luhmann, La fiducia, Bologna, il Mulino, Riferimenti Bibliografici  - P. Berger, T. Luckmann, La realtà come costruzione sociale, Bologna, 1969;* - N. Luhmann, Illuminismo sociologico, Milano, 1983;* - A. Schütz, La fenomenologia del mondo sociale, Bologna, 1974.*La semantica del rischio Decisione razionale e azione sociale  Raffaele De Giorgi Docente di Filosofia del diritto - Università di Lecce  venerdì 22 gennaio 1999 - 17,30 Centro Culturale. Sulla situazione delle scienze sociali  Se si osserva il panorama delle scienze sociali oggi, si può affermare che esse sono alla ricerca di temi attuali riferiti alla società, ma che per questo non dispongono ancora di una struttura teorica adeguata, in particolare non sono pervenute ancora a una adeguata descrizione della società moderna. Le discussioni teoriche vengono effettuate in relazione ad autori, in particolare in relazione a classici. Questo comporta, nel modo di porre i problemi, la presenza di un sovraccarico di vecchie prospettive e l’implicito orientamento ad una società che in virtù del suo ottimismo sul progresso aveva raggiunto i suoi limiti, ma poteva tener presente solo in misura limitata le conseguenze della società moderna e le poteva trattare solo come problemi della distribuzione del benessere. Le acquisizioni alle quali si è pervenuti sono date da un atteggiamento scettico verso l’organizzazione e la razionalità (M. Weber) o da una critica della struttura di classe della società moderna. Di queste acquisizioni vive ancora oggi la discussione teorica.  La società moderna ha reso urgenti problemi completamente diversi: il problema dell’ecologia, il problema delle conseguenze che derivano dalle nuove tecnologie, dalla ricerca biologica e genetica: ma anche il problema delle conseguenze legate a determinate politiche di investimento o quello relativo al rapporto tra uso del denaro per fini speculativi o per fini produttivi. Si tratta solo di alcuni indici degli ambiti problematici con i quali continuamente si confronta la società contemporanea e rispetto ai quali la soglia di attenzione, e quindi di preoccupazione, sembra essere più alta.  Negli anni più recenti è sembrato che la scienza sociale riuscisse ad andare oltre la discussione sui classici: si è elaborato così un orientamento problematico che può essere descritto mediante concetti quali complessità, problemi del controllo e guida, possibilità dell’azione ed altri ancora. Così la società viene descritta dalla prospettiva dell’agire politico e quindi dalla prospettiva della pianificazione, la quale ha davanti a sé campi di realtà altamente complessi, in cui tutte le azioni scatenano “conseguenze perverse” e producono problemi che danno motivo a nuove forme dell’agire. Tuttavia anche questa discussione ha raggiunto in modo incontestabile i suoi limiti, non dispone di potenziale esplicativo dell’agire reale e ripropone ormai solo l’originaria formulazione dei problemi. All’ottimismo del progresso si è sostituita la paura del futuro, all’ansia della pianificazione e del controllo, la rassegnazione verso le conseguenze perverse dell’agire che, non potendo essere previste, vengono rese oggetto di analisi empirica: un motivo ulteriore per considerare il presente con disappunto e per tentare di risolvere mediante il ricorso alla morale ciò che sembrava impossibile risolvere mediante la razionalità.   Non si può affatto prevedere che nel prossimo futuro la scienza sociale riuscirà a colmare il deficit teorico che la caratterizza e a pervenire ad una convincente descrizione della società moderna. E’ possibile però isolare temi speciali, che in questa direzione sono fruttuosi e possono essere utilizzati perché le ricerche si concentrino su di essi. Il tema rischio può costituire un tema cosiffatto. Esso è un tema nuovo rispetto alla discussione sui classici e mantiene considerevole distanza rispetto alle teorie sulla decisione razionale o sulla pianificazione razionale. Esso attualizza la dimensione del tempo, una dimensione centrale per la società moderna da tutte le prospettive. Esso altresì ha particolare riferimento rispetto ai temi che nell’opinione pubblica hanno acquistato un significato considerevole e che, gradualmente, diventano dominanti. Esso ha quindi tutte le chances di fornire un contributo rilevante alla comprensione delle condizioni sociali nelle quali oggi inevitabilmente viviamo e delle quali in un qualunque modo dobbiamo tener conto.  2. Stato della ricerca.  Negli ultimi vent’anni il tema rischio ha stimolato una mole immensa di ricerche ed ha raccolto una letteratura che ormai non è più possibile controllare. Nella letteratura meno recente il tema si è sviluppato prevalentemente sotto la voce: insicurezza. La ricerca però si è concentrata su alcuni punti cruciali e non è pervenuta all’elaborazione di una chiara concettualità teoretica.   Da una parte è dato di trovare ricerche sulla valutazione delle conseguenze prodotte dalle nuove tecnologie; queste ricerche presentano ramificazioni molto concrete: ad esempio la valutazione degli effetti cancerogeni che derivano da alcuni prodotti chimici o la valutazione delle possibilità che si verifichino eventi particolarmente improbabili ed insieme altamente catastrofici. Questa letteratura è orientata nel senso delle teorie della casualità o nel senso della statistica: essa ha prodotto a sua volta altra letteratura che si occupa della posizione e del ruolo degli esperti rispetto alla politica e che di conseguenza individua una perdita di prestigio e di credibilità della scienza e degli esperti nelle diverse tecnologie, qualora questi, sotto la pressione e l’urgenza delle decisioni siano costretti a rendere manifeste le loro insicurezze o le controversie interne alla scienza stessa.   Si tratta di una letteratura e di un insieme di ricerche che tematizzano i problemi della sicurezza rispetto a situazioni di pericolo oggettivo, ma che non riguardano la prospettiva di chi, nell’agire concreto, deve decidere se rischiare o non rischiare e a quali costi.   Accanto a queste ricerche è dato di trovarne altre che sono orientate in misura crescente in senso psicologico e che indagano i modi in cui i singoli si comportano in situazioni di rischio. Risultato di queste ricerche è una distinzione di variabili che influenzano il comportamento, come ad esempio l’influsso della fiducia di sé o del controllo di sé sulla disponibilità di colui che agisce verso il rischio.   Un altro orientamento di ricerca si occupa dei deficit di razionalità e degli “errori” statistici che è possibile individuare nel comportamento decisionale quotidiano. La disponibilità al rischio dipende, secondo queste ricerche, non da ultimo dal modo in cui colui che decide pone il problema col quale deve misurarsi.  Questi orientamenti ai quali si sostiene la ricerca sul rischio permettono di comprendere perché gli esperti che si occupano della percezione e valutazione del rischio e delle strategie del suo trattamento, siano essenzialmente studiosi di scienze naturali, di statistica, di economia (in particolare per i settori relativi alle teorie della scelta razionale, del calcolo dell’utilità, ecc.) o di psicologia. Persino il tema “comunicazione sul rischio” viene trattato da specialisti che hanno questa formazione.  La sociologia si è occupata fino ad ora prevalentemente degli aspetti limitati dei nuovi movimenti che si formano nella società a seguito della accresciuta percezione del rischio. La scienza politica ha manifestato scarsa attenzione per i problemi che derivano dal fatto che le questioni legate al rischio sovraccaricano gli interessi politici. Accanto alla medicina si è stabilizzata un’etica che si occupa dei modi in cui la morale dovrebbe affrontare questioni che sembrano sottrarsi al calcolo razionale.  Nonostante la sua ampiezza, l’attuale ricerca sul rischio non riesce a pervenire a risultati utili sia alla descrizione dell’agire decisionale che alla determinazione di possibilità ulteriori degli stessi ambiti decisionali, perché è legata da vincoli che derivano dal modo stesso in cui il problema del rischio viene tematizzato. Questi vincoli sono definiti dai modelli derivati dalle teorie della decisione razionale e dalle teorie psicologico-individualistiche.   3. Integrazione teorica.  Tanto dal panorama delle ricerche quanto dall’eterogeneità dei diversi approcci scaturisce un considerevole bisogno di integrazione teorica. Le prestazioni innovative che è possibile effettuare in rapporto allo stato attuale della ricerca dipendono dal fatto che si riesca ad elaborare e a rendere disponibile una concettualità teorica capace di rendere possibili questi riferimenti.  Il concetto di rischio è stato definito essenzialmente in relazione agli ambiti della relazione razionale, per così dire, come concetto per la elaborazione dei problemi del calcolo razionale. Da qui derivano considerevoli difficoltà di delimitarne significato e contenuto. Nella letteratura si scambiano e si utilizzano come equivalenti e fungibili con il concetto di rischio formulazioni quali pericolo, danger, hazard, insicurezza e simili. Proprio per questo, sul piano metodologico è necessario mettere in chiaro nel contesto di quali distinzioni il rischio acquista il suo contenuto e significato proprio.  La distinzione tra rischio e sicurezza sembra inutilizzabile. Sicurezza in quanto opposta a rischio, indica solo un posto vuoto che non può certo essere riempito empiricamente. Sicurezza, nello schema rischio-sicurezza, indica solo un concetto riflessivo: esso esibisce solo la posizione dalla quale tutte le decisioni possono essere analizzate dal punto di vista del loro rischio. Sicurezza, in questo senso, universalizza solo la coscienza del rischio; d’altra parte non è un caso se, a partire dal XVII secolo, tematiche della sicurezza e tematiche del rischio si sviluppano insieme.   Per questo sarebbe necessario provare se sia possibile intendere il concetto di rischio utilizzando le prospettive fornite dalla teoria attributiva. Nel generale contesto di una insicurezza rispetto al futuro e di un danno possibile, si potrebbe parlare di rischio quando un qualche danno venga imputato ad una decisione, cioè quando questo danno debba essere trattato come conseguenza di una decisione (o da colui che decide o da altri). Il concetto opposto sarebbe allora il concetto di pericolo, che è applicabile quando danni possibili vengano imputati all’esterno. Una tale concettualizzazione permetterebbe di utilizzare la problematica dell’attribuzione che si è rivelata fruttuosa e saldamente sperimentata. La concettualizzazione proposta dà insieme plausibilità al fatto che nella società moderna la maggiore coscienza del rischio sia correlata all’accrescimento delle possibilità di decisione.  Riferimenti Bibliografici   - Ulrich Beck, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Frankfurt a.M., 1986;* - Ulrich Beck (Ed.), Politik in der Risikogesellschaft. Essays und Analysen, Frankfurt a.M., 1991; - Vincent T. Covello, J. Mumpower, Environmental Impact Assessment, Technology Assessment, and Risk Analysis, NATO ASI Series, Berlin-Heidelberg, 1985; - Mary Douglas, Come percepiamo il pericolo. Antropologia del rischio, Milano, 1992;* - Mary Douglas, Aaron Wildavsky, Risk and Culture. An Essay on the Selection of Technological and Environmental Dangers, California UP, 1983;* - Adalbert Evers, Helga Nowotny (Eds), Über den Umgang mit Unsicherheit. Die Entdeckung der Gestaltbarkeit von Gesellschaft, Frankfurt a.M., 1987; - Anthony Giddens, The Consequences of Modernity, Stanford UP, 1990;* - Alois Hahn, Willy H. Eirmbter, Rüdiger Jacob, Le Sida: savoir ordinaire et insécurité, «Actes de la recherche en sciences sociales», 104, pp. 81-89, 1994; - Toru Hijikata, Armin Nassehi (Eds), Riskante Strategien. Beiträge zur Soziologie des Risikos, Opladen, 1997; - B.B. Johnson, Vincent A. Covello (Eds), The Social and Cultural Construction of Risk, Dordrecht, 1987; - Franz-Xaver Kaufmann, Sicherheit als soziologisches und sozialpolitisches Problem. Eine Untersuchung zu einer Wertidee hochdifferenzierter Gesellschaften, Stuttgart, 1970; - Roswita Königswieser, Matthias Haller, Peter Maas, Heinz Jarmai (Eds), Risiko-Dialog, Köln, 1996; - Georg Krücken, Risikotransformation. Die politische Regulierung technisch-ökologischer Gefahren in der Risikogesellschaft, Opladen, 1997; - Niklas Luhmann, Sociologia del rischio, Milano, 1996;* - Charles Perrow, Normal Accidents. Living with High-Risk Technologies, New York, 1984; - Aaron Wildavsky, Searching for Safety, New Brunswick-London, 1988. (*) I titoli contrassegnati con l'asterisco sono disponibili, o in corso di acquisizione, per la consultazione e il prestito presso la Biblioteca della Fondazione Collegio San Carlo (lun.-ven. 9-19)  Presso la sede della Biblioteca, dopo una settimana dalla data della conferenza, è possibile ascoltarne la registrazione.Grice: “Giorgi understands trustworthiness perfectly. However, he does not seem to care to provide a moral background for it, which is okay with me, since being trustworthy and expecting others to be trustworthy is what an honest chap does! It’s different with PERJURY, and Giorgi has shed light on the notion of legitimacy – an oath of trustworthiness becomes a LEGAL BOND – not just moral. It is however better to consider the moral trustworthiness as PRIOR conceptually to the legal trustworthiness – even if conceptual priority can go both ways. EPISTEMICALLY, to have a law that condemns perjury may be the best way NOT to have faith in faith (fiducia nella fiducia) but PRESUPPOSE that the other has a moral-legal bond to be trustworthy. The perjury figure in Roman law has to be considered historically, since if there was something the Italians are good at is Roman law!” -- Raffaele De Giorgi. Giorgi. Keywords: fiducia nella fiducia, il giuridico, il deontico, imputazione, azione, fiduzia nella fiducia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giorgi” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757844030/in/dateposted-public/

 

Grice e Giovanni – la civetta di Minerva – filosofia italiana – Luigi Speranza Napoli). Filosofo.  Grice: “The Italians love ‘divenire’ as in ‘being and becoming’ – but if I say Mary is becoming a princess, ain’t Mary being?” Grice: “I like Giovanni; only in Italy, you write an essay on Marx on cooperation and on Kelsen; and then of course an Italian philosopher HAS to philosophise on Vico: ‘divvenire della ragione,’ Giovanni calls what I would call a critique of conversational reason!” Ha aderito successivamente alla Rosa nel Pugno.  Simpatizzò per la monarchia e l'11 giugno 1946 fu tra coloro che presero parte agli scontri che causarono la strage di via Medina; in seguito avrebbe spiegato la sua partecipazione con queste parole: “Già leggevo Hegel ero monarchico perché credevo all'unita dello Stato.” “Scappai quando la situazione s'incanaglì». Si laurea a Napoli con la tesi “Vico: natura e ius.” Insegna a Bari.  Direttore di “Il Centauro. Rivista di filosofia". Altre saggi: “L'esperienza come oggettivazione: alle origini della scienza”; “Il concetto di classe sociale in Cicerone”; “La borghesia italiana”; “Il concetto di prassi”; “Marx dopo Marx”  (cf. Luigi Speranza, “Grice dopo Grice.” Impilcature: Not Grice! --; “La nottola di Minerva”; -- il guffo di Minerva – la civetta di Minerva -- “Dopo il comunismo”; il comune -- “L'ambigua potenza dell'Europa”; “Da un secolo all'altro: politica e istituzioni” – istituzione istituzionalismo istituismo “La filosofia e l'Europa”; “Sul partito democratico. Aristocrazia, democrazia crazia cratos concetto di potere -- -- Opinioni a confronto”; “A destra tutta. Dove si è persa la sinistra?” “Elogio della sovranità politica, -- il sovrano – lo stato sovrano – Machiavelli --  Editoriale scientifica, “Le Forme e la storia. Scritti in onore di Giovanni, Napoli, Bibliopolis,  La parabola di Giovanni.  Il dibattito Un saggio di de Giovanni paragona Severino al filosofo del fascismo. Ma a tutte le sue obiezioni è possibile rispondere È Gentile il profeta della civiltà tecnica Ne rende possibile il dominio planetario. Eppure la legge del divenire è eterna di EMANUELE SEVERINO Giovanni Gentile fu assassinato per- ché era la voce più autorevole e con- vincente del fascismo. Ep- pure la sua filosofia è la ne- gazione più radicale di ciò che il fascismo ha inteso essere. Non solo. Essa è tra le forme più potenti — non è esagerato dire la più potente — del pen- siero del nostro tempo. Di tale potenza lo stesso Lenin si era accorto — forse gli assassini di Gen- tile non lo sapevano neppure. Tanto meno lo sa la cultura filosofica oggi dominante, che mai rico- noscerebbe a un italiano un così alto rilievo. Non solo. Contrariamente agli stereotipi che vedono in Gentile un avversario della scienza, l’attuali- smo gentiliano è l’autentica filosofia della civiltà della tecnica: rende possibile il dominio planeta- rio della tecno-scienza, ancora frenato dai valori della tradizione. Altrove ho mostrato il fonda- mento di queste affermazioni. Il recente libro di Biagio de Giovanni Disputa sul divenire. Gentile e Severino (Editoriale Scientifica, 2013) è un grande e suggestivo contributo al loro approfon- dimento — come d’altronde c’era da attendersi dalla statura culturale e sociale dell’autore. Va facendosi largo nel mondo la convinzione che l’uomo non possa mai raggiungere una verità assolutamente innegabile; che, prima o poi, ogni verità siffatta resti travolta da altri modi di pensa- re, da altri costumi, cioè si trasformi, muoia: di- venga. Travolta, anche la certezza che esistano le cose che ci stanno attorno; essa è innegabile solo fino a che esse non vanno distrutte: era innegabi- le solo provvisoriamente. Esser convinti dell’ine- sistenza di ogni verità assoluta è quindi, insieme, esser convinti dell’inesistenza di ogni Essere im- mutabile ed eterno. «Dio è morto», si dice. La negazione di ogni verità assoluta e innega- bile non investe dunque l’esistenza del divenire del mondo. Anzi, proprio perché si fa largo la convinzione che il divenire di ogni cosa e di ogni stato sia assolutamente innegabile (ed eterno), proprio per questo è inevitabile che ci si convinca dell’impossibilità di ogni altro innegabile e di ogni altro eterno. Gentile lo mostra nel modo più rigoroso (mentre il fascismo, come ogni assoluti- smo politico, intendeva essere la configurazione inamovibile dello Stato). Ma è appunto per quell’estremo rigore che de Giovanni rileva, a ragione, l’incolmabile contra- sto tra il pensiero di Gentile e il tema centrale dei miei scritti, l’affermazione cioè che la verità asso- lutamente innegabile esiste e che tutto ciò che esiste (nel presente, nel passato, nel futuro) è eterno, ossia non esiste alcunché che esca dal proprio esser stato nulla e che sia travolto nel nulla. Certo, la più sconcertante delle affermazio- ni. Che però de Giovanni considera fondata con altrettanto rigore. Infatti, mi sembra, egli è inte-ressato al contrasto Gentile-Severino perché vede in ogni forma di contrasto una conferma della propria prospettiva di fondo, per la quale l’esi- stenza umana è, da ultimo, un contrasto insana- bile tra il desiderio dell’uomo, finito, di esser sal- vato dall’Infinito e la problematicità del rapporto finito-Infinito. Quindi, a suo avviso, per quanto rigorose possano essere la posizione filosofica di Gentile e la mia, ci dev’essere in entrambe un vi- zio o più vizi di fondo che non possono venir estirpati. Attraverso una finissima procedura in- terpretativa de Giovanni lo fa capire rivolgendo domande, obiezioni sotto forma di domande. So- prattutto a me. Provo a rispondere ad una soltan- to. In modo adeguato risponderò in altra sede. Ma prima rivolgo anch’io una domanda a de Giovanni. La sua prospettiva — qui sopra richia- mata in modo molto sommario — intende essere una verità assolutamente innegabile o una pro- posta dove non si esclude che la verità innegabile esista da qualche parte? Propendo per la prima alternativa. Mi sembra infatti che anche per de Giovanni l’unica verità indiscutibile sia la «stori- cità» del reale, cioè il divenire che travolge ogni altra presunta verità. La sua distanza da Gentile tende così a vanificarsi nonostante le obiezioni, che a questo punto hanno un carattere subordi- nato. E infatti de Giovanni mi chiede se non ci sia «qualcosa di ineluttabile» «nella condizione mortale dell’uomo», se la morte non sia «la prova inconfutabile», l’«irrefutabile cogenza» che «l’ente uomo nasce dal nulla e va nel nulla» — e anzi, lasciando da parte il domandare, afferma che il mio discorso «si scontra con il fatto che l’uomo muore» (pp. 83-84, corsivo mio). Il conte- sto in cui de Giovanni avanza queste domande- affermazioni è incommensurabilmente lontano dall’ingenuità con cui a volte queste domande mi vengono rivolte. Ma in questa sede può essere opportuno richiamare — ancora una volta — che i miei scritti, ovviamente, non hanno mai negato che l’uomo muoia e come muoia e resti il suo ca- davere, ma hanno sempre negato che la nascita dell’uomo e delle cose sia un venire dal nulla e che la morte sia un andare nel nulla; e lo negano perché mostrano che questo andirivieni non è un «fatto». Provo a chiarire. Che il dolore, l’agonia, la morte dell’uomo (e il perire dei viventi e delle cose) sia un «fatto» si- gnifica che se ne fa esperienza. Certo: si fa espe- rienza dell’orrore della morte — che è sempre la morte altrui. Ma chi crede che la morte sia un an- dare nel nulla non crede (è impossibile che cre- da) che l’uomo vada nel nulla ma, insieme, conti- nui ad essere un «fatto» che appartiene al conte- nuto dell’esperienza: gli appartenga nello stesso modo in cui gli apparteneva prima di annientar- si. Nell’esperienza rimane il ricordo di coloro che sono andati nel nulla, e il ricordo è un «fatto»; ma non rimane il fatto in cui consisteva il loro es- ser vivi, non si fa più esperienza del loro esser stati vivi. Chi, dunque, crede che la morte sia an nientamento crede che — pur avendo avuto espe- rienza dell’agonia e del cadavere — ciò che è di- ventato niente sia diventato anche qualcosa che non appartiene più all’esperienza, che non è un fatto. Ma allora è impossibile che l’esperienza mostri che sorte abbia avuto ciò che è uscito dall’espe- rienza, e quindi mostri che esso è diventato nien- te. Di questa sorte l’esperienza non può che tace- re. Cioè l’annientamento non può essere un «fat- to». (E se il cadavere viene bruciato e, come si di- ce, «diventa cenere»; allora anch’esso, come tutta la vita passata di chi è morto, esce dall’esperienza —anche se ne rimane il ricordo. Daccapo: che es- so, diventando cenere, sia diventato niente non può essere l’esperienza ad attestarlo). Ci si convince dunque che la morte è annienta- mento non sulla base dell’esperienza, ma sulla ba- se di teorie più o meno consistenti. All’inizio i vivi si fermano atterriti di fronte alle configurazioni orrende della morte dei loro simili e restano col- piti dalla loro assenza; i morti non ritornano, vivi, come invece il sole torna a risplendere al mattino. Anche su questa base, quando si fa avanti la rifles- sione filosofica sul nulla, si pensa che ciò che non ritorna sia diventato niente e si crede di sperimen-tarne l’annientamento. Gentile sta al culmine di tale fede e, con la propria «teoria generale dello spirito», dimostra nel modo più radicale l’impos- sibilità di ogni realtà esterna all’esperienza, sì che l’uscire dall’esperienza è per ciò stesso l’andare nel niente. Ma, appunto, si tratta di una dimostra- zione, di una «teoria», non della constatazione di un fatto. Dunque, la sconcertante affermazione, al cen- tro dei miei scritti, che tutto ciò che esiste è eter- no, non è un «paradosso» che «si scontra» con l’esperienza, cioè «con il fatto che l’uomo muo- re». All’opposto, a scontrasi con l’esperienza sono coloro che — affermando la sua capacità di atte- stare l’annientamento degli uomini e delle cose — vedono in essa ciò che in essa non c’è e non può esserci. Sono molti, moltissimi? Non importa. An- che quando qualcuno ebbe a mostrare che è la Terra a girare attorno al sole e non viceversa, tutti gli altri lo negavano, sconcertati. A questo punto de Giovanni deve mostrare per- ché (una volta escluso lo «scontro con il fatto») non accetta la fondazione che di quella sconcer- tante affermazione ho indicato nei miei scritti. At- tendo. Ma anche tutte le altre sue domande atten- dono la mia risposta.Il tramonto del principe: "Fin dall'inizio della sua attività Biagio de Giovanni ha accompagnato al suo discorso teorico e politico una notevole attività di carattere storico-filosofico. Si può dire, anzi, che per certi versi questi sono tre aspetti di una medesima ricerca che, secondo una tipica 'tradizione' italiana, ha intrecciato, in modo consapevole, filosofia, storiografia e politica. Ma questa è una considerazione preliminare, di carattere generale. Ciò che distingue la posizione di de Giovanni è il modo con cui ha istituito questo intreccio - il suo 'punto di vista' - e i risultati che è riuscito a conseguire." (dalla prefazione di Michele Ciliberto). Con una postfazione sulla storia de "Il centauro" di Dario GentiliBiagio di Giovanni. Giovanni. Keywords: essere/divenire – dall’essere al divenire -- divenire della ragione conversazionale: Vico, Hegel, Marx, nottola di Minerva; monarchia – stato -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giovanni: il divennire della ragione conversazionale” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Grice e Giraldi – filosofia italiana – filosofia ligure -- Luigi Speranza (Ventimiglia). Filosofo. Grice: “Only a Ligurian philosopher would philosophise on Hegel’s real logic and lobsters!” -- Grice: Grice: “One good thing about Giraldi is that he is from Ventimiglia and moved to Noli – the most charming corners of Italy!” – Grice: “Giraldi calls his position ‘romatnic essentialism;’ having born in Ventmiglia he would, wouldn’t he?”“I like Giraldi; nobody in England would dare write “The son of Peter Pan,” but Giraldi, otherwise known as the author of ‘Essenzialismo,’ did write ‘Il figlio di Pinocchio’”! Il padre di Giovanni Giraldi, originario di Dolceacqua e di estrazione contadina, dopo il servizio militare riuscì la scalata del successo al Casinò di Monte Carlo, affermandosi anche come uomo di grande saggezza e religiosità. La madre invece era originaria di Ventimiglia, dove Giraldi stesso nacque e trascorse la sua infanzia. Sebbene la famiglia fosse benestante, egli soffriva per la grande conflittualità interna, continuamente vessato dalla sorella maggiore che non esitava ad usare violenza nei suoi confronti, mentre la madre non faceva parola con il padre di quanto assisteva. Racconta che in questo periodo riusciva a trovare pace solo in chiesa.  Con una bugia astuta riuscì a scappare di casa, entrando in un collegio, dunque l'anno successivo si trasferì in un altro collegio di Roma, ove tuttavia non riuscì a trovare la tranquillità sperata. Riuscì a compiere studi classici a Roma, iscrivendosi poi all'Università. Non frequenta le lezioni delle materie filosofiche curricolari, ma studia per conto proprio. Tuttavia sigue abbastanza regolarmente le lezioni di Ponzo, anche se non era materia d'esame. Si laurea e presta servizio militare durante la seconda guerra mondiale. Si laurea in filosofia discutendo molto animatamente la tesi con  Spirito, il quale ironizzò sulle sue pretese di "fare una nuova filosofia". Insegna a Milano. Partendo dalla teoria gentiliana, che vede in tutto una “mediazione”, e da quella di Consentino, che sostiene al contrario la totale "immediatezza", afferma che anche l'atto puro, in quanto nuovo e spontaneo, non può che nascere senza alcuna mediazione, quindi è l'equivalente dell'immediatezza, o del sentire puro. Pertanto prova a risolvere le contraddizioni di entrambe le posizioni in una sintesi hegeliana che possa superare sia il “divenirismo,” sia il coscienzialismo antidivenirista. La soluzione è che l'immediatezza sarebbe sostanziata di mediazione, e viceversa.L'immediatezza è così colma di mediazione, perché senza di essa sarebbe cieca e una mediazione senza una immediatezza sarebbe nulla. Inoltre, per avere una identità distinguibile, si dovrebbe avere già dentro di sé quanto necessario per identificarsi e per distinguersi.  In Etica del sentiment, ancorando il principio morale proprio alla sfera sentimentale, si focalizza sul sentimento di libertà e propone nuove argomentazioni alla tesi di derivazione stoica del sentirsi responsabili, pur entro un tutto già dato. In Gnoseologia del Sentimento,  parte proprio dalla posizione del Consentino per ripercorrere gli itinerari di una filosofia dell'essere indiveniente e per affrontare gli aspetti dinamici e volontaristici dell'Io. In Filosofia giuridica espone la concezione di diritto naturale quale sentimento fondamentale giuridico, condizione trascendentale di ogni diritto positive. Pertanto il diritto naturale non sarebbe un codice sovrapponibile ad altri codici, ma la precondizione che permette alle leggi positive di essere leggi e non atti religiosi, estetici, scientifici o di altro tipo. Si occupa anche della riflessione su temi politici. L'opera Storiografia come rettorica tende ad inquadrare l'unitarietà artistica e scientifica della ricostruzione storica, coerentemente con la tesi di Cicerone della historia opus oratorum maxime e con quella aristotelica dell'entimema, in altre parole quel sillogismo retorico che si differenzia da quello della necessità. In Epistemologia invoca una "demitizzazione" anche delle teorie cosmologiche e scientifiche più accreditate (l'evoluzionismo, la teoria del Big Bang, la meccanica quantistica), poiché tenderebbero pure esse a cadere in paralogismi e contraddizioni logiche, nonostante gli apprezzabili sforzi a riferirsi alla filosofia da parte di alcuni notevoli scienziati. Ad esempio nota che anche i migliori epistemologi che irridono il concetto di sostanza, di fatto, riferiscono i dati sperimentali ad una sottintesa sostanza soggiacente. In numerose opere dedicate alla religione, analizzata nelle molteplici forme di spiritualità, avanza la tesi che il proprium della religione sia la soteriologia, quindi non tanto il contenuto di una dottrina, ma la speranza di salvazione dal negativo della vita e della morte. Il principio cardine diventa dunque la speranza, e non più la fede, che viene ricondotta ad un ruolo funzionale alla realizzazione della salvezza.  L'analisi della religiosità tenta perciò di emanciparsi dagli usuali preconcetti filosofici: se alla religione è stato assegnato per oggetto l'uomo immediatamente e Dio mediatamente, alla teologia Dio si dà immediatamente e l'uomo mediatamente. Altresì in Immortalità dell'anima mostra come sia improponibile lo sforzo di svincolare l'unità del Pensiero con la determinazione individualizzata della persona. Il Dizionario di Estetica e Linguistica generale, con alcune integrazioni filologiche presenti in alcune successive pubblicazioni, alcune in Sistematica, si distingue anche per l'attenzione dedicata all'estetica e sulle concezioni dei primitivi "di ieri e di oggi".  La proposta avanzata per una filosofia della scelta e decisione si apre con una riflessione sul dogmatismo e l'agnosticismo, dalle quali l'autore vuole prendere le distanza. Non si considera dogmatico, perché il suo metodo gli consente di aderire ad un'idea solamente dopo la caduta di ogni riserva, ma ciò non lo porta neppure ad approdare ad una concezione scettica né agnostica, in quanto la non possibilità di dimostrare (ad esempio l'immortalità, la vita ultraterrena o l'esistenza di Dio) non equivale ad affermare la loro non esistenza.  Tra le numerose acquisizioni che lo difenderebbero dalle accuse incrociate di scetticismo e agnosticismo enumera la consapevolezza di un patrimonio di verità circa le possibilità di pensiero; la ricchezza dell'atto di conoscenza anche nelle forme meno esplicate; l'emancipazione dalla divisione del conoscere in intuizioni e concetto, sensazione e concetto; la pretestuosità di coloro che esigono una purezza del conoscere senza inquinamenti sentimentali; le aporie di una scienza oggettivante e insieme soggettivante al massimo e dell'arte che, mentre il mondo odierno nega il reale, si riferisce continuamente ad essa, particolarmente nella negazione.  Non potendosi dare una irruzione nel trascendente, è tuttavia possibile affermare la vasta pregnanza del trascendentale, in altre parole di un terreno comune per l'esperienza e il pensiero. Si considera pertanto idealista, nel senso che non esiste pensiero senza pensiero, spirito senza spirito, “ideato” (significato) senza “ideante” (significans). Tuttavia, differentemente dalle posizioni di Gentili, non crede che affatto il pensiero sia liquido, tutt'altro; proprio perché l'idea diventa comune, e in essa il Pensiero trova la sua pace, occorre una verità fondamentalmente ferma, non mobilizzabile. Da questi presupposti sorge così una debita attenzione per la scelta e la decisione.  Distinguendo le scelte apparenti, che sono totalmente arbitrarie, da quelle reali, quando al termine dell'analisi si opera con un atto di buona volontà, una decisione autentica ci si trova di fronte ad un bivio metafisico: impossibilità di afferrare la realtà dei tre nominati reali (Dio, Anima e Mondo) e impossibilità di negarli. Sorge appunto la decisione autentica, cui si arriva solamente secondo una corretta formulazione di intenti e seguendo una fine immanente ad ogni forma di scelta. Aristotelicamente e anche kantianamente la causa finale riveste una primaria importanza. Se ogni uomo sceglie per sé, nessuna scelta avrebbe una portata teoretica di cogenza, ma aprirebbe le vie della libertà vera, dalla quale ne derivano conseguenze radicali e speculazioni abissali a partire da una decisione, che può essere quella dell'anima unica immortale, o quella del pensiero che viene ad essere dopo la materia, o la non esistenza di Dio. Ciò permetterebbe anche di evitare il depauperamento culturale, con una rivitalizzazione delle esperienze antiche.  La decisione personale propende per una concezione dell'anima unitaria, di stampo aristotelico. Se l'immortalità naturale di tomistica memoria è da lui considerata "la più materialistica, e più grezza", preferisce pensare ad una immortalità conseguita, oppure chiesta a Chi può donarla e concessa a chi la chiede. Sul mondo reale fisico resta una indecisione, ma propende verso un residuo di natura mentale, una sorta di noumeno mentale sulla scia di Kant e Galluppi oltre il grande telone dei fenomeni. In questo caso però occorrerebbe rapportarlo ad una mente divina, perché parlare di mondo senza Dio non avrebbe connotazioni filosofiche. Infine, riguardo l'esistenza di Dio, punto in cui la scelta diviene decisione pura, egli tende a negare la validità delle dimostrazioni, pur scorgendo in esse una bella prova della potenza della mente umana. La conclusione non è però la non esistenza di Dio, ma la non dimostrazione della sua esistenza.  Chi ammette l'esistenza di Dio, tuttavia, deve assumere la radicalità di tale affermazione "guardando il mondo dagli occhi di Dio" e non facendo etsi deus non daretur. Chi prendesse la scelta teistica dovrebbe tacersi per sempre e rinunciare ad intenderlo. Giraldi mette in risalto anche la Volontà, definendola potenza fattiva dell'Idea, e constatandone il carattere generativo-spermatico, per collocare in una prospettiva differente il vitalismo dell'élan vital bergsoniano e della Wille di Schopenhauer. Questo permette di pensare l'Idea non solo quale conoscenza filosofica, ma anche negli aspetti attivi, vitali e di sentimento. Ad essere eroicamente divini non sono pertanto solo i pochi giunti al massime vette di autocoscienza teoretica, ma anche gli umili che vivono inconsapevoli della propria dignità divina, folgoranti però di una autocoscienza morale.  Bàrel Dal punto di vista poetico, l'opera principale di Giovanni Giraldi è il Bàrel, iniziato negli anni trenta e sorto dall'ispirazione di un progetto di Papini esposto nell'autobiografia Un uomo finito per un poema apocalittico, mai scritto. Altri spunti furono la lettura di Lord of the World di Robert Hugh Benson e dell'Apocalisse.  Il primo dei tre volumi di cui si compone il Bàrel, terminato in versi nel 1937, fu presentato a Eugenio Giovannetti de Il Giornale d'Italia, che propose come titolo Il Dio Eroico. Gli anni seguenti, segnati dalla Seconda Guerra Mondiale, furono l'occasione per trasporlo in prosa. Questa versione, appena terminata la guerra, fu proposta a vari editori ma che per una serie di sfortunate coincidenzeMondadori non disponeva della carta, e dopo alcuni anni, quando la carta è disponibile, cambia idea sulla pubblicazione; la casa editrice Api di Mazzucchelli nel frattempo fallìl'idea di pubblicazione venne temporaneamente accantonata. Nel frattempo alcuni versi furono pubblicati frammentariamente. Il 1964 fu l'anno del riordino delle due versioni in un unico libro che contenesse sia versi, sia prosa, in uno spiccato pluristilismo sperimentale. La pubblicazione avverrà, in tre libri, tra gli anni sessanta e gli anni settanta sotto lo pseudonimo I. Tanarda e poi in raccolte unitarie successive.  Il tema è insolito e il contenuto, con riferimenti religiosi e culturali di ogni tipo, non è di semplice accessibilità. Se il primo libro può essere collocato in un momento simbolico dell'arte, il secondo è classico e il terzo romantico, nei canoni dell'estetica hegeliana. Nel primo, Apocalisse grande, il protagonista Bàrel sovrappone le passioni alle idee; nel secondo, La cerca di Barel, ritorna in proporzioni umane e nel terzo, La morte degli dèi, scende negli abissi vertiginosi del Pensiero, che la poesia tenta di inseguire. È stato tradotto anche in lingua francese dalla poetessa e latinista Geneviève Immè dell'Pau. Saggi: “Organon Philosophicum”, Ironia, morale, educazione, Gheroni, Torino, “Etica del sentimento”  Filosofia dell'Unicità, Gnoseologia del sentimento, Pergamena, La filosofia giuridica, Filosofia dell'Unicità, Milano “Filosofia della religione”. Filosofia dell'Unicità, Epistemologia. Una nostra riforma della Logica Hegeliana, Pergamena, La Metafisica. Pergamena, Iesous Eléutheros. La liberazione di Gesù: lettera sistematica ai miei figli, Pergamena Dizionario di Estetica, Pergamena Studi successivi anel periodico Sistematica. Res Publica. Educazione civica, Pergamena Res Publica. Teoria dell'Ineguaglianza, Pergamena Nel Pleròma. Da Dio alla Materia, Pergamena Storiografia come rettorica. Autobiografia come filosofia, Pergamena Memoriale Ambrosiano e Memoriale Italico, Pergamena Dio, Pergamena  Estetica della Musica, Pergamena scon Colloquia Edizioni. Meditazioni Hegeliane, Editrice, Meditazioni Platoniche, Pergamena Capitoli sulla Scienza Moderna, Pergamena L'immortalità dell'anima, Pergamena Ricerche filosofiche La filosofia del sentimento di A. Consentino, in Quaderni, Milano, Rabelais e l'educazione del principe, Viola, Milano; ora in Paideia grande. Un mistico bergamasco: Sisto Cucchi, Secomandi, Amiel Morale, Saggiatore, Torino, L'educazione dei ciechi, Armando Roma, Società e Stato da Spedalieri a Marx, Pergamena L'estetica italiana nella prima metà del secolo XX: figure e problemi., Nistri-Lischi, Pisa, Storia della pedagogia, Armando Roma  "le edizioni successive alla X sono state scempiate da interventi dell'Editoreriporta Giraldi in Sistematica). Il pensiero politico tra Ottocento e Novecento, Pergamena, Adolfo Ferrière. Psicologia, attivismo, religione, Armando Roma, Giuseppe Lomabardo Radice tra poesia e pedagogia, Armando Roma, Gentile. Filosofo dell'educazione Pensatore politico Riformatore della Scuola, Armando Roma Raffaello Lambruschini. Armando Roma, Silvio Tissi filosofo dell'ironia, Pergamena Moralistica francese, Pergamena Saggi su Francesco di Sales, il Quietismo, La Rochefoucault, Prevost. Filosofi teoretici e Morali, Pergamena saggi su Condillac, Senancour, Rensi, Hume, Camus, Barié, Galli, Lazzarini, Castelli, Capitini. Gramsci e altri miti, Pergamena Storia della filosofia, Trevisini Milano L'Italia nella dittatura e nella non democrazia, Pergamena Paideia Grande, Pergamena Rabelais, Rosmini, Boncompagni, Gentile. Storia del Liberalismo nel sec. XX, Pergamena Riviste Moltissimi saggi e studi di politica, religione, filosofia, filologia e critica sono stati pubblicati nelle seguenti riviste fondate da Giraldi stesso:  L'Idea Liberale, Sistematica, attiva sino al. Filologia Giovanni Michele Alberto Carrara, De fato et fortuna. Tipografia A. Ronda, Milano,  Studi sul Rinascimento, Pergamena Saggi su: Seneca e la filologia; Petrarca viaggiatore; Leonardo da Vinci scrittore; Le fonti del Pontano lirico; Gli errori di Dante Alighieri in un poema umanistico inedito; Il Rinaldo di T. Tasso; Il T. Tasso corregge il Floridante; Rime inedite di Cecco d'Ascoli. G. M. A. Carrara,  Pergamena, G. M. A. Carrara, Armiranda. Inedito umanistico, Pergamena Commedia inedita, testo latino e traduzione G. M. A. Carrara,  III, De choreis Musarum, Pergamena Testo sistematico latino. Segue un Saggio monografico sull'umanista. G. M. A. Carrara, Sermones objurgatorii, Pergamena Sui tragici greci. Da mio diario filologico, Pergamena Filologia. Teoria e saggi, Pergamena Su Dante con verità, Pergamena Il Manzoni, in Sistematica, Pergamena Gesù, Pergamena Poesia e prosa d'arte Collana dei "Tredici". La Scala, novelle e poesie; Mutarsio, Torino Bàrel. I. Apocalisse grande, La cerca di Bàrel, La morte degli dèi; Pergamena Hendecasyllabi aliaque scripta, Pergamena L'aragosta. Romanzo Ligure, Pergamena Il figlio di Pinocchio, Pergamena Fratelli Frilli,  Il dono delle Muse. Cento novelle, Pergamena Quadri Intemelii, Pergamena Miniature. Codex aureus, Codex recens. Codex quadraticus, Pergamena Cento tavole, alcune con testi latini parzialmente editi in Hendecasyllabi. Il Codex recens presenta soggetti del Bàrel; il Codex aureus è a soggetto libero e vario; il Codex quadraticus comprende le figure degli scacchi. Con rubriche annesse che spiegano tempi, temi, tecniche. Pergamene Musa latina, Pergamena Il ramo d'oro, Pergamena Scritti in Italiano, Latino, Francese, Romanesco, Biblico. Profili di gente nel mio tempo, Pergamena Splendido novellare, Pergamena Cento racconti e novelle. Musis amicus, Pergamena Versi e prose in Latino. Mimì o E tutto è amore, Pergamena Sorridono i gigli. Liriche e restauro filologico di Saffo, Pergamena Tevere amico, Pergamena, Pedagogia e Filosofia esposte nel dialetto Romanesco da un popolano di Trastevere. Paradiso, Pergamena Editrice, Faust mediterraneo, Pergamena Editrice, Atlantidos persis, Pergamena Editrice, François Villon, Il Testamento, traduzione e saggio critico Giovanni Giraldi, Pergamena Editrice, Amitiés françaises, Pergamena Editrice, Nel Sublime, Pergamena Il mio Ponente, Pergamena Letture belle, Pergamena Piero Pastorino, Pinocchio, un figlio nato da una bugia, in La Repubblica, sez. Genova. Docente universitario a Milano di Storia generale della filosofia, è stato ripetutamente consulente all'Accademia di Svezia per il conferimento dei Nobel per la letteratura. Ha al suo attivo un dizionario di estetica e linguistica, una storia della pedagogia e ha scritto novelle raccolte in due volumi. Vive a Noli, di cui è cittadino onorario. Piotr Zygulski, Filosofo liberale, in Termometro Politico. Giraldi4. Pierre-Philippe Druet, Silvio Tissi, filosofo dell'ironia, Revue Philosophique de Louvain,  John Dudley, Sui tragici greci. Dal mio diario filologico, Revue Philosophique de Louvain, Da "Autobiografia come filosofia" (Milano) e pagine integrative in Sistematica, Milano, Pergamena, Angelo Grimaldi, Illuministi inglesi e francesi, in Disegno storico del costituzionalismo moderno, Roma, Armando, Giancarlo Ottaviani, La scuola del Risorgimento. la scuola italiana Roma, Armando, G. Semerano, La favola dell'indo-europeo, Milano, Paravia Bruno Mondadori. Grice: “Giraldi is obsessed with ‘essenza’, which is a coinage by Cicero – essentia, meaning essentially nothing!”  Grice: “Giraldi, who defended Gentile, rightly, as a ‘pensatore politico’ – was obsessed with idealism – his essentialism was supposed to supersede it, but he spends some time analysing the situation in Italy with idealism, ‘a la catedra – but is dead – he refers to Croce, Gentile, and the roots of  idealism in Vico, Sanctis, and Spaventa --.” Giovanni Battista Giraldi. Giovanni Giraldi. Giraldi. Keywords. essenzialismo, essenzialismo romantico, storia della filosofia romana, etica del sentimento, autobiografia come filosofia, mio ponente, filosofia ligure, ‘l’aragosta’ – romanzo ligure -- Riviera di ponente, nel pleroma: da dio alla materia,  gentile, filosofo politico -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giraldi” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757510024/in/dateposted-public/

 

Grice e Girgenti – la metrica del filosofo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Girgenti). Filosofo. Grice: Ritter thinks Girgenti is related to the Velia – and Pareto to the Crotone – so it’s amazing that Bruto never liked those three Greeks of the Athenian embassy seeing that most pre-Platonic philosophy came from Magna Grecia, that is, Italy! Some must have remained in the genes!” -- Grice: “I like Girgenti; obviously Mussolini didn’t!” Grice: “I love Girgenti – he philosophised in verse, not prosa – rhyme being unexistant, it was all about the metre – he talks of ‘amicizia,’ which is none other than Love that unites all things! And then he fell in the Etna!” “Mussolini thought it was rude of the Girgentians to call their land ‘Girgenti,’ so he formulated a self-referential ‘decretto’: “From now on, Girgentians shall be called Agrigentians.’” Peano objected: “Your decree is self-contradictory or invokes a vicious regressus ad infiniutum!” -- filosofo italiano. Siceliota. Nacque da una famiglia antica, nobile e ricca di Girgenti.Come suo padre Metone, che ebbe un ruolo importante nell'allontanamento del tiranno Trasideo, egli partecipò alla vita politica della città, schierandosi dalla parte dei democratici e contribuendo al rovesciamento dell'oligarchia formatasi all'indomani della fine della tirannide, un governo chiamato dei "Mille".  La tradizione gli attribuisce uno spirito severo verso gli aristocratici. Dai suoi nemici fu poi esiliato nel Peloponneso. Tra i suoi discepoli vi fu anche Gorgia.  Successivamente Empedocle abolì anche l'assemblea dei Mille, costituita per la durata di tre anni, sì che non solo appartenne ai ricchi, ma anche a quelli che avevano sentimenti democratici.  Anche Timeo nell'undicesimo e nel dodicesimo libro - spesso infatti fa menzione di lui - dice che Empedocle sembra aver avuto pensieri contrari al suo atteggiamento politico. E cita quel luogo dove appare vanitoso ed egoista. Dice infatti: 'Salve: io tra di voi dio immortale, non più mortale mi aggiro'. Etc. Nel tempo in cui dimorava in Olimpia, era ritenuto degno di maggiore attenzione, sì che di nessun altro nelle conversazioni si faceva una menzione pari a quella di Empedocle. In un tempo posteriore, quando Girgenti era in balìa delle contese civili, si opposero al suo ritorno i discendenti dei suoi nemici; onde si rifugiò nel Peloponneso ed ivi morì. Si iscrisse alla Scuola di Crotone, divenendo allievo di Telauge, il figlio di Pitagora. Seguì la dieta pitagorica e rifiutò i sacrifici cruenti. Secondo la leggenda, dopo una vittoria olimpica alla corsa dei carri, per attenersi all'usanza secondo cui il vincitore doveva sacrificare un bue, ne fece fabbricare uno di mirra, incenso ed aromi, e lo distribuì secondo la tradizione. Secondo altri seguì gli insegnamenti di Brontino e di Epicarpo.  La sua oratoria brillante, la sua conoscenza approfondita della natura, e la reputazione dei suoi poteri meravigliosi, tra cui la guarigione delle malattie, e il poter scongiurare le epidemie, hanno prodotto molti miti e storie che circondano il suo nome. coppiata una pestilenza fra gli abitanti di Selinunte per il fetore derivante dal vicino fiume, sì che essi stessi perivano e le donne soffrivano nel partorire, pensò allora di portare in quel luogo a proprie spese le acque di altri due fiumi di quelli vicini. Con questa mistione le acque divennero dolci. Così cessa la pestilenza e mentre i Selinuntini banchettavano presso il fiume, apparve Empedocle; essi balzarono, gli si prostrarono e lo pregarono come un dio. Volle poi confermare quest'opinione di sé e si lanciò nel fuoco. Si diceva che fosse un mago e capace di controllare le tempeste, e lui stesso, nella sua famosa poesia Le purificazioni sembra avesse affermato di avere miracolosi poteri, compresa la distruzione del male, e il controllo di vento e pioggia.  I sicelioti lo veneravano come profeta e gli attribuivano numerosi miracoli.  Le numerose testimonianze che riguardano la sua biografia sono alquanto discordanti e non consentono di attribuire un'identità precisa alla sua figura. A conferma di ciò sono le numerose leggende sul suo conto. I suoi amici e discepoli raccontano ad esempio che alla morte, essendo amato dagli dèi, fu assunto in cielo. Mentre Eraclide Pontico, Luciano di Samosata e Diogene Laerzio sostengono che si suicidò gettandosi nel cratere dell'Etna. Il vulcano avrebbe eruttato, dopo qualche istante, uno dei suoi famosi sandali di bronzo.In realtà non sappiamo neanche se sia morto in patria o forse nel Peloponneso. Si afferma che visse fino all'età di 109. Una biografia di Empedocle scritta da Xanto, suo contemporaneo, è andata perduta. A Empedocle la tradizione attribuisce numerose opere, fra cui anche alcuni trattati – sulla medicina, sulla politica e sulle guerre persiane – e tragedie. A noi sono giunti però solo frammenti dei due poemi: “Sulla natura” e “Purificazioni”. Di “Sulla natura”, di carattere cosmologico e naturalistico, sono rimasti circa 400 frammenti. Delle “Purificazione”, di carattere teologico e mistico, abbiamo poco meno di un centinaio. Il timore di Girgenti appare fin dalle prime righe di “Sulla natura”.  “O dèi, stornate dalla mia lingua follia di argomenti, e da sante labbra fate sgorgare una limpida sorgente, e a te, musa agognata, o vergine dalle candide braccia, io mi rivolgo. Ciò che spetta agli effimeri ascoltare, tu porta, guidando avanti il carro ben governato dell'amore devoto. Ma non ti turbi il cogliere fiori di nobile gloria fra i mortali con un discorso, ricolmo di santità, che sia ardimentoso; e allora tu giunga leggera alla vetta della saggezza. La filosofia di Empedocle si presenta come un tentativo di combinazione sintetica delle precedenti dottrine ioniche, pitagoriche, eraclitee e parmenidee. Distingue la realtà che ci circonda, mutevole, dagli Quattro elementi primi, immutabili, che la compongono. Chiama tali elementi "radici", non nate ed eternamente uguali  e afferma che sono in tutto solo quattro, associando ognuno di essi a un particolare dio, sulla base di concezioni orfiche e misteriche proprie dei riti iniziatici allora in uso presso la Sicilia. I quattro elementi (e i rispettivi dèi associati) dunque sono:  fuoco (Giove), aria (sua moglie, Era), terra (Edoneo), ed acqua (Nesti). L'unione delle quattro radici (Giove-Era-Edoneo-Nesti) determina la nascita di una cosa. Si tratta perciò dell’ *apparente* nascita di una cosa, dal momento che l'Essere (le quattro radici) non si crea. “Ma un'altra cosa ti dirò: non vi è nascita di nessuna cosa. Solo c'è mescolanza.”  In questo modo, i primi principi si empiono così dell'essenza e del soffio vitale del potere divino. In Empedocle, Amore (Φιλότης) e la «natura divina che tutto unisce e genera la vita. Are, o Marte, e il dio del conflitto. Per Empedocle, l'uomo, essendo di origine divina, raggiunge la vera felicità che quando si riune alla compagnia di Deo. Accanto alle quattro "radici", e motore del loro divenire nei molteplici cose della realtà, si pongono due ulteriori principi: Amore ed Odio (Discordia, Contesa). Amore ha la caratteristica di "legare", "congiungere", "avvincere" («Amore che avvince.” L’Odio ha la qualità di "separare", "dividere" mediante la "contesa".   Così Amore nel suo stato di completezza è lo Sfero, immobile, uguale a se stesso e infinito. Amore è Dio e le quattro "radici" le sue "membra", e quando Odio distrugge lo Sfero, tutte, l'una dopo l'altra, fremevano le membra del dio. Infatti sotto l'azione dell'Odio, presente alla periferia dello Sfero, le quattro radici si separano dallo Sfero perfetto e beante, dando origine al cosmo e alle sue creature viventi. Prima bi-sessuate e poi sotto l'azione determinante di Odio, si differenziano ulteriormente in maschi e non-maschi, e ancora in esseri mostruosi e infine in membra isolate. Alla fine di questo ciclo, Amore riprende l'iniziativa e dalle membra isolate, nascono esseri mostruosi e a loro volta maschi e non-maschi, poi esseri bi-sessuati che finiscono per riunirsi, con le quattro radici che li compongono, nello Sfero. Nelle Purificazioni, sostiene la metempsicosi, affermando l'esistenza di una legge di natura che fa scontare agli uomini le proprie colpe attraverso una serie continua di nascite, tramite cui l'anima, di origine divina, trasmigra da un essere vivente all'altro. In questo poema gli esseri viventi, parti costitutive dello Sfero di Amore divengono dèmoni errando nel cosmo.  “È vaticinio della Necessità, antico decreto degli dèi ed eterno, suggellato da vasti giuramenti: se qualcuno criminosamente contamina le sue mani con un delitto o se qualcuno per la Contes abbia peccato giurando un falso giuramento, i demoni che hanno avuto in sorte una vita longeva, tre volte diecimila stagioni lontano dai beati vadano errando nascendo sotto ogni forma di creatura mortale nel corso del tempo mutando i penosi sentieri della vita. L'impeto dell'etere invero li spinge nel mare, il mare li rigetta sul suolo terrestre, la terra nei raggi del sole splendente, che a sua volta li getta nei vortici dell'etere: ogni elemento li accoglie da un altro, ma tutti li odiano. Anch'io sono uno di questi, esule dal dio e vagante per aver dato fiducia alla furente Contesa.” L'Amore non interviene nella storia delle peregrinazioni del demone decaduto? Con ogni probabilità, è l'Amore stesso che ci parla in questo frammento. L'"io" dei due ultimi versi è l'autore del poema. Ma è anche, se andiamo più a fondo, l'Amore. I demoni esiliati lontano dagli dèi saranno allora dei frammenti espulsi dalla massa centrale dell'Amore e condannati a errare tra i corpi cosmici sotto l'influenza separatrice del suo nemico, la Discordia. Quando le parti dell'Amore che sono i demoni si riuniscono nell'unità immobile della sfera, il mondo stesso diviene un essere vivente.  Sotto l'influenza di Amore il mondo stesso si trasforma in dio. Questa concezione conduce al rifiuto assoluto dei sacrifici, poiché in ogni essere vivente vi è un'anima umana, che sta compiendo il suo ciclo di reincarnazione. Se nel corso di questo ciclo l'anima si è comportata secondo giustizia, al termine potrà tornare nella sua condizione divina. Dal che, come Pitagora, anche a Empedocle ripugnano i sacrifici animali e l'alimentazione carnea. “Onde, uccidendoli e nutrendoci delle loro carni, commetteremo ingiustizia ed empietà, come se uccidessimo dei consanguinei; di qui la loro esortazione ad astenersi dagli esseri animali e la loro affermazione che commettono ingiustizia quegli uomini «che arrossano l'altare con il caldo sangue dei beati», ed Empedocle dice in qualche luogo: Non cesserete dall'uccisione che ha un'eco funesta? Non vedete che vi divorate reciprocamente per la cecità della mente?” “Il padre sollevato l'amato figlio, che ha mutato aspetto, lo immola pregando, grande stolto! e sono in imbarazzo coloro che sacrificano l'implorante; ma quello sordo ai clamori dopo averlo immolato prepara l'infausto banchetto nella casa. E allo stesso modo il figlio prendendo il padre e i fanciulli la madre dopo averne strappata la vita mangiano le loro carni.” Rispetto alla sua precedente opera vi sono delle contraddizioni che è stato difficile per i suoi esegeti conciliare. Ad esempio, ad una visione naturalistica del poema Sulla natura si contrappone la teoria della reincarnazione delle Purificazioni: nel primo scritto l'anima è anche detta mortale, mentre è definita immortale nel secondo. C'è chi ha spiegato tali incongruenze con la versatilità di Empedocle, scienziato e profeta al tempo stesso, medico e taumaturgo. C'è invece chi ha ipotizzato una paternità diversa delle due opera. Uno dei busti ritrovati nella Villa dei Papiri a Ercolano, identificato dapprima come Eraclito, solo più recentemente con Empedocle. Lo stile di Empedocle viene lodato dagli antichi. “Dicantur ei quos physikoús Graeci nominant eidem poetae, quoniam Empedocles physicus egregium poema fecerit» «Siano pure detti poeti anche coloro che i greci chiamano fisici, dal momento che il fisico Empedocle scrisse un poema egregio»  (Cicerone, De Oratore 1, 217) «padre della retorica»  (Aristotele fr. 1, 9, 65) Lucrezio (De rerum natura 727 ss.) lo prende addirittura come modello.  Renan lo definisce «uomo di multiforme ingegno, mezzo Newton e mezzo Cagliostro» Gli viene intitolato il Regio Liceo Classico di Girgenti, dove studiarono, fra gli altri, Pirandello e Camilleri.  Secondo le discordanti fonti sulla vita di Empedocle la cronologia andrebbe fissata tra il 484-1 e il 424-1.Cfr. Gabriele Giannantoni, I presocratici. Roma-Bari). Secondo Bignone (“Empedocle”, Torino) Empedocle sarebbe vissuto tra il 492 a.C. e il 432 a.C. Anche Robin ritiene che la sua vita sembra sia scorsa tra il primo decennio del secolo V e il 430 circa. Schiefsky ritiene che Empedocle sia nato nel 490 a.C. e morto nel 430 a.C. Platone, Parmenide, 127 B  Platone, Parmenide, 127 C.  Diogene Laerzio, VIII. 51  Diogene Laerzio, VIII. 73.  Timeo, ap. Diogene Laerzio, VIII. 64, comp. 65, 66.  Aristotele ap. Diogene Laerzio, VIII. 63; cfr. Timeo, ap. Diogene Laerzio, 66, 76.  Diogene Laerzio, VIII, 66, 67.  Mannucci, La cena di Pitagora, Carocci editore. Satiro, ap. Diogene Laerzio, VIII. 78; Timeo, ap. Diogene Laerzio, 67.  Diogene Laerzio, VIII. 60, 70, 69.  Plutarco, de Curios. Princ., Adv. Colote, Plinio, HN XXXVI. 27, e altri.  Così nella letteratura antica, come riferisce Bertrand Russel nella sua Storia della filosofia occidentale, citando un poeta anonimo: «Grande Empedocle che, l'anima ardente, saltò in Etna, ed è stato arrostito intero».  Diogene Laerzio, VIII. 67, 69, 70, 71; Orazio, ad Pison. 464, ecc. Ippoboto riferisce che egli, levatosi, si diresse all'Etna e, giunto ai crateri di fuoco, vi si lanciò e scomparve, volendo confermare la fama che correva intorno a lui, che era diventato dio. Successivamente fu riconosciuta la verità, poiché uno dei suoi calzari fu rilanciato in alto. Infatti, egli era solito usare calzari di bronzo.”  (Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, 8.68-69). Cfr. anche Eraclide Pontico, fr. 83 Wehrli. “E questo tutto abbrustolito chi è? - Empedocle. Si può sapere perché ti gettasti nel cratere dell'Etna? Per un eccesso di malinconia. No: per orgoglio, per sparire dal mondo e farti credere un dio. Ma il fuoco rigettò una scarpa e il trucco fu scoperto. (Luciano di Samosata, I dialoghi). Timeo ci attesta esser lui finito di morte naturale. Dicono alcuni che trovandosi egli in Messina a cagion di una festa sia ivi caduto da un carro, e rottasi la coscia, sia morto. Credono altri che in mare naufragasse: altri che si fosse strangolato da sé. Scinà, Memorie sulla vita e filosofia d'Empedocle gergentino, GERENTI – no GIRGENTI -- ed. Lo Bianco, Palermo – empedocle gergentino -- Apollonio, ap. Diogene Laerzio, VIII. 52, comp. 74, 73.  Wolfgang Haase, 2, Principat; 36, Philosophie, Wissenschaften, Technik 6, Philosophie (Doxographica [Forts.]), ed. Walter de Gruyter, Franco Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, Bruno Mondadori). Jori, Empedocle in Dizionario delle opere filosofiche, Milano, Bruno Mondadori. Avverte infatti il Jaeger. Dobbiamo guardarci dal prendere per pura metafora poetica l'espressione della religiosità che lo trattiene dal seguire sino in fondo i predecessori troppo sicuri di sé.” Cardin, Empedocle, in Enciclopedia filosofica, Milano, Bompiani, Reale, Storia della filosofia greca e romana, vol.1 p.213  D-K 31 B 7.  D-K 31 B 17  Kingsley, Misteri e magia nella filosofia antica. Empedocle e la tradizione pitagorica, Il Saggiatore, In corrispondenza con le quattro primarie anti-tesi del caldo (fuoco), del freddo (aria), dell'asciutto (terra), e dell'umido (acqua). Le quattro radici di Empedocle risultano essere poi i quattro elementi di Aristotele e Tolomeo.  Edoneo  è un appellativo proprio del dio degli inferi Ade, cfr. in tal senso Esiodo Teogonia, 913; o anche inno omerico A Demetra.  Forse si riferisce a Persefone; per una dotta riflessione su questo nome, certamente un teonimo poco conosciuto, si rimanda a Gallavotti in Empedocle, Poema fisico e lustrale, Milano, Mondadori/Lorenzo Valla. Secondo Empedocle (B 62; 63) i due sessi (maschi, non-maschi) furono determinati dalla separazione di creature "di natura integra", che si erano a loro volta evolute da forma di vita più primitive. Un papiro di recente ritrovamento, contenente aforismi di Empedocle, ha consentito tuttavia di integrare le due versioni, portando a ritenerle complementari. Le due opere, quindi, farebbero forse parte di uno stesso trattato o poema filosofico. In tempi più recenti, è stata avanzata l'ipotesi che si tratti di Empedocle gergentino. Tale proposta trova conforto sia nella notizia di Diogene Laerzio in merito alla folta chioma del personaggio sia alla specifica collocazione del bronzo all'interno della villa dove faceva pendant con il bronzo raffigurante Pitagora (inv. 5607), che fu suo maestro» (Museo archeologico Nazionale di Napoli.  “Sulle origini”. Ne conservavamo trecentocinquanta versi.”Martin ha consegnato complessivi settantaquattro esametri dei quali venticinque coincidono con quelli già posseduti.  “Ma da ogni parte è uguale a se stesso, e ovunque senza confini, lo sfero rotondo che gioisce di avvolgente solitudine.»  (Empedocle, D-K 31 B 28, Poema fisico e Lustrale, Milano, Mondadori, 1975.  Tonelli,  Empedocle di Agrigento. Frammenti e testimonianze. “Origini,” “Purificazioni,” con i frammenti del papiro di Strasburgo” (Milano: Bompiani). Bignone, Empedocle. Studio critico, traduzione e commento delle Testimonianze e dei Frammenti, ristampa, Roma, L'Erma di Bretschneider, [Torino: Bocca]. Colli, Empedocle, Pisa, La Goliardica, Traglia, “Studi sulla lingua di Empedocle” Bari, Adriatica, Bodrero, “Il principio dell’amore nella filosofia d’ Empedocle” Roma, G. Bretschneider, La lingua di Empedocle, Bari, Levante, Volpi, Empedocle: i suoi misteri rivelati in una biblioteca, 13 novembre 1996.  Empedocle di Agrigento (PDF), su Università di Milano,1.  Filosofi: Empedocle, scoperto papiro a Strasburgo. Per gli studiosi è l'unica testimonianza diretta, Strasburgo, Adnkronos,  Pigliando il nostro Empedocle a trattar le cose naturali, cui sopra d'oga ' altro in tendea, ebbe egli a sdegno di seguir set ta e maestro. E come egli era franco di animo, e grande d'ingegno; così immagi nò giusta la moda de' tempi, e l' usanza de' filosofi un sistema novello. Questo di vulgato gli acquistò tal fama, ch'emulo ei divenne per gloria e per sapere de' fisici più famosi di sua età Democrito e Anassa gora. I Greci di fatto accolsero con ammi razione i suoi belli poemi; e chi vennero poi ricordarono con onore Empedocle e i pensamenti di lui. Incerta fra tanto, manca, é corrotta è venuta la sua dottrina sino a noi. Man cate per l'ingiuria de' tempi le opere del nostro Gergentino, chi ha voluto conoscer ne lo spirito, è stato costretto di rintrac 6 ciarlo presso gli storici dell'antica filosofia. I quali non ebbero affatto cura di notare il vincolo, con cui destramente iva quegli legando i suoi pensieri. Anzi costoro così disparati li rapportano, che si possan te nere non altrimenti che rottami, da' quali non si pud il disegno ricavar dell'edifizio, cui prima apparteneano. Però eglino non che han male e tortamente fatto conoscere Ja fisica d'Empedocle; ma nè pur bene e dirittamente apprezzare la forza e la virtir della sua mente. Giacchè l'eccellenza de' sistemi è riposta nell' union delle parti, che si rispondon tra loro; e da questo le. game si misura l'ingegno di chi l'hanno inventato. Empedocle inoltre scrisse in versi, e ‘abbellì le sue idee, come fanno i poeti. Per lo che pigliando alcuni letteralmente le finzioni della sua fantasia gli apposero o pinioni assurde e grossolane. Illusi altri dal le immagini poetiche, che per lo più sono equivoche, travidero; e più presto ci tra mandarono le loro illusioni, che i pensa - 7 menti del nostro filosofo. Varie di fatto so. no le forme, sotto cui ci presentano Em pedocle gli antichi e i moderni scrittori. Ora egli è dualista, e ora è scettico: ora pla tonizza ', e or favoleggia: e non ha gnari fu, non so come, anche gridato qual pre cursore di Newton (1 ). Sicchè Empedocle, tra biasimato, lodato, e sfigurato, è stato sempre mal conosciuto, e sempre calunniato. Volendo adunque richiamare in luce la filosofia di lui, ho cercato e raccolto i frammenti de' suoi poemi, che per avvene. tura ci restano, e sparsi qua e là si leg gono presso diversi scrittori. Coll ' ajuto di questi, che sono gli onorati avanzi della sua vera fisica, son ito raccapezzando pri e poi restituendo la sua filosofia, Per chè tra le opinioni, che gli storici appon gono ad Empedocle, ho quelle scelto, che ben s'adattano, e naturalmente si legano colle idee, le quali si traggono da? fram menti di lui, e le altre rigettato, che a queste si disdicono, o ne sono contrarie. Ho fatto in somma ciò, che suol praticara ma 8 si da chi 'voglioso di restaurare un'antica statua o colonna raccoglie e mette insieme que' pezzi,, che tra loro s' incastrano, e ben si connettono. Questo metodo che stimerà diritto chiunque non è privo di senno, deve specialmente poter convenire ad Empedocle. Poichè Aristotile ci atte sta: colui più che altro fisico della sua età, aver detto delle cose, ch' eran tra loro ben legate e concordi (2 ). Ho quin di fatto ogni sforzo per richiamare alla sua purezza e integrità la dottrina del nostro filosofo quando da lui stesso, quando dall' autorità degli antichi scrittori, sempre met. tendo in accordo le idee, che si traggono da questi e da quello. Però non è da ma ravigliare, se con sì fatto accorgimento, ab. bia liberato il nostro fisico di non poche assurdità, e se mi sia venuto fatto d'ab bozzare almeno il vero sistema di lui. La prima origine, e i primi elementi delle cose, sono, per quanto pare, fuori la sfera del nostro intelletto, perchè oltre: passano la sfera de' nostri sentimenti. Pure. i Greci, cominciando da Talete, s' occupa ron tutti in si fatta vana ricerca, e tutti si smarrirono. Alcuni degli Jonici coll'acqua, altri coll' aria, altri col fuoco formaron le cose, e fabbricarono presto l'universo. Non così piacque a Parmenide, e a Pittagora. Costoro, lasciato il mondo materiale, come indegno delle loro meditazioni, si misero per strade diverse in un mondo astratto ed intellettuale. Parmenide spiritualizzò l'u nico elemento degli Jonici; e pose unica, e terna, immutabile sostanza. Uno è tutto, dicea egli, e tutto è uno; sicchè le mu tazioni della materia non altro eran per lui', che modi e semplici apparenze. Pit tagora dal mondo materiale rifuggi alla Geo metria. E se bene questa scienza non fos che un parto della nostra mente; pú re l’ehbe quegli, non si sa come, per lo modello, e 'l vero esemplar dell'universo. Però nella Geometria leggeya i rapporti e le proporzioni, che debbono aver le co se, ch'eran materiali; e vide nell'unità i primi e veri principj de' corpi. Furon gli se 8 b 10 ingegni presi da prima di maraviglia così pel filosofo di Flea, come per quello di Samos; e corsero tutti a ' loro insegnamen ti. Ma stanchi di poi di contemplare un mondo o metafisico, o geometrico, ritor narono naturalmente alla materia; e nac que la filosofia corpuscolare. I primi a far questo ritorno furono Empedocle; Anassagora; Leucippo e Demo crito. Costoro calando dal mondo di Pit tagora alla materia materializzarono le u nità di costui. Atomi chiamarono Leucip po e Democrito i principj delle cose (3 ); particelle simili Anassagora; ed Empedocle col nome li distinse di elementi degli ele menti (4). Ma in verità i loro principi altro non erano, che le unità di Pittago ra fatte materiali, espresse e indicate con vocaboli diversi. Democrito lasciò a suoi atomi l'indi visibilità, di cui le unità di Pittagora eran fornite nello stato suo intellettuale. Questa stessa indivisibilità secondo alcuni, negd al le parti simili Anassagora. Differente dall' uno e dall'altro fu per Aristotile l'opinio. ne d’Empedocle (5 ). Costui cercò nella materia le sue unità, e dividendo e sud dividendo i corpi giunse a quelle moleco le, che più non si potean dividere. Ma dove i sensi mancarono, suppli colla ra gione, e proseguendo la division delle mo. lecole col suo pensiero, s'accorse potersi queste sempre pit di nuovo dividere. Ven ne però affermando che i suoi elementi de gli elementi eran divisibili; ma solo colla mente non gia col fatto. Distinse, così di cendo, le unità di Pittagora dalle sue, ch'eran materiali; e provvida in bel mo do alla durata della natura '. Perchè essen do i principi delle cose incapaci, secondo lui, d'ogni fisica alterazione, quelle deb bono sempre durare come al presente sono: Tennero tutti tre que' fisici non che per cosa assurda, ma impossibile, la crea: zione dal nulla. Ne venne loro in mente, come ad alcuni indi piacque, di supporre la materia nuda d'ogni qualità. Chiama vano essi la materia senza forma, e senza 3 b 2 12 qualità ciò che non è (6): Ciò ch'è, dicea Empedocle, è impossibile venire da quello, che non è (7 ). Ma diverse furon le quali tà, ch ' attribuiron costoro alle loro unità secondo che diversamente riguardò ciascun di essi i corpi e la natura. Anagsagora ebbe le sue particelle non altrimenti che briccioli minutissimi, ma simili in propieta a corpi, ch'eran destinati a formare. E come varj sono i corpi e differenti le lor propietà; così yarie e differenti pose in corrispondenza le qualità delle sue particelle. Per lo che tras portò egli le qualità delle masse a' fram menti di esse, e,e ristandosi alle apparenze ricayò, come suol dirsi, da grande in pic colo. Gli atomi per Democrito erano al contrario tutti della stessa natura; e solo differiyan tra loro per sito, ordine, e fi gura. Idea, che ben si conviene alla sem plicità della natura; la quale con pochi mezzi suol produrre fenomeni, che sono pressochè infiniti, attesa la lor varietà, la lor moltitudine. Empedocle, ciò non o stante, rigettò il pensier di Democrito; e 13 or 1 volendo spiegare la varietà materiale, de? corpi, piglio, com ' egli dovea, e genno consiglio dall'esperienza.. Gli Jonici addensando o rarefacendo acqua, or l'aria, or l'aria insieme e ' l fuoco, diedero forma e qualità a ' cor pi dell'universo. Da questi e dal loro me: todo si dilungo il nostro fisico. Studiava egli i corpi, e separandone le particelle cer cava prima, e raccoglieva poi i loro com. ponenti. Però in luogo di fingere, ritro vava ne' corpi i loro elementi; nè i corpi a capriccio componea alla maniera degli Jo nici, na li analizzava come fanno i chi. niici. Le sue esperienze, furono egli è ve. ro, incerte e imperfette, come si leggono ne' versi di lui. Perchè dirizzandosi per una via non ancora usata nelle fisiche ri. cerche, mancava d'ajuti e di stromenti; massime che la fisica era allora metafisica e bambina. Ma ciò non pertanto que' pri mi e rozzi saggi del nostro Empedocle so no da stimarsi un chiaro testimonio del suo metodo, ch'era tutto pratico e sperimen. 14 tale. Coll'ajuto in fatti delle sue esperien ze agginnse, a giudizio d' Aristotile ', la terra all' aria, all' acqua, al fuoco, e ' l primo stabilì la dottrina de' quattro ele menti (8 ). Quattro, dicea egli, son le radici di ogni cosa: Giove, Giunone, Plu tone e, Nesti, figurando, sotto questi sim, boli il fuoco, la terra, l ' aria,, ee l'acqua '. Per lo che nella sua fisica le unità mate riali eran le parti, che diconsi integranti de quattro elementi; e questi le costituen ti di tutti i corpi, che si trovano in na tura, Sebbene il fisico di Gergenti avesse di stinto l' aria, l'acqua e la terra per le diverse lor qualità '; pure in riguardo al fuoco l'ebbe e' tutte tre, come se state fossero d' unica e medesima natura. Le particelle dell'aria e dell'acqua tendono, secondo lui ', a condensarsi, come fa la terra. E al contrario credea Empedocle es sere propietà del fuoco d'assottigliare, se parare, e levare ogni solidezza alle parti celle dell' aria e dell' acqua. Di fatto fu C 1 15 sua opinione che la luna si condensò a ca gione del fuoco, che da essa si partì, non altrimenti che avviene nell'acqua, quando si riduce in gelo (9 ). E se il fuoco indu. ra i corpi umidi, e vetrifica talvolta i so lidi, ciò accade per Empedocle, perchè scioglie e separa l'aria e l' acqua in quel li dimoranti (10 ). Gli elementi dunque aria e acqua sarebbero stati solidi, se la forza dissolvente del calore portato non l' avesse alla liquidità, che lor si conviene Non conobbe, egli è vero, così pensando, qualunque corpo per via del fuoco poter pigliare, passare, ritornare allo stato soli do, o liquido, o aerifornie; ma giunse a comprendere l'aria e l'acqua dovere al fuoco la loro fluidità. Questa verità, che in tempi più felici avrebbe potuto gene rarne tant' altre, fu allor qual baleno in notte huja, che illumina in un attimo, poi l' oscurità lascia più grande. Tal veri ta o affatto non fu avvertita, o punto non fu ben compresa da’ filosofi d' allora. Ari stotile si lagna d’Empedocle, come di chi e 16 avesse usato de quattro elementi, non al trimenti che fossero stati due; contando quegli per uno i tre, che questi avea real. mente diviso aria, terra, é acqua (11 ). Anzi chi furon dopo (quasi Empedocle non già quattro, nia un solo elemento avesse stabilito nella sua filosofia ) si diedero fal samente a credere il fuoco essere stato te nuto dal nostro fisico per lo principio, da cui ogni cosa veniva, e in cui ogni cosa doveasi risolvere (12 ). Ma comunque ciò, sia, egli è certo, da che. Empedocle manifestò quattro po ter essere gli elementi delle cose, tutti abbracciarono la sua opinione. Di leggieri ciascun' s'avvide l'aria, l'acqua, la terra il fuoco aver gran parte nella composizio ne de' corpi, e ne' cangiamenti più notabi li, che avvengono nel nostro globo e nel la nostra atmosfera '. Di fatto non più a capriccio come prima si solea, s' accrebbe o diminui il numero degli elementi, e tol ta ogn'instabilità tra le scuole, comune fu, e ferma rimase la sentenza de' quattro ele 17 Conta area la dem fial menti. Sicchè su questa dottrina, qual ferma base, venendo assai dopo a posare la moderna fisica; questa Empedocle ricono scere deve', e lui onorare qual suo capo e fondatore. Hanno le scienze, come ogni cosa umana i lor giri, e le loro vicende, che si distinguono da' metodi, dalle opi. nioni, dalle verità, ed eziandio dagli er rori che son dominanti. La fisica nella sua infanzia nise tra gli elementi l' aria, l' acqua, il fuoco, la terra. Questi, non ha guari, ha gia scomposto la chimica. Altri ne sostituiranno i nostri posteri, ch' al presente non si conoscon da noi. Ma niuno negherà la debita lode al nostro fi losofo, che fondo il primo periodo della fisica colla dottrina de' quattro elementi, e regoló i primi debolissimi passi dello spiri to umano nello studio non che vasto ma difficile delle cose naturali. - Più alto senno, e più forza d'in, gogno mostrò Empedocle, quando si mise a cercar le forze, che mettono in movie mento la materia e gli elementi. Si fatta 2, D i leta plaža matukio ered ܐܐ F Table tol fue ele 8 1 ricerca, siccome molto ardua, non era sta. ta sin allora impresa d'alcuno. Anassago ra, attese le sue particelle prive di moto e di vita, non sapendo altro che specola re, ricorse a Dio; e colla forza onnipoten te di lui agitò e sospinse le sue parti si mili, o loro impresse quel moto, che que. ste naturalmente non aveano. Fece costui, come chi a muover la macchina, in luogo di peso, o di molla, cerca la man dell' artefice. Però Aristotilo contro lui si sde gna, e giustamente il rampogna (13 ). Ba sto a Democrito di fornire il moto a' suoi atomi, nè curò di saper come e d'onde quello venisse. Al più facilitò il movimen to immaginando un voto, ove ogni sorta d'atomi avesse potuto agevolmente dime narsi; e particolarmente attribuendo agli atomi del fuoco la figura sferica, come quella, che avesse questi potuto render atti a scorrere e sdrucciolare. Ma Empe docle fu il primo al dir d' Aristotile, che con molto senno in natura conobbe due come cagioni del moto degli ele St & © S forze C 19 menti (14). Una di quelle chiamò amo. re, amicizia, concordia, o l'altra come contraria o lio, inimicizia, lite. L'amore d'Empedocle non è quel del la favola, di Parmenide, d' Esiodo, o d ' altri fabbri di cosmogonia. Era forse per costoro un principio attivo che vivificava 1 universo. Ma questa era un'idea, vaga, generale, e nulla utile alla fisica. Non è così l'amicizia d'Empedocle. La quale è una forza, fornita di particolari propietà, e tanto intriseca alla materia, quanto si stima da noi la sua gravità. In virtù di sì fatto amore le particelle simili tendono a unirsi tra loro, e congiungendosi forma no a mano a mano le masse. Masse che vie più van sempre crescendo; perchè la maggiore sempre ne trae a se la minore, e l'una all'altra infallibilmente s' unisce. Aria, diceva Einpedocle, si aggiunge ud aria, etere a etere, fuoco a fuoco in mo do che il minore al maggiore s’ accoppia. Sospinte del pari dall ' amore le particelle di natura diversa tendono a unirsi tra lo C 2 E ro, e compongono gli aggregati colla loro unione. L'amore in somma unisce la ma teria si fattamente, che se in natura si gnoreggiasse la sua sola forza diverrebbe l' universo unica męssa, unica sfera (15 ). Perchè è propietà peculiare dell ' amicizia di ridurre le cose, che son più, a una so la. La forza quindi per Empedocle simbo leggiata dall' amore, amicizia, e concordia non è se non quella stessa, che oggi da' Chimici si chiama affinità. L'odio, non altrimenti che l'amore, è parimente intriseco agli elementi de' cor pi, ma le qualità d'uno son del tutto op poste a quelle dell'altro. Tende l'inimis cizia a disunir le particelle congiunte; scio gliendo le masse, e scomponendo gli ag gregati. E' singolar propietà di quella ri durre l ' uno in più: tal che se l'universo fosse una sola massa e unica sfera, que sio in forza dell'odio si dovrebbe tutto quan: to sciogliere in minutissimi briccioli. Odio in somma, inimicizia, lite per Empedocle son e valgono forza dissolvente, o 1 tutt'uno 21 repulsiva. Di fatto chiamava egli anche il fuoco inimicizia; perchè questa come quel lo distrugge e separa ogni cosa (16 ). Dą ambidue queste forze tra loro op poste, d'ailinità una, e dissolvente l' al tra, significate dall' amore e dall'odio, il nostro Empedocle ne ricava il moto ne' cor pi. L'amicizia sollecita gli elementi all' u nione tra lor l' avvicina, e nell' avvicinarli tra loro parimente li muove. L'inimicizia all'incontro cospinge le molecole unite, so spintele a poco a poco le stacca, staccate le del pari le muove. Forze adunque so no l'amore, e l'odio del nostro fisico; co me quelle che avvicinando o respingendo gli elementi cagionano lor movimento. Fors ze ch'egualmente son chimiche, conie quel le, che uniscono e separano; compongono e scompongono i corpi in natura. Ma co me furono esse adombrate sotto le forme morali d'amore e odio, di lite e concora dia; sono state mal comprese e capriccio samente interpetrate. Alcuni videro in quel. le due forze la divinità e la materia (17): 22 altri: l'ordine e'l disordine; il bene e ' l male (13 ): chi la luce e le tenebre; chi l' Oromaze e l'Arimanio de' Persiani, o altre cose simili (19). Tanto egli è vero, che il suo linguaggio, come poetico, ha recato ingiu ria a' suoi pensamenti e alla sua filosofia. L'amore e l' odio, siccome dice il no stro fisico, han que signorie; ma alternan ti e separate tra loro. Comincia l'impero dell'odio, quando finisce quiel dell'amore, e declinando la signoria dell' inimicizia, l' amicizia ritorna a' suoi primieri onori. E come una sifatta vicenda non ha mai fi ne; così costante si mantiene il movimen to in natura, e gli elementi in eterno s' uniscono e separano. Esprime egli tal con tin: io e scambievole impero dell'odio e dell' aniore coll'immagine, e somiglianza d'un cerchio, che si revolve. Perché il cerchio la periodi finiti, che all'infinito si posso no rinovare. Ma tolte le voci d'impero e signoria, che son propie della poetica, si potrebbe il pensiero d'Empedocle raſfigura re nella vicenda delle forze, mercè la qua. 23 bene i ebre; chi ni, oabe ero, chei ell'aur Onn '. le i pianeti si'movono. In questi or preva le la forza centripeta e viene a farsi mag. gior la centrifuga; or prevale la centrifu ga, e viene a farsi maggior la centripeta. Sicchè alternativamente prevalendo le due forze centrali, i pianeti s' accostano e dis costano dal sole, e costantemente si mo vono nelle loro orbite ellittiche. Tale dellº amicizia, e inimicizia d'Empedocle. Come gli elementi s' uniscono; comincia a preva ler l' inimicizia, che tende a separar le cose unite. E come gli elementi dividonsi; principia a superar l'amicizia, che tende a unir le separate. Per lo che ambidue sempre operano, e si a vicenda prevalgono, che gli estremi dell'odio occupa l'amore, e l' inimicizia que' dell' amicizia. Giusta questa legge Empedocle fa e ternaniente operar l'amore e l'odio. Così, e ' dice, comanda o il füto, o la necessi tà, o l'antico giuramento degli Dei. Ma il fato del nostro filosofo non è quello de. gli Stoici, o degli Eleatici. Egli null’ al tro indica colla parola necessità, che l'ins etarr Itale ம் care PA umpert 2.  la que 24 tima natura di quelle due forze. Siccome eterna ei reputava la materia, ed eterne le forze, da cui essa era animata; così l ' amore e l'odio volea dover sempre e ne cessariamente operare. Gli elementi secon do lui o son separati, e ſrettolosa corre l ' amicizia a unirli; o sono uniti, e impa ziente va l'inimicizia a separarli. Se per poco lascerebbe l' una o l ' altra di congiun gere le cose separate, o segregar le con giunte, l'amore e l'odio, mutata natura, non sarebbero più nè odio, nè amore. E' quindi pel nostro fisico così necessaria l'e terna vicenda delle due forze, come invin cibile si stima il decreto del fato e della necessità. Il fato adunque nel dizionaria del nostro filosofo altro non significa, che l' intima indole, e l'immutabile natura delle due forze senza più. Però a torto Aristotile riprende lui, come chi avesse introdotto nela la fisica il fato é la necessità (20 ). Posti questi principj va Empedocle squa dernando il suo sistema, qual poeta, qua si collocato su d'un eminenza, di la con 25 ta; ON ie. Sasa templando la natura dichiara agli uomini le sublimi lezioni di sua filosofia. Nulla, egli dice, manca, nulla ridonda nell'us niverso; perchè la quantità della materia nè cresce nè manca. Tutto nasce, tutto muore, tutto in altra forma trasformato ri sorge, L'accozzamento di parti, che son disgiunte, n'è la nascita; e la separazion di quelle, che sono accozzate, n'è la morte, La natura quindi null altro è, che ” se parazione e miscuglio. Essa è eterna; per che l'amore e l'odio sempre fa e disfà, strugge e compone. Mancherà il presente ordine di cose, sorgerà subito un altro. Questo distrutto, di nuovo, e sotto altra, guisa si verrà a formare. Così senz' alcuna fer posa uno in un altro ordine successivamena te, e sempre sarà permutato. Nè per que: sti continui giri si cangia la natura, ne ha od te luogo o confusione, o simmetria. La materia non è stata, nè sarà mai senza moto. La natura è stata sempre qual sempre sarà: cioè amore e odio, separazione e union d' elementi. Cosi parlava Empedocle nel suo d ali 200 € c). och eta, Jade 26 poema sulla natura, o per dir meglio cosi egli smentì anzi tempo chi dopo lui dovean supporre aver lui voluto il caos immagina to sol da' poeti (21 ). Lo stato di confu sione e di caos pel nostro fisico, o non è stato, nè sarà mai, o sempre egli è stato e sarà. La natura quella è ora, ch'è sta ta, e sempre sarà: miscuglio e separazio ne: amicizia e inimicizia: nascita e morte. Passando Empedocle d'una in un ' al tra idea strettamente legava i suoi pensie ri. Siccome la materia è tutta divisa ne' quattro elementi; così i corpi per lui eran composti presso a poco de'medesimi. Ma perchè ciò nulla ostante quelli tra lor son tutti diversi; quindi andava ricercando in che, e.come si differisser tra loro. Tal difie renza ei rinvenne con gran perspicacia nella njaniera diversa, con cui gli elementi com binansi. Però non è nè l'aria, nè l'acqua, nè la terra, nè ' l fuoco che distingue le co se; ma la misurata lor mescolanza; in bre. ve, la proporzione in cui trovansi due o piti di quelli componenti. Rappresentando da € st CL T 1 C 27 c2003 de poeta le sue idee ch'eran fisiche, dicea: i dipintori mischiano colori diversi, e col mi schio di questi van figurando uomini, pian te, fabbriche, uccelli, e anche gli stessi Dei. Non altrimenti fa la natura. Ha el la, come quattro colori, che sono i quat tro elementi, e va coll ' accozzare un poco di questo, di quello, e quell' altro forman do uomini, piante, animali, donne leg giadre, e chiarissimi Dei. Tutto lo studio d'Empedocle era quel di scomporre i corpi, e scomponendoli cercava la ragione, in cui stavan tra loro le parti componenti. Per chè era persuaso, che la loro varietà veni va, ed era tutta riposta nella varia pro porzion degli elementi. Aristotile che am mira un sì bel pensamento da ad Empedo cle il vanto d'aver lui il primo conosciuto una tal verità (22 ). Non si può quindi negare il metodo d’Empedocle, come quel lo, che volea l'analisi de' corpi, esser chi mico; chimiche esser le forze amore e os dio, che inprimean moto alla materia; e chimica esser tutta la sua fisica; perchè tra lai arch nemt 22 نماز کی P.; Det ue opad ando de d 2 28 P ch for pa me pre me an CO fondata sulla proporzion delle parti, che compongono i corpi pressochè infiniti della natura. Può ora essere a chiunque manifesto Empedocle il primo aver delineato il siste. ma dinamico, che oggidi leva tanto rumo re in Alemagna. Pone questo sistema al cune sostanze semplici e primitive, che col le loro diverse combinazioni producono la varietà de'corpi. Questo stesso fece Empe docle ammettendo i primi elementi, e com binandoli in varia e differente lor propor zione, Forze attrattive e repulsive vogliono i Dinamici; ed Empedocle immaginò affini tà e forza dissolvente, o sia odio e amo re. Che se quegli a spiegare gli stati e i volumi de' corpi si fondano sul contrasto e rapporto, in cui si tiene la forza attratti va colla repulsiva; anche Empedocle dicea, che l'inimicizia sta appiattata nelle parti de' corpi pronta a vincer l'amicizia nel tem po opportuno. Ma io non mi maraviglio punto di tal corrispondenza tra Dinamici e il nostro fisico. Gli uomini gireranno sem at c ) in D gi ti 29 pre nella stessa orbita, e torneranno sem pre a riunirsi nelle medesime ipotesi ogni qual volta, che si aggireranno sì oggetti, che illustrar non si possono con osservazio. ni, e co' fatti. Perchè limitate essendo le forze del nostro spirito, limitato sarà del pari il numero delle sue combinazioni. ' I metafisici di fatto sogliono ricondurre sem. pre in iscena più o meno vaghe, più o meno adornate le opinioni medesime. Gli antichi vollero rappresentar l'essenza de' corpi. Però Democrito immagind il sistema atomistico; Empedocle il dinamico. Oggi, che alcuni han pensato di tentar lo stesso, in Francia è risalito in alto il sistema di Democrito, e quel d'Empedocle in Aloma gna. Dobbiamo persuaderci una volta che le scienze s' accrescono non già colle nostre opinioni, che sono semplici fantasmi della nostra mente, ma coll' esservare, ed espri mere co' nostri pensieri i fatti e le consue. tudini della natura. Questo metodo per avventura non era ignoto in quella stagione in Gergenti. An 30 [ a crone l'amico d'Empiedocle, poste giù le ipotesi, fondava la medicina sull'esperien za, e fu capo della setta empirica. Il no stro fisico cercava e stabiliva la varietà de' corpi cercando e stabilendo la proporzion de' lor componenti. Ma i tempi imprimono nel nostro spirito la lor forma, il lor caratte re, le loro opinioni; operando su noi non altrimenti dell' aria la qual si respira. Non è quindi da maravigliare se Empedo cle s'occupò, come allor si facea, su i principi delle cose, e sulla generazion dell' universo. Il romanzo della nascita del mondo era in que' tempi un'introduzione, che si stimava necessaria alla fisica. Niuno affat to potea meritare il titolo di sapiente, se non prima avesse ordito la sua cosmogonia. Quindi i filosofi cominciavano allora i lor poemi dalla creazione del mondo; molto più, che a ciò fare non dovean perdere gran tempo, nè durar molta fatica. Le loro cosmogonie erano un lavoro più di fan tasia, che di ragione. Si fatti lavori me 31. glio che cosmogonie potevan chiamarsi ro manzi, in cui i paragoni tenendo luogo di raziocini affermiare è lo stesso che dimostra re; e le capricciose finzioni si scambiano come opere della natura. Empedocle dun que al par degli altri intese alla formazion dell' universo; svolgendo e dichiarando l' impero della sua inventata amicizia. Diede prima nascita all'etere, indi al fuoco, poi alla terra. Da questa trasse l'acqua, l'a ria, l'atmosfera; indi le piante, gli uomi, ni, e gli animali (23 ). Pose più diligen za e più tempo a formar dalla terra; ma per opera dell'amore il genere umano. Rimescolando gli uomini colle piante, e co gli animali, tenne costoro come unica ma teria, in cui tutti si fossero contenuti qua si in ischizzo, ma senza che distinta aves ser presentato la irma, leggiadria, e ata titudine delle loro membra. Queste a po co a poco ideò egli essersi sviluppate, ed esserne venute fuori delle immagini, prive di noto e di vita, simili alle pitture, ale le statue. Nella terza generazione di poi 32 furon distinti i maschi dalle femmine. Nel. la quarta s' ebbero degli uomini, che na. scono gli uni dagli altri; perché, distinto il sesso, si mosse il carnale appetito (24). Le piante secondo lui fitte restarono in ter ra per trarne l'alimento; e gli animali qua e la si divisero per cercare un abituro con veniente alla loro natura (25 ). Queste co se sconce, incredibili, e simiglianti sognò il nostro fisico, che dovrebbero passarsi sot to silenzio, se non giovasse d'accennarle per dare șin' utile lezione allo spirito uma no. Il quale ardito, com ' egli è, malgrado gli assai folgoranti brillantissimi lumi non che della religione, ma della moderna de parata filosofia, a dì nostri va sempre fi sicando geogonie e cosmogonie. Darwin di fatto adottò gli errori del nostro Empedocle, e certamente da lui ebbe a trarre l'idea della successiva perfezione, e a grado a grado del regno animale. L'uno e l'altro fece nascere i vegetabili prima degli anima li nel tempo e nello stato, che le cose e rano imperfette. Entrambi del pari segna 33 # rono gli animali essersi a poco a poco svie luppati, e aver tratto tratto acquistato quel. la perfezione, di cui oggidi son forniti. Vogliono tutti due, che dal principio i ses si fossero stati confusi si negli animali che negli uomini. Ambidue affermano che l ' universo giunse al grado di sua perfezione, allorchè separati i sessi nacquero gli ani mali gli uni dagli altri. Darwin in somma dice unica essere stata la specie dei fila menti', che diede origine a tutti i corpi, che sono organizzati (26). E parimente fu opinione d'Empedocle, che unica fu la pasta, da cui vennero vegetabili, animac li, uomini, e Dei (27). Tanto egli è ve ro, che i nostri pensatori sempre, o al men per lo più copiano, e s ' arrogano le speculazioni degli antichi. Nella cosmogonia d'Empedocle sicco me a chiunque è maniſesto, non intervie ne, ne opera alcuna cosa la Divinità. Ma così pensando, intendea egli di recarle 0 nore più presto che ingiuria. Avendo egli ' la materia, come allor si pensava, per co 34 I sa vilissima, temeva che la sapienza si fos se bruttata, se avessé preso a ordinare co se, che son del tutto materiali. Per lo che a intendere la formazione dell'universo, lasciata la mente divina, invocò il caso, e commise gli elementi in poter della for: tuna. In sì fatti grossolani sciocchissimi er rori s' imbatte chi stoltamente, e senza una precedente saggia e matura riflessio ne, vuol togliere il supremo artefice dal la fabbrica del mondo. Il caso, fantasti cano essi, siccome racchiude in se tutte le combinazioni possibili ad avvenire; così tra le molte, e assai e infinite, che son mo struose, quelle poche ancora contiene, che son regolari. Infinite, dicea Empedocle, sono state le forme, che ha preso teria ', e senza numero le combinazioni de. gli elementi. Ma queste si son succedute senz' alcuna. posa sin dall'eternità, e forse non han potuto durare perchè prive so no state di regola e simmetria. Dopo tan. te é tante strane vicende, gli elementi in fine, conchiude egli, essersi disposti in la ma 35 quell'ordine, che il mondo ritiene, e da tutti con ragione, s ' ammira. Dal caso a dunque Empedocle formò l'universo. Al caso attribui egli quel, che privativamente è sol propio della sapienza, e dell'infinito potere d'un esser supremo. Da un acci dente sogna egli essersi condotto il presen te ordine, ma dopo lungo, vario, e suc cessivo disordine. Queste idee và Empedocle adornandh colla sua fantasia vivace, e poetica. Figir ra egli mani, piedi, gambe, busti, oc chi, braccia, spalle, teste di animali, di uomini, che tra lor misti é confusi si por tan qua e là únendosi- senza regola, e sen za misura. Ora egli vede petti senza spalı le; teste senza cervici; e fronti prive d' occhi. Or egli osserva piedi congiunti a colli, occhi a spalle, teste å gambe, di ta a fronti, e altre irregolari unioni. Quando immagina egli de' tori in volto u e uomini colla testa di bue; e quando nota nell'uomo l'impronta della pecora ', e in questa quella dell'uomo. Em mano e 2 36 1 1 a i pedocle in somma finge, trasfornia, è com pone mille e mille specie di mostri, che per lui una volta furono, e di quando in quando appariscono. Ma dopo forme si sconce é fuor di natura dispone egli ca guialmente quelle membra nelle proporzio ni, e misure che al presente veggiamo. Che maraviglia è dunque, ei conchiude, che dopo tanta varietà di mostri sieno a sorte venute le belle e ben disposte mac chine degli uomini e degli animali? In tal modo si sforzava il nostro fisico di render credibile ciò ch'è falsissimo; facendo come chi gli occhi s'acceca per meglio e più chiaramente vedere, Ma i suoi sforzi tutti quanti gli tornarono vani. Non cape ne capirà in intelletto umano, che il mondo il quale spira ordine, sapienza, e nia, sia l'opera del cieco, e dello stolto accidente. Ciascuna parte d'un essere forma un sistema; un sistema formano tutte le sue parti; un sistema tutti gli esseri, che tra loro legati corrispondono tutti al gran di fi armo 37 c scuna, segno dell'universo. I moti varj e multi plici de corpi celesti son regolati da poche e semplicissime leggi; le quali nascono e de rivano da unica propietà della materia. Se dunque ogni sistema indica combinazione, e questa suppone disegno e architetto; chi contemplando la fabbrica dell'universo, ch ' è un grande e maraviglioso sistema in cia. e in tutte le sue parti, potrà non ammirar la mente di chi seppe non che idearlo, má farlo? Se il mondo è così per fetto, qual dovrebbe essere, se fosse l'o pera d'un supremo fattore; se l'universo non mostra in ciascuna sua parte, avvegna chè minima, alcun segno o piccolo o lon. tano di casualità; chi senza empietà o stol. tezza, potrà riconoscerlo per opera del ca. so e non della mente d'un Dio? Ma senza più travagliarci a dimostrar cid ch'è chiarissimo; l'esistenza d'un som. mo fattore, oltre all'essere scritta nell' ani. mo nostro, si.legge ne' cieli, e a noi per viene da ogn'angolo della terra. Da che Anassagora disse agli uomini la mente di l 38 SO vina con singolar magistero è giusta leggi invariabili, áver ordinato la materia, niu. no vi fu, che nol consentisse. Il popolo d'Atene alzò allora un tempio a Dio, qual supremo fabbro degli esseri, e onorò quel filosofo del soprannome di mente. Anzi la ragione del volgo ha vinto in cið, e vincerà sempre i lunghi ragionamen ti di qualunque filosofo. Il volgo non lo rigetta con orrore le cavillazioni degli atei, che tentano invano negar l'esistenza d'un eterno fattore, ma poco o nulla cura altresì le speculazioni di que' sapienti, che vogliono dimostrarla. E in vero tal verità alla classe appartiene, attesa la somma evi denza, di quelle che sdegnan le pruove, e che si possono guastar più tosto che ras sodare co' lunghi e sottili raziocinj d'una filosofia illuminata. Empedocle e Democrito sebbene fossero stati superati da Anassagora, perchè non già una mente divina, ma il caso avesser posto, come autor dell'universo; pure son degnissimi d'onore per i loro metodi, o bel 39 osta k.. ** dias li pensamenti nelle fisiche discipline. Poté Democrito per sua particolar virtù concepi re egli il primo un sistema meccanico del mondo, fondato sulle propietà de' corpi, o sulle leggi del niovimento. Valse Empedo. cle per forza di sua mente a immaginare anch'egli il primo un sistema chimico dell' universo, che posando su i quattro elemen ti, è regolato da forze, e sottoposto alle leg. gi dell'affinità. Ambidue tennero in onor l'esperienza, che certo e naturalmente con duce alla scoperta della verità. Se chi do po lor filosofarono, fossero stati poco più sensati; avrebber dovuto mettersi dietro la loro scorta, e collegare insienre i modi chi mici d'Empedocle e i meccanici di Demo: crito. Si sarebbe allora abbreviato il corso degli errori, e anticipato il principio di quella filosofia naturale, che fa tant' onore a ' nioderni. Ma le sette smarrirono i filoso fanti d' allora, e costrinser costoro tanto più a errare, quanto più essi s' attennero alla metafisica, e si scostarono dall'esperi. mentare e asservare. Dovettero scorrer piů Dice? 17 bile su 40 secoli, perchè venisse in grande stato lo studio della natura. S'apparteneva veramen te a'nostri tempi, che congiunte chimica e meccanica avesser portato la fisica a quel grado d'altezza, in cui oggi si trova. Ma è sempre da confessarsi Empedocle e De. mocrito aver gettato i primi semi di que' vantaggi, che cal favore del tenipe la fi. sica ha oggi ottenuto. Le opinioni d’Empedocle sų gli ele menti, e sull'origine delle cose, se non son vere, almeno non sono ingiuriose nè al la sua mente, nè alla sua filosofia. Splen dono tra gli abbacinamenti chiari i lampi d'ingegno, e un metodo sopra ogn' altro riluce, che l'avrebbe guidato alle più bel, se gli errori de' tempi non gliel' avessero contrastato. Ma non è così, quando il nostro filosofo alle cose si rivol ge, che trattan d'Astronomia. I suoi sen timenti su gli astri sono altrettanti assurdi. Empedocle il fisico pare altr' uomo, e tut. to diverso da Empedocle astronomo. Tal differenza, che veramente è notabile, se 1 le scoperte, 41 non m'inganno, nasce da ciò, che la sua fisica si trae in gran parte da' frammenti de' poemi di lui; là dove le sue opinioni astronomiche ci vengon quasi tutte dagli Storici degli antichi filosofi. ' Non senza ra gione quindi si può sospettare, che i suoi pensieri non sono strani e deformi, quan do egli stesso l'annunzia; e al contrario pajono sconci ee mostruosi,, allorchè altri parlano in vece di lui. E ' maggiore tal congettura, qualor si considera que com pilatori essere stati grossissimi delle cose a stronomiche. Costoro affastellano in confu 90 le opinioni de ' filosofi, e o abbreviando le mozzano, o interpolando le allungano, o pure in qualunque altra manieria, senz' alcuno intendimento, ogni cosa deformando's le alterano. Non è quindi duro a com prendersi, gli storici del nostro filosofo, tra per l'imperizia delle cose del cielo, e per l'espressioni di lui, ch'eran tutte fi gurate e poetiche, averne contraffatto la sua astronomia. Non si negan con ciò gli errori, in cui egli per avventura avesse po f 42. tuto cadere. So benissimo l' astronomia dei Greci, sfornita.com'era in que' tempi d ' osservazioni, ridursi, tolto il nascere o trae montar d' alcune stelle, a una raccolta d' antiche tradizioni, o di opinioni bizzarre. Si conviene pure Empedocle aver potuto di: re il movimento del Sole essere stato da prima più lento, che a' suoi tempi non e. ra. Si concede altresi aver lui potuto opi nare l'asse della terra aver pigliato una po sizione all' Eclittica inclinata, che prima non avea: (usanza de' cosmogoni acconciare a lor talento le parti dell'universo, e condur le allo stato, in cui ne' suoi tempi si trora no ). Ma non si può affatto credere, Empe docle aver tenuto i tropici quasi due mura glie, cui giunto il Sole, essere stato stretto a torcere il suo cammino; e aver segnato și fatti circoli non altrimenti che due confi. ni, che impediscono il Sole camminando verso i poli d'oltrepassare il suo termine. Chiamò egli que circoli con linguaggio fi. gurato i confini del Sole; perchè a quel li il Sole giungendo par che il suo cam, 1 43 mino rivolga. In breve intese egli indica re l'obbliquità dell'eclittica, e segnar lo spazio in cui il Sole fornisce l'anquo ap parente suo corso. Giacchè l'anno si com putava allora da’ solstizj, i quali dall'om bre osservar comodamente si possono coll? ajuto dell'ago. Con tali e simili sconcezze si è guastata l ' astronomia d’Empedocle; Però se tra per difetto di memorie di lui, e per ignoranza degli storici, ė, ben diff cile d' indagar ciò ch' Empedocle penso sul. le cose del cielo; è assai più difficile sa per, ciò ch'egli non disse, e a torto a lui appongon gli storici, Temendo gli Ateniesi, che la terra fosse stata un'abitazione mal soda, furon solleciti della sua stabilità. Provvidero e glino alla propią sicurezza, e a quella del genere umano: ma colla sola fantasia a modo del volgo. S'appresentarono la ter ra in forma d'un monte, le cui barbe vanno a profondare e perdersi negli ultimi lontani confini dello spazio. Assegnarono ina sieme alla terra già divenuta nionte il suo f 2 44 co vertice di forma rotonda; e quivi loc:arono ferma sicura l'abitazione degli uomini. A mente dunque di quel popolo il Sole e gli astri non givan mai sotto la terra, che nol poteano; ma spuntavano e tramonta vano girando intorno intorno a quel verti. ce. Questa opinione, che in Atene era un pubblico dogma, non si potea contra star da filosofi senza grave lor danno. Il popolo pigliava alto sdegno di chi osava sen tirne in contrario, e contro lui si scaglia va, come contro chi avesse tentato di som. muover la terra é perdere a capriccio.il genere umano. I filosofi d'allora tra per che adularan la plebe, come chi più che gli altri soglion fuggire i pericoli; o per ehe su ' ciò nulla dissimili dal volgo crede van lo stesso; non mai vi fu alcuno, che avesse ardito negare il monte, le radici, il vertice, e la finta figura della terra. Non cosi fece il nostro filosofo, che molto perito nelle cose naturali, anche da Sici lia si scaglid contro sì fatta sentenza. Ri dea egli del monte, delle radici, del ver 45 tice.e aspramente ripiglio, Xenofane, che avea per immensa la profondità della ter ra (28 ). Chi, dicea Empedocle, tali co se divulgano, o poco veggono, o nulla san. no dell'universo.; Altri e lontani da quelli del volgo fu. rono i sentimenti d' Empedocle intorno al la terra. Fu opinione di lui, che fuoco bruciasse nel centro di questa. I sassi i dirupi, gli scogli, ei riguardò come sco rie, che la virtù di quel fuoco avea in alto levato. L'acque, che sorgon terma li, quelle sono, a suo credere, che sotter ra scorrendo piglian calore dal quel mede simo fuoco (29 ). Empedocle in somma im maginò sin d'allora l'ipotesi del fuoco cen. brale, che Buffon, non è guari, più bel la e vistosa ha richiamato alla luce. Pensavano gli Jonici, che la terra sospinta dal vortice che occupava tutta la sfera, era stata condotta nel centro di ques sta. Ma non sapeano essi comprendere, come quella, sfornita d' appoggio, ben li brata si stesse nel punto di mezzo. Timi 1 46 di quindi i filosofi al par del volgo, ne dilatavan la base, e tormentando i loro ingegni si sforzavan di sostenerla colle ipo: tesi. Talete avvisò la terra restar sospesa nell'aria, non altrimenti che un galleggian te sull'acqua, Democrito e Anassagora ne fecero la base non che larga, ma conca va; aifinchè l' aria quivi sotto racchiusa la potesse sostentar con sodezza. Parmenide credette sostenerla col principio della ra gion sufficiente. La terra a suo pensare stava nel centro, perchè non avea ragio ne, che la portasse per questo più tosto, che per quel verso, Ma il nostro fisico si dilung) da co storo, e con altri principj prese a spiegar sie la stabilita. L'acqua nella cosmogonia di lui s' era separata dalla terra per l'im peto del giro, che questa facea (30 ). Pe. rò la terra nel suo sistema rotaya. Rota va del pari secondo lui il cielo; è altra differenza non pose nella rotazion dell' una e dell' altro, che nella velocità, Minore la yolea nella terra, che stava nel centro; 47 1 rola, ando il cla colo come star galo raal Po maggiore nel cielo, che in giri smisurati si volgea. Da cid appunto egli ne trasse e perchè quella stesse in aria sen za cadere. Se girate, egli dicea, con pre stezza una secchia; l'acqua non cadrà, ancorchè nel girarsi si tenga capovolta (31 ). Tal è nella sfera i La conversion celerissi ma del cielo vince ogni peso e ritiene la terra. Al moto dunque del cielo egli in catenava la posizion della terra nel cen. tro, il suo rotare, e lo starne, Si sihar rì, egli è vero, in quella spiegazione al par degli altri; perchè allor s'ignorava la gravità della terra esser diretta al suo cen. tro. Ma il suo metodo di ridurre più fe nomeni a un solo, e ripescare ne' fatti la ragione di quelli, è molto degno di lode. Dall'esperienza della secchia, che pre stamente si volge, han preso argomento chi son portati per l'antichità, aver co nosciuto il nostro filosofo la forza centrifu. ga, Ma a pensar giusto, ignorandosi allos ra le leggi del moto, niuno ebbe, nè as ver potea l'idea vera e matematica di quel, 1 ajd a $ permas 30, ho murah ento: 48 d he Te la forza. Egli è vero essersi saputo in que' tempi, e da Empedocle essersi ben dimo strato la velocità del girare impedir la ca duta de' gravi. Ma questo era fatto, non forza, e più esempio, che principio. Eran sì lontani Empedocle e gli antichi di cono scer quella forza, che presso loro fu fer ma e costante opinione, i corpi a cagion di circolazione avvicinarsi al centro se pe santi, fuggir dal centro se leggieri (32 ). Ma se'a lui si può contrastare la co gnizion della forza centrifuga, gli si deve certamente quella concedere della rotazion della terra. Opinione era questa comune presso noi ne' tempi greci, e propia in ve rità della nostra Sicilia · Giacchè Ecfanto e Iceta la divulgarono in Siracusa; ma sin da tempi antichissimi Empedocle l' insegno nella nostra Gergenti. Avea il nostro Astronomo il Sole e le Stelle, come se fossero della stessa natura. Opinava egli quello e queste esser di fuo co (33 ). Ma non perciò è da credere, ch ' ei tenesse la luce per eguale o simile al R te te e 1 49 1 fuoco terrestré. Non sapendo egli qual fose se la natura della luce, che per altro è ignota anche a noi, tenea il Sole come una massa ignita, che lanciava nella sua sfera le sottili sue particelle (34). Queste ei credea, che dal Sole si moveano, e pro gressivamente propagandosi giungeano agli occhi. La luce, dicea, va prima nel mez zo, e poi perviene sino a noi (35 ). An ticipava così la scoperta bellissima della pro pagazione della luce, che i Satelliti di Gio ve doveano in tempi avvenire rivelare a Roemero. La vide, egli è vero, coll' in telletto, e senza ridurla a fatto, la lascið nel posto di semplice opinione. Ma nel tempo de' sogni e dell'ipotesi è degna cer to d'ammirazione quella opinione, che coll' andar de' tempi è stata condotta al grado eminente di fisica verità. L'emission della luce fu l'ipotesi, ch' allor tenne Empedocle', e cui oggi s' acco stano chi non vogliono vaneggiar per no velle bizzarie. Questa a dì nostri d ' alcu ni è rigettata, e in que' tempi era ancor مه 50: contrastata. L'ipotesi che il Sole quanti raggi manda, altrettanti ne perde, fece al lora, e ha fatto oggi credere a parecchi, ch ' egli raggi mandando, e raggi perden do sì gradatamente impoverirà di luce, che collo scorrer de' secoli giungerà sino a spe. gnersi. Newton all'incontro dimostra in sensibile essere stata la perdita della luce solare dal principio delle cose sino a noi. Anzi egli quasi sforzandosi d'assicurar la luce alle future generazioni, cerca di sup plir la massa solare con quella delle co mete. Le quali attratte dal Sole, quan do nel suo giro sono vicinissime a lui, e su lui cadendo, colla loro materia vanno a risarcire la perdita diurna delle particel. le solari. Ma Empedocle in un modo, che se non sarà forse il più vero, è certamente assai più ingegnoso, s' industrið provedero alla durata del Sole. Siccome i raggi lan. ciati dal Sole son poi riflessi dalla terra; cosà egli pensd, che quelli dopo la rifles, sion concentrandosi, ritornano al Sole (36). 51 Però questi per riflessione acquista quel, che per enuission perde; e atteso un sì fat to circolo durerà sempre lo splendore del Sole. Empedocle quindi potė ben dire la luce essere al presente una riflessione di quella che fu una volta lanciata dal Sole: Ma i compilatori dell'antica filosofia non capirono i sensi del nostro filosofo. Credette ro essi due essere i Soli d'Empedocle, uno invisibile, visibile l' altro, che collocati in due opposti emisferi si guardavan tra lo ro. La terra, eglino dissero, riflette al se condo i raggi invisibili lanciati dal primo; e quello poi in forma di luce li rimanda alla terra (37). Ecco con quali sconcez ze quegli storici guastarono i divisamenti del nostro filosofo sull' emission della luce. Non meno speziosa fu la difficoltà, che s'oppose a Empedocle ne' suoi tempi contro la succesiva propagazion della luce. Siccome nel tempo che la luce viene a noi, il Sole si move; così l'occhio astretto a seguire la direzion della luce, vedrà il Sole in un punto, in cui fu, e poi non g 52 è più. Empedocle a rispondere, non prese scampo nella prodigiosa velocità della luce, o in qualche sottigliezza, cui i fabbri di si stemi soglion rifuggire. Non è il Sole, ei di cea, ma la terra che in ventiquattro ore si volge: La terra' dunque nel rotare s’im hatte ne' raggi solari, ed essa prolungan doli va a trovare il Sole nel punto, in cui egli sta. Non si potrebbe di certo a di nostri in miglior forma rispondere a chi in quel modo vclesse attaccar l ' emissione e successiva propagazion della luce (38 ). • Empedocle ebbe la Luna come opaca, perchè frapponendosi tra il Sole e la ter ra cagiona l' ecclisse. Plutarco a lui so lo (39), mettendo in non cale tutti gli altri, da il vanto d' aver divolgato la Lu. na essere un corpo privo affatto di luce, che riflette i soli raggi solari. La chiarez za della Luna' ei chiamava non che dolce e bénigna, ma insieme straniera. Una lu ce straniera, dicea Empedocle qual poeta, circola intorno alla 'terra (40). Ma Empe docle ebbe la disgrazia d' aver avuto gua 53 stato ogni suo sentimento. Achille Tazio dall' epiteto di straniera dato alla luce lunare da Empedocle, ricavo, non so come, il medesi mo aver tenuto la Luna qual pezzo svelto dal Sole. Ma buon per noi che ci sia re stato il verso d'Empedocle, che smentisca l'interpetrazione di Tazio (41 ): Anassagora per dare una misura del So le riferì la grandezza di quest' astro al solo Peloponneso. Il nostro filosofo fu il primo, cui venne in pensiero di comparar Sole e Luna tra loro. Egli credea che il Sole fosse stato più della Luna distante dalla terra so pra due volte (42). Ciò non ostante affermo quello essere stato assai più grande di que sta; sebbene ambidue fossero appariti dello stesso diametro (43 ). In somma l'ineguale distanza fu per lui certo argomento della lo ro diversa grandezza. Parrà ad alcuno ciò essere stata cosa di lieve momento; e pure fu un passo, e un avanzamento che allora fece la scienza del cielo. Giacchè niun altro prima d'Empedocle, ed egli fu e il solo e il primo, che insegnò gli astri lontani 54. doverci comparire piccoli più de' vicini. E gli pure fu il primo che pose in confronto tra lor gli astri non solo, ma i loro diame tri. Dopo hui in fatti prima Eudosso misu rò i diametri apparenti della Luna e del Sole; e poi cominciarono i Greci a stabili re i periodi lunisolari, da cui nacque, e s’ avanzò l'astronomia de' medesimi. Si potrebbe quì aggiungere a formar tutto il quadro dell'astronomia del nostro fi losofo, aver lui forse conosciuto che la Luna rotando intorno a se stessa si mova circa la terra. Ma punto non conviene dar a Empe docle una gloria o dubbia o sospetta (44). Basta aver levato a suoi pensieri astronomici quella ruggine, di cui li bruttò l'imperi zia di quegli storici. Appresso l' onorano al cuni qual autore d'un poema sulla sfera in cui si descrive, secondo l'uso de' tem pi il nascere e ' l tramontar d' alcune stel le. Ma i critici illuminati han quello come opera d'ignoto autore e non di lui (45 ). Io non discordo da loro; anzi confesso non essere stato Empedocle intento a osservare, 1 55 1 come si conviene nell' astronomia. In quell' età si costruiva il cielo da' filosofi non si osservava. Era quella la stagione della fan tasia, delle opinioni, e dell'ipotesi, che suol sempre precedere l' altra, che porta seco il raziocinio, l'osservazione, la veri tà. Però non è poca la gloria d’Empedo cle nell' aver conosciuto la ' successiva pro pagazion della luce, la rotazion della ter ra, l'opacità della Luna, è scostandosi dalle volgari stravaganze nell' aver compa rato il primo le masse tra loro della Lu na e del Sole. Se non può egli quindi emulare Timocari e Aristillo, Ipparco e Tolomeo, che nella Greca astronomia fu ron chiarissimi; pure non è da negare lui aver saputo delle cose del cielo assai più che la sua età non portava. Vennero quel. li assai dopo, e in tempi assai più illu minati e felici; e non è maraviglia, che questi fossero stati di quello migliori. Una fiaccola più o meno brilla, quanto più o meno pura è l ' aria, in cui brucia. Dal cielo tornando alla terra non più 56 & troviamo il nostro filosofo, che immagina l' origin delle cose; ma che studia e in terpetra con senno la natura. La prima verità, che c'insegna, non già ragionando ma coll'esperienza, è il peso e la molla dell' aria. Mette egli in opera in difetto di macchine e di strumenti la clessidra, che s'usava allora da' nostri come orolo gio a misurare il tempo. Avea questa la sua figura conica; la base forata a guisa di minutissimo vaglio; e il collo lungo che stringendosi sempre più andava a fi nire in un sottil bucolino. Si tenea allora la clessidra col collo all'ingiù; e l'acqua, di cui era piena, lentamente gocciolando misurava le ore. Questa appunto fu la macchina d'Empedocle, che nelle sue ma ini diventò indice e misura di fisiche verità. Introduce ei da poeta una donzella, che trastullando colla clessidra la vuol en piere d'acqua. Ne tura essa l'orifizio col le dita, e postane la base all' ingiù, cala quella verticalmente in un fonte. Entra allora l'acqua per la base forata; ma per SC ay is ce 9 in C 57 quanto la donzella prema, e travagli, la clessidra non si può mai empiere tutta. Stanca finalmente la verginella, alza le di ta, con cui chiudea quell'orifizio; ed ec co l'acqua che sale, e giunge alla cima. Proposta l' esperienza, Empedocle ne' suoi versi ne soggiunge lo spiegamento. L' aria, dice egli, che sta racchiusa nella cavità della clessidra, colla sua molla, resiste all' acqua, e la ripara di venire all'in su. Ma appena la donzella alza, le dita, l'aria e sce, e però l'acqua non più impedita dall' aria sale, e tutta empie la clessidra. In altro modo ci presenta ei la don zella. Finge egli che questa volti la cles sidra; e allora un altra prova egli ci reca del peso e della molla dell' aria. Chiude es. sa colla mano il bucolin della clessidra, questa piena d'acqua volge colla base all' in giù; affinchè l'acqua tutta fuori si ver si. Ma non senza sua sorpresa s' accorge che l'acqua, lungi di cadere da ’ forellini della base, si ferma: Alza ella quindi la mano con fretta; ed ecco l'acqua goccio h 58 re il a lare, e a poco a poco cadendo tutta fuori versarsi. Dichiarato il primo, ſu agevole a Em pedocle spiegare il secondo esperimento. L' acqua, dicea egli, si sforza d' uscire da' fo. rami della base. Ma l'aria sottoposta si resiste colla sua molla, che venga a vince peso dell' acqua. Subito che la don zella alza la mano, l'aria di sopra preme l'acqua sottoposta; e questa, ajutata dall' aria soprastante, vince ogni restistenza, o vien fuori. Con tali esperienze, delle propietà dell' aria mostrava egli e il peso, e la molla. Ciò nulla ostante furon quelle nell'età d'ap presso poste ingiuriosamente in obblio. Se noti fossero stati al rinascer delle scienze gli esperimenti d ' Empedocle, non si sareb be certo levato tanto grido per l'invenzion del barometro. Ivi il mercurio sta sospeso dalla forza dell'aria, come l'acqua sta so spesa entro la clessidra dalla forza egual. mente dell'aria. Si fatte esperienze, che oggi son volgari, allora erano rade e uti € 59 lissime alla fisica. Smarriti i Greci in que? tempi o dalla lor fantasia, o dalla lor me tafisica, non pigliavan cura nè d ' esperien. ze, nè d'osservazioni; e privi di fatti, co storo eran pur privi di scienza · Ne' versi d'Empedocle quindi il principio si trova, e la nascita dirò così della fisica; perchè ivi si trovano i primi esperimenti. Democrito al par d'Empedocle piglia va anch'egli allora la via de' fatti: sebene ambidue ne fossero stati presto raggiunti dal divino Ippocrate. Sicché questi tre som mi uomini cercarono allor di fondare un epoca novella nella Greca filosofia, sfor zandosi di condurre gl'ingegni a studiar la natura coll' esperienza, e colla osservazio ne. Ma tal metodo, ch'è lento, ostenta to, non potea esser gradito a Greci, che impazienti erano e caldi; e però da pochi fu pregiato ed impreso. Sebbene Empedocle avesse posto ogni studio nello sperimentare; pure fu solo in Sicilia, senza stromenti, nell'infanzia dela la fisica. Ne si creda Democrito, e Ippo h 2 60 crate avergli potuto giovare, essendo e co lui di region lontanissima e questi de tempi d'appresso. Pochi eran quindi i fat, ti, che potea egli raccogliere. I medesimi non gli eran mica bastevoli all' uopo, ch' era assai vasto, e che giusta l'usanza de tempi abbracciava tutta la natura. Di che veniva, ch'egli spesso era costretto a suppli re il difetto de' fatti; e ciò il fece con assai sagacità e senno: cui nercè l'arte inventò del congetturare. Questa non gia che fosse stata da lui ridotta in canoni come si svol presso noi, che in ogni cosa abbondiamo di regole; ma intriseca si tro va, e quasi nascosta ne' suoi ragionamen ti. Anzi io credo non potersi in miglior modo rilevar l'artifizio del suo metodo, che descrivendo l'andamento del suo spi rito; allor quando pigliò ei a comparare i vegetabili agli animali. Furon tanti, e di tal momento i rapporti, con cui egli quel li a questi lego, che giunse a scoprir del, le verita, che son degne non che di ricor, F S a 8 danza, ma di stupore. 62 Il seme, il sesso, la generazione, la nutrizione, la traspirazion de’ vegetabili fu. rono i varii sorprendenti oggetti su cui fil filo s'applicò la sua mente. Da prima avverte. Empedocle comune essere il fine assegnato dalla natura 'e agli animali e a ' vegetabili. Un animale, o una pianta, egli dioe, voglion produrre animali, o piante simili a se (46). Questo fu messo da lui come base delle sue illazioni, e co nie fermo segnale d'un punto, da cui egli partendosi non s' avesse potuto mica smarri re nel proceder più oltre nelle sue nuove scoperte. Soggiunge egli appresso: come l' animale viene dall'uovo, così la pianta dal seme (47). Attesi questi fatti comincia o ' specolando a filosofarvi, e da quelli guidato va con franchezza formando le sue conget ture. Se l'uovo e il seme, egli prosegue, comune hanno il fine, ch' è la produzio ne; debbono l'uno e l'altro colla stessa attitudine, e col medesimo impeto tendere al medesimo fine (48 ). Da sì fatto fine ad ambi comune egli argomenta, come da 62 un indice, comune dover essere la natura del seme e dell' uovo. Ma Empedocle forse à tal indizio si ferma? Nullameno. Egli torna di nuovo a fatti, mette in opera da capo osservazioni; e si sforza rintracciar co. sì la natura dell' uno e dell'altro. Empedocle tirando avanti la sua stes sa traccia, trova e distingue sì nell' uovo che nel seme, non che germe, ma materia che il germe nutrisce. L'animaletto fin, chè non nasce, o la pianticella finchè non abbarbica ', traggono alimento da quella, Non è già, aver lui conosciuto le foglie seminali; o aver lui detto la placenta u terina portar nutrimento all' embrione per via del funicolo umbilicare. Egli non al tro conobbe, che due esser debbano nell' uovo e nel senię le parti principali e muni: il germe e i cotiledoni, che l'ali mento preparano alla pianticella, o all’em. brione, o nel seme, o nell' uovo. Il nostro fisico quindi più non distinse dirò così ani mali da piante. Ebhe egli il seme qual uovo de vegetabili; e chiamò le piante col CO 63 soprannome d ' ovipare (49 ). Ecco avere Em. pedocle svelato agli uomini assai prima d’Ar véo tutto ciò, che nasce', non d ' altro pro venir che dall'uovo. Teofrasto infatti, e A ristotile (50 ) a Empedocle solo attribuiscon la gloria della scoperta di tal verità, e gliela dan come propria. La fatica d ' Arvéo, fu egli è vero, utilissima all'avanzamento del le scienze, e degna di tutta la lode. Ma egli pubblicando di nuovo lo stesso ritrova mento d' Empedocle, null' altro fece che as sodar vie più colle prove ogni cosa nascer dall'uovo. Chi adesso non giudicherà mag. gior l'eccellenza dell'ingegno di chi colla mente va congetturando ciò, che del tutto s’ è ignorato in preterito, e prevede ciò che sarà da scoprirsi in futuro? Il nostro fisico, guidato com' egli era dall' induzione, spinse più oltre i suoi ra gionamenti'. Affermd le piante al par de gli animali dover essere tutte fornite di ses so. Conosciutosi da lui il seme null' altro esser che uovo, come l'uovo si feconda per l' union del maschio colla femina; co $ 64 sì argomentò egli del pari il seme per la mescolanza di que' sessi doversi fecondare. Franco ' quindi e sagace stabili egli il pri mo, ed egli il primo distinse il sesso ma schile e feminile in ogni vegetabile. Non si dubita prima di lui essersi conosciuti ma schi e femine tra ' vegetabili: ma ciò soltan to attribuivasi a palme, fichi, canape, pi stacchi. Però dal nostro fisico prende ori gine il sistema, su cui oggi posa tutta la Botanica. Egli è vero non aver lui allora ne cercato, nè mostrato gli organi genita li nelle piante, come poi han fatto con grande studio i moderni; ma ciò facea e gli sempre col ragionare, e quelli vedea dirò così, coll' intelletto. Nella testa de' grand' uomini, come dotati d'una specie di tatto pella verità, la forza delle con getture si sostituisce talvolta all' evidenza de ' fatti. Facea Empedocle a guisa d'un gran dipintore, che solo abbozza il quadro con poche, ma pennellate maestre; e la scia poi agli altri la cura di compirne il disegno, di colorirlo, e abbellirlo. Arveo 65 definì tutto nascer dall'uovo: Zalunziaski, Millington, Camerario, Vaillant prima, e poi Linnéo mostrarono il sesso nelle piante. Ma costoro tutti quanti assodaron la dottri na, e compiron l'idea tracciata dal nostro Gergentino. In verità non è poca la glo ria che a costui torna nell' aver lui il pri mo schizzato degli originali, che di mano in mano col favore del tempo si van tro vando in natura. Contemplare Empedocle, che conget tura è uno spettacolo degno d'un filosofo. Ora egli scorto dall'analogia supera tutti i suoi contemporanei', e più oltre proce dendo va diritto a trovare altre belle ve rità. Ora privo di fatti, non ostante il vi. gor di sua mente, tentoni cammina incer to tra verità, ed errore. Conobbe egli il sesso sol nelle piante. Ma altro non pote va egli conoscere, attese le poche anzi le rade verità solamente allor note. Quante altre osservazioni, quante altre verita gli mancarono? Ignoto era allora l'antere, e gli stigmi esser gli organi genitali delle pian i 06 cer te, e questi trovarsi ne' fiori. Niun sapea il polline portato da venti aderire allo sti gma per via dell'umore, che in questo si stà. Chi aveva allora osservato la Passiflo ra, la Graziola; e ' l Tulipano, che come agitati d'estro venereo, erranti van cando la polvere, che loro fecondi? Chi s'era accorto, in que' tempi la Valisneria, e l'altre piante acquatiche sul punto de’ loro amori alzar lo stigma dall? acque, per accoglier cupide, e aperte la polvere de' loro maschi? Non è però da recar mara viglia, se nell'ignoranza di tali fatti non seppe Empedocle comprendere, come le pian. te, che fitte stan sulla terra, si potesser congiungere per far la lor generazione a guisa degli animali. Ma tenne egli come cosa non che non dubbia, ma certissima, e l'induzione già gliel' aveva indicato, che il seme per l'unione si feconda della fe mina col maschio. Però egli, posti in cia scuna pianta, come sullo stesso talamo, quasi marito, e moglie, disse tutte le pian. te dover essere ermafrodite (51). Fil que: 67 sto, egli è vero, un errore; perchè in al cune piante i due sessi son del tutto se parati, e distinti. Ma altresì, egli è vero, la più parte delle piante alla classe ap partenersi dell'ermafrodite; oltr'a quelle, che sono androgine, e poligame. Empedocle appresso, il mistero passo a indagare della generazion de’ vegetabili, con quella confrontandola degli animali. Gran cose in prima osò egli dire sul la generazione animalesca. ' Immaginò egli starsi divise ne' liquor seminali de’due ses si particelle analoghe al corpo d'ogni ani male. S'ideò egli queste nella unirsi, e l'embrion formare del corpo or ganizzato (52 ). Il carnale appetito egli ri pose in quelle particelle, che, separato trovandosi nel maschio e nella femina, ten. dono naturalmente a unirsi. Ad abbondan za de' due semi la cagione ei riferisce del parto o doppio, o triplo; e a scarsezza o disordine degli stessi la nascita d'ogni sor ta di mostri. La prole secondo lui al pa dre o alla madre somiglia in proporzione generazione i 2. 68 del più o men prevalere del liquor semi nale quando della femina, quando del ma schio. La ragione inoltre crede lui dare della sterilità delle mule, che all' angustia attribuisce e obbliquita de canali della loro figura (53 ). Varie spiegazioni va in com ma egli fantasticando, che io piglierei ros sore di chiamar sogni, se chi han tratta to della generazione, non avessero sinora sognato al pari di lui. Le molecole orga niche di Buffon, i vermi spermatici di Le wenoek, l'uova di Bonnet e,di Haller, il filamento nervoso di Darwin, non sono clie ipotesi più o meno, false o tutte immagi narie. La fantasia inoltre, che tutte domi le umane, s' avvide Empedocle, poter avere anch'essa una parte nella ge nerazione. Ricordava ei delle donne, che aveaito dato in luce bainbini simili a sta. tue o pitture, cui quelle, essendo gravi. de, aveano a caso fisamente guardato (54 ). Opinò egli quindi la fantasia della femin na, non altrimenti del tornitore sul legro, na cose 69 2oho da ede lidt? po 12.06 maa Potere dar forma, e simiglianza al feto. Non inancan.oggi, chi credono poter più operare l' immaginazione del padre che alle quella della madre. Ma niun disconviene, ato quasi secondo il linguaggio d ' Empedoc!e, che la fantasia o della femmina o del nia schio, giunge talvolta a tratteggiar, dirò cosi, le membra, e la fisonomia della pro le nel ventre della madre. Da si fatte cose, stabilitasi. anzi tem po da Empedocle la famosa analogia tra' vegetabili, e animali, trasse egli, e cona chiuse del tutto eguale a questi duver es sere la generaztone di quelli. Ne men dissimigliante tra loro, disse Empedocle, dover essere la nutrizione de gli uni e degli altri. I vegetabili e gli a nimali dicea il nostro filosofo, gli alimenti scompongono, e quel traggon da éssi, ch' è conveniente e accomodato alla loro na turá (55 ). Ciò egli credea farsi in ambi due per via dell'affinità insieme e de' pori. Dell'affinità cosi egli parlava. Siccome le cose amare all'amare si uniscono, le dol UD Eury 7 Pizze,the is on sullink 70 ei de 1 dis Tec cer ci alle dolci; ogni sinile in somma al suo simile: cosi gli esseri organizzati quel pren dono dagli alimenti, che lor si confa, e può nutrire ciascuna delle propie parti. Chiaro fu eziandio il suo parlare de' po ri. La nutrizione, egli è certo, separarsi e dividersi negli animali, e ne' vegetabili per mezzo de' pori, che son differenti in dia metro (56). Le particelle, dette nutribi li, è certo altresì non potere indistinta mente entrare per qualunque di quelli: ma ciascuna insinuarsi nell' orifizio di que' bucolini, ch'è analogo alla propia gran dezza. Un vino, egli dice, è diverso da un altro, attesa la differenza non che del terreno ma della stirpe (57 ). Ecco come par, che il nostro filosofo avesse voluto vie più assodar la sua opinione della forza dell' affinità, e de' pori, massime su i vegeta bili (ch'è poi propietà d'ogni corpo orga nizzato ) i quali giusta la propia organiz zazione han da quelli preparato gli ali menti, e si rendon capaci di saporé diver so. A senno dunque d'Empedocle la nu se su red nog Ila ti co re со ali 71 Fari trizione si opera tra per l'affinità, e la ti que varia ampiezza de ' pori per canali diversi, ce e va svariatamente, ma sempre in pari re preciproco modo, vigore é aumento porgendo agli organi diversi sien de' vegetabili, sien degli animali Empedocle frattanto, il modo volendo indicare, con cui la nutrizione si sparge e dividesi fra gli organi diversi, abbiam noi veduto essersi rifuggito all' affinità, ch'è certamene un'ipotesi. Ma che maraviglia; se dopo la serie di tanti secoli da questo suo pensare non sono mica iti lontani pa recchi pur tra’ moderni? Grande in verità e diligentissima è stata oggidì la fatica de nostri fisiologi nell'indagare i fenomeni del la nutrizione, Gli hanno essi ridotto a ' fat, ti, o a leggi generali, che son propie e comuni a tutti i corpi organizzati. Nè pu re eglino han trascurato di trovare nella contrattilità organica la forza, con cui gli alimenti son trasportati in canali opportuni non sol negli animali, ma eziandio ne've getabili sino all'alto delle propie foglie. Ma TX, ام د ገን muito 73 con tutto cið o nulla o poco si sono essi avanzati nell'additar la maniera, con cui si fa la nutrizione per gli organi diversi. Non si nega oggi darsi da' più a varii organi, una specie di gusto, cui mercè quel suc chino, e tirino, che a ciascuno in partico lar si conviene. Ma poi tal fatto pensa mento mostra forse esser del tutto falso il ritrovato d'Empedocle? E' troppo vero, cho la natura yince in molte cose, e vincera sempre ogni nostra speculazione e fatica e da filosofi per lo più non si recano, cho sole congetture, ed ipotesi, Fattisi vedere eguali da Empedocle i rapporti degli animali co' vegetabili nel se nie e sesso, nel generarsi e nutrirsi, non re. stava altro a lui che applicarsi sulla tra spirazione comune ad entrambi. Conobbe egli, che gli uni e gli altri per via de' pori similmente traspirano, e quella parte degli alimenti tramandano che loro è su perflua. Alla traspirazione di fatto attribuì costui o il perdersi dagli alberi nella fred da stagione, o il serbarsi quelle foglie, che 1 73 1 dalla natura, non a caso, ma particolar mente sono ordinate al traspirare e al nu trir delle piante. I primi, ei disse, tra spiran molto in estate, e spossati levan le foglie in autunno. I secondi traspiran po co in estate, e robusti ritengon le foglie in inverno. Fondava egli la copia o scarsez za del lor traspirare sull' ineguale diame tro, e contraria posizion de' lor pori. Gli uni a suo giudizio hanno larghi i pori del le radici, angústi quelli de' rami. Gli al tri all'opposto angusti i pori delle radici, larghi quelli de' rami. Però i primi più, succhiando, e men traspirando non levan le foglie. I secondi men succhiando e più traspirando perdon le foglie (58 ). Se una si fatta posizione di pori, che immagind il nostro fisico, fosse stata confermata dalle osservazioni, avrebbe sin d'allora egli sciola to un problema, che non poco fastidio grandissimo stento ha recato a ' moderni. Era rizio comune a quell' età organizzare ad arbitrio gli esseri della natura a fin di. poterne presto dichiarare i fenomeni. Egli k e. 0 1 è vero non esser mancati a di nostri, chi abbian conosciuto e distinto ne' vegetabili non meno di quattro specie di pori (59 ); Ma chi ha potuto, o con qual microscopio potrà mai rinvenire, che a ' pori o larghi o stretti delle radici corrispondano a rove scio quelli de' rami? Pur tuttavia a Empe. docle in parte siam noi debitori della ragio. ne, che mostra il come dagli alberi cadan le foglie. La famosa traspirazione ne' vege tabili, da lui allora scoperta, scioglie og gi a noi con somma nostra ammirazione o senza nostra molta fatica un sì bel pro blema. Ognun vede le foglie cader più pre sto, quando la state è più calda. Ognun pur vede gli alberi robusti più de' deboli più tardi svestirsi di foglie. Anzi ognun vede altresì quegli alberi in inverno rite ner le foglie, che poco traspirano. I 100 derni al più han distinto le foglie, che cadono in pezzi da quelle, che intere si staccano, secondo che l'une o l'altre sono al tronco diversamente attaccate. Costoro 75 di più son giunti a conoscere, che alcuno foglie cadono intere, prima che le nuovo dalle lor gemme si svolgano, e altre ristan no finchè non ispuntin le nuove (60). Da ciò essi han tratto, che quegli alberi, i quali gettan le foglie dopo lo spuntar del le gemme, debbon mostrarsi verdeggianti in inverno. E che all'incontro quegli altri, i quali gettan le foglie pria dello spuntar delle gemme, debbon vedersi nudi nella stege sa stagione (61 ): Che perciò? i nostri fisiologi forse san. no oggi della caduta delle foglie dagli al beri assai più di quel, che ne seppe al. lora il nostro filosofo? Abbian quanto si vo glia convenuto oggi i moderni le foglie tra. spirar più quanto più abbondano di pori. Abbiano quanto si voglia pure costoro af fermata la copia o della traspirazione o de' succhi si travagliar le foglie, e i lor vasi ostruire, che finiscan di vegetare, muoja no, e cadano. Eziandio ne abbiano essi inferito tutti gli alberi dovere perder le fos glie, chi in Autunno, chi in Primavera. Ma k 2 26 de 60 fu NI tal differenza non è se non perchè le fo glie di quelli più, e le foglie di questi meno' traspirano, e l'une servon più, l' altre meno alla nutrizion delle piante? E non è questa la grande scoperta appunto d' Empedocle, e che forma uno de' suoi gran di elogi? Il pigliare i vegetabili e gli animali au mento dal calore, il goder di gioventù, il cadere in malattia, il giungere alla vecchiez za, sono altresì que' tratti di simiglianza perfetta, che il nostro fisico andava a quel. li aggiungendo. Nè lascid ei di notare, che i vegetabili al par degli animali si muv vano, resistano, si raddrizzino (62 ). Gran de com' egli era di mente, e degno d' in. terpetrar la natura, talmente s’ ingegna va di legare il primo con poche o comu ni leggi i due regni, che paion tanto di stanti e discordi tra loro, il vegetabile e l' animale. Gli antichi presero maraviglia di questo specolazioni di lui, e si ne restaron convinti, che si sforzarono aggiungervi qual che cosa del loro, Empedocle aveva già 0 PE C te 77 detto, che il seme senza più è nella ter ra ciò, che il feto nell'utero (63 ) ed egli no procedendo più oltre' non ebbero a schi fo affermare la pianta essere un animale fitto in terra per le radici, e l'animale una pianta, che cammina. I moderni poi non han tralasciato punto di assai profittar de pensamenti d' Empedocle, cui mercè tira ta avanti la traccia e allungati, diciam.co sì, i suoi stessi passi, sono iti scoprendo nuovi rapporti, che agli attimali legan le piante. Le piante dormire come gli anima li; respirare coni'essi; avere i lor muli; pro. pagarsi i polpi al par delle piante; esservi animali (che son quei, che vivono attacca ti alle pietre ) che cercano la luce e vergo essa rivolgonsi, come appunto fanno le pian te: questi e simiglianti sono i grandi ogo getti, su cui i moderni profittando d' Em pedocle si sono fissati. Ciò non ostante 90 no tante, e di tal momento le differen ze, che separano gli animali da' vegetabili, che non è stato possibile di ridurli in tut. to giusta la pretesa d'Empedocle alle me 78 desime leggi. Pare soltanto che nel presen te stato delle nostre cognizioni tutto con corra a dimostrare aver la natura espresso e racchiuso dirò così quasi sotto unica fore mola il gran fenomeno della nuova produ. zione de' corpi organizzati. Questa appun to cercò, e questa rinvenne il nostro fisi co. Perchè distinse il sesso nelle piante, e conobbe il seme non esser altro che uovo: e affermò apertamente le piante, come gli animali, dover essere ovipare. Tali meditazioni d'Empedocle su gli esseri organizzati', in difetto d'oga' altra pruova, basterebbero sole a indicare la for, za, e l'eccellenza del suo intendimento. Dovea egli supplir la mancanza de'  fatti, inventar de' metodi per non ismarrirsi, ras. sodare i suoi pensieri incatenandoli, anti veder congetturando, Operazioni, che vo gliono tutte ostinazione, sagacità; avvedi mento. Tal è la condizione dell' umana natnra, che la nostra mente non può senza stento riflettere, ragionare, scorrer le dub bie vie delle fisiche ricerche. No creda al 7.9 cuno, ch ' ei qual poeta, o cosmogono aves se ravvisato quelle somiglianze tra i vege tabili e gli animali più colla fantasia che colla ragione. La fantasia crea non isco pre; finge non ragiona; abbellisce non in catena; e se talora connette, i suoi lega mi sono immaginari e non reali. Molti fu rono i cosmogoni tra gli antichi, Ma Em. pedocle solamente s' addita come chi com prese in egual modo operarsi la generazio ne negli animali e ne' vegetabili. Fu egli è vero intento a legare questi a quegli esse ri, come suol farsi dalla fantasia, che cor ca e ritrova più le somiglianze delle cose che le lor differenze. Ma ciò avvenne dal metodo, con cui il nostro Gergentino aju tava la sua mente, ch' altro non era, nè esser poteą nella sua età, che quel dell' analogia. La quale, siccome essa suole, argomentando da cose simili, potea soltana to condurlo, a veder somiglianze. Se dun que Empedocle col favor dell' analogia pro pose congetture, che poi si son trovate ve re dalle nostre osservazioni, e ben da dir 80 si ch' egli fu nobile di monte, robusto ne suoi raziocinj, e di gran sentimento nelle cose naturali., Un altro e più vasto teatro s' apre o rą di altre e nuove specolazioni, Empedo cle, posti da parte e vegetabili e bruti, staccò l’ Uomo dagli esseri organizzati, con cui l'avea egli sin allora confuso. Prese costui a considerar l’ Uomo solo e isolato non che in metafisica e morale, ma in pa recchie fisiche scienze. Rivolse ei le sue prime indagini alla fisica dell'Uomo, cui i corpuscolisti con gran cura in quel tema po attendeano. Empedocle, Anagsagora, De mocrito scrissero sulla natura; ebbero tutti tre il soprannome di fisici: e tutti tre ten tarono di svolgere l'economia, giusta cui vive, si muove, si regola la macchina u mana. Fu forse un tale studio sull' uomo che sopra ogn'altro lor distinse dagli altri filosofi. I quali, senza più, aveano fino allora quello riguardato come un soggetto soltanto metafisico, o morale, o politico. Ma ' le fisiche ricerche d'Empedocle 81 sull’ Uomo trapassarono di gran lunga quel le di Democrito e d’Anassagora. Perchè, sagace, com'egli era, si mise in investigazio ni non prima tentate d'altri, e utilissime. Tanti furono i punti di vista, sotto cui e' prese a contemplare il corpo umano; e al trettante può dirsi essere state le scienze, cui diede principio il vigor di sua mente. Egli il primo applicò la chimica ', e sie a nalisi al corpo umano; segnd le prime li nee d'anatomia: fece sforzi se non sempre efficaci, sempre almen generosi a gettare i fondamenti della fisiologia dell' Uomo:: Il sistema d'Empedocle sulla natura fu chimico; così chimiche del pari furono le sue prime ricerche sull'uomo. Comincio egli a esaminar questo nelle sue parti, e quanto più allor si potèa, ne imprese an cora l'analisi. La carne, ei dicea è coma posta di parti eguali di ciascun de' quattro elementi. Di due parti eguali di fuoco e di terra sono formati i nervi, e le unghie son similmente nervi raffreddati dall'aria (64). Otto furon le parti, ch'ei distinse nelle os 1 82 sa: due di terra, altrettante di acqua, e quattro di fuoco (65). Se non si corresse un qualche pericolo di travedere, chi non direbbe aver lui trovato l'ossa abbondare di fuoco, perchè abbondan di fosforo? Ma che che ne sia, non v'ha dubbio, aver lui dato principio con sì fatte analisi a un novello rano di chimica · Ramo, che dopo Empedocle fu del tutto posto in non cale: ma che oggi, attesa la sua grand' utiltà con ardor si coltiva, e che va sempre più smisuratamente crescendo sotto il nome di chimica de corpi organizzati: Erasistrato, Herofilo, Serapione fu ron tra ' Greci, che s ' applicarono con som mo studio all' Anatomia. Ma innanzi a co storo, vinti gli errori della religione e de' tempi, aveano cominciato a coltivarla De mocrito in Abdera, ed Empedocle in Ger genti. Descrive quest'ultimo la spina del dorso, e tienla, come di fatto è, non ' altri menti che la carena del corpo umano (66 ). Distingue egli di più inspirazione da espi razione mostra i canali per cui si re r 83 spira dalle narici (67 ). Ricerca egli inti ne l'organo del sentire, e trapassando il neato uditorio, discopre quella parte dell' udito, che attesa la sua forma torta e spi rale, chiamò egli allora, e chiamasi anco ra la chiocciola (68 ). Questo è il poco a vanzo delle sue cognizioni anatomiche, che per sorte sono arrivate sino a noi. Ma que sto stesso poco mostra il suo gran sapere in questa scienza. Un gran pezzo di capi tello o di bảse', il rottape d ' una colon na, o pilastro, bastan sovente a indicar e la magnificenza di un edificio, e la perizia di un architetto. La sola scoverta della chiocciola dimostra assai meglio, che non fecero ' gli antichi scrittori', essersi il nostro filosofo molto avanzato nelle cose anatomi che. Questa situata in luogo riposto dell' udito non si potea discoprir certamente se non da chi fosse stato molto prima versa - to e perito nelle materie anatomiche. M eno scarse son le notizie delle fun. zioni della vita e de' sensi dell’ Uomo: e che per fortuna ci restano della fisiologia d'Empedocle. 1 84:; Il sangue umano, come ciascun sa, sempre alto, e sempre allo stesso modo co stanțe mantiene il calore. Ippocrate pien di maraviglia l'attribuì a cagione sovrana turale e divina. Empedocle all'opposto eb be il calore, come cosa ingenita e conna turale al sangue medesimo. In cid a lui s'accostarono ne' tempi d'appresso Aristoti le, Galeno, e tanti altri, Ma egli fu il primo, che a formare un sistema, trasse dal calore del sangue, come da prima ca gione, una spiegazione non già vera, ma certo artificiosa, delle funzioni della vita. Le regolate, pulsazioni delle arterie a véano gia indicato al nostro filosofo, che il muove nelle vene. Ma igno ta era a lui ', come ignota fu all'antichi tà,, la circolazione del sangue. Però in ve ce di questa suppose egli in quel fluido un movimento d'oscillazione. Il sangue, ei dicea, occupa parte, e non tutta la ca vità delle vene, e in queste va quello giul $ u continuatamente oscillando (69). La for: che lo stesso agita, era secondo lui il sangue si za 85 calore:. e questo essendo ingenito al san. gue costante ne mantiene e l'oscillazione e il moto. A tal movimento legò il nostro filoso fo la respirazione, altra operazion della vi ta. Quando il sangue, ei dicea, va giù verso il fondo de' vasi, l'aria tosto s ' insi nua ne' sottili prominenti meati delle vene, ed entrando occupa quel vano, che nell' andare si lascia in queste da quello. Ne perciò egli aggiungea l' aria quivị restarsi: perchè il sangue, secondo Empedocle, spin to dal calore, e su tornando, preme dolce mente quella, e fuori la caccia col suo ri tornare (70). Accade, seguiva egli a dire, ciò che nella clessidra si osserva (71 ).." Ivi l' aria respinge l'acqua, o da questa quella è re spinta. Non altrimenti nella respirazione l' aria esce o entra secondo che il sangue si porta o giù o su nelle vene. Però all'an dare o venire del sangue risponde alter nando il venire o andare dell'aria. Ques sta forma, entrando, l ' inspirazione; ilscen. 86. do 'l' espirazione e nell’unal e nell' altra è riposto giusta il suo sistema il respirare d'ognuno. L'aria, che nella respirazione esce ed entra nelle vene toglie al sangue a giu dizio d'Empedocle una porzion di calore. Ciò indusse gli antichi medici, che abbrac ciarono tal sua opinjone, a curar coll'aria fresca e matutina i ' morbi d'eccesivo 'calo re. Il respirar dunque cagionava secondo il nostro filosofo diminuzion di calore. Da ciò anch'egli iuferiva la necessità, che strin. ge gli animali a dormire. Il sonno in fat ti egli diceva; null' altro essere, che dimi nuzion di calore. (72 ). In quella parte quindi di fisiologia d ' Empedocle che riguarda le funzioni vitali, il sonno vien dal respirare, e questo dall' oscillazione del sangue. Sicchè sonno, spirazion, movimento di sangue tra lor son connessi, e tutti quanti a un tempo dal calore provengono. Nel calore in somma e' pose la cagione di vita e di moto. La morte (73 ), egli dicea, è privazion di ca re 87 lore però riguardava sonno come.egli il principio di morte. Giacchè questa, a suo credere, è privazione, e quello diminu zion di calore. Tali principj di medicina, ch'eran teorici, guidavano lui eziandio nel la pratica. A quel piccol' calore., da noi già osservato, che ritenea la donna Ger gentina caduta in asfissia (24) conobbe Empedocle, ch'ella era ancor capace dell' aiuto della medicina. Tanto egli è vero, che la sua pratica era alla sua teorica con corde, e questa per l'andamento naturale del suo spirito era legata tutta e formava un sistema. Ecco in qual povero stato erano allo ra l' anatomia, e la fisiologia, la fisica in breve del corpo umano. Nuda era questa di fatti, e piena d'errori, e d'ipotesi. Ma tale è la condizione delle fisiche discipline: Nascono esse imbecilli, a stento s'accresco no, e vanno non di rado alla verità per la via degli errori. A chi allor poteva vee nire in mente, che l'aria nel respirare' in luogo di toglier calore, ñe porga al san 88 ana? gue e ne porga gran copia? Come potea Empedocle anticipar specolando in que di tante yerità, che suppongono la cognizion di tante altre, e d'un immenso numero di fatti, che allora ignoravansi? Segnd e gli quindi, non v'ha alcun dubbio, po che e imperfette linee di chimica, d' tomia; di fisiologia del corpo umano. Ma tali schizzi, avvegnachè informi, ma co me primi, e originali, son titoli degnissimi di sua gloria, e gli concedono un sublime posto d'onore nella storia delle scienze. Appartiene a nobilissimi ingegni (i quali sono ben pochi ), di mostrare almen da lon tano quelle scienze, ch'al dir di Bacone son da supplirsi, e che del tutto s'igno rano. Empedocle fece ancor di più. Dino to egli la chiniica del corpo umano, analiz zando gli ossi e la carne; accennò l'ana tomia discoprendo la chiocciola; indicò la fisiologia legando al calore, come a un sol fatto, le principali funzioni della vita. Su periore e' quindi al suo secolo non avrebbe certamente lasciato ad altri la gloria d' ac 8 89 crescere queste utili scienze. Ma nol poté, come chi privo fu di stromenti, e di tut. ti que' mezzi non solo opportuni ma ancor necessari a ridurre in effetto i nuovi e và. sti disegni, che a ora a ora a lui sugge riva il suo genio, Ma se non ebbe Empe docle la fortuna di accrescerlo tutte, ebbe quella di stabilir meglio la fisiologia e get tare lui il primo le basi di quell' altra parto d' essa, che riguarda i sensi dell' uomo, Andavano i Corpuscolisti indagando 80 pra d'ogn'altro nella lor fisiologia come i nostri organi avessero potuto sentir gli oga getti che, son fuori di noi. Credevan co storo tutti i corpi venire in ogn’ istante in alterazione, cangiare, ed esalare particel le sottili, e invisibili. Eran queste, sécon do loro, trasportate dall'aria, dall' acqua, dal fuoco su nostri organi, e ivi adatta te eccitavan le sensazioni di que'corpi, da quali esse spiccavansi. Piacque quindi a costoro le sensazioni null' altro essere, che impressioni eccitate negli organi da particel m go le, che si parton dagli oggetti, di cui quel le son, come quasi le immagini. Empedocle intanto non dissenti mica da loro. Ma il suo spirito, come quello che non erane certo, non se ne mostrava del tutto convinto. Messosi costui quindi a esaminare i sensi a uno a uno, adatto a ciascun di loro la sua propia e particolare spiegazione. Fece egli così un'analisi de' sensi e sensazioni più profonda, che sin ' al lora non s'era punto fatta d'alcuno. Ma quel ch'è più aperto egli dimostrò non es ser lui punto ne' suoi pensamenti nè se. guace, nè schiavo delle comuni e dominan ti opinioni. Giacchè egli nel chiarir questo o quel senso ora abbandona i corpuscoli, or recali innanzi, o ora aggiunge agli stes si qualche nuovo argomento. Trattando Empedocle dell' odorato, e del gusto non altro mette in opera, ch'e salazioni, e corpuscoli. Questi, agli dice, trasportati dall'aria s ' acconciano a ' pori del naso, e muovono il sentir dell' odorato. I cani, ei soggiunge, cosi e non altrimenti 91 indagan futando l'orme della fiera, Che se il catarro, dice egli di più, irrigidisce le narici; allora i pori di questo tosto s ' alterano, si respira a stento, e l'odor non si sente (75 ). Tratta egli appresso dell'udito, e la sciati e pori, e corpuscoli, piglia dall'ana tomia il suo nuovo argomento. L'udito, ei dice, nasce dalla battitura dell' aria nel la parte dell'orecchia, la quale a guisa di chiocciola è torta in giro, stando essa so spesa dentro, e come un sonaglio percossa. L'anatomia, ch'era allor grossolana piccol conforto a lui porse nel dichiarare la vista. Conobbe Empedocle un de' tre umori, ch'è l' aqueo, e qualche membra na, senza più, di quelle, che coprono il globo visivo. Però sfornito dell' ajuto dell' anatomia era egli dubbio e incerto. Em pedocle nondimeno giunse a comprendere dover la luce avere gran parte nella visio ne degli occhi. Ma come, e perchè, per quanto si fosse ei travagliato, nol potè af fatto conoscere. 1 m 2 92 Suppone il nostro filosofo entro dell' occhio, non che, acqua, ma luce, che chia ma fuoco nativo. L'una, e l'altra a suo credere, ivi stanno in tal quantità, che per lo più sono ineguali. Così egli distingue gli occhi azzurri da' neri. Iprimi egli af ferma abbondar di fuoco, scarseggiare d ' acqua; là dove i secondi esser poveri di fuoco s ricchissimi d’aequa (76). Però ei soggiunge gli uni mal veggon di notte per difetto di acqua; e gli altri veggon male di giorno per iscarsezza di fuoco (77). Ma sía o poca, ó molta la luce che stanzia nell'occhio, ei la riguarda qual lu me dentro una lanterna. Lo splendore del lume, ei dice., fuori della lanterna si span de, e nella notte ci guida. Così i raggi di luce fuori dell' occhio si spargono,.e ci di mostran gli oggetti. Empedocle talora aga giunge a raggi della luce i corpuscoli. I raggi secondo lui, che dall'occhio si lancia no, prima s' imbattono nelle particelle, che si spiccan da corpi. Poi raggi e corpusco li si congiungono giusta il medesimo: e 93 insiene congiunti si portano all'occhio, e muovono il senso visivo (78). Aristotile disapprova tali pensamenti d'Empedocle. La visione degli ocohi, egli dice, è da riſerirsi solamente all'acqua, e niente al fuoco (79 ). Nella storia dello spirito umano accade sovente, che un er rore un altro ne " caccia, e ' l falso al falso di mano in mano succeda. Aristotile oltrº a ciò rimprovera il nostro filosofo, che dub. bio egli e incerto abbia, fatto cagion del vedere ora i raggi uniti a' corpuscoli, e.o ra i soli corpuscoli (80). Ma in ciò sem bra Aristotile a torto riprendere Empedocle. Non sapea persuadersi il nostro Gergen tino, che totalmente passiva fosse la se de del senso visivo. Non potea egli inol tre comprendere, che niuna parte avesse la luce nel gran magistero del nostro vedere. Incerto restò quindi di se, di sue idee, e delle spiegazioni volgari; ma tale incertez. za o quanto onore a lui reca ! Dubitar del le opinioni, che son false, e in voga, è il primo ma più difficil passo, che si può fare verso del vero. 94 La fisiologia, che va a di nostri spa ziando per tutte le scienze, comunica ezian. dio colla metafisica e colla morale. Quest' unione, ch'è il frutto naturale dell'avan zamento delle scienze, fu dirò così presen tita dal nostro Gergentino. E di fatto sul la sodissima base della fisiologia cercò egli stabilire si l'una, che l' altra. Da che Pittagora, e Parmenide ab bandonarono i priini la testimonianza de' sensi, come ingannevole, i Greci tenzona chi contro la ragione, chi contro i sensi. Questi, è quella vennero quindi in discredito: 6 sorsero intanto i sofisti, e gli scettici. Socrate, Ippocrate', e altri di si mil sorte tentaron conciliar la ragione co ' sensi. Ma vani furono i loro sforzi. Duro la gran lite durante la Greca filosofia. La stessa rinacque al rinascer tra noi delle scienze. Di nuovo si pugnò allor quando contro i sensi, quando contro la ragione; e di nuovo si giunse allo scetticismo. Ma nggi simili dispute sono già state bandite da noi; e si terran lontane, finchè lo studio rono, 95 delle fisiche, e delle Matematiche avrà in Europa stato, e onore. Ne' tempi d'Empedocle la scuola d ' Eléa orgogliosa facea ogni sforzo ad atter rare i sensi, e a inalzar la ragione. Cid ch'è, dicevan gli Eleatici, è unico, eter no, immutabile. E come i sensi ci mostra no il multiplo, il mortale, il mutabile; co sì essi c' ingannano. Però conchiudean co storo la ragione poter sola conoscere cid, che è, ed essa solamente decidere della realtà delle cose. Contro i medesimi entrarono in lizza i corpuscolisti. Questi disdegnando lo sotti. gliezze di quella scuola, fisici com'erano, difesero i sensi, senza annullar la ragione. Anagsagora con sottile avvedimento distinse le particelle simili da ' loro composti; Demo crito gli atomi da' loro aggregati: ed Enia pedocle gli elementi dalle lor combinazioni. Particelle simili, atomi, elementi, dicean costoro, sono eterni, immutabili. Non son tali le combinazioni, gli aggregati, i com posti, che mancano, e cangiano. Questi 96 si conoscon da’sēnsi, quelli dalla ragione. Eglino quindi tolsero ogni contrasto tra' sen si, e ragione: assegnando a questa, e a quelli due provincie del tutto separate, e distinte. I corpi, come composti, operano a senno d'Empedocle, e di Democrito su i nostri organi, che sono del pari composti. Eccitano quelli le nostre sensazioni; ma queste a parer d' entrambi non son tali, che i corpi, La'scuola di Jonia avea tal mente confuso le sensazioni cogli oggetti, che scambiava questi con quelle, e tenea le" une, non altrimenti, che immagini fe delissime degli altri. Non così pensarono i Corpuscolisti. Questi separarono, dirò co si, le sensazioni dagli oggetti, che le ca gionano; è muovono, ed ebbero quelle, come soli, e semplici modi, quali di fatto sono, del nostro sentire. Il bianco o il ne ro, il caldo o il freddo, l'amaro o il dol ce esistono, diceano essi, ne' nostri organi, nelle nostre sensazioni, e non già negli ogo getti. Costoro quindi solean chiamare co 1 97 1. eglia gnizioni, di apparenza, e di opinione, e non gia di verità, e di realtà quelle, che si traggon da' sensi. Ma non perciò credea Empedocle, co me alcuni vogliono, le nostre sensazioni es sere immaginarie. Cangiano queste, vero, secondo che a lui piaeque, come can gia lo stato de' corpi, o come s’ înmuta la disposizione degli organi. Ma vero, e reale è altresì il sentimento, che si desta da' cor pi. Tal' è della sua dottrina, al pari di quella di Newton intorno a colori. Vege giamo ne' corpi o rosso, o giallo. Ma ne i raggi di luce, che percuoton l'occhio, sono o rossi o gialli; ne' rossi ne' gialli so no i corpi, che que' raggi colorano. Il ros ò il giallo è in somma nell'occhio, e nell'impressione, che in esso fanno i rag gi di luce: Così a creder d'Empedocle le sensazioni sono reali. Ma le medesime non rappresentan mai le qualità, che ne' corpi appariscono; null'altro essendo, che altret tanti modi del nostro sentire, Diversa da quella de sensi, credeano SO, n 98. E 1. i corpuscolisti, esser la via, con cui s'ac quista da noi la conoscenza degli elemen ti, o degli atomi. Questi non si poteano secondo loro, come semplici, conoscer da' sensi, che sono composti. Ogni simile, era antico assioma, non si può conoscere, non col suo simile. Però Democrito ed Empedocle, tolta a' sensi la cognizione de' sempliei, la riservarono all'anima. Per questo l'anima, giusta Democrito, era for mata d'atomi; e secondo Empedocle degli elementi, ma uniti alle due forze di amo. re, e di odio. Colla terra, dicea il Ger gentino, veggiamo la terra, r acqua coll' acqua, l ' aria coll' dria, il fuoco col fuo co; e coll' odio e l'amore altresì l' odio, e l'amore: Empedocle portava, dove potea, l'oc chio alla fisica costruzione del corpo uma mo, e dava alle sue opinioni una veduta anatomica. Credetto ei di veder nel cuo. re umano un centro, diciam così, di siste ma; e ivi egli pose la sede dell'anima. Ma come Empedocle in tutto, e sempre 99 era concorde a sestesso, cosi loco quella particolarmente nel sangue, che asperger e bagna il cuore dell' uomo (81 ). Perchè ripostosi da lui il principio e di moto, e di vita nel calore del sangue, li ancor e gli dovea ripor l’anima; Era questa dota ta, a suo credere, di sentimento al pari de' sensi. Ma ambidue ricevevano le loro impressioni: l'anima dagli elementi i sen si dalle combinazioni. L' una acquistava la cognizione delle cose eterne, e immutabili, e gli altri la notizia delle mortali, e mu tabili. I corpi esterni in somma oporavan sulla macchina dell' uomo in due modi di versi: come elementi sull'anima, come com binazioni su i sensi: e quella & questi e ran passivi. Nacque da ciò, che Protagora, lo scoo ' lar di Democrito, portð opinione: l'intel letto altro non esser che la facoltà di sen è nelle sensazioni stare ogni cogni zione, e scienza: Per questo Crizia, qua si accostandosi al nostro filosofo, affermo, pensare esser lo stesso che il sentire tire, e 1 ni 2.' 100 anima stanziarsi nel sangue. Ma Empedo. çle non si fermè quì al par di costoro: passò molto innanzi. A parte dell' anima, che conosce gli elementi, un altra ne sup pose egli entro noi, che è destinata a ver sarsi nella contemplazion delle cose intellet. tuali e divine. Iddio secondo lui, non è una combi nazione a guisa de corpi; ne un unità ma teriale cone son gli elementi. Dio, egli dice, non ha forma nè membra umane; non si può veder cogli occhi, nè toccar col. le mani. Iddio è santa mente, Costui non si può render colle parole, e muove l'uni verso co' suoi veloci pensieri. Iddio in sostan za per lus è mente, e la sua vita è il pensare. Così il nostro filosofo abbandona va la compagnia di Domocrito, e le cose materiali: per tornare a Pittagora, e alle cose, intellettuali. ins. L'anima dunque, destinata da Em. pedocle a conoscer cose spirituali, e divine, dovea essere, e fu per lui altresì senza dubbio spirituale, e divina. Questa proce. 101 dea, secondo che dicevano Empedocle, e i Pittagorici, da Dio, ed era particella del la sostanza divina. Se ne appresentavano essi la ġenerazione sotto varie immagini: or di fiaccola, che tante altre ne accende; or d'idea che tante altre no genera; or di parola, che trasmette à chi ascolta, la ragion di chi parla: o di cose simili, che sarebbe lungo il ridirle: Però paghi que' filosofi di esse agevolmente popolarono il mondo d' innumerabili spiriti, che tutti e. ran partecipi della natura divina. Di questa classe prese dirò così il nos,. stro filosofo le anime spirituali. Le due a: nime, quindi annesse da lui nel corpo dell' uomo forman la primaria base di sua me tafisica dottriną. Una egli sostenne essero immateriale, materiale l' altra, ' quella ese sere immortale ed eterna, e questa mori re insieme col corpo: la primą versarsi in contemplazion di cose intellettuali, e astrat te; e la seconda in cognizione di elemen ti, e di due forze odio, e amore.. Ma non mancherà çerto, cui si fatta 102 opinion di dire anime in ciascun corpo di o gn' uomo semibri del tutto strana, e inde gna della gravità d'un filosofo: Ma chi al tresì avea ' manifestato allora, é chi fin' og. gi ci ha detto cose più vere, o più sapien. ti sull' union dell'anima col corpo, e sul reciproco loro influsso, e commercio? Chi presi di boria, annullato lo spirito, tutto riducono a macchina. Protagora volea, che giudicare, e ragionare fosse la stessa facol. tà del sentire. Ma questa è un'empietà; una mattezza. Tal la dimostrano l' unità del pensiero, e l'attività del ragionare dell' uomo. Taglián costoro, come suol dirsi, non isciolgono il nodo. Chi presi d' entusias mo, annullato dirò così il sistema organi co, tutto l' uomo riducono a spirito. Stahl volea, che l'anima sola operava tutte quan te le funzioni del corpo. Ma questa è u• na falsità, e una follia. Talla dimostra: no i movimenti involontarj, e organici. Vo glion costoro, como suol dirsi, occultare il sol colla rete. Chi poco più 'ragionevoli, pigliata una via di mozzo, vollero.combi. 103 nare ambidue le forze dell'anima, e del corpo. Leibnitz volea un'armonia prestabi lita, cui mercè lo spirito segua ne' pensie ri, voleri i moti del corpo, cui quegli è congiunto: Ma questa è una ciancia, è una fola più complicata della cosa stessa, che si vuole spiegare.. Lo spirito umano in somma ha immaginato tante ipotesi su ciò, tanto più, o meno bizzarre, quanto più o meno son le. teste scaldate di tutti filosofi. Nè vi è inoltre mai stata ipotesi, che tosto non sia stata accolta, e non ab hia avuto assai partigiani: tanto vale quel la specie di prestigio, che la novità ope ra sull’intendimento dell'uomo ! Qual ma raviglia dunque, ch’ Empedocle abbia sup posto in ogni corpo due anime? Non fu egli certo nè tanto delirante, quanto Pro tagora, tutto macchina; nè tanto immagi nario quanto Ştahl, tutto spirito; nè cost fantastico qual Leibnitz tutto armonia pri initiva. Dichiarò egli a. rincontro della falsa dottrina di Protagora, che le idee spirituali non procedono dal sentire. Svi 104 luppò anzi tempo contro Stahl le funzioni de' nostri organi, e quelle della vita con fisiologiche ipotesi non di rado fondate sull' anatomia.. Prevenne Empedocle alla fine l' erroneo sisteina di Leibnitz, e i sensi, dis se, e le sensazioni esser capaci di eccitar nell'anima la ricordanza di ciò, che prinia el!a sa, e poscia., atteso il contatto colla materia, la stessa del tutto dimentica. Non è quindi Empedocle colla ipotesi delle due anime o men ragionevole, o più strano di tutti i filosofanti, che sono stati finora. E ' da confessare che il problema intorno alla reciproca azion dell'anima sul corpo forse appartenga alla classe di quelli, che vincono qualunque intendimento dell' uo-. mo. Però non si sono recate da noi, ne' si recheran per lo innanzi, che ipotesi, e sogni, che il tempo, il quale suol confer mare i soli, e veri giudizi della natura andrà a mano a mano struggendo. Non è già, che queste due anime', che noi leggiamo presso molti degli antichi, e sopra ogn'altro' de' Pittagorici, sieno da 105 na, prendersi secondo la lettera. Intendean co storo distinguere il sensibile e l'intellettuale: due maniere di facoltà, che sono entro l' uomo. Ma adombrarono essi, come ' era u sanza d'allora, sotto vive impagini quelle facoltà, o, diciam cosi, fecero le medesime divenire persona. Empedocle di fatto secon do la testimonianza di Sesto Empirico d ' ambidue quelle facoltà compose la sola ra. gione. Questa, egli dice; è in parte uma in parte divina, e porta il nome di retta ragione (82 ). Perchè questa corrego ge gli errori de'sensi, e può sola discer nere il vero dal falso. Tanto egli è vero che le due anime d'Empedocle, non rape presentavano, che la facoltà sensibile e la facoltà intellettuale, e ambidue faceano u. na cosa sola. Chi potrà or tolerare Empedocle cole locato tra la classe de' filosofi scettici (83). Egli non mai affermd essere inutile, o va« na la testimonianza de' sensi. Apzi i sensi, egli disse, mostrarci i rapporti, che han. no i corpi, e tra loro, e coll' individuo d'. 106 ognuno. I sensi, egli disse del pari, sve. gliare nelle intellettuali facoltà le idee spi rituali, e, astratte. Al più al più diffida va Empedocle de' giudizi de' sensi, che so vente sogliono esser fallaci, o ingannevoli. Però egli volle, che i medesimi fossero sta. ti guidati unicamente dalla retta ragione. Questa potea solo a sentimento di lui discer nére il falso dal vero. Forse, dicea ai suoi tempi Cicerone parlando d'Empedocle, costui ci acceca, e ci priva de' sensi; allor quan do egli crede, che non fosse in essi gran forza per giudicar di cose, che sieno sot toposte agli stessi (84)? Par, egli è vero, Empedocle degli e lementi trattando, quali esseri semplici, ga gliardamente scatenarsi contro de'sensi. Par lui scatenarsi altresi contro gli stessi, allor ehé, dirizzandosi al suo amico Pausania, e con lui trattando dell'amore e dell' odio, ambidue forze immutabili, gli avverte a non fidarsi.de' sensi, e a guardar le cose non già cogli occhi del corpo, ma con que' della mente. Pare eziandio finalmente, giue 107 sta cid, che., Cicerone ine dice, lui andare in furia, contro i medesimi gridando: niuna cosa poter noi nè veder, nè sentir, ne.co noscere (85 ): Ma altri, che questi 'argomenti ci vo gliono a definire come scettico il nostro fi losofo. Chi è intento a esperienze e ad a nalisi; chi cerca con somina cura de' fat ti; chi da questi tenta d'investigare l'ope razioni della natura sotto la guida dell' a nalogia: certamente non sa, nè può esse re scettico. I fisici potranno non prender cura di cose spirituali, e astratte; ma non mai l'esistenza negar di que' corpi, le cui propietà con ardore cercano, e la cui in dole con diligenza studiano. L' espres sioni quindi di quelle parole, non v'è dubbio ' dover valutarsi secondo e il pen sare, e il parlare di quella stagione. Si chiamava allora pero, e ciò che è; quel ch' è eterno, e immutabile, o sia quello, che sotto i sensi non cade: Però Empedo cle a ragione parlando di elementi, e di farze, come quelli, che sono eterni e im 0 2. 108 1 mutabili, rigettd affatto i sensi: @ niuna cosa noi, disse, mercè loro potere o ve dere, o sentire, o conoscere. Fra tanto, chi il crederebbe? che nel volersi definire il carattere, o la dottrina d'uno stesso soggetto, si passi anche da' gran filosofi da uno all' altro estremo del tutto contrario. Anche i grandi uomini tal. volta precipitano i loro giudizi, e nel pre: cipitarli ·traveggono. E' cosa da farci stor: dire il sapere, che la dove alcuni filosofi dichiaravano scettico Empedocle; altri all! opposto avessero lui materialista definito, Aristotile, e altri con lui tacciano di ma: terialismo il nostro Gergentino. Nel siste ma d'Empedocle il pensare, dico Aristoti le, lo stesso val che il sentire; ogni nostra cogaizione viene dalle sensazioni: e con que: ste quella s' accresce (86). Ma questo stesso è altresì una calunnia. Passivi sono, 4. senno d'Empedocle, i nostri sepsi; pas siva è parimenté una di quelle due ani me, ch'egli suppone materiale entro noi. Pero la nostra scienza, disse egli, accre. 109 scersi colle nostre sensazioni. Ma dall' una anima e dall'altra, dalle facoltà cioè sen. sibile, e intellettuale, si forma, come a lui piacque, quella ragiono, che noi già abbiamo osservato. Questa, secondo 'lui, pesa, compara, giudica: in breve ragiona. Due sono i principj, giusta gli avanzi di sua filosofia, cui mercè la ragione rettifica i giudizi de' sensi. Primo: il nulla viene unicamente dal nulla. Secondo: il simile si può solamente conoscer col simile. La ra gione quindi secondo lui, riferisce le sens sazioni a tali, e ad altri principj (se pur altri ne avesse ammesso costui ), o coll' ajuto di questi quella ci mostra il roro. @ il falso. Poteva, cio posto, tal essere lui, qual co lo dipinge Aristotile, un materia. lista? Chi ammette principi di conoscere; di giudicare, assoluti, non ricavati da' sen. si, eterni, immutabili non può affatto cre dere, che il pensare lo stesso sia che il sentire, nè punto può essere imputato co stui di materialismo. Non v'è uomo, quanto si voglia grana. de, che non abbia i suoi nei; e anche i gran genj sono soggetti sovente a censure. Si dice d’Empedocle in metafisica non essere stato lui originale. Convien forse ora smen tire tal voce? Nulla meno. Si bisogna esse re ingenuo; nè l'amor di colui, ehe si loda dee sì impaniarci, che ci debba far supera: re l'amore del.vero. Si confessi pure Em. pedocle, al par de' corpuscolisti, in metafi sica non essere stato mai originale. Empe docle qnal allievo de' pitta gorici, e degli e leatici non seppe abbandonar punto le idee da lui apprese in ambidue quelle scuole. La stessa venerazione egli ritenne, che ave van costoro verso i principj astratti, Si diparti egli sol da' medesimi (e co si avvicinossi alle scuole contrarie ' ) nel non aver lui rigettato del tutto la testimonian za de sensi. Egli in que' dì si sforzo di sedare colla sua nuova dottrina l'accesa pu gna di que', che litigavano chi contro del, la ragione, chi contro de' sensi. Combind egli, e mirabilmente congiunse i sensi cola la ragione, a questa, e a quelli assegno 111 - uffizj, e diritti separati e distinti: e sen za nulla scemare dalla realtà di nostre sen sazioni, gran forza, e autorità diede a prin. cipj generali; e astratti: Tutti i corpusco listi furono in quella stagione eziandio, chi più, chi meno concordi al nostro filosofo; e tutti egualmente in metafica tennero le parti di conciliatori tra i due partiti allor dominanti. Tal'è la natura dello spirito u mano. Fatica egli senza stancarsi, e riflet te anche sino al cavillo, quando è sospin to dall'ardor del partito, e dall' amor del sistema ! Ma poi stanco ei di meditare, o pugnare, cerca la quiete, e 'l riposo; e componendo insieme le opinioni contrarie si lusinga d'aver trovato gia il vero. Avven ne allora in somma ciò, che la storia filo sofica ci presenta a ogni passo. Sempre dall'urto. di due opposti sistemi n' è il ter zo spuntato, che li ha conciliato, giunto. Anzi quando molti in contrasto so no i sistemi; allora è appunto, che sorgon gli ecclettici, che scegliendo opinioni, or da un partigiano, orda un altro, tutti con accozzano i partiti tra loro, e li riducono & uno. Sarebbe tempo ora mai di volgerci dalla metafisica alla morale d'Empedocle. Ma portatesi assai più avanti da lui le sue ricerche, e le sue vedute sull'anima, di storna noi pure per ora d'imprender tal via. La fisica (abbiam noi osservato espo nendo la dottrina d’Empedocle ), essere stata quella scienza, in cui ei sopra ognº altro si distinse, e cui mercè alto ha so nato, e sonerà eternamente il nome di lui. Mà nello studio della natura quello, che più l'allettava, e cui principalmente egli intendeva, era la contemplazione de' corpi organizzati. Riferi egli da prima (sic. come abbiam noi pure os servato ), gli a. nimali a ' vegetabili, e da questi portando le sue specolazioni sull' uomo giunse sino alla metafisica. Dall' uomo poi tornò Em pedocle ad ambidue quegli oggetti quasi al le sue considerazioni primjere,e domesti che · Ando egli indagando, se i vegetabili fossero stati provveduti di gentimento, e se 113 gli animali e vegetabili fossero stati tutti due al par dell'uomo forniti di anima. Si fatta investigazione non fu punto difficile al nostro filosofo, come chi piglia va l'analogia per sua guida. I corpi non organizzati, egli dicea, nulla hañ di comu ne co' vegetabili; perd se quelli son privi di senso, questi all'incontro nę debbono esser partecipi. I vegetabili all'opposto, ei sogglungea, molto aver di comune cogli a nimali (87 ). Ambidue han tra loro comu. ni le primarie funzioni vitali: son dotati di sesso, si nutriscono, crescono, traspira ban gioventù, han yeochiezza, han no indozzamenti, malattie, sanità, nasco no, muojono. Però se gli animali son for niti di sentimento, anche i vegetabili in ciò debbono essere a quelli compagni. Fu quindi sua opinione essere gli alberi, 6 le piante capaci di tristezza, di gaudio, di voluttà, di dolore, di desiderio, di sde gno; e di ogn'altro animalesco appetito (88). Anzi spingendo egli più oltre la forza di sua analogia, posti eguali i fisici rapporti > P 114 1 tra l'uomo, e gli animali, e tra questi e i vegetabili, fu di parere, che l' avere un'anima materiale non fosse un privilegio sol conceduto all' umana natura, ma comu ne eziandio a tutti quanti i corpi organiz zati. Anima quindi, e sentimento egli die de, non che agli animali; ma anima e sentimento altresì a ' vegetabili, e a ogni sorte d'erbe, e di piante (89 ). Anima e sentimento diede Empedocle a ' vegetabili ! fiori che si rattristano; erbe che si adirano; pianto, che ' o si rallegra no o piangono ! Quanti, non che qual fan. tastico piglieranno il nostro filosofo, ma ne rideranno ancora al sentirlo? Ma non rideranno certo, chi più sag. gi e più istrutti, non ignorano punto, che anche i Democriti, gli Anassagori, i Pla toni abbracciaron si fatta sentenza (90 ). La quale non è già, che faccia a lui ono re, perchè, abbia in cið avuto e compagni, e seguaci così solenni filosofi. Ciò sarebbe un argomento d'autorità, che nulla, o po co conchiuderebbe in suo pro: perchè filo-, 115 sofi ' ancor di gran nome stan sottoposti a errori grossolani, e massicci. E' che la co sa non è in se stessa sì strana; come a pri ma vista apparisce. L'anima materiale da que' gran filosofi negli animali, e vegetabi li ammesza, in sostanza altro non era, che la fisica sensibilità de' moderni. Questa vole van costoro, che fosse ne' vegetabili tal qua le tra gli animali si trova: In virtù di que sta ', credevan gli stessi, i vegetabili al par degli animali ésser capaci d'amore, odio, e d'ogn' altro animalesco appetito. Empe docle in breve, e que gran filosofi ebbero e uomini, e bruti, e vegetabili come do tati di senso, e la fisica lor sensibilità chia marono anima. Chi adesso potrà dirittaa mente riprendere Empedocle? Di poi non vi sono a di nostri de ' fi siologisti famosi, che nelle piante trovano senso d' umido, di secco, di caldo, di fred do, di luce, di tenebre; perchè non po che di quelle chiudono o aprono i loro pe tali atteso il freddo o il caldo, il secco o l' umido, il lune o lo scuro? Non vi soa P 2 116 no del pari quelli, che veggon nelle pian. te, chi il senso del tatto, come nella sen sitiva; chi quel dell' amore, come nella valisneria, chi una specie di gusto nell'e. stremità d'ogni radice, cui mercè questa sceglio, e trae quella nutrizione, che si con. viene a ciascuna? Non son finalmente o Darwin e le Metherie, che van cercando, é credono d'aver già trovato ne' vegetabili e senso, o sensorio? Qual assurdo egli è dunque, se Empedocle, che ne' suoi con cetti abbracciava tutta la natura, abbia u. nito insieme tutti i corpi organizzati per via della fisica sensibilità, che credea essere a quelli comtine? La natura, non v'è dub bio, aver distinto, e separato il vegetabile dall' anirnale con differenze, e caratteri ben contrassegnati, e rivissimi. Ma l' estendere la sensibilità dagli animali sino alle piante è una idea grande, bella, e degna di un sommo filosofo. Non v'è, chi a prima vi sta non ne debba restar preso, e non bra mi trovar vera quella, che vera sin ora non è. 117 Ma comunque ciò sia, una cosa ' solit è verissima, Empedocle aver riguardato i corpi organici in un aspetto diverso di quel, che fece Pittagora, o i filosofi prima di lui. Costoro non ebbero nè pure in pen siero di considerar le piante, di bruti, come dotati di sentimento, e di anima, Empedocle fu il primo, almen tra pittagori ci, a pensare in tal modo. Egli fu, cho ebbe e uomini, e bruti, e piante, quali esseri congiunti tra loro dalla sensibilità, come quasi comune strettissimo vincolo, o che suppose in tutti un' anima materiala egualmente. Però egli fu anche il primo, che strinse l'uomo colle piante, o co ' brus ti ad alquanti sognati doveri, che nasco Ro da quella ideata parentela, con cui e gli legò quello con questi. Ecco ora come chiaro si vede su qual base vada a poggiar la morale d'Empedo cle. Sulla fisica fondo ei la sua, metafisia ca, e su quella fondd egli ancora gran parte di quest'altra scienza. Con si fatte vedute costui pubblico due gran poemi sul. Ii8 la natura il primo, e gulle purgazioni il secondo. In questo Empedocle stabilì la sua etiça; in quello la fisica: ma fece precede re il primo al secondo, come argomento pri mario della sua raffinata morale. La morale d'Empedocle fu in verità nel suo fondo la stessa di Pittagora. Pu re lni citano gli antichi scrittori, come chi. avesse alterato la prima antica dottrina di quel sommo filosofo, e i tempi di lui ad ditano come la seconda epoca del pittago ricisino. Ma ciò avvenne, perchè Empedo cle, aggiustata la morale di Pittagora a suo modo, e conforme al suo fisico pensa rė gi scostò al quanto dagl' insegnamenti di lui. La colpa degli spiriti; una diversa maniera di metémpsicosi: l'astinenza di qualche sorta di cibo, furono in tutto le gran novità, ch'egli introdusse nel corpo della morale di quello. Tra queste come principale, e primaria è da reputarsi l'o pinion della colpa degli spiriti. Non d ' al tra fonte, che da questa, qual prima ca. il.119 gione, il nostro filosofo fece dipendere la metempsicosi e le purificazioni, che sono i due çardini della morale pittagorica. Fu opinione d'Empedocle, che varj spiriti, mentre menavano yita beata, avesser pec: cato. Però a cagion di delitto, si credet te da lui, quelli, scacciati dal cielo, e pri vi degli onori divini, essere stati così astret ti ad espiare i lor falli. Esuli, erranti, ra minghi, egli diceva, vanno lungi dal cie lo per trenta mila anni, e pagan vagando il fio meritato del propio loro delitto. L' etere quindi, e' soggiungea, precipita gli spiriti nel mare, il mare sulla terra gli sbalza, la terra gli sospinge nell'aria, l ' aria sino all' etere gl' inalza. A quelli sų giù sospinti perciò, e quà e la circolando risospinti, oyunque era d'uopo in mare, in aria, in terra vivere in miseria e in lutto. Tali spiriti, secondo che piacque a costui, andavan successivamente informan do varj corpi, e questi appunto erano le infelici anime degli uomini. Queste quindi 120 ta stavano in pena delle lor colpe racchius e ne' corpi; i corpi eran le prigioni delle ani me, e la matempsicosi, di cui Empedocle formo il primo cardine di sua morale, giu ata il parer del medesimo, era una pena delle stesse, ch'aveano prima fallato. Di si fatta reità delle anime che ragion fa della metempsicosi, non si trova vestigio alcuno presso que' filosofi, che furono in nanti d ' Empedocle. Questa per la prima volta si legge ne' versi di lui. Ai suoi tem pi fu, che la medesima divenne comune, o volgare: e Platono dopo fu quello, che l' abbelli sopra ogn' altro. Pero da Empe docle comincia una nuova età del pittago ricismo; perchè da lui comincia l'opinione della fallenza delle anime, qual base e ra gione della trasmigrazion delle stesse. Egli è vero, la metempsicosi, comu ne a pittagorici, essere stata antichissima presso gli Egizi (91 ). Non si dubita ne anche aver costoro diviso in più periodi il tempo della trasmigrazion dalle anime, assegnato a ciascuno la durata di tre mila 121 anni. In ogni periodo, credeano i medesi mi ogni anima, informato prima solamen te il corpo di un uomo, andar poi tratto tratto passando non più ne' corpi d' altri uomini, ma di qualunque animale,. che abita o l' aria, o il mare, o la terra. E' vero altresì tal dottrina essere stata dall' Egitto portata da Pittagora presso de' Gre ci (92 ). Non si dubita nè pure i Greci filosofi coll' andar del tempo averla molto alterata. Altri restrinsero la metempsicosi ai soli corpi umani, altri pari agli Egizj ľ1°. estesero dagli uomini ai bruti. Vi fu pa. rimente, chi disse que periodi esseri tre, chi dieci, chi nove. Nè mancavan di quei, che ridussėro la durata d'ogni periodo da tre mila a soli mille anni. Empedocle fra tanto afferind il nume ro di que' periodi esser dieci, e la durata di ciascuno di tre mila anni. Ma l ' anime secondo lui migravano in ognuno di que' periodi in ogni sola volta nel corpo d'un uomo, e in tutto il resto a ' finire il cir colo di ciascun degli stessi, andavano mion 122 1 che ne' bruti, ma eziandio nelle piante. Fui fanciullo, dicea Empedocle, fui don zella, augello, albero, pesce. Chi è or, che non vegga esser questa un altra delle alterazioni recate da costui alla metempsi cosi di Pittagora, e degli Egiziani? Questi la voleano solamente negli uomini, o ne' bruti. Empedocle agli uomini, e a ' bruti aggiunse la trasmigrazione ancor nelle pian te (93 ): Ma non si creda mica, che tale ag giunta d'Empedocle alla dottrina della me tempsicosi di Pittagora, e degli Egiziani, fosse stata in lui l'opera del capriccio, o del caso. Sarebbe cid indegno di un nuo vo, ' e original pensatore. Chi si risovviene del fisico sistema del primo, conosce che si dovea far certamente quest' alterazione notabile alla metempsicosi del secondo, Gia si sa aver avuto Empedocle le piante, al par degli animali, dotate di sentimento, o d'anima materiale. Ma non così aveano pensato nè Pittagora, nè gli Egiziani. Pero quegli fece passar le anime e dagli uomi 1 123 ni, e da bruti alle piante, e questi cre dean, che le anime migrassero dagli uo mini nel corpo solamente de' bruti. Le a mirne in somma in forza del sistema d ' Em. pedocle, dovean circolare informando tutti que' corpi, che in qualunque maniera fos. sero stati organizzati. Ecco le due novità recate dal nostro filosofo alla morale di Pittagora, ma novi tà ben legate tra loro qual cagione ad ef fetto. Alla colpa delle anime aggiunse Em. pedocle la metempsicosi, come al delitto va compagna la pena. Ma quel ch'è più, a questa e a quella unite insieme andò egli pure legando la demonologia: articolo fon damentale della teologia de' pagani. i Vedea egli quasi ingeniti all' uomo i semi si della virtù, che del vizio. Allor si pensava lo spirito ' tendere naturalmente à cose spirituali ed eterne, e la materia al le materiali e caduche. Credette ei quin di i semi della virtù nascer nell' uomo dall' anima, e gli altri del vizio nascere in lui della materia. Ma l'anima, a suo pre q 2 12-1 dere, chiusa nel corpo, restava contamina. ta dalla materia, e. però era sospinta assai più verso il male, che il bene. Oimè, di cea egli, come è misero, come. è infelice il genere umano. A quali guai, a qua li pianti non è ei sottoposto Queste due tendenze dell'uonio al be: ne, e, al mal fare raffigurò Empedocle, giu. sta il costume di quell'età, sotto le imma gini di due opposti genj. Due, egli disse, sono i genj, che quali direttori delle azio ni degli uomini, accompagnano ciascun uo « mo in tutto il corso della vita d ' ognuno di loro. Buono è l'uno, l'altro è malva gio. Il primo guida, o conforta lui alla virtù; il secondo spinge e conduce il me desimo al vizio (94). Ma ambidue questi genj non indicavano, che questa stessa dop pia tendenza. Pure tutto il volgo allora venne nel credere, che ciascun uomo dal nascere al morire fosse' stato realmente as. sistito da un genio buono, e da un altro malvagio. Tanto egli è vero, che le im magini, sotto cui adombravano gli antichi 125 > filosofi le loro specolazioni, fossero state ca gioni di superstizione, e di errori. L'uomo non solo ha tendenze al be ne e al male, ma è capace altresì d' ope. rar l' uno, o l'altro. Quante virtù, e quanti vizi di fatto ei mette in pratica ! Ma questi stessi ebbe la bizzaria Empedoc cle di designare sotto la figura di genj. Singolari, non cho speciosi furono i nomi, con cui egli distinse i demoni, che rap presentavano i vizi, ' e le sfrenate passioni degli uomini, De nomi di Chtonia, d' He liope, d ' Asafia, di Nemerte, o di parec shi altri ne sjamo debitori a Plutarco (95). Singolari eziandio, non che speciosi, esser dovettero i nomi, con cui distinse lo stesso l'opposta classe di genj, che rappresenta vano le virtù, e le passioni imbrigliate de gli uomini, Mą il tempo, che rode ogni cosa, non ha fatto quelli pervenir sino a noi. Pure è sfuggita da sifatta ingiuria la nominazione, con cui Empedocle appel 10. le virtù, felice prodotto, delle regolate passioni. I pittagorici furono usi chiamare 126 il mondo spelonca, ed Empedocle, qual pittagorico, chiamò le virtù, e passioni virtuose ' potestà conducitrici delle anime: quasi giunte nel mondo, come in un an tro (96 ). Il popolo, che in ogni cosa vede portenti, e finge de' genj, accolse quasi revelazione venuta dal cielo, la de monologia del nostro filosofo. Gli antichi scrittori, pari al volgo, non compresero nè pure il vero intentimento di lui. Que sti però dipinsero Empedocle, come chi avesse popilato l'intero universo di demo nj, e attribuito a virtù de' genj ogni ope razion di natura. Ma questa stessa dottrina de' genj fu il fondamento della magia, e teurgia fa mosa d'Empeclocle. Questa, in que' tempi cra un metodo di purificar le anime col favore degli Dei benefici, che dovean con dir quelle all'unione con Dio. Gli Dei bendici non eran che virtù astratte deifi. cate da lui: è nella pratica delle sante o pere era riposto tutto il culto di quelli. Credea egli, non poter le anime ritornare 1 27 agli onori divini, da cui erat cadute, che coll' ajuto di quegli Dei, perchè credeva altreşi non potersi quelle inalzare a Dio, che coll' esercizio delle sante virtù. La teur gia in somma d'Empedocle fu un retto, e diritto nietodo di purificar le anime colle opere buone. Sembra cosa veramente incredibile che uomini abbandonati al debile filo della pro pia imbecille ragione, e privi di qualunque superior lume di rivelazione divina, avessero potuto architettare un piano di quasi per fetta morale. Non fu gia la metempsicosi quella, che giusta i pittagorici avesse po tuto purificar le anime. Questa non era purificazione e virtù, ma pena dovuta al. delitto. Questa non si poteva in alcuna an corchè menomisssima parte, o abbreviare, o alterare. Esser questa un decreto divis no, essere un santo giuramento si spaccia va a tutti da Empedocle. Ciascun anima avvegnachè virtuosa, e purissima (così és. si pensavano ) non potea unirsi a Dio, se non compiti i periodi, e il tempo tutto di esilin. 128 Le purificazioni altro cardine della mo rale d’Empedocle eran propiamente, secon do tutti i Pittagorici, le sule, che a poco a poco lavavan le anime, e toglievan loro in quel tempo, che informavano i corpi umani, ogni macchia, di cui le medesime potevano essere dalla materia bruttate. Pur gate poi le sozzure, e finiti i periodi tut ti del bando, allora era, che le anime già nette, secondo che allar si credeva, fos sero agli antichi onori tornate, e alla vita divina... I sagri riti poi, lo studio delle scien ze, la pratica della virtù erano i tre mo di di purificazione inventati all' uopo da que' sommi filosofi. Sembra à prima vista o superfluo o inutile essere stato il primo di questi mo di, e tutti gli augusti riti, e quelle ceri-, monie solenni, che si metteano in opera al lor da Teurgici. Ma si poteva scuotere, e infiammare altrimenti l'immaginazione de gli uomini, affinchè questa si fosse resa docile agl' insegnamenti della virtù? L'110 { 129 - mo materiale si solleva dal mondo materia le merce cose eziandio materiali. Le ceri. monie, ei riti sono i soli, che colle san. te immagini níuovono i sensi, e astraendo li dalle cose impure alle pure gli inalza no. I riti sono il verace linguaggio de sen si, che efficacemente parlando destano la fantasia. A questa è sol conceduto ' creare tra il mondo materiale l'altro spirituale: Disadatto pure si crederà forse essere stato lo studio delle scienze a purificar le anime. Ma non è egli questo, che aliena lo spirito: dai vizi, che l'introduce alle co se intelligibili; e che sveglia in lui le idee immateriali e celesti? Non è egli vero al tresì l'anima, esercitata nelle cose dell' in telletto, districarsi da' fantasmi del corpo, e. dalle false opinioni del volgo? Era certa mente un ridicolo sogno quello de pittago rici, che collo studio delle severe discipli ne fosse tornata alle nostr' anime la mé. moria delle cose divine. Ma certamente all' opposto è un dogma incontrastabile,. che tanto più la nostra mente si allontana dal r 130 > la materia e dagli appetiti carnali, quan to più la medesima s' aggira sulla contem. plazione o de' principj delle cose, o delle matematiche, o elogn'altra scienza. Ma in verità e uso di riti, e studio di scienze, e ogni qualunque altra cosa, che avessero potuto specolare gli antichi, sa rebbe lor tornata inutile, ne sarebbe mai giunta a purificar nè meno da lungi le a nime, se a tutto ciò non avessero costoro accoppiato del pari la pratica della virtù. Questo in fine dovea essere il bersaglio, cui dovean dirizzarsi que' grandi filosofi: o questo l'ultimo e principal metodo di pu rificazione. Non si può infatti ne pure ideare quanto studio avessero posto costoro ad astenersi da ogni ancorchè minimo fal lo. Tutti quanti (tranne il loro raffinato orgoglio, e la loro squisita 'boria e super bia ) furono del tutto.virtuosi. Di e nota te si recavan essi sopra se stessi, scrupo losamente ogni lor fatto esaminando, e c gni movimento del propio loro cuore. In estimabile era la diligenza, ch' essi adope 131 rzano a nettar d'ogni ruggine l'animo lo ro, e a far bene ogni cosa. Tutta la vita į medesimi spendevano in contemplare oggetti spirituali, e. in praticar virtù, e que pre cetti, che si leggono scritti ne' versi dorati. Si crederebbe quì finito il lavoro della loro morale, Pure come eglino avevano que sta diviso in due parti, così alla purifica zione aggiunsero altresì la perfezione (97 ). Non bastò a Pittagora l' essersi lusingato, che l'anima, mercè la prima si fosse e mondata da vizi, e separata dalla materia, e liberata quasi dal vincolo, che la ren deva prigione. Volle di più immaginarsi, che l' anima, mercè la seconda già prima purificata, si fosse poi inalzata a Dio, o ripigliati gli antichi abiti, e forma, si fos se confusa colla divinità medesima. Le ar nine in somma, che secondo Pittagora ed Empedocle, erano di loro natura divi ne, ma contaminate dalla colpa e mate ria ', dovean prima purificarsi, e poi sì per fezionarsi, che fossero state degne di tor nare a Dio, e agli onori primieri. Però l' 132 immacolato, e innocente viver d'Empedo cle obbligo lui a spacciarsi qual Dio, e a promettere ai puri, e perfetti la Divinità come premio. Sin quì Empedocle, e Pittagora furon d'accordo, e quegli fece uno con questo. L' essere stata comune l ' opinione tra loro nel principio, da cui la purificazione, e perfezione avesse avuto sua origine, non fece punto discrepar l'uno dall'altro, Cre deano ambidue le anime tutte degli uomi ni, e tutti gli spiriti altresì formare uni ca, e sola famiglia con Dio. Là poi, ove i sistemi loro non furon punto d'accordo si fatti filosofi furon del tutto discordi. Em. pedocle, altrimenti che Pittagora, riguardo uomini, bruti, piante come unica famiglia. Non è più quindi da far sorpresa, se si ve de ora entrare in iscena una terza novità d'Empedocle, come riforma alla moral di Pittagora. Se si vuol prestar fede ad Aristotile ad Aristosseno, e Teofrasto, Pittagora e i Pittagorici della prima età uccidevano, ec. 133 cettine i bovi destinati ai lavori, ogni sor ta d'animali, e tranne i loro cuori e ma trici ne mangiavan le carni: s ' astenevan solamente da' pesci. Empedocle all'incontro fu il primo che proibì affatto qualunque uso di carne; e riputò sacrilegio l'uccidere quale che si fosse animale. Non veggo, dicea egli, perchè alcuni animali debbano serbarsi in vita, e altri all'incontro si pog sano uccidere. Una è la legge per tutti, é questa è pubblica per tutta la terra. Vedeva costui in tutti gli esseri organiz zati, facendone un sol corpo morale, quasi unica é sola farniglia, Perd non sapeva egli scorgere differenza notabile tra uomini, e bruti. Smanioso egli quindi si scaglia con tro chi avesse sagrificato in que' tempi vit. time agli Dei, che' attesa la metempsicosi, potevano per lo più esser uomini sottom bra di bruti. Cessate, gridava Empedocle, o crudeli, di fare strage, e lordarvi di san gue: Pazzo il padre, che sotto altra sem. bianza scanna il propio figliuolo, e vane preghiere disperge all'aria e al vento. Stol i 134 ti non veggono, che divorando le fumanti sanguinose carni di animali le menbra pa. rimente divorano de' lor padri, figliuoli, o congiunti. Si riderebbe oggi la presente età del: la severità d'Empedocle, e si reputerà cer tamente stravagante la sua pietà verso i bruti. Ma ad altro, e più nobil fine ten devan le idee del nostro filosofo. L'uomo è in mezzo a' suoi simili, e l' amore è il principale anello, che dee le garlo cogli altri. L'amor verso i simili è il principale dovere di un uomo di società: e la pieta n'è la base. Ma questa non si potrà avere giammai, se non campeggia e dilatasi sopra tutti gli oggetti, che circon dano lui. Se l'uomo deve avere pietà ver 80 gli uomini, uop' è non che estenderla, mia cominciarla da' bruti. Qualor ' si eser-: citasse ferocia contro i medesimi, agevol mente il reo costume l'andrebbe portando ancor contro gli uomini. Anche tra noi, se non può recarsi a effetto sì fatta proibizio. ne di scannar gli animali, sempre egli 1 135 vero, che debbasi tener come parte di e ducazione gentile, quella d'insinuare ne gli animi ancor teneri de' giovani la pietà verso i bruti. Non son dunque da ripren, dersi, così tentoni, gli antichi filosofi per quegli insegnamenti, che oggi, mutate le usa nze, ci sembrano stolti. La proibizio. ne ch' Empedocle diede a' suoi scolari d ' uccidere gli animali, e cibarsene, ebbe in mira non sol di non essere crudeli, e feroci cogli altri; ma di dispor loro ad amarsi l ' un l'altro a vicenda, e nelle disgrazie scam. bievolmente aiutarsi. Egli non senza sotti le avvedimento si sforzò così in persona de? suoi compatriotti svegliare allora in tutta la generazione degli uomini quell'attitudine, che porta loro a prender parte nell' altrui traversie: attitudine, che di sua natura è debole, languida, spesso sopita, e quasi sempre soffogata, ed estinta. Però Empc docle a ingentilir gli animi umani, e rasla dolcire i costumi degli uomini, volle che questi non si avessero bruttato le mani del sangue, né avessero mangiato le carni de' 136 bruti. Chi è beniguo co ' bruti non può certo negare agli uoinini amore, pietà, cor tesia, frattellanza. Pittagora nulla conse guente a' suoi stabiliti principj della metem psicosi, trascurando quasi tutti gli anima li, ſecesi soltanto scrupolo, e proibi, che si fosse recata alcuna ingiuria alle piante, che non fossero state nocevoli. Ma Empe docle fece molto più, e' meglio assai di Pittagora. Egli dotate prima quelle di sen timento, proibi poi che si fosse fatto loro del male: ailinchè non si fossero avvezza ti gli uomini ad offendere esseri forniti di sensi e di organi. Fu in somma intendi mento di lui in tutte le maniere, quasi tirando tutte le linee a un centro, stabili re tra gli uomini fratellanza e amicizia Però fu, sollecito ei d ' ordinare, che oltre agli animali, si avesse avuto compassione sin anche alle stesse piante.. Sarebbe stata finalmente non che man. chevole, ma mulla la morale d'Empedocle, s' egli non avesse presentato o un premio, una pena agli osservanti, o violatori de' 737 ciò, precetti da lui stabiliti. La speranza del premio, e il timor della pena, interni po. tentissimi stimoli dell'animo umano, inco raggiano i buoni a operar la. virtù, spa ventano i mali a praticare il vizio. E' ben ragionevole quindi, ch ' Empe docle avesse pigliato una via come stabili re e premio', e pena, sì alla virtù, che al vizio: e il fece appunto combinando al par de pittagorici, colla dottrina della metempsicosi. Il tempo di tre mila anni di ciascuno de' dieci periodi di essa non era destinato da Empedocle a far cir colare sempre le anime da un corpo in un altro. Le anime in ogni giro di tre mila anni informavano secondo lui e vegetabili, e bruti. Di poi andavano esse in ultimo E luogo ad avvivare il corpo di un uomo. questo finalmente morto, passavan quelle ad abitare un luogo o di gaudio o di lutto secondochè le medesime avessero o bene, o male operato. Quivi doveano esse restare, finchè finito avessero il primo periodo di tre mila anni. Dovean le medesime torna. S 138 To appresso a cominciare il secondo di al tri tre mila anni, passando tratto tratto ne corpi: d' altri bruti, di altre piante, o finalmente di altri uomini. Così successiva mente doveano esse fare in tutto il corso degli interi dieci periodi: e cosi le medesi mo doveano essere o premiato, o punite in ciascuno di essi. Ma al finire di tutti i dieci circoli quelle anime, ch'eran tenaci ne' vizi, giusta Empedocle, bandite dal cie. lo, eran dannate in mezzo alle tenebre, e in un continuo lutto, o un eterno suppli zio. Le altre poi, che virtuose al compir di quo' circoli si fossero trovate belle e det. te secondo lui, si portavano all'etere puro, e collocate in mezzo alla luce, sedcano in vi a mensa coi forti Danai, in eterno go dimiento, nell' unione con Dio. Tutto ciò si raccoglie da ' versi d ' Empedocle. Così pur si pensava da' pittagorici di Sicilia; nè al trimenti si canto da Pindaro nelle sue odi dirette a Gerone, e Terone (98 ). Ecco tutto, il quadro compito della intera mora le d'Empedocle. 139 Egli è senz' alcun dubbio, essere stata questa assai raffinata, e, molto diversa da quella del volgo. E ' cosa da recar mara. viglia l'osservare, com ' essa in tempi assai caliginosi, fosse stata tanto bene architetta ta, cosi brillante, e del tutto diretta a ri. pulire il costume, a liberar l'uonio, quan to più s' avesse potuto dai vizi, e a nobi litar l'anima e la mente di lui. Cid nulla ostante ella ha eziandio i suoi gran difetti. L'essere stata la stessa riservata ai soli sapienti, e ai soli iniziati ne fu il principale. Quel sistema d'Etica, che non è fatto per tutti gli uomini, non può esser giusto, santo, verace. Tutti quan. ti gli uomini sono astretti agli stessi doveri, e a una sola virtù, Si può considerare, & gli è certo, la scuola pittagorica, qual.ce nobio, é i pittagorici quali religiosi dell' antica Grecia. Ma l'orgoglio guastava le loro azioni, rendea yane le loro fatiche, avvelenava ogni loro virtù. Pure è sem pre da reputarsi degno di lode il nostro filosofo, che osservantissimo de' precetti pit § 2 110 tagorici non ebbe difficoltà di manifestarli, e divolgarli nel suo poema delle parilica zioni per solo e semplice amore di onestà, e di virtù, Empedocle, tranne la super bia, radice infetta dell' operare d'ogni an tico filosofo, è da celebrarsi, come quel lo, che ornato di cortesia, amante degli uomini, e virtuoso, avesse aspirato sempre a perfezionar molto se stesso. Ma gli onori, che si rendono a' tra passati; le lodi, di cui s' onora la memo ria de gran genj, non possono nè recar loro diletto, che più non sono, nè tocca re il lor cenere, che affatto è privo di senso. Tutti i loro elogi, come quelli, che eccitano l'orgoglio e la vanità de' viventi, noi guardano e a noi son diretti. Siam noi, che dagli omaggi, che si tributano a quelli, prendiamo speranza di poter forse nieritare la stessa gloria, e acquistar la fa na stessa presso le generazioni avvenire. Del nome d'Empedocle fu una volta ne è oggi, e ne sarà sempre piena la ter,. La filosofia di lui fu tenuta assai in 141 pregio presso tutta l'antichità tra Greci e Latini (99). Quella occupa tal sublime posto di onore nella storia delle scienze, ch' Empedocle si può dir, che appartenga a tutte le più colte nazioni. La Sicilia fra tanto è la sola che a giusta ragione lui vanta: qual suo. Felice quel suolo, beato quel clima, cho dà il natale a' grandi uomini ! La memoria e la fama loro è un fecondissimo germe, che in ogni età ne desta l' emulazione, e ne riproduce il sapere. Tal dovrebbe essere a noi il dolce nome d'Empedocle, caro alla yirtù, caro alle lettere. Anatomia, fisiologia, chimica de cor pi organizzati possono lui chiamare padre inventore. L' essersi ridotta la materia a quattro elementi; l' essersi trovate due for ze in natura di repulsione, di affinità; 1" essersi intrapreso il metodo di fisiche espe. rienze, la terra n'è a lui debitrice. La scoperta della chiocciola; della successiva propagazion della luce; del peso e della molla dell' aria; del nutrirsi, del traspira* e 142 re, dell'essere ovipare le pianto al par de gli animali son cose tutte propie di lui. Divolgati appena sì fatti suoi ritrovamenti, tosto si rese celebre il suo nome in tutta la Grecia, ed egli uno de' concorrenti di venne tra Anassagora e Democrito, La gloria d'Empedocle, che in gran parte è ancor nostra, ci dee infiammare a battere lo stesso sentiero. La Sicilia è la stessa oggi, ch'era allora ai tempi d'Em pedocle. Ella in ogn'angolo, e in tutta quanta la sua superficie presenta a' nostri occhi oggetti sempre degni di nostre filoso fiche ricerche. Piante d'ogni sorte, acque d'ogni specie ', minerali d'ogni genere, e i più distinti volcani esistono nel nostro suolo. Il Fisico, il Chinico, il Botanico lo storico naturale trova ovunque ampia materia d'appagar le sue brame. E ' no stra somma vergogna il vedere oggi, che vengan tra noi gli stranieri a insegnare a noi le cose nostre. Si saran forse cam. biati il cielo, il clima, la terra, che un di furono ne' tempi de' nostri antichi filo 1 143 sofi? 0 pur saran venuti meno gli inge gni tra noi? Non sono eglino i Siciliani dotati ancora o d' acume nello specolare, e di prontezza nel riflettere, e di pre stezza nell' eseguire, che loro hanno in o gni tempo distinto? La Sicilia una volta e. mula della Grecia in ogni genere di colo tura non potrà anche a di ‘ nostri con correre e gareggiar nelle scienze colle più polite nazioni? Si pigli dunque orgoglio dell' aggiustata idea di nostra antica grandezza. Questo, scossa l'inerzia, ci sarà di stimo. lo ad una nuova carriera da imprendere. La fatica è l'unica via, che conduce al sa pere, e questa ci porta, certamente alla fama. Si desti quindi in ciascuno di noi la virtuosa imitazione d’Empedocle, e si co minci la grand'opera con ardore e franchez za. Un felice evento coronerà allora ogni nostro travaglio: la posterità ricorderà noi collo stesso onore, con cui pieni d'ammi razione noi ricordiamo Empedocle. Empedocle non che fu eccellente filo sofo: ma fu del pari profondo politico. Si 144 ciliani, non andate quà là ad apprender ta pini da questo e da quello ordini civili, e fogge di governo. Guardate i maestosi avanzi delle nostre antiche città;specchia. tevi su li nostri passati famosi legislatori; richiamate alla memoria i fatti chiarissimi, non che della nostra Greca Sicilia, ma del la vita d'Empedocle. Così tratto tratto di verrete atti a maneggiar le cose pubbliche, e ben presto vi sarà tra voi politica non cabala, libertà non licenza '. Empedocle, convinti un dì i nobili di Gergenti di peculato, atterrò ivi la lor si gnoria: Non è disdicevole quindi l'imma ginarcelo, ch'egli colla stessa voce gli ota timati così riprenda di nostra età. Finito è il tempo, in cui usurpata un ingiusta franchigia de' pubblici dazj, generosi offri vate al Re il denaro del popolo, a fine e di ottener da quello nuove insopportabi li prerogative, e di stringer questo vie più nuove insoffribili catene. Finito è il tempo in cui macchinando l'esenzion delle taglie, scaricavate gran parte del pubblico con 145 peso sulle città immediatamente al Re sotto poste a fine di disertar qrieste, e di rau nare schiavi in gran copia nelle terre a voi immediatamente soggette. Finito è il tem po, in cui voi assumendo la voce e qualità di nazione, che non avevate, minacciosi vi rivolgevate contro del trono per non paga re, e taglieggiare il popolo ogni tre anni. Già il Principe si è congiunto col popolo. ' Gia la voce del Re, ch'è quella dell'ins tera nazione, è divenuta oggi più imperio, sa insieme e sicura. Essa ha già rivelato il grande arcano del vostro tirannico impe ro essere stato riposto nell'aver voi voluto fin'ora poco o nulla soffrire de’ dazj, e far li tutti a carico andare della povera gen te. Chi di voi potrà or tolerare con ani mo tranquillo tra vecchi debitori dello sta to non altri nonni leggersi che i vostri, e de' vostri antenati? Chi sarà tanto scelleras to, che rivelando il falso, voglia occulta re l'immensa estensione de' suoi ricchi fon di; affinchè a danno del meschino e del povero, pagasse egli quanto meno si possa 2 t 140 Chi sarà cosi ribaldo, che voglia sgravar d ' imposta la terra, unica e sola sorgente di ricchezza in Sicilia, per istrappare con mano rapace qualche misero tozzo dalla bocca faa melica dello stanco e affannato agricoltore? Şe cið han fatto i vostri maggiori, sono essi stati i più tristi nemici, anzi i più crudeli tiranni dell' infelice Sicilia. Si appartiene ora a voi lavar le macchie di quelli, e onorar voi stessi, contribuendo alla pubblica feli cità col pagarsi prontamente da voi a pro porzione della vostra opulenza, Ma Empedocle dovrebbero avere ezian dio qual modello non che i nobili, chi presi del fantasma di democrazia vo lessero condurre a sfrenatezza la plebe. Quante altre cose possiamo noi idearci a ver potuto lui dire, a costoro ! Egli poten do in Gergenti stabilire un governo collo cato tutto nella potestà del popolo, af fatto nol volle. A' popolari uni costui gli ottimati in quella città; e teniperò così gli uni cogli altri. L'equilibrio de' poteri, con cui s'amministrano le cose pubbliche, è la ma 147 solida base, su cui dee riposare, volendo si e florido e durevole, il presente gover no. L'equilibrio morale, non altrimenti che il fisico, viene da contrarietà ed egua glianza di forze. Il popolo ' non deve mai essere. -oppresso, ma all'incontro non dee ne pure essere costui un oppressore. Se la sua forza sbilancia, lo stato andrà tutto a soqquadro, e ruinerà senza meno. La ven detta piglierà allora il nome di forza, di senno il delirio, di libertà la licenza. I poteri legislativo, giudiziario, esecutivo si debbono a vicenda venerazione e rispetto; tutti debbono riunirsi, e cospirare a un sol centro: e se per caso ne sia uno avvalla dee tosto corrersi con mano presta a rialzarlo. Quanto è difficile mantenere og gi in Sicilia un sl fatto equilibrio ! Appe na vi basterebbe un Empedocle. Egli ad assodar vie più la novella for ma di governo stabilita da lui nella sua patria, ebbe in fin l' accorgimento di pian. tarla sulla pubblica coltura, e sul pub blico civile costume. Qual sublime lezio to, t 2 148 è un sogno, zione ella è questa da adottarsi da' nostri legislatori d'oggidi, se vogliono eternare, più che si può, il presente governo stabi lito di fresco. Un impero assoluto si può fondare tra selvaggi e tra barbari, e vien prosperando in mezzo a gente corrotta. Ma è un delirio il pretender fer mo un governo costituzionale senza nè col tura nè costume per base. Nello stato, in cui è il nostro suolo, non potrà certamente portare la novella libera costituzione senza che fosse prima quello preparato e divelto. Voglia Iddio che i nostri, posti giù l'e goismo, le false massime, gl ' impeti, glodj imprendessero a imitare Empedocle, e i nostri antichi felicissimi tempi. Ma se i Siciliani tutti debbon trarre qualche utile insegnamento dal nostro filo sofo; i Gergentini massime ne dovrebbero emular la virtù. La patria de' grand ' uomi ni è quella su cui sfolgora, riflette e va a concentrarsi, la gloria di loro. Si dovreb bero ricordare i Gergentini, ch ' essi prin cipalmente a Empedocle son debitori d'esa 149 ser tanto chiari, e così famosi nella nostra sicola storia. Si dovrebbero eglino pur ri cordare, che vicino a que' tempi, che vis sita oggi lo straniero, e sopra lo stesso suo. lo, che calcano i Gergentini 'medesimi, det tò allora Empedocle a Gorgia l'eleganti, avvegnachè prime lezioni di Rettorica. Gli stessi quindi a ripigliare in loro l'antico u sato splendore dovrebbero richiamare tra loro e le fisiche e le matematiche discipli ne, e ogn'altra amena e polita lettera tura. Allor si potranno i Gergentini glo riare a ragione d' aver prodotto, e dato la culla a Empedocle. Così eglino saran vera mente degni concittadini di lui. Ne altri menti si potranno lusingare gli stessi di far risorger tra loro il verace spirito d' Empe docle, e di poter quivi dire allo straniero. Dell' eccelsa sua mente i sacri versi Cantansi d'ogn'intorno, e vi s'impara Si dotte invenzioni, e si preclare Che credibil non par, ch'egli d'umana Progenie fosse. 1 PRUOVE E ANNOTAZIONI A L LA TERZA MEMORIA.  153 PRUOVE E ANNOTAZIONI A L I A TERZA MEMORIA. > Il n'est pas ) Freret raffigura l'attrazione e re pulsione di Newton nell'amore e odio d ' Empedocle. E però dice besoin d'un long discours pour montrer que le fond du systeme Newtonien, dé pouillé de l'appareil et du détail de ses cal. culs se réduit a celui d ' Empedocle, Hi stoire de l'Académie Royale Des Inscripti ons et belles lettres T. 18 Memoires p. 102. (2 ) Και γαρ ονπερ οιηθαη λεγειν αν τις μα. λιστα ομολογουμένως αυτω. Εμπεδοκλης και TYTO TAUTO TETOVIE „ Empedocle, di cui al cuno potrebbe portare opinione aver, detto sopra di ogn'altro cose tra loro e a se stes so concordi; egli cadde nel medesimo in 60veniente Arist. Metaph. 1. 3 cap. 4 il • 54 πος και 8το! O (3 ) Arist. de Coelo 1.3 cap. 4 Λευκίπι και Δημοκρίτος Αβδερίτης φασι είναι τα πρωτα μεγεθη πληθ. μεν απαρα και μεγεθα δε αδιαιρετα τροπον γαρ τινα παντα τα οντα ποικσιν αριθμους και εξ αριθ. μων • και γαρ ει μη σαφως δηλεσιν ομως τετο βελονται λεγαν, Leucippo e Democri to dicono le prime grandezze essere infini te di numero, ma indivisibili. Essi in cer to modo fanno gli esseri o numeri, o da' numeri. E se ben non lo mostrano chiu ro; pure questo vogliono dire. » (4) Εμπεδοκλης περι ελαχιστα εφη προ των τεσσαρων στοιχειων θραυσματα ελαχιστα οιονα στοιχεία προ των στοιχεων ομοιομερη και Empe docle prima de' quattro elementi supponeva de minimi bricioli, ch'erano non altrimen ti che gli elementi degli elementi, e par ti simili Stob. Εcl. Phys. 1. 1 p. 33. Ε più chiaramente Plutarco de Pl. Ph. dice οιονα στοιχεια των στοιχείων »και elementi degli elementi. (5 ) Ει δε στήσεται που διαλυσις ητοι ατος μον εσται το σωμα εν ω ισταται η διαίρετον μεν ι 155 8 μεν του διαι εθησομενον εδε ποτε καθαπερ εoικεν Εμπεδοκλης βελεσθαι λέγειν. » Se lo scioglinzento delle parti si fermerà in qual che luogo, domando: o il corpo in củi ri starà è indivisibile, o è divisibile; ma in alcun tempo mai non si potrà dividere, co me pare ch ' Empedocle abbia voluto dire, Arist. de Coelo l. 3. cap. 6. Sicchè Empe docle ammettea la divisibilità col pensiero non già col fatto. (6) Era un assioma presso gli antichi εκ τε μη οντος μηδεν γινεσθαι nulla farse da ciò che non è, Presso i Greci dev significava ciò ch ' esiste e il under ciò che non è. Epicuro talvolta piglia il des per corpo e il under per yoto. Ma diverso era il significato dell' del ov. Empedocle ed Anassago ra chiamavano Oy la materia dotata di qualità sensibili. E Democrito ed Epicuro la materia fornita di figura. Al contrario i primi due indicavano col un oy la mate ria priva di qualità, e i secondi la mates. ria senza figura. Di fatto Aristotile de GV e 156 gener. et corrupt. 1. 1 cap. 3 dice εστι γη το ον, το δε μη ον υλη της γης και πυρος ωσαύτως. L Latini tradussero il δεν per res o corpus il jend Ev per nihil o vacuum. E come non aveano parole corrisponden ti all' oy e' un or; cosi l'indicarono colle stesse parole res et nihil. E ' nato da ciò un equivoco nell' intendere i Greci. Questi non solo dissero nulla farsi da nulla; ia tal volta alcuni di loro pensarono niuna cosa, che ha qualità, poter venire dalla materia priva di qualità. (8) Απαντα γαρ κακείνος (Σμκεδοκλής ) ταυτα ομολογήσας, ότι εκ τε μη ιοντος αμηχα • γον εστι γενεσθαι και Concedendo Empedocle tutte le cose medesime,.e che sia impossi bile venire un essere fornito di qualità de ciò, che ne è privo je Arist. de Xenophane Zenone et Gorgia. (8) Εμπεδοκλης δε τα τετταρα προς τους ειρημενοις γην προσθας τεταρτον και Empedoclc disse esser quattro gli elementi, aggiungen do la terra per quarto a’tre già detti Aristot. Metaph. 1. 1 cap. 3. 157 (9 ) Σεληνην δε φησι συστηναι καθ' εαυτην εκ τα απολειφθεντος αερος υπο τα πυρος • τατον γαρ παγηναι καθαπερ την χαλαζαν. La lu πα, dice Empedocle, essersi condensata da se a cagione dall'aria, che fu abbando nata dal fuoco; perciocchè questa 'si con densò a guisa di grandine Euseb. Praep. Evang. I. 1. cap. 5. Lo stesso dice Plut. de Pl. Ph. Origen. Phylosoph. etc. (10) I sassi e gli scogli sulla terra so no stati giusta Empedocle formati dalla forza del fuoco. Plut. de primo frigid. Ne per altra ragione credea il nostro filosofo, chę i cieli siensi formati in guisa di çri stallo, che per l'azione del fuoco. Plut. de Plac. Philos. (11 ) Ως εν υλης « δ λεγομενα στοιχα τετταρα πρωτος (Εμπεδοκλης ), απεν. και μεν χρηται γε τετταρσιν αλλ ως δυσιν ουσι μονοις. πυρι μεν καθ' αυτο τοις δε αντικειμένοις ως Em. μια φυσα γη τε και αερι και υδατι, pedocle fu il prinio che affermò quattro ese ser gli elementi nella materia. Nondime no di questi non fu egli uso come se fos 158 } νω sero ' quattro, ma due soli. Mette il fuoco per se ', e' come al fuoco opposte l'acqua, ' la terra, l'aria, quasi avessero. queste uni ca natura.,, Aristot. Metaph. 1. 1 cap. 4. (12 ) Origen. Phylosoph. cap. 3. Clem. Alex. Strom. (13 ) Αναξαγορας μηχανη χρηται τω προς την κοσμοπίλαν » Anassagora usa della mente nella sua cosmogonia non altrimen ti che d'una macchina Arist. Metaph. 1. 1 Cap. 4. (14 ) Πολλαχου γουν αυτω (Εκπεδοκλα ) η μεν φιλια διακρινει το δε νεικος συγκρινα • μεν γαρ ε ! ς τα στοιχεία διαστήται το παν υπο τ8 14κας τότε το πυρ «ς συγκρίνεται και των αλλων στοιχων εκαστον, οταν δε παντα υπο της φιλιας συνιωσιν ας το εν αναγκαίον εξ εκαστε τα μορια διακρίνεσθαι παλιν. Εμπεδοκλης μεν 89 παρα τ8ς προτερον πρωτος ταυτην την ατίας διελων εισενεγκεν ου μιαν ποιήσας την της κινη σεως αρχη, αλλ' έτερας τε και εναντιας. Non di rado presso d'Empedocle l'amicizia sepa ra; e l'inimicizia unisce. Imperocchè quan. do per l'inimicizia l'universo si scioglie ne • OTULY 159 gli elementi; allora il fuoco si unisce, e al par del fuoco, ciascuno degli altri elemen ii. Quando poi per via dell ' amicizia tutti gli elementi si uniscono; allora è di ne cessità che le parti di ciascun elemento si separino. Però Empedocle fu il primo, che superiore agli altri più antichi di lui, divi dendo questa causa, intro lusse non un solo, ma piii e contrarj principj di movimento: l'anticizia cioè e l' inimicizia Arist. Me taph, I. i cap. 4. L ' vero che qui Aristo tile cerca di cogliere in assurdo il nostro Empedocle"; perchè cerca di mostrare che l' amicizia talvolta separa, e l'inimicizia ta lora unisce. Ma ciò non di meno confes sa che giusta Empedocle l'amicizia e l'ini. micizia eran due principj di moto. E in ciò loda il n'ostro filosofo, e l ' inalza so pra tutti que' ch'erano stati prima di lui. (15 ) Molti sono i versi d' Empedocle che lo pruovano, che noi rapporteremo ne' fram menti di lui. Ma Aristotile lo dice chia. rissimo. Es un evný to vemos ev Tols peyuceo σιν, εν αν ην απαντα ως φησιν (Εμπεδοκλης ) 160,, Se non fosse l ' inimicizia inerente alle cose, tutte queste non farebbero che uno come dice lo stesso Empedocle,, Aristot. Metaph. 1. 3. cap. 4. Simplicio inoltre de Coelo l. 1 Com. 29,, rapporta che giusta Empedocle è propietà dell'amicizia ridurre tutto in una sfera lovely o zipov (16 ) (Εμπεδοκλης ) το μεν πυρ κκκος καιλο. μενον προσαγορευων και Empedocle chiamo il fuoco lité perniciosa Plut. de primo fri gido. E lo stesso Plutarco ne soggiunge la ragione: Giacchè il fuoco ha la facoltà di dividere e separare. (17 ) Clem. Alexand. ad gentes cap. 5. (18 ) Aristot. Metaphys. 1. 1 cap. 4. (19) Plut. de Isid. et Osirid. Wolf. de Manich. ante Man. S. 30 Bayle Dict. Art. Xenoph. (20 ) Aristotile" riferendo l. 3 taph. l'opinione d'Empedocle sul circolo pe renne delle cose in virtù delle due forze amicizia e inimicizia si lagna del nostro filosofo, che introduce la necessità senza recare alcima cagione della necessità ws ay. 1 cap. 4 Me. 161 αγκαιον μεν ον μεταβαλλεινκαι αιτίαν δ ' εξ ενο αγκής εδεμιαν δηλοι. (21 ) Brukero T. 1 p. 2 1. 2 cap. 10 Sect. 2. de discipulis Pythagorae. Moshem. nelle note a Cudwort. (22) Αρχη η φυσις μαλλον της υλης. εγί άχου δηπου αυτη και Εμπεδοκλης περίπιπτα αγομενος υπ' αυτης της αληθεας, και την εσι. αν, και την φυσιν αναγκαζεται φαναι τον λογον ειναι: οιον οστουν αποδιδους τι εστιν. ετε γάρ εν τι των στοιχεων λεγει αυτο ατε δυο ή τρια ατε παντα αλλα λογος της μιξεως αυτων etc. Il principio delle cose è più presto la nä tura che la materia delle cose.. Empedocle tirato dalla forza stessa della verità spesso è costretto di confessare che la sostanza e la natura altro non sia che la ragione o proporzione: ' come fa allorchè ei dice coså šia.l osso. Poichè dice che l'osso non cen ga da questo o du quel elemento', nè da due elementi, nè da tre, nè da tutti, ma dalla ragione in cui questi nell' osso si stan. no ec. is Arist. de par. Animae l. 1. cap. E poi lo stesso Aristotile soggiunge che 1 362 2 i filosofi prima d Empedocle non fecerd lo stesso perchè non soleano definire ciò che fosse la cosa astion de to. pen en San τ8ς προγενέστερες επί τον τροπον τέτον, το τι ην αναι, και το ορισασθαι την ασιαν εκ OTI My •:- (23) Plut. de Plac. 1. ì cap. 6 Gal. Hist. Ph. (24) Plut. de Plac. Ph. 1. 5 cap. 19 Gal. ibid. (25) Plut. de Plac. Ph. 1. 5 cap. 19 Arist. de Resp. cap. 14 etc. Credea Em pedocle che gli animali, subito che nacque ro dalla terra, si divisero e portarono in luoghi convenienti al loro temperamento. Que' che abbondavan di fuoco o nell' ac qua o nell'aria. Gli altri ch'erano più gravi, abitarono la terra ec. (26) Darwin Zoonomia. Vol. 3 Sez, 39 cap. 4 ediz. di Milano, (27) La massa tutta del seme, che noz mostrava alcuna forma, o figura chiama va Empedocle. 8ioques che potrebbe significa. re tutta la natura organica secondo Simpl. 163 1 de Phy. aud. 1, 2. Com. 68 pag. 134 ediz. di Aldo: (28 ) Aristotile l. 2 de Coelo cap. 8 par lando dell opinione di Xenofane che credea la terra infinita estendere sino alſ infinito le sue radici, soggiunge do xakt.Eptidoxing ετως επεπλήξεν Per lo che Empedoche co si lo sferzò, e soggiunge i versi d' Empe docle, che noi rapporteremo 'ne' frammenti di lui. (29) Ταυτι δε τα εμφανη κρημνες και σκο: πελες και πετρας και Εμπεδοκλης μεν υπο τα πυ ρος οιεται το εν βαθει της γης εσταται και ανε χεσθαι. Empedocle è d'opinione che que sti sassi, questi scogli, questi dirupi, che sono agli occhi di tutti, sieno stati inalza ti dal fuoco che sta nelle profondità dela la terra „ Plut. de primo frigido, Quare quaedam aquae caleant", quae dam etiam ferveant in tantum, ut non pog sint esse usui nisi aut in aperto evanuere, aut mixtura frigidae intepuere, plures causae redduntur. Empedocles existimat ignibus, quos multis locis terrà opertos tegit, aquam ! X 2 164 calescere, si subjecti sunt solo per quod aquis transcursus est. Facere solemus dracones et miliaria, et complures formas, in quibus gere tenui fistulas struimus per declive cir. cumdatas; ut saepe eundem ignem ambiens aqua per tantum fluat spatii quantum ef. ficiendo calori sat est. Frigida itaque in trat, effluit calida. Idem sub terra Em. pedocles existimat fieri. Seneca Quest. Nat. i. 3. (3ο) Την γην εξ ης αγαν περίσφεγγομενης τη ρυμη της περιφοράς αναβλυσαι το υδωρ la terra, da cui, come fu condensata, per l'impeto della girazione spicciò l' ac qμα 15 Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 2 cap. 6. (31 ). Οτι δε μενα (γη ) ζητεσι την αιτίαν και λέγεσιν οι μεν τυτον τον τρόπον, οτι το πλα τος και το μεγεθος αυτης αιτιον, οι δε ωσ: περ Εμπεδοκλης την τε κραγε φοραν κυκλω περιθεασαν και θαττον φερομενην την της γης φοραν κωλυειν καθαπερ το εν τοις κυαθοις υ δωρ και και γαρ τατο κυκλω το κυαθε φερομείς πολλάκις κατω τα χαλκά γινομενον ομως ου φερεται κατω πεφυκος φερεσθαι δια την αυτην 165 Citidy, 99 Alcuni cercano il perchè la ter ra stia ferma nel mezzo, e dicono esserne cagione la sua grandezza e larghezza, Al tri poi, siccome Empedocle, son di pare re, che il cielo girando più velocemente del. la terra sia la cagione, per cui la terra non cada nello stesso modo, che avviene allac qua nel calice. Poichè seben questo si giri e stia col fondo su, e il labro all' in giù; pure l' acqua, che di sua natura tende al basso, non cache per la ragione medesima della girazione,, Arist. de Coelo l. 2 cap. 13. (32 ) Plut. de fac. in orbe Lunae, (33 ) Plut. de Pl. Ph. 1, 2. cap. 13 Laert. in Emp. (34 ) Arist. de anima 1, 2 cap. 2. (35) Καθαπερ Εμπεδοκλής φησιν, αφικνειο σθαι προτερον το απο τα ηλιο φως ας το μετα ξυ πριν προς την οψιν, η επί την γην, δοξα δ ' ευλογως συμβαινειν Empedocle dice che la luce, la quale viene dal Sole prinra giunge nel mezzo, e poi all'occhio ed aļla terra. Il che pare che accada con buona ragio ne » s. Arist. de sensų et sensili cap. 6. 166 tor. (36 ) Empedocle in prima avea il Sole per una gran massa ignita' non già per una rijlessione di un altro sole šíecome attesta Laerz, in Emp. Era in secondo opinione di Empedocle che il simile si va sempre ad u nire al suo simile. Però venne a lui na turale il dire che la luce lanciata dal So. le, dopo d' essersi riflettuta sulla terra, nasse di nuovo ad unirsi al Sole, e poi di nuovo movendosi da quest' astro, tornasse a risplendere. Per altro Plutarco stesso aper. tamente dice de Pyth. orac.. che la luce del Sole secondo Empedocle risplende di nuovo αυθις ανταυγαν • (37 ) Plut. de Pl. Ph. Gal. Hist. Ph. Stobeo Ecl. Phys. e tunti altri, appongono ad Empedocle l' opinione di due Soli, che si riguardavano, de quali l'uno mandava rag gi invisibili e l'altra visibili ec. (38) Empédocle, sans recourir á l’in stanatneité de cette émission ou á sa pro digieuse velocité disoit que cette objection se roit vraie, si le soleil lui même étoit en mouvement; mais que la terre tournant au 167 tour de son axe, venoit au devant, du ra yon, et voyoit l'astre dans sa prolonga tion. On ne répondroit pas mieux aujourd hui a cette objection, si quelqu'un la pro posoit contre la propagation successive de la lumière et son emission. Montucla. Hist. des Mathematiques Tom. 1 P. i lib. 3 pag. 142. (39) Απολείπεται τοινυν το τα Εμπεδοκλεος ανακλάσει τιγί τα ηλια προς την σεληνην γεγες; σθαι τον ενταύθα φωτος οιον απ' αυτης οθεν 80's. Jequor de deep porn Resta dunque co me vera la sentenza d'Empedocle. Però la luce lunare non è nè calda nè assai splen. Plut. de fac in orb. Lunae. (40 ) Est - il rien de plus juste que ce vers, dont voici la traduction litterale de Greg en latin circulare circa terram yolvitur a lienum lumen dit- il en parlant de lo lu ne? Achille Tatius en tire une preuve qu' Empedocle a regardé cette planéte comme un morceau détaché du soleil. Il n'a pas conçu que cet alienum lumen vouloit dire lumière empruntée, ce qui est très-confor me a la verité. Montucla Hist. des Math. dida,, 168 Tom. 1 p. 1 1. 3 pag. 111. (41 ) Isag. in Arat. (42 ). Empedocles plus duplo lunam dia stare censet a terra quam a sole. Galen. Hist. Ph. Plut. de Pl. Ph. (4.3 ) Και τον μεν ήλιον φησι πυρος αθροισο μα μεγα και σεληνης μαζω » Empedocle di. ce il Sole essere una gran massa di fuoco più grande della Luna Laert. in Emp. (44) Plutarco de ' fac. in orbe Lunae, afferma che la Luna al dir d'Empedocle giraya a simiglianza d'una ruota: Ora in que' tempi si esprimea la rùvoluzione d'un corpo intorno al propio asse sotto la figura ra d'una rủota, Cosi di fatto indicarono Seleuco d'Eritrea, Heraclide di Ponto, Eco fanto di Siracusa, il movimento della tere ra intorno al propio asse. Per altro i Pit tagorici sapeano che la Luna girando in torno alla terra çi presenta sempre lo stes so emisfero. Il che come ciascun sa non può aver luogo, se la Luna girando intor no la terra ſon rotasse intorno al propio asse: Sicché è da credersi cl’Empedocle non 169 ou esse ignorato questo movimento della Lu na. Ma come Plutarco non ne fa che un sol cenno, che può essere equivoco; cosi io non ho creduto di doverlo affermare come sicura opinione d'Empedocle. (45) Fabricio Bibl. Graeca T. (46) Arist. de plant. 1. cap. (47 ) Arist. nel med. luogo. (48) Arist. nel med, luogo. (49 ) Τα δε σπερματα παντων εχ τινα τροφην εν αυτός και συναποτίκτεται τη αρχή καθαπερ εν τοις ωοίς. η και κακως Εμπεδοκλης αρήκε φασκων ωοτοκαν μακρα δενδρα Ogni semè contiene in sè qualche cosa d' alimen to uñitaniente al principio che genera, sic come è nell' uovo. Per lo che Empedocle disse bene che gli eccelsi alberi sono ovipa ri Theofrasto 1. i cap. ' 7 de Caus. Plant. Και τατο καλως λεγει Εμπεδοκλης ποιησάς: Ούτω δ ' ωοτοκεί μικρα δενδρα πρωτον ελαίας •. Το τε γαρ ωον κυημα εστι, και εκ τινος αυτα γίγνεται το ζωον, το δε λοιπον, τροφη τα σπερ ματος, και εκ μερες γιγνεται το φύομενον, το δε λοιπον τροφη γιγνεται το βλαστω και τη y 170 pión en xpern » Questo ben disse Emperor cle affermando, che i piccoli alberi ezian dio sono ovipari. Poichè da una parte dell' uovo nasce l'animale, e dal resto si fa la nutrizione di questo. Nello stesso modo ac cade nel seme. Da una parte si formá la pianticella, ed il resto serve per nutrirla Arist. de Gen. anim. l. i cap. 23. (50) Arist, de Gen. anim. I. 1 cap. 18 & lib. cap. 6. Theofrasto 1. i cap. z de Caus. Plant. Indi è che Malpighi aper: tamente dice Plantarum ova esse semina vetus est Empedoclis dogma. Anat. Plant. pag. 92 * 93. In questi ultimi tempi Young è stato il primo a dire che le piante ven gono, dal seme. Rozier journ. de Phys. Auril. 1789 p. 241 e Bonnet Deur. v. 5 p. 256 ha dimostrato l'analogia del seme coll' uovo. (51) ο δε μαλιστα και κυρίως εστι ζη = τητεoν εν ταυτη τη επίσημη τετο οστιν » όπερ ειπεν Εμπεδοκλής ηγουν α ευρίσκεται εν τοις φύτοις γενος θηλυ και γένος αρρεν και ει εστιν ειδος κεκραμενον εκ τετων των δυο γενών και Cio 171 she in questa scienza sia sopra d'ogn' al tro, e propiamente da ricercare, lo disse Em pedocle: cioè se nelle piante si ritrovi il sesso maschile e feminile, e se questi due sessi sien in quelle mischiati ed uniti,, Arist. de Pl. 1. cap. 2. Per lo che è da ripu. ţarsi particolar opinione d'Empedocle, quel, la del sesso nelle piante, e che queste fos sero state ermafrodite. Si legga lo stesso Aristotile de Pl. I. i cap. 1. Haaly 005 - λομεν ζητειν πότερον ευρισκονται ταυτα τα δυο γενή κεκραμενα εν τοις φυτοις ως απεν Εμπε doxninis:,, Dobbiamo ricercare se i dųe ses si nelle piante sien mischiati, come vuole Empedocle. » (52) Empedocles quidem divulsa esse so bolis membra aiebat, ut in faeminae alia alia in maris semine continerentur, atquo inde oriri animalibus venerei complexus ap.. petentiam, dum partes illae inter se di stractae conjungi atque uniri concupiscunt. Galen. de semine 1., 2. cap. 3. Si legga parimente Aristot. de Gener, ànim. l, i cap. 18, 172 (53) Plutarco de plac. Ph. 1. 5 cap. & 10 12 Arist. de Gener. anim. 1. 2 cap. 8. (54) Εμπεδοκλης τη κατα συλληψιν φαντα. σια της γυναικος μορφουσθαι τα βρεφη και πολ: λακις γαρ εικονων και αδριαντων ηρασθησαν γυναίκες και ομοία τετοις απετέκον. » Empe docle dice che dalla fantasia della donna piglia forma îl feto. Poichè spesso le don ne hanno la lor prole partorito simile a statue o. a immagini, che hanno amato Plut. de Pl. Ph. I. 5 ' cap. 12, (55 ) Plut. de Pl. Ph. 1. 5. cap. 27. (56 ) Tutta la dottrina d Empedocle, siccome in appresso diremo, era fondata su i pori, e sugli effluvj, che si spiccano secondo lui da' corpi, o per quelli s'intro ducono, (57 ) Plut. de Pl. Ph. I. 5. cap. 26. (58) Frondes amittere quibus aestatis ca. lor humorem ahsumpserit; semper fronde re quae majorem succi copiain habent, ut laurum, oleam, palmam 4 Hist. Ph. Gal. Lo stesso dice Plut. de Pl. Ph. l. 5 cap. 26. 173 Plutarco Symp. 1. 2. Si propone la questione, perchè l' ellera conserva le fo glie, e gli altri alberi le perdono. Ei ri sponde con Empedocle per la disposizione de* pori. Perche τοις δε φυλλoφoυσιν εκ έστι για μανοτητα των αγω και στενότητα των κάτω πι:,, ρων, οταν οι μεν επίπεμπωσιν οι δε φυλαττω σιν, αλλ' ολίγον αθρουν λαβόντες εκχέωσιν ωσ. περ εν αγδηροις τισιν ουχ ομαλοις » » A quel le piante, le cui foglie cadono į alimen to on basta a cagion della rarità de? pori superiori, e della strettezza degl inferiori. Poichè per questi pori s’ introduce poco ali mento, e per quelli molto se ne dissipa. Indi è che quel poco che hanno ritratto tosto lo perdono. Avyiene ciò che suole ac cadere negli attignitoi, che sono inegual mente forați. (59) Flore française troisieme edition par MM. de La Marck et Decandolle T. pag. 67. (60 ) Floré française ibid. pag. 86. (61 ) Flore francaise ibid. pag. 108 (62) Plut. de Pl. Ph. 1. 5 cap. 26 Gal. Hist. Ph. 3 174 (63) Galeno Hist. Ph. Plut. de Pl. Ph. 1. 5 cap. 26. (64) Ρlut. de Pl. Ph. 1. 5 cap. 22 Gal. Hist. Ph. (65) Plut. ' nel med. luogo. (66) Gal. Hist. Ph. Plat. de Pl. Ph. (67 ) Ρlut. de ΡΙ.. Ρh. 1. 4 cap. 22. (68 ) Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 4 cap. 16 Gal. Hist. Ph. (69 ) Arist. de Respirat. cap. z (70 ) Arist. 'de Respirat. cap. 7 Gal. Hist. Ph. (71) Arist, de, Resp. cap. 7 Plut. de PI. Ph. 1. 4 cap. 22. (72 ) Pluit. de ΡΙ. Ρh. 1. 5 cap. 24. (73 ) Plut. nel med. luogo. Gal. Hist. Ph. (74) Si vegga la niemoria seconda sulla Vita d ' Eimpedocle T. 1 pag. 132. (75) Ρlut. de Pl. Ph. 1. 4 Cap. 17 • (76) Τα μεν γλαυκα πυρωδη καθαπερ Εμ. πεδοκλής φησι τα δε μελανoμματα πλεον υδατος εχιν η πυρος. » Che gli occhi az zurri, come dice Empedocle, abbondano di fuoco, ed i rieri abbiano più d ' acqua che 175 di fuoco, Arist. de gener. An 1. 5 cap. i. (77 ) Τα μεν ημερας εκ οξυ βλεπεις τα γλαυκα. δι ενδιαν υδατος. θατερα δε νυκτωρ δι ενδααν πυρός και che gli occhi azzurri non veggano bene di giorno per difetto d' ac qua, ed i neri di notte per difetto di fuo: εο, Arist. de Gen. an. 1. 5 cap. 1. (78) Gal. Ηist. Ph. Ρlut. de P. Ph. 1. 4 Cap, 13. (79 ) Ειπερ μη πυρος την οψιν θετεον αλλ' υδατος πασαν,, Perclie la visione non e d ' attribuirsi al fuoco, ma tutta all'acqua » Arist. de Gen. anim. 1..5. cap. (80 ) Arist. de sensu et sénsili l. 1.cap. 2. (81 ) Empedocles animum esse censet cor di suffusum sanguinem. ' Cic. Tusc. quaest. 1. 1 cap. 9 e Ρlut. de ΡΙ. Ρh. 1. 4 cap. 5. Εν τη τα αιματος συστασε. (82 ) Αλλοι δε ήσαν οι λεγοντες κατα Εμ " πεδοκλεα πριτηριον αγαι της αληθεας και τας αισθησεις αλλα τον ορθον λογον και τα δε ορθα λογα τον μεν τίνα θαον υπαρχειν τον δε αν - θρωπινον. ων τον μεν θαον ανεξοισθον ειναι. τον δε ανθρωπινον εξοισθαν. Ci sono stao 1 O 176 ti alcuni, che han dettò con Empedocle esé sere il criterio della verità non già i sensi, ma la retta ragione. Questa poi essere in parte umana e in parte divina: la prima potersi da noi manifestare, e l'altra nòi, Sext: Emp. adv. Log. 1. 7 p. 396. (83 ) Hụezio Debolezza dello spiritous mano.. (84) Furere tibi Empedocles videtur: at mihi dignissimum rebus iis ', de quibus lo quitur sonum fundere. Num. ergo is ex. caecat nos, aut orbat sensibus, si parum magnam vim censet in iis esse ad ea, quae sub eos subjecta sunt, judicanda? Cic. Lu cullus c. 23. (85) Empedocles quidem, ut interdum mi hi furere videatur, abstrusa esse omnia, ni hil nos sentire, nihil cernere, nihil omni quale sit, posse reperire. Cic. Lucullus c. 5, (86 ) Αρχαίοι το φρονων και το αισθανεσθαι ταυτον αναι φασιν ωσπερ και Εμπεδοκλης (δη 01.,, Gli antichi, come disse Empedocle, vogliono che sia lo stesso sentire, che ra 177 € 2. gionare. Arist. de anima, l. 3. cap. 3. (87 ) Arist. de Plant...1. 11. cap. 1 (88 ) Αναξαγορας μεν και Εμπεδοκλης επί θυμια ταυτα κινεισθαι λεγουσιν αισθανεσθαι τε και λυπεισθαι » Anassagora ed Empedo cle dicono che le piante sien mosse da de. siderio, da tristezza, e da voluttà, Arist, de P1. 1. 1 Cap 1. (89 ) Αναξαγοράς δε και ο Δημοκρίτος και ο Εμπεδοκλής και νουν και γνωσιν εχεις απον τα φυτα Anässagora, Democrito, ed Em pedocle dissero le piante esser fornite di men te e di cognizione », Arist. de Pl. l. 1 cap. 1. Ρlut. de Plac. Ph. 1. 5 cap. 26. (90) Arist. de.ΡΙ. 1. 1 cap. 1 Ρlut. de P. Ph. 1. 5 cap. 26. (91) Πρωτοι δε και τονδε τον λογον Αιγυ πτιοι ασι αποντές, ως ανθρωπα ψυχη αθα γατος εστι. τα σωματος δε καταφθινοντος ες αλλο ζωον αια γενομενον εσδυεται. επεαν δε περιελθη παντα τα χερσαια και τα θαλασσια και τα πτηνα, αυτις ες ανθρωπό σωμα γινομες γον εσβυνειν. την περιαλησιν δε αυτή γίνεσθαι εν τρισχιλίοισι ετεσι. Sono gli Egizi i pri Z 178 ηι. mi che dicono l'anima essere immortale; ma che 'morto il corpo va questa sempre informando un altro animale; dimodochè dopo d' esser passata per tutti gli animali o terrestri, o marini, o aerei torna di nuo ro ad informare il corpo d'un uomo. Que sto giro compie l anima in tre mila an Herod. Euterp. 1. 2 cap. 123. (92 ) Τατω λογω ασι οι Ελληνων εχρησαντο οι μεν προτερον οι δε υστερον, ως ιδιω εωυτων εοντι. των εγω αδως τα ονοματα και γραφω. Tra Greci alcuni prima alcuni dopo han divulgato' la metempsicosi degli Egizi come opinione propria. E di quelli non vo. glio scrivere i nomi; ancorche mi sieno, co Herod. 1. 2 cap. 123. (93 ) Sext. Emp. adν.. Math. 1. 8. (94) Ου γαρ ωσ. ο Μεγανδρος φησιν απαντι δαιμων ανδρι συμπαράστατα ' ευθυς γενομεγω μυσταγωγος τα βιε αγαθος, αλλα μαλλον ως Εμπεδοκλης διτται τιγες εκαστον ημων γενομες γον παραλαμβαγεσι και καταρχoνται μοίραι κα! d'alluoves.,, Non è da credere come dice Menandro, che a ciascun di noi, come ea gniti, 170 gli nasce, assista un genio buono condut tor di tutta la vita, ma piuttosto è da te nersi l'opinione d'Empedocle, il quale di che ciascuno di noi dal punto della na scita è preso e governato da due genj e da due. fati Plut. de anim. tranquill. E sog giunge lo stesso Plutarco che co' nomi de gen; si esprimono σπερματα των παθων i se mi, delle passioni. (95 ) Plut. de animi tranq. (96) Αφ ων οίμαι ορμώμενοι και οι πυθα: γορεοι και μετα τατος Πλατων αντρον και στην λαιον τον κοσμον απεφηναντο. παρα τε γαρ Εμπεδοκλα αι ψυχοπομποι δυναμας λεγεσιν Ηλυθομεν τοδ ' υπ' αντρον υποστεγον E da queste cose, siccome io stino i Pittagorici, e Platone dopo costoro, pre sero occasione di chiamar questo mondo an tro e spelonca. Poichè presso Empedocle le potestà conducitrici delle anime dicono: che siano finalmente giunte sotto quest' aniro coperto; Porph. de Ant. Nymph. p. 9 ed. Van - Goens. (97 ) Clem, Αlex. Strom. 1. 2. Stob. Εcl. 180 Eth. cap. 3. Jambl. Portrep. cap. g Hierocl. in Com. Scheffer de Secta Italica. (98) Pindaro nella prima ode olimpica dirizzata a Gerone; dopo: d' aver descritto il supplizio di Tantalo, che chiama atau λαμον βιον εμποσομοχθον vita priva do gni ajuto e perpetuamente laboriosa » 'sog giunge „ questo supplizio forma il quarto dopo d' averne sofferto altri tre » Mesta Tpl. ων τεταρτον πονον. Non si puo comprendere a prima vista, come questo quarto suppli zio fosse stato perpetuo. Ma ciò è intera mente dichiarato nella seconda ode. olim pica diretta a Terone Gergentino. Quivi e gli dice: que', che dopo d'esser dimorati tre volte nella terra e nell'inferno ocou do ετολμησαν ες τρις εκατερωθι μειγαντες: seppero contener ľanimo loro nella pratica della virtil, arriveranno per la via di Giove al la regia di Saturno, dove laure dell' O. ceano spirano dolcemente attorno le isole fortunate, e splendono i fiori d'oro. vede quindi dal confronto di queste due o. di, che la metempsicosi giusta Pindaro con Si 181 sisteva in tre articoli: iº che l'anima del lo stesso uomo informava tre volte corpi u mani, che ' v'era un intervallo tra la morte e'l rinascimento in cui i giusti go deano di felicità, e i malvagi eran puni ti, 3º che le anime perseveranti nella giu stizia per tutto il corso delle tre vite umia ne, andavano poi. cogli eroi nell'impero di Saturno; e quelle, che s' erano mac chiate di colpe in quello stesso tempo, an davano in fine a soffrire un supplizio eter πο: απαλαμον βιον εμπεδoμοχθον. Gli sco liasti stessi di Pindaro, non altriinenti che noi abbiamo fatto ', lo dichiarano: uno di essi dice υπεραγαν μεχρι τριτης μετεμψυχοσέως Ev 8 %a740015 Tols peeport „ sostennero (le a nime ) sino alla terza metempsicosi nell' uno e nell'altro luogo cioè a dire nel la terra e nell' inferno. Ora trina di Pindaro pare che allora fosse sta ta conosciuta da' soli sapienti. Poichè dopo che il poeir avea esposta la triplice trasmi grazione soggiunge lo tengo sotto il mio gomito e dentro la faretra delle sette vo: questa dot 182 lanti, il cui fischio si sente dal solo sa piente. Ma la moltitudine ha lisogno d' interpetri ες δε το παν ερμηνεων χατιζα. Η saggio è colui che conosce la natura, gli altri, che įmparano da lui, sono loquaci nxo Root Taivajaworick e come i corvi inutilmente gracchiano. Per lo che pare, che Pindaro s'astenea di parlar chiaramente per non ri velare al volgo il dogma pittagorico della metempsicosi, ed opponea la furgawcola o loquacità del profano al silenzio del pit tagorico. (99) Tutti gli antichi fanno onorata men zione della filosofia d'Empedocle. Lascian do stare Aristotile e Teofrasto, noi sappia. mo da Laerzio l. 10 Sect. 25 ch' Herma co l'epicureo la espose in 24 libri moto - λικων περι Εμπεδοκλεας: Τra Iatini poί α parte di Lucrezio e di Cicerone, che ne fan sommi elogi, siano avvertiti da Cicerone me. desinio che si era stato un Sallustio, il quale area trattato la filosofia d'Empedocle nel la stessa guisa, che avea fatto Lucrezio per quella di Epicuro. Tria per quanto si rac 183 coglie dalle parole di Cicerone quell' auto re non era riuscito cosi bene, come Lucre. zio. Lucretii poemata, ut scribis, ita sunt multis luminibus ingenii: multae tamen ar. tis. Sed cum veneris, virum te putabo, si Sallustji Empedoclea legeris; hominem non putabo, cioè a dire se potrai sostener ne la lettura ti 'stimerò invitto e paziente. ma privo di senso. Cic. Ep. ad Q.fr. 1. 2. Non che Plutarco ne' tempi d'appres. 80, ma tutti gli scrittori ecclesiastici ricor dano con lode Empedocle ed i suoi pensu. menti. Vi ha un luogo di Temistio nell orazione 12 all' Imperator Gioviano, in cui egli loda quest' imperadore per la lege ge da esso lui stabilita circa la libertà del la religione. In questo luogo ei dice agar σθαι μεν εν και τις αλλες το νομο προσηκ4 τον θαοτατον Αυτοκρατορα και μαλιστα δε οίς ουκ εφιασι μονον την ελευθερίαν, αλλα και τις θεσμες εξηγείται και φαυλοτερον Εμπεδοκλεας και Ma All Excave te Teals. Varia è stata l' interpetrazione di piu autori intorno a que ste parole, e principalmente per l'Empe 184 parere che docle, di cui fa menzione Temistio. Al cuni hanno sognato un altro Empedocle di verso e posteriore al nostro. Petavio, non si sa come, crede, che sotto il nome d' Empeclocle abbia quegli voluto significare G. C. Petit è di per Empedocle s'inten la un cinico chiamato Peregrino. Nè marican di quei, che credono essere stato rcfurrito in quel luogo S. Policarpo marti re. Iru biti gl'inteipetri Casaubono in not. ad M. Anton, pas 87 è stato a giudizio di Fabricio Bibl. Graec. T. 8 p. 56, corui che meglio l'hi interpetrato. AgarIsi Mesy XV x2. Toń andy (ita malo quam tos are 285, quod tamen ferri potest, nec' senten tiae, quam volumus, repugnat ), 78 roles.po: σηκ ή τον θιοτατον Αυτοκρατορα μαλιστα δε οίς (idest τετων vel εκεινων οις ) εκ εφιησι porgy etc., Degnissimo è l ' imperadore di ammirazione e di venerazione non che per le cose, che in quella legge si contengono, ma sopra di ogn'altro e per la libertà del la religione, e perchè spiega quelle leggi, che sono state da Dio dettate, con perizia 185 non minore di quella, per · Giove, che non fece quell'antico Empedocle., Di che si vede, ch'era tanta e tale la stima, in cui allora si tenea il nostro filosofo, che ad esso si comparava l ' Imperadore Gioviniano, allorchè si volea lodare. Abulfarage presso gli Arabi, secondo che dice Fabric. Bibl. Graec. T. 1 p. 474 loda Empedocle, come chi avea ottimamen te conosciuto gli attributi divini. Finalmente la filosofia d'Empedocle è stata vinovata da Campanella, da Magna. no o Maignano. Fahr. Bib. Graec. nel me desimo luogo. Per lo che si vede chiarissimo quanto male Orazio conoscea il nostro filosofo; allorchè disse. Ep. 12 !. 1 v. 20. Empedocles; an Stertinii deliret acumen. a a  187 MEMORIA QUARTA Su i Franmenti delle opere di Empedocle Gergentino. ROM nico è l' oggetto di questa ultima mes moria: presentare a un colpo d'occhio tute ti accozzati gli avanzi delle opere d'Empe. docle. Egli ne detò molte, e quasi tutte, com'era usanza in que' di, le scrisse in versi.. Pure niun poema di lui è venuto sino à noi, e pochi sono i frammenti, che di questi ci restano L'inno ad Apollo, e 'l poema de' Persiani, furono, lui morto, bruciati. Il poema sulla sfera si reputa oggi opera d'incerto autore, Del suo discorso sulla medicina non ce n ' è restato nè anche vestigio: anzi ignorasi, se questo fosse stato scritto in versi secon do Laerzio, o pure in prosa secondo Sui da. I frammenti in somma delle opere d' Empedocle, che da noi si conoscono, ri guardano e fan parte di due famosi poe e non sia. a, a 2 188 ni: l' uno sulle purgazioni, l'altro sulla natura. Il primo fu intitolato a Gergen tini; il secondo a Pausania il medico el amico di lui. La raccolta quindi de' fram menti de' versi d' Empedocle, di cui qui si parla, appartiene soltanto a questi due gran poemi. Piü Eruditi, e tuti di gran nome assai prima, e in varj tempi praticaron lo stesso. Errico Stefano no pubblicò il pri mo non pochi nel suo Ibro della poesia fi. losofica. Giovanni Alberto Fabricio prese appresso il pensiero d'ampliar la raccolta di Stefano; e giusta il Mosenio quegli mol to l'accrebbe. Ma ogni fatica di lui, co me attesta il Reimaro, tornò vana; perchè morto Fabricio si perderono i suoi origina li,, e il pubblico non potè coglierne il frut. to. Van - Goens di poi nell'edizione, ch ' ei fece del libro della Groita delle Ninfe di Porfirio, manifestò aver già raunato più di trecento versi d'Empedocle, e promiso al più presto di recarli in luce. Avea, se condo ch' attesta egli stesso, tratto gran pro 189 1 da' manoscritti che si conservano nella libre ria di Leyden, e invitato tutti i dotti ad aiutarlo in si fatio travaglio. Ma punto non si sa, se abbia o nò costui pubblica to la raccolta de' versi del nostro filosofo, giusta la promessa di lui nel 1765 sotto titolo di raccolta Empedoclea. E' sempre una singolar disgrazia il non potere profittar delle fatiche degli uomini grandi. Le nostre librerie een prive non che di manoscritti, ma scarseggiano ancora di libri. Non ci è venuto fatto di ritroe' vare in esse nè pure lo stesso Errico Ste fano della poesia filosofica. Però, mancan. ti gli aiuti, si è ito sù giù rifrustando an tichi scrittori per cogliere or uno or due e di rado o sei, o dieci' o più versi di Emperlocle, che sparsi si leggono in que sto, e in quell'altro. Fatica assai penosa, e ' tanto più dura, quanto ha obbligato a durar quello stento, che farebbe chi il pri mo si mettesse ad imprenderla, senza la spe. ranza di poter acquistare la gloria debita a chi il primo l'avesse intrapreso. Unico 190 > conforto ne fu un Simplicio dell'edizione d' Aldo, trovato nella libreria de' PP. Tea tini di Palermo (giacchè questi ne' suoi co. mentari d ' Aristotile rapporta molti versi d ' Empedocle ). Da questo libro furon tratti non pochi de' versi d ' Empedocle, che si tro van messi insieme. in quest'ultima parte. Ma il medesimo disgraziatamente fu ruba. to in quella libreria. Però non fu conco duto di potersi più riscontrare i versi rac colti col testo; e si è dovuto, congetturan, do quasi tentoni, quando supplir qualche parola a caso tralasciata, quando correg gere alcuni versi, che per la prima volta erano stati o male lètti, o falsamente scrit ti. Si è detto tutto ciò non perchè s' am. bisca lode di questa qualunque siesi fati ca; ma perchè se ne abbia anticipato come patimento. In altri paesi d'Europa la race colta de' versi d' Empedocle o gia è stata egregiamente recata in pubblico; o se non è stata ancor fatta, si potrà certamente fare e più abbondante, e più corretta, e più dotta, che non è questa. Non è quin 191 di la stessa da considerarsi come un ope. ra perfetta, o degna degli sguardi de' Dot ti. Si desidera soltanto, che si tenga la medesima, come un annotazione, con cui si provano i pensamenti d' Empedocle espo sti nella terza Memoria. Ma comunque ciò sia egli è certo, che i versi d'Empedocle smentiscono coloro, che portano opinione lui essere stato o di niú no o di poco valore in poetica. Si fondan costoro sopra Plutarco (1 ), il quale dice Empedocle avere ornato col metro i suoi discorsi per evitare l'umiltà della prosa. Ma non si accorgono aver loro o mal inte so o sinistramente interpetrato Plutarco, il quale pretese sol definire, che sia stata di dascalica la maniera poetica del nostro fie losofo. Questa, come quella, ehe tratta e di filosofia, e di precetti sdegna le finzio. ni e l'invenzione, in cui il pregio, il bel lo, e la natura consiste d'ogni poesia. Per rò quegli disse, ch'Empedocle avea preso (1 ) De Aud. Poet. 192 dalla poesia, senza più, e la pompa, e il meiro. Questo stesso avea già gran tempo prima annunziato Aristotilo, che fu non che savio ma di gran sentimento nelle co se poetiche. Egli, a distinguer la poesia d' Omero da quella d'Empedocle, affermò i uno e l'altro, tranne il metro, nulla tra loro aver di comune. Perché Omero era un Poeta, com’ei diee, ed Empedocle un fisiologo (1 ). Ma se Empedocle, qual didascalico, non merita é nome e lode, che si convie ne a poeta, non si pao negare aver lui necupato in que' dì il primo luogo tra di dascalici, Aristotile di fatto non seppe in miglior modo contrassegnare la differenza tra la vera poesia e la didascalica, che comparando tra loro il più gran poeta e il più eccellente didascalico; Omero ed Em pedocle. Nè altrimenti si pensò ne ' tempi d' appresso. Cicerone chiama egregio il poe (1 ) De Poet. cap. 1. 793 ma d'Empedocle sulla natura (1 ). Anzi mettendo egli a confronto i versi di Par menide, di Xenofane, e d' Empedocle, che furon tutti tre poeti didascalici, dice aper tamente, che più belli ed eleganti erano i versi del nostro filosofo (2 ). Che se poi mancasse ogn'altro argomento ad apprez zare il merito di lui, sarebbe certamente bastevole il sapere i poemi d'Empedocle es sersi cantati ne' pubblici giuochi di Grecia. Ognun sa, che questa, piena allora di gu sto, e severa nel gindicare, non concedea tali onori se non a soli grandiuomini. Nel resto ciascuno su cið, o del raffinamento del la poetica d'Empedocle, ne può da ise giu dicare. Il solo leggere i frammenti, che ci sono restati, basta a far che chiunque ne resti persuaso e convinto. Il dialetto de' Siciliani e de' Pittagorici era comune; e questo appunto era il Dori co. Pure Empedocle avvegnache fosse stato (1 ) Lib. 1 de Orat. (2 ) Acad. Quaest. l. 4. Ъь 194 o Siciliano e Pittagorico, non mise in opera, che il dialetto Jonico, coine quello, ch'era tra Greci poeti il più polito e gentile. Fu inoltre la musa d? Empedocle dolcissima. E. gli ne' suoi versi non sol si servì di quel dialetto, ma nel farli scelse le parole più dolci e sonore. Platone, parlando d ' Era clito, d'Empedocle, dice che le muse di quello eran più dure, e le altre di questo più molli (1 ) ancorchè l' uno e l'altro aves sero usato il dialetto medesimo degli Jonj Plutarco stesso poi non lascia di notare, che gli epiteti apposti da Empedocle non erano, come per lo più esser ' sogliono ne' poeti, di puro ornamento, ma esprimeano la natura delle cose (2 ). Ne cita egli di fatto l'aggiunto dato da Empedocle a Ve. nere qual datrice di vita; il sempre verdeg: giante dato all'alloro; l'abbondante di san gue adattato al fegato: e altri simiglianti. Anzi il medesimo Plutarco da a Empedocle (1 ) Plut. in Sophista. (2 ) Plut. Sympos. l. 6 Erotic. 195 il vanto d' aver meglio e più: destramento usato d'aleuni epiteti d'Omero (1): Ne reca ' egli in pruova l'aggiunto d'agglome rator di nubi, che questi attribuisce a Gio ve, e quegli all' aria, e l'altro di difena SOF del corpo, che Omero dà allo seudo, ed Empedocle all'anima. Ma perchè più dilungarci in rapporta: re antichi testimonj su cið? I franımenti stessi d ' Empedocle chiaro ci mostrano l' éc cellenza della sua poesia. Basta dirsi aver lui tenuto Omero per modello nelle sue o pere poetiche. Le voci, le frasi, le me taforé, la giacitura delle parole, le desi nenze de' versi son le medesime in quello, che in questo. Si può quindi dir con ra gione l'apparenza de' suoi versi, e la sein bianza de' suoi poemi essere stata tutta di Omero. Oltre che riluce in lui una viva cità nelle immagini, e una novità sin" nel le stesse parole. Moltissimi sugi epitéti ed espressivi e leggiadri non si trovano in al (1 ) Plut. Symp, l. 6. bb 2 196 cun altro poeta: 1. pesci, per tacer d i tant altri, " sono chiamati da lui quando nutriti, quando abitatori dell'acqua; gli uccelli cimbe volanti; gli Dei ' di lunghissi. mi secoli. Anzi Aristotile nella sua poeti ca indica come una metafora assai bella, e allora nuova, quella con cui Empedocle esprime la vecchiaja; chiamandola l'occa. so della vita. Chiunque poi legge nelle sue opere la descrizione della natura; " che qual pittore con quattro colori, fa tutte le co se con quattro elementi; o l' altra della visione, che comparata a una lucerna, fa le sue funzioni; o quella della clessidra, o cose simiglianti ', non gli potrà certo ne gare il pregio, che si conviene a vaga e bella fantasia. Per lo che da' framinenti d' Empedocle si prende quel diletto, che pigliar si suole guardando i rottami d'una qualche nostra Greca Sicola anticaglia. Nel mettersi insieme si fatti frammen, ti si sono in prima distinti i versi, che appartengono al poema della natura, da. quelli, che fan parte dell'altro sulle pur 197 1 lande prezi Foce cck que nal elle gazioni. Ciò non è riuscito punto difficile, Perchè il primo tratta di cose fisiche, e 'l secondo di cose morali. In quello d'ordi nario, perchè diretto al colo Pausania i verbi si trovano in singolare. In questo all'oppesto perchè indirizzato ' a Gergenti ni, i verbi si leggono in plurale. Perd e dalla sintassi e dalla materia è stato age vole il se parare i frammenti d'un poema da quelli dell'altro. Si sa oltr'a ciò il poema d'Empedo cle sulla natura esser. diviso in tre libri. Molti stenti ha costato il congetturare qua li sieno stati trà versi, che ci restano, quel li che appartengono o al primo, o al se condo, o al terzo, In çiò fare è stato di mestieri ricercare se per avventura gli scrit tori, che ne riferiscono i frammenti, aba biano citato il libro. Talora d' alcuni ver si, che certamente si sa dalla testimonian za degli scrittori doversi collocare in uno de' tre libri, si è rilevata la materia, che in ciascuno di essi trattavasi dal no stro Gergentino, Stabilita poi la materia la ni che ung en. he da ur. 198 stato ben facile il riferire allo stesso li bro tutti que' frammenti, che si versano sullo stesso soggetto. Ma non di rado con frontando i frammenti tra loro si è trova to, che alcuni finiscono con versi, che son principio di altri. Con tale studio quindi e simigliante artifizio si è cercato di collo care o prima, o dopo alcuni frammenti, che sono dello stesso libro. Nel resto sarà meglio il tutto giustificato nelle note, e l' ordine con cui sono rapportati i frammen ti, e l'autore, da cui sono stati ricavati e l'intelligenza, con cui sono stati interpe trati '. Fra tanto se questo qualunque siesi lavoro non sarà stimato degno di lode, po trà almeno, meritare, nell' emenda de dete ti il perdono del pubblico. RACCOLTA D E FRAMM ENTI. 200 ΠΕΡΙ ΦΥΣΕΩΣ βιβλ. α. Παυσανία συ δε κλυθι δαίφρονος Αγχίτου υιε (1 ). Εστί αναγκης χρημα θεων σφραγισμα παλαιον Αϊδιον πλατεεσσι κατεσφραγισμενον ορκοις (2 ) Τεσσαρα των παντων ριζωματα πρωτον ακους Ζευς αργής, ηρητε φερεσβιος η αίσθωγευς Νηστις θ' ' δακρυοις τεγγα κρενωμα βρoταον Των δε συνερχομενων εξ εσχατων ιστατο νακος (3 ) Διπλ' ερεω: τοτε γαρ εν αυξηθη μονον ειναι Εκ πλεονων τοτε δ ' αυ διεφυ πλέον εξ ενος ειναι Δοιη δε θνητων γενεσις δοιη και απολαψις Την μεν γαρ παντων συνοδος τικτατ’ ολεκτιτε Ηδε παλιν διαφυαμενών θρυφθασα γε δρυπτα Και ταυτ αλλασσοντα διαμπερες εποτε λήγα 201 DELLA NATURA Lib. I. Pausania figliuol del saggio Anchito Tu ciò, ch ' io dico, attentamente ascolta E' volere del Fato, è degli Dei Decreto antico, che ab eterno fue Segnato con solenni giuramenti. Il bianco Giove, la vital Giunone, E Pluto, e Nesti, che piangendo irriga I canali dell'uom, son d'ogni cosa, Odimi in prima, le quattro radici. Ma come quelli tra di lor s'accozzano Dall' ultimo confin sorge la lite. Dųe son le cose, ch' a narrarti io prendo: Ora l'uno dal più risulta, ed ora Nasce dall' uno il più: cosa mortale Doppio ha nascimento, e doppia ha morte. Genera, e strugge l ' union del tutto; E questa sciolta, torna pur di nuovo CC 20 2 Αλλοτε μεν φιλοτητί συνερχομεν ’ ας εν απαντα Αλλοτε αυ διχα παντα φορεμενα νακεος εχθα Εισοκες αν συμφωντα το παν υπενερθε γενητα. Ουτως η μεν εν εκ πλεογων μεμαθηκε φυέσθαι Η δε παλιν διαφυγτος ενος πλεον εκτελεθεσ: Τη μεν γίγνονται τε και και σφισιν εμπεδος αιων Η δε διαλλασσονται διαμπερες αποτε ληγει Ταυτη α εν εασσιν ακινητα κατα κυκλoν. Αλλ' αγέ μυθον κλυθι - μεθη γαρ τοι φρεγας αυξ Ως γαρ και πριν ειπα πιφασκων πειρατα μυθων Διπλ’ ερεω: τοτε μεν γαρ εν αυξηθη μονον ειναι Εκ πλεονων τοτε δ' αυ διεφυ πλεον εξ ενος αναι Πυρ και υδωρ και γαια και κερος απλετον υψος Νικοστ' αλομενον διχα των αταλαντον εκαστον Και φιλοτης εν τοισιν ιση μηκοστε πλατοστε Την συν νω δερκε μη δ ' ομμασιν ησο τεθηπως Ητις και θνητοισι νομιζεται εμφυτος αρθροίς Tητε φιλαφρονεας ιδ ' ομοιϊα εργα τελεσι Γιθοσυνην καλεοντες επωνυμον ιδ " αφροδιτην Την στις μετ ' οτοίσιν ελίσσομενην δεδαηκε. Θνητος ανηρ συ δ' ακ8ε λογων στoλoν εκ απατηλον Ταυτα γαρ ισα τε παντα και ηλικα γενναν εατσι Τιμης δ' αλλης αλλο μεδα παρα δ ' ήθος εκαστω Εν δε μερά κρατεεσι περίπλομενοιο χρονοιο. Και προς τους ατ' αρ' επιγιγεται δ ' απολήγα 203 Ogni cosa, ch' è nata, a separarsi. Tutto alterna cosť, e così dura Eternamente: ed ora in un si accozza Per la virtù dell' amicizia, ed ora Per l'odio della lite si sparpaglia, Standosi in aria, finchè non si unisca, Cosi l'uno dal più nascer costuma. Cosi dall' un già nato il più rinasce. Entrambi han vita; ma la lor durata Non è mai stabil. Perchè l' uno e l'altro Alterna, e l'alternar non ha mai fine Sopra di un cerchio eternamente gira. Ma tu il mio parlare attento ascolta, Che lo spesso sentire, e risentire La mente aguzza. Come pria ti dissi Raccogliendo la somma del discorso Due son le cose, ch'a 'narrarti io prendo. Ora l'uno dal più si forma, ed ora Nasce dall' uno il piii; ch'è terra, e fuoco, και ed aria d'un'immensa altezza, Oltre di questi, che tra lor son pari, Havi lite dannosa, ed amicizia, Ch'ha per lungo, e per largo egual misura.?' u colla mente la contempla. Invano Ed acqua, CC 2 304 Η Ειτε γαρ εφθαροντο διαμπερες εκετ ’ αν καισαν. Τατο δ ' επαυξησε το παν τι κε; και ποθεν ελθον; Πη δε κεν απολοιτο επει των δ ' δεν ερημον; Αλλ ' αυτ ’ εστιν ταυτα διαλληλων δε θεοντα Γινεται αλλοτε αλλα διηνεκες αιεν ομοια (4). 205 Stupidi gli occhi sopra dessa fisi. Questa d'ogni mortal nelle giunture Si vuole innata, e chi n'han senso in mente Fanno, comº essa fa, opre leggiadre. Di Venere col nome o d'allegrezza La chiamano, sebben finor niuno Seppe indicare dentro a quali cose Si aggirasse involuta. O tu niortale, Ascolta i detti, che non son fallaci: L'amicizia, e la lite sono eguali, Hanno la stessa età, l' origin stessa Sol con diverso onor l ' una sull'altra Impera, e piglia, com'è lor costume, Il comando a vicenda al fin del tempo, Scritto a ciascuna dal voler del fato. Nulla viene oltr' a ciò, ch' ancor non è Nulla di quel, che è, desser finisce; Se pur finisse., riaver non mai Potrebbe in alcun tempo l'esistenza. Doy ' andrebbe a perir, se non v'ha luogo Di ciò solingo, ch'al presente esiste? E se quel', che non è, ora venisse D ' onde verrebbe? e che? come potrebbe Accrescer questo tutto, s' egli è tutto?? 206 ! 3. • Επι νεικος μεν ενερτατον ικετο βενθος Δινης εν δε μεση φιλοτης στροφαλιγγα γένηται Εν τη δη ταδε παντα συνερχεται εν μονον είναι Ουκ αφαρ αλλα θελυμμα συνισταμεν αλλοθεν αλλο Των δε μισγομενων χειτ' εθνεα μυρια θνητων Πολλα δ' αμικτ ’ εστηκε κερασσαμένoίσιν εναλλαξ Οσσ ' ετι νεικος ερυκς μεταρσίον • 8 γαρ αμεμτώς Το παν εξέστηκεν επ ' εσχατα τερματα κυκλα Αλλα τα μεν τ ' εμιμνε μελεων τα δε τ ’ εξεβεβηκεν Οσσον δ ' αιεν υπεκπροθεει τοσον αιεν επηει Η επιφρων φιλοτης αμεμπτως αμβροτος ορμη Αιψα δε θνητ’ εφυοντο τα πριν μαθον αθανατ’ είναι Ζωρα δε τα πριν ακρητα διαλλαξαντα κελευθες Των δε τε μισγομενων χειτ' εθνεα μυρία θνητων EΠαγτ οιαις ιδεησιν αρηροτα θαυμα ιδεθαι (5) 207 Sempre dunque le cose son le stesse, Si mischian, si separano, a vicenda Movendosi tra lor, e nascon sempre Novelle forme, ma tra lor simili. Avea la lite già toccato il fine Ultimo del girar, quando amicizia Del cerchio, in cui si volge, al centro arriva. Tutte le cose allor vanno ad unirsi Per fare l'un; ma a poco a poco il fanno, Base a base di quà di là giungendo. Dagli elementi, che tra lor si mischiano Razza infinita di mortali nasce. Ma in mezzo a que', che s'accozzar, vi furo Altri, che ' ncontro senzı alcun miscuglio Restaron puri; perchè lite ancora In alto li tenea Piena di colpa Ella com'è, voleva il tutto scisso Sull' estremo confin del cerchio trarre. Però de' membri, alcuni fuor spuntaro, Ed altri nò. Ma quanto innanzi corre Sempre la lite, tanto sempre è pronta L ' amicizia a venir saggia, divina, Nuda di colpe, d' immortale forza > 208 Σ Η δε χθων τατοισιν ιση συνεχυρσε μαλιστα Ηφαιστω τ ' ομβρωτε και αθερι παμφανοωντι Κυπριδος ορμησθεισα τελειοις εν λιμενεσσιν Ειτ ' ολίγον μειζων ειτα πλεον εστιν ελασσων Ίων αιματ’ εγένοντο και αλλης ειδεα σαρκος (6). Η δε χθων επικαιρος εν ευτυκτοις χοανοισι Τα δυο των οκτω μερεων λαχε νηστιδος αιγλης Τεσσαρα δ ' ηφαιστοιο. Τα δ ' οστεα λευκα γένοντο Αρμογιης κολλησιν αρηροτα θεσπεσιηθεν (7 ). 209 E nascer ecco, e divenir nascendo Della morte alla falee sottoposti Que', che prima sapean esserne immuni, E mutando sentier trovarsi misti Que', che puri eran pria senza miscuglio. Formasi in somma dalle cose miste Un numero infinito di mortali, Che d'ogni specie son, d'ogni figura, Si, ch'a vederli è certo maraviglia. Ne'porti estremi della bella Dea Giunse la Terra là dov' ogni cosa Or di massa crescendo, ed or mancando Il più meno si fa, e 'l meno più. Ivi la Terra in parte egual s'avvenne All' aria trasparente, al fuoco, all'acqua, E da tale union indi formossi Qualunque specie di carne, e di sangue. Quando la terra era d'amor sospinta In pevere ben salde a sorte trasse Dell'otto parti, d' acqua chiara due, Quattro di fuoco: e per divin volere Col glutin d'armonia tutte s'uniro: dd διο Βελιον μεν θερμoν οραν και λαμπρον απαντη Αμβροτα γ οσσ ' εδεται και αργέτι δευεται αυγη Ομβρον δ ' εν πασι νιφρεντα τε ριγηλοντε Εν δ ' αιης προρεεσι θελυμγα τε και στερεωμα. Εν δε κοτω διαμορφα και αν διχα παντα πελονται Συν δ εβη εν φιλοτητι και αλληλοισι ποθκται. Εκ τετων γαρ παντ' ην οσσα τε εστι και εσται Δενδρατο βεβλαστηκε και ανερες ηδε γυναικες Θηρεστ’ οιωνοίτε και υδατο θρεμμονες ιχθυς Και τι θεοι δολιχαιωνες τιμησι Φεριστοι και Αυτα γαρ εστι ταυτα δι αλληλων θεοντα Γινεται αλλείωτα (8 ), 1 911 E l'ossa bianche furon tosto fatte. Da per tutto si vede il Sol, che desta Calore, e lancia della luce i raggi, E quegli ancor, che senza morte sono, Quasi da fame o pur da sete spinti, L'aria ricercar bianco splendente. Puossi ovunque veder l'acqua; che in neve: Talòr si muta, e facilmente gela: o pur la terra, da cui vengon fuori Le salde cose. Quando impera lira Tutto è biforme, ed ogni cosa è scissa, Ma regnando amicizia il tutto corre Pronto ad unirsi, e l'una all' altra cosa Per interno desir s'abbraccia, e stringe. Tutto viene da quelli, e per l'amore, Ciò, che fu, cid, che è, ciò che sard, Germogliaro cosi alberi, e piante Nacquero maschi, e donne, e fiere, e uccelli, E pesci ancor, che son d'acqua nutriti; O pur gli Dei di secoli lunghissimi Chiari per gl' inni, e per gli onor prestanti. Sempre in somma le cose soil le stesse, Sempre tra loro han moto, e cangian forma. d d 2 212 Ως δ ' oπoταν γραφεες αναθηματα ποικιλλωσιν Ανερεσ αμφί τεχνης υπο μη τινος δεδαωτες Οιτ ' επει καιν μαρψωσι πολυχροα φαρμακα χερσι Αρμονια μιξαντε τα μιν πλεω αλλα και ελασσω. Εκ των αδεα πασ' εναλίγκιά πορσυνέσι Δενδρεάτε κτιζοντες και ανερας nde γυναίκας Θηρας τ’ οιωνες τε και υδατο θρέμμονες ιχθυς Και τε θεες δολιχαιωνας τιμησι φεριςτες Ουτω μη σ ' απατα φρενα ως νυ κεν αλλοθεν «να Θνητων οσσα γε δηλα γεγαασιν εσπετα πηγήν. ταυτ ' ισθί θεα παρα μυθον ακουσας (9 Αλλα τορώς Εν δε μερα κρατεεσι περίπλομενοίο κυκλοίο Χα, φθιγει ας αλληλα και αυξεται εν μέρει αισης Αυτα γαρ εστι ταυτα οι αλληλων δε θεοντα Γιγοντα ανθρωποιτε και αλλων εθνέα θνητων: Αλλοτε μεν φιλοτητα συνερχομεν ασ ενα κοσμου 213 Qual dipintor nell'arte sua perito Sa' i quadri variar, che la pietate Del tempio alle colonne, appende in dono A santi numi. Egli con man piglian do Ora più, ora men di questo, è quello Colore, insiem con ' armonia li vmischia, E poi con essi va pingendo immagini Che son del tutto simili agli oggetti: Uomini, donne, fiere, uccelli, e piante;. Ed i pesci, che son đ 0 pur gli Dii di secoli lunghissimi Chiari per glinni, e per gli onor prestanti; Cosi la mente certo non s'inganna Dº ogni nato mortal qualora dice Esserne fonte sol quegli elementi. Tu.ciò, che ho detto, tieni pur per fermo. Di tutto il nascer sai, fuorchè di Dio, Sul quale il mio parlar non è diretto. acqua nutriti Or l'amicizia, ed or la lite impera Del cerchio intorno rivolgendo i passi, E luña e l'altra, come vuole il fatoo Manca a vicenda, ed a vicenda sorge. Sempre le stesse son, sempre alternando 214 Αλλοτε δ ' αυ διχ' εκάστα φορεμενα νικεος εχθα Εισοκεν αν συμφωντα το παν υπεγερθα γενηται. Ουτως η μεν εν εκ πλεονων μεμαθηκε φνεσθαι Η δε πάλιν διαφωντος ενος πλεον εκτελεθεσι. Τη μεν γίνονται και και σφισιν εμπεδος αιων Η δε τα διαλλάσσοντα διαμπερές δαμα λογια Ταυτη αιεν εασσιν ακινητα κατα κυκλος (1ο). Σ Τεσσαρα των παντων ριζωματα πρωτον ακα! Πυρ και υδωρ και γαιαν η αιθερος απλετον υψος Εκ γαρ των οσατ' ην οσατ ' εσσεται οσσα τ ' εσσι(11 Αυταρ επε μεγα νεικος ενι μελεεσσιν ετρέφθασε Ες τίμαστ' ανορεσε τελιoμενοιο χρονοιο Ο σφιν αμοιβαιος πλατεος παρεληλατο ορκα (12 ) 15 Si muovono. Deil' uom la razza nasce, Tant' altre razze di mortali han vita. Talor per amicizia in ordin bello Tutto si unisce; ma talor per stizza Di lite il tutto si separa, è stassi Sospeso in alto, finchè non s'unisca. Cosi l'uno dal più nascer costuma. Così dall' un già nato il più rinasce. Entrambi han vita, ma la lor durata Non è mai stabil. Perchè l'uno, e l' altro Alterna, e l'alternar non ha mai fine Sopra d'un cerchio eternamente gira. Quattro, figliuol d'Anchito, in prima ascolta Son radici di tutto: il fuoco, e l'acqua, La terra, e l ' aer d'un immensa altezza; Perchè da questi sol viene, e deriva Ciò, che fu ', ciò, che è, ciò, che sard. Dopo, che lite, la gran lite ascosa Era stata ne' membri, il tempo scorso, Agli onori salt. Perchè l'impero Alternar si dovea, com'era scritto Con solenne, ed eterno giuramento. 256 Αρτια μεν γαρ αυτα εαυτων παντα μερέσσιν Ηλεκτωρτε Χθωντε και κρανος ηδε θαλασσα Οσσα Φιν εν θνητοίσιν αποπλ.αχθεκτα πεφυκέν. Ως δ ' αυτως οσα κρασιν' επαρκεα μαλλον εασσιν Αλληλοις εστερνται ομοιωθεντ' αφροδιτη. Εχθρα πλειστον επ', αλληλων διεχεσι μαλιστα Γεννητε κρασατε και αδεσιν εκμακτρισι Παντη συγγίγεσθαι αηθεα και μαλα λυγρα Νακεσ γεννηθεντα οτι σφισι γεννας οργα (13 ),. Αλλο δε τοι ερεω • φυσις αδενος εστιν απαντων Θνητων εδε τις ολομενα θανατοιο τελευτη Αλλα μογον μιξις τε διαλλαξις τε μιγεντων Εστι. φυσις δε βρoτοις ονομαζεται ανθρωποισι (14) Οι δ ' οτε δε κατα φωτα μιγεν φως αιθερι κυρα Η κατα θηρων αγροτέρων γενος και κατα θαμνων Ηε κατα οιωνων τοτε μεν τα δε φασι γενεσθαι 217 Tutto è perfetto, perchè tutto ha pari Íl numer delle parti, che il compone. Tal è la Terra, il Sole, il Cielo, il Marc E tutto quel, che tra mortali errando Miste ha le parti giusta sua natura. Ciò, che ridonda poi al lor miscuglio Da Venere s ' unisce al suo simile, Giacchè le cose simiglianti forte S'aman tra lor. Na spesso le divide L'inimicizia. Nascon quindi mostri Strani assai per la stirpe., e per la tempra, E per le forme, ch' hanno in loro impresse; Perchè la lite li produce allora Ch' appetiscon le cose il generare. Un altra cosa a dichiararti io prendo: Nulla ha natura, nè mortale ha morte, Che danno arrechi. Perch' è sol miscuglio, E delle cose miste è scioglimento Ciò, che natura gli uomini chiamaro. Quando a caso nell'aria s'imbatte Il miscuglio, che fa dell' uom la razza, O quella degli uccelli, o delle piante, 218 Ευτε ο αποκριθωσι τα δ ' αυ δυσδαιμονα ποτμαν Ειναι καλεσιν (15 ). Βιβλ. β. Νυν δ ' αγε πως ανδρωντε πολυκλαυτωντε γυναικων Εννυχιες ορπηκας ανήγαγε κρίνομενον πυρ Των δε κλυθ'.8 γαρ μυθος αποσκοπος εδ' αδας μων Ουλοφυες μεν πρωτα τυποι χθονος εξανατελλον Αμφοτερων υδατοστε και αδεος αι σαν εχοντες τετ' ανέπεμπε θελον προς ομοίον ευεσθα Ουτε τυπω μελεων ερατον δεμας εμφαινοντες Ουτ’ ενοπην ετ ' αυ επιχωριον ανδρασι, ηουν (16 ) Πυρ μεν Πολλα μεν αμφιπροσωπα και αμφιστερνα φυέσθαι Βεγενη ανδροπρωρα τα δ ' εμπαλιν εξανατέλλας Ανδροφυη βεκρανα μεμιγμεγα τη μεν υπ ανδρων Τη γυναικοφυη σκιεροις ήσκημενα γυιοις (17). 219 O de' bruti selvaggi, allor si dice Che nascon essi; e quando si discioglie Il miscuglio di lor, ch' han trista morte, Lib. II. Come nel separarsi il fuoco trasse De' maschi i germi oscuri, e delle donne, Che piungon molto, odimi, che 'l dire Rozzo non è, nè fuor sen va del segno. Perfetti in prima dalla terra i tipi Spuntaron tutti. Ma siccome il fuoco Su n'esulò il suo simil -bramando, Restaron quelli sol umide forme, e l'immago per lor parti aventi. Però nel tipo de' lor membri ancora Non mostravan ľamabili fattezze Del corpo, non ancor l'organ di voce, Nè la natia degli uomini favella. L'acqua, Nascon de' mostri con due facce, o petti.. Bovi son questi con umano volto, Comini quelli con bovina testa, D'opachi membri son forniti, e tutti e e 2 2 20 Η μεν πολλαι κορσαι αγαυχενες εβλαστησαν Οφθαλμοι δε επλασθησαν γαρ πτωχοί μετωπων (18 Βραχιονες γυμνοι χωρίς μορφονται γε. ωμων (19). Τατον μεν βρoτεων μελεων αριδαιαστον ογκον • Αλλοτε μεν φιλοτητα συνερχομεν' ας εν απαντα Για το σωμα λελογχε βια θαλέθοντος εν ακμή. Αλλοτε δ ' αυτε κακησι διατμηθοντ ’ εριδεσσιν Πλαζεται ανδιχο εκαστα περι ρηγμινι βιοιο. Ως αυτως θαμνοισι και ιχθυσιν, υδρομελαθροις Θηρσιτ’ οραμελεεσσιν ιδε πτεροβασμισι κυμβας (20 Σδε δ αναπνα παντα και εκπγ: πασι λιφαιμο ! Σαρμων συριγγες πυματον κατα σωμα τετανται Και σφιν επιστομίοις πυκνοις τετρηντα αλοξι Ριγων εσχατα τερθρα διαμπερες. ωστε φαγον μεν Σ 221 L'han di maschio, e di donna insiem confusi Sorsero teste senz' aver cervici. Privi di fronte furon fatti gli occhi. Nude le braccia senza spalle fatte, I membri umani giaccion tutti in massa Bella, e vistosa. Per anior talvolta S' uniscono tra loro, e corpo a caso Nel fior si forma della verde etate. All'opposto talor spiccansi i membri Per trista lite, e quà e là d' intorno Alla spiaggia di vita erran divisi. Apvien ciò pure agli alberi, alle fiere Che montanine son, a pesci ancora Abitator dell acqua, ed agli uccelli Che solcan l ' aria coll ' alate cimbe Ecco nel respirar come da tutti L' aer dentro si tira, é fuor si manda, Delle vene i canali si propagano Agli estremi del corpo, e metton capo Delle nari ne' solchi, in cui le punte 2 2 2 Σ Kευθαν αιθερι δ ευπορίαν διο οισι τετμησθαι Ενδεν επαθ οποτ.ν μεν επαίζη τερεν αμα Αιθαρ παφλαζων καταϊσσεται οίδματι μαργω. Ευτε δ ' αναθρησκ 4 πμλιν εκπν: 1. ωσπερ οταν πας Κλεψυδρας παιζοσα δι ευποτρος καλκoιο Ευτε μεν αυλα πορθμον επ' ευκαδα χερι θισα Εις υ2τος βαπτητι τερεν δεις αργυφεοιο Ουδε γ' ες αγγος ετ’ ομβρος εσέρχεται αλλα μιν εργ ! Αερος όγκος εσωθι πεσων επί τρηματα πυκνα Σισοκ α τ οστεγασι πυκνον ρέον. αυταρ επάτα Πνευματος ελλειποντος εσέρχεται αισιμων υδωρ. Ως γ' αυτως οθ' υδωρ μεν εχω κατα βενθεα καλκα Πορθμα χωσθέντος βρoτεί » χροι ηδε πορο! ο Αιθήρ δ' εκτος εσω λελιημενος ομβρον ερυκα Αμφι πυλας ισθμοιο δυσηχεος ακρα κρατύνων Εισοκε χέρι μεθ, τοτε δ' αυ παλιν εμπαλιν και πριν Πνεύματος εμπίπτοντος υπεκθι αισιμον υδωρ - Ως δ' αυτως τερέν αιμα κλαδισσομενον δια γυιων Οπποτέ μεν παλινoρσον επαιν5 μυχονδε Θατερον ευθυ, ρεμα κατερχεται οι ματι θυον Ευτε δ' αναθρων Α4 παλίν ειπν.4 ισον οπισσα (21). 223 Hanno sturate, Ma di sangue in parte Sono que tubi, e non del tutto pienii. Però calando giù s'occulta il sangue, E lascia all ' aer libera ed apertit Dell'entrata lu vir per le bouciucce. Avvien cosi, che quando il sangue molle In gil si lancii nell'interno, tosto L'aria, che ferve, con sue vacue bolle Entra con furia. E quando poi balzando Ritorna il sangue, torna fuor di nuovo Uscendo l'aria. Guarda quà donzella Intenta a trastullare colla clessidra Di facil bronzo, ch'al martello regge. Empier d'acqua la vuol: perciò ne tura Colla sua bella man prima la bocca Dell'orifizio, e quindi per la base Di spessi forellin tutta bucata L'immerge in mezzo della limpid' acqua. in questa intanto dentro non penétra Perché l'aria racchiusa nella clessidra Sovrastando a' forami con la molla L ' acqua preme, sospinge, ed allontana. Che se appena riapre la donzella Il già chiuso orifizio, di repente Ως δ ' οτε τις προοδον νοεων ωπλίσσάτο λυχνον Χειμεριην δια νυκτα πυρος σέλας αιθομελοιο 225 L'aria sen fugge; e come questa manca L'acqua fatale, che presiede all' ore, Ch'entrar pria non potea, entra nel vaso. La clessidra è già piena: or la donzella In altra guisa guarda là, che gioca. Ella con man turandone la bocca Dalla base forata vuol che cada L' acqua fatale, di cui quella è zeppa. Ma cupido d ' entrar laer di fuori Quasi forte confin l ' acqua ritiene Intorno á forellini gorgogliante. Se quella poi leva la mano, allora All'opposto di pria laer di sopra Cadendo all ' acqua ý giù la manda, è questa Per gli forami della base gronda. Tal è del sangue, che colante scorre Per le membra. Se presto si ritira Affollandosi in dentro, allor di colpo Schiumosa l' aria con vigor rientra. Poi quel ratto s' avanza, e questa fuori Esce coil passo egual retrocedendo. Come d'inwerno per l'oscura notte Chi prende a viaggiar prima prepara - ff 226 Αγας παντοίων ανεμων λαμπτηρας αμοργός Οιτ ' ανεμων μεν πνευμα διασκιανασι αεντων Φως δ ' εξω διαθρωσκον οσον ταγαωτερον ηεν Λαμπεσκεν κατα βηλον αταρεσι ακτινεσσιν. Ως δε τον εν μηνιγξιν εεργμενον ωγυγίον πυρ Λεπτησιν οθονησιν εχευατο κακλοπα κερης Αι δ ' υδατος μεν βενθος απεστεγον αμφινααντος Πυρ δ ' εξω διαθρωσκον οσον τανάωτερον Μεν (22) U Βιβλ. και Ου τοσε τι θεος εστιν και τοτε και τοδε Ουκ έστιν πελασθαι εν οφθαλμοίσιν εφικτος Ημετέροις η χέρσι λαβαν υπερτε μέγιστη Πειθες ανθρώποισιν αμαξιτος ας φρεγα πιπτα. Ου μεν γαρ βροτεη κεφαλη κατα γυια κεκασθα Οι μεν απαι γωτων γε δυο κλαδοι ασσεσιν (227 Lampade,.e lume di un ardente fiamma, E poi li mette dentro una lanterna, Che da venti difenda la fiammella; Perchè di questi come van spirando Disperge il soffio. Ma di fuor si lancia La luce, intanto, e quanto più si estende, Tanto illumina più presso la struda Corai di notte vincitor non vinti; Cosi il naturale antico fuoco, Che la pupilla circolure irradia, Stassi dell' occhio in le membrane chiuso Sottili al par di vel, che dall ' umore, Il quale in copia dall' intorno scorre Tutto il difendon. Ma di là movendo Quanto più lungi puà fuori sį spande. Lib. III: 1 Nè questo, o quello, nè quell' altro è Dio, A noi cogli occhi non è mai concesso Di poterlo veder, nè colle mani Di poterlo trattar: che della mente Esser suole la via grande, e comune, Per cui persuasion entra nell' uomo. 228 Οι ποσες και θοα γουνα παι μηδεα λαχνηεντα Αλλα Φρην ιερη και αθεσφατος επλετο μενον, Φροντισι κοσμον άπαντα καταϊσσεσα θοησιν (23 ) ΠΕΡΙ ΦΥΣΕΩΣ. Ει δ ' αγε νυν λεξω πρωθ ηλιον αρχην Εξ ων δη εγενοντο τα νυν εσoρωμεγα παντα Ταράτε και ποντος πολυκυμων ηδ' υγρος αηρ Τιταν η δ αθηρ σφιγγων περί κυκλoν απαντα (24) 229 Iddio non è di mortal capo ornato, Che su membri s'estolle. A lui sul dorso Non spiegansi i due rami. Egli non have Ginocchia, che al cammin ci fan veloci. Egli piedi non ha, nè quelle parti Che vergogna, e lanugine ricopre. E mente sol, è sacra mente Iddio, Ch'esprimer non si può da nostra lingua: In un istante tutta la natura Col veloce pensier ricerca, e scorre. DELLA NATURA. V B R SI Che non si sa a quale de tre Libri appartengono. Dirotti in prima co' mięi versi d' onde Ebbe origine il Sole, e d'onde ogn'altro Che noi veggiam; l ' ondoso mar, la terra L'aria, che nel suo sen chiude, e raccoglie Ogni umido vapor, la luce, e letere Che tutto cinge, e tutto intorno avvolge. 23ο Πως και δενδρεα μακρα και ειναλιοί καμασκνες (25 ) Ειπερ, απαρονα γης τε βαθη και δαψιλος αθηρ Ως δια πολλων δη γλωσσης ρηθεντα ματαιως Εκκέχυται στοματων ολιγον τε παντος ιδόντων (26) Ουδε τι τα παντος κεγεον πελα ουδε περισσον (27 ) Ως γλυκυ μεν γλυκυ μαρπτε πικρον δ ' επι πικρον Ορέσες οξυ ο επ ' οξυ εβη θερμον δ εποχευετο θερμος (28): Γνους οτι παντων « σιν απορροια οσσ ' εγένοντο (29) Kευθεα θηριων μελεων μυκτηρσιν ερευνων (3ο) Ούτω γαρ συνεχυρσε θεων τοτε πολλακι δ ' αλ λος (31). 23 In qual maniera furon pria formati E gli arbor alti, ed į marini pesci. Per la lingua di molti invan discorre La terra, e l ' Eter non dver con fine Quella nelle radici e questo in alto. Ciò la bocca di color si sparge per Che nulla, o poco sanno, e guardan lungi Colla veduta corta d'una spanna » Vacuo non c'è, e nulla pur ridonda; U Dolce a dolce s' unisce, ed all' amaro Corre l'amaro, e l'aspro all aspro vanne, E verso il caldo si conduce il caldo. Ogni corpo, ch ' esiste, il dei sapere, Vibra lungi da se parti vaganti, Fiutando indaga le ferine tane, Tale in quel punto s’intoppò correndo Ma in altra guisa per lo più s' avviene 233 οπη συγεκυρσεν απαντα (35). Η δ ' αυ φλοξ ιλααρα μινυνθαδικαις τυχε γαιης (33 ) Κυπρίοδος εν παλαμης πλασέως τοιηστε τυχοντα (34 ) Τη δε μεν ιοτητι τυχης πεφρονήκεν απαντα (35 ) (Και καθ' οσον μεν αρμοτατα συγκυρσε πεσοντα(36) Αλλα οπως αν τυχη (37 ) ΓIαντα γαρ εξακης πελειζετο γυια θεσιο (38) Και δα παρ’ ο δη καλαν έστιν ακουσαι (39) Ενθ' ουτ' ηελιοιο διειδετο ωκεα γυια (40) Αρμογιης πυκίγως κρυφα εστηρικτα (41 ) Σφαιρος κυκλοτερης μοί1 περίγ 19 εκων (42 ) 237 Dove ogni cosa s' imbatte i Fiamma lunare s' incont Insiem con Terra, che Nelle man di Ciprigna cost Col parer di fortuna al tutto intese In quanto a caso s'accordar tra loro Nell'incontrarsi Ma come sorte volle Tutte di mano in man le membra scosse Furon del Dio Ciò, che è bello convien, che si ripeta Le pronte membra non vedeano il Sole Salde in occulto d' armonia fur fatte In tonda sfera stretto quasi il tuttó 234 Αυξα δε χθων μεν σφετέρος γενος αθερα δ ', αι: θηρ (43 ). Κατα το μαζων εμιγνυτο δαιμονι δαμων (44). Αιθηρ μακρησι κατα χθονα δυετο ριζας (45 ). Οινος απο φλοιου πελεται σαπεν εν ξυλω υδωρ (46) Αλλα διεσπασθαι μελεως φυσις ή μεν εν ανδρος Η γ ' εν γυναικος (47 ). Μηνος εν ογδοατα δεκάτη που επλετο λευκον (48) Ως δ ' οτ’ οπος γαλα λευκών εγομφώσει και εδη - σεν (49). Ουτω δε ωοτοκει μικρα δενδρα πρωτον ελαιας (5ο ) Νυκτα δε γαια τιθησιν υφισταμενη φαεισσι (51 ) 235 Lieto dell'unità solingo gode: > Aria ad aria s ' aggiunge, e terra a terra; Il minore al maggior spirto s' unisce: Della terra le barbe aer penetra; L'acqua scomposta sotto la corteccia Vino diventa, Della prole le membra stan dis ise Parte nel maschio, e parte nella femina, Al giorno dieci dell' ottaro mese Nelle poppe si forma il bianco latte. Come gaglio rappiglia il bianco latte, Cosi da prima partoriscon l'uovo Gli arbor non alti della verde uliva Luce impedendo fa la terra notte. an 2 236 Ήλιος οξυβελης ηδε ιλαϊρα σεληνη (52 ). απέσκεδασε.αυγας Ες γαμαν καθυπερθεν απεσκιφωσε δε γαιης Τοσσον οσοντ ’ ευρος γλαυκωσιδος επλετο μηνης (53. Гщи ру тар уцау апожариву детi * Uдор Ηερι δε ηερα διον ατάρ πυρι πυρ αιδηλον Στοργην δε,στοργη κακος δε τε νεικεί λυγρω (54). Παντα γαρ ισθι φρονησιν εχαν και σωματος αισαν(53 Λιματος εν πελαγεσι τετραμμενα αντιθρωντος Τη τε νοημα μαλιστα κικλεσκεται ανθρωποισιν Αιμα γαρ ανθρωπους περι καρδιον εστι νοημα (56). Προς παρεον γαρ μητες αεξεται ανθρωποισι (57 ). οθεν σφισιν ας Και το φρογαν αλλοια παριστατα (58 ). 1. 237 Dolce è la Luna, e durdeggiante il Sole. Disperge i raggi sulla Terra, e sopra Tant è la luce, che le fura, quanto Il disco è largo della glauca Luna. Terra veggiam con terra, acqua con acqua, Aer divin con aere, e lucente Fuoco con fuoco, e con amore ' amore, E veggian lite con dannosa lite. Uomini, bruti e piante ben lo sai Han tutii mente, e parte di ragione, Stassi la mente dove più ridonda II sangue, che su giù sempre si muove, Perchè dal sangue, che circonda il core Il pensiero nell' uom sua forza prende; Il pensare dell' uom cresce e al presente Però il pensare sempre a lui diverse Mostra le cose. 238 Ενδ ' εχυθη καθαροισι τα δε τελετουσι γυναικες Ψυχεος αντιασαντα (59 ). Νηπιοι και γαρ σφιν δολιχοφρονες ασι μεριμνα Οι δε γενεσθαι παρος εκ εον ελπιζασιν Ητοι καταθνησκαν τε και εξολλυσθαι απαντη (6ο ), Αλλα κακοίς μεν καρτα πελ4 κρατ€8 σιν απιστών, Ως δε παρ' η ιετερης κελεται πιστωματα μεσης Γναθη διατμεζεντα ενι σπλαγχνοισι λογοιο (61 ) Ταυτα τριχες και φυλλα και οιωνων πτερα πυκνα Και λεπίδες γιγνονται επί στιβαροισι μελεσσιν (62 ) αυταρ ελικος οξυβελας νωτοισι δ ' ακανθι επιπεφρικασι (63 ). Της δαφνης των φυλλων απο παμπαν εχεσθαι (64) 239 Col solito calor si forma il maschio Ma se l'utero poi s'affredda a caso La famina ne vien. Stolti non lungi col pensier veggendo Prendon lusinga di poter esistere Ciò, che innanzi non fu, o quel, ch'esiste Potersi in tutto struggere, e perire. Il malvagio non crede, e non cedendo Alla forza del ver, trionfo meni, Ma cosi detta, e vuole, che tu creda La nostra musa. Tu dentro l'interno I detti scissi, ne penétra il senso. Della stessa natura sono i peli, Degli arbori le frondi, e degli uugelli Le fulte piume, o pur le squame sparse De' pesci sopra la ben soda carne. Ed il riccio marin, a cui le spine Acute gli si arricciano sul dorso, Dalle foglie d' allor la man ritieni 240 Τετο μεν εν κογχασι θαλασσονομοις βαρυνωτοις Και μην κηρυκαντε λιθορρινων χελυωντε Ενθ οψε χθονα χρωτος υπερτατα ναιεταεσαν (65) Βυσσω δε γλαυκης κροκο καταμισγεται (66). Φυλος αμουσον άγουσα πολυστερεων καμασκηνων(67 κορυφας ετεράς ετεραισι προσαπτων Μυθων μητε λεγαν ατραπον μιαν (68). Νυκτος ερκμαιης αλαωπιδος (69). Αλφιτον υδατι κολλησας (7ο). θαλλαν Καρπων αφθονιισι κατ ηερα παντ εγιαυτον (71 ). Ουδε τις ην κανοισιν Αρης θεος, ουδε Κυδοιμος Ουδε Ζευς Βασιλευς, ονδε Κρονος, ουδε Ποσειδων Αλλα Κπρις Βασιλαα. 241 Del mar le conche di pesante dorso, Il murice riguarda, e le testuggini Che son coperte di petrose scaglie: Bene in questi aninai veder tu puoi Come del corpo sta la terrợ in cima. Si mischia al bisso il fior del croco azzurro. La goffa turba de' fecondi pesci Guidando Somma a sonima giungendo del discorso Per diversi sentier prender cammino Della solinga tenebrosa notte Coll acqua unendo la farina d'orzo. Germoglian ricchi di lor frutta in tutte Le stagioni dell'anno in mezzo all' aria. Marte non han qual Nume, nè Minerva Del tumulto guerriero eccitatrice: A Nettuno, a Saturno, Giove il rege hh ) 242 Την οιν' ευσεβεεσσιν αγαλμασιν ιλασκονται Γραπτοις δε ζωοισι, μυροισι τε δαδαλεοδμοις, Σμυρνης τ' ακρητου θυσιαις λιβανου τε θυωσους Ξουθων τε σπονδας μελιτων ριπτοντες ες ουδας (72 Στανωποι μεν γαρ παλαμαι κατα για κέχυνται Πολλα δε σαλεμπη α τατ ’ αμβλυνεσι μεριμνας Παυρον δε ζωησι βια μερος αθροισαντος Ωκυμοροι καπνοίo δικην αρθεντες απεπταν. Αυτο μονον πασθεντες οτω προσεκυρσεν εκαστος Παντος ελαυνομενοι και το δε ολον ευχεται ευρειν Ουτως ατ’ επιδερκτα τα δ' ανδρασιν ετ ' επακιστα Ουτε νοω περιληπτα (73). ή και συ 80 επα ωο " ελιασθης Πευσεαι.ε πλεον γε βροτάη μητις ορωρε (74). 243 Negano omaggio; e prestan solo il culto A Venere Regina, che sdegnata Placan con santi simulacri, e pinti Animali, e con mille odor, che l'arte Ingegnosa travaglia, o co' profumi Di pura mirra, e d'incenso spirante Soave odore, e fanle sagrifizio Sopra la terra il biondo miel spargendo. In parte angusta delle membra è sparsa La nostra mente. Abbonda pur la cispa Ch' ottenebra il pensier, e ne' viventi Poch'è la porzioni di vital forza, Che qual fumo sen fugge, allorchè morte Di repente ei fura. E quindi ognuno, D' ogni parte sospinto, sol di quello, Cui per sorte s' avvien, resta sicuro. Altero intanto di trovar presume Tutto, e saper ciò, che non puossi ancora Nè veder, nè sentir, nè colla mente Comprendere dall ' uom. Giacchè vagando in guisa tal ti scosti Prendi consiglio da ragion; che l'uomo hh 2 244 Αλλα θεοι των μεν μανιην αποτρεψατε γλωσσης Εκ δ ' οσιων στοματων, καθαρην οχετευσατε πηγην Και σε πολυμνηστη λευκο λενε παρθενε μεσα Αντομαι ων θεμις εστιν εφημερoισιν ακ84ν Πεμπε παρ' ευσεβιης ελασσ' ευημιoν αρμα Μηδε σεγ ευδοξοιο βιησεται ανθεα τιμης Προς θνατων αγελεσθαι εφ ω ' οσιη πλεον απον Θαρσα και τοτε δη σοφιης επ ακροισι θοαζη Αλλα γαρ αθρεα πας παλαμη πη δηλον εκαστον Μητε τιν οψιν εχων πιστει πλεον η κατ’ ακτην Η ακοην εριδαπών υπερ τρανωματα γλωσσης Μητε τι των αλλων οποση πορος εστι νοησαι Γυιων πιστην ερυκε γορα θ ' η δηλον εκαστον (75). 245 Col suo saper più oltre non s'inalza. Dalla lor lingua, santi numi, tale Furor cacciate, e dalle vostre bocche La purissima vena in lor sgorgate. Te Verginella bianchibraccia musa, Cui più corteggian disiosi amanti, Te prego attente a porgermi l'orecchie A fin di quello udir, che lice all ' uomo, E come te non pungerà la gloria Fiori a coglier d'onor presso i mortali, Perciò più cose ti potrò svelare. Ma agitando i destrier docili al freno Porta da Religion lontano il carro. Prendi fidanzı: andrai ratta a sedere Di sapienza allor sull’ alta cima. Colla ragion contempla il tutto, e vedi Ciascuna cosa chiarų si, che certa Ti si dimostri. Ne maggior la fede Presta al senso di vista, che all' udito; Nè all'orecchio, che raccoglie i suoni Credi più della lingua, che discopre Le cose. Nè all'una più, ch' all'altra Credi di quelle vie, per cui ci viene 246 Πεση Φαρμακα και οσσα γεγασι κακών και γηραος αλκας ετα μενω σοι εγω κρανεω ταδε παντα. Παυσις δ ' ακαματων ανεμων μενος οιτ' επι γαιαν Ορνόμενοι πνοιαισι καταφθινυθουσιν αρουραν Και παλιν ην και εθελησθα παλιντονα πνευματ' επαξές Θησεις δ ' εξ ομβροια κελαινα καιριον αυχμον Ανθρωποις θησας δε εξ αυχι8οίο θεραου Ρευματα δενδρεοθρεπτα τα δ' εν θερι αησαντα Αξας δ ' εξ αΐδαο καταφθίμενου μενος ανδρος (76). 247 La notizia de' corpi, ed il pensare. De' sensi in somma poni giù la fede: Ti sia guida ragion, onde discerna In ogni cosa chiaramente il vero. Quanti i rimedi fugator de' morbi, Come vecchiezza si conforti, udrai. Che tutto a te io solamente suelo, De' venti infaticabili frenare L'ira saprai; che con furor piombando Sopra la terra, col soffiare, i campi Guastano tutti; o pur se n'hai piacere Concitar li potrai, se son tranquilli. Saprai d'inverno tra procelle scure Produr di state il lucido sereno, O pur nel fitto della secca state Produr le piogge, che nutriscon gli alberi, E del caldo l'ardor tempran movendo Aure soavi. Giungerà tua forza Sin dall'inferno a richiamar gli estinti. 248 ΠΕΡΙ ΚΑΘΑΡΜΩΝ. Ω Φιλοι οι μεγα αστυ κατα ζανθου Ακραγαντος Ναιετ ακρην πολεως αγαθων μεληδεμονες εργων χαιρετ. εγω δ υμιν θεος αμβροτος ουκ ετι θνητος ΓΙωλευμα μετα πασι τετιμένος ωσπερ εοικε Ταινίας τε περιστεπτος στεφεσιν τε θαλαιης Τοισιν αμ’ ευτ ’ αν ικωμα ες αστεα τηλεθοωντα Ανδρασι ηδε γυναιξι σεβιζομαι. οι δ ' αμ' εποντα Μυριοί εξερεοντες σπη προς κερδος αναρπος Οι μεν μαντοσυνεών κεχρημενοι οι δε τι νουσων Παντοίων επυθοντο κλύειν ευηκέα βαξιν (77). Αλλα τι τοις δ ' επικειμ' ωσει μέγα χρημα τι πραση σών Ει θνητων περιειμι πολυφθορεων ανθρωπων; (78 ). 249. DELLE PURGAZIONI. Salvete, o miei diletti, abitatori Dell' alta rocca, e della gran cittate, Che del biondo Acragante bagnan l’acque. Salvete, o cari, cui virtute è cura. Immortale sori Dio, nè qual mortale Sto più tra voi, d'onor, siccom'è giusto, Pieno fra tutti. Allorchè cinto il capo Di larghe bende, e di festanti serti Io porto il piè sulle città fiorenti, Corrono, e maschi, e donne a darmi culto. E mille, e mille, che là van col passo Dove dritto il sentier li mena al lucro, Ali s'affollan d'intorno nel cammino: E mi seguono ancor quelli, che intenti Stansi a svelar dell'avvenir gli arcani, Ed altri, che saper bramano l'arte Sagace di guarir qualunque morbo. Ma perchè mi dilungo tali cose Nel riferire, quasichè d'eccelse Gesta pur si trattasse, se vincendo Ogni mortal, sopra di lor m’inalzo? ii 25ο Σ Εστι δε αναγκης χρημα θεων ψηφισμα παλαιον Ευτε τις αμπλακιησι φονω φιλα γυια μιανη Δαιμονες οιτε μακραιωνος λελογχασι βιοιο Τρις μιν μυριας ωρας απο μακαρων αλαλησθαι Την και εγω νυν αμι φυγας θεοθεν και αλήτις Νακεί μαινομεγω πισυνoς (79). Αιθεριων μεν γαρ σφε μενος ποντον δε διωκεα Ποντος δ ' ες χθονος ουδας ανεπτυσε γαιαδες αυ γας Ηελία ακαμαντος οδ ' αιθερος εμβαλε δινας Αλλος δ ' εξ αλλε δεχεται στυγερσι δε παντες (8ο αγα λοιμωγατε και σκοτος ηλεσκέσις (81). 251 be E ' volere del fato, è degli Dei Decreto antico, che s'alcun peccando Di quegli spirti, che sortiron vita Lunghissima, lordò le proprie mini Quasi di sangue, sia costui cacciato Lungi dall' alte sedi, in cui beata Vivon, vita gli Dei, e vada errante In репа del fallir tapino in terra, Finché ritorni primavera ai campi Tre volte dieci mila; ed un di questi Io son, ch' ora dal Ciel men vo lontano Vagando quà, e là esul ramigo, Solo in poter di furibonda lite. } L'aria gli spirti, che falliro, caccia In mar con forza, il mar li getta in terra, La terra li rigetta su lanciando Del sole infaticabile ne' raggi, D ' aria nel turbo il sole infin gli scaglia. L'un dopo l'altro van cosi girando, E tutti traggan pien di duolo i giorni. Van per gli prati, e per lo scuro erranti ii 2 252 Ενθα φόνoστε κοτοστε και αλλων εθνεα κηρων (82 ) Κλαυσα τε και κοκυσα ιδων ασυγηθεα χωρον (83 ) Ω πoπoι η δειλον θνητων γενος ω δυσανολβον Οιων εξ εριδων εκ τε στoναγων εγεγεσθε (84). Εξ οιης τιμης και οι μηκεος ολβα (85). Εκ μεν γαρ ζωων ετιθεα νεκρα «δε' αμκβων (86) Σαρκων αλλογνωτί περιστελλασα χιτωνε Και μεταμπεχασα τας ψυχας (87). Ηλυθομεν του ' νπ ' αντρον υποστεγον (88). Ηδη γαρ ποτ' εγω γενομενην κεροστε κορητε Θαμνοστ’ οιωνοστε και εν αλι ελλοπος ιχθυς (89). Εν θηρσι δε λεοντες οραλεχεες χαμαιεύναι Γιγονται σαν ναι εγι δενδρεσιν ηύκομοισιν (go ). 253 Ivi la stragge, e l'ira, ivi tant' altri Mali hanno sede. Insolito abitar vedendo piansi. Ah ! La razza mortal quant' è meschina ! Quanto infelice ! Quali affanni, e liti Siete nati a soffrir ! Da quale onor son misero caduto, Da qual grandezza di felicitate, Da vita a morte son, forma mutando L'alme involgendo, e quasi ricoprendo Della straniera veste delle carni. inIn quest'antro coperto al fin siam giunti. Fanciullo io fui un di, donzella, uccello, Albero, e senza voce in mar fui pesce, Qual sopra ogn'animal s'alza il Leone Giacente in terra, abitator de monti 254 Εν9 ' ησαν χθονιητε και Ηλιοπη ταναίτις Δηρίς θ ' αιματοεσσα και αρμονίη ιμερωπις Καλλιστω τ’ αισχρητε θοωσατε Δαναητε Νημερτης τεροεσσα. μελαγκαρπος Ασαφια (91 ) Ξεινων αιδοιοι λίμενες κακοτητος απαροι (92). 2 φιλοι οιδα μεν εν οτ ' αληθαη παρα μυθους, Oυς εγω εξερεω, μαλα δ' αργαλειτε τετυκται Ανδρωση και δυσζηλος επι φρενα πιστέος ορμη (93) Ουκ αν ανηρ τοιαυτα σοφος Φρεσι μαιτεύσατο Ως όφρα μεν τε βιωσι το δε βιοτον καλεσιν Τοφρα μεν εν εστι και σφι παρα δειγα και εσθλα Πριν δε παγασαι βροτοι λυθεντες τ ’ εδεν αρ' εισιν(94 Αλλα το μεν παντων νομημον δια τ’ ευρυμέδοντος 255 Tal su gli arbor fronduti il lauro eccelle. Chtonia gº era là con Eliope Di larghi occhi, e la cruenta Deri Con armonia, piena d'amor, nel volto. Vera del par Thoòsa, e Deinèa E la turpe Callisto, e insiem l'amabile Nemerte, ed Asafia, che il tutto oscura O Gergentini di mal fürè ignari Degno porto d'onor degli stranieri. Io, mici cari, so ben ', che nel mio dire Stassi la verità dentro nascosa, Ala della fe la forza l'uom travaglia E pena, e dispiacer gli reca in mente. Saggio non v'è, che possa con sua mente Pensar, che l'uomo mentre vive questa, Che chiaman vita, esista solo, e colga E beni, e mali; si che l'uomo nulla Sia prima il nascimento, e dopo morte. Ma questa legge pubblicata a tutti 156 '. Αιθερος ηνεκεός τετατα δια τ ' απλέτε αυγης (95). Ου παυσεσθε Φονοιο δυσηχεος'; 8κ εσoρατε Αλληλες δαπτόντες ακηδεμησι νοοιο;. Μορφήν δ ' αλλαξαντα πατηρ φιλον υιόν αερας Σφαζα επευχομενος μεγα νηπιος και οι δε πορευντα Λισσομενοι θυοντες οδ ' ανηκοστος ομοκλεων Σφαξας εν μεγαροισι κακης αλεγυνατο δαχτα Ως δ ' αυτως πατερ' υιος ελων και μητερα παιδες Θυμoν απορραισαγτα. φιλας κατα σαρκας εδεσι (96) 4. Oιμοι οτ’ και προσθεν με διωλεσε νηλεές ημας Πριν σχετλι’ εργα περι χειλεσι μητισασθα ! (97 ) 257 Dell' aria si distende per l'immenso Splendore, e l'alta region dell Etere Che per lunghezza, e per larghezza è vasto.? Ancor si sparge per le vostre mani IL sangue gorgogliante degli animai? Ah non vedete colla mente piena Di sprezzo, che sbranandovi, a vicenda Vi diorate? E che mutata forma Il padre alzando il suo caro figliuolo Lo scanna, e pazzo grandi cose prega Tutti color, che sacrifizj fanno, Sen van supplici orando; ma quest'altro Nell'atto di scannar gridi mandando D' udirsi indegni, in segno di minaccia Malvagio in casa desinar prepara. Cosi talora avvien, che danno morte Il figlio al padre, ed alla madre i figli, E questa, e quel fucendo privi d'anima Le care in cibo ne trangugian carni. Perchè crudele il di ah non mi spense Prima, ch'avessi fatto il gran peccato D' appor tal cibo sopra le mie labbra ! kk 558 Ταυρων δ ' ακρίτοισι φονοις και δευετο βωμος Αλλα μυσος τετ ' εσκεν εν ανθρωποισι μεγιστον Θυμoν απορρασαντας εεδμεναι ηϊα γυια (98 ). Τοι γαρ τοι χαλεπησιν αλυοντες καιστησιν Ου ποτε δαλαιων αγιων λεωφησετε θυμον (99). Ολβιος ος θαων πραπιδων εκτησατο πλετον Διαλος δω σκοτοεσσα θεων περι δοξα μεμπλε (ιοο) Εις δε τελος μαντάστε και να τοπολοι και 1ητροι Και προμοι ανθρωποισιν επιχθονίοισι πίλονται Ενθεν αναβλαστασιν θεοι τιμηση φεριστοι (101 ). Αθανατους αλλοισιν ομεστιοι αυτοτραπεζοι Ανδρομεων αχεων αποκληροι εοντες απειροι (102). 259 Non macchiava l'altar sangue innocente De’ tori un di. Ma sommo allor misfatto Dagli uomin si credea privar dell' anima Gli animai, e divorarne i membri in cibo. Chi dalla colpa, che da se molesta, E ' tormentato, non avrà nell' animo Mai requie al suo misero dolore. Felice è quegli, che possiede i beni Della mente divina, ed infelice E' quel, che male degli Di pensando Ne porta tenebrosa opinione. 7 I vati infine, ed i cantor degl' inni I medici, ed i forti capitani, Che de' terrestri uomini son guida Ivi rinascon Dü d'onor prestanti. Nella stessa magion, a mensa stessa Stando cogli altri Dii, d'ogni vicenda D'ogni umarło dolor futti già privi. kk 2 16ο Ην δε τις.ν κανοισιν ανηρ περιωσια αθως Ος δη μηκιστον τραπιδων έκτησατο πλετον Παντοίων τε μάλιστα σοφων επικράνος έργων Οπποτε γαρ πασησι ορεξατο πραπιδεσσι Ραγε των οντων παντων λευσεσκεν εκαστα Και τε δεκ ' ανθρωπων και τ' ακoσιν αιωνεσσι (103) ΕΠΙΓΡΑΜΜΑΤΑ Περι Ακρωνος • Ακρον ιατρον Ακρων ακραγαντινον πατρος ακρου Κρυπτα κρημνος ακρος πατριδος ακροτατης Τιγες δε το δευτερον στιχον ουτω προφέρονται Ακροτατης κορυφής τυμβως ακρος κατεχα (104) 261 5 Tra quelli o'era l' uom sopra d'ogn ' altro Eccelso nel saper, che della mente L' altissimo tesor chiudea.nel seno. Egli pieno d'amor tutti indagava De' sapienti i fatti, e le scoperte Dotte di lor. E quando del suo spirto Ogni forza intendeva, ad una ad una Tutte schierate le cose reali In dieci o venti secoli abbracciando Rapidamente col pensier vedea. EPIGRAMMI INTORNO AD ACRONE. L'alto di gran saper medico Acrone, Nato dun alto padre in Agrigento Alta, rupe tien alta per sepolcro Della sua patria posto in alta cima. Alcuni leggono così il secondo verso Alta tomba ritien sull' alta cima аба. Περι Παυσαγικς Παυσαγι: ιητρον επωνυμον Αγχίτου υιον Φωτ’ Ασκλεπιαδης πατρις εθρεψε Γελα Ος πολλούς μογεροίσι μαρανομένους κεματοισι Φωτας ατέστρεψαν Φερσεφονης αδυτων (1ο5).. Δειλοί πανδειλοι κυαμας απο χειρος, εχεσθαι, Ισον τοι κυαμες τρωγειν κεφαλασθα τοκων (106 ) Ναν μα τον αμετερας σοφίας ευρoντα τετρακτην Παγον αεγνας φυσεως ριζωμα τ' εχεσαν (107). 263 Di Pausania. Il medico che nomasi Pausania E' d' Anchito figliuol', è discendente Degli Asclepiadi, ed ha per patria Gela, Che lo nutri. Costui molti languenti I'er penosi malor dalle segrete Di Persefone stanze a forza trasse. Versi d' incerto Autore attribuiti da alcuni ad Empedocle. Scostate, o miseri, del tutto in felici Dalle fave la mun: mangiar di queste Egli è privare i genitor del capo. Giuro per quel, che nella nostra scuola Scoperse il qucttro, che racchiude il forte, E la radice eterna di natura. ANNOTAZIONI ALLA R A O COITA D E FRAMMENTI. ANNOTAZIONI ALLA RACCOLTA D E FRA MM EN TI. (1 ) Questo verso si trova presso Laerz. 1. 8 in Emp. Egli dice ny de o lavraylas spwjeevas αυτε, ω δη και τα περι φυσεως προσπεφωνηκεν Pausania era amato da Empedocle, e que sti gli intitolò il suo poema sulla ' natura E siccome questo verso forma la dedica; cosi si è collocato il primo. La frase per quanto pare è Omerica come si può vedere Iliad. 11 V. 450 Iliad. 1: V. 451. (2 ) Presso Simplicio de Phys. aud. l. 8 p. 272 ediz. d'Aldo. Perchè questi due ver si si suppongono dagli altri, che li seguono, si son collocati prima. Per altro Plut. de exil. afferma che cosi cominciava la filosofia d'Empedocle. (3 ) IL 2. 3 verso son rapportati da Laerz. 11 2 263 che se 1. 8 in Emp. I primi tre da Sext. Emp. adv: Phys. 1. ģ, da Plut. de Pl. Ph. l. 1 cap. Tutti quattro poi da Stobeo Ecl. Phys. 1. i p. 26. Questi si sono premessi per la ragio ne ch'esprimono i quattro elementi, che sono base di tutta la filosofia d'Empedocle. Si conviene da tutti che sotto Giove è in: dicato il fuoco, e da Nesti l'acqua, condo Vossio de Idol. 1. 2. cap. 7 e Fabricio nelle note à Sesto Empirico deriva da yalay fluere. Vi è solo un disparere tra gli Scitiori per gli due simboli. Giunone e Plutone. Pois chè secondo Cic. de Nat. Deor. l. 2.cap. 26 Plut. l. 1. cap. 3. de Pl. Ph. Macrob. Satur. l i cap. 15, da Giunone è espressa l'aria; ed al contrario giusta Athen. Apol. 22. Achill. Tazio in Arat. Laert. I. 8 in Emp. Stobeo Ecl. Phys. 1. i Heracl. Allegaz, Omeriche,p. 443., -sotto il simbolo di Giunone è indicata la terra. E però per questi Plutone era la• ria, e per quelli la terra. Aïd oyeus in luogo di aïdris Om. 11. 20 V. 61. Esiod. Theog. v. 913. Hpn epoßios Omer. Hyinn. in matr. o. mnium '. Nella traduzione si è formato GIOTATO 2 per tmesi. 269 9 col. (4 ) Di questi versi il 7 e l'8 sono riferi ti da Laerz. in Emp. I. 8. Stobeo Ecl. Phys. 1. 1 p: 26. Dal 10 sino al 15 si trovano presso · Arist. Natur. Auscult. l. 8 cap. 1. Il. 22 presso Ciem. Alex. Strom. I. 5., ed il 21 e 22 presso Plut. Amat. Tutti poi eccetto il g e'l 10 sono rapportati da Simplicio de Phys. Aud. I. 1 p. 34 ediz. d'Aldo. Siccliè si è supplito il 10 con Aristotile, e'l lo stesso Simplicio come si vedrà alla (10 ). Questi versi che sono al numero di 36 fan parte del primo libro della natura. Poichè lo stesso Simplicio dice chiaramente sy 7pUTW TO φυσικών.99 και nel primo libro delle cose fisiche I versi 3, 4, 5 pajono d ' essere un'imi, täzione d'Omero. II. 6.v., 146, e 149. Il 5 portá P&T Th, ma si è cangiato in.dpuntu come più confacente al senso. Nel 6 in luo go di xdcepecei dinge si è posto 8T0T€ anges.co me Omero. Il. -10. V. 164. Nel z la paro la Qiaotati amicizia non significa in verità che ainore, siccome fa Omero. Il. 6 v. 161 c in quasi tutta l'ariade che dice QLXOTNTO felgympia rab. Dal 7 al 12 sembra di essere una sem 270 * plice imitazione d' Esiodo nella Theog. Poichè Empedocle mette in contrasto l'amore e lo dio come Esiodo fa colla notte e'l giorno. Ne’ versi 6, 13 e 32 si trova la parola ' deau Trepes. collocata nello stesso modo che suol fa re Opiero. Il. 10 v. 325 e 331. II. 12 v. 398. II. 19 v. 272. Odys. 4 V. 209. Odys. 7. v. 96. Odys. 10 v. 38. Odys.. 14 v. 11. Sicchè pare che l'orecchio d Empedocle era educato al suono de' versi Omerici, Nel verso 14 aloy Euroly alla maniera d'Omero. Il. 1 v. 290. Nel 16 reipata pewIwon siccome 0. mero παρατα τεχνης. Nel 20 1 ’ αταλαντον co me Il. 15 v. 302. Nel 21 è da dirsi che intanto, l'amicizia sia di lunghezza e larghez za eguale, in quanto i corpi possono risulta re da parti eguali de quattro elementi. Al meno questa interpetrazione pare più confa cente al suo sistema; se non si vuole abbrac ciare quella, che deriva dal pittagoricismo, per cui il numero quattro era il più perfetto. Nel 22 100. TEINTWS per attonito e Omerico. II. 4 v. 246. Nel 24 cina poves's dovrebbe esser nominativo giusta la Grammatica. Na si v. 271 lasciato in accusativo; perchè gli Attici alcuna, volta, coře si vede presso Aristof. in avibus, sogliono usare l'accusativo in luogo del nomi nativo. L'epye texti si trova spesso in Omero e in Esiodo: cosi Odys. 7 V. 272.Esiod. Theog. V, 89. Il 25 è simile a quello dell' Iliad. 9 v. 558, e pile d'ogni altro ad Esiod. Theog. v. 595. Nel 27 laratnaon è d ' Omero. II. 1 v. 526. Nel 30 il Trepiadojevolo è pari mente adattato al tempo e all'anno presso Omero'. Odys. iv. 16 ed Esiod. Opera v. ' 384. Nel 31 si osserva l'id atoange in fi. ne del verso come in Omero. Il. 6 v. 149. (5) I versi 12 e 13 si trovano presso Arist, Poet. cap. 25, e Ateneo lib. 10 p. 424. Tutti poi sono rapportati da Simplicio de Phys. aud. 1. i'p. 7 d' Aldo. Essi sono stati posti nel primo libro del poema; perchè Simplicio li riferice come quelli che precedeano altri, che da lui sono notati per versi del primo lix bro προ τετων των επων • Nel verso 7 è 11 si è scritto a Jey.TTW5 in luogo di queuent Ews come si legge in Sims plicio. Nel 10 si trova vtsupper feri ch'è d' 272 Omero II. 9 V. 502, Nell'ultimo, si ha l espressione Jaunese idiogui ch ' è comune presso Omero ed Esiodo: cosi Il. 18 v. 83. Odys. 13 v. 108. De scụto Herc. v. 140 ', ed in tanti altri lunghi dell' uno e dell'altro poe ta. Teocrito nell' Idyl.. 17 v. 77. non è dif ficile che avesse imitato Empedocle, dicendo egli εθνεα μυρια φωτων α εinmiglianzα di quel che dice il nostro poeta nel 8 verso e nel 14, (6 ).Simplic. de. Phys. aud. I. 1 p. 7. Quer sti versi sono quegli stessi innanzi a' quali di ce Simplicio ch' erun collocati quelli della na: ta (5 )..... L' epiteto Truji Payowymi è Omerico. II. 8 v. 320 e 435. Orfeo nell'inno all' etere, chiama l ' etere dotepo@ eyzes (7 ) I primi tre' versi sono presso Arist. de anima li i càp. 7, e tutti presso Simp. de Phys. aud. I. 2 p. 66 Aldo. Simplicio af ferma che appartengano al primo libro d' Em. pedocle λεγει εν πρωτω. Ε come sono dello stesso tenore della nota (6); cosi si sono si tuati vicino a quelli. Nel 1 verso επικαιρος in luogo di επίκρανος 273 è d'Omero. II. 1 v. 572, e il v. 572, e il xoayolai é ' Esiod. Theog. v. 865. Nel 3 l’ oGTEL deuxa è parimente d ' Esiod. Theog. v. 540, e 557 e d'Omero. Il. 24 v. 793. (8 ) I primi due versi si trovano presso Plut. de primo frigid., e il 7, 8, 9 presso Arist. de gen. et corrupt. Tutti presso Simpl. de Phys aud. l. 1 p. 8, e nella pag. 34 sono pre ceduti da due seguenti versi. 1 እእእ. αγε των δ * οαρων προτερων επί μαρτυρα δερκεί Ει τι και εν προτερoισι λιποξυλον επλετο μορφη • 1 Di questi due versi non si sa che voglia dire quel Altofurov legno pingue: Perchè pa-. re ch? Empedocle voglia rapportarsi a' prece: denti colloquj dove forse v'era qualche for. ma Altrotuloy. Si è cercato di sostituire Action Yugov, ma neppure s intende. Però si sono trascurati nel testo questi due versi. Nel 3 verso si legge presso Plut. Svopa EVTA xep ply a negyté, ch? è spiegato tenebroso, ed crribile. Ma come non si sa ď' onde poss m m 274 sa derivare played soy si è sostituito plyndor, che più si conviene all'acqua. Indi è che si è scritto VIOOEYTA,xoh pigns.ovte. E' vero che il vero so diventa spondaico; ma gli epiteti dell' ac qua sono più confacenti alla sua natura, e corrispondono più all'intendimento d'Empedo cle, che in questi versi vuol dare i caratteri di ciascuno dei quattro elementi, siccome at testa Simplicio de Phys. aud. - p. 7. Nel 4 προρε8σι θελυμνα τη luogo di προθελυμνα. It' 9 vi 537. Il 5 verso è simile a quello d. Omero. Il. 18 v. 511, ilil 7 al v. 70. Il. e al. v. 38 d' Esiod. Theog., e l'8 al v. 163 Odys. 15. Nel 9, e 10 l ' epiteto de' pesci υδατοθρεμμονες, e quello degli Dei δο. arxay wres sono tutti due propj d'Empedocle; giacchè non si leggono presso altro poeta. Il Tlpenoi Ospirtoi pare che sia preso dal v. 494 1 11. 9 • (9 ) Simplic. de Phys. aud. 1. 1 p. 34. Egli li rapporta dopo quelli della nota (8) e dice, che Empedocle li soggiunge in esempio. Non v'è quindi dubbio, che debbono essere collocati nel primo libro, e dopo di quelli. Vi 275 si trovano alcuni versi ripetuti alla maniera Omerica, e nel g versa ľws YÜ XEV come nel v. 749 Il. 11, e nel v. 11 della Theog. d' Esiod. Nel 10 si e mutato l'acheta in fore, e nell' 11 vi si troνα μυθον ακεσας nel miodo stesso d'Omero II. 7 v. 54. Odys. 2 z v: 560, (19 ) Simplic. de Phys. aud. l. 1. Costui, dopo d' avere rapportato i versi delle note (8) • (9 ) 80ggiunge και ολιγον δε προελθων αυθις Çnti. Però si son collocati dopo, e come ap partenenti al primo libro. Il 7 di questi ver si è quello stesso, ch ' è stato inserito da 9 nes versi della notą (4). (11) Il 2 verso si trova presso Plut. net lib. de adulat. et amici discrimine: il terzo presso Aristot. Metaph. 1. 3. cap. 4.- Tutti tre presso Clem. Alex. Strom. I. 6. Il secondo verso, si rapporta d'alcuni ne: pos nilov ufos, ma Empedocle nel 19 della nota (4) dice c7 NETOV, e per altro pare più armonioso ed Omerico. Questi versi, come quel li, che indicano i quattro clementi ', non si possono collocare che nel primo libro. m m 2 276 ! (12 ) Arist. Metaph. l. 3 cap. 4. Simplic. de Phys. ' aud. 1. 6 p. 272. Plutaroo nel lib. de Reip. geć. praecept. vi allude dicen da τιμας ονομαζω κατ' Εμπεδοκλεα. Questi ver si non possono appartenere, che al primo li bro; perchè in esso dichiara Empedocle le due forze amicizia e lite. (13 ) Simp. 1. i de Phys. aud. p. 34. La parola aprice del primo versa può significare pari di numero, perfetto, ed adatto. Si è tradotta pari; perciocchè si è trovato che i corpi, di cui Empedocle enumera le parti de gli elementi, da cui quelli son composti, non sono che di numero pari. Cosi l'ossa di oi to parti nota (7 ), la carne di parti eguali de quattro elementi nota (6 ) et.. (14 ) Arist. de Gen. et Corrupt. l. i cap. 1, e De Xenoph. Gorg., at Zenon. Plut. de Pl. Ph. l. 1 e adv. Golot. Si sono collocati nel primo libro perchè Plutarco dice chiaramente de Pl. Ph. l. i λεγα δε ετως και των πρώτων φυσικών και Anno de Tol spaced è modo turto ď Omero II. 1 v. 797. Odys. 11 V. 453. Odys. 10 2: 7 V. 495 ec. L'a.JavaTolo TEMBUTn è d' Esiod. in Scuto Herc., ' e nell'ultimo verso Bpomois "QvIpomolol è maniera greca che spesso si tra, va presso Omero ed Esiodo che dicono Bpotox ardpa. Il Duris nel principio come opposto a 76 deutn pare che indicasse la nascita. Ma co me in fine significa natura si è lasciato cob. la sua propia significazione di natura. (15 ) Plut. adv. Colot. Questi versi, come si vede dalla materia, sono una continuazio ne di que' della nota antecedente. Si sospetta che questi versi fossero sta ti alterati da qualche copista. Vi si osserva ows per uomo in genere neutro, che suol esa sere presso i Greci di genere maschile. (16 ) Simpl. de Phys. aud. 1, 2, pag. 85 Aldo. E siccome queg!i dice « TOTO'S AS T8 Εμπεδοκλεας εν τω δευτερη των φυσικών προ της ανδριων και γυναικιων σωμάτων διαρθρωσεως TAUTU TC ETn, Empedocle nel secondo libro delle cose fisiche canta questi versi prima di parlare della formazione e articolazione de' corpi de maschi e delle femine Non vi ha 278 quindi alcun dubbio, che questi versi fan par te del secondo libro, e che il soggetto di que. sto libro si versa sulla nascita degli uomini, e de' corpi de' maschi e delle femine. Però è, che tutti i versi che riguardano la formazio ne degli uomini, e de' loro membri, e delle parti del corpo umano e loro funzioni sono stati da noi posti nel secondo libro. IL 3 verso è un'imitazione d'Omero nel v. 157 dell' Iliad. 4, 810Quais secondo Simpli cio esprime la massa tutta, del seme, che an cora' non indicava la forma de' membri. (17 ) Aeliano de Nat. anim. I. 16 cap. 29. Le forme descritte in questi versi sono ricor date da tutti gli antichi scrittori come singo lari. Cosi Arist. Nat. ausc. l. 2. cap. 8. Es se non poterono durare, perchè non eran tra loro convenienti. Di quando in quando ne na. sconto de' simili, e questi sono i mostri.: (18) Simpl. de coelo 1. 2. Arist. de coel. 1. 3 cap. 2. De Gen. I. i cap. i8. Isaac. Tzetze in Comm. ad Lycophr. Epi vax65 • (19 ) Simpl. de coelo l. 2. (20 ) Simpl. de Phys. aud. 1. 8 p. 258 279 Aldo. Nel terzo verso si è spiegato pngjely! al la maniera d'Omero Il. 1. v. 437. Nel 6 e nel 7 - sono da notarsi ud poplene Opols, opsta μελεσσι, € πτεροβαμμoσι κυμβας clie sono ma niere originali d' Empedocle. (21 ) Aristot. de respir. cap. 7. Questo è il più bel frammento d'Empedocle, e forse l ' avanzo più, venerando dell'antica fisica, in cui non solo si spiegà da Empedocle il modo a suo credere del nostro respirare, ma si di mostra eziandio il peso, e la molla dell' a. ria. Egli è stato tradotto per quanto si può letteralmente, e solamente si è ito aggiungen. do talora la forma della clessidra, senza di che non si avrebbe potuto chiaramente com prendere Il coros del 4 verso corrisponde al cruor de’latini. Il. 16 y. 162. Chi si conosce – Omero può accorgersi come va adattando Em. pedocle tutte le parole e frasi d'Omero nel 5. sino all ': 8 verso. Lo stesso WTTEL OTAY Trays è ď Omero nel v. 362 Il. 15.. L'EPOMBAEOS, che Omero applica ail' acqua'. Ili 16 v. 174, Empedocle l'adatta alla duttilità del bronzo 200 Verso. It all'acqua, nel 9 TEPEY Ejedes dell' 11 è d' 0. mero Il. 14 v. 406. L'autap ETHTU nel 15 è forma parimente Omerica Il. 11 V. 304 Odys. l. 9 v. 371 ec. L'ayrilor ud wp nel 16 si trova applicato al giorno in Oniero, e qui che non può esser fatale se non per che nella clessidra è destinata a notare le ore che scorrono. Nel 18 verso Bpotew Xpor presso Esiod. Opera è preso per umano corpo, qui per la mano. Nel 20 ilil duonysos è applica to alla guerra. Il. v. 395 ec. Da Empedocle si acconcia al gorgogliamento dell'acqua (22 ) Arist. de sensu et sensili lib. i cap. Nel 2 verso σελας πυρος αθομενοιo e d ' Omero. Il. 9 v. 559. Il. 10 v.. 246. II. 11 v. 219. II. 6 v. 282 ec. Il 24uepiny νυκτα e simile all' αμβροσιην δια νυκτα d' O mero. Il. 2. v. 57. Nel 3 si trova apopg85 ch'e' una metafora, quasi che le lanterne di fendendo il lume da venti se li succhiassero; giacchè quopges vuol dire succhianti. Il mayo Town dyepewr Odys. 5 v. 293 e 304. Nel 4 verso il divanid ve si aeyrwy si trova in Omero Il. 5 v. 526. Nel 5 ci ha un epiteto de' 2. Nel dia 282 indomiti; per raggi ch ' è molto ardito UTCpert chè non sono vinti dalla notte. La stessa pa rola walioruto nel i verso per preparare è Omerica. Il. il v. 86 '. In quanto poi alla costruzione delle lanterne è da dirsi, che for se allora erano di corno trasparente. (23 ) Il i e gli ultimi due versi presso Giov. Tzetze Chil. 5 p. 382. Il 2 presso Theod. de Curat. Graec. l. 1. IlIl 22,, 3, e 4 pres SO Clem. Aless. Strom. 1. 5. Dal 5 sino all ' ultimo presso lo stesso Giov. Tzetze Chil. 13 p. 476. Gli ultimi due versi sono anche rap portati da Chalcid. in Tim. Pl. Essi sono sta ti tutti disposti nell' ordine, in cui sono no tati, che sembra non esser disconveniente, e fanno certamente parte del lib. 3. Poichè Tzetze nella Chil. 7 p. 382 nel rapportarli soggiunge Εμπεδοκλης τω τιτω των φυσικων δεικ: VUOY TIS ' N. sold togey το θεα κατ' επ'ος ετω λεγων. 9, Empedocle nel terzo libro delle cose fisiche. volendo indicare quale sia la sostanza di Dio dice cosi Il pendea nel senso in cui qui lo pigliu Empedocle è comune ad Omero nell' Odissea n n. 282 o ad Esiodo nella Theng. (24) Clem. Alex. Strom. 1. 5. Il. 1 ver so manca d'un piede, e si potrebbe compiere leggenda Ει ο αγε τοι μεν εγω λεξω. Vi si os serva poi la stessa maniera d Oniero nell ' ap porre degli epiteti al mare, all'aria, aile tere. (25) Athen. Dipnosoph. 1. 8 p. 334. Il devd pece pecupce è d'Omero. Il. 9 v. 537. Lo stesso Athen. nel medesimo luogo attesta che tutti i pesci da Empedocle furon chiamati zce paglves. (26 ) Aristot. 1. 2 de coelo cap. 8 e De Xenoph. Zenon, et Gorg. Gli ultimi due versi presso Clem. Aless. Strom. 1. 6. (27 ) Plut. de Pl. Ph. I. i cap. 18. Theo dort. de mater. et mundo Serm. 4 p. 1080. (28) Plut. Symp. l. 4 quaest. 1. Macro bio Saturn. l. 7 p. 521. E siccome in Plut. si leggono alterati; cosi sono stati correlti con Macrobio. (29 ) Plut. quaest. Nat. p. 916. (30 ) Plut. quaest. Nat. p. 917, et de Curiosit. Alcuni leggono Keuuata, altri rappese. (283 ra, ma si è sostituito xeu-ged, che pare più acconcio al senso dell'autore (31 ) Arist. Nat. Auscult. 1.? cap. 4, e De Part, Anim. I. i cap. 1, Simpl. I. Phys. (32 ) Simpl. de Phys. and. I. 2 p. 73. (33 ) Simpl. 1. 2 de Ph. aud. p. 23. L' epiteto de incepa come dice ' Hesichio' è propio d' Empedocle.; ed il polyurgadins d'Omero II. 1 v. 352, (34) Simpl. l. 2 de Phys. aud. p. 74 Aldo. (35) Simpl. 1. 2 nel med. luog. (36) Simpl. 1., nel med. luog. (37) Simpl. 1. 2 de Ph. aud. p. 73. (38 ) Simpl. l. 8 de Ph. aud. p. 272. (39 ) Plut. in l. non posse suaviter vivi jut. xta epicuri decreta. (40 ) Simpl. de Ph. aud. l. 8 p. 272. (41 ) Simpl. nel med. luog. (42 ) Simpl. nel med. luog. (43) Arist. de Gen. et Corrupt. l. i cap. 6. (44) Simpl. de coelo Com. 21. p. 88. (45 ) Arist. de Gener. et Corrupt. 1. i cap. 6. La frase zgova dupsyo, presso Omero Il. 6 y. 411. nn 2 284 (46) Plut. quaest. Nat. p. 916. (47 ) Arist. de Gener. anim. 1..1 cap. 18. (48) Arist. de Gener. anim. I. 4 cap. 1. (49) Plut. nel lib. de Amic. multitud. (50) Arist. de Gener. anim. 1. i cap. 23. Alcuni leggono μακρα δενδρεα. (51 ) Plut. quaest. Platon. p. 1006.4. (52 ) Plut. de fac. in orbe lunae dove in luogo d' ožupeans è da leggersi očußeans e in vece di naiyo Iraupe come si è rapportato nel. la nota (35). (53) Plut. de fac. in orbe lunae. Questi versi sono stati corretti da Xilandro. (54) Arist. Metaph. l. 3 cap. 4 de anim, 1. i cap. 2. Sesto Emp. adv. Gram. l. i cap. 13 e adv. Log. l. 7 Chalc. in Tim. cap. 21 p. 131. Pare che in questi versi Empedocle abbia imitato Omera Il. 13 v. 31, e Il. 16 v. 215. Il tip apo ndoy Omerico. Il. 2 v. 455. L'epiteto della lite rugpw, che da Omero si adatta alla vecchiaja, e talora alla ferita ec. è situato in fine del verso come in Omero II. 5 v. 153, e Il. 10. v. 79. Il. 16 v. 393 ec. 285 3. (55 ) Sext. Emp. adv. logic. l. - 8 p. 512. (56) Stobéo Ecl. Plys. l. 1 p. 131. L' última verso è anche rapportato da Chalcid. in Tim. Pl. p. 29,, ed è un imitazione di quello d' Esiodo nella Theog. 7 spe pezy 750" T δες, περι δε εστι νοημα • (57 ) Aristot. de anima 1. 3 сар. (58) Aristot. de anima" nel med. luog. (59 ) Aristot. de Gener. 1. i cap. 13. (60) Plut. adv. Colot. (61 ) Clem. Alex. Strom. l. 5 Theodor. de curat. aegritud. Ethnic. Acciaolus Theod, interpres I. i contra Graecos. (62 ) Arist. Meteorol. l. 4 cap. 9, atspao TURVO è d ' Omero. Il. 11 y. 454, e otißola pous pedeerol è d ' Esiodo opera v. 148. (63 ) Plut. Symp. 1. i cap. 3. Deve lege gersi andyl. (64 ) Plut. Symp. 1. 3. quaest. 1. (65) Plut. Symp. I.,1 quaest. 2, e nel lib. de fac. in orbe lunae. (66) Put. de Orac defectu. Per finire il verso si è supplito nella traduzione artos. (67 ) Plut. Simp. I.? quaest. 10, 286. (68) Plut. de Orac. defect: (69) Plut. Simp. 1. 8 quaest. 3. (70) Arist. Poet. cap. 25 c Meteor. l. 4. 71) Theophr. de Caus. Plant. 1. i cap. 14. (72 ) Athen. Dipnosoph. l. 8 p. 365. Que sti versi si son collocati come appartenenti al poema 'della natura; perchè parlano di Ve nere, che indica l'amicizia. Vi si trova il Soydan codpots parola composta da Empedocle, che non si legge in altro poeta. Si dee lege gere Κυπρις nel testo, e non Kπρις. (73 ) Sesto Emp. adv. Log. 1.? Gli ul. timi due versi sono anche rapportati da Plut. nel 1. de áud. Peet. Nel 2 yerso Scalig. legge suve ETEITA, ed Erric. Stef. dely ETECL; ma ne' MSS. si trova SaneM.T, Si è quindi conservata, come sta ne' MSS., e si è ritratta da dep @ os che più s' adatta al senso dell'autore. Questi versi unitamente agli altri delle note (24) e (75 ) sono riferiti da Sesto Emp. come quelli, che con poche interruzioni si suc vedono. E come Empedocle si dirizza ad un solo, ch'è Pausania;' cosi tutti fan parte del 287 Chil. 1, pra poema sulla natura, (74) Sesto Emp. adv. Log. l. 2 (75 ) Sesto Emp. nel med. luog. (70) Laerz. in Emp. 1. 8. Joan. Tzetze I versi 3, 4, 5 sono anche pres. so Clen). Alex. Strom. 1. 6. Nel 5 si legge d' alcuni παλιγτιτα c d' altri παλιντινα; mα da Casaub. si vuole raditova, e fondasi so Suida. Nell'ultimo verso è da notare che il sanare gl' infermi si esprime, presso gli an tichi avastne dall'inferno. Plut. in amat. Horaz. l. 2 Sat. 1 V. 82. (77 ) Laerz. l. 8 in Emp. I versi 3 € 4 si trovano presso Sesto Emp. adv. Gramm. 1. i cap. 13, e presso Philost. Vit. Apoll. Se condo Laerzio cosi Empedocle avea dato prin. cipio al suo poema delle purgazioni cvcpzopese νός των καθαρμων φησίν. (78) Sesto Emp. adv. Gram. I. 1 e Laerz. in Emp. 1. ' 8. Sesto Empirico mette questi due versi dopo quelli della nota (77 ) e soge. giunge nas nary. Sicchè icon c'è dubbio che appartengano alle purgazioni. (79) Plut. de exil. I. 2, e l'ultimo meza 288 zo verso è presso Hierocle in aur. carm., il quale lo ' rapporta unitamente al penultimo ως Εμπεδοκλης Φυσι ο Πυθαγοραος • (80) I primi tre versi presso Plut. nel lib. de vit. aere alieno, e tutti quattro presso lo stesso Plut. de Isid. et Osir., e presso Eusebio. (81 ) Hierocl. in aur. carm. (82) Hierocl. in aur. carm. (83 ) Clem. Alex. Strom. 1. 3. (84) Clem. Alex. Strom. I. 3 0 70xO1 peegee herdos Il. 1 v. 254. (85) Clem. ' Alex, Strom. I. 3. (86) Clem. Alex. nel med. luog. (87 ) Stob. Ecl. Phys. 1. i. (88 ) Porph. de Antr. Nymph. Ediz. di Van - Gcens p. 9. (89 ) Clem. " Alex. Strom. 1. 5 Origen, Phy losophumera. Phil. in V. Apoll. Athen. Dipn. In luogo di do7Os, che è un epiteto dato da Esiodo e da Poeti Greci al pesce, presso d' al.cuni si legge eurupos. A prima vista pare che l' epiteto ignito non abbia luogo; mu ove si voglia riflettere che giusta Empedocle, gli ani mali molto caldi cercarono l'acqua, ed ivi 289 soggiornarono, si può comprendere in qual senso abbia potuto adattare al pesce l ' epiteto Europos. (90) Eliano de Nat. anim. I. 12 cap. 7. Questi versi appartengono al poema delle pur gazioni. Perchè Eliano nel rapportarli soggiun ge λεγει δε και Εμπεδοκλης την αριστην αναι με: τοικησιν την τα ανθρωπου ει μεν ας ζωον η ληξις αυτην μεταγαγα λεοντα γινεσθαι και δε ας φυτον dadyny. » Empedocle dice che ottima sia da stimarsi la trasmigrazione dell'uomo, se do vendo passare in un bruto la sorte lo porta nel corpo del leone, e se in una pianta lo porta nell' alloro L' epiteto ηύκομοισιν Ο. mnerico. (91 ) Plut. de animi tranquill. L'epiteto έροέσσα e d' Esiodo che dice Θαλιη εροεσσα και ma non s' intende quello di μελαγκαρπος che vuol dire produttrice di frutti neri che Empe docle adatta ad Asafia o sia al genio dell' oscurità. Giovanni Tzetze Chil. 12 dice Ecco πεδοκλης προ παντωντε φιλοσοφος ο μέγας • γα γαρ την ασαφα αν μελαγκορον υπαρχαν ως κελαινωπας τον θυμον ο Σοφοκλης που λεγα 25 * Ο Ο 290 SO • Empedocle filosofo, grande sopra d'ogn'al tro, chiama Asafia o sia l'oscurità di nera pupilla conie Sofocle dice l'animo di nero via In sostanza poi vuol qui indicare Em pedocle quello che noi diciamo animo cupo, che tutto è coperto, e tutto fa con riserva. (92 ) Diod. Sic. Bibl. Hist. 1. 13 p. 204. (93) Clem. Alex. Strom. 1. 5. (94) Plut. adv. Colot. L'ultimo verso è stato corretto da Giov. Clerc. Bibl. Choisie Tom. 1. (95) Arist. Rhet. l. i cap. 13. Si son collocati in questo poema delle purgazioni; perchè Aristotile dice che riguardano la proi bizione d uccidere gli animali. xoy ws EyeTedo κλης λεγα περι τε μη κτιγαν το εμψυχσν. τετο γαρ τισι μεν δικαιον τισι δε και δικαιον. » Co me dice Empedocle parlando della proibizione d' uccidere qualunque animale. Poichè que sto non può essere giusto per alcuni e per al tri nò L' epiteto supurtedortos é d' Omero e quello d'atletoy è d ' Esiodo. (98 ) Sesto Empir. adv. Phys. I. 9 p. 580. Plut. de Superst. Nel 5 verso l'entBTT05 si 291 è tradotto per indegno d'essere udito come půs letterale. Na potrebbe avere due altri sensi cioè: da non essere compreso, o pure come colui, che è pieno di Qyaxer 116 che vuol dire contumacia, o inobbedienza; perchè senza di ciò non si ritrae un senso che sembra ragio nevole. Nel 6 a legurato d'apra è d' Omero nell' Odys. 13 v. 23. (97 ) Porphyr. de non necandis ad epulan dum animalibus l. 2 pag. 137 ediz. di Lio ne 0285dic epga per scelleraggini è d'Omero Odys. 14 v. 83. (98 ) Porphyr. de non necandis ad epul. anim. I. 2 pag. 131. Il primo verso somiglia a quello ď Omero Il. 24 v. 69. Alcuni leg, gono appatolor in luogo d ' cxpitolob. (99 ) Clem. Alex. exhortat. ad gentes. Awe Q10ste Odys. 11 v. 460. (100 ) Clem. Alex. Strom. I. 5. (101 ) Clem. Alex. Strom. I. 4 Bpotol o pu. re ardpes sain horlon. Il. 1 v. 266, e 273. (102 ) Clem. Alex, Strom. 1. 5. Questi due versi sono stati corrotti. Nel primo verso Sca. ligero legge fyte TPUDEGcus in luogo d' AUTOTA. OO 2 292 che non FIG. In verità questa seconda maniera cor risponde meglio all'opertio. Nel secondo leg ge Ευγιες ανδρειων αχεων αποκηροι ατειρεις. dla ad altri è piaciuto all' aydpelwy di sostituire l' and pouleur ch'è più adatto e pie Omerico; all' електро! ľ Anouampor ch'è anche più ragione vole; ed in fine all ατειρείς I'' ατηρείς si sa donde possa derivare. Si potrebbe dire più presto artelpon. Vi sono poi di quei che in luogo di amewn leggong amoywy; dimodochè spiegano coi forti achivi. (103 ) I primi due versi sono presso Laerz. 1. 8 in Emp., e tutti si leggono presso Janibl. de Vit. Pyth. p. 54. Questi versi si sono col locati nel poenia delle purgazioni; perchè in questo poema Empedocle dichiara la morale pittagorica. (104) Presso Suida voce Axpwr e Laerz. I. 8. in Emp. Questo epigramma, come dicono e Suida e Laerzio, è diretto a punzecchiare Acrone, che domanda a la grazia di ergere un gran monumento a suo padre in un luo. go alto della città di Gergenti. Empedocle va scherzando.col nome di Acrone e la parola 293 acron che in Greco significa alto e altezza. Ma questo scherzo non si può rendere nel no stro linguaggio. (105) Laerz. in Emp. I. 8 & Towvoploy indi ca nome conveniente alla cosa. Perchè liquo gavin in greco può significare che fa cessar i mali, e i dolori. Perciò Empedocle scherza col nome del suo amico. (106) Questi due versi s' attribuiscono dit Aulo Gellio Noct. Att. 1. 4 cap. 11 ad Em pedocle, e da altri ad Orfeo. Ma in verità so no della scuola pittagorica. Si legga Didym. 1. 2. Geoponicon cap. 35. Varii sono i sen timenti degli Scrittori sulla proibizione, che facea la scuola Pittagorica, di mangiar del le fuve. Secondo alcuni, perchè non sono sa lutari, e secondo altri perchè sono simili agli organi della generazione. Di fatto Gellio dice che l'astinenza delle fave era un simbolo, eon cui si volea indicare da Empedocle l'a ' stinenza delle cose veneree. (107 ) Questi versi esprimono il giuramen to che si facea nella scuola Pittagorica. Si leggono presso Jambl, de vit. Pyth. p. 125, 294 Ma non semhrano d'esser d'Empedocle cosi perchè non corrispondono allo stile del nostro poeta, come ancora perchè vi si osserva il dia. letto dor ico, che non mai egii usò ne' suoi poemi. ROMA BIBLIOTECA 295 Note mancanti nel Tomo I. pag. 67. MEMORIA SECONDA. (121 ) Απηρεν ασ Κροτωνα της Ιταλίας και κακοι τομές θες τοις Ιταλιωταις εδοξασθη συν τοις μας θεματας και οι περι τας τριακοσίες οντες ωκoνoμαν αριστα τα πολιτικα ωστε σχεδον αριστοκρατίας αναι την πολιτααν και Pittagora si porto in Cro tona d'Italia; ed ivi dando leggi agľ Italias ni fu egli in onore unitamente a' suoi disce poli. Trecento de' quali amministravano otti mamente le cose politiche, si che quella re pubblica era di posta a governo di ottimati, Laerz. in Pythag. (122 ) La persecuzione della scuola pitta gorica nacque da ciò, giusta Jamblico nella Vita di Pittagora cap. 35, che i pittagorici allontanavano il popolo dalle magistrature, e da' pubblici consigli, e voleano essi soli, come sapienti, regolar le cose pubbliche.Grice: “If people call William of Ockham, Surrey, Occam, I shall call Empedocles of Agrigentum Agrigentum, or Agrigento simpliciter in the vulgar.” Vide “Italic Griceians”While in the New World, ‘Grecian philosophy’ is believed to have happened ‘in Greece,’ Grice was amused that ‘most happened in Italy!’ Empedocle da Girgenti – Keywords: Girgenti -- Refs.: Luigi Speranza, "Grice ed Empedocle," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51675742458/in/photolist-2mKFrQ6-2mLGZ47-2mKzDys-2mKucE2-2mKCPCw-2mKfijf-2mJrUpx-2mJpEUu-2mJorPw-2mJjky4-2mJorPB-2mJpFM6-2mJpFT8-2mJpFSS-2mJorQD-2mJpFN8-2mJorMs-2mJorSc-2mJrUsP-2mJjku6-2mJjkwA-2mJjkwk-2mJrUok-2mJsW8r-2mJjkyK-2mJrUqu-2mJorRW-2mJpFQn-2mJpFNP-2mJorQi-2mJpFTZ-2mJrUso-2mJpFPv-2mJjkub-2mJpFM1-2mJrUqK-2mJrUr6-2mJjkvJ-2mJpFSM-2mJrUqz-2mJrUqE-2mJsWcj-2mJrUsU-2mJrUoa-2mJpFLK-2mJrUn3-2mJjkvt-2mJorKZ-2mJpFNt-2mJq2uE

 

Grice e Girgenti – la parola che non s’incatena – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Palermo). Filosofo. Grice: “I love Girgenti for many reasons! For one, he has edited Boezio ‘as he is’! – then he has elaborated on Socratic irony, a concept that needs some elucidation, if ever one did! Also, he has edited the ‘logica retorica’ of Cicero, which is welcome!”Frequenta gli studi classici a Palermo, sotto Brighina, Franchina, Armetta, Mirabelli e Puglisi) e poi si è trasferito a Milano sotto Bontadini, Bausola, Melchiorre e Giussani. Si laurea sotto Reale con “Platonismo e Cristianesimo in San Giustino Martire” – Studia “Porfirio tra henologia e ontologia riproponendo la questione degli universali come origine del "pensiero forte". Insegna a Milano I suoi studi sono concentrati sul rapporto tra filosofia greco-romana e Cristianesimo, e in particolare nell'influenza che il platonismo ha esercitato sui Padri della Chiesa. Per analizzare questo tema, applica due categorie ermeneutiche: la "storia del’effetto" e la "fusione dell’orizzonte”. Secondo la storia dell’effeto, la Patristica latina deve essere considerata una fase importante della storia del platonismo antico, che fa da tramite rispetto alla filosofia medioevale. Secondo la fusione dell’orizzonte, il rapporto tra platonismo e Cristianesimo deve essere analizzato superando due opposte posizioni: la "praeparatio evangelica" di Eusebio di Cesarea, secondo cui la filosofia pre-cristiana sarebbe stata di per sé una preparazione al Cristianesimo e la "Ellenizzazione del cristianesimo" di Adolf von Harnack, secondo cui nell'incontro con la filosofia, il Cristianesimo avrebbe smarrito la vocazione originaria (e dovrebbe pertanto “de-“ellenizzarsi, de-filosofarsi). Una posizione mediana potrebbe contribuire a superare le rigidità del cristianesimo cattolico e le chiusure del cristianesimo protestante non-cattolico. Saggi: “Porfirio: catalogo ragionato” (Vita e Pensiero, Milano); “Giustino Martire, il primo cristiano platonico” Vita e Pensiero, Milano); “Porfirio, Vita e Pensiero, Milano); Porfirio, Laterza, Roma-Bari; “Platone, G. Girgenti, Rusconi, Milano, Incontri con Gadamer, G. Girgenti, Bompiani, Milano “Platone” G. Girgenti, Bompiani, Milano; Atene e Gerusalemme. Una fusione di orizzonti, Il Prato, Padova; Il bue squartato e altri macelli. La dolce filosofia, libro-intervista con Sossio Giametta, Mursia, Milano. G. Giorello, Corriere della Sera, 1ºScheda biografica, curriculum e  nel sito dell'Università Vita-Salute San Raffaele, su unisr. Selezione di pubblicazioni  Porfirio negli ultimi cinquant’anni. Bibliografia sistematica e ragionata della letteratura primaria e secondaria riguardante il pensiero porfiriano e i suoi influssi storici, presentazione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, Porfirio, Isagoge, prefazione, introduzione, traduzione e apparati di G. Girgenti, testo greco a fronte, versione latina di Severino Boezio in appendice, Rusconi, Milano, nuova edizione Bompiani, Giustino Martire, il primo cristiano platonico. Con in appendice “Atti del Martirio di San Giustino”. Presentazione di C. Moreschini, Vita e Pensiero, Milano, Giustino, Apologie. Prima Apologia per i Cristiani ad Antonino il Pio. Seconda Apologia per i Cristiani al Senato Romano. Prologo al “Dialogo con Trifone”, introduzione, traduzione e apparati di G. Girgenti, testo greco a fronte, Rusconi, Milano, Aristotele, Poetica, introduzione, traduzione, note e sommari analitici di D. Pesce, revisione del testo, aggiornamento bibliografico, parole chiave e indici di G. Girgenti, testo greco a fronte, Rusconi, Milano, Porfirio, Sentenze sugli intellegibili, prefazione, introduzione, traduzione e apparati di G. Girgenti, con in appendice la versione latina di Marsilio Ficino, Rusconi, Milano. G. Girgenti, Il pensiero forte di Porfirio. Mediazione tra henologia platonica e ontologia aristotelica, introduzione di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano,  Porfirio, Storia della Filosofia (frammenti), a cura di A. R. Sodano e G. Girgenti, Rusconi, Milano, Introduzione a Porfirio, “I filosofi”, Laterza, Roma-Bari, La nuova interpretazione di Platone. Un dialogo di Hans-Georg Gadamer con la Scuola di Tubinga e Milano e altri studiosi (Tubinga), introduzione di H.G. Gadamer, prefazione, traduzione e note di G. Girgenti, Rusconi, Milano, nuova edizione ampliata: Platone tra oralità e scrittura, Bompiani, Milano, Porfirio, Vita di Pitagora, monografia introduttiva e analisi filologica, traduzione e note di A. R. Sodano, saggio preliminare e interpretazione filosofica, notizia biografica, parole chiave e indici di G. Girgenti, in appendice la versione araba di Ibn Abi Usabi’a, testo greco e arabo a fronte, Rusconi, Milano, J. Patocka, Socrate. Lezioni di filosofia antica, introduzione, apparati e bibliografia di G. Girgenti, traduzione di M. Cajtham l, testo ceco a fronte, Rusconi, Milano,  nuova edizione: Bompiani, Milano, K. Wojtyla, Persona e Atto, a cura di G. Reale e T. Styczen, revisione della traduzione italiana e apparati a cura di G. Girgenti e P. Mikulska, testo polacco a fronte, Rusconi, Milano, nuova edizione: Bompiani, Milano, Struttura dell’anima dell’anima secondo Agostino e presupposti neoplatonici, in: Autori vari, Coscienza. Storia e percorsi di un concetto, Donzelli, Roma, Der Begriff der Verantwortung in der Welt der Antike und des Christentums, in K. Götz – J. Seifert (Hg.), Verantwortung in Wirtschaft und Gesellschaft, Rainer Hampp Verlag, München;   J. Seifert, Ritornare a Platone. La fenomenologia realista come riforma critica della dottrina platonica delle idee, in appendice un testo inedito su Platone di A. Reinach, prefazione e traduzione di G. Girgenti, Vita e Pensiero, Milano, Autori vari, Incontri con Hans-Georg Gadamer, edizione italiana a cura di G. Girgenti, Bompiani, Milano, Porfirio nel vegetarianesimo antico, “Bollettino Filosofico: Dipartimento di Filosofia dell’Università della Calabria”, Due fonti neoplatoniche indirette di Cusano: Porfirio e Giamblico, in AA. VV., Nicolaus Cusanus zwischen Deutschland und Italien Beiträge eines deutsch-italienischen Symposions in der Villa Vigoni vom (Veröffentlichungen des Grabmann-Instituts, Bd. 48), hrsg von Martin Thurner, Akademie Verlag Berlin, Plotino, Enneadi, traduzione di R. Radice. Saggio introduttivo, prefazioni e note di commento di G. Reale. Porfirio, Vita di Plotino, a cura di G. Girgenti, “I Meridiani. Classici dello Spirito”, Arnoldo Mondadori Editore, Milano  K. Wojtyla, Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, a cura di G. Reale e T. Styczen, apparati e indici di G. Girgenti, Bompiani, Milano 2003.    Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei filosofi.    Commentaria in Porphyrium a se translatum (editio secunda). Boethius   Georg Schepps Samuel Brandt   University of Leipzig   European Social Fund Saxony   Gregory Crane   Jouve OCR-ed, corrected and encoded the text   Greta Franzini   Project Manager (University of Leipzig)   Simona Stoyanova   Project Assistant (University of Leipzig)   Bruce Robertson Technical Advisor (Mount Allison University)   Uvius Fonticola   Technical Advisor (Ludwig Maximilians University Munich)   University of Leipzig   stoa0058.stoa007.opp-lat3.xml Available under a Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International License   2014 University of Leipzig   Germany   Georg Schepps   Samuel Brandt   Boethius    Vienna   Leipzig   Tempsky   Freytag    1906     48    Internet Archive    The following text is encoded in accordance with EpiDoc standards and with the CTS/CITE Architecture.   Latin     p. 46     Secundus hic arreptae expositionis labor nostrae seriem translationis expediet, in qua quidem uereor ne subierim fidi interpretis culpam, cum uerhum uerbo expressum comparatum- que reddiderim, cuius incepti ratio est quod in his scriptis in quibus rerum cognitio quaeritur, non luculentae orationis  lepos, sed incorrupta ueritas exprimenda est. quocirca mul- tum profecisse uideor, si philosophiae libris Latina oratione compositis per integerrimae translationis sinceritatem nihil in Graecorum litteris amplius desideretur, et quoniam humanis animis excellentissimum bonum philosophiae comparatum est,  ANICII. MALLII. SEVERINI. BOECII. IN YSAGOGAS PORPHIRII. A SE TRANSLATA EDITIONIS SECVNDĘ LIBER PRIMVS INCIPIT-  P; BOETII EXPOSITIO SCDA IN YSAGOG. E; BOETII COMMENTA IN ISAGOGAS  G; INCIP COMENTV BOETII, in isagogis porphirii; Expos Scda  L;  COMENTV BOECII IN ISAGOGAS  R;   inscriptione carent CFHNS (nisi quod in FH recens quaedam est), item e codd. Isagogen tantum a Boethio translatam continentibus   ΛΣ ; ISAGOGAE PORPHYRII TRANSLATAE DE GRECO IN LATINVM A VICTORINO ORATORE  (sic)   ΓΦ ; INCIP LIBER YSAGOGARVM (HΥS-  \ ) POR- PHYRII (I  pro  Y  Π )  AII ,- Icipidt isagoge porphyrii  (m. poster.)   Ψ;   de titulo operis cf. Prolegomena   6 fidi—reddiderim] cf. Horat. Ars poet. 133. 11—13] cf. Cic. Acad. post. I 3,12.   6 fędi  C  foedi  Hm1N  infidi  FGm1  7 uerbo] e uerbo  N  8 incoepti  CEGHPRS  10 corrupta  Em1Sm1  incorruptae  Em2  (e  in mg. add. sed del .)  Lm1  11 uidebor  brm  13 graecis  Lm2   ut uia et filo quodam procedat oratio, ex animae ipsius effi- cientiis ordiendum est. triplex omnino animae uis in uegetandis corporibus deprehenditur, quarum una quidem uitam corpori subministrat, ut nascendo crescat alendoque subsistat, alia uero sentiendi iudicium praebet, tertia ui mentis et ratione  subnixa est. quarum quidem primae id officium est, ut creandis, nutriendis alendisque corporibus praesto sit, nullum uero rati- onis praestet sensusue iudicium. haec autem est herbarum atque arborum et quicquid terrae radicitus adfixum tenetur, secunda uero composita atque coniuncta est ac primam sibi  sumens et in partem constituens uarium de rebus capere potest ac multiforme iudicium. omne enim animal quod sensu uiget, idem et nascitur et nutritur et alitur, sensus uero diuersi sunt et usque ad quinarium numerum crescunt, itaque quicquid tantum alitur, non etiam sentit, quicquid uero sentire  potest, ei prima quoque animae uis, nascendi scilicet atque nutriendi, probatur esse subiecta. quibus uero sensus adest, non tantum eas rerum capiunt formas quibus sensibili corpore feriuntur praesente, sed abscedente quoque sensu sensibili- busque sepositis cognitarum sensu formarum imagines tenent  memoriamque conficiunt, et prout quodque animal ualet, lon- gius breuiusque custodit, sed eas imaginationes confusas atque ineuidentes sumunt, ut nihil ex earum coniunctione ac compo-  1 uia et filo quodam]  CEm2H  (uia  fort. ras. ex  uiae), uiae et filo quodam  N  uiae  (s. l. R)  ex filo quodam  EmIGPR edd . uiae ( ex  uia  S ) ex quodam filo  LS  uiae ( s. l . filo  m1 ) quodam  F  ratio  CEmIGLRS  ex] ab  Hm1NP  efficienti  Em1 efficientis  Fa. c . 3 post uitam  add . solum  CFHP  solam  N  corporis  GNRL a.r.Sa.r . 5 rationis  FGRS  6 procreandis  CHNP  7 nutriendisque ( om . alendis)  EL  sit  s. l. Gm2Nm2  9 terra  CN  10 ac] ad  FSm1  at  LSm2  et  G  11 rebus] quibus  GRS  de rebus de quibus  L  12 poterit  E post iudicium  add . capit  E (sed del.) L, s. l. m2 in HRS  13 et nutritur om.  CHP, s. l . nutritur  (om. et) Lm2  14 ita  CHR  16 poterit  E  quoque prima  FGm2H  19 praesente ante feriuntur  FHN praesentes  CHm1N  abscedente]  Em2FGHmINESa.r . absente  CEm1Hm2LPSp.r . 20 re- positis  GR  22 imagines  FHN  23  ante  sumunt add. sic  brm   sitione efficere possint, atque idcirco meminisse quidem possunt, nec aeque omnia, admissa uero obliuione memoriam recolli- gere ac reuocare non possunt, futuri uero his nulla cognitio est. sed uis animae tertia, quae secum priores alendi ac sen-  tiendi trahit hisque uelut famulis atque oboedientibus utitur, eadem tota in ratione constituta est eaque uel in rerum prae- sentium firmissima conceptione uel in absentium intellegentia uel in ignotarum inquisitione uersatur. haec tantum humano generi praesto est, quae non solum sensus iraaginationesque  perfectas et non inconditas capit, sed etiam pleno actu intel- legentiae quod imaginatio suggessit, explicat atque confirmat, itaque, ut dictum est, huic diuinae naturae non ea tantum cognitione sufficiunt quae subiecta sensibus comprehendit, uerum etiam et insensibilibus imaginatione concepta et absen-  tibus rebus nomina indere potest et quod intellegentiae ratione comprehendit, uocabulorura quoque positionibus aperit, illud quoque ei naturae proprium est, ut per ea quae sibi nota sunt ignota uestiget et non solum unum quodque an sit, sed quid sit etiam et quale sit nec non cur sit, optet agnoscere, quam  triplicis animae uim sola, ut dictum est, hominum natura sor- tita est. cuius animae uis intellegentiae motibus non caret, quia in his quattuor propriae uim rationis exercet, aut enim aliquid an sit inquirit aut si esse constiterit, quid sit addubitat, quodsi etiam utriusque scientiam ratione possidet, quale sit  2 admissa]  CR  amissa  EFGm1NP  amissam  Gm2LS, ras. et s. l. ex  admissam  H  memoriam  om. FGR, s. l. Sm2 , memoria  H  3 hiis  F ,  sic saepe  cogitatio  CNm2  4 animae uis  CEL  5 ante trahit  add . uires  brm  6 ea  CHm1N  est  ante constituta  CEGS , om. R 7 con- tentione  EGm1Sm1  contemplatione  R, m2 in GLS  8 in  s. l. Gm1PmS ,  del. Lm2  ignotorum  Hm1N  9 imaginationes  EN  11 conformat  Gm2Pm2  13 cognitione] in cognitione  FHNP  14 et] ex  Em1HN  sensibilibus  CEm1Hp. c. Nm2  sensibus  Ha. c. Nm1   ante  imaginatione  add . sibi  E (del. m2) NPSm2  imaginatione] in agnitione  Gm1Sm1  agnitione  Gm2R  post concepta add. nomina  Hm1, idem post  rebus  s. l. m2  17 sint  E  19 optat  LR  22 quia] qua  Gm1  atque  EHm1Pm1  24 scientiam  post  ratione  E  sententiam  Hm1  pos- sedit  FRS   unum quodque uestigat atque in eo cetera accidentium momenta perquirit, quibus cognitis cur ita sit quaeritur et ratione nihilo minus uestigatur.   Cum igitur hic actus sit humani animi, ut semper aut in <rerum> praesentium comprehensione aut in absentium intel-  p. 47  legentia aut in ignotarum inquisitione | atque inuentione uer- setur, duo sunt in quibus omnem operam uis animae ratio- cinantis inpendit, unum quidem, ut rerum naturas certa inqui- sitionis ratione cognoscat, alterum uero, ut ad scientiam prius ueniat quod post grauitas moralis exerceat, quibus inquirendis  permulta esse necesse est, quae uestigantem animum a recti itinere non minimum progressione deducant, ut in multis euenit Epicuro, qui atomis mundum consistere putat et honestum uoluptate metitur, hoc autem idcirco huic atque aliis accidisse manifestum est, quoniam per imperitiam disputandi quicquid  ratiocinatione comprehenderant, hoc in res quoque ipsas euenire arbitrabantur, hic uero magnus est error; neque enim sese ut in numeris, ita etiam in ratiocinationibus habet, in numeris enim quicquid in digitis recte computantis euenerit, id sine dubio in res quoque ipsas necesse est euenire, ut si ex calculo  centum esse contigerit, centum quoque res illi numero sub- iectas esse necesse est. hoc uero non aeque in disputatione seruatur; neque enim quicquid sermonum decursus inuenerit,  4 aut  om. CNR, s. l. Gm2Sm2  5 rerum  add. edd. post  praesentium,  ante Brandt; cf. p. 137, 6  6 ignotorum  Gm2Hm1Lm2N ante  in- uentione  s. l. in Hm2  8 inpendat  FPSa.c . naturam  FHm1N  certa inquisitionis]  Gm2H  certae inquisitionis  FNP  inquisitionis certa CELm2 , om. certa  Gm1Lm1RS (fort. recte)  10 quod] eius quod r exer- cet  Hm1  12 minimum ante non  E  minime  FSm1  diducant  FGm2  13 atbomis  plerique codd . consistere in  mg. Hm2 constare  CFP, post er . ł consistere  C  honestam  Em1P  honestatem  F  14 uoluptate om.  F uoluptatera  CEHm2  (te* m1)  LNR, add . corporis  L (del. m2) R, s. l. Gm2, ante  uol.  edd . mentitur  CEGHPRSm1  hoc] haec  H  16 racione  CN  comprehenderent  m1   in EHN  17 nero] ergo  H  maximus  E  error est  CFHNP post  sese  add .  res FR ,  s. l. Pm2  19 digitos  CEFN   id natura quoque fixura tenetur, quare necesse erat eos falli qui abiecta scientia disputandi de rerum natura perquirerent, nisi enim prius ad scientiam uenerit quae ratiocinatio ueram teneat disputandi semitam, quae ueri similem, et agnoscere quae  fida, quae possit esse suspecta, rerum incorrupta ueritas ex ratiocinatione non potest inueniri. cum igitur ueteres saepe multis lapsi erroribus falsa quaedam et sibimet contraria in disputatione colligerent atque id fieri inpossibile uideretur, ut de eadem re contraria conclusione facta utraque essent uera quae  sibi dissentiens ratiocinatio conclusisset, cuique ratiocinationi credi oporteret, esset ambiguum, uisum est prius disputationis ipsius ueram atque integram considerare naturam, qua cognita tum illud quoque quod per disputationem inueniretur, an uere comprehensum esset, posset intellegi, hinc igitur profecta est  logicae peritia disciplinae, quae disputandi modos atque ipsas ratiocinationes internoscendi uias parat, ut quae ratiocinatio nunc quidem falsa, nunc autem uera sit, quae uero semper falsa, quae numquam falsa, possit agnosci, huius autem uis duplex esse perpenditur, una quidem in inueniendo, altera in  iudicando. quod Marcus etiam Tullius in eo libro cui Topica titulus est, euidenter expressit dicens; Cum omnis ratio diligens disserendi duas habeat partes, unam inue- niendi, alteram iudicandi, utriusque princeps, ut mihi quidem uidetur, Aristoteles fuit. Stoici  20 Tullius] Top. 2, 6 s.   1  ante  natura  add . in  HLSpr, s. l. Pm2  3 post nisi  add . quis  r  prius enim  E  4 disputandi  om. GRS ad ueri  similem  s. l . ał que ueri se similem agnouerit  Hm2  et agnoscere]  FSm1  ( om . et) et agnouerit  EGLPRSm2 ( om . et) edd. ut ex hoc delectia rationum que- amus agnoscere  Hm1, s. l . ał et agnouerint quae fida et reliqua  m2  ut ex diligentia rationum queamus ( ex  quaeramus  C ) agnoscere  CN  7 et sibimet] sibimet  C  sibi et  EGRS  9  post re s. l . si  Cm1?  10 cuique)  CHm1N  cuiue  cett . 13 tunc  FHNPm1R post  an  add . id R,  s. l. Gm2Lm2, 2 litt. er. C  15 ipsis ratiotinationibus  Hm2  16 ante internoscendi add. et  brm  uiam  CFHN  19 inneniendi et iudicandi ( om . in)  Hm2  24 quidem uidetur]  FHNPCic . uidetur quidem GRS quidem  om. CEL   autem in altera elaborauerunt; iudicandi enim uias diligenter persecuti sunt ea scientia quam  διαλεκτικήν appellant, inueniendi artem, quae  τοπική  dicitur quaeque ad usum potior erat et ordine naturae certe prior, totam reliquerunt, nos autem  quoniam in utraque summa utilitas est et utram- que, si erit otium, persequi cogitamus, ab ea quae prima est, ordiemur, cum igitur tantus huius considera- tionis fructus sit, danda est huic tam sollertissimae disci- plinae tota mentis intentio, ut primis firmati in disputandi  ueritate uestigiis facile ad rerum ipsarum certam comprehen- sionem uenire possimus.   Et quoniam qui sit ortus logicae disciplinae praediximus, reliquum uidetur adiungere, an omnino pars quaedam sit philosophiae an ut quibusdam placet, supellex atque instru-  mentum, per quod philosophia cognitionem rerum naturamque deprehendat, cuius quidem rei has e contrario uideo esse sen- tentias. hi enim qui partem philosophiae putant logicam con- siderationem, his fere argumentis utuntur, dicentes philoso- phiam indubitanter habere partes speculatiuam atque actiuam.  de hac tertia rationali quaeritur an sit in parte ponenda, sed eam quoque partem esse philosophiae non potest dubitari, nam sicut de naturalibus ceterisque sub speculatiua positis solius philosophiae uestigatio est itemque de moralibus ac  2 uias]  ENPCic.p, om. cett. codd ., uiam  brm  ea scientia]  Pm1Cic . eam scientiam  EPm2  edd. eam scilicet scientiam  CN  artem et scientiam FSm2  scientiam  GHLRSm1  3  διαλεκτικήν ] Cic. dialecticen  CFGHL- NPm2RS  dialecticam  E dialectica  Pm1   τοπική ]  Cic . topice  Gm2LNS  topica  CEFGm1HPR  4 quaeque] quae et  Cic . 5 prior] prior est  GLa.c.RS  6 in—est et]  CN Cic., s. l. Pm2, om. cett. codd., Boethius etiam in comment. in Cic. Top. lib. I p. 1047 D haec uerba respicit  8 prima] prior  Cic . ordiemur]  EHm1NCic . ordiamur  CGHm2LPRS  ordinamus  F  13 quid  FHm1NPp.c . quod  a.c . 14  ante reliquum  add . esse  GHP  pars sit quaedam  GN  quaedam pars sit  L  18 hii  EHL  20  ante  habere  add . duas  L m 1860  21  post  rationali  add . uel orationali  EFGH (del. m2) RS (del. mS)  id est logica  L  ( s. l. m2) edd. ad  an  s. l . si  Cm2  24 inuestigatio  L   reliquis quae sub actiuam partem cadunt, sola philosophia perpendit, ita quoque de hac parte tractatus, id est de his quae logicae subiecta sunt, sola philosophia iudicat. quodsi speculatiua atque actiua idcirco philosophiae partes sunt, quia  de his philosophia sola pertractat, propter eandem causam erit logica philosophiae pars, quoniam philosophiae soli haec dis- putandi materia subiecta est. iam uero inquiunt : cum in his tribus philosophia uersetur cumque actiuam et speculatiuam consideratio|nem subiecta discernant, quod illa de rerum naturis,  p. 48   haec de moribus quaerit, non dubium est quin logica disci- plina a naturali atque morali suae materiae proprietate di- stincta sit. est enim logicae tractatus de propositionibus atque syllogismis et ceteris huiusmodi, quod neque ea quae non de oratione, sed de rebus speculatur neque actiua pars, quae de  moribus inuigilat, aeque praestare potest, quodsi in his tribus, id est speculatiua, actiua atque rationali, philosophia consistit, quae proprio triplicique a se fine disiuncta sunt, cum specula- tiua et actiua philosophia partes esse dicuntur, non dubium est quin rationalis quoque philosophia pars esse conuincatur.  qui uero non partem, sed philosophiae instrumentum putant, haec fere afferant argumenta, non esse inquiunt similem logicae finem speculatiuae atque actiuae partis extremo, utraque enim illarum ad suum proprium terminum spectat, ut speculatiua  2 tractat  Ep.r.FR, m2 in GLP  3 diiudicat  CHm2  5 sola philo- sophia  CFN  pertractet  Em1  tractat  Hm1  7 iam] tam  R  ita  FL  9 sublectas discernat  Em2  10 dubium non est  CEL  non est dubium  F  11 a  om. LS, s. l. Gm2Pm2, postea add. R  disiuncta (iunc  in ras. m1? )  R  12 est enim] etenim  GLRS post  tractatus add. est  LR, s. l. Pm2  14 orationibus  E ratione  Lm1, add . est  L  17 sint  Rm1, ex  sit  Sm2  cumque  H  (q.  er .)  Lm2N  18 et] atque  EFNP philosophiae  pbr  dicantur  Lm2N  non est dubium  EFHNP  21 haec—argumenta  del. G  asserunt ( ss in ras. m1? )  C  similem  om. GR, post  finem  s. l. Sm2, ad  similem  s. l.  ł proprium  Pm2  22  ante  speculatiuae  add . sed  R, s. l. Gm2Lm2  extremum E (u  ex a uel  o  m2 )  GL  (um  ex am m2 )  Pm2RSm1  23 proprium suum  C  ut] ita ut  brm   quidem rerum cognitionem, actiua uero mores atque instituta perficiat, neque altera refertur ad alteram, logicae uero finis esse non potest absolutus, sed quodammodo cum reliquis duabus partibus colligatus atque constrictus est. quid enim est in logica disciplina quod suo merito debeat optari, nisi  quod propter inuestigationem rerum huius effectio artis inuenta est? scire enim quemadmodum argumentatio concludatur uel quae uera sit, quae ueri similis, ad hoc scilicet tendit, ut uel ad rerum cognitionem referatur haec scientia rationum uel ad inuenienda ea quae in exercitium moralitatis adducta beatitu-  dinem pariunt. atque ideo quoniam speculatiuae atque actiuae suus certusque finis est, logicae autem ad duas reliquas partes refertur extremum, manifestum est non eam esse philosophiae partem, sed potius instrumentum, sunt uero plura quae ex alterutra parte dicantur, quorum nos ea quae dicta sunt  strictim notasse sufficiat. Hanc litem uero tali ratione dis- cernimus. nihil quippe dicimus impedire, ut eadem logica partis uice simul instrumentique fungatur officio, quoniam enim ipsa suum retinet finem isque finis a sola philosophia, consideratur, pars philosophiae esse ponenda est, quoniam uero finis ille  logicae quem sola speculatur philosophia, ad alias eius partes suam operam pollicetur, instrumentum esse philosophiae non negamus; est autem finis logicae inuentio iudiciumque rati- onum. quod scilicet non esse mirum uidebitur, quod eadem pars, eadem quoddam ponitur instrumentum, si ad partes  corporis animum reducamus, quibus et fit aliquid, ut his quasi quibusdam instrumentis utamur, et in toto tamen corpore par- tium obtinent locum, manus enim ad tractandum, oculi ad  1 rerum]  Em2H(in mg. m1?) Lm2 edd., post  cognitionem  add . rerum  s. l. Pm2Sm2, add . naturalium rerum  F, s. l. Gm2, om. cett . 2ad alteram] de altera  Em2 3 non potest esse  FGN  4 est  om. C  5 aptari  FGm1Hm1Pm2R  6 affectio  EFHLm2Pm1Bm1  8 intendit  F  9 rationum scientia  CLP  10 mortalitatis  bm  11 parant  Ea.c . pariant  Hm1  15 alterutra] utraque  EP, add. post  alterutra  H, del. m2 ante  dicta  add . supra  EP, s. l. Lm2  18 enim] nero  CFHN  21 ei  F  24 uidetur  Em1FGm2LNPm2  28 optineant  Fp.c.S   uidendum, ceteraeque corporis partes proprium quoddam uidentur habere officium, quod tamen si ad totius utilitatem corporis referatur, instrumenta quaedam corporis esse deprehenduntur quae etiam partes esse nullus abnuerit, ita quoque logica  disciplina pars quidem philosophiae est, quoniam eius philo- sophia sola magistra est, supellex uero, quod per eam inqui- sita philosophiae ueritas uestigatur.   Sed quoniam, quantum mihi quoque breuitas succincta largita est, ortum logicae et quid ipsa logica esset explicui,  nunc de eo nobis libro pauca dicenda sunt quem in praesens sumpsimus exponendum, titulo enim proponit Porphyrius intro- ductionem se in Aristotelis Praedicamenta conscribere, quid uero ualeat haec introductio uel ad quid lectoris animum praeparet, breuiter explicabo. Aristoteles enim librum qui De  decem praedicamentis inscribitur hac intentione composuit, ut infinitas rerum diuersitates quae sub scientiam cadere non possent, paucitate generum comprehenderet, atque ita quod per incomprehensibilem multitudinem sub disciplinam uenire non poterat, per generum, ut dictum est, paucitatem animo  fieret scientiaeque subiectum. decem igitur genera rerum esse omnium considerauit, id est unam substantiam et accidentia nouem, quae sunt qualitas, quantitas, relatio, ubi, quando, facere et pati, situs, habere, quae quoniam genera essent su- prema et quibus nullum aliud superponi genus posset, omnem  necesse est multitudinem rerum horum decem generum spe-  1 quoddam] quod  Em1  (aliquod  m2 )  G  2 utilitatem  post  corporis EG, ante  totius  L  4 quas  FSm2  5 quidem post philosophiae  H  quaedam  L  6 uero] uero est  L  8 quoque  om. L  quidem  edd . ueritas  Cm1N  succincta]  CNPSm2  sua mora  EFGHR  sua mota  Sm1  succincta suam moram  L  9 ortum  om . L et de ortu CNF quod  CF  est  G  explicaui  CELm2PRS  11 titulum  CHm1N  13 lectoris  s. l. Gm2, post  animum  CN, post  praeparet  H. om. E  14 paret  EFGNRS  15 scribitur  EGRSm1  17 ita quod  s. l. Gm2  (itaque m1)  Rm2  quod ( om . ita)  s. l. Sm2  20 decem] in decem  C  23 et  om. FLNP  situm habere  CRa.c . situm esse habere  Gm1S  24 genus superponi  H  possit  Ea.c.FGm1NPRS  25 ante horum add. per  s, l. Pm2, ante  species  CFLR. s. l. Gm2Sm2   cies inueniri. quae quidem genera a se omnibus differentiis distributa sunt nec quicquam uidentur habere commune nisi  p 49  tantum nomen, quoniam omnia | esse praedicantur. quippe sub- stantia est, qualitas est, quantitas est, et de aliis omnibus ‘est’ uerbum communiter praedicatur, sed non est eorum  communis una substantia uel natura, sed tantum nomen. itaque decem genera ab Aristotele reperta omnibus a se differentiis distributa sunt. sed quae aliquibus differentiis disiunguntur, necesse est ut habeant proprium quiddam quod ea in singu- larem solitariamque uindicet formam. non est autem idem  proprium quod accidens. accidentia enim et uenire et abesse possunt, propria ita sunt insita, ut absque his quorum sunt propria, esse non possint. quae cum ita sint cumque Aristo- teles decem rerum genera repperisset, quae uel intellegendo mens caperet uel loquendo disputator efferret - quicquid  enim intellectu capimus, id ad alterum sermone uulgamus —, euenit ut ad horum decem praedicamentorum intellegentiam quinque harum rerum tractatus incurreret, scilicet generis, speciei, differentiae, proprii, accidentis. generis quidem, quoniam oportet ante praediscere quid sit genus, ut decem illa quae  Aristoteles ceteris anteposuit rebus, genera esse possimus agnoscere, speciei uero cognitio plurimum ualet, ut quae cuiusque generis sit species, possit agnosci. si enim quid sit species intellegimus, nihil impediti errore turbamur. fieri enim potest, ut per speciei inscientiam saepe quantitatis species in  relatione ponamus et cuiuslibet primi generis species alteri cui-  4 omnibus aliis  FHLN  9 quoddam  S  10 uendicet  HLP  uindicent  ( ent  in ras.) S  constituat CN 11 euenire  FGm2R  (om. et) abire  NP  12 propria ita] propria enim ita  H  proprietates  EGm1S propria uero ita  edd . insitae  EGm1S  14 uel  om. FP  16 cupimus  E  alterutrum  FPm2S  19  ante accidentis  add . atque  FHNP  et  L  21 inter- posuit  m1 in EGS  superposuit  Em2NP  praeposuit  FGm2  possemus  FN  22 cognitio  post  ualet  LP  24 impedito  (uel  in- ) Ca.c.EGm1HNS  impedit  R  turbari  CS  25 inscitiam  F  26 cuilibet] cuiuslibet  Gm1N,a.r. in EFS   libet generi subdamus atque ita fiat permixta rerum atque indiscreta confusio; quod ne accidat, quae sit natura speciei ante noscendum est. nec uero in hoc tantum prodest speciei cognoscenda natura, ne priorum generum species inuicem per-  mutemus, uerum etiam ut in eodem quolibet genere proximas species generi nouerimus eligere, ut ne substantiae mox animal dicamus esse speciem potius quam corpus aut corporis homi- nem potius quam animatum corpus, at uero differentiarum scientia in his maximum retinet locum, qui enim omnino  qualitatem a substantia uel cetera a se genera distare cogno- scimus, nisi eorum differentias uiderimus? quomodo autem discernere eorum differentias possumus, si quid ipsa sit diffe- rentia nesciamus? nec hunc solum nobis inscientia differentiae offundit errorem, uerum etiam specierum quoque tollit omne  iudicium. nam omnes species differentiae informant, ignorata differentia species quoque necesse est ignorari, quomodo uero fieri potest, ut quamlibet differentiam possimus agnoscere, si omnino quae sit nominis huius significatio nesciamus? iam nero proprii tantus usus est, ut Aristoteles quoque singulorum  praedicamentorum propria perquisiuerit. quae propria esse quis deprehenderit, antequam quid omnino sit proprium discat? nec in his tantum propriis haec cognitio ualet quae singulis nomi- nibus efferuntur, ut hominis risibile, uerum etiam in his quae in locum definitionis adhibentur, omnia enim propria rem subrectam  quodam termino descriptionis includunt, quod suo quoque loco  25 suo loco] lib. IV c. 15 s.   1 generis  Gm1REa.r.Sa.r . fiet  CH  fit  N  permixtio  FHm2LNP  4 primorum  FNP  5 in om.  CERS, s. l. Gm2  6  ante  generi  add . cuilibet  brm  7 aut—corpus om.  E, s. l. Gm2Sm2  8 corpus  om. FP ,  del. Hm2  9 qui] quomodo  Ep.c.HPp.c.R  11 nouerimus  R  quo- modo—ignorari  (16) in inf. mg. Em2  autem] nero  E(m2)  14 offundit]  E (m2) Pm1  obfundit  Hm2  diffundit  Gm1  effundit  cett.; cf. p. 159,16  15 informant differentiae  brm  16 quomodo] qui  FNP  uero om.  G  18 huius nominis  FNP  20 perquisierit  R  quis esse  FR  21 deprehen- derit in  ras. E  deprehenderet  Np.c . deprehendet ( ex  -it)  P  22 proprii  Gm2N post  singulis  add . tantum  FHLNP  24 subiecto  EGm1RS   oportunius commemorabo, accidentis quoque cognitio quantum afferat, quis dubitare queat, cum uideat inter decem praedica- menta nouem accidentis naturas? quae quomodo accidentia esse putabimus, si omnino quid sit accidens ignoremus, cum praesertim nec differentiarum nec proprii scientia nota sit, nisi  accidentis naturam firmissima consideratione teneamus? fieri enim potest, ut differentiae loco uel proprii per inscientiam accidens apponatur, quod esse uitiosissimum etiam definitiones probant, quae cum ipsae ex differentiis constent et fiant unius cuiusque definitiones propriae, accidens tamen non uidentur  admittere. Cum igitur Aristoteles rerum genera collegisset, quae nimirum diuersas sub se species continerent, quae species nuraquam diuersae forent, nisi differentiis segregarentur, cum- que omnia in substantiam atque accidens, accidens uero in alia nouem praedicamenta soluisset cumque aliquorum praedi-  camentorum fere sit propria persecutus, de his ipsis quidem praedicamentis docuit, quid uero esset genus, quid species, quid differentia, quid illud accidens, de quo nunc dicendum est, uel quid proprium, uelut nota praeteriit, ne igitur ad Praedicamenta Aristotelis uenientes, quid significaret unum  p. 50  quodque eorum quae superius dicta sunt ignora|rent, hunc librum Porphyrius de earum quinque rerum cognitione per- scripsit, quo perspecto et considerato quid unum quodque eorum quae supra praeposuit designaret, facilior intellectus ea quae ab Aristotele proponerentur addisceret.   Haec quidem intentio est huius libri, quem Porphyrius ad introductionem Praedicamentorum se conscripsisse ipsa, ut  1 opportunius  NR post  accidentis  add . teneri  L ,  post  naturas  (3) tenere  HN  3 quonam modo  FHLNP  5 tota  EN, m1 in GPS  6 te- nemus  C  7 insciciarn  FN  11  ante  rerum  add . decem  cod. Monac. 4621 brm, recte?  15 nouem om.  S edd., s. l. Em2Gm2  16 fere  om. EFGS, er. H  18 nunc  om. GRS  est dicendum  CL  21. 24 eo- rum  delendum esse coni. Engelhrecht  23 quo] ut  CHLNP  inspecto  FNP perfecto EGm1  24 eorum]  cod. Monac. 4621 ( om . quae),  om. codd. nostri  proposuit FP proposui  H  posuit  NR  25 ab  om. ENR praeponerentur  CHm2NR  27 ipse  L  ita  F   dictum est, tituli inscriptione signauit, sed licet ad hoc unum huius libri referatur intentio, non tamen simplex eius utilitas est, uerum multiplex et in maxima quaeque diffusa est. quam idem Porphyrius in principio huius libri commemorat dicens;    Cum sit necessarium, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum doctri- nam, nosse quid genus sit et quid differentia quid- que species et quid proprium et quid apcidens, et ad definitionum adsignationem et omnino ad ea  quae in diuisione uel demonstratione sunt, utili hac istarum rerum speculatione, compendiosam tibi traditionem faciens temptabo breuiter uelut introductionis modo ea quae ab antiquis dicta sunt adgredi altioribus quidem quaestionibus  abstinens, simpliciores uero mediocriter coniec- tan s.    Utilitas huius libri quadrifariam spargitur, namque ad illud etiam ad quod eius dirigitur intentio, magno legentibus usui  5—16] Porph. p. 1, 3—9 (Boeth. p. 25, 2—9 Busse).   2 eius utilitas est]  FGm2 (in mg. add.) HP  utilitas eius est  in mg. add. Em2  est eius utilitas  s. l. add. Lm2  eius est utilitas  N, om, RS;  est tamen simplex eius utilitas  C  3 uerum  in mg. Em2  sed  GLS  sed et  R  multiplex et  in mg. Em2, s. l. Sm2  est  er. uid. E  5  ante  Cura  add . PROLOGVS  RS, de inscript. codicum Isagogen tantum con- tinent. cf. ad initium libri  Chrysaori]  G chrisaori  EHNPa.c .  Γ  ( s. l . menanti)  Ώμ2ΣΦ  chrysaoni S chrisarori ( uel  cris-  uel  chriss-,1  CFLPp.c .  R lATl m1 *!  (-oui) ante et add. te  C (er.)   FLNA (del.)   Σ ,  s. l . scil, te  E  6  ante praedicamentorum  add . X  Δ  7 sit genus  L A  et  om .  Φ  quidue  N  8  pr .  et s. l. E, om .  A  9 diffinitionem  Em1 \ m2 ,  in  -nes,  hoc in  -num  mut. F  10 in] ad  FHP ,  ante  in  er . ad  uid. C diuisionem  Ca.r.FHNP T a.r . A a.r . Q  uel] et  N  et ad  FHP  uel in  ΔΣΦ  demonstrationem  Ca.r . (-ne  ras. ex  -ne  ut uid .)  FHNP F a.r. A a.r .(b  utili]  edd . utilia  codd . 11 hac]  HP ,  s. l. Sm2  hanc  CLNΤ ΛΙIΣΦ ,  del .  Δ ,  om .  EFGRS  speculationem  CEa.r.Hm2L A a.r .  ΑΦ ,  in  -num corr.  Σ compendiosa  ras. ex  -sa  C A  12 traditione ( uel  -cione)  CLΝ Φ ,  ras. ex  -nem  HT A  14 altioribus] ab altioribus  A  17 quadrifaria  S ante  ad  add . et  EGP ,  s. l. L  18 etiam  om . G   est et ad cetera, quae cum extra intentionem sint, non tamen minor ex his legentibus utilitas comparatur, est enim per hoc corpusculum et praedicamentorum facilis cognitio et defini- tionum integra adsignatio et diuisionum recta perspectio et demonstrationum ueracissima conclusio, quae res quanto diffi-  ciles atque arduae sunt, tanto perspicaciorem studiosioremque animum lectoris expectant. dicendum uero est quod in omni- bus libris euenit. nam primum si quae sit intentio cognoscatur, quanta quoque utilitas inde prouenire possit expenditur et licet extra multa, ut fit, huiusmodi librum sequantur, tamen  illam proxime utilitatem uidetur habere, ad quod eius refertur intentio, ipso libro quem sumpsimus exponente, cum eius intentio sit ad Praedicamenta intellectum facilem comparandi, non dubium quin haec eius principalis probetur utilitas, licet non minores sint comites definitio, diuisio ac demonstratio,  quorum nobis quaedam hic principia suggeruntur, sensus uero totus huiusmodi est : ‘cum sit, inquit, utilis generis, speciei, differentiae, proprii accidentisque cognitio ad Praedicamenta Aristotelis eiusque doctrinam, ad definitionum etiam adsigna- tionem, ad diuisionem et demonstrationem, quae sit harum  rerum utilis überrimaque cognitio, compendiosam, inquit, tra-  2 utilitas legentibus  FHP  3 opusculum  CEp.r.FGm2HLN, recte ? cf. p. 149, 3  4 integra  om. ER, s. l. Gm2Sm2  recta] perfecta  CFGm2- Hm1N  8  post  libris  add . his  HNP  hoc  R ,  s. l ,  sed exters. G  sit] est  H  9 id est  (add. Lm2)  perpenditur  Em2Lm2  10  ante huius- modi  add . in  CE (del.) G (del. m2) N  librum]  LPm2RSm2, om. Hm1 , libros  FGm1Sm1, s. l. Hm2 , libro  CE (del.) Gm2NPm1  sequntur ( uel  sec-)  R, m1 in EGS  11 uidentur  FH  ad quod] aliquod  Cm1  ad quam  FGm2Pm2  eius] eorum  FGm2HPm1  12  ante ipso  add . ut  (s. l. est Lm2)  in hoc  CFHLNP, s. l . ut in  Em2  hoc  Gm2  ex- ponendum  CE (dum  in er . te?)  FHLNP  ( ex  -dus  m1  exponere  m2 )  Sm1 post  cum  s. l . enim  Hm2  13 praeparandi  H 14  ante  dubium  add . est  FHNP ,  s. l. Gm2, post s. l. L  15 minoris  CGm1N  16 nobis  om. C  hic quaedam  C  principalia  NSm1  17 huiusmodi totus  EG  19 eamque  Hm1Sm1  20 ad  om. C, s. l. Gm2 , et  FHN  et ad  P  et] ac  H, om. CFNP , et ad  edd . demonstrationemque CN demonstrationum- que  FP  quae] quia  Lm2R, om. CFNP  21 traditione  ras. ex  -nē  H   ditionem faciens ea quae ab antiquis large ac diffuse dicta sunt, temptabo breuiter aperire’, neque enim esset compendiosa, nisi totum opus breuitate constringeret et quoniam intro- ductionem scribebat, ‘altiores, inquit, quaestiones sponte refn-  giam, simpliciores uero mediocriter coniectabo’, id est sim- pliciorum quaestionum obscuritates habita in eis quadam coniecturae ratiocinatione tractabo. Tota quidem sententia huiusce prooemii talis est, quae et utilitate überrima et facilitate incipientis animo blandiatur, sed dicendum uidetur  quidnam celet amplius altitudo sermonum, necessarium in Latino sermone, sicut in Graeco  άναγκαΐον , plura significat, diuersa enim significatione Marcus Tullius dicit necessarium suum esse aliquem atque nos, cum nobis necessarium esse dicimus ad forum descendere, qua in uoce quaedam utilitas  significatur. alia quoque significatio est qua dicimus solem necessarium esse moueri, id est necesse esse, et illa quidem prima significatio praetermittenda est, omnino enim ab eo necessario quod hic Porphyrius ponit aliena est. hae uero duae huiusmodi sunt, ut inter se certare uideantur quae huius loci  obtineat significationem, in quo dicit Porphyrius; Cum sit necessarium, Chrysaori; namque, ut dictum est, neces-  12 Marcus Tullius] cf. infra apparatum.   2 enim  om. E  3 corpus  HNPm1  4 refugio  EGR  5 simplicium  Gm2LPm2  6 eas  EFGm1HNSm1  7  ad  quidem  s. l.  autem  Gm2  8 prohemii  EPS  uberrima <sit>  Brandt  9 animum  EGLm2Pm2R  uidetur  om. ERS, s. l. Gm2  11 ΑΝΑ Γ ΑΙΟΝ  uel  ANAKAION  uel sim. codd . ANA IT CION ł ANAKAION  C  12 etenim F  ad  Marcus Tullius  in mg . Marcus enim tullius pro fundanio inquit descripsistine eius neces- sarium id est adiutorem danium ( leg . fundanium)  add. Hm2, ex Mario Victorino De defin., Boeth. p. 906 B, haustum, Cic. IV 3 p. 236 frg. 6 Mueller  13 aliquod  C  aliquid  Hm1NPm2  nos]  Hm1Pp.e.Sm1  nostrum  cett.; an nostrum est  scribendum ? ante cum  add . ut  EG (del. m2) HLm2P  uel  F  nos  Hm2  14 dicamus  L 16  post , esse] esset  F  est  Hm1LNP  18 uero  om .  N  ergo  F  21 Chrysaori]  CEm1  chrisaori  uel eris-  uel  crys-  uel  crisar-  uel sim. cett . necessarium] harum  E  ( s. l . duarum necessitatum  m2 )  Gm1S  necessarium harum  F   sarium et utilitatem significat et necessitatem, uidentur autem huic loco utraque congruere, nam et summe utile est ad ea  p. 51  quae superius dicta sunt, de genere et specie | et ceteris disputare, et summa est necessitas, quia nisi sint haec ante praecognita, illa ad quae ista praeparantur, non possunt cognosci, nam  neque praeter generis uel speciei cognitionem praedicamenta discuntur nec definitio genus relinquit et differentiam, et in ceteris quam sit utilis iste tractatus, cum de diuisione et demonstratione disputabitur, apparebit, sed quamquam necesse sit haec quinque de quibus hic disputandum est, prius ad  cognitionem uenire quam ea quibus illa praeparantur, non tamen ea significatione hic a Porphyrio positum est qua neces- sitatem significari uellet ac non potius utilitatem, ipsa enim oratio contextusque sermonum id clarissima intellegentiae ratione significat, neque enim quisquam ita utitur ratione, ut  aliquam necessitatem referri dicat ad aliud, necessitas enim per se est, utilitas uero semper ad id quod utile est refertur, ut hic quoque, ait enim Cum sit necessarium, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamen- torum doctrinam, si igitur hoc necessarium utile intel-  legamus et id nomine ipso uertamus dicentes : cum sit utile. Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamen-  1 et  om. R, del. CGm2 significans  R ante  necessitatem  add . altera  R, s. l. Gm2  4 necessitas est  E  quia  om. NS  sint  post  haec  F, post  praecognita  H  5 agnosci  CN  post cognosci  add . quae  (om. E)  praedicamenta dicuntur  CEGL (in sup. mg. m2)  PR cognitiones  (del. et s. l . quae  add. m2) praedicamentarum (rum  del. m2 ) dicuntur  S  nam—discuntur  om. GRS, in sup. mg. Lm2  nam—cognitionem  in mg. Em1?, reliqua om . 7 nec] sed istis cognitis nec  C  sed nec  S  neque  N  10 sit] erit  Em2GLm1RS  13 significare  FN  15 utatur  Sm1  oratione  CHm1N  16 aliud] aliquid  CHm1N  17  post  se  add . quiddam  CFHPN, s. l. Em2Lm2 , quidem  edd . quod] ad quod  NP defertur  Gm1Lm1RS  18 enim  om . C Chrysaori]  eaedem fere quae   p. 147, set 149, 21 in codd. scripturae  19 et] te et  L  20  post   doctrinam add . nosse quid genus sit  C  nosse quid sit genus et cetera  in mg. Lm2  22 Chrysaori]  ut 18  et  om .  EFGS  te et  L  doctri- nam praedicamentorum  C   torum doctrinam, nosse quid genus sit et cetera, recte se habebit ordo sermonum; sin uero id ad ‘necesse’ permutetur atque dicamus : cum sit necesse, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum doctrinam, nosse quid  genus sit et cetera, rectae intellegentiae sermonum ordo non conuenit. quocirca hic diutius immorandum non est. quamquam enim sit summa necessitas his ignoratis non posse ad ea ad quae hic tractatus intenditur perueniri, non tamen de necessi- tate hic dictum est necessarium, sed potius de utilitate.    Nunc uero, licet idem superius dictum sit, tamen breuiter  quid ad praedicamenta generis, speciei, differentiae, proprii atque accidentis prosit agnitio, disputemus. Aristoteles enim in Praedicamentis decem genera constituit rerum quae de cunctis aliis praedicarentur, ut quicquid ad significationem  uenire posset, id si integram significationem teneret, cuilibet eorum subiceretur generi de quibus Aristoteles tractat in eo libro qui De decem praedicamentis inscribitur, hoc ipsum uero referri ad aliquid uelut ad genus tale est, quale si quis spe- ciem supponat generi, hoc uero neque praeter cognitionem  speciei ullo modo fieri potest nec uero ipsae species quid sint uel cuius magis sint possunt perspici nisi earum differentiae cognoscantur, sed differentiarum natura incognita, quae unius  1 recte—sermonum] recte intellegentiae sermonum ordo conuenit  CLP   (ex 5)  2 uero] autem  C  3 atque] itaque  FN  ut  CLH (in ras.)  Chry- saori]  ut p .  150, 18  4 est] sit  GLRS  nosse—sit om.  EH  5 ordo  ante  sermonum  E  7  post  his  s. l.  quinque  Lm2   pr. (sic)  ad  om. G ,  in mg. Em1?  8 tractatus hic  H  intendit  L  peruenire  Lm1S  9  ante  hic  add . solummodo  F  10 nunc] nam  F  11 quod  EN  12 possit  Lm2  cognitio  R  15 possit  Fa.c.LS 16 Aristoteles  delend. esse coni. Brandt  eo  om. E  17 De  om. NS , de  s. l. Lm2  uero  s. l. Gm2 18  post , ad  om. GRS, s. l. Em2Lm2P  qui  S  19 neque  er .  L  nec  N   post  cognitionem  add. generis neque praeter cognitio- nem  CFHP   (in mg. m2)  generis nec  E   (s. l. m1?)N, s. l. generis et  Lm2  20 nullo  Lm2  neque  F  21 magis] modi  CEm2  (in aliis m1)  Hm1Pp.c. (corr. m1?)  modo  N  possint  S  possumus  Gm1Lm2  possemus  m1  possimus  E  perspici] scire  EGm1 (sciri  m2 )  L  agnosci  RS   cuiusque speciei sint differentiae, modis omnibus ignorabitur, quare sciendum est quoniam, si de generibus Aristoteles tractat in Praedicamentis, et generum natura cognoscenda est, cuius cognitionem speciei quoque comitatur agnitio, sed hoc cognito, quid sit differentia non potest ignorari, quamquam  in eodem libro plura sint ad quae nisi maximam peritiam et generis et speciei et differentiae lector attulerit, nullus omnino intellectus patebit, ut cum ipse Aristoteles dicit : diuersorum generum et non subalternatim positorum diuersae secundum species et differentiae sunt, quod his ignoratis  intellegi inpossibile est. sed idem Aristoteles proprium unius cuiusque praedicamenti diligentissima inquisitione uestigat, ut cum substantiae proprium post multa dicit esse quod idem numero contrariorum susceptibile sit, uel rursus quantitatis, quod in ea sola aequale atque inaequale  dicatur, qualitatis etiam, quod per eam simile et dis- simile aliud alii esse proponimus, et in ceteris eodem modo, ut quae sit proprietas contrarii, quae secundum relationem oppositionis, quae priuationis et habitus, quae affirmationis et  8—10] Aristot. Categ. c. 3, p. l b , 16 s. 13 s.] ibid. c. 5, p. 4 a , 10 s. 15 s. (dicatur)] ibid. c. 6, p. 6 a , 26 s. 16 s.] ibid. c. 8, p. 11 a , 15—19. 18 (quae sit)—153, 1 (negationis)] ibid. c. 10.   1 sit differentia  S  5 non potest  s. l. Gm2 quamquam] cum  F  6 et generis—differentiae post attulerit  E  8 pateat  EGLRS  dicit]  Brandt dicat  codd. edd.; cf. 13. p. 154, 14. 21. 153, 2. 6  10  post  secundum  add . se  EGL (del.) ES, er. uid. H  et om.  CN, del. Lm2, er. uid. H; cf. Aristot. Cat. c. 3   τών Ιτέρων γενών καί μή ΰπ’ αλληλα   τεταγμένων ετεροι τω εΤδεε κο· αϊ διαοοραί   et Boethii interpretat. In Categ. Arist. p. 177 A (om. se)  quid  GRS  11 possibile  EG  ( post  est  signum interrogat.) RS  propria  FHNP  14  ante  numero  s. l.  cum  E  15 aequum  Em1FGLm1RS; cf. p. 153, 17  atque] aut N 16 dicitur FHLm2P  et dissimile]  F  uel dissimile  s. l. Em2  aut dissimile  s. l .  Gm2Pm1? ,  om. cett.; cf. Aristot. Cat. c . 9 Τ ών μέν ouv είρημένων  — τό  ομοιον χα) άνο'μοιον  —  αοτήν   et Boethii interpretat, p. 259 A  (simile et dissimile,) 17 aliis  DGPm1RS ( s  in ras); cf. Aristot, ibid .  έτέρω ,  Boeth. ibid . alteri 18  post  relationem  add . contrarii  Em1, del. et s. l . ut sapientia stulticiae  m2   negationis, in quibus ita tractat tamquam iam peritis scienti- busque quae sit proprietatis natura; quam si quis ignorat, frustra ea quae de his disputantur adgreditur. iam uero illud manifestum est, quod accidens maximum praedicamentorum  obtineat locum, quod proprio nomine nouem praedicamenta circumdat.   Et ad praedicamenta quidem quanta sit huius libri utilitas ex his manifestum est. quod uero ait et ad definitionum adsignationem, facile cognosci potest, si prius substantiae  rationum diuisio fiat, substantiae ratio alia quidem in descrip- tione ponitur, alia uero in definitione, sed ea quae in descrip- tione est, pro|prietatem quandam colligit eius rei cuius sub-  p. 52  stantiae rationem prodit, ac non modo proprietate id quod monstrat informat, uerum etiam ipsa fit proprium, quod in  definitionem quoque uenire necesse est; si quis enim quan- titatis rationem reddere uelit, dicat licebit; quantitas est secundum quam aequale atque inaequale dicitur, sicut igitur proprietatem quidem quantitatis in ratione posuit quantitatis et ipsa tota ratio ipsius quantitatis propria est, ita descriptio et  proprietatem colligit et propria fit ipsa descriptio, definitio uero ipsa quidem propria non colligit, sed ipsa quoque fit propria, definitio namque substantiam monstrat, genus differen- tiis iungit et ea quae per se sunt communia atque multorum in unum redigens uni speciei quam definit reddit aequalia.  ita igitur ad descriptionem utilis est proprii cognitio, quoniam sola proprietas in descriptione colligitur et ipsa fit propria sicut definitio quoque, ad definitionem uero genus, quod primum  1 ita  om. RS, s. l. m2 in EGL  tamquam iam] quasi  C  5 optinet  FHm1LmSN  obtineat  ante  praedicamentorum  E  7 libri huius  CGLRS ;  cf. p. 155, 14. 17. 156, 8  utilitas]  brm  intentio  codd . 10  post  substantiae  add . uero  F, s. l . enim  Lm2  16  ante dicat  s. l . sc. ut  Lm2  20 proprietates  CFHNP  ipsa] ita  G  22 nam qui  Gm2Lm1  (namque qui  m2 )  S  26 proprietas sola  CLP  sola proprietas sola  FGm1S  27 ad sicut  s. l . ł sic  Em2  uero  s. l .  Hm2  quod  om .  F  quidem  R   ponitur, et species, ad quam genus illud aptatur, et differentiae, quibus iunctis cum genere species definitur, sed si cui haec pressiora quam expositionis modus postulat uidebuntur, eum hoc scire conuenit, nos, ut in prima editione dictum est, hanc expositionem nostro reseruasse iudicio, ut ad intellegentiam  simplicem huius libri editio prima sufficiat, ad interiorem uero speculationem confirmatis paene iam scientia nec in singulis uocabulis rerum haerentibus haec posterior colloquatur.   Ad diuisionem uero faciendam tam hic liber est utilis, ut praeter earum scientiam rerum de quibus in hac libri serie  disputatur, casu fiat potius quam ratione partitio, hoc autem manifestum erit, si diuisionem ipsam diuidamus, id est si nomen ipsum diuisionis in ea quae significat partiamur, est namque diuisio generis in species, ut cum dicimus ‘coloris aliud est album, aliud nigrum, aliud uero medium’, rursus diuisio est,  quotiens uox plura significans aperitur et quam multa sint quae ab ea significantur ostenditur, ut si quis dicat ‘nomen canis plura significat, et hunc, latrabilem quadrupedem que et caeleste sidus et marinam bestiam’, quae omnia a se definitione disiuncta sunt, diuidi autem dicitur et quotiens totum in  partes proprias separatur, ut cum dicimus ‘domus aliud sunt fundamenta, aliud parietes, aliud tectum’, et haec quidem triplex diuisio secundum se partitio nuncupatur, est autem  4] in prima editione nihil eiusmodi. 1  post  ponitur  add . utile est  CN, post  species  s. l . utilis est  Lm2  et species—aptatur  in mg. Em2Gm2  illud genus  C  3 eum  om. E ,  s. l. Gm2 , ei  R  4 uti  FGLRSm1  5 reseruasse]  CPm2 edd . reser- uare  E ( -re  in ras .)  FGm2HNPm1 (ante  reseruare  add .  se m1, del. m2)  reseruantes  Gm1S  seruantes  Lm1  seruare  m2  reseruantes sumus  R  8 colloquatur]  m1 in GLS  eloquatur  CEm2 (in ras.) HN  collocatur  Em1R ,  m2 in GLS edd . loquatur  FP  9 utilis est  LP  10 rerum  om. E  12  post . si  om. EG, s. l. Sm2  13  ante  partiamur  s. l . si  E  partia- tur  Gm1  14 aliud est]  CEp.c.R edd . aliud esse  Ea.c.GHLPS  esse aliud  FN  15 rursum  CEGNPm1R  est  s. l. Sm2 , ante diuisio  FHNP ,  et ante  rursus  et post  diuisio  R  16 quam] quod  EG a.c . (quae  p.c .)  LRS  sunt  CFLNPa.c . 18 quadripedemque  Sm1  20 distincta  FHm1NP  23 partitio] separatio  EGLm1Pm1RS   alia quae secundum accidens dicitur, ea quoque fit tripliciter, aut cum accidens in subiecta diuidimus, ut cum dico ‘bonorum alia sunt in animo, alia in corpore’, uel rursus cum subiectum in accidentia, ut ‘corporum alia sunt alba, alia nigra, alia  medii coloris’, rursus cum accidens in accidentia separamus, ut cum dicimus ‘liquentium alia sunt alba, alia nigra, alia medii coloris’, et rursus ‘alborum alia sunt dura, alia liquentia, quaedam mollia’, cum igitur ita omnis sit diuisio aut secundum se aut per accidens, utraque uero partitio tripliciter fiat cum-  que in superiore secundum se triplici partitione sit una diui- sionis forma genus in species separare, id neque praeter generum scientiam fieri ullo modo potest neque uero praeter differentiarum, quas necesse est in specierum diuisione sumi, manifestum est igitur, quanta utilitas huius libri ad hanc  diuisionem sit quae primo aditu genus ac species et differentias tractat, secunda uero ea diuisio quae est secundum se in uocis significantias, nec haec quidem ab huius libri utilitate discreta est. uno enim modo cognosci poterit, utrum uox cuius diui- sionem facere quaerimus, aequiuoca esse uideatur an genus,  si ea quae significat definiantur, et si ea quae sub communi nomine sunt, definitione clauduntur, species esse necesse est, et illud commune eorum genus, quodsi illa quae proposita  3 sunt alia  H  uel] aut  brm  rursum  FS  4 corporalium  Ca.c.Hm1N  5 rursum  F  6 liquentia  Ea.c.Gm1  8 fit  G  sit  ante omnis  F ,  post  diuisio N 9 accidentia  S  10 superiori  Sm2  11 sepa- rare  om. EN  12 possit  Em2 uero  om. C post   praeter s. l . scientiam  Sm2  16 ea  del. L, er. uid. P ante  quae  add . est  N   (om. post  quae]  P (er. uid.)  secundum—significantias]  FHN  uocis  post  significantias  C  se  et  in  om cett . 18 uno] nullo  F  quo  m2 in HLP  enim] quidem  N  20 si] nisi  FLm2Pm2  significant  CNPm2  et  (om.  si, ) in ros. Hm2  si et  RS  (et  s. l. m2 ) si  om. EL, s. l. Gm2Pm2 , etenim  L (ex et m2) Pm1  communi nomine]  CEm2 (in ras.) FHNP  (nomine  s. l. m2 ) communione cett. 21 sunt del. L, s. l.  Pm2 ante  definitione  add . una  FHL (del. m2) R, s. l. Em2Pm2  diffinitione  s. l. Gm2  claudantur  EGLRS  22 earum  ES post  genus  s. l . necesse est  Gm2  praeposita  EGPS   uox designat, non possunt una definitione concludi, nemo dubitat quin illa uox sit aequiuoca neque ita sit communis his de quibus praedicatur ut genus, quandoquidem ea quae sub se posita significat, secundum commune nomen non possunt una definitione comprehendi, si igitur ex definitione manifestum  fit quid genus sit, quid uero nomen aequiuocum, definitio uero per genera differentiasque discurrit, quisquamne dubitare potest aeque in hac diuisionis forma plurimum huius libri auctoritatem ualere? illa uero secundum se diuisio quae est totius in partes, quemadmodum discernitur ac non potius  p. 53  generis in species diuisio esse putabitur, nisi sint genus |et species et differentiae earumque uis ante disciplinae ratione tractata? cur enim non quisquam dicat domus species potius esse quam partes fundamenta, parietes et tectum? sed cum occurrit generis nomen in una quaque specie totum posse con-  gruere, totius uero in una quaque parte sua nomen conuenire non posse, manifestum fit aliam diuisionem esse generis in species, aliam totius in partes, conuenire autem nomen generis singulis speciebus ostenditur per id, quod et homo et equus singuli animalia nuncupantur, neque tectum uero neque parietes aut  fundamenta singillatim domus nomine appellari solent, sed  1 concludi  om ., nemo—comprehendi  (5)   in inf. mg. Gm1?  nemo—ita sit  in ras. Em2  2 uox—communis] uox non (non  er. L, om. S ) sit communis  Gm1 uel 2 Lm1Sm1, post  uox  add . sit aequiuoca neque (non,  sed del. G ) ita ( om. G  etiam  S )  s. l. Gm2 uel alia Sm2, in mg. Lm2  3  ante  his  add . de  E (er.) G (del. m2) ES his s. l. Lm2  4  post  posita  s. l. sunt Hm2  non possunt] definiri ( uel  diff-j (-ri  ex  -re  Cm2 ) non possunt ( add . neq.  Cm1, er. et  una  add. m2 ) nec  CFN  6 fit]  H  est  C  sit  cett . 8 aeque] etiam  CFHm1NPSm1  9 auctorem  GR  utilitatem  Lm2 10 discernetur  Hm2 (fort. recte)  discernatur  N  ac] et  FHNP  11 esse  om. R, ante  diuisio  FN  sit  FSm1  sunt  G  et] ac  R  12 earum quauis  ELR, m2 in GHPS , earum quis  Fm1  quamuis ( om . earum,)  m2 ;  cf. p. 157, 3  13 quisque  CFHR  esse potius  FNR  14 dum  F  15 quaque  om. FN  17 sit  ELRm1  (est  m2 )  S  19 id  om .  RS, s. l. Em2Gm2  singula  CEa.r. (ut uid.) GLPm1  singularis  Sa.c . singu- laque  R  20 aut] ac  FHLNP  neque  S  21 singulatim  CNR  appel- lari] nuncupari  FHLNP   cum fuerint iunctae partes, tunc recte totius nomen excipiunt, de ea uero diuisione quae secundum accidens fit, nullus ignorat quin incognito accidenti incognitaque ui generis ac differen- tiarum facile euenire possit, ut accidens ita in subiecta soluatur  quasi genus in species, et postremo omnem hunc ordinem partitionis foedissime permiscebit inscientia.   Et quoniam quid hic liber ad diuisionem prosit osten- dimus, nunc.de demonstratione dicemus, ne per ardua atque difficilia haereat qui in tanta hac disciplina uigilantissimo in-  genio et sollertissimo labore sudauerit. fit enim demonstratio, id est alicuius quaesitae rei certa rationis collectio, ex ante cognitis naturaliter, ex conuenientibus, ex primis, ex causa, ex neces- sariis, ex per se inhaerentibus, sed genera speciebus propriis priora naturaliter sunt; ex generibus enim species fluunt, item  species sub se positis uel speciebus uel indiuiduis priores naturaliter esse manifestum est. quae uero priora sunt, ea et praenoscuntur et notiora sunt sequentibus naturaliter, duobus enim modis primum aliquid et notum dicitur, secundum nos scilicet et secundum naturam, nobis enim illa magis cognita  sunt quae sunt proxima, ut indiuidua, dehinc species, postremo genera, at uero natura conuerso modo ea sunt magis cognita quae nobis minime proxima, atque ideo quamlibet se longius  1 tunc  er. C  accipiunt  F  3 incognita  m1 in GRS  accidente  CN  accidentia,  del . a  EGm2Rm2  accidenti—differentiarum  in mg .,  ante facile  add . ea accidentia,  sed del. E  incognitaque—differentia- rum  om. GR  cognitaque  (sic) ut generis ac differentiarum  Sm1, del. m2  4 soluamus  FHNP  5 postremum  HP  hunc  ante omnem  L, post  ordinem  R  6 inscitia  FHN  7 quid hic liber)  FGm1NP  quid liber hic  Em2HL hic quid liber  Gm2  liber quid hic  Em1R  liber hic quid S; quid ad diuisionem hic liber  C  8 ne—haereat] rem perarduam atque difficilem illi etiam  FN ; ne  et  - in  in difficil ** ia  et  hereat  in ras. C  9 hereat  s. l. Sm2  etiam  m1  tota  CFN  11 alicuius  om. CL  13 priora propriis  C  15  pr . uel  om. L, del. Pm2  19 enim] uero  N  21 natura]  Ea.c.GR  naturae  Ep.c.FHLPS  secundum naturam  CN; cf. Boeth .  Post. Analyt. Aristot. interpret. lib. I c. II p. 714 B  non enim idem est natura prius et ad nos prius neque notius natura et nobis notius. 22 quantumlibet  Em2  quantolibet  Pm2   a nobis genera protulerint, tanto magis erunt lucida et natura- liter nota, differentiae uero substantiales illae sunt quas per se inesse his rebus quae demonstrantur agnoscimus, praecedere autem debet generum ac differentiarum cognitio, ut in una quaque disciplina quae sint eius rei quae demonstratur con-  uenientia principia, possit intellegi, necessaria uero esse ea ipsa quae genera et differentias dicimus, nullus dubitat qui speciem sine genere et differentia intellegit essq non posse, genera uero et differentiae sunt causae specierum. idcirco enim species sunt, quia genera earum et differentiae sunt quae in  syllogismis posita demonstratiuis non rei solum, uerum con- clusionis etiam causae sunt, quod postremi Resolutorii locu- pletius dicent.    Cum igitur perutile sit et definitione quodlibet illud circum- scribere et diuisione dissoluere et demonstrationibus comprobare,  haec autem praeter earum rerum scientiam de quibus in hoc libro disputabitur, neque intellegi neque exerceri ualeant, quis umquam poterit dubitare quin hic liber maximum totius logicae adiumentum sit, praeter quem cetera quae in ea magnam uim tenent, nullum doctrinae aditum praebent?   Sed meminit Porphyrina introductionem aese conscribere neque ultra quam institutionis modus est, formam tractatus egreditur, ait enim ‘se altiorum quaestionum nodis abstinere,  1 protulerunt  FLR  praetulerint  N  2 substantiales] substantiae uel  E  3 inesse  post  rebus  C  esse,  del . in  E  4 in  om. C, s. l. Sm2  6 possint  Hm1P  7  ante  genera add. et  LP  8 intellegit  in mg .  Cm2, post  esse  in ras. N  9 causae sunt  FHL  sunt  om. R  causa  G  11 demonstrantibus  EFGLPm1RS; cf. Boeth. ibid. c. VI p. 718 D  de- monstratiuus syllogismus 12 postremis  L  in ( s. l .) postremis  Pm2 postremo  EFGPm1RS  resolutoriis  L  resolutarii  F  resoluturi  RS  resoluituri  G  resolutius ac  E 13 dicemus  EGLPm1RS  15 demon- stratione  N  16 in  om. FGPR, s. l. Hm2S  17 ualeant]  m2 in EHLS  ualent  CEm1F  (n  del .)  GHm1NP  (n  in ras .)  RSm1  22 nec  N  23 egre- ditur]  CF (aegr-)  HNPm1  aggreditur  L  egredi  EGRS  aggredi  Pm2  altioribus  FN  nodis  om .  Cm1Sm1 modis  FNRa.c., s. l. Cm2, in mg. Sm2   simplices uero mediocri coniectura perstringere’, quae uero sint altiores quaestiones quas se differre promittit, ita proponit : Mox, inquit, de generibus ac speciebus illud quidem, siue subsistunt siue in solis nudisque intellectibus  posita sunt siue subsistentia corporalia sunt an incor- poralia et utrum separata a sensibilibus an in sensi- bilibus posita et circa ea constantia, dicere recusabo, altissimum enim est huiusmodi negotium et maioris egens inquisitionis.    Altiores,. inquit, quaestiones praetereo, ne eis intempestiue lectoris animo ingestis initia eius priraitiasque perturbem, sed ne omnino faceret neglegentem, ut nihil praeterquam quod ipse dixisset, lector amplius putaret occultum, id ipsum cuius exequi quaestionem se differre promisit, addidit, ut de his  minime obscure penitusque tractando nec le|ctori quicquam  p. 54  obscuritatis offunderet et tamen scientia roboratus quid quaeri iure posset agnosceret, sunt autem quaestiones quas sese reti-  3—9] Porph. p. 1, 9—14 (Boeth, p. 25, 10—14). 8 altissimum— negotium] Abaelardus, Epistolae, Opp. I p. 5 ed. Cousin.   1 simpliciores  L  praestringere  G  perscribere  CFN  2 sunt  N  3 inquit  om .  Ω  ac] et  ΗΝ Ω   post  quidem  add . quod  EG (del.) Sm2  quae  m1  4 subsistant  L  nudisque] nudis purisqne  Ω ;  Porph. p. 1, 10   έν μο'να'.ς ψιλοΐς έπινοίαϊς  5 substantia  Em1  sunt  ante corporalia  Σ ,  post  incorporalia  Δ  sint  LR A m2 ,  ras .  ex  sunt II 6 separat  R  a sensibilibus  om. Gm1 (s. l. m2) Sm1 (cf. proxima), ras. ex  ab insensi- bilibus  \ m2; om .  Porph. p. 1,12  ab  CEa.r . A m1 A m1  an in sensibilibus posita et]  FG  (posita  s. l. m2 )  LR Ψ  an in sensibilibus (a sensibilibus  m2 ) et  S  an ipsis sensibilibus (posita  om .) iuncta  (in mg.)  et ( om . II)  Γ ,  s. l .  Π m2 et ( cetera om .)  CEHPm1 h m1  (s. l. an et in sensi- bilibus posita  m2 )  A m1  ( in mg . an sensibilibus iuncta  m2 )  Φ  an  (cet. om.)   NPm2   Σ  7 consistentia  CHF A m1  8 enim—negotium]  FHLP Q  ( sed  est enim  A )  Abaelard . negotium  ante  est  CEGRS  enim est negotium huius modo  (sic)   N; Porph. p. 1, 13   βαθύτατης οϊοης τής τοιοΰτης   πραγματείας  10  ante  eis  add . in,  sed del. E  11 primitiaque  R  per- turbent  FN  12 neglegentiam  Gm1P  praeter  (s. l.)  quam  C  praeter id quam  L  13 putasset  C  14 exequi quaestionem] exeeutionem ( uel  eis-)  EGHm1LRS  15 penitus  Em1FG  ne  L  16 effunderet  Ca.c.EGLNR  infunderet  Cp.c.FS ;  cf. p. 145, 14  17 possit  C a.c. Fa.c . se  N   cere promittit, et perutiles et secretae et temptatae quidem a doctis uiris nec a pluribus dissolutae, quarum prima est huius- modi. omne quod intellegit animus aut id quod est in rerum natura constitutum, intellectu concipit et sibimet ratione de- scribit aut id quod non est, uacua sibi imaginatione depingit.  ergo intellectus generis et ceterorum cuiusmodi sit quaeritur, utrumne ita intellegamus species et genera ut ea quae sunt et ex quibus uerum capimus intellectum, an nosmet ipsi nos ludimus, cum ea quae non sunt, animi nobis cassa cogitatione formamus, quod si esse quidem constiterit et ab his quae  sunt, intellectum concipi dixerimus, tunc alia maior ac diffi- cilior quaestio dubitationem parit, cum discernendi atque intel- legendi generis ipsius naturam summa difficultas ostenditur, nam quoniam omne quod est, aut corporeum aut incorporeum esse necesse est, genus et species in aliquo horum esse opor-  tebit. quale erit igitur id quod genus dicitur, utrumne cor- poreum an uero incorporeum? neque enim quid sit diligenter intenditur, nisi in quo horum poni debeat agnoscatur, sed neque cura haec soluta fuerit quaestio, omne excludetur ambi- guum. subest enim aliquid quod, si incorporalia esse genus  ac species dicantur, obsideat intellegentiam atque detineat exsolui postulans, utrum circa corpora ipsa subsistant an et praeter corpora subsistentiae incorporales esse uideantur. duae quippe incorporeorum formae sunt, ut alia praeter corpora esse  1 promisit  C  2 doctissimis  P  4 statutum  L  discribit  E  5 id  s. l. C  8 capiamus  C  ipsi nos] ipsos  FR  ipsos **  (-os  ex  i  m2 )  S  ipsi  Hm1  nos  s. l. m2  9 eludimus  Hm2  cogitatione] imaginatione  F  11 intellectu  ras. ex  -tu  E  ac] et  R  12 parat  FHm1PRS  discer- nendae atque intellegendae.. naturae  EFGHNRS  13 natura  L  osten- datur  N  16 utrum  FHm1NP  17 an] aut  ex  ut  F  uero  om. N  19 excluditur  Cm2GHp.c.LPRS  20 aliquid quod] alia quae (que  N )  FN  aliud ( ex  aliquid] quod  E  esse  post  species  FHL ,  om. N  21 ac] et  H  intellegentiam atque] animum intelligentiamqne  F  intellegen- tiamque  N  22 ipsa corpora  EFGHN  et om.  CFHLN (fort. recte) ,  del. Pm2  23 subsistentia  Ca.c.Gm2L  substantiae  Cp.c.FN (s. l . ł subsistentes) incorporalia  Gm2L   possint et separata a corporibus in sua incorporalitate perdurent, ut deus, mens, anima, alia uero cum sint incorporea, tamen praeter corpora esse non possint, ut linea nel superficies uel numerus uel singulae qualitates, quas tametsi incorporeas esse  pronuntiamus, quod tribus spatiis minime distendantur, tamen ita in corporibus sunt, ut ab his diuelli nequeant aut separari aut, si a corporibus separata sint, nullo modo permaneant, quas licet quaestiones arduum sit ipso interim Porphyrio renuente dissoluere, tamen adgrediar, ut nec anxium lectoris  animum relinquam nec ipse in his quae praeter muneris sus- cepti seriem sunt, tempus operamque consumam, primum quidem pauca sub quaestionis ambiguitate proponam, post uero eundem dubitationis nodum absoluere atque explicare temptabo. Genera et species aut sunt atque subsistunt aut  intellectu et sola cogitatione formantur, sed genera et species esse non possunt, hoc autem ex his intellegitur, omne enim quod commune est uno tempore pluribus, id unum esse non poterit; multorum enim est quod commune est, praesertim cum una eademque res in multis uno tempore tota sit.  quantaecumque enim sunt species, in omnibus genus unum est, non quod de eo singulae species quasi partes aliquas carpant, sed singulae uno tempore totum genus habent, quo fit ut totum genus in pluribus singulis uno tempore positum unum esse non possit; neque enim fieri potest ut, cum in  pluribus totum uno sit tempore, in semet ipso sit unum  1 a  om. CS, s. l. Em2  corporalitate  ELS  3 possunt  ELNPR  4 tamenetsi  Ca.c . (tam  ras. ex  tam)  L  tam si  Em1  tamensi  GRS  5 quod] eo quod  L  tamen  om. G tam N  6 uti  EGLPa.r.RS  ante diuelli add. aut  Hm1, del. m2  7 a  om. ERS ,  s. l. Gm2  separatae  ex  -ta  H  8 quaestiones licet  FHLPN  9 rennuente  Ca.r.Ga.c.LNS ut] ita ut  R  13 dubietatis  L  exsoluere  CF  14 atque] et  EGLPRS  15 solo ( s. l. Pm2 ) et  FHNP  17 uno tempore pluribus] multorum uno tempore  N  18 est ( s. l. m2 ) enim  G  19 tota sit] transit  F 20 est unum  Fm2H  21 non,  s. l . quod  S , ut non  CHm1N  22 carpunt  RS  capiant  F  participant  Nm1  habeant  Hm2Lm2P  24 possunt  F  possint  S  enim  om. FN. del. L  25 unoque  Gm2  sit uno  FHN  tempore  in mg. Gm2   numero, quod si ita est, unum quiddam genus esse non poterit, quo fit ut omnino nihil sit; omne enim quod est, idcirco est, quia unum est. et de specie idem conuenit dici, quodsi est quidem genus ac species, sed multiplex neque unum numero, non erit ultimum genus, sed habebit aliud super-  positum genus, quod illam multiplicitatem unius sui nominis uocabulo includat, ut enim plura animalia, quoniam habent quiddam simile, eadem tamen non sunt, idcirco eorum genera perquiruntur, ita quoque quoniam genus, quod in pluribus est atque ideo multiplex, habet sui similitudinem, quod genus est,  non est uero unum, quoniam in pluribus est, eius generis quoque genus aliud quaerendum est, cumque fuerit inuentum, eadem ratione quae superius dicta est, rursus genus tertium uestigatur. itaque in infinitum ratio procedat necesse est, cum nullus disciplinae terminus occurrat, quodsi unum quiddam  numero genus est, commune multorum esse non poterit, una enim res si communis est, aut partibus communis est et non iam tota communis, sed partes eius propriae singulorum, aut in usus habentium etiam per tempora transit, ut sit commune  p. 55  ut seruus communis uel equus, aut uno ] tempore omnibus  commune fit, non tamen ut eorum quibus commune est, sub- stantiam constituat, ut est theatrum uel spectaculum aliquod, quod spectantibus omnibus commune est. genus uero secundum nullum horum modum commune esse speciebus potest; nara  1 numero] in numero  NR  quoddam  FS  quodque  N  quidem  R  5  ad  ultimum  s. l . maximum  E  super se (se  s. l. G ) positum  GR  6 sui]  LP edd . ui  cett . ( post  nominis  F ) hominis  R  7 uocabulo]  HLP edd., om. cett . concludat  H  concludit  Lm1  includat  m2  includit  R  12 requirendum  F  perquirendum  N  13 ratio  Hm1N  tertium genus  CL  14 nestigabitur  FH nestigabit  N  15 quodsi] quod  NR  quiddam] quoddem  (sic) R  17 si communis] sic omnis  F quae com- munis  CN  si  om. R   post post , communis est  add . ut puteus et (uel  H ) fons  CHNP (del. m2) ,  in mg. E, s. l. Lm2  18 proprie  CFLNR   post  singulorum  add . sunt  HP ,  s. l. Lm2 ,  post  sunt  s. l . ut puteus et fons  Pm2  19 habent  G  etiam om.  FNP  iam  LS  21 sit  NP  ( ras. ex  fit) est  R   ita commune esse debet, ut et totum sit in singulis et uno tempore et eorum quorum commune est, constituere ualeat et formare substantiam, quocirca si neque unum est, quoniam commune est, neque multa, quoniam eius quoque multitudinis  genus aliud inquirendum est, uidebitur genus omnino non esse, idemque de ceteris intellegendum est. quodsi tantum intel- lectibus genera et species ceteraque capiuntur, cum omnis intellectus aut ex re fiat subiecta, ut sese res habet aut ut sese res non habet nam ex nullo subiecto fieri intellectus  non potest —, si generis et speciei ceterorumque intellectus ex re subiecta ueniat, ita ut sese res ipsa habet quae intel- legitur, iam non tantum in intellectu posita sunt, sed in rerum etiam ueritate consistunt, et rursus quaerendum est quae sit eorum natura, quod superior quaestio uestigabat. quodsi ex re  quidem generis ceterorumque sumitur intellectus neque ita ut sese res habet quae intellectui subiecta est, uanum necesse est esse intellectum qui ex re quidem sumitur, non tamen ita ut sese res habet; id est enim falsum quod aliter atque res est intellegitur, sic igitur, quoniam genus ac species nec sunt  nec cum intelleguntur, uerus eorum est intellectus, non est ambiguum quin omnis haec sit deponenda de his quinque pro- positis disputandi cura, quandoquidem neque de ea re quae sit  1 sit]  s. l. Lm1? brm, om. cett . 2  post  tempore add. sit  Np, s. l .  Em2  3 conformare  N  substantias  FHNP   ante  si add. et  Hm1 ,  del. m2 ad  quoniam  s. l . quod  Hm2  4 multiplex  m2 in CEGP,Lm1  8 habeat  N  aut—habet  in mg. Gm2  ut  s. l. Lm2Sm2 9 habeat  N ,  post add . nanus est intellectus (Intellectus otn.  brm ) qui de nullo subiecto capitur  in mg. Lm2, s. l. Rm1?   brm  intellectus  post  potest  C  11 ipsa res  HLN  12  pr . in  om. ENR ,  s. l. F  13 etiam  om. CL  14 uestigabit  Lm2  inuestigabat  F  17 esse  post  intellectum  F ,  post  uanniu  N ,  om .  R  18 enim falsum est  CKNP  est  om .  H ,  er .  L  enim  om. R  19 si  CNPS, m1 in   GHL , nec  R  igitur—intelleguntur  om . R quoniam om.  CN  ac] et  S  neque  FHN  quae  Sm1  20 neque  FH  cum  om. GLPS s. l. add. E, sed del . uerus] nec uerus  GLR  earum  HN  est eorum  CL  non] neque  N  22 fit  Lm2   neque de ea de qua uerum aliquid intellegi proferriue possit, inquiritur.  Haec quidem est ad praesens de propositis quaestio; quam nos Alexandro consentientes hac ratiocinatione soluemus. non enim necesse esse dicimus omnem intellectum qui ex  subiecto quidem fit, non tamen ut sese ipsum subiectum habet, falsum et uacuum uideri. in his enim solis falsa opinio ac non potius intellegentia est quae per compositionem fiunt. si enim quis componat atque coniungat intellectu id quod natura iungi non patitur, illud falsum esse nullus ignorat, ut si quis  equum atque hominem iungat imaginatione atque effigiet Cen- taurum. quodsi hoc per diuisionem et per abstractionem fiat, non quidem ita res sese habet, ut intellectus est, intellectus tamen ille minime falsus est; sunt enim plura quae in aliis esse suum habent, ex quibus aut omnino separari non possunt  aut, si separata fuerint, nulla ratione subsistunt. atque ut hoc nobis in peruagato exemplo manifestum sit, linea in corpore quidem est aliquid et id quod est, corpori debet, hoc est esse suum per corpus retinet, quod docetur ita : si enim separata sit a corpore, non subsistit; quis enim umquam sensu ullo  separatam a corpore lineam cepit? sed animus cum confusas res permixtasque in se a sensibus cepit, eas propria ui et  4 Alexandro] testimonia Simplicii in Categ. Aristot. p. 50 a , 45 ss., Dexippi p. 50 b  15—31 (= p. 45, 12—28 Busse), Dauidis p. 51 b , 10 ss. (Brandis) adfert Prantl,  Gesch. d. Logik im Abendlande  I 623 n. 24.   6 sit  CEFH (ex  fit ) NPR ante  ut  add . ita  FN ,  s. l. Gm2Pm2 habeat  FHm1NP  7  post  uideri  add . ut si quis dicat lineam esse cum longitudine sine latitudine non est omnino falsum  F  8 compositionem] conjunctionem  EGLPRS, recte?  9 quisquam  HP quisque  N  ponat  H  intellectu] in intellectu  F  id  om. N  10 patiatur  NR  11  pr . atque] aut  N efficiet  L ( c  ex  g  m2)  efficiat  CF  effigiat  Sa.c . 12 haec  E   ad  abstractionera  s. l . ł (??)positionem  Lm2  ł abscisionem  Pm2  fit  R  13 ita  post  res  C, om. R  14 ille] ipse  R  16 ut  s. l. Cm2, del. Lm2 ,  post  hoc  F  17  ad  peruagato  s. l . ł uulgato  Pm2  18 hoc  om. F  est  om. ELS, s. l. Gm2 , et  F  19  ante  docetur  add . et  CHNP, in mg. Lm2  20 a  om. ERS, s. l. Gm2  21 anima  Em1Gm1Pm2Sm1  22  post  permixtasque  add . corporibus  brm  capit  C  eas  in mg. Hm2   cogitatione distinguit, omnes enim huiusmodi res incorporeas in corporibus esse suum habentes sensus cum ipsis nobis corporibus tradit, at nero animus, cui potestas est et disiuncta componere et composita resoluere, quae a sensibus confusa et  corporibus coniuncta traduntur, ita distinguit, ut incorpoream naturam per se ac sine corporibus in quibus est concreta, specnletur et uideat. diuersae enim proprietates sunt incorpo- reorum corporibus permixtorum, etsi separentur a corpore, genera ergo et species ceteraque uel in incorporeis rebus uel  in his quae sunt corporea, reperiuntur. et si ea in rebus incor- poreis inuenit animus, habet ilico incorporeum generis intel- lectum, si uero corporalium rerum genera speciesque perspexerit, aufert, ut solet, a corporibus incorporeorum naturam et solam puramque ut in se ipsa forma est contuetur, ita haec cum  accipit animus permixta corporibus, incorporalia diuidens spe- culatur atque considerat, nemo ergo dicat falso nos lineam cogitare, quoniam ita eam mente capimus quasi praeter corpora sit, cum praeter corpora esse non possit, non enim omnis qui ex subiectis rebus capitur intellectus aliter quam sese ipsae  res habent, falsas esse putandus est, sed, ut superius dictum  20 superius] p. 164, 8.   2 corpore  EGLRS  3 at nero  om. C  animi ( om . cui)  R  et  om. GRS, s. l. Lm2 post  disiuncta  add . ut equum et hominem quae iungi non patitur natura,  post  composita  add . ut corpus et lineam et  (sic)  disiungi natura non patitur R 4 a  s.l. m2 in EGLS  5  ante  incorpoream  add . in  FLNS  7 et] ut  S  sunt proprietates  CLR , add. ut equum et cetera R 8  ante  corporibus add. et C etiamsi  R  et,  s. l. si Cm2F separarentur  F (ra s. l.) R  separantur  Lm1N  9 ergo  om. FN, del. Lm2 , uero  H, s. l. Lm2 corporeis  Cm1GHLPa.c.R  10 incorporeis] corporeis  Cm1  11 animus inuenit  FHNP  post ilico add . ibi  F, s. l. Gm2 ,  add . quo  E, sed del . 12 incorporalium  Em1  speciesque] et species esse  F prospexerit  HR  14  ante  haec  add . et  H (del. m2) N, s. l. Cm2  animus cum accipit  F  15 accepit  Pm1S  animus  accipit C  post incorporalia  add . ea  CHm2LPN  diuisa  Gm2  16 desiderat  Em1Ga.c . falso  ante  dicat F  falsam   CGm1Lm1  ( post  nosl  NRS  17 capiamus  Cm2N  19 sese om.  F  ipsae  om .  H ,  s. l. Em2 , ipsa  F   est, ille quidem qui hoc in compositione facit falsus est, ut cum  p. 56  hominem atque equum | iungens putat esse Centaurum, qui uero id in diuisionibus et abstractionibus assumptionibusque ab his rebus in quibus sunt efficit, non modo falsus non est, uerura etiam solus id quod in proprietate uerum est inuenire potest.  sunt igitur huiusmodi res in corporalibus atque in sensibilibus, intelleguntur autem praeter sensibilia, ut eorum natura per- spici et proprietas ualeat comprehendi, quocirca cum genera et species cogitantur, tunc ex singulis in quibus sunt eorum similitudo colligitur ut ex singulis hominibus inter se dissi-  milibus humanitatis similitudo, quae similitudo cogitata animo ueraciterque perspecta fit species; quarum specierum rursus diuersarum similitudo considerata, quae nisi in ipsis speciebus aut in earum indiuiduis esse non potest, efficit genus, itaque haec sunt quidem in singularibus, cogitantur uero uniuersalia  nihilque aliud species esse putanda est nisi cogitatio collecta ex indiuiduorum dissimilium numero substantiali similitudine, genus uero cogitatio collecta ex specierum similitudine, sed haec similitudo cum in singularibus est, fit sensibilis, cum in uniuersalibus, fit intellegibilis, eodemque modo cum sensibilis  est, in singularibus permanet, cum intellegitur, fit uniuersalis. subsistunt ergo circa sensibilia, intelleguntur autem praeter corpora, neque enim interclusum est ut duae res eodem in subiecto sint ratione diuersae, ut linea curua atque caua, quae  1 cõpositionem  GHR  facit  post  hoc  H  2 quia  Gm1R  quod  Sm2  3 id  om. N, s. l. Em2H ,  post  diuisionibus  F assumptionibus  Em1Gm1P  atque assumptionibus  CL  5  post  solus  add . intellectus  F , scil, intellectas  s. l. Lm2  6 corporibus  FHN   post  sensibilibus  add . rebus  CHLNP  8  ante  genera  add . et  CFS ; et species et genera  R  11  post pr . simili- tudo  add . colligitur  N , scil, colligitur  s. l. Hm2Sm2  cognita  Cm1F  cognita uel cogitata  N  12 ueraciter  Lm2N  perfecta  Em1NP  sit  FN  13 in  om. C  14 earum]  Pp.c. (corr. m1?)  eorum  cett . 17 substantiarum  R  18 collecta cogitatio  Cm1LP  22 autem] tamen  R  23 eadem  Em1Gm1Ha.c . eidem  Gm2Lm1  fin eodem  m2 )  PR e * dem  (sic) S  in  ante  subiecto  s. l., post  eodem  er. uid. C, om. EGLPRS  24 sint  om. L concaua Cm2N  cauata  Lm1   res cum diuersis definitionibus terminentur diuersusque earum intellectus sit, semper tamen in eodem subiecto reperiuntur; eadem enim linea caua, eadem curua est. ita quoque generibus et speciebus, id est singularitati et uniuersalitati, unum quidem  subiectum est, sed alio modo uniuersale est, cum cogitatur, alio singulare, cum sentitur in rebus his in quibus esse suum habet. His igitur terminatis omnis, ut arbitror, quaestio dissoluta est. ipsa enim genera et species subsistunt quidem alio modo, intelleguntur uero alio, et sunt incorporalia, sed  sensibilibus iuncta subsistunt in sensibilibus, intelleguntur uero ut per semet ipsa subsistentia ac non in aliis esse suum habentia, sed Plato genera et species ceteraque non modo intellegi uniuersalia, uerum etiam esse atque praeter corpora subsistere putat, Aristoteles uero intellegi quidem incorporalia  atque uniuersalia, sed subsistere in sensibilibus putat; quorum diiudicare sententias aptum esse non duxi, altioris enim est philosophiae, idcirco uero studiosius Aristotelis sententiam executi sumus, non quod eam maxime probaremus, sed quod hic liber ad Praedicamenta conscriptus est, quorum Aristoteles  est auctor.   Illud uero quemadmodum de his ac de propo- sitis probabiliter antiqui tractauerunt et horum ma- xime Peripatetici, tibi nunc temptabo monstrare.    Praetermissis his quaestionibus quas altiores esse praedixit,  21—23] Porph. p. 1, 14—16 (Boeth. p. 25, 14—16).   1 earum]  HPp.c.(corr. m1?)  eorum  cett . 3 enim  om. LP  quippe  P, s. l. Lm2  concaua  Cm2N  eadcmque  FLRS  6  post  singulare  add . est  R, s. l. Sm2  9  post , alio] alio modo  LR  10  post  uero  s. l . praeter corpora  Pm2  11 subsistentia  in ras. E  substantia  GSm1  13  ante  esse  s. l . ea  E  praeter  s. l. Cm2  15  ante  sensibilibus  add . ipsis  G  16 dixi  Lp.c.Sa.c . 17 uero  s. l. Cm2  20 auctor est  CLP  est  om. G  21  ante lemma  ISTORIA  add. S, sic  ( uel  HIST-)  ante omnia paene lemmata uero] autem  Σ  post, de  om. E  22 pro- babiliter]  λογιχώτίρον   Porph. p. 1, 15  tractauerint  Cp c . GH X m1  23 monstrare (demonstrare  N ) temptabo  FLN  24  ante  Praetermissis  add . EXPOSITIO S,  sic paene ubique ante explicat, lemmatum  Missis  Sm1   exoptat mediocrem introductorii operis tractatum, sed ne haec ipsa sibi harum quaestionum omissio uitio daretur, apposuit quemadmodum de propositis tractaturus est, ex quorumque hoc opus auctoritate subnixus adgrediatur, ante denuntiat, cum mediocritatem quidem tractatus promittit detracta obscuri-  tatis difficultate, animum lectoris inuitat, ut uero adquiescat ac sileat ad id quod dicturus est, Peripateticorum auctoritate confirmat, atque ideo ait de his, id est de generibus et spe- ciebus, de quibus superiores intulerat quaestiones, ac de pro- positis, id est de differentiis, propriis atque accidentibus,  sese probabiliter disputaturum, probabiliter autem ait ‘ueri similiter’, quod Graeci  λογικώς  uel  Ινδόξως  dicunt, saepe enim et apud Aristotelem  λογικώς  ‘ueri similiter’ ac ‘probabi- liter’ dictum inuenimus et apud Boethum et apud Alexan- drum. Porphyrius quoque ipse in multis hac significatione hoc  usus est uerbo, quod nos scilicet in translatione, quod ait  λογικώς , ita interpretari ut ‘rationabiliter’ diceremus omisimus, longe enim melior ac uerior significatio ea uisa est, ut pro- babiliter sese dicere promitteret, id est non praeter opini- onem ingredientium atque lectorum, quod introductionis est  proprium, nam cum ab imperitorum hominum mentibus doc- trinae secretum altioris abhorreat, talis esse introductio debet,  p. 57  ut praeter opinionem ingredijentium non sit. atque ideo melius  1 haec  om. S  2 harum que  LS  horumque  Gm1  quaestionum] insti- tutionum  Gm1Lm1RS  omissi  Em1  omisso Lm1Sm1 amissio  F  3 est  s. l. Em2 , esset  Gm1  ex] et  FHN ,  s. l. (om . ex)  Em2  quo- rum  FHN  4 subnisus  EGm1Sm1  aggreditur  EGLPRS  8 et] ac  R  10 de]  R, om. cett . 11  post  ait  add . id est  C  12  λογιχώς  uel  ένδόξως ]  edd., ante   λογιχώς   add . uel  CGLPR ;  ΛΟΓ ΙΚΟΟ  uel  ΛΩΓΙ-  ΚΩΟ   uel alia sim. codd .; ΕΝ ΔΩ ΧΟΝ  C, sim. Η  endo ΧΩ Ο  E ΕΝ ΑΟΓΩ Ο  S, alia uarie cett . 13 et  om. GR  est  S   λογιχώς ]  S ,  in cett. eadem   fere quae 12  14 Boethum]  b  boetum  p  boethon  Em2GNS   (recte?)  boeton  CEm1PR  boethion  F  bethon  H boetoton  Lm1  boeten  m2  Boethum (-tium  m)rm  16 uerbo usus est  CEGLRS  17  λογιχώς ]  item ut   13 ,  λογικώτερον   edd . 19 se  L  *mitteret,  s. l . pro  Cm2  23 ingredientium opinionem  C  non  ante  praeter  CEG  ( corr. m2 )  L  atque ideo] ergo  Gm1  (atque ita  m2 )  LPm1RS  melius probabiliter quam om.  R, s. l. Gm2Sm2   probabiliter quam rationabiliter, ut nobis uidetur, inter- pretati sumus, antiquos autem ait de eisdem disputasse rebus, sed <se< eorum illum maxime tractatum insequi quem Peri- patetici Aristotele duce reliquerint, ut tota disputatio ad  Praedicamenta conneniat.    2 eisdem]  E  (eis  in ras .) hisdem  cett . disputasse  post  rebus  C ,  ante de eisdem  L , disputare  N  3 se  post  illum  add .  brm ,  post  sed  Brandt  sequi  CEm2HN  4 reliquerint]  Gm1HPp.r . relinquerint  FSm1P a.r . relinquerent.  R a. r.Sm2  reliquerunt  CEGmSLNRp.r . EXPLICIT (CΟΜ- MENTARIORV  add .  C , COMENTORVM  add. F , COMTV PLOLOGI,  sic, add . S) LIB. I. INCIPIT (LIB.  add. F ) II.(INCIPIT.  om. R ) CEFGPRS  ( uariis cum scripturis compendiisque), subscriptio deest in HLN     Quaeri in expositionum principiis solet, cur unum quodque ceteris in disputationis ordine praeponatur, uelut nunc in genere dubitari potest, cur genus speciei, differentiae, pro- prio accidentique praetulerit; de eo enim primitus tractat,  respondebimus itaque iure factum uideri; omne enim quod uniuersale est, intra semet ipsum cetera concludit, ipsum uero non clauditur, maioris itaque meriti est ac principalis naturae quod ita cetera cohercet, ut ipsum naturae magnitudine nequeat ab aliis contineri, genus igitur et species intra se  positas habet et earum differentias propriaque, nihilo minus etiam accidentia, atque ita de genere inchoandum fuit, quod cetera naturae suae magnitudine cohercet et continet, praeterea illa semper priora putanda sunt quae si auferat quis, cetera perimuntur, illa posteriora quibus positis ea quae ceterorum  substantiam perficiunt, consequuntur, ut in genere et ceteris, nam si animal auferas, quod est hominis genus, homo quoque, quod species est, et rationale, quod differentia, et risibile, quod proprium, et grammaticum, quod accidens, non manebit et  2 ante Quaeri  codd. et p exhibent idem lemma (sine inscript.) quod p. 171,10 habent, om. brm expositione  CGm1L  expositionis  S  prin- cipii  CGm1L  3 dispositionis  N  5 praetulerat  C tractat  in ras .,  s. l . scil, conamur  Em2  tractare  Em1Sm1  6 respondemus  F  8 clu- ditur (i  ex  e  m2 )  S  naturae] naturae suae  F  10 igitur] itaque  C  et  om .  CN  11 etiam minus  HS  12 etiam  om. R  etiam et  C  ita] idcirco  CE (in ras.) HLm2NP  ideo  F  inchoandum fuit] erat incho- andum  FHNP  13  ante cetera add . et  L  natura suae magnitudinis  FHN  coerceat et contineat  Lm2  14 priora] propria  LS  aufert  Ca.c . 19  ante  proprium  add . est  P, s. l. Lm2   post  gram- maticum  add . esse  FHP, s. l. Em2 post  accidens add.  est FP ,  ante N   interemptum genus cuncta consumit, si uero hominem esse constituas uel grammaticum uel rationale uel risibile, animal quoque esse necesse est. siue enim homo est, animal est, siue rationale, siue risibile, siue grammaticum, ab animalis  substantia non recedit, sublato igitur genere et cetera con- sumuntur, positis ceteris sequitur genus; prior est igitur natura generis, posterior ceterorum, iure est igitur in dispu- tatione praepositura.   Sed quoniam generis nomen multa significat hoc - est  enim quod ait : Videtur autem neque genus neque spe- cies simpliciter dici; ubi enim non est simplex dictio, illic multiplex significatio est —, prius huius nominis significationes discernit ac separat, ut de qua significatione generis tractaturus est, sub oculis ponat, sed cum neque genus neque species  neque differentia nec proprium nec accidens significatione simplici sint, cur de his tantum duobus, genere inquam ac specie, dixit non simpliciter dici, cum proprium, differentia atque accidens ipsa quoque sint significatione multiplici? dicen- dum est quoniam longitudinem uitans tantum speciem nomi-  nauit eamque idcirco, ne solum genus significationis esse multi- plicis putaretur, enumerat autem primam quidem generis signi- ficationem hoc modo;    Genus enim dicitur et aliquorum quodammodo se habentium ad unum aliquid et ad seinuicem collectio,  10 s.] Porph. p. 1, 18 (Boeth. p. 26, 1). 23—p. 172. 5] Porph. p. 1, 18—23 (Boeth. p. 26, 1—8).   1 esse  om. P  2  post  grammaticum  add . esse  FHP ,  s. l. Em2  3 esse  post est Gm2L ,  om. EGmIRS, post  esse  add . constituas  EP ,  s. l. Lm2 alt . est] sit  FHNP  5 et om.  FHNR  consummantur  S  9 enim est  L  10 ante Videtur  add . INCIPIT  Δ  DE GENERE  ΓΔΛΠ2Φ  Incipit diffinicio generis  Ψ   m. post., om. cett . autem  om. HN  12 est significatio  C  13 tractatus  R  14 est] sit  P  oculos  HN  neque genus  om. C  15  pr . nec  FHP  neque proprium neque  N  16 simplicia  G (a  add. m1 uel 2) LSm2  ac] et C 17 non] nec  G  18 atque om. C  19 est om.  G  20 solem  Gm1  21 quidem  om. C  24 ad] et ad  S  aliquod  EN P IIS  aliquem  in ras .  Cm2 ,  fort . aliquid  m1   secundum quam significationem Romanorum dicitur genus ab unius scilicet habitudine, dico autem Romuli, et multitudinis habentium aliquo modo ad inuicem eam quae ab illo est cognationem secundum diuisio- nem ab aliis generibus dictae.|   p. 58  Una, inquit, generis significatio est quae in multitudinem uenit a quolibet uno principium trahens, ad quem scilicet ita illa multitudo coniuncta est, ut ad se inuicem per eiusdem unius principium copulata sit, ut cum Romanorum dicitur genus; multitudo enim Romanorum ab uno Romulo uocabulum  trahens et ipsi Romulo et ad se inuicem quasi quadam nominis hereditate coniuncta est. eadem enim quae a Romulo societas descendit, Romanos inter se omnes uno generis nomine deuin- cit et colligat, uidetur autem secuisse hanc generis signifi- cationem in duas partes, cum copulatiuam coniunctionem  admiscuit dicens; genus dicitur et aliquorum quodam- modo se habentium ad unum aliquid et ad se inuicem collectio, tamquam et illud genus dicatur ad unum se aliquo modo habere et hoc rursus genus dicatur, quod ad se inuicem unius generis significatione coniuncti sint. hoc uero minime;  eadem enim a quolibet uno propagata societas et ad illum qui princeps est generis, totam multitudinem refert et ipsam  1 significationem] diffinitionem  Φ  romanura  Cm1G  2 scilicet  om. Porph. p. 1, 20  3  ante  inuicem  add . se  L   (s. l. m2) brm Busse; cf. p. 173, 12  4 eam quae] eamque  CR  5 dictae]  Hm1Lm2R \ m2 W  dictam  cett.; cf. p. 173, 14 et Porph. p. 1, 23 ( τού πλήθοος_ )  κεκλιμένοι»  7 uno  om. FGRS, s. l. Em2 , unum  H; cf. 21 ad  quem  s. l . ał quod  Lm2  8 est coniuncta  F  9 dicitur—Romanorum  in mg. E, s. l. Gm2, uerba  multitudo enim Romanorum  del. Lm2  11  post  trahens  add . sit  E (del.) G (del. m2), s. l. Lm2  12 ea  E (ras. ex eadem ) FHN  ab  CEH  14 colligit  CFPm2RS  alligat  L  16 genus  om .  H, s. l. N  dicitur]  edd., om. H  dici  cett. (s. l. N)  17 ad] et ad  S  aliquod  N  18 collectionem  FH  aliquo modo  om. EGRS 19 rursus  post  genus  C  rursum  S  dicatur—generis  om. GRSm1  dicatur unius generis  s. l. m2 20 coniunctiua  EGR  coniuncta  Sm2  sint]  NS  sunt  CFHLP ,  om. EGR post  minime  add . est  LPm2  22 refert—multitudinem  om. EGSm1, s. l. m2 (sed  praefert )   inter se multitudinem uno generis nomine conectit et continet. quocirca non est putandus diuisionem fecisse, sed omne quic- quid in hac generis significatione intellegendum fuit, aperuisse. ordo autem uerborum ita sese habet — qui est hyperbaton  intellegendus —: ‘genus enim dicitur et aliquorum ad unum se aliquo modo habentium collectio et ad se inuicem aliquo modo habentium’ — rursus ‘collectio’ subaudienda; est enim zeugma —, cuius significationis adiecit exemplum : secundum quam significationem Romanorum dicitur genus ab  unius scilicet habitudine, dico autem Romuli, et multitudinis rursus habitudine habentium aliquo modo ad inuicem cognationem, eam scilicet quae ab illo est, id est Romulo, secundum diuisionem ab aliis generibus dictae, scilicet multitudinis. haec enim multitudo aliquo  modo ad unum et ad se inuicem habens genus dicta est, ut ab aliis discerneretur, ut Romanorum genus ab Atheniensium ceterorumque separatur, ut sit integer uerborum ordo : ‘genus enim dicitur et aliquorum collectio ad unum se quodammodo habentium et ad se inuicem, secundum quam significationem  Romanorum dicitur genus ab unius scilicet habitudine, dico autem Romuli, et multitudinis secundum diuisionem ab aliis generibus dictae, habentium scilicet hominum aliquo modo ad inuicem eam quae ab illo est, id est Romulo, cognatio-  1 nomine]  EGLRS uinculo  CFHN  nomine uel uinculo P 4 se  FHNP  qui  om. ER, s. l. Gm2Sm2  6  pr . sese  L  7  ante collectio  s. l . et ( ut uid .)  C  subaudiendo  N ,  post  sub.  add . est  LR, ante s. l. Pm2  8 zeuma EFGHPS  14 dictam  EGm1Lm1PSm2  haec enim multitudo  om .  ERS, s. l. Gm2  aliquo modo  om .  FP, ante add . et  C, post add . se  P (del. m1?), s. l. Gm2H  15  post  unum  s. l . aliquid  Gm2 post  habens  add . cognationem  Pm2 edd . 17 separetur  Fa.c.N  separaretur  CFp.c.HLm1  sit] sic  H  (sit  post  uerborum,)  P  (sit  post  ordo,) sic sit  F ; integer sit  C ; ordo uerborum,  post repet . sit  N  18 collectio  om. E  20 ab] ad  F  habitudinem  F ,  post repetit uerba post . aliquo— exemplum  (6—8) G  22 dictam  CEGm1Lm1Sm2 post  habentium  add . se  Lm2P  23 id est  om. S, in quo post  cognationem locus p. 172, 4—13 secundum—deuincit et collegit  (sic) repetitus (5  dicta est,  12  ea  script.)   nem.’ Atque haec hactenus; nunc de secunda generis signi- ficatione dicendum est.   Dicitur autem et aliter rursus genus, quod est unius cuiusque generationis principium uel ab eo qui genuit uel a loco in quo quis genitus est. sic enim  Orestem quidem dicimus a Tantalo habere genus, Hyllum autem ab Hercule, et rursus Pindarum qui- dem Thebanum esse genere, Platonem uero Athenien- sem; etenim patria principium est unius cuiusque generationis, quemadmodum et pater. haec autem uide-  tur promptissima esse significatio; Romani enim sunt qui ex genere descendunt Romuli, et Cecropidae, qui a Cecrope, et horum proximi.    Quattuor omnino sunt principia quae unum quodque prin- cipaliter efficiunt. est enim una causa quae effectiua dicitur,  uelut pater filii, est alia quae materialis, uelut lapides domus, tertia forma, uelut hominis rationabilitas, quarta, quam ob rem, uelut pugnae uictoria. duae uero sunt quae per accidens unius  3—13] Porph. p. 1, 23—2, 7 (Boeth. p. 26, 8—16).   4 generationis  om .  A ,  in ras. C  quae  Gm1 ll m1  5 a loco] ab eo loco  CEGLRS;   Porph. p. 2, 1   άπ6 τού τόποα  sic  ex  si  Cm2  enim  in ras. Cm2  6 oresthē  C  oresten  LN ΣΝΑΣΦ  horestem  FH T  dicemus S genus habere  F  7 Hyllum]  Gm1  yllum  m2  illum ( ad quod  s. l . tan- talum  A m2 )  cett . autem  om. G  8  ante  Thebanum  add . dicimus  2  9 principium]  Porph. p. 2,4   αρχή τις ;  cf. infra p. 178, 17  10 et]  Ν Ψ   (er. uid.) brm, s. l .  Δ ,  om. cett. Busse; Porph. p. 2, 5   καί   om. codd. quidam (habet M) ;  cf. p. 176, 1  11 esse  om. H  sunt  om. EFG- ΗΝS ΑΑΣ ,  s. l. Lm2 ,  in mg .  U m2  dicuntur  edd.; Porph. p. 2, 6   λέγονται ;  cf. p. 176, 7  12 cecropides  Σ  13 a Cecrope] cecropis  Ea.c . (a cecropis  p.c .)  G  (cae-  m1  ci-  m2 )  R  ex genere descendunt cecropis  LS ΑΑΣ ,  s. l. Em2  ( om . cecropis),  fort. ex p. 176, 8 ;  Porph. Κ εκροπίδαι ol άπό Κέκροπος  eorum  HL A ,  in ras .  2  14 efficiunt principaliter  H  16 filii] et filius  Em1FGLPRS post  materialis  add . dicitur  FPR  17  ante  forma  add . a  R, s. l. Sm2, ras. in   E uelut *  (i  er .)  C  quam]  NS, om. R , quae  cett., fort. recte  ob rem  s. l. Rm2  18 pugnae uictoria]  N  pugna uictoriae  cett . duo  CNP  accidentes  Ea.c.GHm1  ( in mg . ał accidentialiter  m2 )  Lm1RSm2  accidentis  m1   cuiusque dicuntur esse principia, locus scilicet ac tempus. quoniam enim omne quod nascitur uel fit, in loco ac tempore est, quicquid loco uel tempore natum factumue fuerit, eum locum uel id tempus accidenter dicitur habere principium.  horum omnium in hac secunda generis significatione duo quae- dam ex alterutris assumit, quae ad significationem generis uidebuntur accommoda, ex his quidem quae principalia sunt, effectiuum, | ex his uero quae accidentia, locum. ait enim ‘genus  p. 59  dicitur et a quo quis genitus est’, quod est effectiua princi-  palium causa, ‘et in quo quis loco est procreatus’, quae est accidens causa principii. itaque haec secunda significatio duo continet, eum a quo quis procreatus est, et locum in quo quis editus, ut exempla quoque demonstrant. Orestem enim dicimus a Tantalo genus ducere; Tantalus quippe Pelopem,  Pelops Atreum, Atreus Agamemnonem, Agamemnon genuit Orestem. itaque a procreatione genus hoc dictum est. at uero Pindarum dicimus esse Thebanum, scilicet quoniam Thebis editus tale generis nomen accepit. sed quoniam diuersum est illud, a quo quis procreatus est, locusque in quo quis editus,  uidetur diuersa esse generis significatio procreantis et loci, quam in secunda scilicet parte enumerans unam fecit. sed ne uideretur duplex, per similitudinem coniunxit dicens : etenim patria principium est unius cuiusque generationis,  2 uel  in ras. E  et  C  3 quicquid  ex quo quid  Cm2, ante add . et  F, post add . enim  L  4 accidentaliter  CLN  accidentialiter  EGPSm2; cf. indicem Meiseri  5 ex alterutris duo quaedam  FP  6 consumit  S  sunt  Cm1H  sumit  Cm2, s. l. N  generis significationem  H  7 uidebantur  LPRS  uideantur  EG  accommodata  R  post quidem  add . causis  codd., om. unus F, del. Hm2  8  ante  effectiuum  add . sumit  H  accidentalia  N  9 dici CFNP  et  om. C, s. l. Lm2  quisque  CGRS  10 loco procreatus est  L  procreatus est loco  N  quod  GKS  13 editus] editus est  FHNP post  quoque  add . ipsa  FHP, s. l. Lm2  oresten  LN ,  item 16  14 pelopen  E  15 agamemnonen  EG  (-men) 17 quoniam] quia  FHN ante  Thebis  s. l. a Hm2?  18 editus] editus est  CL  accipit  C  est  om. G  19  pr.  quisque  R  editus] editus est  NP  (est  s. l. m2 ) 22  post  uideretur  add . tamen  EP, s. l. Lm2  adiunxit  FN  23 patria  s. l. Cm2, in mg. F  generati  Em1  generis  RSm1   quemadmodum et pater. sed quoniam in significationibus euenit fere, ut sit aliquid quod intellectui significatae rei pro- pinquius esse uideatur, quoniam duas generis apposuit signi- ficationes, multitudinis scilicet et procreantis, cui generis nomen conuenientius aptetur, iudicat atque discernit dicens  hanc esse promptissimam generis significationem quae a procreante deducta sit; hi enim maxime Cecropidae sunt qui a Cecrope descendunt, hi Romani, qui a Romulo. quae cum ita sint, confundi rursus generis significationes uidentur. si enim hi sunt maxime Romani qui a Romulo originem trahunt,  et haec significatio illa est quae a procreante deducitur, ubi est reliqua, quam primam quoque enumerauit, quae est ‘mul- titudinis ad unum et ad se inuicem quodammodo se habentium collectio’? sed acutius intuentibus plurimae admodum diffe- rentiae sunt. aliud est enim a quolibet primo procreante genus  ducere, aliud unum genus esse plurimorum. illud enim et per rectam sanguinis lineam fieri potest et non in multa diffundi, ut si per unicos familia descendat, huic enim aptabitur secunda illa generis significatio, quae a procreante deducitur; prima uero illa non nisi in multitudine consistit. illud quoque  est, quod prima procreationis principium non requirit, sed, ut ipse ait, sufficit aliquo modo se habere ad id unde huiusmodi generis principium sumitur, secunda uero significatio nullam uim nisi procreante sortitur. item in illa primae significationis multitudine huius secundae particularitas continetur, ut in  2 fere] saepe  C (ante  euenit ) LNPm2S  intellectu  G  signi- ficandae  FRSm2  propinquis  F  propinquus  Gm1PR  propinquum  N  3 quoniamque  Em2HLm2P, post  quoniam  add . qui  Sm1, del. m2  4 generi  EGH  (s  er .) 6 esse  om. G  7 ducta  R  cecropides  R  8 Cecrope] cecropede  FR  (-ide)  post Romulo  add . descendunt  N  9 significationes generis  C  11 ducitur  Lm1  15 est  s. l. F, post  enim  CL  enim  om. N  aliquolibet ( om . a)  G  16 deducere  CLm1  et  om. N  18 si  s. l. Lm2, del. Sm2 per—descendat] puer unicus familiam distendat  Cm1FHN  aptatur  N  21 est] est intellegendum C  primae  Hm2  24 <a> procreante  Engelbrecht  prima  EGHLm1RS   Romanorum genere Scipiadarum genus; nam cum sint Romani, Scipiadae sunt. quoniam enim ad Romulum et ad ceteros Romanos secundum Romuli habitudinem iuncti sunt, Romani sunt, Scipiadae uero dicuntur ad secundam generis significa-  tionem, quia eorum familiae Scipio et sanguinis principium fuit.    Et prius quidem appellatum est genus unius cuius- que generationis principium, dehinc etiam multitudo eorum qui sunt ab uno principio, ut a Romulo; namque  diuidentes et ab aliis separantes dicebamus omnem illam collectionem esse Romanorum genus.    Sensus facilis et expeditus, si tamen ambiguitas una sol- uatur. cum enim prius multitudinis significationem retulerit ad generis nomen, post autem ad procreationis initium, nunc  contrario modo illam prius a se enumeratam significationem dicere uidetur quae est procreationis, illam uero posteriorem quae est multitudinis; quod contrarium uideri potest, si quis ad ordinem superius digestae disputationis aspexerit. sed hic non de se loquitur, sed de humani consuetudine sermonis, in  quo prius eam significationem generis fuisse dicit quae a procreante sit tracta, accedente uero aetate loquendi usu nomen generis etiam ad multitudinem habentem se quodam- modo ad aliquem fuisse translatum, hoc uero idcirco, quoniam  7—11] Porph. p. 2, 7—10 (Boeth. p. 26, 16—19).   1 nam] natura  CFL  2 scipiades  HNP ante pr.  ad  add . et  FHNP ,  s. l. Em2Lm2 post, ad om. L  4 scipiades  N  5 quia] quod  E  et  om. NP, s. l. Cm2  8 generationis  in ras. Cm2  generis  PR  9 nam- que ( sic etiam B Bussii )]  om .  ΛΦ , add.  Hm2 \ m2  nam  2  quam  edd. Busse; Porph. p. 2, 8   το πλήθ-ος—δ  10  post  aliis  add . generibus  F ,  s. l. Lm2  11 collationem  Λ  collectionem  post  esse  HP ; romanorum esse collectionem  F  12  post  facilis  s. l . est  Lm2Pm2  facile ( om . et)  FN  expeditur  FNPa.c . 13 retulerat  F  retulit  R  14  post , ad  om. FHNR, s. l. Sm2  post nunc  s. l . autem  Lm2  15 prius] posterius  CLm2NP  numeratam  N  16  post  uidetur  add . priorem  CGLNP  18 perspexerit  C  21 loquendique  CN  et  (s. l. m1?)  loquendi  H  23  ante  hoc  s. l . dicit  Lm1?, post  idcirco  in mg . dixit  Pm2   superius dixerat : haec enim uidetur promptissima esse significatio, ut ab hac, id est secunda, quam promptissimam significationem esse dixit, illa quoque nuncupata uideretur, quae est multitudinis. prius enim genus inter homines appel- latum est quod quis a generante deduceret, post autem factum  est, ut per loquendi usum etiam multitudinis ad aliquem  p. 60 quodammo|do se habentis genus diceretur propter diuisionem scilicet gentium, ut esset inter eas nominis societatisque discretio.   His igitur expletis uenit ad tertium genus quod inter philosophos tractatur cuiusque ad dialecticam facultatem multus  usus est. horum quippe generum historia magis uel poesis tractat exordium, tertium uero genus apud philosophos con- sideratur. de quo hoc modo loquitur :    Aliter autem rursus genus dicitur cui supponitur species, ad horum fortasse similitudinem dictum. et-  enim principium quoddam est huiusmodi genus earum quae sub ipso sunt specierum, uidetur etiam multi- tudinem continere omnem quae sub eo est.    Duplicem significationem generis supra posuit, nunc tertiam monstrare contendit, hanc autem ad superiorum similitudinem  1 superius] p. 174, 10. 14—18] Porph. p. 2, 10—13 (Boeth. p. 26, 19—23).   1 enim] autem  p. 174 , 10 2 secundum  GR  a  (s. l.)  secunda  E  5 quis  Cm2  prius  m1  7 duceretur  Cm1  diuisiones  EFHLm2NP  8 esset] est  (s. l.)  et  E  has  FH  9 expeditis  N  ad  om. F  10 cuius  CF  multus  post  usus  Lm1R , multum  G  11 poesi  Cm1  13 hoc]  2 litt. er. C  14 genus  ante  rursus  Λ ,  post  dicitur  Φ  cui—genus  (16) om. N, quod indicatur uoce  usque  addita  (dicitur usque earum);  sic  ( saepe etiam  usque ad)  paene constanter in N aliisque codd. ubi mediae lemmatum partes omissae sunt  15 ab.. similitudine  GL \ m2 \Z  16 eorum  A m2 A  earum—specierum]  Porph. p. 2, 12   τών δφ’ lauto  17 ipso  om .  h m1  se  m2Lp.c. \HA>  sunt add.  Gm2 \ m2  uideturque  brm Busse; Porph .  xai SoxeT xai  etiam] enim  F autem  Δ  18 omnem]  2  ( h m1 ß m1 ) omnium  CEGLPRS h m2 U m2  earum  FHN, s. l. post omnium  Lm2  sub eo est]  PA m1 AU m1 ST  est  Φ  sub eo (ipso  F \ m2  se  Lm2 ) sunt (est  E, s. l. G ) specierum  EFGHLNPp.c . (sunt eo sub  a.c .)  RS \ m2 U m2  sunt sub eo specierum  C; cf. Porph. p. 2,12 s . 19 pro- posuit  edd . 20 superiorem  FLm1Pm1   dictam esse arbitratur. superius autem dictae significationes sunt una quidem, cum nomen generis quadam principii anti- quitate ad se iunctam multitudinem contineret, alia uero, cum genus ab uno quoque procreante duceretur, quod eorum  quae procreantur principium est. cum igitur sint superius duae generis propositae significationes, tertium nunc addit de quo inter philosophos sermo est, illud scilicet cui sup- ponitur species, quod idcirco genus uocatum esse sub opinionis credit ambiguo, quoniam habet aliquam similitudinem supe-  riorum. nam sicut illud genus quod ad multitudinem dicitur, uno suo nomine multitudinem claudit, ita etiam genus plurimas species cohercet et continet. item ut genus illud quod secun- dum procreationem dicitur, principium quoddam est eorum quae ab ipso procreantur, ita genus speciebus suis est prin-  cipium. ergo quoniam utrisque est simile, idcirco nomen quoque generis etiam in hac significatione a superioribus mutuatum esse ueri simile est.    Tripliciter igitur cum genus dicatur, de tertio apud philosophos sermo est; quod etiam describentes adsi-  18—p. 180, 3] Porph. p. 2, 14—17 (Boeth. p. 26, 24—27, 2).   1 dictam esse arbitratur] ut dictum est  GRS  autem  om. C, s. l. Lm2, del. Pm2  dictae] duae  Lm1, ante  sunt  s. l . dictae  m2 , duae  ex  dictae  H (ras.) Sm2, ante  dictae  s. l. Pm2, ante  sunt  edd., post R  2 quidem  om. C  cum  in mg. Cm2  quae  m1N  quadam  om. EFG  quandam  H  qua  RSm1  antiquitatem  H  3 ad se iunctam]  CLm2  ad se et adiunctam  HN  ad se iniunctam  Sm1  ab uno quoque iniunctam  R  adiunctam  cett.; cf. p. 177, 2  continet  Cm1 (corr. in mg. m2) Nm2  aliam  G  4 deduceretur  E  5 qui  P  6 tertiam  et  qua  F  7  post  scilicet  add . genus  F, s. l. Sm2  8  ante  opinionis  add . suae  N, post CHLP, s. l. Em1?, in mg. Sm2  se  m1  9 creditur  Ca.r.FR  10 a multitudine  Ep.c.FHN  11 suo] sub  C  (nomine sub uno)  FHNPm2 ,  ex suo  EL  ita  in mg. Cm2, s. l. Nm2  13 est] esse  EGLm2RS  14  post  suis  add . constat  FHN, post genus  s. l. Em2  est]  CLm1P  esse  cett . 15 idcirco] id  C  nomen  post  generis  FHNP, post  quoque  L  16 in hac etiam  FHN  hanc significationem  CP  18 cum genus—sit  (p. 180, 2) om. N  dicitur  S A m1 /AS  19 etiam] etiam et  R   gnauerunt genus esse dicentes quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quid sit praedicatur, ut animal.    Iure tertium genus philosophi ad disputationem sumunt; hoc enim solum est quod substantiam monstrat, cetera uero  aut unde quid existat aut quemadmodum a ceteris hominibus in unam quasi populi formam diuidatur ostendunt. nam illud quod multitudinem continet genus, illius multitudinis quam continet substantiam non demonstrat, sed tantum uno nomine collectionem populi facit, ut ab alterius generis populo segre-  getur. item illud quod secundum procreationem dictum est, non rei procreatae substantiam monstrat, sed tantum quod eius fuerit procreationis initium. at uero genus id cui sup- ponitur species, ad speciem accommodatum speciei substantiam informat. et quia inter philosophos haec maxima est quaestio,  quid unum quodque sit — tunc enim unum quodque scire uidemur, quando quid sit agnoscimus —, idcirco reiectis ceteris de hoc genere quam maxime apud philosophos sermo est, quod etiam describentes adsignauerunt ea descrip- tione quam subter annexuit. diligenter uero ait describentes,  non definientes; definitio enim fit ex genere, genus autem aliud genus habere non poterit. idque obscurius est quam ut primo aditu dictum pateat. fieri autem potest ut res quae  1 esse  ante  genus  Pm1, post  dicentes  Σ  et  om. F  2 differentiis  R  quid]  iterum  quod  P  praedicetur  Γ  3 ut animal  om .  ΑΣ  5 est solum enim  CN  enim est solum  FP  6 existit  E  (it  in ras .)  GLPS  existet  Sm1  extitit  HN  <multitudo> a  Brandt  7 una... forma  EGRS  diuidantur  G  ostendit  EGLPm1S  8 multitudinis] multi- tudinem  G  12 procreantis  Nm1  13 atque  G  14 ad speciem  om. N  ad differentiam  Cm2FLm1Pm2 edd . 15 quaestio est  FHN  16 unum  om. EGRS  enim] etenim  FN  quodque unum  G  17 uidemur] debemus  E (in ras.) GPm1RS, post  uidemur  add . uel debemus  Hm1   del. m2 post  reiectis  add . quia non demonstrant substantiam  L  temptatis temporum  Sm1, del. m2  19  post  quod  add . genus  EPm1, del. m2  20 ait  ex  aut  Em1  addit  m2NP  addidit  F  21 ex] de  H  23 dictum  om. FH dictu  GLS  autem] enim  FNP   alii genus sit, alii generi supponatur, non quasi genus, sed tamquam species sub alio collocata. unde non in eo quod genus est, supponi alicui potest, sed cum supponitur, ilico species fit. quae cum ita sint, ostenditur genus ipsum in eo  quod genus est, genus habere non posse. si igitur uoluisset genus definitione concludere, nullo modo potuisset; genus enim aliud quod ei posset praeponere, non haberet, atque idcirco descriptionem ait esse factam, non definitionem. descriptio uero est, ut in priore uolumine dictum est, ex proprietatibus infor-  matio quaedam rei et tamquam coloribus quibusdam depictio, cum enim plu|ra in unum conuenerint, ita ut omnia simul rei  p. 61  cui applicantur aequentur, nisi ex genere uel differentiis haec collectio fiat, descriptio nuncupatur. est igitur descriptio generis haec : genus est quod de pluribus et differen-  tibus specie in eo quod quid sit praedicatur. tria haec requiruntur in genere, ut de pluribus praedicetur, ut de specie differentibus, ut in eo quod quid sit. de qua re quoniam ipse posterius latius disputat, nos breuiter huius rei intellegentiam significemus exemplo. sit enim nobis in forma generis animal.  id de aliquibus sine dubio praedicatur, homine scilicet, equo, boue et ceteris. sed haec plura sunt. animal igitur de pluribus praedicatur, homo uero, equus atque bos talia sunt, ut a se discrepent, nec qualibet mediocri re, sed tota specie, id est tota forma suae substantiae. de quibus dicitur animal; homo  enim et equus et bos animalia nuncupantur. praedicatur ergo animal de pluribus specie differentibus. sed quonam modo fit  9 in priore uolumine] cf. p. 42, 8—43, 6 potius quam p. 153, 10 ss.; cf. Proleg. adn. 7.   1 genere  G post  supponatur  add . sed cum (alii  add. P ) subponi- tur ( uel  sup-)  CFHN, s. l. Pm2  non—potest  (3) del. E  2 col- locatur  CFHNPm2  non] enim  EF  7 ei (eius  HN ) aliud quod  HNPm1RS  possit  EGS  9 priori  LN  ex  om. GHS, s. l. Em2Lm2  11 plurima  L  plura  post  unum  C  16  post . ut  om. FG  18 late  E (in ras.) FHP, ecte ? 19 exemplo] hoc modo  CLP  20 prae- dicetur  CEGPm1RS ante  equo  add . et  FHLN, er. P  21 boue] et boue  L  et  er. uid. C  22 a] ad  Lm1S  23 mediocri re] medio- critate  H 24 forma tota  E (del. tota) G  26 fit  om. G   haec praedicatio? non enim quicquid interrogaueris, mox ani- mal respondetur : non enim si quantus sit homo interrogaueris, ‘animal’ respondebitur, ut opinor; hoc enim ad quantitatem pertinet, non ad substantiam. item si ‘qualis’ interroges, ne huic quidem responsio conuenit animalis, ceterisque omnibus inter-  rogationibus hanc animalis responsionem ineptam atque inu- tilem semper esse reperies, nisi ei tantum apta est quae quid sit interroget. interrogantibus enim nobis quid sit homo, quid sit equus, quid sit bos, ‘animalia’ respondebitur. ita nomen animalis ad interrogationem ‘quid sit’ de homine, equo atque  boue ac de ceteris praedicatur, unde fit ut animal praedicetur de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit. et quo- niam generis haec definitio est, animal hominis, equi, bouis genus esse necesse est. omne autem genus aliud est quod in semet ipso atque in re intellegitur, aliud quod alterius prae-  dicatione. sua enim proprietas ipsum esse constituit, ad alte- rum relatio genus facit, ut ipsum animal, si eius substantiam quaeras, dicam substantiam esse animatam atque sensibilem. haec igitur definitio rem monstrat per se sicut est, non tam- quam referatur ad aliud. at uero cum dicimus animal genus  esse, non, ut arbitror, tunc de re ipsa hoc dicimus, sed de ea relatione qua potest animal ad ceterorum quae sibi subiecta  2 non] num  FHN  rogaueris  Cm1GS  3  ante  animal  add . mox  F respondetur  F  ut] non  FHN  4  post  qualis  add . sit  FHNP, s. l. Em2, s. l . homo sit  Lm2 interroges]  Em1Lm1P  roges  cett . nec  CG  haec  CSm2  id  m1  hic  FN  5 interrogantibus  EG  6 ineptam]  CFHNPp.c.Lm2  idiotam  E (s. l. i . inertem  m2) GLm1 (s. l.  inpro- priam  m1?) Pa.c.S Hilgard  idiotam uel ineptam  R  idiotae  Engelbrecht  7 nisi] ni  C  8 interrogat  Em2HN  enim] autem  F post . quid] quidque  R  9 sit  om. E  animal  C  item  EGLm1PRS  11 ac] et  R  13  ante bouis  add . atque  FHNP  14 genus autem  C  15  ante  alterius  add . ad  CEm2HN  praedicationem  Em1PSm1 edd., post add . refertur  Pm2 edd . 18 dicas  Lm2  21 esse  om. EGRS, s. l. Lm2  re  om. EGR, s. l. Sm2 post  hoc  add . nomen  C, s. l .  Em2Pm2, ante FHNS  de  del. L, s. l. Pm2  22 relatione  in ras .  E  ratione  GLPm1R   sunt praedicationem referri. itaque character est quidam ac forma generis in eo quod referri praedicatione ad eas res potest, quae cum sint plures et specie differentes, in earum tamen substantia praedicatur.    Huius autem definitionis rationem per exempla subiecit dicens :    Eorum enim quae praedicantur, alia quidem de uno dicuntur solo, sicut indiuidua ut Socrates et hic et hoc, alia uero de pluribus, quemadmodum genera et  species et differentiae et propria et accidentia com- muniter, sed non proprie alicui. est autem genus qui- dem ut animal, species uero ut homo, differentia autem ut rationale, proprium ut risibile, accidens ut album, nigrum, sedere.    Omnium quae praedicantur quolibet modo, facit Porphyrius diuisionem idcirco, ut ab reliquis omnibus praedicationem generis seiungat ac separet, hoc modo. omnium, inquit, quae praedicantur, alia de singularitate, alia de pluralitate dicuntur.  7—14] Porph. p. 2, 17—22 (Boeth. p. 27, 2—7).   1  post  itaque  add . ut  P, s. l. Lm2 est  om. R, post  generis  F  quiddam  Ea.r.G  quidem  CNPm1  2 praedicatione  post  res  C  3 eo- rum  CGNS, m1 in ELP  4 tantum  E  substantiam  NR , -a  ex  -a  CS; cf. p. 187, 11. 18  5 autem  om. C, in mg. Lm2  8 indiuiduum  C  indibus ( s. l . indiuidua  Em2 ) diabus (a,  ex  e  E )  EG  ut Socrates— hoc  om. CLNP ,—risibile  (13) om. E (in mg . sicut socrates et hic et hoc)  GH  ut] sicut  Em2 (in mg.) RS ΑΣ  et hic et hec et hoc  F  9 uero  om. CFLNPR  autem  Σ  quemadmodum—risibile  (13) om. CL  ( sed uerba  est autem  11 —sedere 14  exhibet p. 184 , 14)  NP  ut genera, om. reliqua usque  accidens (13)  F  10 differentia  Sm1   m1  pro- prium  Γ  11 sed] et  ΛΣ  proprie]  L (p. 184, 14) R Ψ  propria  ΓΑΑΠ  ( ras. ex  -ae)  2  (a  in ras .)  Φ  ( post  alicui);  Porph. p. 2, 20   ιδίως est— risibile  om. R  est—sedere  (14) om. S  12 uero  s. l .  Δ m2 Φ m2  13  ante  accidens  add . ut  CL  ut] id est  CLm2P  uel  E  et  R; Porph. 2,22   otov  14  ante  nigrum  add.  et  R  16 a  LPS  17  post separet  add . et  (F)  id facit  FHN, s. l. Em2  18  pr . alia] alia quidem  FHN  alia de singularitate  om. G, s. l. Em2, post  pluralitate  CLm1 post . alia] alia uero  FHNS  dicuntur] praedicantur  post singularitate  FHN   de singularitate uero, inquit, praedicantur quaecumque unum quodlibet habent subiectum de quo dici possint, ut ea quibus singula subiecta sunt indiuidua, ut Socrates, Plato, ut hoc album quod in hac proposita niue est, ut hoc scamnum in quo nunc sedemus, non omne scamnum – hoc enim uniuersale  est —, sed hoc quod nunc suppositum est, nec album quod in niue est — uniuersale est enim album et nix —, sed hoc album quod in hac niue nunc esse conspicitur; hoc enim non potest de quolibet alio albo praedicari quod in hac niue est, quia ad singularitatem deductum est atque ad indiuiduam  formam constrictum est indiuidui participatione. alia uero sunt quae de pluribus praedicantur, ut genera, species, differentiae et propria et accidentia communiter,  p. 62  sed non proprie alicui. | genera quidem de pluribus praedi- cantur speciebus suis, species uero de pluribus praedicantur  indiuiduis; homo enim, quod est animalis species, plures sub se homines habet de quibus appellari possit. item equus, qui sub animali est loco speciei, plurimos habet indiuiduos equos de quibus praedicetur. differentia uero ipsa quoque de pluri- bus speciebus dici potest, ut rationale de homine ac de deo  corporibusque caelestibus, quae, sicut Platoni placet, animata sunt et ratione uigentia. proprium item etsi de una specie praedicatur, de multis tamen indiuiduis dicitur, quae sub conuenienti specie collocantur, ut risibile de Platone, Socrate et ceteris indiuiduis quae homini supponuntur. accidens etiam  1 uero  om. FHN  2 possunt  CLm1  3  ante Plato  add . ut  FH, s. l. Lm2  et  N edd . 4 quod] ut  F  ut] et  N  6 sed] sed et  F  7 niui  Gm2Sm1 enim est  FL  8 niui  Sm1, item 9  9 hac] alia  EFGR (a.c.ut uid.  ac  p.c.) Sm1  10  post , ad  om. GHLR, s. l. Em2Nm2 , in  FSm2  14 propriae  FGa.c.Sm1  propria  CHLN post  alicui  uerba lemmatis p. 183, 11—14  est autem—sedere  add. L  15 plurimis  FN  16  post  indiuiduis  add . suis  CFHP  17 qui] quod  FHN  19 praedicatur  FHN  20 potest dici  E  21 quae  om. R, s. l. Sm2 q.  er. N  22 item] autem  Lm2P  specie  om. C  23 tamen  ante  de  H  25  post  indiuiduis  add . dicitur  CLP, s. l. Hm2  hominibus  EG  homini *   ( b. ? er.) L  supponantur  Em1GS  supponuntur  ante homini  C   de multis dicitur; album enim et nigrum de multis omnino dici potest quae a se genere specieque seiuncta sunt. sedere etiam de multis dicitur; homo enim sedet, simia sedet, aues quoque, quorum species longe diuersae sunt. accidens autem  quoniam communiter accidens esse potest et proprie alicui, idcirco determinauit dicens et accidentia communiter, sed non proprie alicui. quae enim proprie alicui accidunt, indi- uidua fiunt et de uno tantum ualentia praedicari, ea quae communiter accipiuntur, de pluribus dici queunt. ut enim de  niue dictum est, illud album quod in hac subiecta niue est, non est communiter accidens, sed proprie huic niui quae oculis ostensionique subiecta est. itaque ex eo quod commu- niter praedicari poterat — de multis enim album dici potest, ut albus homo, albus equus, alba nix —, factum est, ut de  una tantum niue praedicari illud album possit cuius partici- patione ipsum quoque factum est singulare. omnino autem omnia genera uel species uel differentiae uel propria uel acci- dentia, si per semet ipsa speculemur in eo quod genera uel species uel differentiae uel propria uel accidentia sunt, mani-  festum est quoniam de pluribus praedicantur. at si ea in his speculemur in quibus sunt, ut secundum subiecta eorum formam et substantiam metiamur, euenit ut ex pluralitate praedicationis ad singularitatem uideantur adduci. animal enim,  3 enim  om. C  et  (s. l. m2)  enim  L  sedit  CN  simia]  post  sedet  FH  et simia  R  aues] auis  N  set et aues  F  sedet auis  H  4 quo- que  om. FN , uero  L  quarum  Lm1 post  sunt  s. l . sedent  Pm2  scil, sedent  Sm2  5  ante  communiter  add . et  FHN, s. l. Em2Pm2  7 propria  HN pr . alicui  om. GLR  quae  s. l. Sm2  cum  E (s. l. m2)FH  enim proprie  s. l. Em2Sm2  propria  N accidunt ali- cui  E  8 ea quae] et quae  E  ea quidem quae  N  eademque cum  P  et cum  F  cum  H  9 queunt  om. Em1G, s. l. Sm2  possunt  E m2 Pm1  (potest  m2 )  R  10 niui  Sm1  niue est subiecta  HL  niui  Sm1  nunc  G  12 ostensione  GRS  ita *  (q.  er .)  C  ita quoque  Sm2, ad  itaque  s. l . quoque  Hm2  15 niui  GSm1  17 differentias  CE  (s  in er . e?)  GL  20 quoniam] quod  G  21 ut] et  FN subiectam  CEGH a.r.Lm1PSm2  22 substantiamque ( om . et)  FHNP  metiantur  E  mentiamur  Ca.r.Sa.c . eueniet  HN  pluritate  Gm1P   quod genus est, de pluribus praedicatur, sed cum hoc animal in Socrate consideramus — Socrates enim animal est —, ipsum animal fit indiuiduum, quoniam Socrates est indiuiduus ac singularis. item homo de pluribus quidem hominibus praedi- catur, sed si illam humanitatem quae in Socrate est indiuiduo  consideremus, fit indiuidua, quoniam Socrates ipse indiuiduus est ac singularis. item differentia ut rationale de pluribus dici potest, sed in Socrate indiuidua est. risibile etiam cum de pluribus hominibus praedicetur, in Socrate fit unicum. communiter quoque accidens, ut album, cum de pluribus  dici possit, in uno quoque singulari perspectum indiuiduum est. Fieri autem potuit commodior diuisio hoc modo. eorum quae dicuntur, alia quidem ad singularitatem praedicantur, alia ad pluralitatem, eorum uero quae de pluribus praedicantur, alia secundum substantiam praedicantur, alia secundum acci-  dens. eorum quae secundum substantiam praedicantur, alia in eo quod quid sit dicuntur, alia in eo quod quale sit, in eo quod quid sit quidem, genus ac species, in eo quod quale sit, differentia. item eorum quae in eo quod quid sit praedi- cantur, alia de speciebus praedicantur pluribus, alia minime;  de speciebus pluribus praedicantur genera, de nullis uero species. eorum autem quae secundum accidens praedicantur, alia quidem sunt quae de pluribus praedicantur, ut accidentia,  1 plurimis  R  5 si  s. l. Lm2Sm2  quae  et  est  om. F  est— indiuidua  in mg. Cm2  7 est  post  singularis  E  9 hominibus  om. FN praedicatur  CEGL (ante  hominibus) Pm1RS dici possit  N  in Socrate  om. ER  unica  Em1GS unicam  Lm1  unita  R  10 cum  s. l. Em2Sm2  11 possit dici  E  singulari] singulari corpore  CFHN perspectum]  CE (in ras.) FH, m2 in LPS  perspecta  Lm1 a.c . (perfecta  m1p.c .) R  perfectam  Pm1Sm1  profecto ( alt . o  in ras .)  N  profecto perfecta  G  in- diuidua  EGLm1RS  12  ante  eorum  add . ut  GRS, del. EL  13 dicun- tur] praedicantur  Pm2  praedicantur] dicuntur  L  ( ex  dicantur  m2 )  P  14 plurimis  R  praedicantur] dicuntur  N  17  pr . quod—differentia  (19) in ras. Em2 post , in eo—differentia  (19) om. GR  19 iterum  FN  20 pluribus (plurimis  H ) praedicantur  FHN  21  post  speciebus  add . quidem  FHNP  pluribus  om. GRS, s. l. Lm2, post  praedicantur  Em1Fm1 23  post  pluribus  add . speciebus  CFHN, s. l. Em2   alia quae de uno tantum, ut propria. Posset autem fieri etiam huiusmodi diuisio. eorum quae praedicantur, alia de singulis praedicantur, alia de pluribus. eorum quae de plu- ribus, alia in eo quod quid sit, alia in eo quod quale sit  praedicantur. eorum quae in eo quod quid sit, alia de diffe- rentibus specie dicuntur, ut genera, alia minime, ut species, eorum autem quae in eo quod quale sit de pluribus prae- dicantur, alia quidem de differentibus specie praedicantur, ut differentiae et accidentia, alia de una tantum specie, ut propria.  eorum uero quae de differentibus specie in eo quod quale sit praedicantur, alia quidem in substantia praedicantur, ut diffe- rentiae, alia in communiter euenientibus, ut accidentia. et per hanc diuisionem quinque harum rerum definitiones colligi possunt hoc modo. genus est quod | de pluribus specie differen-  p. 63   tibus in eo quod quid sit praedicatur. species est quod de pluribus minime specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur. differentia est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit in substantia praedicatur. proprium est quod de una tantum specie in eo quod quale sit non in sub-  stantia praedicatur. accidens est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit non in substantia praedicatur.  1 quae  om. FN  una  C (s. l. add . specie ) FHN  possit  FRS  potest  N  2 etiam  om. LP  4  post pr . sit  add . praedicantur  CFHNP, s.l. Lm2  6 specie] speciebus  Ea.r.FLNPS  7 autem  in mg. E, s. l. Lm2  9 accidentia et differentiae  C post  accidentia  add . communiter  Pm2   edd . 10 uero  om. GRS, in mg. Em2Lm2  quae  in mg. Em2  de differentibus specie  om. GLRS, in mg . de specie differentibus  Em2  de  om . C 11 substantiam  RSa.r . 12 conuenientibus  Pm2  13 de- finitiones] diuisiones  FHm1  14 specie differentibus  hic F, post quid sit  (15) cett.; cf. proxima et p. 193, 1  15 est] autem  E  18 substan- tiam  R  proprium—praedicatur  (20)] om. GR, in mg. Em2  proprium (uero  s. l. add. Lm2 ) est quod de pluribus minime specie differentibus in eo quod quale ait (sit  s. l. Lm2 ) non in substantia praedicatur  LPm2  non in substantiam praedicatur  Sm1, del. m2, in sup. mg . ( ante  non  inse- renda )  haec proprium est quod de pluribus specie minime differentibus,  deinde pauca uerba, quorum extremum  <praedi>cat<ur>,  cum mg. abscisa, sequuntur uerba  accidens est  (20) —praedicatur  (21) ,  m2  20  ante  specie  add . et  CE (del.) GLP    Et nos quidem has diuisiones fecimus, ut omnia a semet ipsis separaremus, Porphyrio uero alia fuit intentio. non enim omnia nunc a semet ipsis disiungere festinabat, sed tantum ut cetera a generis forma et proprietate separaret. idcirco diuisit quidem omnia quae praedicantur aut in ea quae de  singulis praedicantur, aut in ea quae de pluribus, ea uero quae de pluribus praedicantur, aut genera esse dixit aut species aut cetera, horumque exempla subiciens adiungit :    Ab his ergo quae de uno solo praedicantur, diffe- runt genera eo quod de pluribus adsignata praedi-  centur, ab his autem quae de pluribus, ab speciebus quidem, quoniam species etsi de pluribus praedican- tur, sed non de differentibus specie, sed numero; homo enim cum sit species, de Socrate et Platone praedicatur, qui non specie differunt a se inuicem,  sed numero, animal uero cum genus sit, de homine et boue et equo praedicatur, qui differunt a se inui- cem et specie quoque, non numero solo. a proprio uero differt genus, quoniam proprium quidem de una sola specie, cuius est proprium, praedicatur et de his  quae sub una specie sunt indiuiduis, quemadmodum  9—p. 189, 16] Porph. p. 2, 22—3, 14 (Boeth. p. 27, 8—28, 7).   2 separemus  GNRm1Sm1  porphirii  Lm1  fuit alia  CN  4 forma generis  H  separet  NPa.c.Sm1 ante  idcirco  add . hic  FRS  5 diuisit  s. l. Em2  separauit  m1  quidem  s. l. R, ante  diuisit  L  6 praedicarentur  FHLm2Pm2  plurimis  Em1Lm2  uero] autem  C  7 plurimis  FGm2N  praedicarentur  FHLm2  8 horum  F  9 Ab  om. GHP, s. l. ER  ergo] uero  H  praedicarentur  N  10 prae- dicantur  Em1GLm2PRSm2 Busse  11 ab his—accidens  (p. 189, 14) ]  Ω ,  om. cett., sed in S particulae lemmatis plerumque  HISTORIA  (cf. ad p. 167, 21) inscriptae uariis locis expositionis p. 189, 17—193, 16 insertae sunt, item particulae quaedam in L; quorum locorum lectiones hic pro- ponentur post . ab]  Ω   (etiam B Bussii)  a  edd. Busse  12  post  quidem  add . differunt genera  Γ  praedicatur  ΛΣ  13 sed non] sed  om .  Σ  non tamen  H m2 ‘i’  14 Platone] de platone  A  16 sit genus  Σ  17 boue] de boue  Γ  18 et om.  ΓΦ  non]  Porph. p. 3, 1   aX\’ οΰχί  solum  edd. cum Porph .  τώ άριθ·μώ μόνον  20 hiis  Φ  21 una  om. Porph. p. 3, 3   risibile de homine solo et de particularibus homini- bus, genus autem non de una specie praedicatur, sed de pluribus et differentibus specie. a differentia uero et ab his quae communiter sunt accidentibus differt  genus, quoniam etsi de pluribus et differentibus spe- cie praedicantur differentiae et communiter acciden- tia, sed non in eo quod quid sit praedicantur, sed in eo quod quale quid sit. interrogantibus enim nobis illud de quo praedicantur haec, non in eo quod quid  sit dicimus praedicari, sed magis in eo quod quale sit. interroganti enim qualis est homo, dicimus ratio- nalis, et in eo quod qualis est coruus, dicimus quo- niam niger. est autem rationale quidem differentia, nigrum uero accidens. quando autem quid est homo  interrogamur, animal respondemus; erat autem homi- nis genus animal.    Nunc genus a ceteris omnibus quae quolibet modo praedi-  3 specie  s. l .  Γ ,  om. optimi codd. Porph. p. 3,5, delend. uid. Bussio  5  locum  quoniam—animal  (16) post  genus  p. 193, 18 add. LS  etiamsi  LS sΠ*ΙΓ  specie differentibus  ΛΣ ;  Porph. p. 3, 6   διαφερόντων τψ ειόει  6 differentia  Lm2S  7 sed non]  Δ  ( ad  sed  s. l . id est tamen  m1? )  Π  ( ad  sed  s. l . uel tamen  m1? )  A Busse  tamen non  LS ΤΣΦ  non tamen  Ψ   edd.; Porph. p. 3, 8   άλλ’ οόκ ,  cf. supra p. 188, 13, infra 190, 12  7 sit  om. L  sed in eo quod quale quid sit]  codd. cum Porph. p. 3, 8 codicib. Lm2Mm2   άλλ’ έν τψ όποιον τ£ έστιν ,  delend. uid. Bussio  8 quid  om. S Φ  interrogantibus—sit  (11) om .  Φ  ad interrogantibus  s. l . uel interrogati  Δ  nobis]  LS A m2 Ii   (del. m2) Busse  nos  A m1 (enim  post  nos,)  Ψ ,  om .  ΓΔ2  ( decst   Φ );  Porph. p. 3, 8   έρωτησάντων γάρ ήμών  uel  τινών   codd . 9  post  illud  s. l . quomodo  (m1?)  uel de quo  (m2)   Δ  haec  s. l. Lm2  10  post  quale  add . quid  Π (del. m2)   Ψ m Busse, om .  LS VM pbr, om. etiam p. 194, 7 (cf. p. 195, 4. 196, 8. 15) , aliquid  s. l .  Λ  ( deest   Φ );  Porph. p. 3, 10   έν τψ ποιόν τί έατιν  11 interroganti]  ΑΣ a.r . Ψ  interrogantibus  S interrogati  cett.; Porph. p, 3, 10   έν γάρ τψ έρωταν  12. dicimus]  Π m2 ΣΨ ,  om .  Φ , dicitur  cett.; Porph. p. 3, 11   οομέν  14 autem  om. N  quid est] quidem  FN  qui  Gm1, s. l . est  m2  quod est  L 15 interrogamus  P A ,  m1 in   EGR Z  interrogemus  S  erat]  RS, m1 in Ρ ΔΛ , est  1  erit  cett.; Porph. p. 3, 13   vjv  genus ho- minis  Σ   cantur separare contendit hoc modo. quoniam enim genus de pluribus praedicatur, statim differt ab his quidem quae de uno tantum praedicantur quaeque unum quodlibet habent indiui- duum ac singulare sublectum; sed haec differentia generis ab his quae de uno praedicantur, communis ei est cum ceteris,  id est specie, differentia, proprio atque accidenti idcirco, quo- niam ipsa quoque de pluribus praedicantur. horum igitur sin- gulorum differentias a genere colligit, ut solum intellegendum genus quale sit sub animi deducat aspectum, dicens : ab his autem quae de pluribus praedicantur, differt genus,  ab speciebus quidem primum, quoniam species etsi de pluribus praedicantur, non tamen de differentibus specie, sed numero. species enim sub se plurimas species habere non poterit, alioquin genus, non species appellaretur.  p. 64  si enim genus est quod de pluribus specie | differentibus in eo  quod quid sit praedicatur, cum species de pluribus dicatur et in eo quod quid sit, huic si adiciatur ut de specie differenti- bus praedicetur, speciei forma transit in generis; id quoque exemplo intellegi fas est. homo enim praedicatur de Socrate, Platone et ceteris quae a se non specie disiuncta  sunt, sicut homo atque equus, sed numero : quod quidem habet dubitationem quid sit hoc quod dicitur numero differre. numero enim differre aliquid uidebitur quotiens numerus a  2 quidem  om. CHN  qui  G, ex  quae  Lm2  3  post praedicantur  add . ut socrates et hic et hoc  H  quae  CN  5 uno] uno solo  LS  est ei  L  est  om. CEHN  6  post  specie  add . et  FHP, s. l. Lm2  accidente  Lm2Pm1N  9 aspectum deducat  E  ab]  CL (s. l.) NSm2, om. cett . 10 autem] enim  P post  pluribus  add . id est ( add . specie,  sed   del. E ) ab his quae ( haec s. l. E ) de pluribus  Em2GPRS  11 a  R  primum  om. S, s. l. Lm2; deest p. 188, 12  12 praedicatur  S  non tamen] sed non  S  de  om. FHNP  15 plurimis  Em2GPRS  16 plurimis EGR  dicatur] praedicetur  C  praedicatur  edd . 19 fas est] placet  HNPm1 post  enim  s. l . cum sit species  Em2Pm2 (ex p. 188,14)  quod est species  Lm2  20 et ceteris  del. E  qui  Ep. c . disiuncta ( ad quod s. l . differunt)—equus  del. E  21  post  equus  add . uel bos  LP  23 differre  (in mg. H) post  aliquid  FHLN  aliquis  GS  quoties (-cies)  EPRS   numero differt, ut grex boum qui fortasse continet triginta boues, differt numero ab alio boum grege, si centum in se contineat boues; in eo enim quod grex est, non differunt, in eo quod boues, ne eo quidem : numero igitur differunt,  quod illi plures, illi uero sunt pauciores. quomodo igitur So- crates et Plato specie non differunt, sed numero, cum et So- crates unus sit et Plato unus, unitas uero numero ab unitate non differat? sed ita intellegendum quod dictum est numero differentibus, id est in numerando differentibus, hoc est  dum numerantur differentibus. cum enim dicimus ‘hic Socrates est, hic Plato’, duas fecimus unitates, ac si digito tangamus dicentes ‘hic unus est’ de Socrate, rursus de Platone ‘hic unus est’, non eadem unitas in Socrate numerata est quae in Pla- tone. alioquin posset fieri ut secundo tacto Socrate Plato  etiam monstraretur. quod non fit. nisi enim tetigeris Socratem uel mente uel digito itemque tetigeris Platonem, non facies duos, dum numerantur. ergo differunt quae sunt numero dif- ferentia. cum igitur species de numero differentibus, non de specie praedicetur, genus de pluribus et differentibus specie  dicitur, ut de boue, de equo et de ceteris quae a se specie inuicem differunt, non numero solo. tribus enim modis unum quodque uel differre ab aliquo dicitur uel alicui idem esse,  3 continet  EGLRS  differt  C, add . neque  CP, s. l. Hm2, s. l . nec  Lm2  4 ne—differunt]  H  ( post  quidem  del . haec  m2 )  N  igitur  om. EG  nec in eo  (recte?)  quidem differunt. Igitur numero differunt  L non nisi quidem numero. Igitur differunt numero  F  non nisi (eo  add. S, sed del .) quidem numero differunt  RS  Numero igitur (Igitur numero  C ) differunt,  cet .  om. CP  5 quomodo] quo  R  igitur] uero  C  6 specie—Plato  om. F  7  pr . unum  PS  8 differt  CEm2NPR post  intellegendum  add . est  CL  10 dum] cum  F  12  ante  rursus  s. l . et  S  14 possit  FLRS  posset fieri  in mg. Cm2 ut] in  Cm2Em2G  tactu socrates  Em1G  15  ante  etiam  add . et ( sed  et  in  etiam  del. uid. E )  EG demonstraretur  LP  19 speciebus  CFHN post  genus  s. l . quoque  Lm2  et  om. Em1  ( s. l . et de  m2 )  R  specie differentibus  EF  20  pr . de  om. CL  et  om. FH  de  s. l. Em2Lm2  ceterisque quae  F inuicem specie  FN   genere, specie, numero. quaecumque igitur genere eadem sunt, non necesse est eadem esse specie, ut si eadem sint genere, differant specie. si uero eadem sint specie, genere quoque eadem esse necesse est, ut cum homo atque equus idem sint genere — uterque enim animal nuncupatur —, differunt specie,  quoniam alia est hominis species, alia equi. Socrates uero atque Plato cum idem sint specie, idem quoque sunt genere; utrique enim et sub hominis et sub animalis praedicatione ponuntur. si quid uero uel genere uel specie idem sit, non necesse est idem esse numero, quod si idem sit numero, idem et specie  et genere esse necesse est; ut Socrates et Plato, cum et genere animalis et specie hominis idem sint, numero tamen reperiun- tur esse disiuncti. gladius uero atque ensis idem sunt numero, nihil enim omnino aliud est ensis quam gladius, sed nec specie diuersi sunt, utrumque enim gladius est, nec genere,  utrumque enim instrumentum est, quod est gladii genus. quoniam igitur homo, bos atque equus, de quibus animal praedicatur, specie differunt, numero ergo etiam eos differre necesse est. idcirco hoc plus habet genus ab specie, quod de specie differentibus praedicatur. nam si integram generis defi-  nitionem demus, dabimus hoc modo : genus est quod de plu-  1  ante  genere  add . id est  P, s. l. Hm2Lm2  genere—esse specie  om. EGRS numero] et numero  C  2 esse  post  specie  C, ante  eadem  FH  ut si—differant specie  om. FHNPm1 ,  in mg. add., sed del. m2  genere—eadem sint  om. C  3 sunt  F  4 est] esse ( idem ante necesse )  GSm1  sunt  EFGKHm1NRSm1  5 animalia  FHN  nuncupantur  FHNS  differentia  Hm1N  6 species  om. FG, ante  est  C  7 uterqne  EGLPRS, recte?  8 et  om. CP  sub hominis et  om. GLRS, s. l. Em2Pm2 post , sub  om. C  ponitur  Lm2Sm2  9 sit] sint  S  sunt  Fm1 (in mg . est m2) Nm1  10 quod si—necesse est  post  disiuncti  (13) transpos. et 13  enim  pro  uero  scr. brm 12 tamen] tantum  CLm1  15 diuersi *   (s er.) ,  om , sunt  C  est gladius  FN  16  ad  instrumentum  s. l . bellicum  Em2  17 bos  ante  homo  EG  atque bos  post  equus  FN  18 ergo  om. FHNP, del. Cm1? Lm1? Sm2  etiam  s. l. Lm1?  19  ante  id- circo  add . et  F, s. l. Sm2  ab specie  om. EGLS  a  R  de] a  R  ab  CEGLS  20  post  specie  s. l . quidem  L  definitionem ( uel  diff-) generis  FHNP  21 dabimus  om. EG  ( add . dicimus  post  modo)  RS, s. l. Lm2, post  modo  C   ribus specie et numero differentibus in eo quod quid sit prae- dicatur, at uero speciei sic : species est quod de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur. A proprio uero differt genus, quoniam proprium quidem  de una sola specie, cuius est proprium, praedicatur et de his quae sub una specie sunt indiuiduis. proprium semper uni speciei adesse potest neque eam relinquit nec transit ad aliam, atque idcirco proprium nuncupatum est, ut risibile hominis; itaque et de ea specie cuius est proprium  praedicatur et de his indiuiduis quae sub illa sunt specie, ut risibile de homine dicitur et de Socrate et Platone et ceteris quae sub hominis nomine continentur. genus uero non de una tantum specie, ut dictum est, sed de pluribus. differt igitur genus a proprio eo quod de pluribus speciebus praedi-  catur, cum proprium de una tantum de qua dicitur appelletur et de his quae sub illa sunt indiuiduis. A differentia uero et ab his quae communiter sunt accidentibus differt genus. differentiae atque accidentis discrepantiam a genere una separatione concludit. omnino enim quia haec in  eo quod quid sit minime praedicantur, eo ipso segregantur a genere; nam in ceteris quidem propinqua sunt generi, nam et  1 specie—differentibus] specie non (non  Lm2 s. l. et R  et  cum cett. P ) numero solo (solo  s. l. Lm2, om. P ) differentibus  LPR  2 plurimis  S  3 in—sit  om. HN  4 proprium] prius  S  proprium—praedicatur] pro- prium praedicatur et de una sola specie  C  quidem—est proprium  om .  G, s. l. Em2  quidem  om. etiam S  6  post  proprium  add . uero  N  enim  brm  7 uni  om. GS, post speciei  E (s. l. m2) HR  9  post  hominis  add . est  edd . 11 et] ut  RS  de  om. FN, s. l. Pm2  Platone] de platone  G  et ceteris] ceterisque  FHNP  12 qui  Em2  13 ut  s. l. Hm2Pm2  de  om. N  plurimis  CEm1GNR, add . et differentibus specie  S, in mg. Pm2  ( om . specie) 14 praedicetur  Lm2P  15  post  tantum  s. l . specie  Lm2  appellatur  FHm1NR  17 sunt accidentibus] accidunt  HN  18 genus]  cf. ad p. 189, 5; post locum p. 189, 5—16   uerba  Quare—praedicantur  p. 194, 20 s. add. L  discrepantia  FL  19 separatione  del. et s. l . diffinitione  Em2, post  separatione  add . uel definitione  Hm1, del. m2  20 sint  Em2HN  21 in]  CL (s. l. m2) N, om. cett .   de pluribus praedicantur et de specie differentibus, sed non  p. 65  in eo quod quid sit. si quis enim | interroget : qualis est homo? respondetur rationalis, quod est differentia; si quis : qualis est coruus? dicitur niger, quod est accidens. si autem interroges : quid est homo? animal respondebitur, quod est genus. quod  uero ait : haec non in eo quod quid sit dicimus praedi- cari, sed magis in eo quod quale sit, hoc magis quaesti- oni occurrit huiusmodi. Aristoteles enim differentias in sub- stantia putat oportere praedicari. quod autem in substantia praedicatur, hoc rem de qua praedicatur, non quale sit, sed  quid sit ostendit. unde non uidetur differentia in eo quod quale sit praedicari, sed potius in eo quod quid sit. sed sol- uitur hoc modo. differentia enim ita substantiam demonstrat, ut circa substantiam qualitatem determinet, id est substanti- alem proferat qualitatem. quod ergo dictum est magis, tale  est tamquam si diceret : uidetur quidem substantiam significare atque idcirco in eo quod quid sit praedicari, sed magis illud est uerius, quia tametsi substantiam monstret, tamen in eo quod quale sit praedicatur.   Quare de pluribus praedicari diuidit genus ab his  quae de uno solo eorum quae sunt indiuidua praedi- cantur, differentibus uero specie separat ab his quae  20—p. 195, 5| Porph. p. 3, 14—19 (Boeth. p. 28, 7—13).   1 plurimis  FH  3 respondebitur  R rationabilis  N  quis  om. R, post s. l . scil.  (om. brm)  interroget  Hm2brm post , est  om. HN  4 dicetur  FHN  interrogetis  N  9 autem] uero  FHN  10 qualis  Cm2FHP  16 tamquam] ac  F  20  uerba  Quare—praedicantur  (21) et p. 193, 18 et hic  ( hic om . praedicatur)  habet L, eadem iam ante lemma add. S  predicari  ex  preditur  Pm2  genus diuidit  hic L  hiis  F  21 sola  F  eorum—accidentibus ( p.195, 3 )]  Ω ,  in sup. mg . non sunt indiuidua  (21) — accidentibus  add. Lm2? dicuntur ut indiuidua quae de una solummodo substantia dicuntur  R, om. cett. codd . eorum quae sunt indiuidua  om. p. 193, 18 L  eorum  om. L (hic)   A  22  ante  differentibus  add . de  ΓΛΦ ; differentibus—quibus praedicantur  (195, 5) post  colligamus  p. 196,1 inseruit S, itaque uerba quae  (195, 3) —quibus praedicantur  (195, 5) et illic et hic  habet separatur  Φ ,  in mg . genus  add .  Γ   sicut species praedicantur uel sicut propria; in eo autem quod quid sit praedicari diuidit a differentiis et communiter accidentibus, quae non in eo quod quid sit, sed in eo quod quale sit uel quodammodo se  habens praedicantur de quibus praedicantur.    Tria esse diximus quae significationem hanc tertiam generis informarent, id est de pluribus praedicari, de specie differenti- bus et in eo quod quid sit. quae singulae partes genus a ceteris quae quomodolibet praedicantur distribuunt ac secer-  nunt, quod ipse breuiter colligens dicit; id enim quod de pluribus praedicatur, genus ab his diuidit quae de uno tan- tum praedicantur indiuiduo. indiuiduum autem pluribus dici- tur modis. dicitur indiuiduum quod omnino secari non potest, ut unitas uel mens; dicitur indiuiduum quod ob soliditatem  diuidi nequit, ut adamans; dicitur indiuiduum cuius praedicatio in reliqua similia non conuenit, ut Socrates : nam cum illi sint ceteri homines similes, non conuenit proprietas et praedi- catio Socratis in ceteris. ergo ab his quae de uno tantum praedicantur, genus differt eo quod de pluribus praedicatur.  restant igitur quattuor, species et proprium, differentia et acci-  6 diximus] p. 181, 15.   2 diuiditur  Φ ,  s. l . genus  add. Lm2  differentibus  S  3  ante  quae  add . et  CEGP  quae  om. R  non  om. S (hic)  quod] quia  R  4  post . sit]  Σ  est  cett; cf. p. 196, 8  quodammodo  in ras. Em2  quod ad modum  CG  quemadmodum  LP  quod a modo  R  quomodo  Ψ   edd. Busse ;  Porph. p. 3, 19   πώς ;  cf. supra p. 128, 10  5 praedicantur  om .  ΓΦ   ante  de quibus  add . de his  S  ( ad p. 194, 22 ) ab his  Σ  his  A  hiis  Φ  de quibus praedicantur]  S (ad p. 194, 22)   ΓΛ  (de  s. l .)  2Φ ,  om. cett . 7 informant  FHm1N post,  de]  Hm2LPm2, om, CEGNRS , sed  FHm1Pm1; cf. p. 181, 16  8 et  om. R  9 quolibet modo  CL  (modo  s. l. m2 ) N quo *** libet (libe  er. uid .)  F  praedicatur  GPm1  10 col- ligens breuiter  EGS  12 dicitur pluribus  C  13 non potest secari  CFN  14 indiuiduum—dicitur  (15) om. G  15 adamas  HLm1P  (-as  ras. ex  -ans), amans  R  18 ceteros  NP  20 igitur] ergo  FP dif- ferentiae  EHa.c.NP, ante add . et  H, s. l. Lm2   dens, quorum a genere differentias colligamus. singulis igitur differentiis ab his rebus segregabitur genus. ea quidem dif- ferentia qua de specie differentibus genus dicitur, separat ab his quae sicut species praedicantur uel sicut propria. species enim omnino de nulla specie dicitur, proprium uero de una  tantum specie praedicatur atque ideo non de specie differenti- bus. item genus a differentia et accidenti differt, quod in eo quod quid sit praedicatur; illa enim in eo quod quale sit appellantur, ut dictum est. itaque genus quidem ab his quae de uno praedicantur differt in quantitate praedicationis, ab  speciebus uero et proprio in subiectorum natura, quoniam genus de specie differentibus dicitur, proprium uero et species minime. item genus in qualitate praedicationis a differentia accidentique diuiditur. qualitas enim praedicationis quaedam est uel in eo quod quid sit uel in eo quod quale sit praedicari.   Nihil igitur neque superfluum neque minus con- tinet generis dicta descriptio.    Omnis descriptio uel definitio debet ei quod definitur aequari. si enim definitio definito non sit aequalis et si quidem maior sit, etiam quaedam alia continebit et non necesse est ut semper  definiti substantiam monstret; si minor, ad omnem definitionem  16 s.] Porph. p. 3, 19 s. (Boeth. p. 28, 13 s.)   1 quarum  Cm1Lm1 colligamus  ante  differentias  C  colligemus (e  ex  i)  H; cf. ad p. 194, 22  2 ea quidem—dicitur  om. S  3  post  differentibus  add . praedicari  edd . separat ab his]  FLm1R  dum separat ab his  S differt ab his  CN  differt  (s. l. Em2)  ab (a  L ) specie et proprio  HP ,  s. l. Lm2 (seperat—propria  [4] del. Lm2, om. P), s. l . et ab his  add .  Hm2, om. EG  separatur ab his  edd.; cf. p. 194, 20  4 praedicantur  post  propria  H  5 nulla] nulla alia  LS  8 enim] uero  FHN  10 a  LNR  13 ab  FHP  (b  er .) 15 praedicare  GR  16 Nihil  ex  Nil  Pm1? pr . neque  om .  ΛΛΠΣΨ   Porph. p. 3, 19 Busse, del .  Γ m2  17 genus  F  dicta  om. E, s. l .  Σ ,  post  descriptio  G locus Porph. p. 3, 19 s. plenior est (cf .  τής έννοιας ,  quod deest ap. Boeth.)  18 Omnis descriptio  in mg. Em2 (in contextu ras.), om. GR, s. l. Sm2 post  Omnis  add . enim  L, s. l. Sm2, post  debet  C (er.) EGR  19 definito  om. FPS  et  om. CFN  21 definitio ( uel  diff)  Ca.r.N post  si  s. l . sit  L  definitio  C  definiti ( uel  diff-)  Em2HN   substantiae non peruenit. omnia enim quae maiora sunt, de minoribus praedicantur, ut animal de homine, minora uero de maioribus minime; nemo enim uere dicere potest ‘omne animal homo est’. atque idcirco si sibi praedicatio conuertenda est,  aequalis oportebit sit. id autem fieri potest, si neque super- fluum quicquam habet neque di|minutum, ut in ea ipsa generis  p. 66  descriptione. dictum est enim esse genus quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicetur, quae descriptio cum genere conuerti potest, ut dicamus quicquid  de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicetur, id esse genus. quodsi conuerti potest, ut ait, nec plus neque minus continet generis facta descriptio.    1 substantiam  CEm2  4  pr . est  om. C  5 oporteat  EGHL  ( a del .)  PRS ante  sit  add . ut  E (in ras. m2) FLNPR, s. l. Cm2Hm2  6 habeat  R  diminutiuum  Em1  7 enim est  G  esse  s. l. Em2L, post  genus  Pm2  8 praedicatur  Em2FNa.c . 9  post  ut  s. l . si  Lm2  quicquid] quod  EGLm1RS  10 praedicatur  Em2 11 conuerti potest] * (ñ  er .) con- uertitur  C  conuertitur. est  F  conuerti (non  del .) potest  S neque— neque  FLm2P  nec—nec  HLm1  neque—nec  N  12 continet  s. l. Nm2   Sm2, om. F, post  generis  CEGL  facta] dicta  p. 196, 17  ANICII MANLII (MALLII  G ) SEVERINI BOETII V. C. ET I LL  EXCONS. ORD. PATRICII IN ISAGOGAS (YSAGOG.  E ) PORPHYRII ID EST INTRODVCTIONEM (introductiones  C ) A SE TRANSLATAS EDITI- ONIS SECVNDAE COMMENTARIVS SECVNDVS EXPLIC. (commen- tum in secdo lib. explic.  C, post  PORPHYRII  add . SCDE EXPOSITIO- NIS LIB. II. EXPLICIT  E ) INCIPIT LIBER TERTIVS  C  ( pleraque litt. minusc. scr .)  GE  ( uariis cum scripturis compendiisque ); sede trans- lationis comtarius expł incip lib IΙI.  L ; EXPL COMMENTARIVS. II. INCIPIT LIB TERTIVS. S; EXPLIC COMENTORV LIBER SCDS. INCIPIT TERTIVS N·, EXPLICIT LIBER SECDS. INCIPIT LIBER TERTIVS (TERCIVS LIBER  P )  FP ; INCIPIT LIBER TERTIVS  R ;  subscriptio deest in H     Superior de genere disputatio uideatur forsitan omnem etiam speciei consumpsisse tractatum. nam cum genus ad aliquid praedicetur, id est ad speciem, cognosci natura generis non potest, si speciei quae sit intellegentia nesciatur. sed  quoniam diuersa est in suis naturis eorum consideratio atque discretio, diuersa in permixtis, idcirco sicut singula in prooemio proposuit, ita diuidere cuncta persequitur. ac primum post generis disputationem de specie tractat. de qua quidem dubitari potest. si enim haec fuit ratio praeponendi generis  reliquis omnibus, quod naturae suae magnitudine cetera con- tineret, non aequum erat speciem differentiae in ordine trac- tatus anteponere, quod differentia speciem contineret, cura praesertim differentiae ipsas species informent. prius autem est quod informat quam id quod eius informatione perficitur.  posterior igitur est species a differentia, prius igitur de dif- ferentia tractandum fuit. etenim prooemio etiam consentiret, in quo eum ordinem collocauit quem naturalis ordo suggessit, dicens utile esse nosse quid genus sit et quid differentia. huic respondendum est quaestioni, quoniam omnia quaecumque  19 dicens] p. 147, 5. 7. 148, 17.   2 uidetur  CGHL, ras. ex  uideatur  PS  3 sumpsisse  CHN  5 ne- scitur  FHm1  7 mixtis  Fa.c.Lm1  8 posuit  H  diuidere  ante  ita  G, post  cuncta  CLP , diuise  HNa.c . prosequitur  Gm1PR  10 pro- ponendi  CFNR  genus  R  12 nonne  Em2FHPSm2 ante aequum  add . et  HP, s. l. Em2  speciei differentiam  EFHLm2P; cf. p. 239, 9  13 obtineret  CLm1 14 ipsae  CNP  est  s. l. Gm2Lm2  15 informet  E  16 post  Em1GLm1RS  igitur] ergo  C  a  om. CRS, er. L  17 ut enim  N  ut  CH  etiam  om. CF  18  post  quo  add . prius  CN  eam ordine  CFN quam  CFN  19  post  dicens  add . ubi ait  E  20  ante  huic  add . sed  E   ad aliquid praedicantur, substantiam semper ex oppositis sumunt. ut igitur non potest esse pater, nisi sit filius, nec filius, nisi praecedat pater, alteriusque nomen pendet ex altero, ita etiam in genere ac specie uidere licet. species quippe nisi  generis non est rursusque genus esse non potest, nisi referatur ad speciem; nec uero substantiae quaedam aut res absolutae esse putandae sunt genus ac species, ut superius quoque dictum est, sed quicquid illud est quod in naturae proprietate consistat, id tunc fit genus ac species, cum uel ad inferiora  uel ad superiora referatur. quorum ergo relatio alterutrum constituit, eorum continens factus est iure tractatus :   De specie igitur inchoans ait hoc modo.    Species autem dicitur quidem et de unius cuiusque forma, secundum quam dictum est : ‘primum quidem  species digna imperio’. dicitur autem species et ea quae est sub adsignato genere, secundum quam sole- mus dicere hominem quidem speciem animalis, cum sit genus animal, album autem coloris speciem, trian- gulum uero figurae speciem.    Sicut generis supra significationes distinxit aequiuocas, ita idem in specie facit dicens non esse speciei simplicem signi- ficationem. et ponit quidem duas, longe autem plures esse  7 superius] cf. p. 158, 3 ss. 180, 23 ss. 13—19] Porph. p. 3, 21— 4,4 (Boeth. p. 28, 15—21). 20 supra] p. 171, 9 ss.   1 positis  Gm1Sm1  3 nomen] non  Ea.c.Ga.c . 4 uideri  EP  8 in  om. R 9 consistit  CLNPSm2  constat  Em1  tum  R  ac] et  H  10 referuntur  FLm1  referantur  NS  refertur  Pm2R  11 continuus  CN  12  ante  De  add . sed  CH ,  m1 in LRS , si  E  de  ex  sed  Sm2  sed  del. Lm2Rm2  13  ante  Species  inscriptio  DE SPECIE (EXPLICIT DE GENERE. INCIPIT DE SPECIE  Ψ )  additur in   11  et  om. L  14 primum]  G edd . primi  L  primis  Sm1  priami  cett. Busse; Porph. p. 4, 1   πρώτον piv είδος άξιον τυραννίδος   (Eurip. Aeol. frg. 15, 2 N.) ;  cf . quemlibet illum  infra p. 200, 22  15  post  digna  add . est  HNPR AAΦ ,  s. l. LSm2, edd. Busse; om. Porph. post et ras., s. l . etiam  Γ  17 qui- dem  om. N, post add . esse  FR, s. l. L , esse  post  speciem  s. l. Pm2  cum—animal  om. S  18 autem  om. Ε   ΑΣ  20 ita  om. HN   manifestum est, quas idcirco praeteriit, ne lectoris animum prolixitate confunderet. dicit autem primum quidem speciem uocari unius cuiusque formam, quae ex accidentium congre-  p. 67  gatione perficitur. cautissime autem dictum est unius|cuius- que, hoc enim secundum accidens dicitur. quae enim uni  cuique indiuiduo forma est, ea non ex substantiali quadam forma species, sed ex accidentibus uenit. alia est enim sub- stantialis formae species quae humanitas nuncupatur, eaque non est quasi supposita animali, sed tamquam ipsa qualitas substantiam monstrans; haec enim et ab hac diuersa est quae  unius cuiusque corpori accidenter insita est, et ab ea quae genus deducit in partes. postremumque plura sunt quae cum eadem sint, diuersis tamen modis ad aliud atque aliud relata intelleguntur, ut hanc ipsam humanitatem in eo quod ipsa est si perspexeris, species est eaque substantialem determinat  qualitatem; si sub animali eam intellegendo locaueris, deducit animalis in sese participationem separaturque a ceteris ani- malibus ac fit generis species. quodsi unius cuiusque proprie- tatem consideres, id est quam uirilis uultus, quam firmus incessus ceteraque quibus indiuidua conformantur et quodam-  modo depinguntur, haec est accidens species secundum quam dicimus quemlibet illum imperio esse aptum propter formae  1 praeterit  CEGLPR  2 primo  FHNP  3 formam]  CN figuram  cett  5 haec  GL  ( s. l. add . species  m2 )  RSm1  uni  om. EGRS  6 ea  om. HN  7  ante species (specie  H )  add . ac  CHN  ex  om. CH  8 forma,  s. l . species  (m. 2) E pr . quae] sed quae  E  eaque] ea quae  EFGH   Lm1Sm2  9  post  sed  add . est  brm, post  qualitas  S  11 unius cuiusque corpori]  CNPm2R  in  (s. l. Lm2)  unius cuiusque (in  add. Lm1, del. m2 ) corpore ( ex  -ri  Lm2 )  FHLPm1  unius cuiusque (in  s. l. Sm2 ) corpore  EGS  accidentaliter  CLm2P  sita  FHLm1  si ita  Na.c . ea] hac  F  12 postremoque  CNPm2 (recte?)  postremo quoque  Rm1  postremum quae Rm2S  postremum  H  13 sunt  FH post  atque  add . ad  CHR  14 in- telligantur  LRm1  15 si  post humanitatem  FHN  respexeris  N  eaque]  Cm1N  ea quae  cett . determinet  R  16 eam  om. GPRS (recte?) ,  s. l. Em2  17 se  Lm1N  18 species generis  C  20 informantur  LPm2  21 accidentalis  Lm2Pm2  22 quamlibet  FLm1  quodlibet  Sm2  illum  om. CHLNP  illud  RS   eximiam dignitatem. huic aliam adiungit speciei significationem, id est eam quam supponimus generi. nos uero triplicem speciei significationem esse subicimus, unam quidem substantiae quali- tatem, aliam cuiuslibet indiuidui propriam formam, tertiam  de qua nunc loquitur, quae sub genere collocatur. creden- dum uero est propter obscuritatem eius quam nos adie- cimus, quia nimirum altiorem atque eruditiorem quaereret intellectum, ea tacita praetermissaque ceteras edidisse. cuius quidem speciei haec exempla subiecit, ut hominem quidem  animalis speciem, album autem coloris, triangulum uero figurae; haec enim omnia species nuncupantur eorum quae sunt genera, animal quidem hominis, albi autem color, trianguli figura.    Quodsi etiam genus adsignantes speciei meminimus dicentes quod de pluribus et differentibus specie in  eo quod quid sit praedicatur, et speciem dicimus id quod sub genere est.    Dudum cum generis descriptionem adsignaret, in generis definitione speciei nomen iniecit dicens id esse genus quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid ait prae-  dicaretur, ut scilicet per speciei nomen definiret genus. nunc uero cum speciem definire contendat, generis utitur nuncupatione dicens speciem esse quae sub genere ponatur.  13—16] Porph. p. 4, 4—7 (Boeth. p. 28, 21—23). 18 (dicens)—20] p. 180, 1 s.   3 subiecimus  CLN  substantialem  FLm2Bm2  4 indiuiduam  G  5 collocatur (-catur  in ras. m2) E  colligatur  GLm2  (colligitur  m1 ) Rm1s  6 est] est quod  EPRS  7 quia] quae  CN  quaerit  C  quaeret  Hm1N  8 praetermissa quae  Em1Sa.c . praetermissa  Rm1  dedisse  Gm1  edidisset  R, ante  edid.  add . ipsum  r  9 ut] et  EGLm1Ra.c.S  11 eorum quae]  CFHN  earum quae  EGR  earumque  LPS  12 trianguli figura]  Lm1  figura trianguli  Pm2  forma trianguli  HNPm1  trianguli forma  cett.; fort , trianguli >uero>;  cf. 10. 199, 19  13 Quodsi] Quid sit  FPm1  (Quod sit  m2 ) Quod  CL  Sic  Λ2  signantes  F  14 et  om. F, s. l. R  15 sit  om. ERS  praedicatur—quid sit  (19) om. N  id  s. l. Hm2  16 quod sub assignato genere ponitur (est  p )  edd., Porph. p. 4, 6   το όπό τό άποοοθ-έν γένος  19 et differentibus  p. 180, 1  20 genus definiret  C  21 nunc] nam  Cm1   cui quidem dicto illa quaestio iure uidetur opponi. omnis enim definitio rem declarare debet quam definitio concludit, eamque apertiorem reddere quam suo nomine monstrabatur. ex notioribus igitur fieri oportet definitionem quam res illa sit quae definitur. cum igitur per speciei nomen describeret  uel definiret genus, abusus est uocabulo speciei uelut notiore quam generis atque ita ex notioribus descripsit genus. nunc uero cum speciem uellet termino descriptionis includere, generis utitur nomine rerumque conuertit notionem, ut in generis quidem sit notius speciei uocabulum, in speciei autem descrip-  tione sit notius generis, quod fieri nequit. si enim generis uocabulum notius est quam speciei, in definitione generis speciei nomine uti non debuit. quodsi speciei nomen facilius intellegitur quam generis, in definitione speciei nomen generis non fuit apponendum. cui quaestioni occurrit dicens :   Nosse autem oportet <quod>, quoniam et genus ali- cuius est genus et species alicuius est species, idcirco necesse est et in utrorumque rationibus ntrisque uti.    Omnia quaecumque ad aliquid praedicantur, ex his de quibus praedicantur, substantiam sortiuntur; quodsi definitio unius  cuiusque substantiae proprietatem debet ostendere, iure ex alterutro fit descriptio in his quae inuicem referuntur. ergo quoniam genus speciei genus est et substantiam suam et  16—18] Porph. p. 4, 7—9 (Boeth. p. 28, 23—29, 1).   2  post , definitione ( uel  diff-)  CHNPm2  claudit  C  nec concludit  F  3 monstrabat  E  (-bat  ex  -batur?  m2 )  R  5 sit] est  FHN  6 notiorem  FR  8 uelit  FHNPm1  9 conuertit] uidetur conuertere  CHLm2P  genere  R  10  post  quidem  add . descriptione  CFHLN, in mg. Em2, fort. recte  autem] quidem  C  uero  FHNP  11 sit  om. G pr . genus  FH  16 autem  om. Porph . quod  add. edd.; Porph. p. 4, 7   είϊέναι χρή   ότι, έπεί χτλ . 17  pr . est  om. FN, s. l .  Λ ,  ante  alicuius  Σ  idcirco in utrisque necesse est utrorumque rationibus uti  Σ  18 et] hoc  N om .  FPSA S  neutrorumque  Em1  utrasque  Em1  utriusque  Λ  20  post  definitio  add . uel descriptio  CFHNP, s. l. Em2Lm2  22  ante  inuicem  add . ad  CL, s. l. Pm2 , ad se  F, s. l. Rm2  23  ante  substantiam  add . in  FHm1, del. m2 post , et  om. F, s. l. Hm2Sm2   uocabulum genus ab specie sumit, in definitione generis speciei nomen est aduocandum, quoniam uero species id quod est sumit ex genere, nomen generis in speciei descriptione non fuit relinquendum. quoniam uero diuersae sunt specierum  qualitates — aliae enim sunt species, quae et genera esse possunt, aliae, quae in sola speciei | permanent proprietate neque  p. 68  in naturam generis transeunt —, idcirco multiplicem speciei definitionem dedit dicens :    Adsignant ergo et sic speciem : species est quod  ponitur sub genere et de quo genus in eo quod quid sit praedicatur. amplius autem sic quoque : species est quod de pluribus et differentibus numero in eo quod quid sit praedicatur. sed haec quidem adsignatio specialissimae est et quae solum species est, aliae  uero erunt etiam non specialissimarum.    Tribus speciem definitionibus informauit, quarum quidem duae omni speciei conueniunt omnesque quae quolibet modo species appellantur, sua conclusione determinant, tertia uero non ita. cum enim duae sint specierum formae, una quidem,  cum species alicuius aliquando etiam alterius genus esse potest, altera, cum tantum species est neque in formam generis  9—15] Porph. p. 4, 9—14 (Boeth. p. 29, 2—7).   1 genus  om. H generis  FLS  ab  om. F a NR, s. l. Hm2  specie  s. l .  Hm2  species  F  definitionem ( uel  diff-)  FGHP  2  pr . est] fuit  Lm2  ( post  aduocandum)  Pm2  3 descriptione] definitione ( uel  diff-)  CFHLm2N  diffinicione uel descripcione  P  4 relinquendum] omittendum  FHN  uero  post  sunt  H  8 reddit  FN  9 ergo] uero  PLm2  autem  Σ  et er.  Λ  speciem sic  F  quae  CNR h m1  (quo  m2 )  ΛΣ 10 quo]  EGHLm2Pm1   >  qua  cett . 11 amplius—praedicatur  (13) om. L  12 et  om .  S  ac  EGRS 13  post  praedicatur  add . ut homo equs  (sic)  bos et asinus et cetera  C  14 specialissimae]  ΧΨρ (-me) specialissima  cett. codd. brm ;  Porph. p. 4, 12   aΰτη μέν ή άπόδοσις τού εΐδιχωχάτου άν εΐη  et  om .  FHR, s. l. Pm2, del. Sm2  sola  C  17 omnis  G  18 determinan- tur  Hm2  19  post  ita  s. l . est  Hm2  sint  om. Em1  sunt  CEm2GR   ante  specierum  add . species  Cm1, del. m2  20  post cum  s. l . sit  Lm2 ,  post  aliquando  EP   (del. m1?), post  species  s. l . scil. sit  N   transit, priores quidem duae, illa scilicet in qua dictum est id esse speciem quod sub genere ponitur, et rursus in qua dictum est id esse speciem de quo genus in eo quod quid sit praedicatur, omni speciei conueniunt. id enim tantum hae definitiones monstrant quod sub genere ponitur. nam et ea  quae dicit id esse speciem quod sub genere ponitur. eam uim significat speciei qua refertur ad genus, et ea quae dicit id esse speciem de quo genus in eo quod quid sit praedicatur, eam rursus significat speciei formam quam retinet ex generis praedicatione. idem est autem et poni sub genere et de eo  praedicari genus, sicut idem est supponi generi et ei genus praeponi. quodsi omnis species sub genere collocatur, mani- festum est omnem speciem hoc ambitu descriptionis includi. sed tertia definitio de ea tantum specie loquitur quae numquam genus est et quae solum species restat. haec autem species ea  est quae de differentibus specie minime praedicatur. nam si id habet genus plus ab specie, quod de differentibus specie praedicatur, si qua species praedicetur quidem de subiectis, sed non de specie differentibus, ea solum erit superioris generis species, subiectorum uero non erit genus. igitur praedicatio  ea quam species habet ad subiecta, si talis sit, ut de differen- tibus specie non praedicetur, distinguit eam ab his speciebus  2 ponitur—genere  (5) om. N  rursum  CR  3 quo]  Schepss  qua codd. et edd.; cf. p. 203, 10  4 praedicaretur  EGLRS  praedicetur  edd . 5 ponuntur  Cm2HN  6 speciem  om. Sm1  species  m2G post  eam  add . tantum  FHNP, s. l. Lm2  7 qua]  CNP  quae  cett . 8 quo]  p Schepss  qua  codd. brm; cf. 3  genus  s. l. Em2, ante add . species  G  praedicetur  FHLm2NP  praedicaretur  S  9 speciei  om. C  10 est  post  autem  E (s. l. m2) R  supponi EFGHLRS 11 generi] genere  CGm1  12 omnes  (sed  collocatur ) ELN  13  post  est  add . autem  CEGL (del. m2) S (del. m2)  15 est  om. EGS, ante  genus  ΗR , fit  L  per- stat  E ( pers  in ras.) HNa.c . 17 habet  ante  plus  FH, post N,  plus  post  habet  L  a  RS  18 si qua species  om. N praedicetur  om. N  praedicatur  Em1HSm2 post  subiectis  add . Species uero differentibus numero  N  19 de  om. N  21 de—non] non differentibus specie  N  22  ante  distinguit  add . sed hanc terciam,  sed del. E, post add . enim,  sed del. RS   quae genera esse possunt et monstrat eam solum speciem esse nec generis praedicationem tenere. illa igitur tertia de- scriptio speciei quae magis species ac specialissima dicitur, definitur hoc modo : species est quod de pluribus numero  differentibus in eo quod quid sit praedicatur, ut homo; praedicatur enim de Cicerone ac Demosthene et ceteris qui a se, ut dictum est, non specie, sed numero discrepant.  Ex tribus igitur definitionibus duae quidem et specialis- simis et non specialissimis aptae sunt, haec uero tertia solam  ultimam speciem claudit. ut autem id apertius liqueat, rem paulo altius orditur eamque congruis inlustrat exemplis :    Planum autem erit quod dicitur hoc modo. in uno quoque praedicamento sunt quaedam generalissima et rursus alia specialissima et inter generalissima et  specialissima sunt alia. est autem generalissimum quidem super quod nullum ultra aliud sit superueniens genus, specialissimum autem, post quod non erit alia inferior species, inter generalissimum autem et spe- cialissimum et genera et species sunt eadem, ad aliud  7 ut dictum est] p. 188, 13 ss. 12—p. 206, 18] Porph. p. 4, 14— 5,1 (Boeth. p. 29, 7—30, 2).   1 et  (s. l. m2)  monstrabat  S  monstratque  FHNP  solam  Sm2  3 speciei] solum species est  N  speciei—species ac] quae  (s. l. m2)  solum * species magisque  (in ras.)  species  H  4 hoc modo  in mg. Hm2   ante  species  add . Dicitur enim  FHP  et differentibus numero  p. 203, 12  6 Cicerone] socrate  N post  ac  add . de  R  8 duae—claudit]  C (om. pr . et)  E (in ras. m2) FH (solum)  LNP  duabus quidem et specialis- simas et non specialissimas species claudit  GR  una quidem et specialis- simam et non specialis ultimam speciem claudit  Sm1, del. et in mg. corr. m2  (apte sunt  post  duae quidem,) 10 id  om. LR  rem  om. EGS, s. l. Pm2, post  orditur  Lm2  12 in uno quoque—solum species  (p. 206, 17) ]  RS Q ,  om. cett . 14 rursum  Γ  et inter—alia  om. RS 15 sunt  om .  T m1, in mg.  scil. sunt ut corpus  m2 , est  ut uid .  Δ  16 super— ultra] ultra quod nullum  RS  ultra nullum  ΓΦ  17 specialissima  R  quod] quam  RS  18 autem  om .  Γ  19  ante  et genera  add . alia  p  alia sunt quae  brm; Porph. p. 4, 19   άλλα, α ν,α'ι  γένη   quidem et ad aliud sumpta. Sit autem in uno prae- dicamento manifestum quod dicitur. substantia est quidem et ipsa genus. sub hac autem est corpus, sub corpore uero animatum corpus, sub quo animal, sub animali uero rationale animal, sub quo homo, sub ho-  p. 69  mine uero Socrates et Plato et qui|sunt particulares homines. sed horum substantia quidem generalissi- mum est et quod genus sit solum, homo uero specia- lissimum et quod species solum sit, corpus uero species quidem est substantiae. genus uero corporis animati;  et animatum corpus species quidem est corporis, genus uero animalis. animal autem species quidem est cor- poris animati, genus uero animalis rationalis, sed rationale animal species quidem est animalis, genus autem hominis, homo uero species quidem est rationalis  animalis, non autem etiam genus particularium homi- num, sed solum species. et omne quod ante indiuidua proximum est, species erit solum, non etiam genus.    Praediximus ab Aristotele decem praedicamenta esse dis-  19 Praediximus] p. 151, 12.   1 quidem  post  eadem  R 5  ad  om .  Λ ,  s. l. R T  uno] uno quoque  R A  (quoque  er .)  Φ ,  ad uno  s. l . isto  A m2  2 est quidem]  R ΓΦ  est quiddam ( repet , est  S )  cett . 3 est  post  corpus  S, om .  Φ  5 uero]  RST iI   (s. l. m2)   Φ ,  om .  ΛΛΣΊ   Busse; Porph. p. 4. 23   δέ  6 uero]  codd. nostri, om. Busse; Porph. p. 4, 24   δέ   post , et  om. RS  7 eorum  RS  generalissimum]  codd. PQ (non L) Bussii edd . genera- lissima  codd. nostri; Porph. p. 4, 25   τό γινικώτατον  8 uero  om. R  9  ante  et  add . est  2   pr . specie  R  10 est  om .  2 ,  s. l .  Δ  11 et] sed et  brm, recte ut uid.; Porph. p. 4, 27   αλλά καί  est  om. R  12 animal autem] rursus animal  brm; Porph. p. 4, 28   κάλιν δέ to ζώον  13 uero] ΓΔ   (s. l. m2)   Π*!' ,  om. cett . animalis]  Δ   (s. l. m2)   ΣΊ ’ ( post  ratio- nalis).  om. cett.; Porph. p. 4, 29   γένος δέ τού λογικού ζώου  14 animal— est  om. R  15 autem] uero  RS  16 autem  del .  h m2 genus etiam  R  17 et  om. CEGP  indiuiduum  F  18 est  s. l. E  erit  CGR  solum species erit  LS  erit solum species  E  solum species est  CR  solum speciem non etiam genus esse liquet  G  19 Praedicimus  R, add.  etiam  L   posita, quae idcirco praedicamenta uocauerit, quoniam de ceteris omnibus praedicantur. quicquid uero de alio praedicatur, si non potuerit praedicatio conuerti, maior est res illa quae praedicatur ab ea de qua praedicatur. itaque haec praedicamenta  maxima rerum omnium, quoniam de omnibus praedicantur, ostensa sunt. in uno quoque igitur horum praedicamentorum quaedam generalissima sunt genera et est longa series spe- cierum atque a maximo decursus ad minima. et illa quidem quae de ceteris praedicantur ut genera neque ullis aliis sup-  ponuntur ut species, generalissima genera nuncupantur, idcirco quia his nullum aliud superponitur genus, infima uero quae de nullis speciebus dicuntur, specialissimae species appellantur, idcirco quoniam integrum cuiuslibet rei uocabulum illa sus- cipiunt quae pura inmixtaque in ea de qua quaeritur proprie-  tate sunt constituta. at quoniam species id quod species est ex eo habet nomen, quia supponitur generi, ipsa erit simplex species, si ita generi supponatur, ut nullis aliis differentiis praeponatur ut genus. species enim quae sic supponitur alii, ut alii praeponatur, non est simplex species, sed habet quan-  dam generis admixtionem, illa uero species quae ita supponitur generi, ut minime speciebus aliis praeponatur, illa solum spe- cies simplexque est species atque idcirco et maxime species et specialissima nuncupatur. inter genera igitur quae sunt generalissima et species quae specialissimae sunt, in medio  1 uocauit  Lp.c.P  dicuntur  N  3 poterit  CNSm1  res  om. E, sed   ras ., ratio  R  4  post , praedicatur] dicitur  HNP  5 maxime  Em1G a.c . 7 quaedam] quae  CFHN  genera  om. CN, ante  sunt  F  et  om .  CHN  8 maximis  CFHNPm2  11 quia] quoniam  HN  14 inper- mixtaque  Em2HPm2  intermixtaque  NPm1  de qua  s. l. Sm2  de quo  R  quae  E (ex alia uoce) N  15 at] ut  CFN  quod] quoniam  E  16 nomen  om. FN  quia] quoniam  F  17 aliis  om. C  18  ante  alii  add . generi  CL (del. m2), post s. l. P  19 simplex  om. GRS, s. l .  Em2Lm2  22 atque idcirco maxime (-ma  H ) species est (est  om. H )  in mg. Hm1?, s. l. Lm2 ante  species  add . est  P, post C, s. l. Lm2  24 specialissima  EGSm1  sunt  om. EG, s. l. Pm2, post  quae  L   sunt quaedam quae superioribus quidem collata species sunt, inferioribus uero genera. haec subalterna genera nuncupantur, quod ita sunt genera, ut alterum sub altero collocetur. quod igitur genus solum est, id dicitur generalissimum genus, quae uero ita sunt genera, ut esse species possint, uel ita species,  ut sint genera nonnumquam, subalterna genera uel species appellantur. quod uero ita est species, ut alii genus esse non possit, specialissima species dicitur.   His igitur cognitis sumamus praedicamenti unius exem- plum, ut ab eo in ceteris quoque praedicamentis atque in  ceteris speciebus in uno filo atque ordine quid eueniat possit agnosci. substantia igitur generalissimum genus est; haec enim de cunctis aliis praedicatur. ac primum huius species duae, corporeum, incorporeum; nam et quod corporeum est, substantia dicitur et item quod incorporeum est, substantia  praedicatur. sub corporeo uero animatum atque inanimatum corpus ponitur, sub animato corpore animal ponitur; nam si sensibile adicias animato corpori, animal facis, reliqua uero pars, id est species, continet animatum insensibile corpus. sub animali autem rationale atque inrationale, sub rationali homo  atque deus; nam si rationali mortale subieceris, hominem feceris, si inmortale, deum, deum uero corporeum; hunc enim mundum ueteres deum uocabant et Iouis eum appellatione  1 quidem  om. EG  collata]  FHm1NPm2  collatae  Cm2EGHm2  ( add . e,  sed exters .)  Lm2  collocata  Pm1 collocatae  Cm1Lm1RS (in ras.)  sunt species  CLR  2 haec] et  C  nominantur  FHNP  3 alterutrum  Ea.r.Pm1  alterutro  Pm2  5 ita  s. l. Em2Lm2, ante  ut  C  6 ut sint—est species  (7) s. l. Em2  9 igitur] ergo  E  11  ante  in  add . ut  Lm2Pm2  uno quoque  Em2H  (quoq.  del. m1 ?)  PRS quod  Ea.c .  GLm2Pm1R  14 duae  om. HN  sunt  add. C,s.l. Pm2, ante  duae  L post pr . corporeum  add . et  C, s. l. Pm2 , atque  FHN  15  ante post . substantia  add . et  ES (del) , ex  R  17 sub animato—ponitur  om. R post . poni- tur] collocatur  FHNP  18 adicies  RS  19 inanimatum  Cm1Lm2NPm2S  (in  s. l. minus cert .),  post add . et  s. l. Pm2  20  post  rationali  add . autem  L  22 feceris  om. GRS, s. l. Em2 , scil. fecisti ( ante  hominem)  s. l. Sm2  constituis  L post  uero  s. l . dico  Lm2, post  corporeum  Sm2  23 deum ueteres  LN   dignati sunt deumque solem ceteraque caelestia corpora, quae animata esse cum Plato, tum plurimus doctorum chorus arbitratus est. sub homine uero indiuidui singularesque homines ut Plato, Cato, Cicero et ceteri, quorum numerum pluralitas  infinita non recipit. cuius rei subiecta descriptio sub oculos ponat exemplum. |    substantia  p. 70  corporea | incorporea corpus animatum | inanimatum animatum corpus sensibile | insensibile animal rationale | inrationale rationale animal mortale | inmortale homo Plato | Cicero Cato    Superius posita descriptio omnem ordinem a generalissimo us- que ad indiuidua praedicationis ostendit. in qua quidem substantia generalissimum dicitur genus, quoniam praeposita est omnibus,  nulli uero ipsa supponitur, et solum genus propter eandem scilicet causam, homo autem species solum, quoniam Plato,  1 dignati sunt] designauerunt  Em2  deum quoque  HLm2P  2 cum] tum  Em2F  platone  Lm2PSm1  tunc  CGLSm1  4 cato  om. C, ante  plato  L , tito  N  5 oculis  CFP  6 ponit  Lm1 figuram supra de- pictam exhibent P (est altera de duabus ipsa quoque a m1 facta, prior minus dilucida est), nisi quod ad pr . animal  add . sensibile  et  rationale  post post . animal  pos., et E, in quo ordo nominum  cato plato cicero  est, simillima est in G, sed extrema pars  homo—Cicero  deest, et in H, nomina tamen  socrates plato cicero  sunt; in S uoces mediae tantum  substantia—homo  extant, sub uoce homo unum nomen est  FVLCO GONCŁ,  (explicare non potuimus); figura deest in CFLNR, in F post ponat exemplum  est  SVBSTANTIA 8 ad  om. H, s. l. Em2  indiuiduum  FLN  in qua] et  E  10 uero] ergo  H   Cato et Cicero, quibus est ipsa praeposita, non differunt specie, sed numero tantum. corporeum uero, quod secundum a sub- stantia collocatur, et species esse probatur et genus, substantiae species, genus animati. at uero animatum genus est animalis, corporei species. est enim animatum genus sensibilis, animatum  uero sensibile animal est; ipsum igitur animatum propter pro- priam differentiam, quod est sensibile, recte genus esse dicitur animalis. animal uero rationalis genus est et rationale mor- talis. cumque rationale mortale nihil sit aliud nisi homo, rationale fit animalis species, hominis genus. homo uero ipse  Platonis, Catonis, Ciceronis non erit, ut dictum est, genus, sed est solum species. nec solum differentiae rationalis species est homo, uerum etiam Platonis et Catonis ceterorumque species appellatur, propter diuersam scilicet causam. nam rationalis idcirco est species, quoniam rationale per mortale  atque inmortale diuiditur, cum sit homo mortale. idem nero homo species est Platonis atque ceterorum; forma enim eorum omnium homo erit substantialis atque ultima similitudo. est autem communis omnium regula eas esse species specialis- simas quae supra sola indiuidua collocantur, ut homo, equus,  coruus — sed non auis; auium enim multae sunt species, sed hae tantum species esse dicuntur —, quorum subiecta ita sibi sunt consimilia, ut substantialem differentiam habere non possint. in omni autem hac dispositione priora genera cum inferioribus coniunguntur, ut posteriores efficiant species; nam  1 Cato] tito  N  et  om. P, s. l. Lm2  5 corporis  FN  enim] autem  CLSm2  6 ipsum  post  igitur  FL (s. l. m2), om. EGRS  propter] praeter  H  7 quae  ER  8  post  rationale  add . est genus  R, s. l . scil. genus  L  11 Catonis  om. CLN  titonis  N ante  Ciceronis  add . et  CFHP  12 species est solum  C  13 catonis et platonis  CL  platonis titonis  N  15  post  rationalis  add . homo  G  16 homo  om. EGLS  17 atque] et  C  eorum enim  E  18 erit] est  FHNP  19  ante  om- nium  add . et  R post  regula  add . est  EG  esse  ante  eas  FNS   (s. l. m2), om. EGR  21 enim] uero  CEGLRS 22 haec  Gm1NR  hee  P  species  om. E  quarum  Em2FSm2  sibi  om. R  24 dis- putatione  F  25 iunguntur  CLm1  coniungantur  m2  efficiunt  Fa.c.Sm1  efficiat  m2   ut sit corpus substantia, cum corporalitate coniungitur et est substantia corporea corpus. item ut sit animatum, corporeum atque substantia animato copulatur et est animatum substantia corporea habens animam. item ut sit sensibile, eidem tria illa  superiora iunguntur. nam quod est sensibile, tantum est, quantum substantia corporea animata retinens sensum, quod totum animal est. item superiora omnia rationi iuncta effi- ciunt rationale postremumque hominem superiora omnia nihilo minus terminant; est enim homo substantia corporea, animata,  sensibilis, rationalis, mortalis. nos uero definitionem hominis reddimus dicentes animal rationale, mortale, in animali scilicet includentes et substantiam et corporeum et animatum atque sensibile. et in ceteris quidem speciebus atque generibus ad hunc modum uel genera diuiduntur uel species describuntur.  Quemadmodum igitur substantia, cum suprema sit, eo quod nihil sit supra eam, genus erat generalis- simum, sic et homo, cum sit species post quam non sit alia species neque aliquid eorum quae possunt diuidi, sed solum indiuiduorum| — indiuiduum enim est  p. 71   Socrates et Plato —, species erit sola et ultima species  15—p. 212, 18] Porph. p. 5, 1—16 (Boeth. p. 30, 2—20).   4 eadem  H  idem  ex  eidem  Lm2  6 retinet  CN  habens  L  7 ratio- nali  Pm2  coniuncta  HL  efficiuntur  Ea.r.GS  8 postremoque  CHNP (recte?)  postremum (-mo  L ) uero  LS  11  inter mortale  et  in animali  add . quia animal includit[ur] in se et substantiam et corporeum et animatum atque sensibile  R  12 atque] et  H  14 describuntur] dis- tribuuntur  FN  15 cum]  R (sed ante breuis ras.)   fi  quae cum  cett . (quae  del. et in mg. scr . parentesis  5 m2 ); an quae  scribend .? suprema  om. S  summa  G  16 eo quod] et  A a.c . nihil] nullum  N SA  sit  om. F, s. l .  Λ , est  post  eam  Λ2  erat]  RSm1  erit  m2F  sit  P  est  cett. codd .  edd. Busse; Porph. p. 5, 2   ήν  17 sic et—species dicitur  (p. 212, 15) ]  RS Q ,  om. cett . et] etiam  RS ΤΦ ,  glossa ut uid. ad  et  in   Π  18 alia] aliqua  RS; add . inferior  ΔΛΠΣ*Ρ   Busse, post  species  Γ ,  om. RS Φ   edd. Porph. p. 5, 3 aliud  R  19  post  diuidi  add . in species  edd., recte ut uid., etiam Bussio placet; Porph. p. 5, 3 χών χέμνεοΟαι ουναμένων εις είδη   post  indiuiduorum  add . species  R  20  post  Plato  add . et hoc album  brm, fort. recte; Porph. p. 5, 4   xat χοοχι χό λεοχόν  solum  R  solam  S   et, ut dictum est, specialissima. quae uero sunt in medio, eorum quidem quae supra ipsa sunt, erunt species, eorum uero quae post ipsa sunt, genera. quare haec quidem habent duas habitudines, eam quae est ad superiora, secundum quam species ipsorum esse  dicuntur, et eam quae est ad posteriora, secundum quam genera ipsorum esse dicuntur. extrema uero unam habent habitudinem. nam et generalissimum ad ea quidem quae posteriora sunt, habet habitudinem, cum genus sit omnium id quod est supremum, eam  uero quae est ad superiora, non habet, cum sit supre- mum et primum principium, specialissimum autem unam habet habitudinem, eam quae est ad superiora, quorum est species, eam uero quae est ad posteriora, non diuersam habet, sed etiam indiuiduorum species  dicitur, sed species quidem indiuiduorum uelut ea continens, species autem superiorum, uelut quae ab eis contineatur.    2 ipsa  om. R, post  sunt  Γ species erunt  RS; Porph. p. 5, 6   είη αν εϊδη  3 uero—sunt  om. S, s. l . autem quae sunt sub se erunt  m2  uero] autem  RSm2 V<]?}   fort. recte  post ipsa] sub ipsis  R  4 duas habent  ΔΛ2   Busse; Porph. p. 5, 7   έχει Sio σχέσεις  habentes  S  7 dicuntur esse  R  extremae (-me)  Sm1 h m1 A2 m2 b 8 habent unam  Δ  et generalissimum] id quod generalissimum est  RS; Porph. p. 5, 9   το τε γάρ γενιχώτατον  9 habet] habet unam  Δ  10 genus  post  omnium  R, post  sit  S Σ  id] hic  R  ea  R  11  post  uero  add . habitudi- nem  Γ  non habet  hic om., post  principium  add . non habet habitudi- nem  R, add . et (ut diximus) supra quod non est aliud superueniens genus  edd. cum Porph. p. 5,12  12  ante  specialissimum  add . et  brm   Busse, fort. recte, om. codd. (etiam LPQ Bussii); Porph. p. 5, 12   «ύ τί> είδιχώτατον δέ  specialissimam  R T m1  specialissima  S  autem] etiam  brm  13 eam  om. RS  14 posteriora] inferiora  RS 511 ,  recte ? 15 non diuersam]  Sm1 edd . quorum diuersam  A m1  non ( del. uel om . diuersam,)  Sm2 A m2   et cett. Busse; Porph. p. 5, 14 oi% άλλοίαν  species dicitur—indiuiduorum  om. FHN , sed—indiuiduorum  om. CT  16 qui- dem  om .  Σ ,  post add . dicitur  edd.; codd. quidam Porph. p. 5,15   λέγεται  eam  N  17  post continens  add . est  Σ  autem] uero  L  18 his  NR  illis  F  contineantur  CEm2H  continetur  N Ω  ( sed corr .  K m2 ,  ex  -entur  II m2 )   Ex proportione speciei nomen et generis ostendit. nam ut genus, quoniam non habet genus supra se, generalissimum genus dicitur, ut substantia, ita species, quoniam non habet sub se speciem, sed indiuidua, specialissima species dicitur,  ut homo. quid est autem species non habere? his praeesse quae neque in dissimilia diuidi possunt, ut genera diuiduntur, neque in similia secantur, ut species. quae uero inter genera generalissima speciesque specialissimas constituta sunt, ea et species et genera nuncupantur, quoniam et ipsa aliis suppo-  nuntur et his alia subiciuntur, quorum uel in dissimilia uel in similia possit esse partitio. cumque duae sint habitudines et quasi comparationes oppositae, quae in omnibus generibus speciebusque uersentur, una quidem quae ad superiora respi- ciat, ut specierum, quae suis generibus supponuntur, alia  uero quae ad inferiora, ut generum, cum speciebus propriis praeponuntur, generalissima quidem genera unam tantum reti- nent habitudinem, eam scilicet quae inferiora complectitur, illam uero quae ad praeposita comparatur, non habent. gene- ralissimum enim genus nulli supponitur. item species specia-  lissima unam possidet habitudinem, per quam scilicet ad sola genera comparatur, illam uero quae ad inferiora committitur, non habet; nullis enim speciebus ipsa praeponitur. at uero quae subalterna sunt genera, utraque habitudine funguntur.  1 propositione  FPm1  et  om. N, del. Sm2 , etiam  FL  2 super  F  se  om. CN, s, l. Lm2  4 species specialissima  FHN  5 speciem  Lm2 post  habere  add . nisi ( ex 2 al. litt. m2 )  L  hoc est  N  id est  R, inseruit   Pm1?  6 possint  ESm2  7  ante  neque  add . sed  P, del. m1?, s. l· Lm2  quae—constituta] specialissimae constitutae,  cet. om. EGRS  8 ea et] illae (illa  L ) uero  EGLRS  9 et  om. FP  quoniam] quae  EGLm1R subponantur  S  10 subiciantur  S pr . uel  om. EGR, s. l. Lm2  uel in similia  om. EGRS  11 possint  EGLm1S  possunt  R  paratio  Cm1  partitiones  EGLa.r.RS  cumque—comparationes  om. EGRS, in mg. Lm2  duo  Cm1  sunt  NPa.c . 12 subpositae  CHm1Lm1N, om. F  13 uersantur  EGL  16 una  Cm1  retinent  ante  tantum  H  retinet  R  habent  N  18 illam—comparatur  (21) om. S habet  G, m1 in CEH  19 genus enim  H  nullis  F  23 quae] illa quae  F  utramque habitudinem  G   nam et illam possident quae ad superiora respicit, quoniam quae subalterna sunt, habent superpositum genus, et illam quae de inferioribus praedicatur; habent enim subalterna genera suppositas species, ut corporeum ad substantiam quidem eam retinet habitudinem qua potest poni sub genere, ad ani-  matum uero eam qua potest de specie praedicari. specialis- simae uero species licet ipsae indiuiduis praeponantur, tamen praepositi habitudinem non habebunt, idcirco quoniam illa quae speciei ultimae supponuntur, talia sunt, ut quantum ad substantiam unum quiddam sint non habentia substantialem  differentiam, sed accidentibus efficitur, ut numero saltem distare uideantur, ut paene dici possit et pluribus praeesse speciem et quodammodo nulli omnino esse praepositam. nam cum species substantiam monstret unam, quae omnium indi- uiduorum sub specie positorum substantia sit, quodammodo  nulli praeposita est, si ad substantiam quis uelit aspicere. at si accidentia quis consideret, plures de quibus praedicetur species fiunt, non substantiae diuersitate, sed accidentium multitudine. itaque fit ut genus quidem semper plurimas sub  1  ad  illam  et  quae  s. l . ał illud  et  ał quod  L  ad  om. CGHLPS  quoniam quae] quantum que  S  2  post  sunt  add . genera  P, s. l. Lm2  3 praedicantur  Hm1Sm1  4 superpositas  Hm1  5 qu * a (i  er .)  C  poni potest  E  6 quae  EHm1LPN specie] speciebus  R  7 prae- ponuntur  Hm1Pm1  8 subpositi  E  habent  EP  habebit  Gm2  9 ul- tima  EGLm1S  ad substantiam] substantia  F  10 quidem  GLm2S  non] nec  FHLm2NP habentia]  Em2  habentes  CEm1GL  (es  ex al. litt. m2 )  PS  habentem  R  habent  FHN  11  post  sed  s. l . scii, ex  Hm1?  accidentibus  del. et s. l . ał accidentalem  Hm2 uel al ., acci- dentalem,  s. l . ał accidentibus  Lm1, s. l . Nam accidentibus  m2  saltim  Lm2NPR  12 possint  EFGLRS  et] nec  F, m1 in HLN  13 species  EGL  ( es in er . em?  m2 )  Pm1RS  esse  om. FHN  praepositae  EGLRSm2 (-tum  m1 ) nam cum—praeposita est  (16) in sup. mg. Lm2  14 monstraret  HPm1  monstrat  RS unam, quae]  S  unaque  CFHNP  ( ras. ex  -que) unam quamque  EGR  unam *  L 15 substantiae  GLR  sit  s. l. ante  substantia  Pm2, om. EGLR , est  S ante  quodammodo add.  fit HN, post  nulli  C, om . est (16)  CHN  16 ad  om. EGPRS  17 ac  GR  praedicatur  EGLRS   se habeat species; de differentibus enim specie praedicatur, differentia uero nisi pluralitati non conuenit. at uero species etiam uni aliquando indiuiduo praeesse potest. si enim unus, ut perhibetur, est phoenix, phoenicis species de uno tantum  indiuiduo praedicatur; solis etiam species unum solem intel- legitur habere subiectum. ita nullam multitudinem | species  p. 72  per se continet, cum etiam si unum sit tantum indiuiduum, speciei tamen non pereat intellectus; quibusdam enim suis quasi similibus partibus praeest. ut si aeris uirgulam diuidas,  secundum id quod aes dicitur, idem et partes esse intellegitur et totum. idcirco dictum est speciem, licet sit indiuiduis praeposita, unam tamen habitudinem possidere, unam scilicet qua species est. quoniam enim praepositis subditur, species nuncupatur, et est superiorum species tamquam subiecta  inferiorum quoque species, idcirco quoniam eorum substantiam monstrat. speciem uero substantiam nuncupamus, nec ita est species substantia indiuiduorum, quemadmodum speciei genus; illud enim pars substantiae est, ut animalis homo. reliquae enim partes rationale sunt atque mortale, homo uero Socratis  atque Ciceronis tota substantia est; nulla enim additur dif- ferentia substantialis ad hominem, ut Socrates fiat aut Cicero,  1 de differentibus enim] quod de differentibus  CL  2 ni  C  4 est  post  unus  FHP, post  phoenix  N  5 solem]  EGPpr  solum  cett. codd .  bm; cf. p. 218. 3. 219, 17 . 7 cum  om. S  ut  CFN  tantum  om .  ENRS; cf.p. 219,11 post indiuiduum  add . unius generis  G  8 tamen  om. C  perit  Sm2, add . sensus et  F  9  post  uirgulam  add . in partes suas (suas partes  P ) id est (id est  om. F ) aeneas particulas (particulas  om. F , aeneas uirgulas,  sed del. L )  CFHLN, in mg. Pm2  10 in- telliguntur  H  12 possidet  FN  unam] illam  L  eam unam  F  13  ante  qua  s. l . in  Sm2  14 nuncupatur] nominatur  FHN  16 demonstrat CEGLP  est  om. S, post  species  in ras. N , esset  F  17 substantia (ia  ex  ie  F )  ante  species  FNa.c.RS, post  indiuiduorum  C  18 ani- malis homo]  EGLm1  homo animalis  Sm2P  animal hominis  CLm2Sm1  hominis animal  FH  (inis  in ras. m2 et post  animal  2 litt. er .)  NR  19 etenim  R  sunt  om. EGR post  mortale  add . adduntur ( om. N ) animali ad diffiniendam substantiam hominis  N edd . uero  om. CFGLRS   sicut additur animali rationale atque mortale, ut homo integra definitione claudatur. idcirco igitur species specialissima tantum species est atque hanc solam possidet habitudinem ad superiora quidem, quoniam ab his continetur, ad inferiora uero, quoniam eorum substantiam format et continet.   Determinant ergo generalissimum ita, quod cum genus sit, non est species, et rursus, supra quod non erit aliud superueniens genus, specialissimum uero, quod cum sit species, non est genus et quod cum sit species, numquam diuiditur in species et quod de  pluribus et differentibus numero in eo quod quid sit praedicatur. ea uero quae in medio sunt extremorum, subalterna uocant genera et species, et unum quodque ipsorum speciem esse et genus ponunt, ad aliud qui- dem et ad aliud sumpta. ea uero quae sunt ante spe-  cialissima usque ad generalissimum ascendentia, et genera dicuntur et species et subalterna genera, ut Agamemnon Atrides et Pelopides et Tantalides et ultimum Iouis.    Posteaquam naturam generum ac specierum diuersitatemque  monstrauit, eorum ordinem definitionis descriptionisque com- memorat. ac primum quidem generalissimi generis terminum  6-19] Porph. p. 5, 17—6, 3 (Boeth. p. 30, 21—31, 7).   1 rationalis atque mortalis  N  3 possidet] optinet  P  6  post  deter- minant  add . philosophi  C  ergo  om. CN  enim  EGLm1 <t> p.c.;   Porph. p. 5, 17   τοίνον  ita  om. CGHP, s. l. Em2 A m2  quod] quoniam  S  7 sit genus  NR  et rursus—genera ut  (17) ]  LRS ii ,  om. cett . rursum  S  8 erit]  LRS T est  cett.; Porph. p. 5, 18   οΰχ αν ειη  9  pr . quod] quae  S h a.c . post. quod—et quod  (10) om. L  10 diuidatur  S  11 et] et de  L  13 uocant]  Λ2Φ  uocantur  cett. edd. Busse; Porph. p. 5, 21   χολοΰσι 14 ipso eorum  S  speciem]  Brandt  species  codd. Busse  ponunt]  A m2 U m2 ,  e coni. scr. Busse , ponuntur  T m1  possunt  m2   cum   cett .; species esse potest et genus  edd.; Porph. p. 5, 22   xal έχαοτον αδτών είδος είναι xal γένος τίθενται  17  post , et  om. R  ut  om. FS  18 et  om. CEG pelides  F post . et  om. C  19 ultimo  F  20 Post ** quam  CL  diuersitatem  GLm1R , -que  in ras. E, er. P   inducit, id esse generalissimum genus quod cum ipsum genus sit, non habet superpositum genus, hoc est speciem non esse, et rursus, supra quod non erit aliud superueniens genus. si enim haberet aliud genus, minime ipsum generalissimum  uocaretur. specialissima uero species hoc modo : quod cum sit species, non est genus, ex opposito, quoniam opposita ex oppo- sitis describuntur interdum. nam quoniam praepositio opposita est suppositioni, genus autem praeponitur, species uero sup- ponitur, si idcirco erit primum genus, quia ita superponitur,  ut minime supponatur, idcirco erit ultima species, quia ita supponitur, ut praeponi non possit, oppositorum igitur recte ex oppositis facta est definitio. Est alia rursus descriptio : quod cum sit species, numquam diuidatur in species, id est genus esse non possit. si enim omne genus specierum  genus est, si quid non diuiditur in species, genus esse non poterit. Est rursus alia definitio : quod de pluribus et differentibus numero in eo quod quid sit praedicatur. de qua definitione saepe est superius demonstratum. nunc  18 saepe superius] p. 188, 12. 190, 11 ss. 203, 11. 205, 4.   1 inducit]  RSm1  indicit  Em1  indicat  GLa.c.  dicit  CEm2FHLp.c.   NPSm2  inducit dicens  brm  indicat dicens  p  id  om. EGRS, s. l. Lm2  3 non  om. EGRS, s. l. Lm2  superueniens  om. EGRS, s. l. Lm2  si—genus  om. EGRS, in mg. sup. Lm2  5 uocetur  EGLm1Sm2; post   inlatus est locus p. 219,14—220, 3  quoniam ridere—exemplam  in EGL,  quoniam irridere  (sic) —praedicatur  p. 219, 15 (qui locus tamen infra quoque extat) in S  specialissima—idcirco erit  (10) in ras. C post  modo  add.  describitur  edd.  6 opposito] opposita  F  opposito est  H; post   add.  Quia sicut genus (genus  in mg. F ) generalissimum est cui non aliud genus superponitur, ita et species specialissima nuncupatur, cui alia species non subponitur (superponitur  F ) et utrumque ex opposito dicitur alterius sicut pater ex opposito dicitur filii  F, in inf, mg. cum nota  d(esunt) h(aec)  Hm1?  opposita  om. EGR, s. l. Sm2  7 quoniam  om. EN  9 si  er. E  sed  La.c, Pm2  11  ante  ut  add.  rursus  RS  ut praeponi non possit] ut minime praeponatur  CFHN (in mg. add. m2)  oppositorum  om. EGLRS  recte  om. C  13 quod]  Lm1 edd.  quae  cett.   ante  numquam  add.  quae  CGHm1, del. m2  diuiditur  CLRSm1  14 est  om. C  possit] posse  CFN  potest  edd . 16 potest  EGLRS  Est] et  FHNS  et  om. N   illud attendendum est. si, ut paulo superius dictum est, speciei unum indiuiduum potest esse subiectum, ut phoenici atomum suum, ut soli corpus hoc lucidum, ut mundo uel lunae, quorum species singulis suis indiuiduis superponuntur, qui conuenit dicere speciem esse quae de pluribus numero differentibus in  eo quod quid sit praedicatur? sunt enim quaedam quae de numero differentibus minime dicuntur, ut phoenix, sol, luna, mundus. sed de his illa ratio est de qua etiam superius pauca reddidimus, quae paululum inflexa commodissime nodum quae- p. 73  stionis absoluit. | omnia enim quae sub speciebus specialissimis  sunt, siue infinita sint siue finito numero constituta siue ad singularitatem deducantur, dum est aliquod indiuiduum, semper species permanebit neque indiuiduorum deminutione, dum quodlibet unum maneat, species consumitur. ut enim dictum est, tametsi plura sint indiuidua, substantiales differentias non  habebunt. id uero in genere dici non conuenit, quod his praeest quae substantiali a se differentia disgregata sunt; praeest enim speciebus quae diuersis differentiis informantur.  1 paulo superius. 8 superius] p. 215, 2 ss.   1 est  om. G, s. l. Lm1  si, ut] sicut  FGPSm1  sic  La.c. supra  RS  3 suam  S  solis  F  mundi  FR, add.  hoc inane spacium  s. l.   Lm2, post  lunae  in mg.  et hoc immane spacium quod uidemus  P  quo- rum] quae  Lm1  4 indiuiduis  om. EGRS post superponuntur  add . quod si ita est ut species de uno quolibet indiuiduo praedicetur (praedicatur  P ) ut de phoenice (phe-  P )  P edd.  qui] quomodo  Hm2LP  6 praedicetur  L  8 mundus  om. EGRS, s. l. Lm2  illa his  EG  ratio est  om. EG  9 paulum  N  inplexa ( uel  im-) EHm1LP  nodum  ras. ex  modum  EN  10 sub] suis  EGS  in suis  R  specialissima  GPm1RS  11 sint] sunt  CHa.c.Lm1R  finita  CHm2N  12 deducuntur  Lm2R  adducuntur  P, add.  ut fenix uel sol  R  aliquid  FL  semper—deminutione  om. EGRS, in mg. Lm2  semper s. l.  Pm1?, post species  N, om. L (m2)  13 deminutione]  C  diminutione  cett.  dum  om. S  si  EGLm1R  14  ante consumitur  add.  non  EGL   (del. m2) RS  ut] quod  EGLRS  15 tamenetsi  G  tamen si  RS  sunt  F ante  substantiales  add.  si  G, s. l. Sm2, ras. in E  16 id uero  om. EG  quod  L  idcirco id  R  id circo  Sm1 , circo  del. m2  18  ante  speciebus  s. l.  genus  E   si igitur earum una perierit et ad unitatem speciei reducta sit ratio, genus esse non poterit, quia de differentibus specie praedicatur. non ita in speciebus. si enim omnium indiuidu- orum natura consumpta sit et ad unius singularitatem indi-  uidui superpositae speciei praedicatio peruenerit, est tamen species ac permanet. talia enim sunt illa quae pereunt ac desunt, quale est id quod permansit et subiacet. quod uero dicimus de pluribus numero differentibus speciem praedicari, duobus id recte explicabitur modis, uno quidem, quia multo  plures sunt species quae de numerosis indiuiduis praedicantur, quam hae quibus unum tantum indiuiduum uidetur esse sup- positum, dehinc hoc, quia multa secundum potestatem dicuntur, cum actu non semper ita sint, ut risibilis homo dicitur, etiamsi minime rideat, quoniam ridere potest. ita igitur species  de numero differentibus praedicatur; nihilo enim minus phoenix de pluribus phoenicibus praedicaretur, si plures essent, quam nunc, quando unus esse perhibetur. item solis species de hoc uno sole quem nouimus, nunc dicitur, at si animo plures soles et cogitatione fingantur, nihilo minus de pluribus solibus  indiuiduis nomen solis quam de hoc uno praedicabitur. idcirco igitur species de pluribus numero differentibus dicitur praedicari, cum sint aliquae quae de singulis indiuiduis appellentur. Illa uero quae subalterna uocantur ita definiri queunt : subalternum  1 eorum  EFGLm1RS  redacta  EGLPm2RS edd.  2 de  om. E  3 si enim] nam si  EGLRS  5 suppositae  LNR  superposita  S  uene- rit  EGLRS  6 alia  EGLa.c.RS ante  sunt  s. l.  non  E  7 quale] quam  EGLa.c.RS  et] ac  CFHNP  8 de numero pluribus  Ca.c.  numero de pluribus  p.c.  9 excusatur  EGLRS  quidem uno  EG  multo  om. FN, s. l. H  11 hae  om. ER  hee  C  eae  H  ea  N ante  qui- bus  add.  e  CR, er. uid. E  tantum  om. S  suppositum esse  RS  12 dehinc] deinde  EGLRS  hoc  om. FHNS  13 semper  om. CFH  14 etiamsi—praedicatur  om. F de loco  quoniam ridere  eqs. in EGLS   cf. ad p. 217 , 5 igitur] etiam  E  15 nihil  EGLPRS  16 phoenicibus  om. F 17 ita (a  in ras. m2) E  hoc  om. S, post  uno  F  18 ac  EGR ante  animo  s. l.  in  Pm2  19 cogitationes  Ca.c.F ante  de  add.  enim  EG  20 praedicatur  EGLRS  22 appellantur  FHN   genus est quod et genus esse poterit et species, ad eumque modum est ut in familiis, quae procreant et procreantur, ut etiam subiectum monstrat exemplum : ut Agamemnon Atri- des et Pelopides et Tantalides et ultimum Iouis. Atreus enim Pelopis filius tamquam eiusdem species quasi  Agamemnonis genus est. item Agamemnon Pelopides et Tan- talides, cum Pelops ad Tantalum comparatus Tantalusque ad Iouem quasi species itemque Tantalus ad Pelopem, Pelops ad Atreum tamquam genera esse uideantur, cum Iuppiter ueluti sit horum generalissimum genus.   Sed in familiis quidem plerumque ad unum redu- cuntur principium, uerbi gratia ad Iouem, in generibus autem et speciebus non se sic habet. neque enim est commune unum genus omnium ens nec omnia eiusdem generis sunt secundum unum supremum genus, quem-  admodum dicit Aristoteles. sed sint posita, quemad-  11-221, 7] Porph. p. 6, 3—11 (Boeth. p. 31, 7—17). 16 Ari- stoteles] Metaph. II, 3, p. 998 b , 22.   1 et  om. RS  et genus  om. EG  ad—ut]  CG ( ut  om.) Hm2  ad eumque  ( et ad eum  N)  modum sunt ut  Hm1N  ad eumque  ( eum que *   L  eundem  Pm2 ) modum qui  (s. l. Lm2, part. in ras. Pm2)  est  (s. l. Pm2)   LP  ad eum modum qui est  EFR  ad eum  ( eum  del. m2, post  que eu  er.)  modum,  in ras. quae est  m2 S  4 et Tantalides—Iouis]  Lm2Pm2   (om.  et Tantalides ) R edd., post  species  (5) Lm1S, om. cett.  5 quasi] quae si  Sm1, del. m2, ante add.  et  F, s. l. Pm2 , est  R  6 Agamem- nonis] tamen his  ( is  R) EGLm1R  tamen non his  Sm1, del. m2  genus est  del. Sm2  est  om. P ante  Pelopides  add.  non  E  atrides non  ( non  del. m2) L  7 comparatus]  ( s  in ras. m2) H comparatur  ( cõ- ) cett  Tantalusque] ut tantalus quae  G  8 idemque  CP  idem  N  9 Atreum] creontum  EG  creontem  Lm1  tareontum  S  tamquam] quasi  EGLR  quae  S  uelut  HP  11 reducuntur  ante  ad  N, post  reducuntur  add.  omnes  L, s. l. Pm2;  reducunt  coni. Busse; cf. p. 224, 19  reduci;  Porph.   p. 6, 3   άναγουοι  12 ad  om. EGRS A  13 speciebus] in speciebus  R  sic se  ΝΣ  habetur  EG  neque—dicerentur  (p. 221, 5) ]  RS Q ,  om.   cett.  enim  om. R  14 neque  Busse  15 sunt generis  Γ  16 sunt  \ m2 2 ;  Porph. p. 6, 6   χείοθ·ω  quemadmodum  om. S, add.  dictum est  edd., idem post  Praedicamentis  h m2 W m2   (cf. p. 224, 19); om. Porph. p. 6, 7   modum in Praedicamentis, prima decem genera quasi prima decem principia; uel si omnia quis entia uocet, aequiuoce, inquit, nuncupabit, non uniuoce. si enim unum esset commune omnium genus ens, uniuoce  entia dicerentur; cum uero decem sint prima, com- munio secundum nomen est solum, non etiam secun- dum rationem, quae secundum nomen est.    Cum de subalternis generibus diceret, familiae cuiusdam posuit exemplum, quae ab Agamemnone peruenit ad Iouem,  quem quidem pro numinis reuerentia ultimum posuit. quantum enim ad ueteres theologos, refertur Iuppiter ad Saturnum, Saturnus ad Caelum, Caelus uero ad antiquissimum Ophionem ducitur, cuius Ophionis nullum principium est. ne igitur quod in familiis est, id in rebus quoque esse credatur, ut res omnes  possint ad unum sui nominis redire principium, idcirco deter- minat hoc in generibus ac speciebus esse non posse; neque enim sicut familiae cuiuslibet, ita etiam omnium rerum unum esse principium potest. fuere enim qui hac opinione tenerentur, ut rerum omnium quae sunt unum putarent esse genus quod  ens nuncupant, | tractum ab eo quod dicimus ‘est’; omnia enim  p. 74   3 inquit] sententia, non uerba Aristotelis.   1 quasi  in ras.   Σ  sic  A m1  sicut  Ψ  2 prima  om.   Γ ,  post  decem  Π  2 uocat  A m1 II  3 nuncupauit  S, in ras. ex  -bit  Γ  4 genus omnium  Busse  entia uniuoce  R post  uniuoce  add.  omnia  edd. cum Porph.   p. 6, 9   πάντα  5 uero] autem  Γ  enim  ΔΔΣΦ ;  Porph. p. 6, 10   δέ sunt  FH  prima] principia  Lm1  prima genera  m2P  (genera  s. l. m2 ), prima principia  N ΓΣ  7  ante  rationem ( ante  nomen  E )  add.  definitionis ( uel  diff-)  ELRS Q ,  om. Porph. p. 6, 11  quam  E post  est  add . solum  CHN  8 Cum] Quoniam  CLm1NS  Quoniam  (del. m2)  cum  H  di- cens  CLm1N  dicit  in ras. S  cuius  Pm1  cuiusque  F  eiusdem  R  9 ponit  Sm2  ab  om. F, s. l. Gm2  10 nominis  EGLS  nomini  R  11 ad ueteres] aduertere  Sm1  aduertisse  CEFGLm2P  aduertit se  R referantur  Hm1N  12 caelium ( uel  ce-)  LPm2RS  zethum  F  zechum  N  Caelus] Hm2  caelius ( uel ce-)  LPm2Sm2  celium  R  caelum  CEGHm1Pm1Sm1  zetus  F  zehus  N  othionem  F  ( sed ophionis) 14 esse ( Pm2  est  m1 ) quoque  FHNP  15  ante  sui  exters. uid.  proprii  E  17 familia  H 19 ut] et  Fa.c.S  ut et  N  20 est] esse  S   sunt et de omnibus esse praedicatur. itaque et substantia est et qualitas est itemque quantitas ceteraque esse dicuntur; nec de his aliquid tractaretur, nisi haec quae praedicamenta dicun- tur, esse constaret. quae cum ita sint, ultimum omnium genus ens esse posuerunt, scilicet quod de omnibus praedicaretur.  ab eo autem quod dicimus ‘est’ participium inflectentes Graeco quidem sermone  Sv  Latine ens appellauerunt. sed Aristoteles sapientissimus rerum cognitor reclamat huic sententiae nec ad unum res omnes putat duci posse primordium, sed decem esse genera in rebus, quae cum a semet ipsis diuersa sint,  tum ad nullum commune principium reducantur. haec autem decem genera statuit substantiam, qualitatem, quantitatem, ad aliquid, ubi, quando, situm, facere, pati, habere. quod uero occurrebat quoniam de his omnibus esse praedicaretur — omnia enim quae superius enumerata sunt genera, esse dicuntur —,  ita discussit ac reppulit dicens non omne commune nomen communem etiam formare substantiam nec ex eo debere genus esse commune arbitrari, quod de aliquibus nomen commune praedicaretur. quibus enim definitio communis nominis con- uenit, illa communis nominis iure species iudicabuntur et  communi illo uocabulo uniuoce praedicantur, quibus uero non conuenit, uox his communis tantum est, nulla uero substantia. id autem manifestius declaratur exemplis hoc modo. animal hominis atque equi genus esse praedicamus; demus igitur  1  post.  et  om. EGRS, s. l. Lm2  2 cetera  C  3 de] in  GLm1RS  5 esse  om. EGRS, s. l. Lm2  6 autem  s. l. L  enim  C  est] esse  FS  principium  EG, m1 in LPS  inflectentes  post  quidem  N  7 quidem  ante  Graeco  R ante  sermone  add.  de  P, s. l. L post  Latine add. autem  FHN, s. l. Pm2  8 prudentissimus  FNP  rerum] principiorum EGLm1Pm1RS  9 omnes  ante  res  C, om. EGRS, s. l. Lm2  dici  FGm1Pm2  10 ad  FHNRm1 ipso  Em1GPm1S  ipsa  FHN  ipsos  Rm1  sunt  CLm1R edd.  11 reducuntur  EFGLm2RPm1S  15 nu- merata  CEGL  innumerata  S  16 repulit  CEFHRP  17 eo debere] eodem uere (e re  add. S )  EGSm1  18  post  arbitrari  add.  debet  E  19 praedicatur  E  praedicetur  FHNP  nominis communis  FN  22 his uox  FHNP  23 manifestis  FLp.c.  24 praedicatur  S  dicamus  CHN   animalis definitionem, quae est substantia animata sensibilis; hanc si ad hominem reducamus, erit homo substantia animata sensibilis, nec ulla falsitate definitio maculatur. rursus si ad equum, erit equus substantia animata sensibilis; id quoque  uerum est. conuenit igitur haec definitio et animali, quod commune est homini atque equo, et eidem equo atque homini, quae species ponuntur animalis. ex quo fit ut homo atque equus utraque animalia uniuoce nuncupentur. at si quis hominem pictum hominemque uiuum communi animalis nomine nuncu-  pauerit, definiat si libet animal hoc modo, substantiam ani- matam esse atque sensibilem. sed haec definitio ei quidem homini qui uiuus est conuenit, ei uero qui pictus est, minime; neque enim est animata substantia. igitur homini uiuo atque picto, quibus communis nominis definitio, id est animalis,  non potest conuenire, non est animal commune genus, sed tantum commune uocabulum diciturque hoc nomen animalis in uiuo homine atque picto non genus, sed uox plura signi- ficans; uox autem plura significans aequiuoca nuncupatur, sicut uox ea quae genus ostendit, uniuoca dicitur. itaque id quod  dicitur ens, etsi de omnibus dicitur praedicamentis, quoniam tamen nulla eius definitio inueniri potest quae omnibus prae- dicamentis possit aptari, idcirco non dicitur uniuoce de prae- dicamentis, id est ut genus, sed aequiuoce, id est ut uox plura significans. Conuincitur etiam hac quoque ratione id  quod dicimus, ens praedicamentorum genus esse non posse.  2 hanc] uel hanc  E  3 facultate  Em1  4 equus] equi  CFPm2  5 definitio ( uel  diff-) haec  FHN  6 homini] et homini  CNP  atque] et,  FHNPR  eidem]  CEm2FH a.r.NPR  idem  Em1GHp.r.Lm1S  eadem  Lm2brm  ea eidem  p  8 animalis  EGLa.c.  una uoce  E  nun- cupantur  C  nominentur  FHN  9 uiuum] uerum  EGLm1PRS 10 si libet] scilicet  CHm1N  animal  om. E  12 uero]  FHP, om. S , quidem  cett.  13 est  post substantia  LP  16 dicitur quae  Em1Sm1  dicitur quod  LSm2  dicitur quia  CFN  17 genus] genus est  FN  uox—significans  om.   CEGP, s. l. Lm2Sm2  18 autem] enim  RS ante  aequiuoca  add. quae  CEGP  nuncupantur  GS  19 ita  ELm1  23 id est  om. CFN  ut genus  om. F  24 quoque  om. N   unius enim rei duo genera esse non possunt, nisi alterum alteri subiciatur, ut hominis genus est animal atque animatum, cum animal animato uelut species supponatur. at si duo sint sibimet ita aequalia, ut numquam alterum alteri supponatur, haec utraque eiusdem speciei genera esse non possunt. ens  igitur atque unum neutrum neutri supponitur; neque enim unius dicere possumus genus ens nec eius quod dicimus ens, unum. nam quod dicimus ens, unum est et quod unum dicitur, ens est; genus autem et species sibi minime conuertuntur. si igitur praedicatur ens de omnibus praedicamentis, praedicatur  etiam unum. nam substantia unum est, qualitas unum est, quantitas unum est ceteraque ad hunc modum. si igitur, quoniam esse de omnibus praedicatur, omnium genus erit, et unum, quoniam de omnibus praedicatur, erit omnium genus. sed unum atque ens, ut demonstratum est, minime alterum  alteri praeponitur; duo igitur aequalia singulorum praedica- mentorum genera sunt, quod fieri non potest. cum haec igitur ita sint, id Porphyrius determinauit dicens non ita in rebus, ut in familiis omnia ad unum principium posse reduci nec omnium rerum commune esse genus posse, ut Aristoteli pla-  cet; sed sint posita, inquit, quemadmodum in Praedi-  p. 75  camentis dictum est, prima decem ge|nera quasi decem prima principia, scilicet ut nulla interim ratio perquiratur, sed auctoritati Aristotelis concedentes haec decem genera nulli  3 ac  R  sint  post  aequalia  pos. RS, repet. FL (s. l. m2) P  4 sibi- metque  ( quae  F) FLm2Pm1  ita  s. l. Lm2  5  ante  haec  add . aequa  C ,  sed del . eidem  Pm2  eius  S  6 neutris  Em1  8  pr . unum  post  nec,  om .  post  ens  H  dicitur  om. S dicimus  Rbrm  13 esse] ens  Lm2P   post  omnibus  add . his  CP, in mg. Hm2, add . praedicamentis  (s. l. m2)  his  L post  erit  add . ens  CHN  et unum—omnium genus  om. R  15 sed] si  in ras. Em2 ut  om. FH  16 praeponi  FH  17 hoc  Ea.c. edd . 18 sit  edd . 19 deduci  LS  duci  Em1  20 genus  ante esse  CFN, post  posse  S  poterit  F  21 sint]  FHm1  sunt  cett . 23 prima  om. N, post  principia  R  ut  om. EGS  24 auctoritate  Em1Hm1  ad auctoritatem  FN  accedentes  CFNS   alii generi esse credamus subiecta, quae si quis entia nuncupat, aequiuoce nuncupabit, non uniuoce; neque enim una eorum omnium secundum commune nomen definitio poterit adhiberi. quae res facit, ut non uniuoce de his aliquid praedicetur. si  enim uniuoce praedicaretur, genus esset eorum commune nomen quod de omnibus praedicaretur; at si genus esset, definitio generis conueniret in species. quod quia non fit, com- mune his id quod dicimus ens, uocabulum est uocis signi- ficatione, non ratione substantiae.    Decem quidem generalissima sunt, specialissima uero in numero quidem quodam sunt, non tamen infi- nito, indiuidua autem quae sunt post specialissima, infinita sunt. quapropter usque ad specialissima a generalissimis descendentem iubet Plato quiescere,  descendere autem per media diuidentem specificis differentiis; infinita, inquit, relinquenda sunt; neque enim horum posse fieri disciplinam.    10—17] Porph. p. 6, 11—16 (Boeth. p. 31, 17—32, 1). 14 Plato] Phileb. p. 16 C. Polit, p. 262 A—C. Sophist. p. 266 A. B adfert Busse.   1 entia nuncupat]  ERS  (-pet), etiam entia nuncupat  N  ab ens entia nuncupat (-pet  Lm2 )  CGL  etiam nuncupat (nuncupat  post  ens  P ) ab ens entia  HP entia nuncupat ens  F  2 nuncupabit (-uit  FHN )  post  uniuoce  FHNP , nuntiauit  S  unam—definitionem ( uel  diff-) poterit adhibere  FHN  3 nomen  ex  non  Em2G  5 esse  Hm1, add . ens  s. l .  L, ante  esset  P  eorum  om. CN, post  commune  L  6 nomen  in   mg. Hm2, del. Lm2  ens  CH(in mg.) Lm2  ( s. l. ante  eorum)  N  7 con- uenerit  Em1  8 his  om. GS  10 sunt  om. S  11 in numero  om .  Δ  quodam] quaedam  Pm1  sunt  om., post  indiuidua  add . est  S  tam  C  infinito]  Fp. c . (finito  a.c .)  Hm2S TNtt p.c . Φ  in infinito  Hm1N W a.c . indefinito  C  ( ras. ex  -tio) EGL a.c . (in indefinito  et  ał definito  corr. m1 )  PR kIPV  (in  er .) 12 indiuidua—quiescere)  LRS Q ,  om. cett . 13 sunt infinita  LRS Busse; cf. p. 226, 22  a  om. R  15  ante  descendere  post  usque  (cf. ad p. 178, 14) add.  ad id  CHP  diuidentem per me- dia  Γ  16  ante  infinita  add . indiuidua uero  Δ ,  sed del., post add . uero  ΓΦ  17 enim  s. l. L, del .  Γ  horum]  N ii  ( ante add . et  ΛΦ ,  er. uid .  Γ ,  post add . indiuiduorum  Γ ) eorum  cett.; Porph. p. 6, 16   τούτων  disciplina  Cm1   Quoniam specierum nosse naturam ad sectionem generum pertinet quoniamque scientia infinita esse non potest — nullus enim intellectus infinita circumdat —, idcirco de multitudine generum, specierum atque indiuiduorum rectissima ratione persequitur dicens supremorum generum numerum notum —  decem enim praedicamenta ab Aristotele esse reperta quae rebus omnibus generis loco praeferenda sint —, species uero multo plures esse quam genera. nam cum decem suprema sint genera cumque uni generi non una, sed multae species supponantur proximaeque species supremis generibus subalterna  sint genera usque dum ad ultimas species descendatur, nimirum unius generis multas species esse necesse est utrobique dif- fusas, specialissimas uero multo plures esse quam subalterna, quoniam per multitudinem generum subalternorum ad specia- lissimas descenditur species. quas multo plures esse quam  genera subalterna hoc maxime ostenditur, quod inferiores sunt; semper enim genera in plura subiecta diuiduntur. decem uero generum species multo plures quam unius existere manifestum est, uerum tamen etsi plures sunt, certo tamen numero con- tinentur; quem facile si quis discutiat omniumque generum  species persequatur, possit agnoscere. indiuidua uero quae sub una quaque sunt specie, infinita sunt uel quod tam multa  1 generis  EGLRS, recte?  2 scienti  GRS scienti alicui  Lm2  5 su- premorum] supra horum  EG, m1 in LPS ante  numerum  add . esse FHNP, post  notum  L  6  post  reperta  s. l . commemorat  Em2  7 gene- ris  om. R, post  loco  L , generum  S  sunt  CFH   (ras. corr.) NPRSm2  8 nam cum—genera  om. EGRS  9 sunt  FLP (ras. corr.)  11 sint  post  genera  C  sunt  F  13 subalternas  FH (s in ras. m2) N, ante  sub.  add . genera  PS, s. l. Lm2  16 hoc] in hoc  F  inferiora  FHm1Lm2NP  17 semper enim genera]  FHN  semper si genera  Cm1  semper enim sub- alterna (genera subalterna  P )  Cm2 (part. in mg.) P  et semper subalterna genera  RS  et  (om. G)  semper subalterna  EGL  plurima  N  18 ge- neris  G  unius] generis unius  R  species unius generis  Lm1  19 sint  L  compraehenduntur  L  21 prosequatur  NR 22 species  G  specie  ante  sunt  FHLNR  tam]  FHN  ea  EGLPRS  tam ea  C   sunt diuersisque locis posita, ut scientia numeroque includi comprehendique non possint, uel quod in generatione et cor- ruptione posita nunc quidem incipiunt esse, nunc uero desinunt. atque idcirco suprema quidem genera et subalterna et species  eas quae specialissimae nuncupantur, quoniam finitae sunt numero, potest scientiae terminus includere, indiuidua uero nullo modo. idcirco igitur Plato a magis generibus usque ad magis species id est specialissimas praecipiebat facere secti- onem; per ea enim quae finita essent numero, iubebat descen-  dere diuidentem, ubi autem ad indiuidua ueniretur, standum esse suadebat, ne, quod natura non ferret, infinita colligeret. ita uero genera in species diuidi comprobabat, ut specificis differentiis soluerentur. de specificis autem differentiis melius in eo titulo ubi de differentia disputatur, ac largius disseremus.  hic enim hoc tantum dixisse sufficiat, eas esse specificas dif- ferentias quibus species informantur, ut rationale uel mortale hominis. cum igitur diuidimus animal, rationali atque inratio- nali, mortali inmortalique separamus. <hoc ergo> ceteraque genera talibus differentiis quae subiectas species informent,  Plato censuit esse diuidenda usque dum ad specialissima  13 de specificis—disputatur] lib. IV c. 8.   1 sint  EFGHp.r . ( ex  sunt)  LPRS  numeroque]  FHN  in unum  EGLm1  (numero  m2 )  RS  numeroque in unum  CP  concludi  LS  3 uero)  ex  quidem uero  P recepit Brandt , quidem  CEGLRS, om. FHN; cf. p. 223, 12  5 easque ( om . quae,)  LR specialissime  GS  7 igitur  om. C  magis a  EGLPRS  usque ad magis species]  FHN  magis  om. C quam a speciebus  cett . 8 id est] e  ut uid. er. C  specialissimas]  CFHN  a ( add. L ) specialissimis  cett.; cf. p. 225, 13  9 essent] sunt  FN  10 diuidentem] diuisionem  EGHm1  (diuisorem  m2 )  Lm1PRS  11 nec  HN  12 comprobat  ELm1  (probabat  m2 )  R  ut  et  soluerentur  om .  EGPm1 (s. l. m2) RS post  ut  add . in  edd . 13 autem  om. EGLPm1  (uero  m2 )  RS  14 de  om. FG  differentiis  CS a.c . 16 rationabile  E  uel  om. ERS  et  Lm1  17  ante  rationali  et  inrationali  add . in  Em2 rationale atque inrationale ( uel  irr-)  EGN p.c.RS  18 mortali  om .  N  mortale  EGLPS inmortaleque  EGNp.c.PRS ; mortale  (sic)  ac  (s. l.)  inmortali  L  18 hoc ergo  add. Brandt , cetera <quo>que  Engelbrecht  separabimus  FHN  separauimus  R  19 informant  Fa.c.Lm1NR   ueniretur, dehinc consistere nec infinita sequi, quoniam indi- uiduorum numquam esset nec disciplina nec numerus.    Descendentibus igitur ad specialissima necesse est diuidentem per multitudinem ire, ascendentibus uero ad generalissima necesse est colligere multi-   p. 76 tu|dinem. collectiuum enim multorum in unam natu- ram species est et magis id quod genus est, particularia uero et singularia e contrario in multitudinem semper diuidunt quod unum est; participatione enim speciei plures homines unus, particularibus autem unus et  communis plures; diuisiuum est enim semper quod singulare est, collectiuum autem et adunatiuum quod commune est.    Diuidere est in multitudinem quod unum fuerat ante dis- soluere, omnisque diuisio e contrario compositionem coniunc-  tionemque meditatur. quod enim, cum sit unum, dispertiendo diuiditur, id ipsum ex pluribus rursus partibus adunando componitur. ut igitur superius dictum est, indiuiduorum qui- dem similitudinem species colligunt, specierum uero genera : similitudo uero nihil est aliud nisi quaedam unitas qualitatis.  ergo substantialem similitudinem indiuiduorum species colli- gere manifestum est, substantialem uero similitudinem spe- cierum genera contrahunt et ad se ipsa reducunt. rursus  3—13] Porph. p. 6, 16—23 (Boeth. p. 32, 1—8). 9 participa- tione—11 plures] Abaelardus, Theolog. christ., II p. 486 ed. Cousin. 18 superius] p. 166, 8 ss.   3  ante  igitur  add . illis  L  necesse—singulare est  (12) om. N  4 ire  ante  per  L T  ascendentibus—plures  (11) ]  Ω ,  om. cett . 6  post  multitudinem  excidisse  in unum  coni. Busse  ( cum Porph. p. 6, 18   e’:; εν ),  add. edd . 8 e contrario—semper]  Γ   edd. cum Porph. p. 6, 20  semper in multitudinem e contrario  cett. codd. Busse  9 est unum  Φ 10 unus, unus autem et communis particularibus plures  Abaelard . 11 commune  P a.c . communes  Φ  enim post  est FS Φ ,  om. CELR ,  ante  est  cett . 12 est  om. E  14 est] enim  C  est enim  L  in  om. G ,  s. l. Lm2  15  post  dissoluere  add . est  C  17 plurimis  F  19 uero] ergo  CEGLm1RS  20 nisi] ni  C   generis adunationem differentiae in species distribuunt, spe- cieique adunationem in singulares indiuiduasque personas accidentia partiuntur. cum igitur haec ita sint, necesse est semper cum a genere descendis ad speciem, diuidendo semper  facere multitudinem, cum uero ab speciebus ascendis ad genera, componendo colligere et plura quae in specierum differentiis fuerant similitudine qualitatis adunare. in speciebus etiam idem considerari potest. ut enim ipsae indiuidua, quae sunt infinita, una similitudine substantiali colligunt. ita indiuidua  speciem propria infinitate distribuunt. omnia enim indi- uidua disgregatiua sunt et diuisiua, species uero et genera collectiua, species quidem indiuiduorum collectiua atque adu- natiua, specierum uero genera, ut ita dicendum sit : genus quidem species distribuunt et species ab indiuiduis in multi-  tudinem deducuntur, rursus autem genus quidem multas species colligit, species autem particularem singularemque multitudinem ad singularitatis deducit unitatem. igitur plus genus adunatiuum est quam species. species namque sola indiuidua colligit, genus uero tam species quam ipsarum quo-  que specierum indiuiduas contrahit singularesque personas. sed in hoc conuenienti utitur exemplo dicens quoniam partici- patione speciei, id est hominis, Cato, Plato et Cicero pluresque reliqui homines unus, id est milia hominum  1  post  generis  s. l . ergo  E  species] specie  G  speciem  Lm1  2  ante  indiuiduasque  s. l . in  Hm2  3 haec igitur  LNP  4 species  ELm2R  5 a  ELS  ad ( tamen  speciebus)  G  6 et  om .  EGLPRS  plures  EFGLPm1RS  quae  ante  fuerant  EGLPRS  7 fuerint  S  simili- tudinum (-nem  Pm2 ) qualitates ( ex  -tis  Pm2) EFGLPRS ante  adunare  add . et  EGLPR  8 poterit  Lm2 ante  ipsae  add . species  N, post in mg. Cm1?  ipsae]  Cm2H  ipsa  cett . 9 unam similitudinem substantialem  EFGLRS  10 propriam infinite ( uel  -tae, -tate  H ) EGHLPRS  12  post  adunatiua  add . est  CGH   (in mg. m1?) Lm2 NPm2  13 specierum uero genera  s. l. Hm2  14 distribuit  EGRS  15 ducuntur  EGHN  17 ducit  HN  19 cum species tum  N 20 indiuidua  EGHLPRS  21 participationi  G  23  post  unus  add . est  Hm2   in eo quod sunt homines, unus homo est; at uero unus homo, qui specialis est, si ad hominum multitudinem qui sub ipso sunt consideretur, plures fiunt. ita et plures homines in spe- ciali homine unus est et specialis unus in pluribus infinitus. sic igitur quod singulare quidem est, diuisiuum est, quod  uero commune, quoniam multorum unum est, ut genus ac species, collectiuum atque adunatiuum.   Adsignato autem genere et specie, quid est utrumque, et genere quidem uno, speciebus uero pluribus — semper enim in plures species diuisio  generisest —, genus quidem semper de specie prae- dicatur et omnia superiora de inferioribus, species autem neque de proximo sibi genere neque de supe- rioribus; neque enim conuertitur. oportet autem aut aequa de aequis praedicari, ut hinnibile de  equo, aut maiora de minoribus, ut animal de homine, minora uero de maioribus minime; neque enim ani- mal dices esse hominem, quemadmodum hominem dices esse animal. de quibus autem species prae-  8-231, 19] Porph. p. 6, 24—7, 21 (Boeth. p. 32, 9—33, 4).   1 est. ut  et 3  fiunt, ita  r  2  pr . qui] quamuis  FNm1 post . quae  EPR  3 et] ut  Cm1  4 unus est] unum est ał  (haec del. m2)  unus est  C post . unus] unus est  LS  infinitis  CLm1  diffinitus  R  5 quidem  om. FN  diuisum  Em1  diuisuum  N  quod] quia quod,  s. l . est  G  6 uero commune]  FS  commune uero  Cm1  ( post  uero  add . est  m2 )  HN  commune est uero  LPm2R  commune est numero  EGPm1  ac] et  R  ad  Em2GLPm1  8 Assignati  Pm1  quid est]  FHPm2 \ m1  quide  CNRS  quid sit  Π m2 xV   edd . quod est  cett. Busse; cf . sunt  p. 236, 14  9 utrum- que—uno]  CEGHPm1  (quidem  ex  quodem)  RS h m2 W m2 xP  utrumqae quodque sit genus unum (unum genus  N )  FN & m1 AZΦ  utrumque et (et  om .  L Π ) cum (cumque  Π ) sit genus unum  LPm2 il m1  utrumque unum  Γ  species uero plurimae  FLNPm2 TΔ m1 Λ2Φ ;  ad utrumque— pluribus  cf. Porph. p. 7, 1  11 genus—indiuiduis  (p. 231, 16) ]  RS Q ,  om. cett . speciebus  R  14 autem]  Porph. p. 7, 4   γάρ  15 aut]  RS  edd.,  om .  Ω   Busse; Porph. p. 7, 4   ή aequis] aequo  R  ignibile  R  17 uero] autem  S post  minime  add . praedicantur  Γ  18. 19  utroque loco  dices]  RS  dicis  Ω   edd. Busse; Porph. p. 7, 7   ειποις άν   dicatur, de his necessario et speciei genus prae- dicabitur et generis genus usque ad generalissi- mum; si enim uerum est Socratem hominem dicere, hominem autem animal, animal uero substantiam,|  uerum est et Socratem animal dicere atque sub-  p. 77  stantiam. semper igitur superioribus de infe- rioribus praedicatis species quidem de indiuiduo praedicabitur, genus autem et de specie et de indi- uiduo, generalissimum autem et de genere et de  generibus, si plura sint media et subalterna, et de specie et de indiuiduo. dicitur enim generalis- simum quidem de omnibus sub se generibus spe- ciebusque et de indiuiduis, genus autem quod ante specialissimum est, de omnibus specialissimis et  de indiuiduis, solum autem species de omnibus indiuiduis, indiuiduum autem de uno solo parti- culari. indiuiduum autem dicitur Socrates et hoc album et hic ueniens, ut Sophronisci filius, si solus ei sit Socrates filius.    Breuiter quaecumque superius dicta sunt commemorat hoc modo. cum, inquit, adsignauerimus quid sit genus et quid species, cumque suis ea definitionibus comprehenderimus docuerimusque unum genus semper in plurimas species solui,  2 generalissima  Sm2  (specialissimum  m1 )  ΓΛΛ  3 enim] autem  S  4 autem] uero  Λ  uero] autem  Δ  5 et Socratem animal]  A m2 A m2  ( om . et,)  Ψ  hominem et (et  om ,  AA ) animal  Α m1 Α m1 Φ  et hominem ani- mal  RS Σ  et ( om .  II ) socratem et (et  om .  Γ ) hominem ( del .  Γ m2 ) et ( om .  T ) animal  ΓΠ ;  cf. Porph. p. 7, 11 6  igitur]  RS  enim  Ω ;  Porph. p. 7, 12   οΰν superioribus] superiora  RS TA a.c . 7 praedicantur  RS VA a.c . species] et species  R  indiuiduo]  cod. Q. Bussii brm  indiuiduis  RS Q  ( ante add.  eius  Σ );  Porph,. p. 7, 13   τοΰ άτο’μοο  10 sunt  RS m2   p.c  subalterna] de subalternis  A  11 enim] autem  S  13 et de  om. R  de  om. S  14 de]  Ω   cum Porph. p. 7, 17  et de  RS  15  pr . de  om. S post . de] et de  R  17 autem] enim  N TAΛΣ ;  Porph. p. 7, 19   ie  18 album] aliud  T m1  (et illud  m2 )  A m1  ut] et  Ν ΤΑ m2 ΑΣ  19 socrates sit  CEGLPRS; Porph. p. 7, 21   εΤη Σινγ,ράτης  20 quae  FHN  21 et  om. R   illud, inquit, adiungimus quoniam omnia superiora de inferio- ribus praedicantur, inferiora uero de superioribus minime. et ea quae sunt utilia de praedicationis modo rite pertractat. ostendit autem genus in plurimas species semper solui ad- signata generis definitione. quod enim de pluribus rebus specie  iffdiertenbus in eo quod quid sit praedicaretur, esse definiuit genus. nihil autem sunt plurimae res specie differentes nisi plurimae species; de quibus autem praedicatur genus, in ea ipsa dissoluitur. ostensum est igitur ex definitionis adsigna- tione unius generis esse species plures. quae cum ita sint,  genus quidem de specie praedicatur, species uero de indiuiduis omniaque superiora de inferioribus, inferiora de superioribus nullo modo. id quare eueniat paucis absoluam. quae superiora sunt, substantialiter ea genera esse praediximus, qua uero sunt genera, ampliora sunt quam una quaeque species. neque enim  in plurima diuideretur genus, nisi ab una quaque specie maius existeret. id cum ita sit, nomen generis toti conuenit speciei; non enim coaequatur solum speciei generis magnitudo, uerum etiam speciem superuadit. idcirco igitur omnis homo animal est, quoniam intra animalis uocabulum et homo et  cetera continentur. at uero nullus dixerit : omne animal homo est; non enim peruenit ad totum animal hominis nomen, quia, cum sit minus, nullo modo generis uocabulo coaequatur. itaque quae maiora sunt, de minoribus praedicantur, quae minora, non conuertuntur, ut de maioribus praedicentur. at uero si  qua sint aequalia, ea secundum naturae parilitatem conuerti necesse est, ut hinnibile atque equus, quoniam ita sibimet  1 quoniam] quod  S  2 uero  om. ES  4  ante genus  add . unum  FHNPR, in mg. Cm2, recte?  5 definitio ( uel  diff-)  Ea.c.GLPm1S  6 esse] et esse  R  definiuit] designauit  Sm1  10  ante  esse  add . semper  FHNP  13 id cur  HN  idcirco  F  14 ea  add. Em2  quae  L  ( s. l.  illa)  PS  15 quaque  E  quoque  S  17 toti] totum non  R  18  post  enim  repet . non  R  21 cetera] cicero  F  cetera animalia  G  23 itemque  Lm1S  24  post post . quae  s. l . uero  Hm2  26 sunt  FHLN  pari- tatem  EGLp.c.RS  27 ignibile  R  ita] si  ita H   coaequantur, ut neque equus non sit hinnibilis neque quod sit hinnibile, non sit equus. fit ergo ut omne hinnibile equus sit et omnis equus hinnibilis. quae cum ita sint, ea quae superiora sunt, non modo de sibi proximis inferioribus prae-  dicantur, uerum etiam de inferiorum inferioribus. nam si illud recipitur, ut ea quae superiora sunt, de inferioribus praedi- centur, inferiorum inferiora superioribus multo magis infe- riora sunt, uelut substantia praedicatur de animali, quod est inferius; sed animali inferius est homo, praedicabitur  igitur etiam substantia de homine. rursus Socrates inferius est homine, praedicabitur igitur substantia de Socrate. ita- que species quidem de indiuiduis praedicantur, genera uero et de speciebus et de indiuiduis. quod conuerti non po- test; nam neque indiuidua de speciebus aut generibus prae-  dicantur nec species de generibus. ita fit ut genus quod est generalissimum, de omnibus subalternis generibus praedi- cari et de speciebus et de indiuiduis possit. de ipso nihil. ultimum uero genus id est quod ante specialissimas species collocatur et de solis speciebus specialissimis dici potest,  species uero de indiuiduis, ut dictum est, indiuidua autem de singulis praedicantur, ut Socrates et Plato, eaque maxime sunt  1 non  om. brm post  sit (si  R )  add . nisi  CH (s. l. m2) LNPS  ni  R inhinnibilis  EG  nec  FN  quid  CF  2  pr . sit  om. S post . sit] est  CEGLm1RS ; non sit  om. brm; post add . nisi  CLNPRS ,  s. l. Hm2  ergo  om. H  enim  F  sit equus  FHNP  3 hinnibile  N, post hinn.  add . sit  L, ante P  4 sunt  om. S, ante  superiora  EGP  sibi  om. H  5 si  om. S, s. l. Hm1?  8 uelut  om. LS  ut  C  9  pr .  est s. l. Lm2   post . est  s. l. Gm2  praedicatur  CELm2RS  10 etiam  om. FG  11  ante  de  add . et  EGLR  ita  R  13 de speciebus]  hic desinit cod. F  14 aut] ac  R  15 itaque  CHNP  quod est] quidem  CP  quidem est  R  16  post  praedicari  add . potest  L (s. l.) m1  possit  m2 N  17 possit  om. N  potest  L post  ipso  add . uero  HNPR, s. l. Cm2Lm2  18 uero] autem  L  id est]  CHm2NS  id est autem est  Hm1  id autem est  EGLa.c . (id est autem  ut uid. p.c .)  RP  ante  om. EGR, s. l. Pm1?  19 collocat  EGR  et  om. HN  20  post  uero  add . quae  post  indiuiduis  add . dici potest  R  autem] enim  Lm1  21 ea quae maximae  G   p. 78  indiuidua quae sub ostensionem | indicationemque digiti cadunt, ut hoc scamnum, hic ueniens atque quae ex aliqua proprie accidentium designantur nota, ut, si quis Socratem significa- tione uelit ostendere, non dicat ‘Socrates’, ne sit alius qui forte hoc nomine nuncupetur, sed dicat ‘Sophronisci filius’,  si unicus Sophronisco fuit. indiuidua enim maxime ostendi queunt, si uel tacito nomine sensui ipsi oculorum digito tac- tuue monstrentur, uel ex aliquo accidenti significentur uel nomine proprio, si solus illud adeptus est nomen, uel ex parentibus, si illorum est unicus filius, uel ex quolibet alio  accidenti singularitas demonstratur, eo quod ad esse unam praedicationem habeat eiusque dictio non transeat ad alterum, sicut generis quidem ad species, specierum uero ad indiuidua.   Indiuidua ergo dicuntur huiusmodi, quoniam ex proprietatibus consistit unum quodque eorum,  quarum collectio numquam in alio eadem erit. Socratis enim proprietates numquam in alio quolibet erunt  14—p. 235, 4] Porph. p. 7, 21—27 (Boeth. p. 33, 4—10).   1 ostensione  EGPS  ostentationem  HN  indicationeque  EGPS  indaga- tionemque  N  2  ante  hic (is  ex  hic  E )  add . ut  CEGR  et  L  atque quae]  Hm2LNP  atque  EGHm1  atque ea quae  S eaque quae  CR  propria  CH  proprietate  R  4 qui  post  forte  HP  5 forte  ante  alius  N  6 Sophronisci  LNRS; cf . ei  p. 231, 19  7 quaeant  R  si uel  ex  siue  Lm2  sensu  GL  ( ante add . siue)  P  ( ras. ex  -sui)  R  ipso  Cm1LPm1R  tactuque  H  tactu uel  R  8 monstrantur  R  accidenti significentur uel  om. EGR  accidente  N ante  uel  add . id est  CH   (del. m2) Lm2NP  9 nomine  om. EGR ,  post  proprio  S  illud  om .  S, del. Lm2  10  post  uel  add . si  HR, s. l. Lm2  11 demonstretur  S  eo quod  in ras. Cm2  eaque  H  (que  add. m2, post er . quod)  N  ea quae  P; post quod  add . accidentia  in mg. Cm2  de  (s. l.)  accidenti  in con -  textu , ał eo quod accidentia  in mg. L  ad esse unam] unam ad sese  C  ad sese unam  HN  ad se unam  L (s. l. et in mg . de se  a.c.) P  12 habeat]  EGHm2Lp.c.PRS  habet  Cm1Hm1La.c.N  habeant  Cm2L   in mg . dictio] praedicatio  CNSp.c . transit  CHNR  13 species]  m2 in CH (in mg.) P, La.c . specierum  cett . 16 quarum—pluribus  (p. 235, 3) ]  R il ,  om. cett . quarum]  Π m2 Ψ  quorum  cett . in alio  post  eadem  s. l .  \ m2  in alium  R, post  alio  add . quolibet  2   particularium, hae uero quae sunt hominis, dico autem eius qui est communis, proprietates erunt eaedem in pluribus, magis autem in omnibus particu- laribus hominibus in eo quod homines sunt.    Quoniam superius indiuiduum appellauit, huius nominis rationem conatur ostendere. ea enim sola diuiduntur quae pluribus communia sunt; his enim unum quodque diuiditur quorum est commune quorumque naturam ac similitudinem continet. illa uero in quae commune diuiditur, communi  natura participant proprietasque communis rei his quibus com- munis est conuenit. at uero indiuiduorum proprietas nulli communis est. Socratis enim proprietas, si fuit caluus, simus, propenso aluo ceterisque corporis lineamentis aut morum institutione aut forma uocis, non conueniebat in alterum; hae  enim proprietates quae ex accidentibus ei obuenerant eiusque formam figuramque coniunxerant, in nullum alium conueniebant. cuius autem proprietates in nullum alium conueniunt, eius proprietates nulli poterunt esse communes, cuius autem pro- prietas nulli communis est, nihil est quod eius proprietate  participet. quod uero tale est, ut proprietate eius nihil parti-  1  post  particularium  add . eaedem  edd .  cum Porph. p. 7, 24  haec  Δ  eae  Φ   post hominis  s. l . proprietates  Δ  dico—communis  om. R  2 proprietates  er .  Λ  proprietatis  Γ  3 eadem  Δ m1 2   pr . in] et in  Γ   post . in] et in  ΓΛ m2 Φ  omnibus  om. S  4 in  om .  Φ   post  sunt  add . continentur  (ex p. 236, 7) R  6 ostendere conatur  C  7 <in> his  brm  quodque unum  Cm1  quibus  EGLPRS edd . 10 participan- tur  R post . communi ( om . est)  Gm1  11 proprietas  om. E proprietates  Gm1  12 caluus, simus] caluissimus  EGHm1  (caluus uel simus  m2 )  Lm1PR  13 perpenso  ESp.c . albo  Em1  (caluitio  m2 )  G  uentre  N  cor- poris  linea del., sed lin. er., s. l . corruptus  Hm2  liniamentis  CEG   LNPm2S  14  post  institutione  add . probatus  EP, s. l. Lm2 uocis]  Cm1EGPRS  uocisue sono  Cm2HLm2  (uocis uel sonus  m1 )  N  con- ueniebant  EGm1Hm1P  haec  G  16 in nullo alio  EGHLm1PS  17 cuius—conueniunt  om. EGLRS  cuius] eius  P  autem] uero  N  ita- que  P  in nullum—eius  om. P post  eius  add . itaque  N  igitur  L  18 poterant  EGL  potuerunt  ex  poterunt  P  potuerant  R  autem  om. LS  19 proprietatem  EGLRS proprietate *  (s  er .)  H  20 proprietatem  EGH   LPRS  nihil] nulli  Lm2P  participat  ER   cipet, diuidi in ea quae non participant, non potest; recte igitur haec quorum proprietas in alium non conuenit, indi- uidua nuncupantur. at uero hominis proprietas, id est spe- cialis, conuenit et in Socratem et in Platonem et in ceteros, quorum proprietates ex accidentibus uenientes in quemlibet  alium singularem nulla ratione conueniunt.   Continetur igitur indiuiduum quidem sub spe- cie, species autem sub genere. totum enim quiddam est genus, indiuiduum autem pars, species uero et totum et pars, sed pars quidem alterius, totum autem non alterius, sed aliis; partibus enim totum est.   De genere quidem et specie et quid generalissimum et quid specialissimum et quae genera eadem et spe- cies sunt, quae etiam indiuidua, et quot modis genus et species dicitur, sufficienter dictum est.   Hic retractat omnia breuiter quae supra latius absoluit dicens indiuiduum ab specie contineri, species uero ipsas a genere, huiusque causam reddens ait : omne enim genus totum est, indiuiduum pars. totum enim genus in eo quod genus est, continet, tametsi species esse potest; totum enim non  ut genus species est, sed ut ea quae supponitur generi. genus igitur in eo quod genus est, totum est speciebus, semper enim continet eas. at uero indiuiduum pars semper est, num-  7—15] Porph. p. 7, 27—8, 6 (Boeth. p. 33, 10—17).   2 proprietates  Em1NR  conueniunt  N  4  pr . et  om. C secund . in  om. S tert . in  om. HNP  5 uenientes ex accidentibus  C  ex accidente  (om . uenientes ) EGLm1RS  7 Continetur  om. R (cf. ad p. 235, 4)  con- tinentur  A m2 K m1 Z  quidem  om .  Φ  est quidem  Δ  8 totum—indi- uidua  (14) ]  R Q ,  om. cett . 9 pars—uero] pars est species autem  Δ  10  pr . totum] totum est  ΛΦ 11 sed in aliis, in partibus  edd. cum Porph. p. 8, 2  12 quod  ΛΣ  13 et quid specialissimum  om .  A  quod  A2  14 sint. R ΓΛΙIΣ;   cf. p. 237, 15  quod  GS  tot  Pm1  modis  om. S  15 dicatur  N ΥΔΛΠΦΨ ,  s. l. add .  Σ ;  cf. p. 237, 19  16 Hic  om. NR, s. l. Hm2  17 teneri  C  ipsas  om. E  ipsa  Cm1  18 huiusce  Lm2  19 pars  om. E  genus enim  Cm1 (ante  genus  s. l . totum  m2) HN  20 totum] tum  Hm1  tunc  Ν  enim] autem  S  23 est  ante  semper  CN  pars  post  est  LS   quam enim ipsum aliquid sua proprietate concludit. species uero et totum est et pars, pars quidem generis, totum uero indiuiduis. et cum pars est, ad singularitatem refertur, cum totum, ad pluralitatem. quoniam enim unum genus pluribus  5 speciebus superest, una quaelibet species pars est generis, id est unius, quoniam autem species pluribus indiuiduis | praeest,  p. 79  non est uni indiuiduo totum, sed plurimis. idcirco enim totum dicitur, quia plura continet et cohercet. nam ut pars sit ali- quid, una ipsa unius pars esse poterit, ut uero totum sit,  unum ipsum unius totum esse non poterit. idcirco alterius quidem pars est species, aliis uero totum.    Et de genere quidem et specie dictum est et quid sit gene- ralissimum genus, quoniam id cui nullum aliud superponitur genus, et quid specialissima species, quoniam ea cui species  nulla supponitur, et quae genera eadem sunt, eadem et species, scilicet subalterna quibus aliquid superponitur, aliquid uero supponitur, quae etiam indiuidua, ea scilicet quorum pro- prietates alteri nequeunt conuenire, et quot modis genus uel species dicitur, genus quidem aut in multitudine aut in pro-  creatione aut in participatione substantiae, species uero aut ex figura aut ex generis suppositione, sufficienter dictum est. quibus absolutis modum uoluminis terminabo, ut quarti area libri differentiae reseruetur.    2  ante post . pars  add . et  C ,  post er . que  L  totum  in mg. Cm2 uero  om. HN  autem  C (in mg. add. m2) L  quidem  S  3 indiuidui  Cm1NS  et] sed  CHN post post . cum  add . uero  R  4 quoniam] quod  L  7 plu- ribus  HLm2NS  9 unum ipsum  brm  12 Et] sed  in er . et  Lm2  specie] de specie  EG  13  post  id  add . est  P, s. l. Em2  14 quod  C specialissimum ( om . species,]  HN  nulla species  NR  15 superponitur  (ras. corr. E)  nulla  EG eadem  s. l. Lm2  16 supponitur  HR  aliquid uero supponitur  om. ENR, in mg. Cm2  17 ea om.  EGLPRS  18 non queunt  G  quod  Em1GN  quod quot  R  20 aut in partici- patione  s. l. Gm2 post substantiae  add . aut ex figura  S  consistit  edd . uero aut] autem  N  21 figura] genere  S  ex  om. E est  om. S  22  post  area  s. l . ubi discutiamus ea  Em2  23  ante subscriptionem initium libri IV usque ad p. 239, 6  iniecta  scriptum, post subscrip -  tionem E  ANICII MANLII (MALLII  G ) SEVERINI BOETII (BOECII  G ) V. C. ET I LL . EXCONS (EXC.  E ) ORD. PATRICII IN ISAGOGEN (YSAGOGAS  E ) PORPHYRII (PORPHIRII  E ) ID EST INTRODVCTIONE A SE TRANSLATAE (ID  eqs. om ., SCDAE  E ) EDITIONIS LIB. III. EXPL. INCIP. LIB. IIII.  EG ; EXPLICIT LIBER TERTIVS. (LIB. IIII. EXPLICIT  L ) INCIPIT (LIBER  add. LS ) QVAR- TVS  L   (add. mS)   NPRS (uariis cum. compendiis) ; LIBER QVARTVS  C; subscriptio deest in H     De differentia disputanti non aeque illud debet occur- rere quod in generis specieique tractatu de collocationis ordine quaerebatur. illic enim meminimus inquisitum, cur esset omni-  bus praepositum genus, ut id primum ad disputationem ueniret, cur post genus species esset iniecta, nunc uero superuacuum est dicere, cur post speciem differentia sumpta sit, cum illud iam fuerit inquisitum, cur non ante speciem collocata sit. quodsi mirum uidebatur speciem differentiae in disputationis  loco fuisse praepositam, quod differentia continentior et magis amplior esset specie, quid est quod possit quisque mirari, si eandem differentiam ante proprium atque accidens collocauerit, cum proprium unius semper sit speciei, ut posterius demon- strabitur, accidens uero exteriorem quandam ostendat naturam  nec omnino in substantia praedicetur, differentia uero utrumque contineat, et de pluribus speciebus et in substantia praedicari? sed haec hactenus, nunc ad ipsa Porphyrii uerba ueniamus.    Differentia nero communiter et proprie et magis  3 quod—inquisitum] p. 170, 2 ss. 198, 10 ss. 18—p. 240, 13] Porph. p. 8, 8—17 (Boeth. p. 33, 18—34, 7).   2 De differentia] Differentiae  E  Differentia  G  Differentiam  La.c . disputanti] in disputando  CEGLm1N  non aeque illud] non illud quoque  C  3 quod] ut  HN  collationis  Cm1HN  4 quaerebatur]  hic desinit cod. S  11  ante  specie  add . ea  EG  ab  HL  est quod  om. GR  ( post  quid  add .interrgatiue)  s. l. Lm2 , sit  Em1  sit quod  m2 an  quisquam?  ad  quisque  add . iure possit  Em2  12  post  eandem  add . iure  E, s. l. Lm2  13 sit unius speciei semper  C  unius sit semper speciei  R  unius semper speciei sit  N  15 substantiam  NR  16 substantiam  Em1  18  ante  Differentia  inscriptio  DE ( om .  Ψ ) DIF- FERENTIA  additur in   2  et magis proprie  in mg. Cm2?   proprie dicitur. communiter quidem differre alterum ab altero dicitur, quod alteritate quadam differt quo- cumque modo uel a se ipso uel ab alio. differt enim Socrates a Platone alteritate et ipse a se uel puero uel iam uiro et faciente aliquid uel quiescente et  semper in aliquo modo habendi alteritatibus. proprie autem differre alterum ab altero dicitur, quando inse- parabili accidenti ab altero differt. inseparabile uero accidens est ut nasi curuitas, caecitas oculorum, cicatrix, cum ex uulnere obcalluerit. magis proprie  differre alterum ab altero dicitur, quando specifica differentia distiterit, quemadmodum homo ab equo  p. 80  specifica differentia differt rationali qualitate. |    Tribus modis aliud ab alio distare praediximus, genere. specie, numero, in quibus omnibus aut secundum substantiales  quasdam differentias alia res distat ab alia aut secundum accidentes. nam quae genere uel specie distant, substantia- libus quibusdam differentiis disgregata sunt, idcirco quoniam genera et species quibusdam differentiis informantur. nam quod homo ab arbore genere distat, animalis sensibilis qua-  litas in eo differentiam facit. addita enim sensibilis qualitas  14 praediximus] p. 191, 21.   1 dicitur]  λεγέσ&ω   Porph. p. 8, 8; cf . nuncupatur  infra p. 241, 18  communiter—distiterit  (12) ]  R Q ,  om. cett . 2 ab  om .  A , s. l .  Γ  3 ipso  om. R  4  pr . a  om. R X  puero] a puero  ΣΦ  5 uiro] a uiro  Φ  et]  R T  uel  cett.; Porph. p. 8, 11 χοιί  aliquod  S  6 habendi] habendi se  Φ ;  Porph. p. 8, 12   τού πώς εχειν  7 ab  om .  ΔΛΣ  quandam  R  8 accidente  R ;  post add . alterum  edd. cum Porph. p. 8, 13  ab  om .  Σ  10 coaluerit  Σ m2 post proprie  add . autem  ΓΔ   (fort. recte)  uero  Φ ;  Porph. p. 8, 15   hi  11 ab  om .  ΛΣ  12 destiterit  TX m1 AZ  quem- admodum—differt  del. Lm1?  13 differentia  om. Ν Σ   ante  rationali  add . id est  CEGL, s. l .  Hm2 A m1?  rationabili  CEGLPR  14 ab]  LP, om. cett . 17 accidens  CEm2 accidentales  Lm2  18 disgregata— quibusdam  om. N, s. l. R  19  post  quibusdam  add . substantialibus  Hm2 edd.,recte? ad  informantur  s. l.  disregantur  N  21 ea  Hm1Lm2NP   animato animal facit, eidem detracta facit animatum atque insensibile, quod uirgulta sunt. igitur homo atque arbor genere differunt — utraque enim sub animalis genere poni non possunt —, differentia sensibili secundum genus discrepant, quae unius ex  propositis tantum genus, id est hominis informat, ut dictum est. illa uero quae specie distant manifestum est quod ipsa quoque differentiis substantialibus discrepant, ut homo atque equus differentiis substantialibus discrepant, rationabilitate atque inrationabilitate. ea uero quae indiuidua sunt et solo  numero discrepant, solis accidentibus distant. haec autem sunt uel separabilia uel inseparabilia, separabilia quidem, ut moueri, dormire; distat enim alius ab alio, quod ille somno prematur, bic uigilet. distat item inseparabilibus accidentibus, quod hic staturae sit longioris, hic minimae. Quae cum ita sint, in ter-  narium numerum has differentiarum diuersitates Porphyrius colligit hisque ipse nomina quibus post utatur, apponit dicens : omnis differentia uel communiter uel proprie uel magis proprie nuncupatur, communiter quidem eam dif- ferentiam sumens quae quodlibet accidens monstret, quae in  quadam alteritate consistit, ut si Plato a Socrate differat, quod ille sedeat, hic ambulet, uel quod ille sit senex, hic  5 ut dictnm est] p. 208, 17 ss.   1 eiusdem  E  et idem  G  eadem  L  inanimatum  L , in-  er. EP; cf. p. 208, 14 ss . 2  post  arbor  add . quae  H   (linea del., sed lin. er.) L (del. m1) N  3 animali ( om . genere)  N  4  ante  differentia  add . sed ex  E  nam  brm, post s. l . igitur  Pm2  5 praepositis  CLm1N positis  Em1, s. l . homine et arbore  Lm2Em2  6 distant specie  C  quod  om. CHN  7 dis- crepare  CHN  ut—discrepant  om. EGL, s. l. R  8 discrepant  om. C  9  post  inrationabilitate  add . distant  L  10 sunt  add. Lm2, in mg. Pm2  13 distant  Hm1Pm2  distet  L  distat enim  E  14 sit  om. R, ante staturae  HN  staturae sit  post  longioris  L  minimae]  Ppr  minime  cett. codd. bm  16 isque  EG ipsis  C  post utatur] postulatur  EGR  17 propria  Ca.c.L  18 propria  L  differentiam eam  HNP  a differentia  (om. eam) E  19  ad  sumens  s. l . exordium  Em2  monstraret  EGLm1  (demonstraret  m2 )  R  20 ut si] uti  EGLm1  (uti si  m2 )  R  a  om. CGR, s. l. Lm1?Pm2  differt  ex  -rat  E  21 sit  om. C  est  EGL (s. l.) R   iuuenis. a se ipso etiam saepe aliquis differre potest, ut si nunc quidem faciat aliquid, cum ante quieuerit, uel si nunc adulescens iam factus sit, cum prius tenera uixisset infantia. communes autem differentiae nuncupatae sunt, quoniam nullius propriae esse possunt differentiae, sed separabilia accidentia  sola significant. nam et stare et sedere et facere aliquid ac non facere multorum atque adeo omnium et separabilia esse accidentia manifestum est. quibus si qui differunt, communibus differentiis distare dicuntur. praeterea puerum esse atque adule- scentem uel senem, ea quoque separabilia sunt accidentia. nam  ex pueritia ad adulescentiam atque hinc ad senectutem, ab hac denique ad decrepitam usque aetatem naturae ipsius necessitate progredimur. illud forsitan sit dubitabile de unius cuiusque forma corporis, an ullo modo separari queat. sed ea quoque est separabilis, nullius enim diuturna ac stabilis forma per-  durat. idcirco nec peregrinus pater relictum domi puerum, si adulescentem redux uiderit, possit agnoscere; forma enim semper quae ante fuerat, permutatur atque ipsa alteritas qua distamus ab altero, semper diuersa est. Constat igitur hanc communem differentiam separabilibus maxime accidentibus  applicari, propria uero est quae inseparabilia significat acci- dentia. ea huiusmodi sunt, ut si quis caecis nascatur oculis, si quis incuruo naso; dum enim adest nasus atque oculi, ille caecus, ille erit semper incuruus. atque haec per naturam. sunt uero alia quae per accidens corporibus fiunt, ut si cui uulnus  1  post  differre  add . quidem  L  2 cum ante  in mg. Cm2  nunc si  C  3 iam  er. L, post  nunc  N  5 proprie  CL  sed]  CLm2NP ,  om. EG , et  R  quae  HLm1  separabiles  E, post add . enim  Lm1, del. m2  6  pr . et  om. P  ac] et  HNP  7 ideo  EGL post  omnium  add-  sunt  edd . et  om. H  esse  om. G, post  accidentia  EL ; separabilium esse accidentium  N  8 si  om . N quid  EG  qua  R  9 discuntur  E 10  ante  separabilia  add . ueraciter  R  14 eo  Lm1  15 est separabilis] est separabilis forma  PR separabilis forma est  EGL  nullius—per- durat  om. GR, in mg. Cm2, s. l. Pm2  ac stabilis] et stabilis  C  ( ut uid .)  N  ac stabili  P  estimabilis  E  18 alteritas ipsa  EG  19 altera  EGLm2R  22 nascetur  Em1  24  ante  erit  add . etiam  R  semper  om. C   inflictum cicatrice fuerit obductum, haec si obcalluerit, pro- priam differentiam facit; distabit enim alter ab altero, quod hic cicatricem habeat, ille uero minime. postremoque in his omnibus uel separabilibus accidentibus uel inseparabilibus alia  sunt naturaliter accidentia, alia extrinsecus, naturaliter quidem ut pueritia uel iuuentus et totius conformatio corporis, sic caeci oculi et curuitas nasi. et superiora quidem exempla separabilis accidentis per naturam sunt, posteriora uero inse- parabilis. item extrinsecus uel ambulare uel currere; id enim  non natura, sed sola affert uoluntas, natura uero posse tan- tum dedit, non etiam facere. atque haec sunt separabilis acci- dentis extrinsecus uenientis exempla, illa uero inseparabilis, ut si qua cicatrix obducta uulneri obcalluerit. Magis propriae autem differentiae praedicantur, quae non accidens, sed sub-  stantiam formant, ut hominis rationabilitas; differt enim homo a ceteris, quod rationalis est uel quod mortalis. | hae sunt  p. 81  igitur magis propriae, quae monstrant unius cuiusque sub- stantiam. nam si illae quidem idcirco communes dicuntur, quia separabiles atque omnium sunt, aliae autem propriae,  quoniam separari non possunt, quamuis sint in accidentium numero, illae iuro magis propriae praedicantur, quae non modo a subiecto separari non possunt, uerum subiecti ipsius speciem substantiamque perficiunt. ex his igitur tribus differentiarum diuersitatibus, id est communibus, propriis ac magis propriis,  fiunt secundum genus uel speciem uel numerum discrepantiae. nam ex communibus et propriis secundum numerum distantiae nascuntur, ex magis propriis uero secundum genus ac speciem.  1  ante cicatrice  add . si  H  6 uel  om. C  formatio  HNPm2  sic]  HPm1  (et si  m2 )  Rm1  (sieque  m2 ) si  EGLm1  (sique  m2 ) tum  CN  9  post  currere  add . sunt  E  10 uoluptas  L  11 at  Em1  atqui  m2 separabilis sunt  C  13 uulneris  Lm2P  autem propriae  La.c.R  14 substantia  Cm1  15 informant  Pm2, recte?  16 a  om. HN  rationa- bilis  EGLPR post  mortalis  add . est  C  hae]  Hp.r.L  haec  cett . sunt igitur] enim sunt  H  20 quoniam] quod  R  22 ab  G post  ipsius  add . suis  Em1, del. m2  23 tribus igitur  CG  24 ac  s. l. Em2 , et  CR    Uniuersaliter ergo omnis differentia alteratum facit cuilibet adueniens, sed ea quae est communiter et proprie, alteratum facit, illa autem quae est magis proprie, aliud. differentiarum enim aliae quidem alte- ratum faciunt, aliae uero aliud. illae quidem quae  faciunt aliud, specificae uocantur, illae uero quae alteratum, simpliciter differentiae. animali enim dif- ferentia adueniens rationalis aliud fecit et speciem animalis fecit, illa uero quae est mouendi, alteratum solum a quiescente fecit; quare haec quidem aliud,  illa uero alteratum solum fecit.    Omnis differentia alterius ab altero distantiam facit. sed haec uel est communis et continens uel cum quodam proprio et magis proprio differentiarum modo. quare quicquid qualibet ratione ab alio diuersum est, alteratum esse dicitur. si uero  accesserit illi diuersitati ut etiam specifica quadam differentia sit diuersum, non alteratum solum, uerum etiam aliud esse praedicatur. alteratio igitur continens est, aliud uero intra alterationis spatium continetur; nam et quod aliud est, alte- ratum est, sed non omne quod alteratum est, aliud dici potest.  itaque si accidentibus aliquibus fuerit facta diuersitas, alteratum  1—11] Porph. p. 8, 17—9, 2 (Boeth. p. 34, 7—15).   1 ergo] uero  CEGR; Porph. p. 8, 17   osv  alterum  E h m2 A  2 sed ea—quiescente fecit  (10) ]  Ω ,  om. cett . ea quae est  eqs. ]  cum cod. A Porph. p. 8, 18, cett.   α: μέν—κοιοϋσιν, a: 81 άλλο  3 alterum  Δ ,  item 4  autem] uero  ΔΣΦ  7 altera  Φ*  enim] autem  A a.c . 8 ratio- nale  2  facit  ΓΣΦ   item 9; Porph. p. 9, 1   ίποίησεν  et speciem animalis fecit  om. codd. quidam Porph., deleri uult Busse  10 faci(??)  ΓΔ m2 ΣΦ  qua * ( (??)  ? er.)  re *   C  qua in re (si  add. GLm1, s. l . siqui- dem  m2 )  EGL  11 ille  Gm1  illae  Δ  solum  om. EG, s. l. Cm2 , solum modo  P  fecit]  ΔΛ ,  om. P,  facit  cett.; Porph. p. 9, 2   έποίηοιν  13 uel est]  L  uel ex  EG  est uel  N, om . est  CR, om . uel  HP   (ante  est  add . quidem )  communi  EG continenti  E ( -ti * ) G  cum  om. N, s. l. Em2  eo  m1  14 proprio] proximo  GR, post  proprio  add . uel ma- ximo  P  18 inter  Gm1  19 nam et]  Hm1NR  igitur et  EG  igitur omne  ( et  add. C) CHm2L  21 erit  HN   quidem effectum est, quoniam quidem quolibet modo uel ex quibuslibet differentiis considerata diuersitas alterationem facit intellegi, aliud uero non fit, nisi substantiali differentia alterum ab altero fuerit dissociatum. itaque communes et propriae  differentiae, quoniam accidentium, ut dictum est, sunt, solum efficiunt alteratum, aliud uero minime, magis propriae autem, quoniam substantiam tenent et in subiecti forma praedicantur, non modo alteratum, quod est commune uel substantiali uel accidenti differentiae, sed etiam aliud faciunt, quod ea sola  retinet differentia quae substantiam continet formamque sub- iecti. atque hae quidem differentiae quae faciunt aliud, speci- ficae nuncupantur idcirco, quod ipsae efficiunt speciem; quam cum substantialibus differentiis informauerint, faciunt ab aliis ita esse diuersam, ut non alterata solum sit, uerum etiam  tota alia praedicetur. itaque fit huiusmodi diuisio, differentiarum ut aliae alteratum faciant, aliae nero aliud. et illae quidem quae faciunt alteratum, simpliciter puro nomine differentiae nuncupantur, illae uero quae aliud, specificae differentiae prae- dicantur. atque ut planius liqueat quid sit alteratum, quid  aliud, tali describuntur termino uel declarantur exemplo : aliud est quod tota speciei ratione diuersum est, ut equus ab homine, quoniam rationalis differentia animali adueniens hominem fecit aliudque eum quam equum esse constituit. item si unus homo sedeat, alter assistat, non efficietur homo diuersus ab homine,  sed eos alteratio sola disiungit, ut eum qui assistit ab eo qui  5 ut dictum est] p. 242, 4 ss. 19 ss.   1  post , quidem  om. HNP, del. Lm2  uel ex quibuslibet  om. H  2  ad  differentiis  s. l . uel diuersitatibus  Rm1 ? 7 formam  N  9 accidentali  Hm2NPm2 facit  EGLP  10 quae  er. C  11 hee  P  12 ipsae  om. EGLR  14 alteratum  E (in ras. m2) P  alterum  GLR  15 aliud  R  sit  E  16 ut  om. EH  faciunt  HNR  facient  Em2  facie  m1  20 describantur  Em1 21 ratione specie  (sic) E  ab  om. EGL, s. l. HP  22 facit  HLNPm1  23 esse] est  Em1  ita  R  itaque  N  24 effi- citur  N  efficiatur (ur  add. m2 )  P   sedet faciat alteratum. item si ille sit nigris oculis, ille caesiis, nihil, quantum ad formam humanitatis attinet, permutatum est. ita secundum has differentias alteratio sola consistit. at si equus quidem iaceat, homo uero ambulet, et aliud est equus ab homine et alteratum, dupliciter quidem alteratum, semel  uero aliud. alteratum est enim, uel quod omnino specie diuer- sum est — et est aliud; omne enim aliud, ut dictum est, etiam alteratum est —, uel quod accidentibus distat, quod ille iaceat, hic ambulet, semel uero est aliud, quod rationabili  p, 82  atque inrationabili differentiis dis|gregatur, quae specificae sunt  et substantiales dicuntur. est igitur alteratum quod ab alio qualibet ratione diuersum est.  Secundum igitur aliud facientes diuisiones fiunt a generibus in species et definitiones adsignantur, quae sunt ex genere et huiusmodi differentiis, secundum  autem eas quae solum alteratum faciunt, alteratio sola consistit et aliquo modo se habendi permutationes.    Quoniam in principio operis huius generis, speciei, differen-  13—17] Porph. p. 9, 2—6 (Boeth. p. 34, 15—19). 18 in prin- cipio o. h.] p. 147, 5.   1 facit  Em1G  item  om. EGR, in mg. Hm2, s. l. Lm2 si  om. EGL, post  ille  R, in mg. Hm2 post . ille] iste  N  caesius  La.c . (ce-)  Pm1  caecis  N  cecus  C  3 item  in ras. L post  has  add . quo- que  HNP, s. l. Lm2  sola  s. l. Em2  ut  GN  4 uero  om. E  5 ab] de  P pr . alterum  GLm1  6  post  uero  add . est  C  enim  om .  H  (quidem  add. post est )  N, ante est  CGPR  7 enim  om. G  8 distet  R  9 iacet  HLm1N  ambulat  H  rationali atque inrationali  HLm2R  10 differentia  N  segregatur  CR  specificae sunt] differentiae specificae  C  13  post facientes  add . differentias  edd., om. codd. cum cod. C Porph. p. 9,3 et Dauide commentatore p. 177, 23 (Busse); post add . et  edd. cum Porph .  τέ  14 quae—faciunt  (16) ]  L Q ,  om. cett . 15  ante  sunt  add . definitiones  Γ  definitiones scilicet  Δ  et] ex  Δ m2  16  ante  alteratio  add . at  CG alteratio sola consistit]  ai έτερότητες μο'νον συνί- ατανται   Porph. p. 9, 5  17 et] in  CEGLR  ad  Δ ;  Porph.   v.at  aliquo modo] aliquando  Γ  se  add. Em2  habentis  R  habentibus  EGLm1 permutatione  R  permutationibus  CEGLm2  18 huius  om. EGR, ante  operis  s. l. Lm2 specieique  EGLNPR; cf. p. 148, 17   tiae, proprii accidentisque notitiam ad diuisionem atque ad definitionem utilem esse praedixit, idcirco nunc differentiarum ipsarum facta diuisione easdem partitur et segregat, quaenam differentiae diuisionibus ac definitionibus accommodentur, quae  uero minime. quoniam igitur diuisio generis ita in species facienda est, ut illae a se species omni substantiae ratione diuersae sint, idcirco non probat assumendas esse eas ad diui- sionem differentias quae uel separabilis uel inseparabilis acci- dentis significationem tenent, idcirco quoniam, ut dictum est,  solum faciunt alteratum, aliud uero perficere et informare non possunt. inutiles igitur sunt ad diuisionem hae differentiae quae faciunt alteratum. segregandae igitur sunt communes et propriae a generis diuisione, illae assumendae tantum quae sunt magis propriae. illae enim faciunt aliud, quod generis  diuisio uidetur exposcere. ad definitionem quoque eaedem magis propriae plurimum ualent, communes et propriae uelut inutiles segregantur; communes enim et propriae, quo- niam accidens diuersi generis ferunt, nihil substantiae ratione conformant, definitio uero omnis substantiam conatur ostendere.  specificae uero differentiae illae sunt quae, ut superius dictum est, speciem informant substantiamque perficiunt; hae sunt magis propriae. eaedem igitur sicut in diuisionem, ita etiam in definitionem assumuntur. ut enim dictum est, eaedem diffe-  9 ut dictum est] cf. p. 244, 2. 245, 4 (et p. 242, 19—21). 20 supe- rius] p. 245, 11. 23 ut enim dictum est] infra p. 253, 12 ss. 258, 9 ss. 260, 6 ss.   2 definitionem] defensionem  G  utile  E  4 ac definitionibus  om .  EG  5 diuisio igitur  E  7 eas  ante  assumendas  P, ante  esse  HN  diuisiones  NRm1  8 uel inseparabilis  om. EGR  9 idcirco—faciunt] uel eas differentias quae faciunt (faciant  R )  EGL (del. m2) R  10 aliud— alteratum  (12) om. EGR  14 aliud faciunt  C  15 definitionem] diui- sionem  Cm1EGLm1  eadem  Em1G  16 plurimum  om. EG post  ualent  add . nam  EGL (del. m2) P  17 uelut—propriae  om. EGR  enim  om. CH  18 proferunt  Lm2Pm2 procedent  m1  praecedunt  N a.c . 19 informant  N  21 hee  CP  haec  E  22 eaedemque  C  eadem  Em1GL  diuisione  GN, add . generis  GL  etiam  om. HN  et  P  23 diffinitione  N  ut enim—sumuntur  om. edd .   rentiae nunc quidem constitutiuae ad definitionem specierum sumuntur, nunc diuisiuae ad partitionem generis accommodantur. ita igitur cum diuisiuae sunt generis, aliud constituunt, in substantiae uero definitione speciei informationem faciunt, cumque magis propriae et aliud faciant et specificae sint, eo  quidem quo aliud faciunt, diuisionibus aptae sunt, eo uero quo speciem informant, definitionibus accommodatae sunt. communes autem et propriae quoniam neque aliud faciunt, sed alteratum, neque omnino substantiam monstrant, aeque a diuisione ut a definitione disiunctae sunt.   A superioribus ergo rursus inchoanti dicendum est differentiarum alias quidem esse separabiles, alias uero inseparabiles. moueri enim et quiescere et sanum esse et aegrum et quaecumque his proxima sunt, separabilia sunt, at uero aquilum esse uel  simum uel rationale uel inrationale inseparabilia. inseparabilium autem aliae quidem sunt per se, aliae  11—249, 4] Porph. p. 9, 7—14 (Boeth. p. 34, 20—35, 6).   2 assumuntur  Ea.c . partitionem] coparationem  N  3 ita—faciunt  (4) in mg. sup. Hm2  Ita igitur cum diuisio generis aliud quaerat. substantia uero speciei informationem  Hm1, eadem uerba loco  ita—faciunt  adiungit N  Ita igitur cum ad diuisionem generis aliud querant. aliud uero ad speciei informacionem faciunt  Hm3  3 diuisiuae]  CHm2LN   (priore loco) Pm1  diuisione  EG  ad diuisionem  Hm3R  diuisio  Hm1N (post. l) Pm1  sunt]  CHm2LN (pr. l.), om. EGHm1 et 3 N (post. l.) R, s. l. Pm2  constituunt]  CHm2N (pr. l.) Pm2  quaerat  Hm1N (post. l.) Pm1  quaerant ( uel  que-,)  Hm3R  quam erat  EG  constituunt quam erat  L  in substantiae uero definitione]  CHm2LN (pr. l.) Pm2  in substantia uero  Pm1R  substantia uero  EGHm1N (post. l.)  aliud uero  Hm3  4  post  uero  add . ad  Hm3  faciunt  om. EHm1N (post. l.)  5  pr.  et  om. HN, s. l. Pm2  faciunt  Lm1Pm1  et] ac  C  eo] in eo  N  6 quidem  om. L  quod  HLm1NP (d  er .) uero] modo  N  7 quod  HRm1  9 sed] sub  G  monstrat  CGm1  11 ergo  om .  H  uero  N 2 ;  Porph. p. 9, 7   ouv  rursus  om. H  12 aliae... aliae  h m1  separabiles esse  Φ  13 alias uero—perceptibile  (p. 249, 2) om. C  moueri—perceptibile]  R Ω ,  om. cett . 14  ante  quaecumque  s. l . omnia  Λ  15 at—inseparabilia  in sup. mg .  h m2  acylum  ΓΦ  acilum  ΛΣ ,  sim. p. 249, 3.250, 20. al . 16  post  inseparabilia  add . sunt PAS<P   edd. Busse, om.R h   cum Porph. p. 9,10   uero per accidens; nam rationale per se inest homini et mortale et disciplinae esse perceptibile, at nero aquilum esse uel simum secundum accidens et non per se.    Superius differentias triplici diuisione partitus est dicens aut communes esse aut proprias aut magis proprias, dehinc easdem alia diuisione in duas secuit partes dicens has quidem aliud facere, illas uero alteratum. nunc tertiam earum quidem facit diuisionem dicens alias esse separabiles, alias inse-  parabiles, posse autem de uno quoque cuius multae sunt dif- ferentiae, plurimas fieri diuisiones ex ipsa differentiarum natura manifestum est. nam si omnis diuisio differentiis distribuitur, quorum multae sunt differentiae, multas etiam diuisiones esse necesse est. fit autem ut animal diuidatur quidem hoc modo :  animalis alia quidem sunt rationabilia, alia inrationabilia, item alia mortalia, alia inmortalia; item alia pedes habentia, alia minime; rursus alia herbis uescentia, alia carnibus, alia semi- nibus. ita nihil mirum uideri debet, si multiplex differentiae est facta partitio. ac primum quidem cum in ternarium nume-  rum differentiae membra secuisset, communes et proprias et magis proprias nuncupauit. secunda uero diuisio communes et proprias intra nomen alteratum | facientis inclusit, magis proprias  p. 83  uero intra aliud facientis. haec nero tertia diuisio, quae ait dif- ferentiarum alias esse separabiles, alias inseparabil es,  5 Superius... dicens aut eqs.] p. 239, 18. 7 dicens has eqs.| p. 244, 2.   2 perceptibile]  ΦΨ  perceptibilem  cett . ( in mg . capacem  T ) 3 uel] et  Γ  simium  P post  accidens  add . est  Γ ,  s. l. Lm2, ras. in E  et  om. Ν ΑΣ  4  post  se  add.  est  P  5 differentia  R  7 dicens  in mg. Hm2  8 earum quid  R  earundem  CN  quidem  post pr . alias  C  9  post post , alias  add . uero  C  14 animal] in animali quod  H  diuiditur  H  quidem  ante  diuidatur  Lp, om. brm  15 animalium  N edd . quidem  post  sunt  NP, om. H  rationalia alia inrationalia  H  18 item  P  20  post  secuisset  add . ait  HP  aut  CN  et magis—et proprias  om. EG  21 nun- cupari  H  nuncupauerit  LPR  22 facientes  CNPm1  propria  R  proprium  Em1GLp.c . 23 facientes  CN  qua  CLNRm1   unam quidem ex alteratum facientibus separabilibus differentiis adiungit, ceteras uero intra inseparabilis differentiae uocabulum claudit. una quidem ex alteratum facientibus. id est propria differentia, et reliqua quae aliud facere demonstrata est, id est magis propria, inseparabiles differentiae esse dicuntur.  quarum subdiuisio fit. inseparabilium differentiarum aliae sunt per se, aliae secundum accidens, per se quidem magis pro- priae, secundum accidens uero propriae. per se autem aliquid inesse dicitur quod alicuius substantiam informat. si enim idcirco quaelibet species est, quoniam substantiali differentia  constituitur, illa differentia per se subiecto adest neque per accidens aut per quodlibet aliud medium, sed sui praesentia speciem quam tuetur informat, ut hominem rationabilitas. homini enim huiusmodi differentia per se inest, idcirco enim homo est, quia ei rationabilitas adest; quae si discesserit,  species hominis non manebit. et has quidem quae substanti- ales sunt, inseparabiles esse nullus ignorat; separari enim a subiecto non poterunt, nisi interempta sit natura subiecti. secundum accidens nero inseparabiles differentiae sunt hae quae propriae nuncupantur, ut aquilum esse uel simum; quae  idcirco per accidens nuncupantur, quoniam iam constitutae speciei extrinsecus accidunt nihil subiecti substantiae commo- dantes.   Illae igitur quae per se sunt, in substantiae  24—p. 251, 14] Porph. p. 9, 14—23 (Boeth. p. 35, 6—17).   1 ex  om. EG, in inf. mg. L  alteratum  post  facientibus  R, om. G post  facientibus  add . id est communem  L (in inf. mg.) P  2 adiungit] ponit  La.c . cetera  R  ceterasque  Lm2  alteram  C  3 una  ras. ex  una  C  quidem] quidem fit  G  quippe  HN  4 et  om. G, s. l. E  5 inseparabilis  E  esse  om. G  6  post  quarum  add . quidem  Lp  ita  brm post  aliae  add . enim  EGL  8 inesse aliud ( ex  aliquid  m2 )  L  11 neque] non  Lm2R, ante  neque  add . quae  Hm2  12  post  medium  add . quae sunt propria  Hm1, del. m2  13 rationalitas  H, item 15  15 ei  s. l. Hm2  16 quidem eas  (sic) C  17 nullus esse  C  18 nisi] ni  EG 20 proprie  CN  aquilum]  cf. p. 248, 15  22 accedunt  Hm1N  subiecto  Hm1  subiectae  Lm1N   (-te)  24 Igitur illae  C  in  om .  N   ratione accipiuntur et faciunt aliud, illae uero quae secundum accidens, nec in substantiae ratione dicuntur nec faciunt aliud, sed alteratum. et illae quidem quae per se sunt, non suscipiunt magis et  minus, illae uero quae per accidens, uel si inse- parabiles sint, intentionem recipiunt et remissi- onem; nam neque genus magis aut minus praedi- catur de eo cuius fuerit genus, neque generis dif- ferentiae, secundum quas diuiditur; ipsae enim  sunt quae unius cuiusque rationem complent, esse autem uni cuique unum et idem neque intentionem neque remissionem suscipiens est, aquilum autem esse uel simum uel coloratum aliquo modo et intenditur et remittitur.    Differentiis rite partitis earum inter se distantiam monstrat atque unam quidem repetit quam superius dixit. cum enim tres esse dixisset differentias, communes, proprias, magis pro- prias, alteratum facere dixit proprias, sicut etiam communes, aliud minime, sed hoc solis magis propriis reseruauit. nunc  igitur idem repetit dicens quoniam inseparabiles differentiae quae substantiam monstrant, id est quae per se subiectis speciebus insunt easque perficiunt, aliud faciunt, illae uero  16. 252, 3 superius] p. 244, 1 ss.   1 rationem  GR h  suscipiuntur  Lm2  percipiuntur  Φ  aliud] illud  E  illae—suscipiens est  (12) ]  Ω ,  om. cett . 3 dicuntur] accipiuntur  Φ   (ex 1); Porph. p. 9, 16   λαμβάνονχαι   uel παραλαμβάνοντα   codd .,  λέγονται   Dauid comment. p. 184, 16  alteratum] alterum  W- m1  et  om .  Γ  4 quidem  om .  Λ  uero  Γ  5 uero quae] quidem  Γ  si  om .  Φ  6 sunt  ΔΣΦ brm Busse; Porph. p. 9, 18   v.dv—Jaw  7 aut]  Λ   Busse  et  cett. codd. edd. (cf. 4); Porph. p. 9, 19   ή   cod. M   m;   cett . 9 ipsae]  otuxat   Porph. p. 9, 20  10  post  rationem  add . id est diffinitionem  Φ  11 neque—remissionem  cum Porph. p. 9, 21 cod. Μ ,  ooxe ανεσιν οντε έπίχασιν   cett . 12 aquilum]  cf. ad p. 248, 15  autem  om. P  13  pr . uel] et  Γ  colorari  Em1  et  om. CLR  14 et] uel  R  17 esse  post dixisset  HNP, ante  tres  P  18 alteratum—proprias] proprias alte- ratum facere dixit  HNP  19  post  aliud  add . uero  HNPR, s. l. Lm2   quae sunt propriae, id est secundum accidens inseparabiles differentiae, neque in substantia insunt nec aliud faciunt, sed tantum, ut superius dictum est, alteratum. item alia distantia est earum differentiarum quae secundum substantiam sunt, ab his quae secundum accidens, quoniam quae substantiam mon-  strant, intendi aut remitti non possunt, quae uero sunt secun- dum accidens, et intentione crescunt et remissione decrescunt. id autem probatur hoc modo. uni cuique rei esse suum neque crescere neque deminui potest; nam qui homo est, humanitatis suae nec crementa potest nec detrimenta suscipere. nam neque  ipse a se plus aut minus hodie uel quolibet alio tempore homo esse potest nec homo rursus ab alio homine plus homo potest esse uel animal. utrique enim aequaliter animalia, aequaliter homines esse dicuntur. quodsi uni cuique esse suum nec cremento ampliari potest nec inminutione decrescere,  quod per id facile monstrari potest, quoniam quae genera sunt uel species, nulla intentione uel remissione uariantur, non est dubium quin differentiae quoque, quae unius cuiusque speciei substantiam formant, nec remissionis detrimenta suscipiant nec intentionis augmenta. itaque substantiales differentiae  neque intentionem neque remissionem suscipiunt. huius causa haec est. quoniam esse uni cuique unum et idem est, et  p. 84  intentionem re|missionemue non suscipit huius exemplum. genus  2 nec  N  substantiam  N  sunt  EN  neque  edd . 4 est]  L   (s. l. m2) P edd., om. cett . sunt  om. E  5 secundum accidens quo- niam quae  om. EGP  6  ante  intendi  add . quae  EGP post  pos- sunt  add . secundum  (s. l. E)  accidens  EGP  sunt  om. CHL  7 in- tentione] intensione  Pm2 edd., item 17—p. 253, 6  9 deminui]  Pm1  minui  L (ex  diminui  m2) N  diminui  cett . quia  C  10 decrementa Em1G edd . 11 uel] aut  L  12 neque  N  13 uterque  P  aequa- liter—dicuntur] aequaliter corporales. aequaliter animati. aequaliter ho- mines esse dicuntur  H, eadem uerba loco aequaliter—dicuntur  adiungit sic  utrique enim aequaliter  eqs. N  15 ampliorari  EGLPm1  17  ante  non  s. l . et ob hoc  Em2  19 informant  Pm2  21 suscipient  N  cuius  HNP  22  post  unum  add . est  L  23 remissionemque  N post  exemplum  add.  sit  Lm1 edd. (ante  huius  distinctio) , est  Lm2, s. l. Hm2   enim dici non potest plus minusue cuilibet genus; omnibus enim genus aequaliter superponitur. differentiae quoque quae diuidunt genus et informant speciem, quoniam speciei essentiam complent, nec intentionem recipiunt nec remissionem. quae  uero secundum accidens differentiae sunt inseparabiles, ut aquilum esse uel simum uel coloratum aliquo modo, et inten- tionem suscipiunt et remissionem. fieri enim potest ut hic paulo sit nigrior, hic uero amplius simus, ille minus aquilus, at uero quod non omnes homines aequaliter rationales mor-  talesque sint, nec specierum nec differentiarum natura uidetur admittere.   Cum igitur tres species differentiae consi- derentur et cum hae quidem sint separabiles, illae uero inseparabiles, et rursus inseparabilium cum  hae quidem sint per se, illae uero per accidens, rursus earum quae sunt per se differentiarum aliae quidem sunt secundum quas diuidimus ge- nera in species, aliae uero secundum quas ea quae diuisa sunt specificantur, ut cum per se differen-  tiae omnes huiusmodi sint, animati et inanimati,  12—p. 254, 8] Porph. p. 9, 24-10, 8 (Boeth. p. 35, 18—36, 6). 16 differentiarum—19 specificantur] Abaelardus, Introduct. ad theolog., II p. 94.   1  post  cuilibet  add . esse  L edd . 2 quae  om. GPR, del. Hm1?  3 formant  CEGLm1R  species  Lm2NP  3  ante  quoniam  add . quae  EGHLPR  essentiam] substantiam  N  4  ante  quae  add.  ill<a>e  G  6 aquilum]  cf. ad p. 248, 15  colorari  EG  8 nigrior sit  HNP  hic— aquilus] hic uero minus hic magis acilus ille autem minus hic amplius simus illo uero minus  E amplius simus] amplissimus  G, add . sit  L  aquilus]  ut  6 9 non quod  R  ut non  HNPm1  quoniam non  m2  ratio- nabiles  ELm2P  12 considerantur  Λ m2  ( in er . -entur)  2  13 haec  EG  illae—sensibilis  (p. 254, 5) om. CEG  14 et—sensibilis  (ibid.) om. HLNP  16 rursus—sensibilis  (ibid.) om. R  per se sunt  Λ2Φ  17 quidem  om .  Λ2  18 ea]  ΓΔΨΨ   edd . haec  ΛII2  20 animatum et inanimatum sensibile et insensibile rationale et inrationale mortale et inmortale  h m1 animati—insensibilis]  Porph. p. 10, 4   εμψύχου και αίαβητικου   ante  sint  add . animalis  edd. cum Porph .  τοϋ ζώου   quattuor  et  (20—p. 254, 2) om .  2   sensibilis et insensibilis, rationalis et inrationalis, mortalis et inmortalis, ea quidem quae est animati et sensibilis differentia. constitutiua est substan- tiae animalis — est enim animal substantia ani- mata sensibilis —, ea uero quae est mortalis et  inmortalis differentia et rationalis et inrationalis, diuisiuae sunt animalis differentiae; per eas enim genera in species diuidimus.    Fit nunc differentiarum plena et suprema diuisio, quae est huiusmodi. differentiarum aliae sunt separabiles, aliae inse-  parabiles, inseparabilium aliae sunt secundum accidens, aliae substantiales. substantialium aliae sunt diuisibiles generis, aliae coustitutiuae specierum. quod uero ait : cum igitur tres species differentiae considerentur, ad hoc retulit, quod in prima differentiarum diuisione partim eas communes esse,  partim proprias, partim magis proprias dixit, quas rursus tres differentias alias separabiles esse monstrauit, alias inseparabiles, separabiles quidem communes, inseparabiles uero proprias ac magis proprias. inseparabilium uero fecit diuisionem dicens alias esse secundum accidens, quae propriae nuncupantur, magis  proprias uero secundum substantiam considerari. earum uero quae secundum substantiam sunt, subdiuisionem facit, quod  3 constituta  T m1  4  post  animata  add . et  ΓΛ   Busse, om .  ΔΠΣΦΨ Porph. (p. 10, 6) edd . 5 ea] he  ex  e  Rm2  est] sunt  R  6 diffe- rentia  om .  CEGPR  et  om .  CLR \\ rationabilis et inrationabilis (rac-  et  irrac-  P )  Lm2P  7 diuisi  Em1  diuisae  GPm1  has  HP; Porph. p. 10, 8   St’ αΰτών  8 genera in]  L (s. l. m2)   ΓΔΠ .  (in mg. m2)   Ψ   Porph., om. cett . 11  post  inseparabilium  add.  uero  C  12 generis  om. EGR, in mg. Lm2  15  post  esse  add . dixit  HNP  dicit  R  16 dixit  om. HPR, s. l. Em2  rursum  H  17 alias insepa- rabiles esse (esse  om. N ) monstrauit  HNP  18 ac] et  HN  20 acci- dens] se  EG(er.), s. l. Pm2, add . substantiam  Em1  alias (alia  E ) se- cundum substantiam considerari  G edd., in mg. Em2, s. l . alias secun- dum  Pm2, post  considerari  add . et illas esse secundum accidens  edd.  quae—considerari  om. E post  quae  s. l . uero secundum accidens  Pm2  propria  C  proprias  Pm2  nuncupari  Pm2  21 eorum  (sic)  uero quae secundum substantiam  s. l. add. Em2  22  post  quae  add.  et  C   aliae earum genus diuidant, aliae speciem informent. ad cuius rei facilem cognitionem illa tertii libri specierum generumque dispositio transcribatur. sitque primum substantia, sub hac corporeum atque incorporeum, sub corporeo animatum atque  inanimatum, sub animato sensibile atque insensibile, sub quo animal, sub animali rationale atque inrationale, sub rationali mor- tale atque inmortale et sub mortali species hominis, quae solis deinceps indiuiduis praeponatur. in hac igitur diuisione omnes hae differentiae specificae nuncupantur, generum enim specierum-  que differentiae sunt, sed generum quidem diuisiuae, specierum autem constitutiuae. id autem probatur hoc modo. substantiam quippe corporei atque incorporei differentiae partiuntur, cor- poreum uero animati atque inanimati, animatum sensibilis atque insensibilis. ita igitur genera substantiales differentiae  partiuntur et dicuntur generum diuisiuae. at uero si eaedem differentiae quae a genere descendentes genus diuidunt, colli- gantur et in unum quae possunt iungi copulentur, species informatur. nam cum animal species sit substantiae — omnia enim superiora de inferioribus praedicantur et quicquid inferius  fuerit, species erit etiam superioris —, animatum tamen atque  2 illa tertii libri.. dispositio] p. 208, 12 ss.   1 diuidunt  N  diuident  R informant  CNR, add . atque construant  H  atque constituunt (-ant  ex  -ent  P )  NP, s. l. Lm2   (ex p. 256, 3)  at  E  2 facilitatem  G  cognitionem  om. EG  illa  s. l. Hm2  3 trans- feratur  Hm1N; post transcribatur  spatium ad inscribendam figuram ut uid. relictum in EG  sub] ubi  E  hoc  Em1GLm1R  4 atque incorporeum  in mg. Em2  sub corporeo  om. GR, in mg Em2, s. l. Lm2  6 animal sub  om. E  sub animali  om. GR  6 rationabile  E  7 et  om. HN, del. Em2  12 patiuntur  Em1G  corporeum—partiun- tur  (15) om. Em1, in mg . corporeum ( ex  corpore  m3 )—inanimati (ani- matum autem  s. l. add. m3 ) sensibilis—partiuntur  add. m2  13 ani- matum  om. G, post add . autem  Em3  enim  Lm1, del. m2 , et  er. N  14  post  insensibilis  add . partiuntur  CL substantialis  Gm1Pm2  15 si  del. Lm2, post  si  del . et  R  heaedem  P  (dem  er .)  R  (h  del .) hae  HN 16 quae  post  descendentes L 17 in  ex al. litt. Em2  18 informantur  EHN  informant  part. ras. ex informatur  Lm2  fit  E   sensibile quae sunt differentiae, si referantur ad genera, diui- siuae sunt, constitutiuae uero fiunt animalis eiusque sub- stantiam formant atque constituunt definitionemque conformant, ut sit animal substantia animata sensibilis, substantia quidem genus, animatum uero atque sensibile eiusdem differentiae consti-  p. 85  tutiuae. | item animal rationabilitas atque inrationabilitas diuidit, mortali etiam atque inmortali diuiditur, sed iuncta rationabilitas atque mortalitas, quae animalis diuisiuae fuerant, fiunt homi- nis constitutiuae eiusque perficiunt speciem atque omnem eius rationem definitionis informant atque perficiunt. at si  inrationabilitas cum mortalitate iungatur, fiet equus aut quod- libet animal, quod ratione non utitur, rationabilitas uero atque inmortalitas copulatae del substantiam informant. ita eaedem differentiae cum referuntur ad genera, diuisiuae generum fiunt, si uero ad inferiores species considerentur, informant species  earumque substantiam conuenienti copulatione constituunt. In hoc quaesitum est, quemadmodum dicerentur esse hae diffe-  1  post  sunt  add . eiusdem  P (s. l. m2) edd . diuisiua  Em1G  2  post  sunt  s. l . si ad speciem  Lm2Pm2  uero  om. N, del. Pm1?, s. l. Hm2Rm2  fiunt  s. l. Rm2  3 definitionemque] diuisionemque  EG  formant  Hm1  4 quidem] uero  N  5 ante genus add. eiusdem  CN ,  post add . est  s. l. LPm2 ante  differentiae  add . generis  GP, post add . diuisiuae  R post  constitutiuae  add . animalis  R, s. l . speciei animalis  Lm2  6 rationabilitas—diuiditur]  P  rationalitas atque inrationalitas diuidit mortalitas ( ex  inmortali  m2 ) etiam atque inmortalitas ( ex  inmor- tali  m2 ) diuidit ** ·  H  rationabilitas atque irrationabilitas mortale atque inmortale diuidit  C  rationale atque inrationale (diuidunt  add. N ) mortale atque (et  N ) inmortale diuidit (diuidit  om. N )  NR inrationabile (inratio- nale  L ) atque inmortale diuiditur  EGLm1, in mg. ante  atque  add . irracionale. mortale etiam atque  m2  rationabilitas atque irrationabilitas, mortalitas atque immortalitas diuidit  brm  7 rationalitas  E  8 diuisiua  Em1GLm1R  9 constitutiua  GLm1R eiusque] hominisque  HNP  nominis  (del. Lm2)  eiusque  EGL  10 atque perficiunt  s. l. Rm2  11 irrationalitas  EP  mortali  Lm2Pm1  fiat  G  aut] atque  L  12 rationalitas  HP  13 inmortalitas] inrationabilitas  R  dei  om. G ,  post  substantiam  E (s. l. m2) L  formant  HN  item  HL  14 di- uisae  E  17 esse  om. C  eae  EGR  heae  P   rentiae specierum constitutiuae, cum inrationabilis differentia atque inmortalis nullam speciem uideantur efficere. respondemus primum quidem placere Aristoteli caelestia corpora animata non esse; quod uero animatum non sit, animal esse non posse;  5 quod uero non sit animal, nec rationale esse concedi. sed eadem corpora propter simplicitatem et perpetuitatem motus aeterna esse confirmat. est igitur aliquid quod ex duabus his diffe- rentiis conficiatur, inrationabili scilicet atque inmortali. quodsi magis cedendum Platoni est et caelestia corpora animata  esse credendum, nullum quidem his differentiis potest esse subiectum — quicquid enim inrationabile est corruptioni sub- iacens et generationi, inmortale esse non poterit —, sed tamen hae differentiae, quoniam substantialium differentiarum in numero sunt, si iungi ullo modo potuissent, earum naturam  et speciem quoque possent efficere. atque ut intellegatur, quae sit haec potentia efficiendae substantiae specieique formandae, respiciamus ad proprias atque communes, quae tametsi iun- gantur, speciem substantiam que nulla ratione constituunt. si quis enim loquatur ambulans, quae sunt duae communes dif-  ferentiae, uel si albus ac longus, num idcirco isdem eius sub- stantia constituitur? minime. cur? quia non eiusdem sunt generis, quae alicuius possint constituere et conformare sub-  3—7 Aristoteli] cf. De caelo II 12, p. 292 a , 18 ss.; ed. Didot IV part. II p. 38 a , frg. 24 (Cic. de nat. deor. II 15, 42 cum locis ab Heitzio adlatis). 9 Platoni] Tim. p. 38 E. 39 E ss.; cf. supra p. 209, 2.   1 species  G  inrationalis  CEGP  differentiae  E  5 concedit  Lm1N  7 est] esse  CN, ad  est  s. l . ał esset  L  aliud  G  8 con- ficeretur  H, s. l.  ( add . ał)  ad  conficiatur  L  irrationali  Lm2P  9 ac- cedendum  CN  (ac  er .)  H  (ac  in ras. m2 ), concedendum  edd . est platoni  CN  et  om. C  10 credendum  om. CN  11 inrationale (irr-  P )  HP 13  ante  substantialium  add . in  CHN, post  diff.  om. CHNR  16 efficientiae  G  17 tametsi] etsi  C etiam (si  er. H ) etsi  H  ( in mg . ł tametsi  m2 )  NP  19 loquitur  HN  20 sit  H  num  ex  non  Rm2 isdem]  NP  eisdem (ei  in ras. m2 )  L  hisdem  cett., post s. l . differentiis  add. Em2  21  ante  cur  add . id  HNP, s. l. Lm2  eius  EG  sunt  ante  eiusdem  N, post  generis  L  22 possunt  NP  con- firmare  Em1GRm1   stantiam. ita igitur hae, id est inrationale atque inmortale, etiamsi subiectum aliquod habere non possunt, possent tamen substantiam efficere, si ullo modo iungi copularique potuissent, praeterea inrationale iunctum cum mortali substantiam pecudis facit : est igitur constitutiua inrationalis differentia, item inmor-  tale ac rationale coniuncta efficiunt deum : est igitur inmortale quod speciem formet, quodsi inter se iungi nequeunt, non idcirco quod in natura earum est, abrogatur.   Sed hae quidem quae diuisiuae sunt differentiae generum, completiuae fiunt et constitutiuae speci-  erum; diuiditur enim animal rationali et inrationali differentia et rursus mortali et inmortali differentia, sed ea quae est rationalis differentia et mortalis, con- stitutiuae fiunt hominis, rationalis uero et inmor- talis del, illae uero quae sunt inrationalis et mor-  talis, inrationabilium animalium, sic etiam et supremae substantiae cum diuisiua sit animati et inanimati dif- ferentia et sensibilis et insensibilis, animata et sen- sibilis congregatae ad substantiam animal perfecerunt.    9—19] Porph. p. 10, 9—17 (Boeth. p. 36, 7—15).   2 aliquod  om. C  aliquid  LP  possunt—substantiam] possent tamen substantiam possent  C  4 mortale  EGPm1  5 irrationabilis  NP  ita R 6 coniunctae  HN  8 eorum  edd . 9 haec  CL  heae  P  10 generum  om. EG  fiant  Cm1Em1G  sunt  Σ  11 diuiditur—insensibilis  (18) ]  2 ,  om. cett . 12  pr . et—differentia  om.   2 ,  add.   X m2  13 ea... differentia]  Porph. p. 10, 12 ai... διαοοραί  rationalis.. mortalis  cum cod .  M Porph., cett .  τοΰ 6-νητοδ καί τού λογικού  14 fiunt] definiunt  Δ m1 ΙΛΣ  hominem  Δ m1 ΑΣ  15 dni in ras.  2 ,  add . sunt et angeli  Δ ,  sed del., ante  dei  add.  angeli et  Π m2 ,  sed del.; codd. Porph. p. 10,13 aut   θεού   aut   άγγέλοο  quae sunt  add .  X m2   post  mortalis  add . constitutiuae sunt  Γ  16 inratio- nalium  X m2 \ m1 ,  add . sunt  Φ etiam] enim  Φ  supremae substan- tiae]  T m2  (suae substantiae  m1 )  X m 2 (superna substantia  m1 ) suprema substantia  cett. codd. edd. Busse; cf. Porph. p. 36, 12 et infra p. 259, 23  18 animatum  EGR  sensibile  E  (le  in ras .)  R  19 congregata  ER  perficerent  G  perficiunt  in ras .  2 post  perfecerunt  add . animata uero et insensibilis perfecerunt plantam  edd. cum Porph. p. 10, 17, om .  Boethius etiam in commentario   Geminum differentiarum usum esse demonstrat, unum qui- dem quo genera diuiduntur, alium uero quo species infor- mantur; neque enim hoc solum differentiae faciunt, ut genera partiantur, uerum etiam dum genera diuidunt, species in quas  genera deducuntur efficiunt, itaque quae diuisiuae sunt gene- rum, fiunt constitutiuae specierum, huiusque rei illud exemplum est quod ipse subiecit; animalis quippe differentiae sunt diui- siuae rationale atque inrationale, mortale atque inmortale; his enim praedicatio diuiditur animalis, omne enim quod animal  est, aut rationale aut inrationale aut mortale aut inmortale est. sed istae differentiae quae diuidunt genus quod est animal, speciei substantiam formamqne constituunt, nam cum sit homo animal, efficitur rationali mortalique differentiis, quae dudum animal partiebantur, item cum sit equus animal, inrationali  mortalique differentiis constitui|tur, quae dudum animal diui-  p. 86  debant. deus autem cum sit animal, ut de sole dicamus, ratio- nali inmortalique efficitur differentiis, quas diuidere genus habita partitio paulo ante monstrauit. sed hic, ut diximus, deum corporeum intellegi oportet, ut solem et caelum ceteraque  huiusmodi, quae cum animata et rationabilia Plato esse con- firmat, tum in deorum uocabulum antiquitatis ueneratione probantur assumpta, de primo quoque genere, id est substantia demonstrantur uenire. nam cum eius diuisiuae sint differentiae  18 ut diximus] p. 208, 22 ss. 20 Plato] cf. p. 257, 9.   2 aliud  EHm1Rm2  alio  m1  uero  om. R  4 partiuntur  GPm1  diuidendo  N  5 deducantur  HN  dicuntur  R  diuiduntur C (uid  in er . duc?  m2 ) diuisae  Em1Gm2HR  6 huius C rei  om. EGR s. l. Lm2  7 ipse] ille  R  diuisae  Em1Gm2  8 mortale atque inmortale  om. EGR, in mg. Lm2  9 quod animal est] animal  HNR  10  pr . aut  om. R post  rationale  add . est  HN  11 est  om. HR  quod] hoc  C  13  post  efficitur add. ab his  EPm1, del. m2, s. l. Lm2  post differentiis  add . constituitur  Cm1, del. m2  14 partiebantur] diuidebant Lm1R  15 diuidebant] parciebantur  R  16 ut] si  CH, in ros. N, recte?; cf.p. 208, 22  20 confirmet  C  (et  in ras. m2 ) HLm2N  22 substantiam  Em1  23 demonstrantur] idem monstratur  HN  idem  (super ras. Cm2, s. l. Pm2)  demonstrantur  Cm1Pm1, alt . n  del. Cm2Pm2  euenire  HNPm2, add. s. l . differentiae  Lm2  diuisae  Em1Pm1  sunt  EHm1   animatum atque inanimatum, sensibile atque insensibile, iunctae differentiae sensibilis atque animati efficiunt substantiam ani- matam atque sensibilem, quod est animal, iure igitur dictum est, quae diuisiuae sunt differentiae generum, easdem esse con- stitutiuas specierum.   Quoniam ergo eaedem aliquo modo quidem accep- tae fiunt constitutiuae, aliquo modo autem diuisiuae, specificae omnes uocantur. et his maxime opus est ad diuisiones generum et definitiones, sed non his quae secundum accidens inseparabiles sunt, nec magis his  quae sunt separabiles.  Omnes a genere differentias procedentes genus ipsum a quo procedunt, diuidere nullus ignorat, ipsae autem quae diuidunt genus, si ad posteriores species applicentur, informant substantias easque perficiunt, eaedem igitur sunt constitutiuae  specierum, eaedem diuisibiles generum, alio tamen modo atque alio consideratae, ut si ad genus relatae quidem in contrariam diuisionem spectentur, diuisibiles generis inueniuntur, si uero iunctae aliquid efficere possint, specierum constitutiuae sunt, quae cum ita sint, hae differentiae quae genus diuidunt, rectis-  sime diuisiuae nominantur - quae enim constituunt speciem, specificae sunt, sed constituunt speciem hae differentiae quae  6—11] Porph. p. 10, 18—21 (Boeth. p. 36, 15—19).   4  post  constitutiuas  add . et completiuas  C  completinasque  HNP   (ex p. 258,10)  6 ergo] igitur  P  needem  uel  heedem  hic et 15. 16. p. 261, 1 codd. quidam  alio  P  ( ras. ex  aliquo,)  Γ  (o  in ras .) quidem]  ΓΔΛΙIΨ ,  om. cett.; Porph. p. 10, 18   μεν  7 aliquo—inseparabiles sunt  (10) ]  Ω ,  om. cett . alio  ras. ex  aliquo  ut uid .  Γ  autem modo  Φ  autem  add .  5 m2  10 sunt inseparabiles  Γ his  om .  Γ  12  post  Omnes  add . enim  R  13 quo] quibus  EGR  procedent  Em1  15  post  sub- stantias  s. l . earum  L  eas substantiasque (quae  N )  HNR  sunt igitur  HL  16  post  eaedem  add . sunt  LR  19 sint  CHPRm1  21 diui- siuae] specificae  Lm2  nominantur] nuncupantur  HΡΝ  enim  om. C   post  speciem  add . eaedem speciem faciunt, quae uero speciem faciunt  CHN   sunt generis diuisiuae - eaedemque sunt specierum constitu- tiuae. quare iure quae generum diuisiuae sunt et quae spe- cierum constitutiuae, specificae nuncupantur, has igitur in diuisione generis et in definitione specierum accipi oportere  manifestum est. quoniam enim diuisiuae sunt, per eas diuidi oportet genus, quoniam autem constitutiuae, per eas species definiri; quibus enim unum quodque constituitur, isdem etiam definitur, constituitur autem species per differentias generis diuisiuas, quae sunt specificae, iure igitur specificae solae et  in generis diuisione et in specierum definitione ponuntur, et de specificis quidem haec ratio est, de his autem quae uel separabilia uel inseparabilia continent accidentia, nihil in generum diuisione uel definitione specierum poterit assumi, idcirco quoniam quae diuisibiles sunt, substantiam generis  diuidunt, et quae constitutiuae sunt, substantiam speciei con- stituunt. quae uero sunt inseparabilia accidentia, nullius sub- stantiam informant, unde fit ut multo minus separabilia acci- dentia ad diuisiones generum uel specierum definitiones accommodentur; omnino enim dissimiles sunt substantialibus  differentiis, nam inseparabilia accidentia hoc fortasse habent commune cum specificis, hoc est substantialibus differentiis, quod aeque subiectum non relinquunt, sicut nec specificae differentiae, separabilia autem accidentia ne hoc quidem; sepa-  1 diuisae  Gm1  eaedemque]  H  (hee-)  NP  eaedem  C  igitur eaedem (eaedem  s. l. Lm2 ) quae (que  E ) sunt  EGLR  constitutiuae specie- rum  C  2 quare—constitutiuae  om. EGLR  quare iure] iure igitur  P  4 diuisionem  HLm2P  et] uel  R  definitionem (uel diff-)  HL  ( s. l . ał constitutione]  P  diuisione  Em1  6 eius  Em1  7  post  definiri  add . oportet CN, s. l . (scil.  add. E )  EL  quibus—definitur  om. EGLR, in mg. Pm2  hisdem  CHN  9 solae  s. l. Em2  10  post , in  om. HN  12 continent] concedunt  EG, s. l . uel faciunt  Gm1?  13  post  uel  add . in  L  16 sub- stantiam]  HN, om. Em1 , speciem  CGLm1R  (post informant)  s. l. Em2 , speciei substantiam  Lm2P edd . 17 formant  H  multo  om. C  18 ad diuisiones—accidentia  (20) in inf. mg. Gm2  definitiones] diuisiones  Em1G  19  ante  substantialibus  add . a  HN, recte?  22  ante quod  add. id H   (linea del., sed linea er. uid.) N ad  quod aeque  s. l. ał  quod hae similiter  L  sic  G  (ut  er .)  L (ut del. m2)  23 ne] nec  LN   rari enim possunt, nec tantum potestate et mentis ratiocinatione, sed actus etiam praesentia, et omnino ueniendi uel discedendi uarietatibus permutantur.   Quas etiam determinantes dicunt : differentia est qua abundat species a genere, homo enim ab animali  plus habet rationale et mortale : animal enim neque ipsum nihil horum est nam unde habebunt species differentias? neque enim omnes oppositas habet - nam in eodem simul habebunt opposita —. sed, quemadmodum probant, potestate quidem omnes  habet sub se differentias, actu uero nullam, ac sic neque ex his quae non sunt, aliquid fit neque opposita circa idem sunt.    Specificas differentias definitione concludit dicens substan-  p. 87  tiales differentias a quibusdam tali descriptionis ratione finiri :  differentia specifica est qua abundat species a genere, sit enim genus animal, species homo : habet igitur homo dif- ferentias in se, quae eum constituunt, rationale atque mortale; omnis enim species constitutiuas formae suae differentias in se retinet nec praeter illas esse potest, quarum congregatione  perfecta est. si igitur animal quidem solum genus est, homo uero est animal rationale mortale, plus habet homo ab animali id quod rationale est atque mortale, quo igitur abundat species  4—13] Porph. p. 10, 22—11, 6 (Boeth. p. 36, 20—37, 5).   1 nec] non  brm  4 Quae  h m1  dicuntur  A m1  est  add .  \ m2  5 que  Em1  quae  Ga.c . abundant (ha-  G )  Em1G  a  om. N ho- mo—-nullam  (11) ]  R Q ,  om. cett . ab  om .  ΓΦ  6 enim] enim tamen  R  autem  A  7 horum nihil  Γ  8 enim  om .  Φ ,  add .  & m2 , autem  er .  T  :  Porph. p. 11, 3   ούτε ίί ; enim  pro  autem;  cf. ad p. 16, 15; an  autem ( cf.   T )  Boethius scripsit ? opposita  R  habet]   habent  cett .  codd. et edd . 9 nam] nec  R  habebit  Φ  ( post  opposita), non habe- bunt  Δ  11 habet]  P p.c .  Φ*Γ  habent  cett . ac sic  om. N  sic  ex  si  Em2G  12 hiis  Φ  sint  Sa.c . opposita] ex oppositis quae  R h m1  13 circa idem sunt]  Porph. p. 11, 6   &pa περί τό αΰτο εσται  15 diffiniri  Pm2R  19 constitutiuae  Em1GLp.c.Rm1  in se  om. C  22 est uero  E  23 id] id est  EGP   a genere, id est quo superat genus et quo plus habet a genere, hoc est specifica differentia, sed huic definitioni quae- dam quaestio uidetur occurrere habens principium ex duabus per se propositionibus notis, una quidem, quoniam duo con-  traria in eodem esse non possunt, alia uero, quoniam ex nihilo nihil fit. nam neque contraria pati sese possunt, ut in eodem simul sint, nec aliquid ex nihilo fieri potest; omne enim quod fit, habet aliquid unde effici possit atque formari, quae pro- positiones talem faciunt quaestionem, dictum est differentiam  esse id qua plus haberet species a genere, quid igitur? dicen- dum est genus eas differentias quas habent species, non habere? et unde habebit species differentias quas genus non habet? nisi enim sit unde ueniant, differentiae in speciem uenire non possunt, quodsi genus quidem has differentias non habet,  species autem habet, uidentur ex nihilo differentiae in speciem conuenisse et factum esse aliquid ex nihilo, quod fieri non posse superius dicta propositio monstrauit. quod si differentias omnes genus continet, differentiae autem in contraria dissol- uuntur, fiet ut rationabilitatem atque inrationabilitatem, mor-  talitatem atque inmortalitatem simul habeat animal, quod est genus, et erunt in eodem bina contraria, quod fieri non potest, neque enim sicut in corpore solet esse alia pars alba, alia nigra, ita fieri in genere potest; genus enim per se conside- ratum partes non habet, nisi ad species referatur, quicquid  igitur habet, non partibus, sed tota sui magnitudine retinebit, nec illud dubium est, quin in partibus suis genus habeat  1  post , quo] quod  Em1  (quid  m2 )  GHm1R  a  om. H  2 hoc—dif- ferentia  om. C  huic] hunc  Em1N  4 per se  ante  notis  brm  unam  GHa.r. 5  aliam  C (sic) Ha.r. post  quoniam  add . quidem  C  6 sit  C  nec  N  10 id  om. R  qua] quod  GHLm1P; cf. p. 270, 12  dicen- dumne  Lm2  11 genus  ante  non habere  HNP  habent] habet  Lm2  12 habet] habebit  CEGLm1, in mg. Rm2 (om. m1)  13 ueniunt  R  15 uidetur  GLm1P  differentia  EGL  ( ex  -tiasj P 16 esse] est  CLP  aliquando  Em1  18 contrarium  HLm2NPm1  contrario  R  19 mortali- tatem atque inmortalitatem]  CNP, s. l. Lm2, om. cett . 22 esse  post  alba  N, post  alia  P  25 detinebit  N  26 in]  HNP, s. l. Lm2, om. cett .   contrarietates, ut animal in homine rationabilitatem, in boue contrarium. sed nunc non de speciebus quaerimus, de quibus constat, sed an ipsum per se genus eas differentias quas habent species, habere possit atque intra suae substantiae ambitum continere, hanc igitur quaestionem tali ratione dis-  soluimus. potest quaelibet illa res id quod est non esse, sed alio modo esse, alio uero non esse, ut Socrates cum stat, et sedet et non sedet, sedet quidem potestate, actu uero non sedet. cum enim stat, manifestum est eum non agere sessi- onem, sed potius standi inmobilitatem. sed rursus cum stat,  sedet, non quia iam sedet, sed quia sedere potest; ita actu quidem non sedet, potestate uero sedet. et ouum animal est et non est animal. non est quidem animal actu, adhuc namque ouum est nec ad animalis processit uiuificationem, sed idem tamen est animal potestate, quia potest effici animal, cum  formam ac spiritum uiuificationis acceperit. ita igitur genus et habet has differentias et non habet, non habet quidem actu, sed habet potestate. si enim ipsum per se animal consideretur, differentias non habebit, si autem ad species reducatur, habere potest, sed distributim atque ut eius speciebus separarim nihil  possit euenire contrarium. ita ipsum genus si per se consi-  1  post homine  s. l . habet  E, post  rationabilitatem  Lm2  2 nunc  om. EGR, s. l. Lm2  4 suae intra  C  6 quaelibet illa res]  HLm2NPm1  quaelibet res  ( res  s. l. E) CEPm2  quidlibet  Lm1R  quodlibet  G 7 alio uero non esse  om. Hm1, s. l . alio non esse  m2  8  secund . sedet  om. CEGR  9 enim  om. CEGLPm1 (s. l . autem  m2) R  sessione  G  10 mobilita- tem  CEGLm1P  mobilitate  N  cum stat  in  constat  mut .  ERm2  13 actu  om. EG  14 neque  CL  ad  om. E  animal  G  animalis quidem  L  16 spiritum] speciem  CHR  genus et]  ELm2NP  et genus et  H  genus  CGLm1R  17 non habet quidem—potestate] habet quidem potestate sed non habet  ( habet  om. C)  actu  CEm2P  habet quidem actu sed non habet potestate  Em1G  18 consideretur] quis  (s. l.)  consideret  E  19 autem] enim  R  reducat  E  20 distributim]  HLm2PRm2  distri- butum  CN  distribute  EGLm1 distributam  Rm1  atque—contrarium] atque in species separatum  ( separatim  H)  ut nihil possit esse  ( euenire  H)  contrarium  CHN, add. locum  atque ut eius—contrarium  C  nihil] et nihil  G 21 si ipsum genus  HN   deretur, differentiis caret; quod si ad species referatur, per distributas species uel in partibus suis contraria retinebit, atque ita nec ex nihilo uenerunt differentiae quas genus retinet potestate nec utraque contraria in eodem sunt, cum contrarias  differentias in eo quod dicitur genus, actu non habet, inpos- sibilitas enim eius propositionis quae dicit contraria in eodem esse non posse, in eo consistit quod contraria actu in eodem esse non possunt, nam potestate et non actu duo contraria in eodem esse nihil impedit, quae uero nos contraria diximus,  Porphyrius opposita nuncupauit. est enim genus contrarii oppositum : omnia enim contraria, si sibimet ipsis considerantur, opposita sunt.   Definiunt autem eam et hoc modo : differentia est quod de pluribus et differentibus specie in eo quod  quale sit praedicatur; rationale enim et mortale de homine | praedicatum in eo quod quale quiddam est p. 88  homo dicitur, sed non in eo quod quid est. quid est enim homo interrogatis nobis conueniens est dicere animal, quale autem animal inquisiti, quoniam ratio-  nale et mortale est, conuenienter adsignabimus.    Tres sunt interrogationes ad quas genus, species, differentia, proprium atque accidens respondetur, haec autem sunt : quid  13—20] Porph. p. 11, 7—12 (Boeth. p. 37, 6-12).   1 species] differentias  H  2 uel  om. Lm1  uelut  HLm2  sin eo] id  HN  quot  E  7 actu  ante  contraria  H, post  eodem  CLN  in eodem esse—in eodem  om. EG  8  post  non possunt  add . quantum ad genus potestate solum, quantum ad species actu et potestate  Rm2  9 nil  L  contraria nos  C  11 si  om. HN, s. l. Cm2  si in semet  Lm2P  considerentur  CLm2  12 sunt  om. HN  13 autem  om. H  enim  C  et om.  CEGHNP 2 ,  ante  eam  4 ;  Porph. p. 11, 7   xo; όντως  14 quae  EP  de  om. C  et om.  CEGLIR; Porph.   xat ;  cf. infra p. 267, 1  15 ra- tionale—animal  (19) ]  R Q ,  om. cett . 16 praedicatur  T a.c.   m1  quid- dam  om.   ΓΦ  18 homo om.  R ΔΦ ,  s. l . scil, homo  \ m2 ; Porph.  p. 11, 10   6 άνθρωπος  19  post post , animal  add . sit  C, ante EG  inquisiti]  Porph. p. 11, 11   πυνθανομενων  20 et  om. CEGLR; Porph. p. 11, 12   xac  est om.  HNR, s. l .  2 m2 assignauimus  E  assignamus  G  22 hae  Hp.r.LR edd . heede  m P   sit, quale sit, quomodo se habeat, nam si quis interroget : quid est Socrates? responderi per genus ac speciem conuenit aut animal aut homo, si quis quomodo se habeat Socrates interroget, iure accidens respondebitur, id est aut sedet aut legit aut cetera, si quis uero qualis sit Socrates interroget,  aut differentia aut proprium aut accidens respondebitur, id est uel rationalis uel risibilis uel caluus. sed in proprio quidem illa est obseruatio, quod illud proprium dici potest quod de una specie praedicatur, accidens uero tale est quod qualitatem designet quae non substantiam significet, differentia uero talis  est quae substantiam demonstret, interrogati igitur qualis una quaeque res sit, si uolumus reddere substantiae qualitatem, differentiam praedicamus, quae differentia numquam de una tantum specie praedicatur, ut mortale uel rationale, sed de pluribus, quod igitur de pluribus speciebus inter se differen-  tibus praedicatur ad eam interrogationem, quae quale sit id de quo quaeritur interrogat, ea est differentia cuius talem posuit definitionem : differentia est quod de pluribus  1 se  om. G, s. l. E  habet  CEGLR  2 per  om. H  ac  N  3  pr . aut] ut  CHm1N post , aut] ut  Hm1N  habet  R, post  habeat  del . se habet  G  4 iure—legit] differentia aut legit  G  aut differentiam  * ut (a er.) legit  E  differentia respondetur (respondetur  etiam R ) id est aut sedet aut legit  Lm1  5 aut] et  HLm1NP  quale  H  6 proprio aut accidenti  EGR  respondebitur]  CLm2P  respondebit  EGR  respondetur  HLm1N  7  pr . uel  om. LN  uel risibilis uel caluus]  Lm1 edd . uel mortalis uel caluus  CHLmSN  uel mortalis uel alicuius  EGR  uel mor- talis uel saluus uel caluus  Pm1  uel mortalis uel risibilis uel caluus  m2 10 quae non—demonstret] Differentia uero talis est  (haec om. L)  quae (que  ELm1  atque  m2 ) non substantiam significet (-cat  Lm1, add. m1  Differentia uero talis est quae substantiam significat, del.  m2 ). Differentia uero talis est quae (non  add., sed del. E ) substantiam demonstret (at  Lm1 )  EGL  post significet  in mg.  Proprium uero est quod non sub- standam significat  H  11 quae] quia  R  demonstrat  CLm1  inter- roganti  R  ( ex  -tis] quale  R  12 constantiae  G  13 numquam] non  C  tantum de una  C  14 sed  om. EG, s. l. Lm2  15 quod] quod- si  R  16  ad  praedicatur  in mg . respondetur  E  18 pluribus—differen- tibus]  cf. p. 265, 14   specie differentibus in eo quod quale sit praltdicatur; cuius definitionis causam rationemque pertractans ait;   Rebus enim ex materia et forma constantibus uel ad similitudinem rtfateriae et formae constituti-  onem habentibus, quemadmodum statua ex materia est aeris, forma autem figura, sic et homo communis et specialis ex materia quidem similiter consistit genere, ex forma autem differentia, totum autem hoc animal rationale mortale homo est, quemadmodum  illic statua.    Dixit superius differentias esse quae in qualitate speciei praedicarentur, nunc autem causas exequitur, cur speciei qua- litas differentia sit. omnes, inquit, res uel ex materia formaque consistunt uel ad similitudinem materiae atque formae sub-  stantiam sortiuntur, ex materia quidem formaque subsistunt  3—10] Porph. p. 11, 12—17 (Boeth. p. 37, 12-17).   1  post  quale  add . quid  Lm2(in ras.) E (sed er.) Rm1, del. m2, add . quid  post  sit  s. l. Hm2  4  post similitudinem  add . proportionemque  LNRQ  ( in mg . nempe communionem  Γ );  om. Porph. p. 11, 13  et) ac  ΓΔΙΙΨ- ,  om .  L Α2Φ  formae]  A m2 HI!1-  speciei  CEGHNPR h m1  specieique L Λ2Φ  formae speciei  er. uid .  Γ ;  cf. Porph. et infra 13 ss . 5 quem- admodum—differentia  (8) ]  LR Q ,  om. cett. post  materia  add . quidem  edd., recte ut uid.; Porph. p. 11, 14   μέν  6 aeris] et  (s. l. m2)  aere  (in ras. m2)   Ψ  forma] ex ( in al. litt.   xV m2 ) forma  L xV brm   Busse;   Porph .  εΐϊοος post figura haec Proportionale autem (enim  Φ ) dicitur (est  Σ ) quod proportionem omnium specierum teneat (tenet  Σ ) id est communionem omnium partium uel (et  T ) specierum quae diuidi (diui- dendo Rhm1 diuidendae  Th m2 \l m1 2'l> ) ex ea (eo  ΣΣ ) contingunt (con- tingant  R ) per (del.  Σ ) differentiam figuras  ΓΠ m2  diffe- rentiam figuras  \ )  add .  LR T m1 h m1 ΑΠΣΦ ,  om .  Ψ ,  del .  T m2 \ m2  7 simi- liter]  Busse  similiter proportionaliter  LR ll m1  similiter proportionaliterquc  ΓΔΙ m2 Φ'Ρρ  proportionaliter  2 brm; cf. Porph. p. 11, 15  8 ante genere  add . in  Γ m2  (ex  m1 )  L Σ  toto  Ga.c . 9 ratione  E ante  mortale  add . et  CEGHLPR, om .  N Q   cum Porph. p. 11, 16  homo est om.  N ,  ex  homine  Δ m2  11 differentiam  HN  12 praedicaretur  HN causis  Em1 post  cur  add . autem  Hm1, del. m2  qualitas speciei  H  13 omnis  ELm2N  uel  om. EGR  14 consistit  Ea.c.HLm2  subsistit  N  15 sortitur  HLm2N  ex  om. CEGR  formaque] et forma  P   omnia quaecumque sunt corporalia; nisi enim sit subiectum corpus quod suscipiat formam, nihil omnino esse potest, si enim lapides non fuissent, muri parietesque non essent, si lignum non fuisset, omnino nec mensa quidem, quae ex ligni materia est, esse potuisset, igitur supposita materia ac prae-  iacente cum in ipsam figura superuenerit, fit quaelibet illa res corporea ex materia formaque subsistens, ut Achillis statua ex aeris materia et ipsius Achillis figura perficitur, atque ea quidem quae corporea sunt, manifestum est ex materia for- maque subsistere, ea uero quae sunt incorporalia, ad simili-  tudinem materiae atque formae habent suppositas priores antiquioresque naturas, super quas differentiae uenientes effi- ciunt aliquid quod eodem modo sicut corpus tamquam ex materia ac figura consistere uideatur, ut in genere ac specie additis generi differentiis species effecta est. ut igitur est in  Achillis statua aes quidem materia, forma uero Achillis qua- litas et quaedam figura, ex quibus efficitur Achillis statua, quae subiecta sensibus capitur, ita etiam in specie, quod est homo, materia quidem eius genus est, quod est animal, cui superueniens qualitas rationalis animal rationale, id est speciem  fecit, igitur speciei materia quaedam est genus, forma uero et quasi qualitas differentia, quod est igitur in statua aes, hoc est in specie genus, quod in statua figura conformans, id in specie differentia, quod in statua ipsa statua, quae ex aere  2 potest] putem  G putemus  R  4 nec  om. Gm1  ne  EGm2L  5 ma- teria est] fit materia  HNP ante  igitur  add . si  E ,  sed del . 6 in  om. R  ipsa  ER  figuram  Hm1La.r . peruenerit  HN  9 corpo- ralia  HNP  ex  om. C  11 prioris  Em1G  12 antiquiorisque  G  13 tamquam  om. CLP, del. Hm2  ex] ea  GL (in ras. m2) R 14 materia ac figura]  brm  materia  (in ras. Lm2)  forma ac figura (ac figura  del. Lm2 )  LP forma ac figura  CEGHRp  figura ac forma  N  15 generi] generis  EG  16 aes—statua  (17) om. N materiae  G  17 et quae- dam—statua]  CH, om. Lm1  ( in mg . et quaedam figura  m2 )  P  statua (cet. om.) EGR  18 quod] quae  edd . 22 et  om. EGR, s. l. Lm2  quali- tatis  R  igitur est (est  s. l. Pm2 )  HNP  23 figura] forma  N  24  post  quod  add . est igitur  Pm2   figuraque conformatur, id in specie ipsa species, quae ex genere differentiaque coniungitur. quodsi materia quidem speciei genus est, forma autem differentia, omnis uero forma qualitas est, iure omnis differentia qualitas appellatur, quae cum ita  sint, iure in eo quod quale sit interrogantibus respondetur.  Describunt autem huiusmodi differentias et hoc modo: differentia est quod) aptum natum est diuidere  p. 89  quae sub eodem sunt genere; rationale enim et in- rationale hominem et equum, quae sub eodem sunt  genere, quod est animal, diuidunt.    Haec quidem definitio cum sit usitata atque ante oculos exposita, eam tamen plenius dilucideque declarauit. omnes enim differentiae idcirco differentiae nuncupantur, quia species a se differre faciunt, quas unum genus includit, ut homo atque  equus propriis discrepant differentiis; nam sicut homo animal est, ita etiam equus, ergo secundum genus nullo modo distant.  6—10] Porph. p. 11, 18—20 (Boeth. p. 37, 18—38, 1).   1 formatur  CHNP  2 quidem] quaedam  CHLm2PR  3 autem] nero  N uero] ergo  Lm1  autem  N  qualitas]  HNPm1  qualia  CEGLR  uel qualis  s. l. Pm2  5  ante respondetur  excidisse  differentia  coni. Brandt  6  post  autem  add . et  L (del.) R; Porph. p. 11, 18 post   8e   add . *αί   cod. B  differentias]  Em2GHPm1 xV  differentiam  CLPm2   ΓΛΑΙIΣΦ differentia  Em1NR; Porph ,.  τάς τοιούτας διαφοράς  et]  LPR i ,  om. cett.; Porph. *a\ οοτως  7 qua  CG  actum  R  natura]  HL   (del. m2)   ΓΑΛΠΦ   om. cett.; Porph. p. 11, 19   πεφοχος;   cf. infra p. 272, 5—9. 275, 12  8 ante quae add. ea  Γ2 ,  s. l.   A m2 ,  del. m. al. , illa  s. l.   Δ m2  genere sunt  ΣΑΨ  rationale—sunt genere  om. EG  9 et equum] equnmque  C  10 diuidit  L  11 cum—oculos  in mg. E  sit usitata] sita sit situr  (sic) Em1  ita sit  m2  situ sit sita  G  ante  om. HNR, s. l. Lm2 oculis  HN  12 post exposita add. superius  R  ea  GNR  plenius dilucideque declarauit] (claruit  Em1Gm1 )  CEm2Gm2  plenius dilucideque declarauit  L  plenius lucidinsque declarauit  Hm2 plenius dilucidiusque claruit  R  exempli insuper luce declarauit ( ex  decla- ruit  N )  NP  plenius dilucideque exempli insuper luce declarauit  Hm1  exempli insuper luce reserauit  edd . 13 species ase differre] specie ( ex  specierum,  sequ. rasura ) differentiam  E  species in aere differentiam  G  species ase differentiae  Lm1  14 a] ad  R  concludit  N  15 nam  in ras. Lm2  sed  EG   quae igitur secundum genus minime discrepant, ea differentiis distribuuntur, additum enim rationale quidem homini, inratio- nale uero equo equus atque homo, quae sub eodem fuerant genere, distribuuntur et discrepant, additis scilicet differentiis.   Adsignant autem etiam hoc modo : differentia  est qua differunt a se singula; nam secundum genus non differunt, sumus enim mortalia animalia et nos et inrationabilia, sed additum rationabile separauit nos ab illis, et rationabiles sumus et nos et dii, sed mortale adpositum disiunxit nos ab illis.   Vitiosa ratione et non sana quod uult explicat definitio quorundam. id enim esse dicunt differentiam qua una quaeque res ab alia distet, in qua definitione nihil interest quod ita dixit an ita concluserit : differentia est id quod est differentia, etenim differentiae nomine in eiusdem differentiae usus est  5—10] Porph. p. 11, 21—12, 1 (Boeth. p. 38, 1—5).   2 describuntur  EG  3  post  equo  distinguunt edd., post  equus  expec- tatur  igitur’  Schepps , additum  eqs. nominatiuum absolut .  (cf. indicem Meiseri) interpretatur Brandt  qui  Lm2P  5 autem  om .  \,   del. Lm2 A. m2  etiam  om. H  etiam et  Λ  eam et  Ν Σ ;  Porph. p. 11, 21   St καί  6 qua]  Porph.   διαφορά έσχιν δχψ διαφέρει έκασχα;  ‘an quo?’  Busse, sed cf. infra p. 271, 1.7. 18. 272, 17 . 6 nam—ab illis  (9) ]  LR Q ,  om. cett. post  nam  add . homo et equus  cum Porph. edd. (cf. etiam infra p. 271, 9. 12, sed etiam supra p. 269, 9) ,  etiam Bussio  homo atque equus  addendum uid . 7 enim] autem  Γ  8 inrationalia ( uel  irr-)  R ?ΓΠ   (in ras.)  ros.  ex  -bilia  Δ  sed—illis  (9)   om. R  ratio- nabile]  p.r   rationale  \ a.r. et cett . separauit] disiunxit  ΓΦ  9 et]  CHP, s. l. er. uid.   Δ ,  om. cett . rationabiles]  L \ m1 2  rationale  CP  rationales  cett., add . enim  ΕGΗ ΑίΙΦΨ ;  codd. Porph. aut   λογικοί  aut  λογικά  sumus  om. CEGHP; Porph .  έσμέν  et nos  om. E  et  om. N di  C  dei  ut uid   . 2 sed—ab illis  om. EG  11  ante  Vitiosa  in ras.  Haec  E  ratione]  L edd., om. cett. (recte?), in ras . est  E  et  om. G  sane  E (in ras.) NP  explicans  HNP  non  (s. l. m2)  explicat  L  12 id]  cf. p. 263, 10  13 aliis  R  distat  HN  differt  P  14 dixerit  Lm2P  an] utrum  R  concluderit  L  concludat  EGR  id quod est  om. E ante  differentia  add . ipsa  ER  differentia  om. G  15 etenim om. EGR  differentiae nomine] qua differt una res ab alia, id est id quod est differentia est differentia. Differentiae nomine fid est—nomine  in ras. m2) E  in—definitione] usus in eius diffinitione  N   definitione dicens : differentia est qua differunt a se singula, quodsi adhuc differentia nescitur, nisi definitione clarescat, differre quoque quid sit qui poterimus agnoscere? ita nihil amplius attulit ad agnitionem qui differentiae nomine  in eiusdem usus est definitione, est autem communis et uaga nec includens substantiales differentias, sed quaslibet etiam accidentes hoc modo : differentia est qua a se differunt singula; quae enim genere eadem sunt, differentia discrepant, ut cum homo atque equus idem sint in animalis genere,  quoniam utraque sunt animalia, differunt tamen differentia rationali, et cum dii atque homines sub rationalitate sint positi, differunt mortalitate, rationale igitur hominis ad equum differentia est, mortale hominis ad deum, atque hoc quidem modo substantiales differentiae colliguntur, quodsi Socrates  sedeat, Plato uero ambulet, erit differentia ambulatio uel sessio, quae substantialis non est. namque istam quoque dif- ferentiam definitio uidetur includere, cum dicit : differentia est qua differunt singula; quocumque enim Socrates a Platone distiterit nullo autem alio distare nisi accidentibus  potest —, id erit differentia secundum superioris terminum definitionis, quam rem scilicet uiderunt etiam hi qui definitionis huius uagum communemque finem reprehendentes certae con- clusionis terminum subiecerunt.  2 nesciatur  Lm2  (non noscitur  m1) P  definitione] in definitione  N  3 qui]  LN  quomodo CEGPR qui *  (d  er.) H  possemus  EG  possi- mus  R  4 ita  om. EGR  cognitionem  NPm2, post  agnitionem  add.  a cogitatione  Hm1, del. m2, s. l.  uel cognitione  m2, del. m. al.  set  om. EG  7 accidentales  Lm2Pm2  9 sunt  EGHLm1R  in  om. GNR  11 et  om. EGR  rationabilitate  CGLm1  rationale  N sunt  CEGLm1R  12 positi] post  EG  post differunt  add.  tamen  L  rationabile  L  13 est  om. C  15 ambulatio uel  om. EG, s. l. Lm2  16 nam  HLm1  ista  E  18 quo  EGHm1 post  differunt  add.  a se  R  cumque  EG  quoque  Rm1  quocumque modo  P post  enim  s. l.  modo  Lm2  19 de- stiterit  CEm1HPRm2  distauerit  m1 post  alio  s. l.  modo  Em2  ac- cidentibus] ex accidentibus  P    Interius autem perscrutantes de differentia dicunt, non quodlibet eorum quae sub eodem sunt genere diuidentium esse differentiam, sed quod ad esse conducit et quod eius quod est esse rei pars est; neque enim quod aptum natum est nauigare erit homi-  nis differentia, etsi proprium sit hominis, dicimus enim ‘animalium haec quidem apta nata sunt ad naui- gandum, illa uero minime’, diuidentes ab aliis, sed aptum natum esse ad nauigandum non erat comple- tiuum substantiae nec eius pars, sed aptitudo quae-  dam eius est, idcirco, quoniam non est talis quales sunt quae specificae dicuntur differentiae, erunt igitur specificae differentiae quaecumque alteram faciunt speciem et quaecumque in eo quod quale est acci- piuntur. — Et de differentiis quidem ista sufficiunt.   Sensus propositionis huiusmodi est. quoniam superius dixit determinasse quosdam differentiam esse qua a se singula dis-  p. 90  creparent, ait alios diligentius de differentia | perscrutantes non  1—15] Porph. p. 12, 1-11 (Boeth. p. 38, 6—17). 1 perscrutantes]  EGHP  perscrutantes et speculantes  cett.; Porph.   p. 12, 1   προσεξεργοζόμενοι de differentia]  CH (linea del., sed lin. er.)   Σ  differentiam  cett. edd. Busse; Porph. p. 12, 1   τά περί τής διαφοράς  2 non] non solum  R , quodlibet] quod habet  ELm1 h m1 X ,  post  quod- libet  er.  habet  23  diuidentium esse  om.   X ,  s. l. Lm2  sed quod— dicuntur differentiae  (12) ]  LR Q ,  om. cett.  5 aptum] actu  R  natum  om. LR; Porph. p. 12, 4   τδ πεφοχέναι πλεΐν  6 dicimus]  Porph. p. 12,  5  εΐποιμεν γάρ dv ,  unde  dicemus  coni. Brandt, cf. supra p. 230, 18. 19;   infra 12 erunt  ειεν άν ;  p. 234, 16.  (erit). 17.  235, 2  (erunt) 7 ani- malia  A  acta  Rm1  nata  om. LR  8 aliis] illis  A  9 actum  Rm1  natum  om. R  est  R  erit  h m2  10 neque  Busse  11 est  om. R  quoniam  om. LR  12 quae  om.   Φ  igitur] ergo  L  13 alteram— quaecumque  om. H  14 et] ea  EG  quale  in er.  quid  ut uid.  Hm2 quid  EG post est add.  esse  EG  accipiunt  EG  15 Et—sufficiunt  om. N  Et  om. CEGP; Porph. 12,11   Καί  de  om. EG A  diffe- rentiis]  Porph.   περί μίν διαφοράς  quidem  om. H  sufficiant  CL X m2;   Porph.   άρχει  18 alios] ilico  EGLa.c.  ilico alios  P  de differentia] differentiam  CLm1P   fuisse arbitratos recte esse superius propositam definitionem, neque enim omnia quaecumque sub eodem posita genere dif- ferre faciunt, differentiae hae de quibus nunc tractatur, id est specificae, numerari queunt, plura enim sunt quae ita diuidunt  species sub uno genere positas, ut tamen eorum substantiam minime conforment, quia non uidentur esse differentiae speci- ficae nisi illae tantum quae ad id quod est esse proficiunt et quae in definitionis alicuius parte ponuntur, hae autem sunt ut rationale hominis, nam et substantiam hominis conformat  et ad esse hominis proficit et definitionis eius pars est. ergo nisi ad id quod est esse conducit et eius quod est esse rei pars sit, specifica differentia nullo modo poterit nuncupari, quid est autem esse rei? nihil est aliud nisi definitio, uni cuique enim rei interrogatae ‘quid est?’ si quis quod est esse  monstrare uoluierit, definitionem dicit, ergo si qua definitionis pars fuerit, eius erit pars quae unius cuiusque rei quid esse sit designet, definitio est quidem quae quid una quaeque res  1 positam  EG  2 posita] posita sunt  EGL post genere add.  quae  Lm1, del. m2  3 differentiae—id est  om. CN  hae  om. H  id est  om. R, er. uid. H, s. l. Lm2  4 nominari HLm2NR 5 earum  H  6 quia] quae  CH  specificae  ante  esse  H, post N 7 proficiant  R  et quae] eaeque  G  eae quae  Em1, del. m2, etiam proxima  in—ponuntur  del. m2 8 in  del. Lm2, om. P  diffinitiones  N  definitionibus  EGLm1  aliqua  N  partes  EGLP post ponuntur  add.  ut mortalis rationalis  Em1, del. m2  hae] ea  EGLm2P  9 et  s. l. Lm2  et ad  G  con- format—hominis  om. EG  11 conducat  EHm2Lm2N  et eius—pars sit]  N  et eius quod ( add. quid  Rm1, del. m2 , quidem  ex  quid  Hm2 ,  del. m3 ) est esse rei pars sit (est  Hm1) HR  et eius rei quod est (est  del. Lm2 ) esse pars est (est  om. Lm1, s. l.  sit  m2) CL  et eius quod quidem esse rei pars est  P  eius rei quod quidem (aliquid  add. E) EG  13 esse  om. G, ante  autem  H  nihil  del. Em2  est  s. l. Lm2Rm2  esse  E (del. m2) G  unius cuiusque  R  14 interrogatae] ad inter- rogationem  CHN  quis] quid  Lm2  quod] id quod  CHNP  15 qua] quid  CHN  16  post  eius  s. l. rei  Lm2  quae] quod  HLm1N  quid] quod  N  sit esse  L  esse fit  G  est esse  Hm1N  17 designat Lm2P  significet  Hm1N  est quidem] enim est  HN  quae quid] quia  N   sit, ostendit ac profert, demonstraturque quid uni cuique rei sit esse per definitionis adsignationem. illae uero differentiae quae non ad substantiam conducunt, sed quoddam quasi extrin- secus accidens afferunt, specificae non dicuntur, licet sub eodem genere positas species faciant discrepare, ut si quis hominis  atque equi hanc differentiam dicat, aptum esse ad nauigandum. homo enim aptus est ad nauigandum, equus uero minime, et cum sit equus atque homo sub eodem genere animalis, addita differentia ‘aptum esse ad nauigandum’ equum distinxit ab homine, sed aptum esse ad nauigandum non est huiusmodi,  quale quod possit hominis formare substantiam, sed tantum quandam quodammodo aptitudinem monstrat et ad faciendum aliquid uel non faciendum oportunitatem. idcirco ergo speci- fica differentia esse non dicitur, quo fit ut non omnis diffe- rentia quae sub eodem genere positas species distribuit, spe-  cifica esse possit, sed ea tantum quae ad substantiam speciei proficit et quae in parte definitionis accipitur, concludit igitur esse specificas differentias quae alteras a se species faciunt per differentias substantiales, nam si uni cuique id est esse quodcumque substantialiter fuerit, quaecumque differentiae  substantialiter diuersae sunt, illas species quibus adsunt, omni substantia faciunt alteras ac discrepantes, atque hae in defini- tionis parte sumuntur, nam si definitio substantiam monstrat  1 ostendit  om. E  ostenditur  N  ac  er. E, om. N  profert  om. N demonstratque  CLm1  quid] quod  Lm1Pm1R  quidem quid  N  2 per  om. EGR, in mg. Lm2 assignatione  EG  3 ad  om. EΡ  quasi  om. EGPR  5 faciant  om. EG  facient  CLm1Rm1  7 homo enim (autem  LR )—equus]  HLNR  hominem equum  (cet, om.) CEGP  10 esse ad—sed tantum  (11) om. EG  11 quale  om. EGR, del. Lm2 ante  quod (quid  P )  add.  per  L   (del. m2), s. l. Pm2 post  substantiam  add.  sicut rationale quae est substantialis qualitas  C  12 habitudinem  Hm1  13 opportunitatem  CR  differentia specifica  C  18  ante  esse  add.  eas  HΝΡ, s. l. Lm2  quae—differentias  om. EGR ad  faciunt  s. l.   1  informant  Lm2  19 differentias  ex  distantias  Lm2  idem est ( in   ras. m2 ) esse  H  idem esse est  R  21 sint  Hm1  omnes  EGP  22 substantias  P  substantiae  Hm1  substantiae ratione  N   et substantiales differentiae species efficiunt, substantiales dif- ferentiae erunt partes definitionum.      Proprium uero quadrifariam diuidunt. nam et id  quod soli alicui speciei accidit, etsi non omni, ut ho- mini medicum esse uel geometrem, et quod omni accidit, etsi non soli, quemadmodum homini esse bipedem, et quod soli et omni et aliquando, ut homini in senectute canescere, quartum uero, in quo concur-  rit et soli et omni et semper, quemadmodum homini esse risibile, nam etsi non semper rideat, tamen risi- bile dicitur, non quod iam rideat, sed quod aptus natus sit; hoc autem ei semper est naturale et equo hinnibile, haec autem proprie propria perhibent esse,  3—p. 276, 2] Porph. p. 12, 12—22 (Boeth. p. 38, 18—39, 9).   1 et  om. EG, s. l. Pm2  2 erunt  post  partes  Lm2  sunt  m1  sunt  post definitionum  CGR, s. l. Em2  3 DE PROPRIO  om. H, add. Lm2  EXPLICIT DE DIFFEREN. (DIFFERENTIIS  Ψ ) INCIPIT DE PRO- PRIO  2<F  4 et  s. l. C  5 hominem  R h m1 A  6 uelut  H geo- metram  CEm1G edd. Busse  et quod—perhibent esse  (14) ]  LR  ( locum   hic om., p. 277, 7 post  adest  inserit )  Ω ,  om. cett.  omni]  Porph.   p. 12, 14   παντί—τφ εϊδει  7 etsij et  R T m1   ante homini  add.  et  R  8 homini]  Porph. p. 12, 16   όνΟ-ρώπψ παντί ,  unde  homini omni  coni.   Busse 9  post  uero add. est  Φ  in quo concurrit et  del., in mg.  conuenit  T m2  10 hominem  R Σ  11 risibilem  R ΓΣΦ ;  Porph. p. 12, 17   ώς τψ άνθρώπψ τό γελαστιχόν  non semper rideat]  L Σ  non rideat  ΓΑ  non ridet ( hic ut uid. s. l.  semper  add., sed er.   \ )  R AIIΨΨ  semper non rideat  Busse non rideat semper  edd.; Porph. p. 12, 18   χαν γάρ μή γελά αεί  risibile tamen  L Λ   edd. Busse; Porph.   άλλα γελαστιχο'ν  12 iam] semper  Σ   edd.; Porph. p. 12, 19   άεί ,  cod. Mm2   ί)Bη  rideat—natus sit  om.   Φ  13 sit natus  R, add.  ad ridendum  R ΓΑ  ridere  Σ ,  ante  sed  add.  ridendum  Φ ;  om. Porph.  semper ei est naturale  L  semper est ei naturale  Γ  ei semper naturale est  Σ   ante  et  add. ut  (om. etiam B Bussii) edd. Busse ;  Porph. p. 12, 20   ώς ,  om. cod. A  14 autem]  Porph.   81 xai ,  om.   xai   cod. A  proprie—esse]  L Λ  (esse  s. l. m2 )  Σ  (esse  om. ), proprie domi- nanterque (nominantur  T m2 ) propria perhibentur (perhibentur  del.   Γ m2 )  ΓΦ  proprie nominantur (nominant  Π ) propria  R ΔΙΙ  uere dicuntur propria  Ψ ;  Porph.   χυρίως ΐßιά φασιν   quoniam etiam conuertuntur. quicquid enim equus, hinnibile, et quicquid hinnibile, equus.    Superius dictum est omnia propria ex accidentium genere descendere, quicquid enim de aliquo praedicatur, aut substan- tiam informat aut secundum accidens inest. nihil uero est  quod cuiuslibet rei substantiam monstret nisi genus, species et differentia, genus quidem et differentia speciei, species uero indiuiduorum. quicquid ergo reliquum est, in accidentium numero ponitur, sed quoniam ipsa accidentia habent inter se aliquam differentiam, idcirco alia quidem propria, alia priore  p. 91  atque antiquiore nomine accidentia nun|cupantur. et de acci- dentibus paulo post, nunc de propriis, quae quadrifariam diui- duntur, non tamquam genus aliquod proprium in quattuor species diuidi secarique possit, sed hoc quod ait diuidunt, ita intellegendum est, tamquam si diceret ‘nuncupant’, id est  propria quadrifariam dicunt, cuius quadrifariae appellationis significationes enumerat, ut quae sit conueniens et congrua nuncupatio proprietatis ostendat, dicit ergo proprium accidens quod ita uni speciei adest, ut tamen nullo modo coaequetur ei, sed infra subsistat ac maneat, ut hominis dicitur pro-  prium medicum esse, idcirco quoniam nulli alii inesse ani-  3 superius eqs.] fort. p. 186, 12—187, 1.   1 enim equus  om. N  equus—equus]  CEGHNP U  ( sed add.  et si homo, risibile, si risibile, homo est]  cum Porph. p. 12, 21, post pr.  equus  add.  et  R A  est et  L  est etiam est et  (sic)   Φ  equus est et hinnibile est (est  s. l.   F\ m2 ) et quicquid hinnibile equus est  ΓΔ  est equus est hinni- bile et quicquid est hinnibile est equus ( quattuor  est  s. l. m2 )  Ψ  equus est hinnibile et quicquid hinnibile est equus est et si homo est risibile est et risibile homo est  2  4 alio  N  6  ante  species  add.  et  Lm1, del. m2  7 et  om. R  genus—diiferentia  om. EGR, s. l. Hm2  11  ante  antiquiore add.  in  ER  12 nunc  ex  nam  Hm2  quadrifarie  N  in quadrifariam (-um  GP )  EGP  diuidunt  H  (ur  er. )  P  (ur  del. m2 ) 13 aliquid  CPm1  14 ait  om. E  ( in mg.  dicitur  m2 )  G  est  R  diuiduntur  EG  15 nuncu- pantur  EGR  16 proprie  CEm1G  propriam  ut uid. Pm1  propriam  m2  dicuntur  EGHm1La.c.NR  quadrifariam  C  18 proprietas  Ea.c.  (proprii  p.c. )  G  dicitur  CEHLa.c. (corr. m1 et 2) P  ergo  om. C  proprium  s. l. Cm2  primum  m1  20 ei  ante  nullo  HN  ac] et  HNP dicimus  HN   malium potest, nec illud adtendimus, an hoc de omni homine praedicari possit, sed illud tantum, quod de nullo alio nisi de homine dici potest medicum esse, et haec quidem signifi- catio proprii dicitur inesse soli, etsi non omni; soli enim  speciei, etsi non omni coaequatur, ut medicina soli quidem inest homini, sed non omnibus hominibus ad scientiam ad- est. Aliud proprium est quod huic e contrario dicitur omni, etsi non soli; quod huiusmodi est, ut omnem quidem speciem contineat eamque transcendat, et quoniam quidem nihil  est sublectae speciei quod illo proprio non utatur, dicimus omni, quoniam uero transcendit in alias, dicimus non soli : hoc huiusmodi est quale homini esse bipedem, proprium est enim homini esse bipedem, omnis enim homo bipes est etiamsi non solus, aues enim bipedes sunt, geminae igitur  significationes proprii quae superius dictae sunt, habent aliquid minus, prima quidem quia non omni, secunda uero quia non soli, quas si iungimus, facimus omni et soli, sed demimus aliquid secundum tempus, si ei adiciatur aliquando, ut sit haec tertia proprii nuncupatio ‘omni et soli, sed aliquando’,  ut est in senectute canescere uel in iuuentute pubescere; omni enim homini adest in iuuentute pubescere, in senectute canescere, et soli, pubescere enim solius hominis est, sed ali-  1 hoc  om. EG  homini  EN  2 quod] quia  HN  nisi de homine  post  esse  N  3 medicus  Hm1N  4 inesse]  CP, s. l. Hm2Lm2, om.   EGR  inest  N  etiamsi  Em2  (et  m1 )  Hm1LR  5 etiamsi  EHm1L  ( repet, post  inest)  PR  coaequetur  Em2Hm1 ante medicina  add.  homini  H   (del. m2) LNR  6 homini  om.   NR, s. l. Hm2  adest] adesse potest  CLN potest esse  H; de R cf. ad p. 275, 6  7 est  ante  aliud  HN, post   CG, om. E  8 etiamsi  HLNR  quid  HN  10 quod illo—non soli  in   inf. mg. Em2 post  dicimus  add.  enim  C  11 aliis  Em2G  12 hoc] id  N   post  quale  add.  est  s. l. Hm2, post  homini  CG  13 hominis  R, post  homini  add.  proprium  Em2  enim  in mg. Em2  14 etiamsi—geminae  om.   EGR  17 sed  Hm2  si  m1  demimus]  HN deminus  Cm1   i  demimus  ί  deest minus  m2  dempsimus  R  dedimus  Em1  (addimus  m2 )  G  deest minus  LP  18 eis  HLP  ei  post  adiciatur  N  19 omni et soli] et soli et omni  C  sed] si  G  21  post. in] et in  HN  22 est hominis  HN   quando, neque enim omni tempore, sed in sola tantum iuuen- tute. haec igitur determinatio proprii in eo quidem modo quod omni et soli inest, absoluta est, sed ex eo minuit aliquid uel contrahit, cum dicimus aliquando, quod si auferamus, fit pro- prii integra simplexque significatio hoc modo : proprium est  quod omni et soli et semper adest, omni autem et soli speciei et semper intellegendum est ut homini risibile, equo hinnibile; omnis enim et solus homo risibilis est et semper. neque illud nos ulla dubitatione perturbet, quod semper homo non rideat; non enim ridere est proprium hominis, sed esse  risibile, quod non in actu, sed in potestate consistit, ergo etiamsi non rideat, quia ridere tamen posse soli et omni homini semper adesse dicitur, conuenienter proprium nuncupatur, nam si actus separatur ab specie, potestas nulla ratione disiungitur.   Quattuor igitur significationes proprii dixit, nam prima  quidem, quando accidens ita subiectae speciei adest, ut soli ei adsit, etiamsi non omni, ut homini medicina; secunda uero,  1 in  om. EGR, s. l. L, post  tantnm  P  tamen  L post iunentnte  add.  pubescit  N  2  post  proprii  add.  integra simplexque significatio  GHP (del. m1? ex 5)  in eo—fit proprii  (4) om. R  modo  om.   N, del. Lm2  3 inest  om. EG  est  Lm1  minus  La.c. minui  N  minuens  P  aliquid uel] atque significationem  in ras. Em2  uel]  CNP  et  GL, om. ΕH  4 quod] quam  N  5 simplexque] et simplex  HLNR  proprii  R  6 soli et omni  N secund.  et  om. GLR,   s. l. Pm2  omni autem—intellegendum est  om. Rbrm  7 et semper  om. EGR, del. Lm2, s. l. Hm2Pm2  intellegendum est  del. et s. l.  adest  scr. Hm2, in mg.  quod soli et omni adest  m. al. 8  post.  et  om. EGPR   post  semper  add.  similiter et equus hinnibile  brm  9 illud  Hm2  enim Hm1N  10 proprium est  NPR  sed] si est  R  esse  del. Lm2  est  R  11 sed] si  R  12 si non rideat etiam  C  quia  om. N, s. l. Hm2  tamen  om. R  autem  HN  possit  La.c.N  potest  Em2 post  omni  add.  adsit  H (del. m2)  adest  N  13  ante  semper  s. l. et Hm2  semper  om. R ante  conuenienter  add.  et  H (er.) L (del. m2) NP  14 si] etsi  Hm1Lm1N  separetur  Em2  a  C  15 proprii  om. EG nam prima] unam  CHm1  (primam  m2) N  nam  (s. l.)  primam  P  17 homini medicina] hominem esse medicum  C  secundam  CHN; in mg . ał. se- cunda autem cum omni accidit etsi non soli ut homini esse bipedem  add. L  uero] autem  CL (in mg.)   cum soli quidem non adest, omni uero semper adiungitur, ut homini esse bipedem; tertia uero, cum omni et soli, sed ali- quando, ut omni homini in iuuentute pubescere; quarta, cum omni et soli et semper adest, ut esse risibile, atque ideo  cetera quidem conuerti non possunt : neque enim coaequatur quod soli, sed non omni speciei adest, species quidem de ipso dici potest, ipsum uero de specie minime, qui enim medicus est, potest dici homo, homo uero qui est, medicus esse non dicitur, rursus quod ita est alii proprium, ut omni adsit  etiamsi non soli, ipsum quidem de specie praedicari potest, species uero de eo minime, nam bipes praedicari de homine potest, homo uero de bipede nullo modo, rursus quod ita adest, ut omni et soli, sed aliquando adsit, quoniam de tem- pore habet aliquid deminutum nec simpliciter semper adest,  reciprocari non poterit, possumus enim dicere ‘omnis qui pubescit homo est’, non ‘omnis homo pubescit’: potest enim minime ad iuuentutem uenire atque ideo nec pubescere; nisi forte non sit pubescere hominis proprium, sed in iuuentute pubescere, aut, etiam cum nondum est in iuuentute aut etiam praeteriit, tamen  sit ei proprium non tale quale tunc fieri possit, cum praeter iuuen- tutem est, sed quale cum in iuuentute consistit, atque ideo hoc  1 cum] quae  N  soli—adiungitur  del. Hm2 omni accidit etsi non soli  CHm2L  semper  s. l. Hm2  2 hominem  C  tertiam  CHN  soli et omni  N  3 omnio  m. LNR  homini  om. N  quartam  CG (sic) HN  4  post.  et  om. EG, add. Pm2  inest  CHm1N  ideo  om. E  adeo  HLR  5 coaequantur  HN  6 quodj quia cum  Hm1N  non omni sed soli  N  sed] si  R  7 qui enim—dici homo  om. EGR  8 homo dici  C  9  ad  alii  s. l.  a t  illud  L, post add. una pars  R  11 de homine praedicari  C  13 adest  ex  est  Em2  distat  Hm1  assit  ex  sit  Hm2  14 diminutum  EN  nec] et  Hm1  16 non] non tamen dicimus  L  homo] qui est homo  L  qui homo est (qui  et  est  s. l. m2) H  18  ante  sed  add.  solummodo  Hm2, ante  in  CN, post post.  pubescere  L  aut]  Hm2La.c.Pm2  ut  EGHm1Lp.c.Pm1R  autem  CN  19 cum]  Hm1NR  quod  CEGHm2LP etiam  s. l. Hm2  iam  Em1  20 sit] adsit  CHN  ei  om. G  fieri  om. C, in ras. Lm2  fieri possit  del., est  s. l. scr.   Hm2  potest  L   (in ras. m2) P  est  C  21  post  quale  add.  tunc fieri potest (posset  CHLm1N) CH (s. l. m2) LNP   quod non in omne tempus tenditur, etiamsi tale est, ut omni  p. 92  speciei adsit, quod ta|men in tempus aliquod differatur, integrum atque absolutum proprium esse non dicitur, quartum est quod ita alicui adest, ut et solam teneat speciem et omni adsit et absolutum sit a temporis condicione, ut risibile quod a supe-  riore plurimum distat; nam qui risibilis est, semper ridere potest, rursus qui potest in iuuentute pubescere, cum ipsa iuuentus non sit semper, non ei adest semper ut in iuuentute pubescat, haec autem quarta proprii significatio quoniam nulla temporis definitione constringitur, absoluta est atque ideo  etiam conuertitur et de se inuicem proprium atque species praedicantur; homo enim risibilis est et risibile homo.      Accidens uero est quod adest et abest praeter sub- iecti corruptionem, diuiditur autem in duo, in separa-  bile et in inseparabile, namque dormire est separabile accidens, nigrum uero esse inseparabiliter coruo et Aethiopi accidit, potest autem subintellegi et coruus albus et Aethiops amittens colorem praeter subiecti corruptionem, definitur autem sic quoque; accidens est  13—p. 281, 7] Porph. p. 12, 23—13, 8 (Boeth. p. 39, 10—21).   1 quod] quia  HN  2 speciei] tempori  EGR  aliquid  C  4 alicui  om. EG, del. Hm2  ali  R  alii  Lm1 pr.  et  om. EGLR post.  et] ut  La.c.R  5  post.  a  s. l. Hm2  6 qui  ex  quod  Lm2  7  ante  cum  add.  sed  CH (del. m2) NP, s. l. Lm2  8 adest] est  EGR  in iuuentute  deleri uult Hilgard  9 quoniam] quam  EGLm2P  10 definitio ( uel  difd–)  EGLm2R  constringit  EG  11 et de se] et ideo de se  P  de se  om. R  De specie  EG  12 risibile  C  et  om. EGHR  13  inscript.   om. HL K ACCIDENTE  ΝR ΔΣ  14 uero  om.   A  15 diuiditur—sub- sistens  (p. 281, 3) ]  LR Q ,  om. cett. duobus  L  16 in  om.   Φ  nam  A   Busse  19 amittens colorem]  A m1 T"  nitens colore c ett. edd. Busse;   Porph. p. 13, 2   άποβαλών τήν χροιάν;   cf. supra p. 101, 13  corruptionem subiecti  LR ϋίΓΦ ;  codd. Porph.   φθοράς   aut ante   τοΰ υποκειμένου   aut post;   cf. infra p. 281, 17. 282, 3. 8  20 definitur]  Porph. p. 13, 3   ορίζονται   quod contingit eidem esse et non esse, uel quod neque genus neque differentia neque species neque pro- prium, semper autem est in subiecto subsistens.    Omnibus igitur determinatis quae proposita sunt,  dico autem genere, specie, differentia, proprio, acci- denti, dicendum est quae eis communia adsint et quae propria.  Quouiam, ut superius dictum est, quae de aliquo praedi- cantur, uel substantialiter uel accidentaliter dicuntur cumque  ea quae substantialiter praedicantur, eius de quo dicuntur substantiam definitionemque contineant et sint eo antiquiora atque maiora, quod ex substantialibus praedicatis efficiuntur, cum ea quae substantialiter dicuntur pereunt, necesse est ut simul etiam ea interimantur quorum naturam substantiamque  formabant, quae cum ita sint, necesse est ut quae accidenter dicuntur, quoniam substantiam minime informant, et adesse et abesse possint praeter subiecti corruptionem, ea enim tan- tum cum absunt subiectum corrumpere poterunt, quae effi- ciunt atque conformant quae sunt substantialia, quae uero  8 superius] p. 276, 4.   1 contigit - R A   ante pr. esse add. et R, s. l.   \ m2; om. Porph.   p. 13, 4 post.  et] uel  L  ( post  uel  littera er. )  edd.; Porph.   η ,  codd. CM   nat  2  post  genus  s. l. est A m2  neque species neque differentia  ΔΔΣ  edd.  Busse; Porph.   οοτε διαφορά οϋτε είδος   post proprium  add.  sit  LR  3 consistens  Λ  4 praeposita  Δ m1  5 dico—accidenti  om.   Γ  propria  Φ proprio et  L ΔΑΣ  accidente  H  et accidenti  L A m2  (et accidente  m1 )  ΛΣ  de accidenti  EG  6 eis] his  CHP  hiis  Φ  uel his  R ,  om. EG;   Porph. p. 13, 7   αΰτοϊς  adsint] sint  R  sunt  L Λ m1 ηιΙΧΣ ;  Porph.   πρδσεοτιν  et  om. G  7  post  propria  add.  EXPLICIT DE GENERE SPECIE DIF- FERENTIA PROPRIO ACCIDENTE  Σ  8 ut  om. EG  alio  CEGR  9 accidentialiter  CP accidenter  HR  dicuntur] praedicantur  R  cum  EG  11 definitione  EG  maiora atque antiquiora  C 12 quod] quia  R  substantialiter  CN  efficitur  CHm2LN  13 cumque  N ,  post  cum  s. l.  accidenter  E  intireunt  P  15  an  informabant? acci- dentaliter  Lm2  16 et  om. EGR, s. l. Lm2  abesse et adesse  H  17 possunt  N  tantum enim  C  18 perrumpere  E  potuerunt  LR  19 informant  HN   non efficiunt substantiam, ut accidentia, ea cum adsunt uel absunt, nec informant substantiam nec corrumpunt, est igitur accidens quod adest et abest praeter subiecti corruptionem, id autem diuiditur in duas partes, accidentis enim aliud est separabile, aliud inseparabile, separabile quidem dormire, sedere,  inseparabile uero ut Aethiopi atque coruo color niger. in qua re talis oritur dubitatio. ita enim est definitum : accidens est quod adesse et abesse possit praeter subiecti corruptionem. idem tamen accidens aliquando inseparabile dicitur; quod si inseparabile est, abesse non poterit, frustra igitur positum est  accidens esse quod adesse et abesse possit, cum sint quaedam accidentia quae a subiecto non ualeant separari, sed fit saepe ut quae actu disiungi non ualeant, mente et cogitatione sepa- rentur. sed si animi ratione disiunctae qualitates a subiectis non ea perimunt, sed in sua substantia permanent atque per-  durant, accidentes esse intelleguntur, age igitur, quoniam Aethiopi color niger auferri non potest, animo eum atque cogitatione separemus, erit igitur color albus Aethiopi, num idcirco species consumpta sit? minime, item etiam coruus, si ab eo colorem nigrum imaginatione separemus, permanet tamen  auis nec interit species, ergo quod dictum est et adesse et abesse, non re, sed animo intellegendum est. alioquin et sub- stantialia, quae omnino separari non possunt, si animo et cogi- tatione disiungimus, ut si ab homine rationabilitatem auferamus  1 cum—absunt] uel cum adsunt uel cum absunt  H  uel cum absunt uel cum adsunt  N  cum uel (uel  s. l. m2 ) absunt uel adsunt  L; ante  assunt  (sic) add.  uel  P  3  ante  adest  add.  et  P  4 dinidunt  EGLR  accidens  edd.  aliud est enim  H  5  ante  dormire  add.  ut  brm  6 ut  om. HR edd.  7 dubietas  CEG (recte?) post.  est  add. Hm2  8 et] uel  N  potest  CL  9 dicit  EG  11 abesse-et adesse  E  12 ab  CRm1  14 animi] hac  C  15 eas  EGN  permaneant  G  ac  R  16 acciden- ter  CG  intellegantur  Em1 igitur] enim  HN  17 eum  om. G, ante  separemus  C , uero  E  atque] et  HLNPR  18 num  ex  non  Rm2  19 consumptae (consumpta  R ) sunt  EGLR edd.  ita  CEP  20 imagine  EGR  21 interiit  Lm1PR pr. et om. EGR, s. l. Lm2  22 et  om. CEG  23 si] saepe  Hm1LNP  2t rationalitatem  P   — quam licet actu separare non possumus, tamen animi imaginatione disiungimus —, statim perit hominis species, quod idem in accidentibus non fit: sublato enim accidenti cogitatione species manet. Est alia quoque accidentis defi-  ni|tio ceterorum omnium priuatione, ut id dicatur esse acci-  p. 93  dens quod neque genus sit neque species nec differentia nec proprium; quae definitio plurimum uaga est ualdeque communis. sic enim etiam genus definiri potest, quod neque species neque differentia nec proprium sit nec accidens, eodemque modo  species ac differentia et proprium, cum autem eadem simili- tudine definitionis plura definiri queant, non est terminans et circumclusa descriptio, praesertim cum longe sit a definitionis integritate seiunctum quod cuiuslibet rei formam aliarum rerum negatione demonstrat.    Quibus omnibus expeditis, id est genere, specie, differentia. proprio atque accidenti, descriptisque eorum terminis quantum postulabat institutionis breuitas, ea ipsa communiter pertrac- tanda persequitur, ut quas inter se habeant differentias haec quinque, de quibus superius disputatum est, quas uero com-  muniones, mediocri consideratione demonstret, ut non solum  1 separari  EG  possimus  EL post  tamen  add.  si  L, s. l. Hm2Pm2  2 imaginatione] cogitatione  N  statimque  C  (q.  er. )  H  (q.  del. m2) N  periit  PR  3 item  CHm1  sit  EN (ut uid.)  sublata  EGR  enim  s. l. Cm2 accidenti  om. EGR, post  cogitatione  N  4  ante  cogitatione  er.  et  C  quoque  om. EGP (sic) accidentis  om. C, post  definitio  R  5  ad  priuatione  s. l.  quae fit per priuantiam  Em2  id  om. EG dicat  EGR  6 fit  C  neque differentia neque proprium  LNR  8 enim  om. NR  nec ( ante differentia)  CH  9 neque  NR  sit  om. L,   post  accidens  R  neque  N  10 proprio  HPm1  11 plurima  L  queunt  EGLm1R  termino  Ep.c.R  et  om. EGR  12 ab  LR  ac  G  13 negatione rerum  E  14 demonstret  N  15  post  genere  add.  quidem  CP  16  ante  proprio  add.  et  H ante  quantum  add.  et  PR, s. l. Lm2  17  post  breuitas  repet.  expeditis  PR,   s. l. Em2  pertractanda  om. C  retractanda  HNP  18  ante  quas  s. l.  quia  Em2  19 de quibus  om. E  disputandum  G  quas nero] quasue  CL   quid ipsa sint, uerum etiam quemadmodum inter se compa- rentur, appareat.    1 quid]  H, m2 in CLP  quod  NPm1  quae  Cm1EGLm1R  compa- rantur  E  2 ANICII MALLII SEVERINI BOETII  ( BOETI  E)  V. C.ET I LL . (EXINI  sic E ) EXCONS. ORDINAR. PATRICII IN ISAGOGAS PORPHYRII  ( Y  ex  I  Gm2)  ID EST INTRODVCTIONEM IN CATE- GORIAS A SE TRANSLA.  (sic EG)  EDITIONIS SECVNDAE LIBER IIII. EXPL.  ( EXPLICIT’  E) . INCIPIT LIBER V.  EG ; EXPLICIT LIBER  ( LIBER  om. C)  QVARTVS. INCIPIT LIBER  ( LIBER  om. HN)  QVINTVS  CHLNP, add.  DE COMMVNIBVS GENRIS. DIFFER. SPEC. ACCID. ET PROPI  N ; EXPLICIT LIBER QVARTVS  R     Expeditis per se omnibus quae proposuit et quantum in unius cuiusque consideratione poterat, ad scientiae terminum breuiter adductis nunc iam non de singulorum natura, id est  uel generis uel differentiae uel speciei uel proprii uel acci- dentis, sed de ad se inuicem relatione pertractat, nam qui communiones ac differentias rerum colligit, non ut sunt per se res illae considerat, sed ut ad alias comparentur, id autem duplici modo, uel similitudine, dum communitates sectatur,  uel dissimilitudine, dum differentias, quae cum ita sint, nos quoque, ut adhuc fecimus, propter planiorem intellectum philosophi uestigia persequentes ordiemur de his communio- nibus quae adsunt generi et speciei et differentiae uel proprio et accidenti.    Commune quidem omnibus est de pluribus praedi-  15—p. 286, 18] Porph. p. 13, 9-21 (Boeth. p. 40, 1—16).   3 cuiuscumqne  C  considerationem  Ea.r.G  4 id est  om. N, add.   Rm2  5  pr . uel  om. P secund.  uel] et  P  6 nam quia  R  namque  Hm1N  7 sunt. om. C  8 ille  GLNP, post  illae  s. l. sint  Cm2  ut  om. R  ad  s. l. LRm2 post  alias  add.  qualiter  CHPR, s. l. Lm2  comparantur  EGHm2, recte? cf.p. 284, 1 post  autem  s. l.  fit  Cm2L,   in mg. Em2, post  duplici  s. l. Pm2  9 dum—dum  om. EG  sectatur] retractat  R  retractantur  L  (n  del., s. l. a i  sectatur]  P  10 differentiae  La.c.P  uel differentia  EG  11  ad  adhuc  s. l.  id est (uel  G ) hac tenus  EGm2  12 his] his omnibus  R  communibus  EGR  13  utrumque  et  om.   EGLR  uel  om. R  et  NP  14 et] uel  EGL atque  R  15  ante  Commune  add. inscriptionem  DE COMMVNIBVS GENERIS (ET  add.   ΔΠ ] SPECIEI DIFFERENTIAE PROPRII ET ACCIDENTIS  ΛΠ   Busse,   N in subscript. libri IV cum alio ordine uerborum,  DE HIS (HIIS  Φ ) COMMVNIBVS QVAE ASSVNT (sunt  A ) GENERI ET SPECIEI (ET SPECIEI  om.   T ) ET DIFFERENTIAE ET PROPRIO ET ACCIDENTI (accidenti proprio et differentiae  A )  ΓΑ   (litt. minusc.)   Φ , INCIP. DE EORV COMVNIBVS  2  DE COMMVNITATIB; OMNIVM.  *i' ,  inscript.   om. CEGHLPR   cari, sed genus quidem de speciebus et de indiuiduis, et differentia similiter, species autem de his quae sub ipsa sunt indiuiduis, at uero proprium et de specie cuius est proprium et de his quae sub specie sunt indiuiduis, accidens autem et de speciebus et de indi-  uiduis. namque animal de equis et bobus [et canibus] praedicatur, quae sunt species, et de hoc equo et de hoc boue, quae sunt indiuidua, inrationale uero et de equis et de bobus praedicatur et de his qui sunt par- ticulares, species autem, ut homo, solum de his qui  sunt particulares praedicatur, proprium autem, quod est risibile, et de homine et de his qui sunt particu- lares, nigrum autem et de specie coruorum et de his qui sunt particulares, quod est accidens inseparabile, et moueri de homine et de equo, quod est accidens  separabile, sed principaliter quidem de indiuiduis, secundum posteriorem uero rationem de his quae continent indiuidua.    Antequam singulorum ad unum quodque habitudinem tractet, illam prius respicit quam omnes ad se inuicem habere uide-  1 sed—separabile  (16) om. HNP post.  de  om. R  2 autem] quidem  Δ  hiis  Φ ,  item 4  3  post  indiuiduis  s. l.  praedicatur  Em2  at uero —separabile  (16) om. CEG  at uero—indiuiduis  (5) om.   Σ · 4 de his  om.R  5  post.  de  om. R  6 bubus  Lm1 A  bobis  R, ante add.  de  L T  de bobus Busse  et canibus  cum Porph. p. 13, 14 om. edd., delend. uid. Bussio  7 praedicatur  post species  R pr. (sic)  de  om. R  8 inrationabile  L  et  om. Porph. p. 13, 15; ante  et  add.  similiter  R  9 de  om. R  bubus  RLm1 A  praedicatur  s. l.   \ m2  (dicitur  m1 ),  post  particulares  Λ2  quae  L TA  10 quae  R ΓΑ  11 particularia  R, add.  homines  L 4ΛΦ ;  om. Porph.   p. 13, 16  proprium—particulares  (12) om. R  quod est]  otov   Porph.   p. 13, 17  12  pr.  et  om.   L ΆΣ   Busse (casu ut uid., cf. eius adnot. ad   Porph. p. 13, 17   v-ai ),  add.   \ m2  13  pr.  et  om. Busse; Porph. p. 13, 18   τοΰ τε εΐδοος  14 qui] quae  R  15 de homine—equo  post  separabile  R  16 sed  om.   Π Σ   post principaliter  add.  accidens praedicatur  Φ ,  s. l.  accidens  Lm2  17 secundum—rationem] secundo uero  (cet. om.)   N ΛΣΦ ; secundo  etiam   T m1 ; uero  post  secundum  C  posteriore  E ratione  E  orationem  Λ   ante  de  add.  et  edd. cum Porph. p. 13, 21  18  post  indiuidua  add. speciebus  N Σ  20 uidentur  RG   antur. haec est autem una communio quae pro|positarum  p. 94 quinque rerum numerum pluralitate praedicationis includit; omnia enim de pluribus praedicantur, in hoc ergo sibi cuncta communicant, nam et genus de pluribus praedicatur, itemque  species ac differentia et proprium et accidens, quae cum ita sint, est eorum una atque indiscreta communio de pluribus praedicari, disgregat autem ipsam de pluribus praedicationem, quemadmodum in singulis fiat, quod unum quodque proposi- torum de quibus pluribus praedicetur ostendit, ait enim genus  quidem de pluribus praedicari, id est speciebus ac specierum indiuiduis, ut animal praedicatur de homine atque equo ac de his indiuiduis quae sub homine sunt atque sub equo, item genus praedicatur de differentiis specierum atque id iure. quoniam enim species differentiae informant, cum genus de  speciebus praedicetur, consequens est ut etiam de his dicatur quae specierum substantiam formamque efficiunt, quo fit ut genus etiam de differentiis praedicetur ac non de una, sed de pluribus; dicitur enim quod rationabile est, esse animal et rursus quod inrationabile est, esse animal, ita genus de spe-  ciebus ac differentiis praedicatur ac de his quae sub ipsis sunt indiuiduis. differentia uero de speciebus dicitur pluribus ac de earum indiuiduis, ut inrationabile et de equo praedicatur ac boue, quae sunt plures species, et de his quae sub ipsis sunt indiuiduis eodem modo dicitur; nam quod de uniuersali  praedicatur, praedicatur et de indiuiduo. quodsi differentia de speciebus dicitur, praedicabitur etiam de eiusdem speciei sub- 1 praepositarum  HN  5  post.  et] atque  R  7 autem] ut est  E  8 quod] ut  Em2P  et quod  La.c.  et ut  p.c., ante  quod  s. l.  in eo  Hm2  praepositorum  HN  9 ostendat  ELm2P  10 id est  om. HNR, er. G 11 atque] et  CL  equo ac de  om. EG  ac] atque  CL  et  R  12 de  om. L, s. l. Cm2  qui  EGP post. sub  om. LNP  14 enim  del. E  15 praedicatur  HN  16 perliciunt  HNP  18 rationale  EGHNP  19 quod  om. R, in ras. E,  quoniam  GLm1  inrationale  HNP  est  om. R  21 differentiae... dicuntur  R 22 inrationale ( uel  irr-)  Em2  (rationabile  m1) HLm2NP  23 bouej de boue  N  et de] deque  EG 25 et  ante  praedicatur  C  26 praedicatur  C  etiam  om. EN   iectis. species uero de suis tantum indiuiduis praedicatur; neque enim fieri potest, ut quae species est ultima quaeque uere species ac magis species nuncupatur, haec alias deducatur in species, quod si ita est, sola post speciem indiuidua restant, iure igitur species de suis tantum indiuiduis praedicantur, ut  homo de Socrate, Platone, Cicerone et ceteris, proprium item de specie praedicatur cuius est proprium, neque enim esset proprium alicuius, si de alio diceretur; de quo enim una quaeque res ‘et soli et omni et semper’ dicitur, eiusdem pro- prium esse monstratur. quae cum ita sint, proprium de specie  dicitur, ut risibile de homine; omnis enim homo risibilis est. dicitur etiam de indiuiduis speciei de qua praedicatur; est enim Socrates, Plato et Cicero risibilis, accidens uero et de speciebus pluribus dicitur et de diuersarum specierum indi- uiduis. dicuntur enim coruus atque Aethiops nigri et hic cor-  uus et hic Aethiops, qui sunt indiuidui, nigri secundum nigre- dinis qualitatem uocantur. atque hoc quidem est accidens inseparabile, sed multo magis separabilia accidentia pluribus inhaerescunt, ut moueri homini et boui — uterque enim moue- tur —, et rursus ea quae sub homine sunt atque boue indiuidua,  moueri saepe praedicantur. sed aduertendum est auctore Por- phyrio quod ea quae accidentia sunt, principaliter quidem de his dicuntur in quibus sunt indiuiduis, secundo uero loco ad uniuersalia indiuiduorum referuntur, atque ita praedicatio  1 praedicabitur  CLP  3 uero  C  5 praedicatur  Cm1EGLRm2  7 esse  E  8 nisi  HPR, ex  si  CLm2  aliquo  CHP ante  diceretur  add.  non  R, s. l. Lm2  9  pr.  et  om. EGHN secund.  et  om. G tert.  et  om. EG, del. Lm2, s. l. Pm2; ad  et—semper  cf. p. 275,10  12 etiam] autem  HPm1  13 Plato] et piato  N  et  om. CEG  risibiles  CH  et  om. EGLP  14 pluribus  om. CN  dicitur  om. H, post  indiuiduis  s. l.  scil, praedicatur  m2  specierum  om. HN  15 dicuntur  in ras.   Hm2  dicitur  GNR  niger  NR  et  om. EGHN  16 et  om. EG   post  nigri  add.  autem  R, s. l. Lm2  19 et  om. EG  20 et  om.   CEGP  21 mouere  Ea.c.Gm2  actore  Ea.c.R  23  post  dicuntur  add. nam non subsistunt praeter haec quibus adsunt et nulli prius acci- dunt quam indiuiduis  R  24  post  uniuersalia  add.  ad speciem  G   superiorum redditur, ut quoniam nigredo singulis coruis adest, dicitur adesse coruo. nam quia omnia particularia qualitas ista accidentis nigredinis inficit, idcirco eam de specie quoque praedicamus dicentes coruum, ipsam speciem, nigrum esse.    In quibus omnibus mirum uideri potest, cur genus de proprio praedicari non dixerit nec uero speciem de eodem proprio nec differentiam de proprio, sed tantum genus quidem de speciebus ac differentiis, differentiam uero de speciebus atque indiuiduis, speciem de indiuiduis, proprium de specie atque indiuiduis,  accidens de speciebus atque indiuiduis. fieri enim potest ut quae maioris praedicationis sint, ea de cunctis minoribus praedi- centur, et quae aequalia sunt, sibimet conuertuntur, eoque fit ut genus de differentiis, de speciebus, de propriis, de acci- dentibus praedicetur, ut cum dicimus ‘quod rationale est,  animal est’, genus de differentia, ‘quod homo est, animal est’, genus de specie, ‘quod risibile est, animal est,’ genus de proprio, ‘quod nigrum est’, si forte coruum uel Aethiopem demonstremus, ‘animal est,’ genus de accidenti praedicamus, rursus ‘quod homo est, rationale est’, differentia de specie,  1 superiorum]  E  ( s. l.  id est specierum)  GP  superioribus  cett.  sub- teriorura superioribus  brm  ut—dicitur  om. EG  2  post  coruo  s. l.  speciali  Lm2  3 nigredinis accidentis  C infecit  HLm1  eam] eamdem  Lm2Pm2  (it eadem  m1 ) eadem  EG  eo  Rm1  ea  m2  de  om. P  4 ipsum specie  EGPRm2 post  ipsam  add.  scilicet  C  nigram  C  5 omnibus  s. l. Cm2  6  utroque loco  neque  R  7 differentias  R  8 atque  Rbrm  et de  p  differentiis] indiuiduis  pr cum p. 286, 1, differentiis <atque indiuiduis>  coni. Brandt; cf. p. 287,12—21  differentias  HLPR  9 proprium de specie atque indiuiduis  om. H  11 maiores praedicationes  EGR  sunt  Ca.c. (ras.  i  ex  u)  Pm2R  ea  s. l. L  eadem  C  eaedem ( om.  de  G ) eae  Pm1  hae  ER  cunctis] dictis  EGR  12 et  om. EG   conuertuntur ]  Em1GLm1Rm2  (conuertentur  m1 ) conuertantur  CEm2HL   m2NP ad  eoque  s. l.   i  ideo  G  fit] quale sit  EG  13  pr.  de] et de  HNP   secund.  de  om. R  et de  HLNP tert.  de  om. E  et  HNPR  et de  L   quart.  de] et  NP  et de  HL  atque  R  14 praedicatur  EG  rationabile CEGLm1NR  15 animal est] sit animal  E  ( ad  sit  s. l.  pro est)  GLR  de  s. l. EGm2L post differentia  add.  praedicatur  GP (del. m1?),   s. l. Lm2, s. l.  praedicari  Em2  16 eat genus  om. G 18 accidente  R  19 rationabile  Em1G post  specie  add.  praedicatur  G   ‘quod risibile est, rationale est,’ differentia de proprio, ‘quod nigrum est, rationale est’, si Aethiopem demonstremus, dif- ferentia de accidenti; item ‘quod risibile est, homo est’, spe-  p. 95  cies de proprio, ‘quod nigrum est, homo|est,’ si Aethiopem designemus, species de accidenti, qua in re etiam ‘quod nigrum  est, risibile est’ in Aethiopis demonstratione ut proprium de accidenti praedicatur. conuerti autem ad totum accidens potest, ut quoniam in indiuiduis singulorum esse proponitur, idcirco de superioribus etiam praedicetur, ut quoniam Socrates animal est, rationalis est, risibilis est et homo est, cumque in Socrate  sit caluitium, quod est accidens, praedicetur idem accidens de animali, de rationali, de risibili, de homine, ut accidens de quattuor reliquis praedicetur. sed horum profundior quaestio est nec ad soluendum satis est temporis, hoc tantum ingredi- entium intellegentia expectet, quod alia quidem recto ordine  praedicantur, alia uero obliquo, quoniam moueri hominem rectum est, id quod mouetur hominem esse conuersa locutione proponitur, quocirca rectam Porphyrius in omnibus propositi- onem sumpsit, quodsi quis uim praedicationis et solutionis adtenderit in singulis praedicationibus comparans, eas quidem  1 differentiam  HR  3 accidentia  G post  item  add. quod rationale est homo est species de differentia  Hm1, del. m2  speciem  ELm2PR,   item 5  6 ut  om. R, del. ELm2 post  proprium  s. l.  etiam  Pm2,   post  accidenti  N, s. l. Cm2  7 praedicetur  CHLm1NPm2  ad  om.   N, s. l. Cm2  8 ut  ex  et  Hm2  in]  N, s. l. m2 in EHP, om. cett. praeponitur  Ca.c.EGHLNR  9 praedicatur  CHLNR ante  animal  add.  et  HN  10  ante  rationalis  add.  et  HNP, s. l. Cm1?  rationabile  Lm1 ante  risibilis  add.  et  HNPR, s. l. Cm1? Lm2  risibile Cm1EGLm1  et  (s. l. m1?)  homo est  post  rationalis est  C  et  om.   EG  11 praedicatur  CHLm2NP 12  secund.  de  om. CEGR tert.  de  om. R quart.  de  om. C  ut] et  CHN  13 praedicatur  CHN  14 dis- soluendum  N  15 expectet  idem quod  spectet 16 quoniam] nam  HLm2NP  moueri  post hominem  Cm2Pm2  17 moneatur  N  18  ante  proponitur  s.l.  non  Hm2  proportionem  EL  19 uim quis  EGLR  uim  om. Hm1, ante  adtenderit  s. l. m2  praedicatae  H  praedictae  Lm2Pm2  et solutionis]  CN  solutionisque  L  solutionis  Gm1Hm2  (locutionis  m1 ),  s. l. add. Pm2  so- lutione  Gm2R  solue  (sic) E  20 attenderit  in ras. Em2  ostenderit  R   prolationes quae rectae sunt, inueniet a Porphyrio esse enu- meratas, eas uero quae conuerso ordine praedicantur, fuisse sepositas.      Commune est autem generi et differentiae con-  tinentia specierum. continet enim et differentia species, etsi non omnes quot genera, rationale enim etiamsi non continet ea quae sunt inratio· nabilia quemadmodum animal, sed continet homi-  nem et deum, quae sunt species, et quaecumque praedicantur de genere ut genera, et de his quae sub ipso sunt speciebus praedicantur, et quae- cumque de differentia praedicantur ut differen- tiae, et de ea quae ex ipsa est specie praedicabun-  tur. nam cum sit genus animal, non solum de eo praedicantur ut genera substantia et animatum, sed etiam de his quae sunt sub animali speciebus  4—p. 292, 10] Porph. p. 13, 22—14, 12 (Boeth. p. 40, 17—41, 12).   1 esse  om. GN, add. Hm2  enumeratas] N numeratas  cett.  2 prae- dicantur] proferuntur  HN  3 positas  Gm1Hm1  suppositas  Pm2  4  de   Porph. cf. ad p. 103, 7  5 Communis  Σ ,  m1 in EH \  est  om. E   Porph. (p. 13, 33) Busse, post  autem  N  6 continet—sunt  (p. 292, 8)] LR Q ,  om. cett.  7 etiamsi  ΔΣ  quod  i m1  quas  A m2R  8 enim  om. R,   8. l.   Δ inrationalia  2Φ ,  add.  ut genus  codd. praeter R Σ ,  om. etiam   Porph. p. 14,2, delend. uid. Bussio 9 sed] tamen  brm  10 deum] angelum  R  angelum et deum  L; Porph. cod. A   θεόν ,  cett.   άγγελον 11 genera]  Σ  genus  cett. Busse (sed  genera  probare uid.); cf.  ut genera  16. p. 293, 20 , ut differentiae  13; Porph. p. 14,3   όσα τε ν,ατηγορεΐται του   γένους ώς γένους  et] eadem  in ras. A m2  12 et]  Z p, s. l.   A m2,   om. cett.  (aliter  er.   T )  Busse  item  brm; cf. ad 13  quaecumque]  Lm2R Z  quaeque  cett.  13 de differentia] differentiae  Lm1 A  differentia  R ΓΦ ;  cf.  ut differentiae  p. 294, 1; Porph. p. 14,4   όσα τε τής διαφοράς ώς   διαφοράς  14 ex] sub  L \  et  R; Porph.   έξ praedicantur  Γ  15 genus sit  ΔΛΣ  16 praedicatur  R  ut  om. edd.  genera]  L Z   Busse  genus  cett. codd., om. edd.; cf. p. 394, 3—5; Porph. p. 14,5   γένους... ώς   γένους αατηγορεΐται ή ουσία  17 sunt  om. L  animalis  Δ   omnibus praedicantur haec usque ad indiuidua. cumque sit differentia rationalis, praedicatur de ea ut differentia id quod est ratione uti, non solum autem de eo quod est rationale, sed etiam de his quae sunt sub rationali speciebus praedicabitur  ratione uti. commune autem est et perempto ge- nere uel differentia simul perimi quae sub ipsis sunt; quemadmodum enim si non sit animal, non est equus neque homo, ita si non sit rationale, nullum erit animal quod utatur ratione.   Post eam quae cunctis adesse uisa est communitatem, sin- gulorum ad se similitudines ac dissimilitudines quaerit, et quoniam inter quinque proposita genus ac differentia uniuer- salioris praedicationis sunt, siquidem genus species continet ac differentias, differentiae uero species continent neque ab his  ullo modo continentur, primum generis ac differentiarum similitudines colligit, ac primam quidem ponit hanc, dicit enim commune esse generi ac differentiae, ut species claudant;  1 praedicatur  LR ante  haec  add.  et  s. l. Lm2, in mg.   Γ ,  post  haec  Λ  haec  del.   \ m2  2 rationalis]  codd. (etiam Bussii LQ  rational,  in P uox paene tota euanuit ) rationale  edd. Busse; Porph. p. 14,7   διαφοράς τε οόσης τής τοΰ λογιχοΰ ;  cf. infra p. 293, 14  rationalis diffe- rentia;  295, 11  sub rationali differentia,  unde  rationalis  nominatiuum   potius intellegas quam cum Porph. genetiuum praedicantur  Φ  3 eo  coni. Busse  non] et non  L *l>  4 autem]  ΓΦ ,  s. l. Km2, om. cett.;   Porph. p. 14, 8   δε  5  ante  sunt  s. l.  sub ipsa  \ m2  sub rationabili- bus  h m1, del. m2 post  rationali  add. animali  ΠΦ ,  s. l. Lm2  praedi- catur  ΓΔΛΣΦ   a.c.; Porph. p. 14, 9   χατηγορηθήσετοι  6  ante ratione  add.  id quod est  s. l.   & m2 W m2 Busse  id quod potest  LR post  com- mune  s. l.  illis  Γ est autem  Φ   ante  perempto  add.  hoc  Λ  genere]  Porph. p. 14, 10   ή τοΰ γένους ,  om.   η   cod. Μ  8 enim]  Σ ,  s. l.   Ψ m2 ,  om. cett.; Porph. p. 14,11   γάρ  sit] est  CEGHP  9 ita] sic  L  ac  b m1 \  12 ad se] ad esse  EGP  et  om. CEG, s. l. Pm2, del. Lm2  13 generis ac differentiae  CN  uniuersaliores praedicationes  CEGNP  14  ante  species  add.  et  LR  15 nec  N  16 ac] et  N  17 primum  LNP hanc] hanc communionem  H  18 commune] hoc commune  H  communionem  LR  ac] et  CGLP concludant  HN   nam sicut genus sub se habet species, ita etiam differentia, tametsi non tantas quot habet genus, etenim genus quoniam differentiam etiam claudit et non unam tantum sub se diffe- rentiam cohercet ac retinet, plures necesse est habeat sub se  species, quam quaelibet una earum differentiarum quas claudit, ut animal praedicatur de rationabili et inrationabili. quodsi ita est, praedicabitur et de his quae sub rationali sunt positae speciebus et de his quae sub inrationali. est ergo commune animali et rationali, id est generi et differentiae, quod sicut  genus de homine et de deo praedicatur, ita etiam rationale, quod est differentia, de deo ac de homine dicitur, sed non in tantum haec praedicatio funditur quantum animalis, id est generis, animal enim non de deo solum atque homine, sed de equo et boue praedicatur, ad quae rationalis differentia non  peruenit. sed quandocumque deum supponimus animali, secun- dum eam opinionem facimus quae solem stellasque atque hunc totum mundum animatum esse confirmat, quos etiam deorum nomine, ut saepe dictum est, appellauerunt. Secunda item communio est generis ac differentiae, quoniam quaecumque  praedicantur de | genere ut genera, eadem de his quae sub  p. 96  ipso sunt speciebus praedicantur; ad hanc similitudinem 15 quandocumque — 18 appellauerunt] Abaelardus, Introduct. ad theolog., II 34. 376. 18 saepe] p. 208, 22. 259, 19.   1 habeat  Lm2  differentiae  EGR  2  post.  genus  om. EGR, post quoniam  Cm1, corr. m2  3 differentias  CHm1L  etiam  del. Lm2, om. N  et  om. EG, s. l. Lm2 tantum  om. H, s. l. Lm2  4  ante  plures  add.  sed  EGL  adhibeat  R  ut habeat  L  5 quas  om. L quam  EGHPm1R  6 rationali  CHLN  inrationali ( uel  irt-)  HLN  7 ra- tionabili  Cm1EGm2P  8 inrationabili ( uel  irr-,)  CEGNP  commune est,  post s. l.  ergo  C ; ergo  om. EG, add. Pm2  10 et de deo  om. EG  rationabile  CEGR  11 in  om. LN  12 haec  om. EG  14 rationabilis  R  16 opinionem]  CHNPm2 Abaelard.  propositionem  EGLPm1R  qua  EGLm1P  solem] coelum  Abaelard.  17 confirmant  EGLm1  confirmet  N  20 de genere praedicantur  C post  eadem  add.  et  L  21 ipso] genere  H  ad hanc similitudinem  om. EGR; ante  ad  s. l.  et  Pm2   quaecumque de differentia praedicantur ut differentiae, et de his quae sub differentia sunt ut differentiae praedicantur, cuius sententiae talis est expositio, sunt plura quae de generibus praedicantur ut genera, ut de animali dicitur animatum, dicitur substantia, atque haec ut genera, haec igitur praedicantur et  de his quae sub animali sunt, ut genera rursus; nam hominis et animatum et substantia genus est, sicut ante fuerat ani- malis. item in ipsis differentiis quaedam differentiae inueniun- tur quae de ipsis differentiis praedicantur, ut de rationali duae differentiae dicuntur, quod enim rationale est, utitur ratione  uel habet rationem, aliud est autem uti ratione, aliud habere rationem, ut aliud est habere sensum, aliud uti sensu, habet quippe sensum et dormiens, sed minime utitur, ita quoque dormiens habet rationem, sed minime utitur, ergo ipsius ratio- nabilitatis quaedam differentia est ratione uti, sed sub ratio-  nabilitate homo positus est; praedicatur igitur de homine ratione uti ut quaedam differentia, differt enim a ceteris animalibus homo, quia ratione utitur, demonstratum igitur est quia sicut ea quae de genere praedicantur, dicuntur de generi subiectis, ita etiam ea quae de differentia praedicantur, dicuntur de his  quae differentiae supponuntur. Tertium commune est quod  1  ante  quaecumque  add.  et  EGL(del. m2), er. uid. C  quaeque  GPR  praedicantur  om. EGR, post ut differentiae  H  ut differentiae  om. EG post  differentiae  add.  eadem quoque  L, post  de his  P (om.  et), eadem  s. l. Nm2  2  post  sub  add.  ipsa  NR  sunt  ante  sub  H  ut differentiae  om. H, s. l. Nm2  ut differentia  EG  4  post.  dicitur  om. L 5 ante  substantia  add.  et  LPm2  6 rursus  ante  ut  GR, post L  7 antea fuerat  H  ante fuerant (n  s. l. m2) L  fuerant ante  R  8 quae- dam  s. l. Cm2  9 praedicentur  Cm2  ut  om. HN  11 autem habere rationem aliud uti ratione  NR.  12 ut  om. H sicut  N  est  om. H  13 sed minime utitur  om. N  sed—dormiens  om. EGPE, del. Lm2  ita—rationem  in sup. mg. Nm2  15 sed  om. EG, s. l. Pm2  16 positus est homo  R  esse ( om.  est  EGP est  ex  esse  Lm2  esse  del. Pm2 ) praedicatur. Igitur  EGLP  17 ut  om. EG, s. l. Cm2 post  diffe- rentia  add.  est  EGP  a]  L, om. cett.  18 homo  ante  ceteris  H  est igitur  HLN  quia] quod  CL  19  post.  generum  EGLm2P  20 post  his  add.  quoque  HN  21  post  Tertium  add.  uero  P, s. l. Lm2 quod] quia  C   sicut absumptis generibus species interimuntur, ita absumptis differentiis species de quibus differentiae praedicantur, intereunt, commune enim est hoc, uniuersalium in substantia pereuntium perire subiecta. sed prima communio demonstrauit genera de  speciebus praedicari, sicut etiam differentias, propter hanc igitur similitudinem si auferantur genera, species pereunt, sicut etiam species perire necesse est quae sub differentiis sunt, si uniuersales earum differentiae consumantur, cuius exemplum est : si enim auferas animal, hominem atque equum sustuleris,  quae sunt species positae sub animali, si auferas rationale, hominem deumque sustuleris, qui sunt sub rationali diffe- rentia collecti. Et de communitatibus quidem hactenus, nunc de generis et differentiae dissimilitudine perpendit.      Proprium autem generis est de pluribus prae- dicari quam differentia et species et proprium et accidens; animal enim de homine et equo et aue et serpente, quadrupes uero de solis quattuor pedes habentibus, homo uero de solis indiuiduis et hin-  nibile de equo et de his qui sunt particulares, et  14—297, 2] Porph. p. 14, 13—15, 8 (Boeth. p. 41, 13—42, 14).   1 sicut—ita  om. EG  consumptis ( post  ita)  Pm2  6 igitur] qui- dem  E  sicut] sic  GHm2LN  7 species etiam  HNP  10 quae] quia  H  qui  ex  quia  Nm2  12 collocati  HNP, recte? cf. 10. p. 300, 18  Et  om. CEGP, del. Lm2  13 perpendet  G  14 PROPRIO  C  PRO- PRIIS  post DIFFERENTIAE  L  GENERI  R  DE PROPRIIS EORVM (EORVNDEM  Ψ )  Ρ Ψ ;  de Porph. cf. ad p. 105, 16  15 autem  om ·.  ΓΦ  generi  LNR A ;  cf. infra p. 297, 15. 16 s. 299, 17. 300, 23. 301,10. (13) 302,11  est  ante  generis  s. l.   A ,  om .  Σ ,  om. Porph. p. 14,14  16  ante  quam  add . magis  L (er.)   A   (del. m2)  differentiae  EGHLPm1R ;  Porph. p. 14, 15   ή διαφορά  et species—differentia  (p. 296, 21) ]  LR ii ,  om. cett . et proprium] propriumque  A  17 de equo et (de  add.   \ ) homine  ΔΑ  18  post  uero  add . uidetur  ΓΦ ,  m1 in L ΔΑ ,  del. m2; om. Porph. p. 14, 17  solis  om. R  20  ante  equo  add . solo  edd. cum Porph. p. 14, 18   μόνον ,  fort. recte post , de  om. R, s. l. Lm2   accidens similiter de paucioribus, oportet autem differentias accipere quibus diuiditur genus, non eas quae complent substantiam generis, amplius genus continet differentiam potestate; animalis enim hoc quidem rationale est, illud uero inratio-  nale. amplius genera quidem priora sunt his quae sunt sub se positae differentiis, propter quod simul quidem eas auferunt, non autem simul aufe- runtur; sublato enim animali aufertur rationale et inrationale. differentiae uero non auferunt  genus; nam si omnes interimantur, tamen substan- tia animata sensibilis subintellegitur, quae est animal, amplius genus quidem in eo quod quid est, differentia uero in eo quod quale quiddam est, quemadmodum dictum est, praedicatur, amplius  genus quidem unum est secundum unam quamque speciem, ut hominis id quod est animal, differen- tiae uero plurimae, ut rationale, mortale, mentis et disciplinae perceptibile, quibus ab aliis differt, et genus quidem consimile est materiae, formae  uero differentia, cum autem sint et alia communia  1 autem  om .  Σ  enim  Lm1  4 continet genus  LR; Porph. p. 14, 20   τό γένος περιέχει 5 enim  om.   2  uero  A m1  est  in mq. Lm2  6 quidem genera  Lm1R  priora  om. L  7 sub se  ante sunt  L, post  positae  R  positis  ΓΛΦ ,  m1 in L Λ2  8 quidem  om. L, ante  simul  R  auferunt]  h m1 V aufert  cett.; Porph. p. 14, 22  ( τα γέν-r )  σοναναιρεΐ οΰτός  aufe- runtur]  A m1 W  aufertur  cett.; Porph. p. 14, 23   σοναναιρεϊται  9 aufertur rationale—aufernnt genus  om. R  11 si] etiamsi  brm cum Porph. p. 15, 1   καν ; fort. etsi  scribendum  tamen  om .  Σ ,  s. l.   A m2 A m2  12 sensi- bili  R subintellegitur]  Φ  subintellegitur potest  R  subintellegi  potest   cett.; Porph. p. 15, 2   επινοείται quod  Δ   Busse; Porph .  οϋσια...ήτις ήν τό ζψον  14 uero  om. L  quiddam  om. R  quid  edd . est  om.   LR TΛΦ  15 quemadmodum] sicut  LR  est dictum  Λ   Busse  16 quidem genus  hA m1 Z  est unum  LR  17  ante  hominis  add. est   edd. Busse; om. Porph. p. 15, 4  18 plures  brm cum Porph. p. 15, 5   πλείοος ;  cf. infra p. 301, 21; post  plurimae  add . sunt  ΑΣ   Busse; om. Porph. p. 15, 5 mentis  5 m2  risus  m1  20 cum simile  R  21 autem  Cp.c . haec  a.c . et  om. G   et propria generis et differentiae, nunc ista suf- ficiant.    | Proprium quidem quid sit, conuenienti atque integro uoca- p. 97  bulo definitum est. sed per abusionem illa etiam propria  quorumlibet dicuntur quae in una quaque re ab aliis continent differentiam, licet cum aliis sint ea ipsa communia, per se quippe proprium est homini quod ei omni et soli et semper adest, ut risibilitas, per usurpatam uero locutionem etiam proprium hominis rationabilitas dicitur non per se proprium,  quippe quod ei cum deorum est natura commune, sed homini rationabilitas proprium dicitur ad discretionem pecudis, quod rationale non est; id uero propter hanc causam, quoniam id proprium unius cuiusque dicitur quod habet suum, quo igitur quis ab alio differt, proprium eius non absurda usurpatione  praedicatur, sed nunc quod dicit proprium generis esse de pluribus praedicari quam cetera quattuor, id ipsum generis tale proprium est, quale per se proprium dici solet, id est quod semper <et> omni et soli adsit generi, generi enim soli adest, ut differentia, specie, proprio, accidenti überius atque  affluentius praedicetur, sed de his differentiis, speciebus, pro- priis atque accidentibus id dici potest quae sub quolibet  1 proprii  P  et] ac  EGP  nunc  om. Porph. p. 15, 8  suf- ficiunt  Λ m1 2 ;  Porph .  άρκείτω ταϋτα ,  cod. B   apxet τοααδτα  3 quidem] autem  C  quod  R  5 in una quaque re]  CLP  re  om. N  una quaque  E  una quaeque  G  unam quamque  HR  6 differenda  EGLm1  7 omni et soli] et soli et omni  C   pr.  et  s. l. Lm2 post , et  om. EG  10  post  ei  add . quoque  HNP  12 rationabile  HR post  uero add. fit  L ,  s. l. Pm2  14 aliquo  Lm2  differat  Cm2Hm1N  15 nunc  om. EG ,  post  quod  C  17 tale  ante  quale  P est proprium  LP post , est  om. CN  18 et  add. brm  adest  C  generi enim  in mg. Hm2  enim] uero  C  autem  L  19  post  ut  add . et  H   (del. m2) N  et specie  HLN  et proprio  HLR  et (atque  R ) accidente  HLm1  (-ti  m2 )  NR  20 affluentius]  CHNPm2  fluentius  Lm1 ,  s. l . ł lucidius  m2 cluentius  E  ( s. l . habundantius]  Pm1  licentius  G  luculentius  R  de] e  R  speciebus  post differentiis  pos. Brandt, ante codd. pr, om. bm  et propriis  CHLN  21 atque  om. P   genere sunt, id est differentiae quidem quae quodlibet diuidunt genus, species uero quae diuisibilibus generis differentiis infor- matur, proprium autem illius speciei quae sub illo genere est quod differentiis est diuisum, accidentiaque quae his hae- reant indiuiduis quae sub ea specie sunt quam designatum  genus includit, hoc facilius exempla declarant, sit enim genus animal, quadrupes ac bipes differentiae sub animalis positae continentia, homo atque equus species sub eodem genere constitutae, risibile atque hinnibile propria earundem spe- cierum, uelox uero uel bellator accidentia quae his indiuiduis  accidunt quae sub speciebus equi atque hominis continentur : animal igitur, quod est genus, praedicatur et de quadrupede et bipede, quae sunt differentiae, quadrupes uero de bipede non dicitur, sed tantum de his animalibus quae quattuor pedes habent; plus igitur praedicatur genus quam differentia, rursus  homo de Platone ac Socrate praedicatur, animal uero non modo de hominibus indiuiduis, uerum etiam de ceteris inratio- nabilibus indiuiduis dicitur; plus igitur genus quam species praedicatur, sed cum sit proprium hinnibile equi speciei cum-  1 differentiae]  CNp  differentias  EG, m1 in HLP de  (om. HPR)  dif- ferentiis  m2 in HLP, Rbrm  quidem  om. B, ante add . sunt  C, post N  genus diuidunt  HN  2 speciebus  Hm2Lm2  specie  Pm2brm  diuisi- bilis  Hm1Pm1R  ( add . est), dissimilis  E  ( add . est)  G, ad  diuisibilibus  in mg.  ał quae diuisiuis  Lm2, sed cf. p. 254, 12 ante generis  add  est  ERm2, add . sunt,  post  et  (del. m2) P  informantur  CLm2  3 pro- prio  m2 in HLP (ante s. l. de add.) brm post  autem  add . quod est  EGP (del. m2)  illi  Lm1  4 diuisiuum  Lm1  diuiditur ( om . est;  N  accidentiaque]  CEGHm1Lm1  accidentia quoque  Pm1  (de accidentibus quoque  m2 ) accidentia  Rp  accidensque  N  accidentibusque  Hm2Lm2brm  quae] quod  N  hereat  N  haerent  Pm2 edd . 5 sint  G  10 uelox— bellator]  HNP  (uel  om. , et  s. l. m2 ), uelox uero dux uel bellator  C  uelox uero uel bellator dux  L  uelox uero bellator dux  EG  ferax uerox  (sic)  ( s. l . equus  m2 ) bellator dux  R  11 accidant  H  accidencia  Pm1  12 et  om. EGP  13 et bipede]  HNP, om. R  bipede  C  de bipede  EGLm1  et de bipede  m2  quadrupedes  G  14 his  om. GR, s. l. Cm2Lm2  16 ac] et  P post  praedicatur  add . et ceteris  HNP  17 hominis  C  (s  in er. b.? m2 )  GHm1N  19 sed—praedicetur  om. EG  hinnibile  ante  proprium  N, om. LR  simile  H  equi  om. H   que genus quam species überius praedicetur, praedicatio quo- que generis proprii supergreditur praedicationem, accidens quoque etsi pluribus inesse potest, tamen saepe genere con- tractius inuenitur, ut bellator non proprie nisi homo dicitur,  ut uelocitas in paucis animalibus inuenitur. quo fit, ut genus differentia, specie, proprio et accidentibus amplius praedice- tur. Atque haec est una proprietas generis quae genus ab aliis omnibus disiungat ac separet, oportet autem, inquit, nunc eas differentias intellegere quibus diuiditur genus, non quibus  informatur, illae enim quibus informatur genus, plus quam ipsum genus sine dubio praedicantur, ut animatum et corpo- reum ultra animal tenditur, cum sint differentiae animalis, sed non diuisiuae, sed potius constitutiuae; omnia enim superiora de inferioribus praedicantur, quae uero de inferioribus praedi-  cantur neque conuerti possunt, haec ab eis quae inferiora sunt amplius praedicantur.   Post hoc aliud proprium generis ostendit quo ab his differentiis quae sub eodem sunt positae, segregatur, omne enim genus continet differentias potestate, differentia uero  genus non potest continere, animal enim rationale atque inra- tionale continet potestate; neque enim inrationabilitas neque rationabilitas animal poterit continere, potestate autem ait continere animal differentias quia, ut superius dictum est,  23 superius] p. 264, 16.   1 praedicatur  Cm1R  3 inesse] inest  C  ante saepe  add . semper uel  Hm1, del. m2  contractius genere  H  inneniri  C  5  pr.  ut  er. uid. C, om. HPm1  et  LN, s. l. Pm2  6  ante  differentia  add . et  Hm2LN ante  specie  add . et  HL  et de  N ante  proprio  add. et HL  et de  N  et  om. E  accidente  R  8 inquit  om. N, del. Hm2  10  post  informatur  add . genus  C  illae—informatur  om. EGLR, post praedicantur  (11) add . Ipsae enim diffe- rentiae a quibus informatur genus  Lm1, ante  plus quam  transpos. m2  illae enim] nam illae  P ante  plus  add . nam  GR  11 sine dubio  om. HN  et  om. EG  12 tendit  EG ? tenduntur  R  sunt  H  15 ab  om. H  18 eodem] eo  HN  eodem genere  C segregetur  HN  20 rationabile  ELm2P  atque  om. EGR, s. l. Pm2  inrationale  om. EGPm1R inrationabile  Lm2, s. l. Pm2  21 inrationalitas neque rationalitas  HN  22 poterunt  CHLP  23  post  differentias  add . proprias  CL (del. m2), ante HNP   genus quidem omnes sub se habet differentias potestate, actu uero minime, ex quo fit ut alia proprietas oriatur, sublato enim genere perit differentia, ueluti sublato animali interimitur rationabilitas, quod est differentia, at si rationale interimas, inrationale animal manet, sed obici potest : quid? si utrasque  differentias simul abstulero, num poterit remanere genus? dicimus : potest, unum quodque enim non ex his de quibus praedicatur, sed ex his ex quibus efficitur, substantiam sumit, itaque fit ut genus sublatis diuisiuis differentiis permanere possit, dum tamen maneant illae quae ipsius generis formam  substantiamque constituunt, quoniam enim animal animata  p. 98 atque sensibilis differentiae constijtuunt, hae si maneant atque iungantur, perire animal non potest, licet ea pereant de quibus animal praedicatur, rationale scilicet atque inrationale. unum quodque enim, ut dictum est, ex his substantiae proprietatem  sumit ex quibus efficitur, non ab his de quibus praedicatur, amplius si utrasque differentias genus potestate continet, ipsum per se neutram earum intra se positam collocatamque con- cludit. quodsi actu quidem eas non continet, sed potestate, actu etiam ab his poterit separari; hoc ipsum enim, potestate  eas continere, id erat actu non continere, genus uero, quod quaslibet differentias actu non continet, actu ab eisdem etiam separatur. Kursus aliud est proprium generis, quod ex pro-  1 omne  GR  2 alia ut  EGP  4 rationalitas  HN  at  om. EGR  rationabile  CLm1R  5 inrationale  om. EG  inrationabile  Lm1R  quod  CEGLP  qui  R  6  post  abstulero add. rationales et inrationales  E num] non  EGLm1P  7 dicimus] sed dici  EP  de quibus—his  in mg.   Hm2  8  post , ex] de  P  9 itaque] atque  GR  atque  ita C  atque ideo  EP  10  post  tamen  add . earum  P  illa  C  ( a. in er . ae  m2 )  N  quod  E  11 quoniam—constituunt  in mg. inf. Em2  animati  Cm2LR  12 differentia  HN differendis  Pm1  haec  C (c er.)   EGHN  manent  E  15 dictam est] diximus  C  17  ante  ipsum  s. l. tunc  Hm2  18 neutra  G  neutrum  R  positum collocatumque  LPm1R  20 etiam] quidem  E post poterit  add . genus  EG   post  enim  add . quod est  R, s. l. Pm2  21 erit  Lm2R  quod] quae  E  23 eat om. ENR   prietate praedicationis agnoscitur, omne enim genus ad inter- rogationem ‘quid est unum quodque?’ responderi conuenit, ut animal in eo quod quid est de homine praedicatur, differentia uero minime, sed in eo quod quale sit; omnis enim differentia  in qualitate consistit, sed hoc proprium tale est quale supe- rius diximus, non per se, sed secundum alicuius differentiam dictum, alioquin commune est hoc generi cum specie, ut in eo quod quid sit praedicetur, sed quia hoc genus a differentia discrepat, quoniam differentia quidem in eo quod quale est,  genus uero in eo quod quid est praedicatur, generis proprium dicitur non per se, sed ad differentiae comparationem, et in omnibus reliquis eandem rationem conueniet speculari; quod- cumque enim ita generi proprium dicitur, ut nulli sit alii commune, sed tantum hoc habeat genus ut omne genus et  semper, id secundum se proprium nuncupatur, quicquid uero cum quolibet alio commune est, id non per se, sed ad alterius differentiam proprium dicitur. Alia rursus generis et diffe- rentiae separatio est, quod genus quidem speciei unum semper adest, scilicet proximum plura - enim possunt esse superiora,  uelut hominis animal atque substantia, sed proximum eiusdem hominis animal tantum —, differentiae uero plures uni speciei  5 superius] p. 297, 9.   1  post  agnoscitur  add . Omne enim genus ei proprietate cognoscitur praedicationis  P, in inf. mg. Lm2  generis  E  2 quid est] quidem  E  quidem quid est  HN  unum  om. E  respondere  CLR  4 sit] est  HN  7 hoc  ex  huic  Em2  8 ac G 9 est] sit  N  11 et  om. EG  12 conuenit  CHNP  13 generis  Pm2  alii sit  C  14 tamen  E  habeat—semper]  Cm2Hm1N  habeat genus et omne genus et (et  om .  Lm2R ) semper  Cm1Hm2Lm2R  habeat omne genus semper  EG  habeat genus omne semper  Lm1  genus hoc  (del. m2)  haheat omne genus (genus omne  m2 ) et  (s. l. m2)  semper  P  15 se  om. CN , illud  Cm2   (s. l.)  id  H post proprium  add . dicitur quod per se proprium  CHN  16 ad  om. C, in mg. Hm2  17  pr . differentia  C  18 est  om. HNR ,  s. l. E  uni  R  19 proximum  Cp. c . proprium  a. c . ad plura  in   mg.  genera  Lm2 , enim genera  P  20 ante animal  s. l . sed genus  Cm2  21  post  speciei  add.  semper adsunt  E   adesse poterunt, ut rationale atque mortale homini, itaque fit definitio ex uno quidem genere, sed pluribus differentiis, ut hominis animal rationale mortale. Rursus alia discretio est, quod genus quidem quasi subiecti locum tenet, differentia uero formae, ita ut illud sit materia quaedam quae figuram  suscipiat, haec uero sit forma quae superueniens speciei sub- stantiam rationemque perficiat. Idcirco uero pluribus diffe- rentiis a genere differentiam segregauit, quia haec maxime generis quandam similitudinem contineat, quia est uniuersalis et praeter genus inter ceteras maxima, sed cum alia plura  communia pluraque propria generis inter se ac differentiae ualeant inueniri, nunc, inquit, ista sufficiant, satis est enim ad discretionem quaslibet differentias assumere, etiamsi non quae dici possunt omnia colligantur.      Genus autem et species commune quidem ha- bent de pluribus, quemadmodum dictum est, prae- dicari. sumatur autem species ut species et non etiam ut genus, si fuerit idem et species et genus.  15—303, 3] Porph. p. 15, 9—13 (Boeth. p. 42, 15—20).   1 adesse—mortale  om. EGR  ut  om. HN  ut homini  C  Hominis itaque  C  hominis, itaque  P  2  ante  pluribus  add . de  Lm2  3  post  rationale  add.  atque  edd . est  om. HNR  4 quidem  om. C  5 ita ut om.  EGLm1  ut  m2  quaedam  om. EG, s. l. Lm2, ante  materia  P  quae  om. R, s. 1. Cm1?  quod  Em1  6 suscipiens  Lm1R  7 uero  om. EGLR  8 differentias  CEGHm1Pm1  9 continet  EGLPR  10 et  om. N  praeter] post  HPm1  maxima inter ceteras  H  in  N  cetera Lm1Pm2 edd . maximi  G  maximae  Pm1  12 nunc—sufficiant]  HLNR   (recte? an ex p. 297, 1?) ista inquit sufficiunt  GP  sufficiunt inquit ista  C  ista quidem sufficiunt  E  14 non  post  omnia  E (s. l.) p, ante brm  colliguntur  Hm1R  15 ET SPECIEI] SPECIEIQVE  C; de Porph. cf. ad p. 102, 7  17 de pluribus  om. G  18 sumatur—prae- dicantur  (p. 303, 2)] LR Q ,  om. cett . autem] autem et  L ΛΛΦ ;  Porph. p. 15, 11   11  et  om .  ΓΔ  sed  RΣ  19 ut  add .  \ m2 pr . et]  L cum Porph. p. 15,12, om. codd. cett. edd. Busse  genus et species  Ε Σ   commune autem his est et priora esse eorum de quibus praedicantur, et totum quiddam esse utrum que.    Generis et speciei enumerat tria communia, unum quidem,  de pluribus praedicari; genus enim et species de pluribus praedicantur, sed genus de speciebus, ut dictum est, species uero de indiuiduis. sed nunc de illa specie loquitur quae tantum species est. id est quae non etiam genus est, sed ultima species, quodsi talem speciem ponamus quae etiam  genus esse potest, ac de ea dicamus quoniam commune habet cum genere de pluribus praedicari, nihil interest an ita dica- mus, ipsum genus id secum habere commune de pluribus praedicari, talis enim species quae non est solum species, ea etiam genus est. Est autem commune his quoque quod utra-  que priora sunt his de quibus praedicantur, omne enim quod de aliquibus praedicatur, si recto, ut dictum est superius, ordine dicatur, prius est his de quibus praedicatur. Praeterea est illis hoc etiam commune, quod genus ac species totum sunt eorum quae intra suum ambitum continent et cohercent;  omnium enim specierum totum est genus et omnium indi- ui|duorum totum species, aeque enim genus et species aduna-  p. 99  tiua sunt plurimorum, quod uero multorum adunatiuum est, id eorum quae ad unitatis formam reducit, recte dicitur totum.    16 superius] p. 290, 15 ss.   1 est  om. L  priora] propria  La.c. Tk a.c A m1  2 esse] est  C  5  ante  genus  add. et H (er.) N  6  post  genus  add . quidem  L  8 est, sed] est ut est  H  ut est  N  12 secum]  H  (cum  in ras. m2 )  LR  secundo  CEGNPm2  (-da  m1 ) de pluribus—commune  (14)   post  praedicantur  (15) E 13 quod  E  14 his commune  HN  15 omne—-praedicatur  (16) in mg. Hm2  17 dicatur] praedicatur  CN  his] de his  G  18 etiam hoc  N  eorum sunt  C  20 genus est  NR  et] ut  Hm1  21  ante  species  add. est CNP, post E (in ras.) H  23 quod  E  re- ducuntur  Ca.c.N     Differt autem eo quod genus quidem continet spe- cies sub se, species uero continentur et non continent genera; in pluribus enim genus quam species est. genera enim praeiacere oportet et formata specificis  differentiis perficere species; unde et priora sunt naturaliter genera et simul interimentia, sed quae non simul interimantur. et species quidem cum sit, est et genus, genus uero cum sit, non omnino erit et species. et genera quidem uniuoce de speciebus praedi-  cantur, species uero de generibus minime, amplius genera quidem abundant earum quae sub ipsis sunt specierum continentia, species uero a generibus abun- dant propriis differentiis. amplius neque species fiet umquam generalissimum neque genus specialissimum.   Expeditis communibus generis ac speciei nunc de eorum discretione pertractat. differre enim dicit genus ab specie, quoniam genus continet species, ut animal hominem, species  1—15] Porph. p. 15, 14—24 (Boeth. p. 42, 21—43, 10). 1 PROPRIO  H  DIFFERENTIIS  C; de Porph. cf. ad p. 105, 16  2 Differunt  ENR edd.; Porph. p. 15, 15   διαφέρει   post  autem  add . genus  a  specie  Φ  continet quidem  N  3 sub se  er. uid .  5 ,  s. l. 2 m2, ante  species  (2)   ΓΦ ;  Porph. p. 15, 15   περιέχει τά είδη  species  s. l. Gm2  continetur  C A continetur a genere  Γ ;  Porph .  τα δέ είδη περιέχεται  et  om. EG  continet  C ΑΦ  4 in pluribus—differentiis  (14) ]  LR Q ,  om. cett . enim] quidem  S ;  Porph. p. 15, 16   ετι τά γένη  5  ante  oportet  s. l . et  5 m2  et  s. l .  5 m2 ,  hic om., sed ante  perficere  pos. LR h m1   (del. m2)   A ;  Porph. p. 15, 17 ν.α'ι διαμορφωθ-έντα  7 sed] si  R  9 est]  Porph. p. 15, 19   πάντως εστι;   exciditne  omnino ?   pr . et  om .  LR I ,  s. l .  A m2 ;  Porph. p. 15, 19   εστι και γένος   post . et]  A   (del. m2)   Φ   cum Porph. p. 15, 20, om. cett. edd. Busse  10 uniuoce quidem  AAS ;  Porph.   τά μέν γένη  de speciebus]  Porph. p. 15, 21   των δφ’ έοοτά ειδών  12 quidem genera  L s m2 i\Y .  Busse; Porph.   τά μέν γένη  sunt  (s. l. L)  sub ipsis  LR; Porph. p. 15, 22   των όπ’ αΰτά ειδών  13 a  om .  ΓΦ  ab  A m1 ,  del. m2  14 fiet  post  umquam  C  fit  HN  15 neque genus specialissimum  om. H   post  genus  add . fiet  CEGR  fiet umquam  ΑΑΣ  fiet species  L; Porph. 15, 24   ούτε τδ γένος ειδικάιτατον  16 ac] et  CE  17 differt  GR  a  HLNR  18  pr . speciem  HN   uero non continet genera; neque enim homo de animali prae- dicatur. itaque fit ut species quidem contineantur a generibus, numquam uero contineant genera, omne enim quod amplius praedicatur, illius est continens quod minus dicitur, quodsi  genus amplius praedicatur quam species, necesse est ut spe- cies quidem contineatur a genere, genus uero speciei nullo ambitu praedicationis includatur, huius autem ratio est quo- niam genus semper suscipiens differentiam speciem facit, hoc est, genus quod habebat latissimam praedicationem, coartatum  differentia et contractum speciem facit; omnino enim generi iuncta differentia speciem reddit et ex uniuersalitate atque latissima praedicatione in angustum speciei terminum con- trahit. animal enim, cuius praedicatio per se longe lateque diffusa est, si arripiat rationalis differentiam, si etiam mortalis,  deminuit atque contrahit in unum hominis speciem, unde fit ut minor sit semper species quam genus atque ideo conti- neatur, sed non contineat, sublatoque genere auferatur et spe- cies; si enim totum auferas, pars non erit, quodsi species auferatur, genus manet, ueluti cum animal sustuleris, interi-  mitur etiam homo, si hominem auferas, animal restat, haec etiam causa est, ut genus de specie uniuoce praedicetur, id est ut species suscipiat definitionem generis et nomen, sed  1 continent  HN enim  om. C  6 contineantur  NR  speciei  om. R  specie  Cm1  in specie  Lp.c . species  N  post nullo  add . modo  EGHPR, s. l. Lm2  7 includitur  EGLm1P  includat  N   post  autem  s. l.  rei  Cm2  8 semper  om. HN  species  N  hoc—facit  (10) om. EG  9 est  s. l. C, om. HN, del. Pm2  habet  Lm2Pm2  coartatum  ex  coapta- tum  Lm2, in mg . ał coaptata ipsa diffinitio et contracta speciem facit  m1  coaptata  Hm2P  apta  Cm1  (aptata  m2 )  Hm1N  10 et]  LR, s. l. Pm2 , om. CHN (de EG cf. ad S) contracta Lm2 omni Hm2Lm2 11 et om. G, s. l. ELm2 atque] et EHNPR 12 post praedicatione add. generis CNP, s. l. Lm2 speciem EG contrahitur Hm2 14 differen- tia  C ( ras. ex  -ã)  R  etsi etiam E et s. l., del. si etiam Lm2, et  R  15 diminuit  EHLPR ; diminuitur atque contrahitur  N  unam  C  (am  in ras. m2 )  Hm2NR  16 continentur sed non continent  N  17 et  om. EGR  19 remanet  C  cum] si  P  21 est causa  C  22 generis et nomen] et generis nomen  E et nomen generis  N  generis nomen  R   non e conuerso. definitionem quippe speciei genus suscipere non uidetur; substantiam enim priorum inferiora suscipiunt, si enim definias animal et dicas substantiam esse animatam atque sensibilem aut si praedices de homine ‘animal’, uerum dixeris, si etiam animalis definitionem de homine praedicaueris  dicasque hominem esse substantiam animatam atque sensi- bilem, nihil fuerit in propositione falsi, sed si hominis defini- tionem reddas ‘animal rationale mortale’, ea animali non con- ueniunt; neque enim quod animal est, id dici poterit animal rationale mortale, fit igitur, ut sicut species generis nomen  suscipit, ita etiam capiat definitionem, et sicut genus nomen speciei non suscipit, ita nec eiusdem definitione monstretur, sed cuius nomen et definitio de aliquo praedicatur, id uniuoce dicitur, cum igitur generis et nomen et definitio de specie praedicetur, genus de specie uniuoce dicitur, quoniam uero  speciei de genere. neque nomen neque definitio praedicatur, non conuertitur uniuoca praedicatio. Differunt genera <ab> speciebus hoc quoque modo, quod genera superuadunt species suas aliarum continentia specierum, species uero genera dif- ferentiarum pluralitate, animal enim, quod est genus, superuadit  hominem, quod est species, quia non hominem solum continet, uerum etiam bouem, equum aliasque species, quas suae spatio praedicationis includit, species uero, ut homo, superuadit genus, ut animal, multitudine differentiarum, nam quod actu genus  1 e conuerso] est  (om. R)  conuersio  EGLPR 2 non  er. H  sub- stantiae  EGLm2  (-tia  m1 )  PR  enim priorum] enim proprium  EGP diffinitionem ( om . en.  pr .)  R  3 et  om. CHNP  4 aut]  brm  at  CHLNP, om. EGR  5 definitione  E 7 nil  C  fuerat  Cm1  fueris  HN  falsi] mentitus  HN  sed] quod  CHN  hominis definitionem  om. EGR  hominis rationem  L  8 addas  EGR, post  si ( om . reddas,)  add. P , reddas addas  L pr . animali  Ea.c.LR  animal est G conuenit  CNPa.c.  9  ante  quod add.  id HNPR, s. l. Lm2  id dici] EGLa.r.P dici  Lp.r.R  idcirco dici  HN  id circo id dici  C  11 et  om. EG  12 defini- tionem ( uel diff-) monstret  EGR  14  pr . et  om. CEG, s. l. Lm2  15 praedicatur  E  uniuoce de specie  C  17 a  add. brm , ab  Brandt  18 modo  om. NR  19 continentia aliarum  C  21 quod] quae  N  non  s. l Cm2 22 equum bouem  HN  24 namque quod  Lp.c .   non habet rationale uel mortale — nullas quippe actu genus retinet | differentias —, easdem species suae substantiae inhae-  p .100  rentes atque insitas tenet, homo enim rationalis est atque mortalis, quod genus minime est; animal enim neque mortale  est per se neque rationale, quodsi genus quidem plus unam continet speciem, at uero species multis differentiis infor mantur, superat quidem genus speciem continentia specierum species uero uincit genus differentiarum pluralitate. Illa quoque est differentia, quod genus quoniam omnium primum  est, numquam in tantum descendere poterit, ut fiat ultimum, species uero, quae cunctis est inferior, in tantum ascendere non poterit, ut suprema omnium fiat; numquam igitur nec species generalissimum fiet nec genus specialissimum. Sed ex his quae dictae sunt differentiae aliae sunt quae genus ab  specie propriae coniunctaeque disterminant, aliae uero quae non solum genus ab specie, uerum etiam a ceteris diducunt ac disterminant, neque in his tantum differentiae quae sunt dictae, uerum etiam in ceteris considerentur oportet, si proprie normam quaerimus discretionis agnoscere.    1 uel  om. R  4 mortale] rationale  CHN  5 rationale]  R  inratio- nale  CHN  per se rationale  EGLP  unam continet speciem]  EG  (unam  s. l. m2 )  Lm1  quam unam continet speciem  Lm2R  una continet (continet una  C ) specie  CHNP  6 species uero ( om . at)  C  informa- tur  Lm1Pm1  7 species  G  9 quoniam] quod  Hm2  11 in tantum ascendere non] numquam in tantum ascendere  LNR  12 nec... nec] et... et  Hm1N  et... nec  C, pr . nec  om. P  14 ex his  om. EG, s. l. Lm2  sunt  om. E differentiarum  CN  differentiis  R  genus  s. l. Cm2  a  R  15 proprie coniuncteque ( ras. ex  -teque  Η )  HΝR (recte?)  propriaeque  G  coniunctaeque  om. EG  16 ab] a  R  diducunt]  Em2R  deducunt cett. distinguunt ac deducunt ( om . disterminant]  HN  17 neque (et quae non  CHN, s. l . ał quae  L ) in his tantum differentiis quae sunt dictae ( L  quae sunt dicta  G  quae dictae sunt  CHNP quid sint  in ras. E ) uerum etiam in ceteris (add. quoque  HLm1N, del. Lm2 ) considerentur oportet  CEGHLNP  neque in his tantum oportet considerare differentias quae sunt dicta uerum etiam in ceteris oportet  R ; differentiae  scr. Brandt ; neque enim in (de  bm ) his tantum oportet (oportet  om. p ) differentiis quae sunt dictae, uerum etiam in ceteris considerare (considerari oportet  p )  edd.  18 propriae  CEGLP  19 discretionis quaerimus  HR     Generis autem et proprii commune quidem est sequi species - nam si homo est, animal est, et si homo est, risibile est et - aequaliter praedicari genus de specie- bus et proprium de his quae illo participant; aequaliter  enim et homo et bos animal et Cato et Cicero risibile, commune autem et uniuoce praedicari genus de pro- priis speciebus et proprium quorum est proprium.    Tria interim generis ac proprii dicit esse communia, quorum primum illud est, - quoniam ita genus sequitur species ut  proprium, posita enim specie necesse est intellegi genus ac proprium; neutrum enim species proprias derelinquit, nam si homo est, animal est, si homo est, risibile est; ita quemad- modum genus, sic proprium ab ea specie cuius est proprium, non recedit. Illud quoque, quod aequalis est generis partici-  patio, sicut etiam proprii, omne enim genus aequaliter specie- bus participatur, proprium uero indiuiduis omnibus aequaliter adhaerescit, manifestum uero est participationem e?se generis aequalem; neque enim plus homo animal est quam equos  1—8] Porph. p. 16, 1-7 (Boeth. p. 43, 11—17).   1 COMMVNITATIBVS  Ψ ;  de Porph. cf. ad p. 102, 7  2 Genus  Em1Gm1 consequi  Pm1  3 nam—risibile  (6) ]  LR Q ,  om. cett. pr . est  s. l.   h m2  5 illo] sub illo  R participant] continentur  R ,  add.  indiuiduis  edd. cum plerisque codd. Porph. p. 16, 4  6  post animal add. est  ΓΦ ,  om. Porph. p. 16, 5  et Cato et Cicero]  Porph .  xat Άνοτος και Μέληχος post  risibile add. est  Φ  7 autem et] autem  CEGP  autem est (est  s. l .  h m2 ) et  (om. R)   R h  autem his  Ψ  autem hiis et  Φ  his  (s. l. m2)  autem et  Γ ;  Porph. p. 16, 6   δέ καί  speciebus propriis  R  8  post pr . proprium  add . de his  Ν Σ ,  s. l.  de propriis  Gm2  10 illud est primum  R  11  post proprium add. quoque  CH   (del. m2)   N  ac] et  C  13 si] et si  HN  risibilis  EGHNP  15  post quoque add. est commune  R, s. l. Lm2 ,  s. l . scil, commune est  Hm2  a genere (generis  Hm2 ) participatio est  HN  16 proprii] a proprio  Hm1N   ante  speciebus  add . a  H  ab  L (del. m2) NB, post add . suis  R  17 parti- cipat **  (ur  er .)  E  18 adheret  N  participatione  EGR  generi  E  ( ex genere  m2 )  R  19 aequale  EG  aequale proprium  R, post  aequa- lem  add. s. l . et proprii  Lm2, in mg . et proprium  Pm2   atque bos, sed in eo quod sunt animalia, aequaliter animalis, id est generis ad se uocabulum trahunt. Cato etiam et Cicero aequaliter risibiles sunt, etiamsi aequaliter non rideant; in eo enim quod apti ad ridendum sunt, dici risibiles possunt, non  quod iam rideant, aequaliter ergo ea quae sub genere sunt, suscipiunt genus, sicut ea quae sub propriis, propria. Tertium illud, quod sicut genus de speciebus propriis uniuoce praedi- catur, ita etiam proprium de sua specie uniuoce dicitur, genus enim quoniam substantiam speciei continet, non modo eius  nomen de specie, uerum etiam definitio praedicatur, pro- prium uero quia speciem non relinquit eamque semper sequitur nec in aliam speciem transgreditur nec infra subsistit, defi- nitionem quoque propriam speciebus tradit; cuius enim nomen uni tantum conuenit speciei cui coaequatur, dubitari non  potest quin eius quoque definitio speciei conueniat. quo fit ut sicut genus de speciebus, ita proprium de sua specie uniuoce praedicetur.    Differt autem, quoniam genus quidem prius est, posterius uero proprium; oportet enim esse animal,  dehinc diuidi differentiis et propriis, et genus qui-  18—p. 310, 13] Porph. p. 16, 8—18 (Boeth. p. 43, 18—44, 11).   1 eo] eodem  HLm2NR  2 ad se  om. EGR, s. l. Lm2  etiam  om. H  et  om. R  3  pr . aequaliter  om. C  6 suscipiant  Em1Lm1  genera  EGLPm2  gen.  ante  suscipiunt  HNP  7 illud] illud commune est  G quid  Cm1  9 enim  om. E  nomen eius  C  11 quia  om. EGLP  derelinquit  Lm2P  eamque] eique  HN  ei quae  R  ea quae  Pm1  ae- quatur  Pm2  12 definitio (diff-)  ELm2  (diffinitione  m1 )  Pm1 definitio enim  R  13 proprium  Ea.r.R  proprii  Ep.r.L  ( ras. ex  propriis,)  P  traditur  EGLm2Pm1 14 cui] uel ei  C  eique  HNPm2  (cuique  m1 ), et  (del. m2)  cui  L  aequatur  L  18 De proprietatibus  Δ ;  de Porph. cf. ad p. 105, 16  GENERIS ET PROPRII] EORVM P PROPRII] SPECIEI  L  19 Differunt  C edd . autem om. N autem genus et proprium  LR Δ2 ;  Porph. p. 16, 9 Διαφέρει δέ δτι τό μίν γένος  quidem om.  HNR  est  om. H  20 oportet—interimunt genera  (p. 310, 10) ]  LR Q ,  om. cett . 21  pr . et  om. L   dem de pluribus speciebus praedicatur, proprium uero de una sola specie cuius est proprium, et proprium qui- dem conuersim praedicatur de eo cuius est proprium, genus uero de nullo conuersim praedicatur, nam neque si animal est, homo est, neque si animal est, risi-  bile est; sin uero homo est, risibile est, et e conuerso amplius proprium omni speciei inest cuius est pro- prium, et soli et semper, genus uero omni quidem speciei cuius fuerit genus, et semper, non autem soli, amplius species quidem interemptae non simul inter-  p.101  imunt|genera, propria uero interempta simul in- terimunt ea quorum sunt propria, et bis quorum sunt propria interemptis et ipsa simul interimuntur.  Rursus tale proprium sumit, quod ad alterius comparationem proprium nuncupetur, dicit enim proprium esse generis prius  esse quam propria, oportet enim prius esse genus, quod ueluti materia differentiis supponatur, uenientibusque differentiis fieri speciem, cum quibus propria nascuntur, si igitur prius est  1 praedicatur]  R A m2 n   edd . praedicari  cett. codd. Busse  (propriis, et genus  distinguit, sed cf. 16  oportet  et p. 311, 9  Rursus differt);  Porph- p. 16, 11 κατηγορεΐται  2 una sola]  Porph.   ενός ,  cod. C add .  μόνοο  est  om.   Φ  6 si  R  homo est] homo et  ΔΑΠΨ  (et  er .), homo, et  Busse  homo est (est  s. l. m2 ) et  L; Porph. p. 16, 13  et  δέ άνθρωπος  et e conuerso] et conuerso  L h m1  et conuersim si risibile est homo est  R  si risibile est homo est  2 ;  Porph. p. 16, 14   καί εμπαλιν , add. ei  γελαστικόν, άνθρωπος   cod. C  8 et soli]  TA m2  et uni  Δ m1 ΑΣ  et uni et soli  LR ΠΦΨ ;  Porph. p. 16, 15   καί μόνψ  speciei quidem  2  9  post  speciei  add . inest  LR TA  ( s. l .)  ΠΦΦ-   (in mg. m2) edd. Busse, om .  Δ2   cum Porph . soli]  Porph. p. 16,16   και μόνω  10 species  s. l. L  propria  brm cum Porph . interempta  Φ  interimuntur  HL  11  post  genera  add.  quorum sunt species  A  propria] genera  brm Busse (in adn.) cum Porph. p. 16, 17 interimuntur  HΡ  12 ea  om .  Η ΤΦ  species  brm cum Porph . quarum  brm  et his— interemptis  om. EG  et] quare  edd., Porph. p. 16, 18   ώστε καί  13 in- teremptis  ante  et his  CP  et ipsa] et ipsa etiam propria  Φ  ipsa propria  2  interimuntur simul  CGLR ad 10—13 cf. p. 312, 13 ss . 14 Rursus  om. EG, s. l. Pm2 , sed  R  ad  om. H, s. l. Pm2  comparatione  HPm1  15 nuncupatur  Cm2Em2Ga.c.N  16  pr . esse  om. N, s. l. Pm2  uelut  N  18 species  Lm2  nascantur  N   genus quam differentiae, prius etiam differentiae quam species et speciebus propria coaequantur, non est dubium quin pro- pria generibus posteriora sint, ac per hoc quod dictum est, proprium esse generis prius esse quam propria, commune est hoc  generi cum differentia, differentiae enim species conformantes priores considerantur esse quam propria, siquidem speciebus ipsis priores sunt, quas propria ratione determinant, sed ut dictum est, hoc proprium ad differentiam proprii intellegendum est, non quale superius per se proprium constitutum est. Rursus  differt genus a proprio, quod genus quidem de pluribus praedicatur speciebus, proprium uero minime; nam neque genus est, nisi plures ex se species proferat, nec proprium, si alteri cuilibet speciei possit esse commune, fit igitur ut genus quidem plurimas sub se species habeat, ut animal  hominem atque equum, proprium uero unam tantum, sicut risibile hominem. Quo fit ut illa quoque differentia nascatur : genus enim praedicatur quidem de speciebus, ipsum uero in nulla praedicatione supponitur, proprium uero et species alterna praedicatione mutantur, fit enim praedicatio aut a maioribus  ad minora aut ab aequalibus ad aequalia, genus igitur, quod maius est, de speciebus omnibus praedicatur, species uero, quoniam minores sunt, de generibus non dicuntur, ut animal de homine dicitur, homo uero de animali nullo modo praedi- catur. at uero proprium, quoniam speciei aequale est, aeque  1 etiam] enim  Lm2  2et  om. EG  et si  H  4 est hoc]  HL  (hoc  del. m2 )  N  est et hoc  C  esse  Pm1  et hoc est  m2  est  EGR  5 diffe- rentia] differentiis  CHN  differentiae  om. EG  enim  s. l. Cm2, post species  EG  informantes prius  N  6 considerentur  Hm1R  esse  s. l .  Cm2  7 quam  G  8 hoc  om. EGR  10 a  om. NR  quod] quo- niam  L  de] a  C  12 proferet  Lm2  14 species sub se  C  16 quoque del. Em2, post add . proprietas  (s. l. Lm2)  ex  GL, s. l. Pm2  nascan- tur  Ep.c . 17 de speeiebus quidem  C  ipsis  CN  in  om. CN  19 mutuantur  La.c.Pm2  praedicatio  om. EGR, s. l. Lm2  20 quod] quoniam  E (in ros.) Gm2  21 est  s. l. Em2  praedicabitur  N  22 minora  CEGLm2P   praedicatur atque supponitur, ut risibile de homine dicitur - omnis enim homo risibilis est —, eodemque conuertitur modo; omne enim risibile homo est. Differt etiam proprium a genere, quod proprium uni et omni et semper speciei adest, genus uero ex his duo quidem retinet, in uno uero diuersum  est. nam speciebus suis et semper adest et omnibus, non uero solis; hoc enim haeret propriis, quod singulas tantum species continent, hoc generibus, quod plures. igitur propria quidem singulas optinent species, genera uero non singulas, adest igitur proprium uni soli speciei et semper et omni, genus uero omni  quidem et semper, sed non soli, ut risibile homini soli, ani- mal uero eidem homini, - sed non soli; praeest enim ceteris, quae inrationabilia nuncupamus. Praeterea si auferatur genus, species interimuntur nam si non sit animal, non erit homo —, si auferas species, non interimitur genus; nam si non  sit homo, animal non peribit, species uero et propria quoniam sunt aequalia, alterna sese uice consumunt; nam si non sit risibile, homo non erit, si homo non sit, risibile non manebit, consumunt igitur genera sub se positas species, non uero ab his inuicem consumuntur, species uero et proprium inuicem  perimuntur et perimunt.    1 supponitur] (sub-  HP )  CHm2Lp.c.P praeponitur  cett., recte?  2 enim  om. C locus  risibilis est—quidem speciebus  (p. 315, 7) bis in E scriptus, pag. 229—231 (E I ), ubi deletus est, et p. 232—234 (E II )  3 etiam  om. R, del. Lm1 , enim  m2  autem etiam  H  a genere pro- prium  C  a  om. R  4 speciei  s. l. Hm2  5 uero] quidem  E I qui- dem duo  CNB ,  om . quidem  E I  7 haeret propriis]  E III   GL  haeret (ł inerit  m2 ) tantum propriis  P  erat (erit  R ) tantum propriis (proprii  N ) esse  CNR  heret propriis uel aliter hoc enim erat tantum  H; ad  haeret  cf. p. 298, 4  tantum species—quidem singulas  om. E I  tan- tum  del. Lm2, s. l. Pm2 ,  post  species  NR  8 continerent  CHm2  con- tineret  N  contineant  Pm2  10 soli/////  E I  solius  E II G  11 sed] et  HN  soli homini  NP  13 inrationalia  H  auferamus  EGLPR  14 interi- mantur  L  erit] est  N  19 sub se positas] sibi  (om. H)  suppositas  HN  21 perimuntur] consumuntur  Lm2  perimunt] perimuntur  Lm2  pereunt  HNPm2     Generis uero et accidentis commune est de pluri- bus, quemadmodum dictum est, praedicari, siue separa- bilium sit siue inseparabilium; etenim moueri de  pluribus et nigrum de coruis et de hominibus Aethio- pibus et aliquibus inanimatis.  Nihil est quod inter cetera ita sit a generis ratione dis- iunctum, sicut est accidens, nam cum genus cuiuslibet sub- stantiam monstret, accidens uero a substantia longe disiunctum  sit et extrinsecus ueniens, nihil fere notius commune potest habere cum genere quam de pluribus praedicari, genus enim de pluribus praedicatur speciebus, accidens uero de pluribus non modo speciebus, uerum etiam generibus animatis atque inanimatis, ut nigrum dicitur de rationabili homine, de inra-  tionabili coruo et de inanijmato hebeno, album etiam de cygnoj  p. 102  et marmore, moneri de homine, de equo et de stellis ac de sagitta, quae sunt separabilis accidentis exempla.    1—6] Porph. p. 16, 19—17, 2 (Boeth. p. 44, 12—16).   1 GENERIBVS ACCIDENTIBVS  E I   E II   m1  ACCIDENTI  R de Porph. cf. ad p. 102, 7  2 Commune uero est generis et accidentis  2  Generi  N  Generibus  E I  accidentibus  E I   m1  3 praedicari  ante quemadmodum L siue—pluribus et]  LR Q ,  om. cett . separabile  2 m1  4 sit] sit accidens  2 inseparabile  2 m1  5  post  et  om. R  de  om .  E II HNR ΑΦ ,  recte?  homine  E III  omnibus  L A  ( ras. ex hominibus) hominibus  om. brm, delend. uid. Bussio; cf. p. 116, 5. 123, 22. 131, 2  homine Aethiope; Porph. p. 17, 1 κατά κοράκων καί Αίθ·ιοπων aethiopus EIII et (et de  G, del. m2 ) aethiopibus  GPm2 T2  6 ante aliquibus add. de  Gm2  in animis  E I ,  ante  inanimatis  add . naturis  H (del. m2), post CN , praedicari  Γ  ( in mg . praedicatur)  Φ ;  Porph.   καί tivmv άψΰχων  7 in ceteris  E III   GLm1P  9 a  om. R  10 uere  GR  uero ha- bere potest  C  11 enim] uero  C  14 rationabile  E III   a. c. Gm1  rationali  HNP post  homine  add . et  N  irrationali  HNP  15 ebeno  E III 16 marmore] de marmore  P   post  homine  add . et  N  17 sagitta]  CHLm1NPm1  (sagittis  m2 ) agitatis  E III   GR edd . ał de agitatis scil, rebus id est mobilibus  Lm2     Differt autem genus ab accidenti, quoniam genus ante species est, accidentia uero speciebus posteriora sunt; nam si etiam inseparabile sumatur accidens, sed tamen prius est illud cui accidit quam accidens, et  genere quidem quae participant, aequaliter partici- pant, accidenti uero non aequaliter; intentionem enim et remissionem suscipit accidentium participatio, generum uero minime, et accidentia quidem in indi- uiduis principaliter subsistunt, genera uero et species  naturaliter priora sunt indiuiduis substantiis, et genera quidem in eo quod quid sit praedicantur de bis quae sub ipsis sunt, accidentia uero in eo quod quale aliquid sit uel quomodo se habeat unum quod- que; qualis est enim Aethiops interrogatus dices  ‘niger’, et quemadmodum se Socrates habeat, dices quoniam sedet uel ambulat.    1—17] Porph. p. 17, 3-13 (Boeth. p. 44, 17—45, 9).   1 PROPRIIS] DIFFERENTIA  C; de Porph. cf. ad p. 105, 16  QVID INTER GENVS ET ACCIDENS SIT  Φ   (ex p. 116, 10)  2 genus  s. l. Hm2  ab  om .  HRE III   Δ  accidenti]  Δ  accidente  cett . 3 speciem  ΧΦ  posteriora  ante speciebus  C  inferiora  XA m1 AS  4 nam—unum quodque  (14) ]  LR Q ,  om. cett . si etiam] etsi etiam  ΓΦ  sed  om .  Γ  si  Σ  5 prius] plus  S  6 genere]  A m2   Busse  genera  cett. codd. edd . quae] quibus  A m1  aeque  Δ  7 accidenti]  p Busse  accidentia  codd. brm; ad 5  et— 7 cf. Porph. p. 17, 6 s. et infra p. 315, 12—14  enim  om. L in mg: figuram quandam habet   Δ ,  aliam (cf. ad p. 320,17)   Γ  9 uero  om. R  in  om .  Γ   Busse, s. l .  Rm2 A m2 K ;  cf. p. 315, 21; Porph. p. 17, 9   έπΐ τών άτομων  10 nero  om .  Δ  11  post  naturaliter  add.  non principaliter  LR AΑΦ ;  om. Porph. p. 17, 9  12 sit] est  LR A   ante  de  add.  et,  sed del.   ΓΔ  13 hiis  Φ  14  ante  quale  add.  et  R  sit]  cod. Q Bussii edd . est  cett. codd . quomodo  om. R  quodammodo  A m2  se  s. l.   A m2  habet  A m1  15 eat  ante  aethiops  ΔΑ , post  HΝ ΤΣΦ  enim  om. L  interrogatur  Φ  dices]  LRT  dicis  cett. codd. edd. Busse, cf. p. 317, 15  respondebimus;  Porph. p. 17, 12   έρεΐς  16 quo- modo  Δ  habeat  ante socrates  A  habet  ΗR Φ  dices]  K m2  dicis  cett. codd. edd. Busse, cf. p. 317, 16  dicemus;  Porph .  έρείς  17 ambulet  La.c.N   Differentiam generis et accidentis hanc primam proponit, quod genus quidem ante species sit, quippe quod materiae loco est et differentiis informatum species gignit, at uero accidens post species inuenitur. oportet enim prius esse cui  aliquid accidat, post uero ipsum accidens superuenire; nam si subiectum non sit quod suscipiat, accidens esse non poterit, quodsi genus quidem speciebus subiectum est nec possunt esse species, nisi eis genus ueluti materia supponatur, acci- dentia uero esse non possunt, nisi eis species supponantur.  manifestum est genus quidem esse ante species, accidentia uero post species. Rursus alia differentia, quoniam genus neque intentionem neque remissionem suscipere potest, quo fit ut quae participant genere, aequaliter eius nomen defini- tionemque suscipiant; omnes enim homines aequaliter animalia  sunt eodemque modo equi, nec non inter se homo atque equus et cetera animalia comparata aeque animalia praedicantur, accidentis uero participatio et intenditur et remittitur, inuenies enim quemlibet paulo diutius ambulantem, paulo amplius nigrum et in ipsis Aethiopibus considerabis omnes non aeque  nigro colore obductos. Alia quoque differentia est, quoniam omne accidens in indiuiduis principaliter subsistit, genera uero et species indiuiduis priora sunt; nisi enim singuli corui  1 et accidentis] ab accidentibus  HN  ponit  C  2  pr.  quod] quid  C  quoniam  (del. m2)  quod  E II  4  post  esse  add . aliquid  P, s. l. Lm2  5 si—sit] nisi sit subiectum  HN  nisi subiectum sit  R  6 quid  Cm1  potest  H  7 speciei  HN est] sit  N  nec] non  CEGLP  8 uelut  CEGLP  uel  R  supponitur  C  9 supponatur ( uel  subp-)  EGH 10  ante  manifestum  add . nam  EGLP  11  post  Rursus  add . uero  C post  alia  add . est  CGP  13 generi  CEGP  15 eodem  EHLR  18 paulo amplius nigrum paulo diutius ambulantem  HN post ambulantem  add . et  LR  19 et] et si (si  s. l, Lm2 )  LR  si  EGP  omnis  GLm2R  aequa nigredine coloris (coloris  del. Lm2 )  HLNP  20 obductus  EGLm1R ,  post  obd.  add . esse  C  est  EGLR  est  om. HN  21 in  om. CG  genera—priora sunt]  C  species uero et genera indiuiduis priora sunt HLm1N  genera uero speciebus et indiuiduis priora sunt  GP  genera nero et speciebus et indiuiduis posteriora sunt  Lm2  genera indiuiduis priora sunt  E  et indiuiduis posteriora sunt  R 22 singulariter  EGPR   nigredine infecti essent, comi species nigra esse minime dicere- tur. ita fit ut accidentia post indiuidua esse uideantur. nam si prius est id cui aliquid accidit quam illud quod accidit, nop est dubium prius esse indiuidua, posterius uero accidens, genera uero et species supra indiuidua considerantur; hoc  idcirco, quoniam de his omnibus praedicantur eorumque sub- stantiam propria praedicatione constituunt, sed dici potest genera quoque ipsa et species posteriora indiuiduis inueniri; nam nisi sint singuli homines singulique equi, hominis atque equi species esse non possunt, et nisi singulae species sint,  eorum genus animal esse non poterit, sed meminisse debemus superius dictum esse genus non ex his sumere substantiam de quibus praedicatur, sed de eo potius, quod differentiis con- stitutiuis eorum substantia formaque perficitur, itaque si genus quidem diuisiuis differentiis interemptis non perimitur, sed  manet in his quae eius constitutiuae sunt eiusque formam definitionemque perficiunt, cumque differentiae diuisiuae generis speciebus sint priores — ipsae enim species conformant atque constituunt —, non est dubium quin genus etiam pereuntibus speciebus possit in propria manere substantia, idem de spe-  ciebus dictum sit; species enim superioribus differentiis, non posterioribus indiuiduis informantur, quae cum ita sint, species quoque ante indiuidua subsistunt, accidentia uero nisi sint  12 superius] p. 300, 7—16.   1 essent  in ras. Lm2 , sunt  N  sint  R  2 esse  om. EGR  4 indiui- duum  CHN  5 super  CN  8 genera] de genere  R  quoque  om. R  quaeque  EGP  ipsa  om. EGPR  et species] atque species (specie  R )  LR  specieaque  N  9 nam nisi] nisi enim  EGR  nara nisi enim (enim  del. m2 )  C  homines—nisi singulae  (10) in mg. Em2  homi- nes  EN  10 et  om. EG  singulis  E  singuli  G  singulares  Lm2R  11 eorumque  Lm2 earum  brm  12 ex  del .,  his om. E  13 de eo] eo  Hm1N  ex eis  Hm2  de eis  Lm2  quod  del. Hm2, er. L , quo  GPR  14 eorum  om. Lm1  eius  R edd . quae eius  Hm2  de quibus eius  Lm2 substantiam formamque perficiunt  Hm2  normaque  N  15 diuisiuae ( post  differentiae  N ) differentiae interemptae non perimunt  HLN  16 eius- que] quae eius  C  quaeque eius  EGP  17 speciebus generis  LNR  20 permanere  Lm2R  23 quaeque  EG   quibus accidant, esse non possunt, nullis uero prius accidunt quam indiuiduis; haec enim generationi et corru|ptioni sup- p, 103·  posita uariis semper accidentibus permutantur. Illam quoque adnumerat differentiam quae est superius dicta, quod genus  quidem, quia rem demonstrat et de substantia praedicatur, in eo quod quid est dicitur, accidens uero in eo quod quale est aut in eo quod quomodo sese habet res. nam si qualitatem interroges, accidens respondebitur, ut si qualis est coruus, ‘niger’, si quomodo sese habeat, aliud rursus accidens, aut  ‘sedet’ aut ‘uolat’ aut ‘crocitat’. nam cum accidens in nouem praedicamenta diuidatur, qualitatem, quantitatem, ad aliquid, ubi, quando, situm, habitum, facere, pati, cetera quidem omnia in ‘quomodo se habeat’ interrogatione ponuntur, qualitas uero in qualitatis sciscitatione responderi solet. nam si interrogemur  qualis est Aethiops, respondebimus accidens, id est ‘niger’, si quomodo se habeat Socrates, tunc dicemus aut ‘sedet’ aut ‘ambulat’ aut superiorum aliquid accidentium.  Genus uero quo ab aliis quattuor differat, dictum  4 superius] p. 189, 4 ss. 195, 1 ss. 18—p. 319, 14] Porph. p. 17, 14—18, 9 (Boeth. p. 45, 10—46, 9).   1  pr.  accidunt  Lm1  accident  N prius  post  accidunt  C  2 post indi- uiduis  add.  quia indiuidna prima sunt quantum ad praedicationem  P, in mg. Lm2  4 adnumera  ( ann-  G) EG  annumerant  Hm1  dicta est superius  R est sepius  (corr. m2)  dicta  C  sepius  (corr. Hm2)  dicta est  HN  5 quidem  om. EGR  6 dicitur  om. N, s. l. Hm2 post  uero  add.  aut P 7se  H post  habet  add.  res  CLm1, del. m2  9se  EGHN  habet  Clm1  aliud rursus accidens] aliud uero accidens rursus  C  aut uolat aut sedet  HLN  10 croccit  Hm1  groccitat  N, post add . egrotat  P  nam] at  EGLm1  ac  (ut uid.) R  12 quanto  Em1  quan- tum  G  situm habitum quando  C post  omnia  add.  id est VIIII  Hm1, del. m2  13 habeant  Ep.c. Lm2P interrogationem  EGR  14 inter- rogemur]  C edd. (cf.p. 314, 15)  interrogemus  cett., recte? cf.p. 58, ss. 99, 23  15 respondemus  HNR  16 dicimus  EHLRbrm  17 aliquod  ELa.c.N  18 uero] uerus  Pa.c.  ergo  CHL (in ras. m2)   R Φ  enim  A ;  Porph. p. 17, 14   uiv ουν  quod  EGPm1Rm1 T<l>  ab]  ΔΣΨ ,  s. l.   Il m2, om. cett.  quattuor  om. G, s. l.   Δ m2   est. contingit autem etiam unum quodque aliorum differre ab aliis quattuor, ut cum quinque quidem sint, unum quodque autem ab aliis quattuor differat, quater quinque, uiginti fiant omnes differentiae, sed semper posterioribus enumeratis et secundis quidem  una differentia superatis, prop(??)terea quia iam sumpta est, tertiis uero duabus, quartis uero tribus, quintis uero quattuor, decem omnes fiunt, quattuor, tres, duae, una. genus enim differt a differentia et specie et pro- prio et accidenti; quattuor igitur sunt omnes diffe-  rentiae. differentia uero quo differat a genere dictum est, quando quo differret genus ab ea dicebatur; relinquitur igitur quo differat ab specie et proprio et accidenti dicere, et fiunt tres. rursus species quo  1 contingit—ad accidens  (p. 319,12) ]  LR Q , om. cett. contigit  R A m1 Y m1  2 aliis  om. Porph. p. 17, 15  quidem  om. L K   Busse; Porph.   μεν  3  post  sint  add.  res  L  unum quodque autem]  il m2 xP p  Busse  unum autem  Β ΤΜΙ m1 Σ  una autem  L ΑΦ  et unumquodque  brm; Porph. p. 17, 16   ίνος ϊέ εκάοτοο  aliis  om. Porph.  differt  Δ  4 uiginti  del.   A ,  pos t XX  add.  uel quinquies quattuor  Rm1  quater V. XX uel  del. et post  fiant  add.  uiginti  m2 fient  ΑΑ m1 Φ  fuerint  Γ   post  differentiae  add.  sed non sic se res  ( res  om. p)  habet  edd. cum Porph. p. 17, 17   άλλ’ οοχ οδτως εχει  set  om.   Γ  6 superatis] subtractis  ΓΦ   (ex  substr- )  quia] quoniam  L A  Busse  sumpta] subtracta  Γ  7 uero] autem  LR T<l'  duobus  R  8 omnes  om. L post fiunt  add.  differentiae  Γ   (s. l.)   Π m2 edd. Busse (sed om. etiam eius codd. LP) cum Porph. p. 17, 20  9 enim] autem  Γ  a  om.  Σ , s. l.  A m2  et specie et proprio] a specie a pro- prio  R  specie proprio  Σ  10 et  om.   Σ  accidente  R Σ  igitur quatuor  R  differentiae omnes  La.c.  generis differentiae  R; Porph. p. 17, 22   at διοφοραί  11 quo  om. R  differat]  La.c. ( a  del.)   Σ  differret  R differt  cett.  a  om. R  12 quo] quid  L A  Busse  quod  m1,   om.  A ; ubi  quo  est (hic et 11. 13. 14. 319, 1. 2. 3. 5. 7 bis), Porphyrius   π-j   scripsit (p. 17, 23 et 22. 24. 25. 26 bis. 18, 1. 2. 3. 4) differret]  LR Ψ  (alt. r s. l.)  differre  Λ  differt  ΓΙIΣΦ  13 igitur] ergo  2  quod  R A  differt  A a.c.  ab  Brandt  a  LR il , s. l.  A m2, om. cett.  et  om. Β ΤΑΣ  a  L  14 accidente  R ΓΔ2Φ  post  tres  add. differentiae  Λ   ( ei fiunt tres differentiae. rursus  in mg. m2)   11 m2 ( species  m1)   Γ   ( rursus differentiae  pos.) Busse (cum duobus suis codd.), om. cett. codd. edd. Porph. p. 17, 25 quidem quo  ΓΔ2Φ ;  Porph.   π-jj έν   quidem differat a differentia dictum est, quando quo differret differentia ab specie, dicebatur; quo autem differat species a genere, dictum est, quando quo differret genus ab specie dicebatur; reliquum est  igitur, ut quo differat a proprio et accidenti dicatur. duae igitur etiam istae sunt differentiae. proprium autem quo differat ab accidenti relinquitur; nam quo ab specie et differentia et genere differat, praedictum est in illorum ad ipsum differentia. quattuor igitur  sumptis generis ad alia differentiis, tribus uero dif- ferentiae, duabus autem speciei, una autem proprii ad accidens, decem erunt omnes, quarum quattuor, quae erant generis ad reliqua, superius demonstraui- mus.    Quoniam differentias atque communitates generis ad diffe- rentiam, ad speciem, ad proprium atque accidens persecutus est, idem quoque ad ceteras facere contendens praedicit, quot omnes differentiae possint esse quae inter se comparatis com-  1 differt  R A  quo] quid  A   Russe  quod  Lm1 \  2 differret]  Lm2 Rm2 Aß p.c. tfl p.c.  differet  Lm1Rm Uα a. c. ΦΨ a.c.  differt  Δ2  differtur  Γ differentia ab specie]  ΓΦΨ   ( sed  a,  scr.  ab  Brandt),  a  (s. l.  A m2)  specie  (s. l.  et  add.  Δ m2) differentia  ΔΔΣ   edd. Busse  species a  ( et  Ώ )  differen- tia  L H  differentia ab ea  R; Porph. p. 17, 26   ή διαφορά τού είδους  quod  A m1  3 differat]  L  differt  cett. (ex  differet  V )  a  om. R ϋϊ  quo] quid  Δ   Busse  quod  A  4 differret]  L yAIW  differet  R Φ  differt  ΓΑ2  4 ab specie]  Γ  a specie  L ΔIΙΔΦΦ  specie  2  ab ea  R  5 differt  R, add.  species  ΓΑΠΨΨ ,  s. l. Lm2; om. Porph. p. 18, 2  a  om.   2  accidenti]  L  acci- dente  cett.  dicitur  R  6 igitur  om.   2  7 autem  om. R, s. l.  h m2  ab  om.   Σ accidenti]  edd.  accidente  codd. fort.  relinquetur;  cf. Porph. p. 18, 3   χαταλειφθήσεται  8 ab  Brandt  a  ΓΦ ,  om. cett. pr.  et  om. R  differet  Λ m1  differret  m2  differt  A m1 2 , s. l.  proprium  add. Lm2  dic- tum  Σ  9 differentia  ante  ad ipsum  Σ  differentiis  Β ΓΑΦ ; Porph. p. 18, 5 ... διαφορά  11  pr.  autem] uero  A  ad accidens] et accidentis  ΓΔ«ι7ΠΦ ;  Porph. p. 18, 7   πρός τδ σορβεβηχος  13 erant] erunt  N  reliqua]  N Λm1ίΣΦΨ  reliquas  cett. (in mg.  ad aliquas  T m2); Porph. p. 18, 8 πρός τά άλλα  16  utrumque  ad  om. NR  17 idem quoque] idemque  Lm1NR  ad cetera  C  de ceteris  HLN  praedicit  om. R  nunc dicit  H  18 possunt  CHLm1N  commissisque  N   mixtisque rebus his quae supra propositae sunt efficiantur. sunt autem uiginti. nam cum quinque sint res, una quaeque res earum si a quattuor aliis differat, quinquies quater, uiginti differentiae fiunt, quod appositarum litterarum manifestatur exemplo. sint quinque res ueluti quinque litterae A B C D E.  differat igitur A quidem ab aliis quattuor, id est B C D E, fient quattuor differentiae. rursus B differat ab aliis quattuor, id est A C D E, erunt rursus quattuor; quae superioribus iunctae octo coniungunt. C uero tertia ab reliquis differt quattuor, scilicet A B D E; quae quattuor differentiae supe-  rioribus octo copulatae duodecim reddunt. quarta D reliquis quattuor comparetur differatque ab eisdem, id est A B C E, fient igitur rursus quattuor; quae superioribus duodecim ap- positae sedecim copulant. quodsi ultima E ab aliis quattuor differat, scilicet A B C D, fient aliae quattuor differentiae;  quae compositae prioribus uiginti perficiunt. et sit quidem  p.104]  huiusmodi descriptio : |    1 positae  EHLNP  efficiuntur  HN  2  ante  una  add.  et  HLNPR  res  om. HN  3 si  om. HN  a  om. R  uiginti  om. E  4 fiant  Rm2  5 uel  E  6 aliis] reliquis  HN  7 fiant  R  differt  Ha.c.LN  aliis] reliquis  L  8 id est  om. HN  9 ab]  codd. reliquis] aliis  L  11  ante  reliquis  add.  si  L, s. l. Pm2  12 differatque] differat aeque  EGP ( differt  m2) R  eis  GHNPm1R  13 fiunt  N  fiant  R  igitur  om. HN post  quattuor  add.  differentiae  HN  15 fiant  R  faciat  L  faciet  HN  aliae  om. H  alias  LN  differentias  HLN  16 superi- oribus  C  et sit quidem]  CGP  et quidem sit  R  et sic  (ex  si )  quidem est  E  quarum  ( quorum  LN)  quidem sit  HLN  17 discriptio  C figu- ram om. G (duae lineae uacuae) Hm1N, supra depictam dedimus ex E, eandem uarie exornatam habent R (post uerba  quattuor differentiae  supra 7)   Γ   (in mg ad locum p. 314, 7 ss.), litteras tantum omissis lineis   Quae cum ita sint, in generibus quoque et speciebus et ceteris idem considerabitur. erunt ergo quattuor differentiae, quibus genus a differentia, specie, proprio accidentique dis- iungitur; aliae rursus quattuor, quibus differentia a genere,  specie, proprio atque accidenti discrepat; rursus quattuor spe- ciei ad genus ac differentiam, proprium atque accidens; quat- tuor etiam proprii ad genus, differentiam, speciem atque acci- dens; quattuor insuper accidentis ad genus, differentiam, spe- ciem atque proprium. quae coniunctae omnes uiginti explicant  diflferentias. sed hoc, si ad numeri referatur naturam compara- tionisque alternationem; nam si ad ipsas differentiarum naturas uigilans lector aspiciat, easdem saepe differentias inueniet sumptas. quo enim genus differt a differentia, eodem differentia distat a genere, et quo differentia distat ab specie, eodem  species a differentia disgregatur, et in ceteris eodem modo. in hac igitur dispositione differentiarum, quam supra disposui, easdem saepius adnumeraui. atque si differentiarum similitudines detrahamus, decem fiunt omnino differentiae, quas ad prae- sentem tractatum uelut diuersas atque dissimiles oportet assu-  mere. age enim differat genus a differentia, specie, proprio  in mg. sup. add. Hm2, quaternas litteras ( B C D E  cett.) infra singulis litteris  A  cett. positas quadratis inclusas exhibet L; in C in mg. (litt. minusc.) hae duae figurae sunt, quarum posterior spectat ad p. 321, 20 ss. 323, 9 ss:   in P figura est per quinque ob- longa deorsum continuata, quorum primum hic proponitur  :  3 ab  CEGHP  accidentique] atque accidenti  ( -te  N) HN  4 dif- ferentiae  G  ab  CEGHNP  6 ac  om. N  ad  LP  10  post  hoc  add.  fiet  E (s. l. m2)  fit  H (s. l. m2)  niget  L (in mg.) R  13 adsumptas  R  differat  C  14 ab] a  R  17 saepius  om. EGPR, s. l. Cm2, post  ad- numeraui  L  adnumerauit  Cm2GP  atque)  EGP  at  CR  itaque  HLN  si  om. N  multitudines,  s. l.  ał similitudines  L  18 fient  edd.   atque accidenti, quattuor differentiis, quas supra iam diximus. item sumamus differentiam, distabit haec a genere primum, dehinc ab specie, proprio atque accident. sed quo discrepet a genere, iam superius explicatum est, cum diceremus quo  genus a differentia discreparet. detracta igitur hac comparatione, quoniam supra commemorata est, relinquuntur tres distantiae quibus differentia ab specie, proprio accidentique disiungitur; quae iunctae cum superioribus quattuor septem differentias reddunt. post hanc species si sumatur, quattuor quidem eius  essent differentiae secundum numeri diuersitatem, cum ad genus, differentiam, proprium atque accidens comparatur, sed priores duae comparationes iam dictae sunt. nam quo species differat a genere tunc dictum est, cum quid genus differret ab specie dicebamus, quid uero species a differentia distet commemo-  ratum est, cum differentiae ab specie dissimilitudines redde- remus. quibus detractis duae supersunt integrae atque intactae speciei ad proprium atque accidens discrepantiae; quae iunctae cum septem nouem differentias copulant. proprii uero si ad numerum differentiae considerentur, quattuor erunt, scilicet ad  genus, differentiam, speciem atque accidens comparati, quarum quidem tres superiores differentiae iam dictae sunt. nam quid proprium distet a genere, tunc dictum est, cum quid genus a proprio distaret ostendimus, rursus quid proprium a differentia discrepet, in colligenda distantia differentiae propriique superius  1 accidente  N  3 ab]  HN  a  cett.  accidente  HN  quod  L  dis- crepet] distet  HN  5 hac igitur  C  6 distantiae] differentiae  L  7 a  LN  accidenti  C  accidenteque  H  disiungitur  ante  ab specie  C  8 reddunt differentiae  C  9 sumatur] mutatur  E  11  ante  differentiam  add.  et HLNP ante  proprium  add.  et  P  cõpararetur  C  cõparantur  N  12 differat  post  genere  EN  13 a  om. EGHNP  differret]  GLm2Pm2R  differet  ΕLm1  differat  HNPm1  differt  C  ad speciem  R  ad specie  C  15 ab specie]  CG  a specie  EHLm2NP  ad speciem  Lm1R  17  post  speciei  add.  id est  EGP  18 differentias copulant] complent differen- tias  C  20 comparatae  Ep.c. (ex-ti) GHm2PR quorum  EGLm1R  21 quod  C  22 proprium—cum quid  om. EGR  distaret a pro- prio  H   demonstratum est, quid uero proprium distet ab specie, tunc expositura est, cum quid species distaret a proprio dicebatur. restat igitur una differentia proprii ad accidens, quae superio- ribus iuncta decem differentias claudit. accidentis nero ad  cetera possent quidem esse quattuor, nisi iam omnes proba- rentur esse consumptae. nam quid differat uel genus uel dif- ferentia uel species uel proprium ab accidenti, supra mon- stratum est, nec sunt diuersae differentiae accidentis ad cetera quam ceterorum ad accidens. itaque fit, ut cum sit quinque  rerum numerus, si prima assumatur, quattuor fiant differentiae, si secunda, tres, uincanturque secundae rei ad ceteras difte– rentiae a prima ad ceteras una tantum distantia; nam cum prima habuerit quattuor, secunda retinet tres. tertia uero si sumatur, duas habebit differentias, quae uincantur a primis  quattuor differentiis duabus; quarta si sumatur, unam habebit differentiam, quae uincitur a primis quattuor differentiis tribus, quinta uero quoniam nullam omnino habebit differentiam nouam, totis quattuor a prima differentiis superatur. atque hoc nume- rorum gradu quidem usque ad denarium numerum tenditur :  quattuor, tres, duae, una, ut generis quidem quattuor, diffe- rentiae uero tres, speciei duae, proprii una, | accidentis nullap p. 105  sit. et primae quidem generis comparationes quattuor nouas tenent differentias, secundae uero differentiae comparationes  1 uero  om. EGR  a  EGLR  2 cum] quando  R  5 cetera] extera  Cm1  6 differret  H  differet  N  7 accidente  CHN  monstrauimus  H  8  ante  diuersae  add.  plus  R, s. l. Lm2  10  ad  prima  s. l.  ł una res  Hm2  sumatur  HN  fient  C  11 uincanturque]  C (pr.  n  om.) Lm1  (iungantur  m2) N, m2 in HPR ( iungenturque  Rm1) , uincantur  EGHm1Pm1 12 primis  L  13 habuerat  C  habeat  Lm2NP  retineat  Lm2  14 diffe- rentias habebit  C  uincuntur  Lm1R  15 duabus  (s. l. E)  differentiis  EHN post  duabus  add.  distantiis  GR post  quarta  add. nero  R, s. l.  autem  Pm2  16  post  tribus  add.  subdistantiis  E  distantiis  G  17 habet  HL  18 primis  brm  hoc] ex hoc  HLN  numeri  HN  19 gradus  HLm1N  quidam  HN  20  post post.  quattuor  add. sint  CHm2L (del. m2) P  sunt  Hm1N  22 sit]  Rbrm  est  CEGLP, om. HN  et  om. EGR  quidem  s. l. Em2L, post  generis  C  23 teneant  HLm1NR   tres nouas tenent; una enim superius adnumerata est, uincitur autem a primis quattuor nouis differentiis una tantum. speciei uero tertia comparatio duas tantum habet differentias nouas, duas quippe superius adnumeratas agnoscimus, et uincitur a  quattuor primis duabus tantum differentiis nouis. proprium uero unam retineat nouam, quoniam tres habet superius ad- numeratas, uincaturque a prima nouis tribus differentiis, quinti uero accidentis comparationes quoniam nullam retinent nouam differentiam, totis quattuor a primis generis transcendantur.  atque ad hunc modum ex uiginti differentiis secundum numerum decem secundum dissimilitudinem contrahuntur. ut tamen has secundum dissimilitudinem differentias non in quinario tan- tum numero, uerum in ceteris notas habere possimus, talis dabitur regula quae plenam differentiarum dissimilitudinem in  qualibet numeri pluralitate reperiat. propositarum enim rerum numero si unum dempseris atque id quod dempto uno relin- quitur, in totam summam numeri multiplicaueris, eius quod ex multiplicatione factum est dimidium coaequabitur ei plura- litati quam propositarum rerum differentiae continebunt. sint  igitur res quattuor A B C D; his aufero unum, fiunt tres; has igitur quater multiplico, fient duodecim; horum dimidium  1 teneant  HLm1NR  ten.  post  nouas  CR  adnumera  (tamen  eat ) C  uincitur autem] et uincatur  HLm1 ( et  del.,  uincitur  m2) N  2 nouis quattuor primis  HN  4 adnumeratas  om., in mg.  enumeratas  G  uin- catur  Lm1  uincantur  HN uincuntur  C  6  ante  unam  add.  tantum  L, post EGPR  retinet  Lm2Pm2 edd.  7 uincanturque  N uincatur qua re  EG  uincitur haec  R  uinciturque  edd.  quinta  N  8 comparatio  Lm2N  retinet  HLN, post  nouam  HN  9 primis]  CLPH a.r.  primi  EGHp.r.NR  transcendentur  Lm2 transcendatur  N  transgrediantur  C  transcenduntur  edd.  11 tamen  er. uid. E  non  G (etiam post diffe- rentias  est  non )  13 uerum] uerum etiam  C  ceteris quoque  brm  notas]  Lm1N  notis  CEGHm2 ( totas  m1) Lm2PR  15 reperiat] pariat  Cm2Hm1N  17  post  numeri  add.  si  CHP simul  EG  18 ei  om. EGN  19 sunt  Lm1R  20 igitur] ergo  CEN  fiant  LR  21 hos  EGLPR post igitur  add.  si  N  tres  H  per totam summam  R  multiplica  C  multipli- cato  E  fiunt  HN  fiant  R post  horum  add.  si  L   teneo, sex erunt. tot igitur erunt differentiae inter se rebus quattuor comparatis : A quippe ad B et C et D tres retinet differentias, rursus B ad C et D duas, C uero ad D unam; quae iunctae senarium numerum complent. atque hanc quidem  regulam simpliciter ac sine demonstratione nunc dedisse suffi- ciat, in Praedicamentorum uero expositione ratio quoque cur ita sit explicabitur.      Commune ergo differentiae et speciei est aequaliter  participari; homine enim aequaliter participant par- ticulares homines et rationali differentia. commune uero est et semper adesse his quae participant; sem- per enim Socrates rationalis et semper Socrates homo.    Dictum est saepius ea quae substantiam formant, nec  remissione contrahi nec intentione produci; uni cuique enim id quod est, unum atque idem est. quodsi differentia spe- cierum substantiam monstret, species uero indiuiduorum, aequa- liter utraque ab intentione et remissione seiuncta sunt; quo  6 in Praedicamentorum expositione] p. 272 C. B—l3] Porph. p. 18, 10—14 (Boeth. p. 46, 10—14). 14 saepius] cf. infra.   1 teneo] sumo  N  sumo tenens  ( tenens  del. m2) H  si  (ex  sumo  m2)  teneo  L pr.  erunt  ante  sex  N, s. l. Hm2 post.  erunt  ante igitur  ( ergo  H) HL  2 detinet  HN  4 complent numerum  H  5 dedisse nunc  HN  8 DIFFERENTIAE ET SPECIEI]  plerique codd. fort. ex 9 sumptum, om.   Δ , SPECIEI ET DIFFERENTIAE  Γ2Φ , r ecte ut aid.; Porph. p. 18, 10   Περί τής κοινωνίας τής διαφοράς καί τοΰ είδοος ,  cod. Μ   Περί κοινών είδους καί διαφοράς  9 est  add. Hm2  10 homine—parti- cipant  (12) ]  LR Q , om. cett.  homini  R T a.c.  hominem  L \  11 ratio- nalem differentiam  L \ , post differentia  add.  nam omnes homines aequa- liter homines sunt et aequaliter rationales  Σ  12 et  del. uid.  Δ , om.  Ψ  his adesse  LR <t>  post  quae  add.  eorum  ΓΔΠΦ  13 enim  om. R  rationabilis  CEGPR U  Busse, add.  est  ΓΔΦ ,  s. l.  A m2  14 saepius  i. e. p. 250, 24 ss. 314, 5 ss. ; saepe  de duobus locis etiam p. 293, 18 dictum;  superius  P, fort. recte, cf. ad p. 317, 4. 337, 8  17 monstrat  HLNP  18 utraeque  CP  seiunctae  CGPR   fit ut aequaliter participentur. omnes enim indiuidui mortales aeque sunt atque rationales sicut homines. nam si idem est ‘esse’ homini quod est ‘esse rationale’, cum omnes homines aeque sint homines, necesse est ut sint aequaliter rationales. Aliud quoque commune habent quoniam ita differentiae sui partici-  pantia non relinquunt ut species. semper enim Socrates rationalis est—Socrates enim rationabilitate participat —, semper homo est, quia scilicet humanitate participat. ut igitur differentiae sui participantia non relinquunt, ita species his quae ea parti- cipant, semper adiuncta est.     Proprium autem differentiae quidem est in eo quod quale sit praedicari, speciei uero in eo quod quid est : nam et si homo uelut qualitas accipiatur, non sim-  11— p. 327, 16] Porph. p. 18, 15—19, 3 (Boeth. p. 46, 15-47, 11).   1 mortales—sicut homines]  ( sunt  ex  sint  Lm2, add.  homines  Lm1, del. m2,  sunt  del. Pm2;  atque Lm1Pm2  et  HLm2Pm1;  sicut  del. et  sunt  scr. Pm2) HLP  aeque mortales atque rationabiles sunt ut homines  C  aeque  (s. l. m2)  mortales  (ex  -lis  m2)  sunt atque rationabilis  (sic)  sunt  (part. ras. ex  sicut  m2)  homines  E  mortales sunt atque  ( atque sint  N)  rationales sicut homines  NR  mortalis atque rationabilis sicut homines  G  2 nam—homines  (4) om. N  idem est]  E ( est  in mg.) HR  idẽ  CL  id est  ( ẽ  G) GP  est  del. Lm2  3 esse  post  ration.  EL, repetit. post ration.  P, om. CH  rationali  R  rationalis  Lm1  rationabile  G  rationa- bili  E  rationabilis  Lm2P  5  ante  commune  add.  est  H  habent  om. HR, s. l. EL ( n  del. m2)  differentia  R  6 relinquit  R relinquent  Pm1  derelinquunt  Lm1  rationabilis  EG  7 rationabilitati  CGP  rationalitate  HN post semper  add.  enim  G  8 quia  ex  qua  Em2  humanitati  EGLP  differentia  HLNR  9 relinquit  HLNR  par- ticipent  E  11 SPECIEI ET DIFFERENTIAE  ( DIFFERENTIIS  E) ΕG ΤΖΦ , recte ut uid. , DE PROPRIIS EORVM  ( EORYNDEM  Ψ ) Ρ Ψ ;  Porph. p. 18, 15   Περί τής διαφοράς τού εϊδοος και τής διαφοράς ,  cod. Μ   Περί τών ιδίων ειδοος και διαφοράς  12 autem  om. Η uero  C Q  quod  ex  quid  C  13 species  EGHNP  uero  om. H  autem  Busse  eo quod] quo  Γ  est] sit  R  14 nam—generationem  (p. 327, 15) ]  LR Q ,  om. cett.  accipitur  A m1  non]  R ΓΔΈ  cum Porph. p. 18, 17  hic non  L  non hic  A m2 H  Busse  non sic  Λ m1 Σ  non homo  Φ   pliciter erit qualitas, sed secundum id quod generi aduenientes differentiae eam constituerunt. amplius differentia quidem in pluribus saepe speciebus con- sideratur, quemadmodum quadrupes in pluribus ani-  malibus specie differentibus, species uero in solis his quae sub specie sunt indiuiduis est. amplius diffe- rentia prima eat ab ea specie quae est secundum ipsam; simul enim ablatura rationale interimit homi- nem, homo uero interemptus non aufert rationale, cum  sit deus. amplius differentia quidem componitur cum alia differentia — rationale enim et mortale compositum est in substantia hominis —, species uero speciei non componitur, ut gignat aliam aliquam speciem; qui- dam enim | equus cuidam asino permiscetur ad muli  p. 106   generationem, equus autem simpliciter asino num- quam conueniens perficiet mulum.  Expositis communitatibus quantum ad institutionem per- tinebat differentiae et speciei, eorundem nunc dissimilitudines colligit dicens quoniam differunt, quod species in eo quod  quid sit praedicatur, differentia uero in eo quod quale sit. huic differentiae poterat occurri. nam si humanitas ipsa, quae species est, qualitas quaedam est, cur dicatur species in eo quod quid sit praedicari, cum propter quandam suae naturae  1 sed] id  (del.) R  3 considerantur  Δ  4 pluribus]  Porph. p. 18, 20   πλείστων ,  cod. B   πλειόνων  6 specie] una specie  R Γ  ( sunt  ante specie )   ΛΨ ;  Porph. p. 18, 21   άκο το είδος  7 prima  ante  differentia  Δ  prior  edd.fort· recte cum Porph.   κροτέρα;   cf. p. 328, 32  superioris ab ea] et  Γ  ab ea—ipsam] ab ea quae est secundum se specie  2  8  post  ipsam  add.  differentiam  Δ   (del. m2)   Λ  10 deus] angelus  LR  ponitur  Δ  12 sub- stantiam  edd. cum Porph. p. 19, 1   εις οπδστοσιν  speciei] specie  R  13 aliquam  ante  aliam  T\A ,  post  speciem  2  14 equus] asinus  Σ  asinae  Φ  equae  Σ  15 equus] asinus  2  autem  om. N enim  C ΔΛ2  asinae  Pm2  conueniens numquam  2  16 mulum perficiet  CEG  perfici ad mulum  R 17 Positis  N  instructionem  H  18 eorum  L  earundem  edd.; cf. indicem Meiseri s.  neutrum 20 differentiae  C  uero  om. CGP  autem  R post  sit  add.  qua inter se differunt differentia et species  Hm1, del. m2  21 huic] nunc  G  differentia  G  22 dicitur  CLm2  praedicatur  GR   proprietatem quaedam qualitas esse uideatur? huic respondemus, quia differentia solum qualitas est, humanitas uero non est solum qualitas, sed tantum qualitate perficitur. differentia enim superueniens generi speciem fecit; ergo genus quadam differentiae qualitate formatum est, ut procederet in speciem,  species uero ipsa, qualis quidem est, secundum differentiam illius quae est pura ac simplex qualitas, qua scilicet perficitur et conformatur, qualitas uero ipsa pura simplexque nullo modo est, sed ex qualitatibus effecta substantia. itaque iure diffe- rentia, quae pure ac simpliciter qualitas est, in eo quod quale  est sciscitantibus respondetur, species uero in eo quod quid sit, licet ipsa quoque quaedam qualitas sit non simplex, sed aliis qualitatibus informata. Rursus illa quoque differentia est, quia plures sub se species differentia continet, species uero tantum indiuiduis praesunt. rationabilitas enim et hominem  claudit et deum, quadrupes equum, bouem, canem et cetera, homo uero solos indiuiduos. atque in aliis speciebus eadem ratio est. idcirco enim definitiones quoque secutae sunt, ut differentia uocaretur quod in pluribus specie differentibus in eo quod quale sit praedicatur, species uero quod de pluribus  numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur. Ideo etiam superioris naturae sunt differentiae, quoniam continentes sunt specierum. nam si quis auferat differentiam, speciem  1 respondebimus  G  3 tantum  om. EG  solum,  s. l.  ał tantum  L  4 facit  CLN  5 formatum est  s. l. Gm2  6  ad  qualis  s. l.  ł quali- tas  Hm2 post  quidem  add.  non  EGP (del. m2), in mg. Hm2  9  post  sed  s. l.  hec  L  iure itaque  C  11 species—quid sit  in mg. Gm2  12 sit] est  HN, add.  iure respondetur  CG (in mg. m2) LP  13 rursum  E, add.  differentiae et speciei  C  illa  om. E  ipsa  CGP post  quoque  add.  his  HN  differentia est] differunt  in ras. E est om. P  in hoc a specie distat  G  15 uero  om. CEGP  rationalitas  HΝ  16  post  quadrupes  add.  enim  P, s. l. Lm2  canem  om. C  camelum  R  17 sola indiuidua  Lm2R  19  pr.  in] de  Pm2  20 praedicetur  HLN species—praedicatur  om. E  21 praedicatur] dicatur  GHLPm1  22  post  differentiae  add.  quam species  CLP  speciebus  N post  quoniam  add.  enim  HLN  23 sunt  ( erunt  L) post  specierum  EGL, ante  conti- nentes  R  nam  om. LR, post  quis  s. l.  enim  Lm2   quoque sustulerit, ut si quis auferat rationabilitatem, hominem deumque consumpserit, si uero hominem tollat, rationabilitas manet in speciebus reliquis constituta. est igitur differentiae specieique distantia quod una differentia plures species con-  tinere potest, species uero nullo modo. Alia rursus est differentia, quoniam ex pluribus differentiis una saepe species iungitur, ex pluribus speciobus nulla speciei substantia copu- latur. iunctis enim differentiis mortali ac rationali factus est homo, iunctis uero speciebus nulla umquam species infor-  matur. quodsi quis occurrat dicens quoniam permixtus asino- equus efficit mulum, non recte dixerit. indiuidua enim indi- uiduis iuncta indiuidua rursus alia fortasse perficiunt, ipse uero equus simpliciter, id est uniuersaliter, et asinus uniuer- saliter neque permisceri possunt neque aliquid, si cogitatione  misceantur, efficiunt, constat igitur differentias quidem plurimas ad unius speciei substantiam conuenire, species uero in alterius speciei naturam nullo modo posse congruere.      Differentia uero et proprium commune quidem  habent aequaliter participari ab his quae eorum par- ticipant; aequaliter enim rationalia rationalia sunt et risibilia risibilia. et semper et omni adesse com-  18—p. 330, 4] Porph. p. 19, 4—9 (Boeth. p. 47, 12—19).   1 rationalitatem  HN  2 aero] quis  R  rationalitas  HLa.c.N  3 est  om. CEGP  4 specieqne  R  et species  C  distant  C  distantia est  EGP  species] significationes  Em1  5 differentia est  C  6 saepe  om. EGR post  pluribus  add.  uero  R  8 enim] etiam  Lm1  igitur  Lm2Pm1  10 asinae  HLm2  11 perficit  GP  12 perficiant  Lm1R  14 nec.. nec  C  neque permisceri possunt  om. EGR  neque aliquid] non aliquid  EGR  cogi- tatione si  HN  18 COMMVNIBVS] d e Porph. cf. ad p. 102, 7  20 par- ticipari] praedicari  L  ab his—dicitur  (p. 330, 2) ]  LR Q , om. cett.  ab  om.  Σ , del.  A m2  21 post enim  s. l.  quae  T m2  rationalia rationalia]  Tk m2 <t>W m2 edd. rationalia rationabilia  Π  rationalia  A2<V m1  rationabilia  LR & m1  rationabilia rationabilia  Busse  sunt  om. R, s. l.  h m2  22 et  er. uid.  Δ  post.  risibilia  om. LR \2 , post add.  sunt  codd., om. L cum Porph. p. 19, 6   mune utriusque est. si enim curtetur qui est bipes, sed ad id quod natum est semper dicitur; nam et risibile in eo quod natum est habet id quod est semper, sed non in eo quod semper rideat.    Nunc differentiae propriique communia continua ratione per-  -sequitur. commune enim dicit esse proprio ac differentiae quod aequaliter participantur — aeque enim omnes homines rationa- biles sunt, aeque risibiles —, illud, quia substantiam monstrat, istud, quia est aequum proprium speciei et subiectam speciem non relinquit. Aliud etiam his commune subiungit : aequa-  liter enim semper differentia subiectis adest ut proprium; semper enim homines rationabiles sunt, ut semper quoque risibiles. sed obici poterat non semper esse bipedem hominem, cum sit bipes differentia, si unius pedis perfectione curtetur. quam tali modo soluimus quaestionem. propria et differentiae  non in eo quod semper habeantur, sed in eo quod semper naturaliter haberi possunt, semper dicuntur adesse subiectis.  1 utrisque  ΓΛΣΦ  si] sine  R ΓΦ  qui est] quies  R  quidem  L A  post  bipes  add. non substantiam  ( substantia  ΑΦ )  perimit  ( perimitur  Ψ ) L ΑΨ  Busse (in adn. deleri mauult) , non substantia perit  ( peribit  Σ )   ΓΠΣΦ p ,  om. Rbrm, Porph. p. 19, 8, Boeth. in comment.  2 sed] ta- men  R  ad id quod] ad quod  L AΠ  (post  est  repet.  ad id )   Σ   Busse  ad id ad quod  Ψ , ad id  post est  h m1 post  est  add.  habet et id quod est  L A  (del. m2)  2 , ‘fortasse  id quod est  recipiendum’ Russe : Porph. p. 19, 8   αλλά πρός το πεοοχένοι το   ( το  om. Μ)   άει λέγεται  nam  -om. R  3 in eo] eo  EGLR A m1  ad  C 72  id  Ρ Π  ad id  *F  aliquod  N  habet id quod est semper]  C ( id  s. l. m1?) L hA  ( "habet—est  del. m2), pro  id  exhib.  hoc  H  et id  Σ , est  om. N  habet semper  Ρ Π  habet  EG semper dicitur  ΓΦΨ ,  om. R  4 sed—rideat] in  om. C, in mg. Hm2,  in quod semper rideat  EG non quod semper rideat  R Ψ ; Porph.   έπε'ι ναι τό γελαστικόν τώ πεφυχέναι έχει τό αεί, άλλ' ο όχι τώ γελάν άει  6 enim] autem  Lm2P  dicitur  CEGR  proprii  C  7 rationales  Cm2ELm2P  8 atque  NR  9 istud] illud  EGHN (add.  risibilis ) P  aequum  om. H  aeque  EG, recte?  propriae  EGLPR  et  om. EG  ac  N  subiectam  om. C  subiectum  EGPm1  10 reliquit  ELa.c.  etiam his] hic etiam  HN  11 subiectis  s. l. Gm2  12 rationales  Cm2HN  15  ante  propria  add.  et  HNP (del. m2), s. l. Lm2  propriae  CEGPm2  proprii  R  et  om. CE, del. Pm2  16  post  in] ex  HN   si enim quis curtetur pede, nihil attinet ad naturam, sicut nihil ad detrahendum proprium ualet, si homo non rideat. haec enim non in eo quod adsint, sed in eo quod per naturam adesse possint, semper adesse | dicuntur. ipsum enim semper;  p. 107   non actu esse dicimus, sed natura. numquam enim fieri potest, ut per naturae ipsius proprietatem non semper homo bipes sit, etiamsi potest fieri, ut pede curtetur, etiam si deminuto pede sit natus; in his enim non speciei atque substantiae, sed nascenti indiuiduo derogatur.      Proprium autem differentiae est quoniam haec qui- dem de pluribus speciebus dicitur saepe, ut rationale de homine et de deo, proprium uero de una sola spe- cie, cuius est proprium. et differentia quidem illis  est consequens quorum est differentia, sed non con- uertitur, propria uero conuersim praedicantur quorum sunt propria, idcirco quoniam conuertuntur.    Distat a proprio differentia, quia differentia plurimas species  10—17] Porph. p. 19, 10—15 (Boeth. p. 48, 1—7).   1 curtetur quis  N  nil  C  attinet  s. l. Lm2, post  naturam  R  2 ad  om. EG  ualet  om. EGR  3  pr.  in  om. CEH, s. l. Lm2Pm2 , ab  Gm1, del. m2 post.  in  om. EGNP, s. l. Lm2  4 possunt  HN  dicuntur semper adesse  R  5 actum... naturam  E  umquam  Ea.c.G  7 potest  om. EG, post  fieri  L , postea  (om.  fieri ut ) HN  pede]  HLm1N  ambo pede  Em1GR utroque pede  Em2Lm2P;  ambobus curtetur pedi- bus  C ante  etiam  (om. C) add.  uel  CL (s. l. m2) R  diminuto  CEGLPR  8 pede  om. C  sit natus] nascatur  C  10  de inscript. ap. Porphyr. cf. ad p. 105, 16  11 autem] uero  Δ  quoniam] quod  ΓΦ  12 saepe— conuertitur  (15) ]  LR Q , om. cett.  saepe  om. Lm1R, ante  dicitur  Lm22 ;  Porph. p. 19, 11   λέγεται πολλά*ις  rationabile  R  13  post , de]  A ,  om. cett.; cf. Porph. p. 19, 12 et infra p. 332, 3  deo]  ii  angelo  R  deo et angelo  L; cf. Porph. p. 19, 12 adn. ante  proprium  add.  et  Δ  uero  om. R  de una]  L 4 m2 4'  in una  R ΓΔ m1 ΠΣ  una  Φ ;  Porph.   έφ’ ένός   post  specie  add.  dicitur  Δ  16  post  praedicantur  add.  de his  Δ   (s. l. m2) edd.  ex his  Σ  hiis  Φ ,  om. Porph. p. 19, 14  18  post.  diffe- rentia  om. C  plurimis  R plures  L  pluribus  EG  speciebus  Em2GR   claudit ac de his omnibus praedicatur, proprium uero uni tantum speciei cui iungitur adaequatur. rationale enim de homine atque de deo, quadrupes de equo et ceteris animalibus, risibile uero unam tantum tenet speciem, id est hominem. unde fit ut differentia semper speciem consequatur, species  uero differentiam minime. proprium uero ac species alternis sese uicibus aequa praedicatione comitantur. sequi uero dicitur, quotiens quolibet prius nominato posterius reliquum conuenit nuncupari, ut si dicam ‘omnis homo rationabilis est’, prius hominem, posterius apposui differentiam; sequitur ergo dif-  ferentia speciem. at si conuertam nomina dicamque ‘omne rationabile homo est’, propositio non tenet ueritatem; igitur species differentiam nulla ratione comitatur. proprium uero et species quia conuerti possunt, mutuo se secuntur : omnis homo risibilis est et omne risibile homo est.     Differentiae autem et accidenti commune quidem est de pluribus dici, commune uero ad ea quae sunt  16—p. 333, 3] Porph. p. 19, 16—19 (Boeth. p. 48, 8—12).   1 clauditur  EGRm2  claude his  (sic) ml  2 cui iungitur] coniungitur  Lm1N, add.  et  L  rationabile  CGLPR  3  pr.  de  om. CH, er. L post  deo  add.  praedicatur  R, s. l. Lm2 post  quadrupes  add.  uero  R  et ceteris] ceteris  E  ceterisqne  GP  6 ac] et  E  7 aeque G R ( -(??)e )  comitentur  HN  comitatur  ex  commitetur  Rm2  sequi] si quid EGPm1  8 quotiens  om. EG, s. 1. Pm2  qualibet re  ( re  s. l. Pm2)  prius nominata  HLNPm2R reliquam  HLm2NPm2  reliqua  Lm1Rm2  uero qua  m1  9 rationalis  Cm2HN  est  om. N  10 posterius  ex  prius  Em2  opposui  EG  posui  Lm1R  ergo] enim  E  11 at] et  Hm1  nomina] ut  (in ras. Lm2)  prius differentiam nominem  HNP, in mg. Lm2  12 rationale  HN  propositi  CG proposita oratio  in ras. E  13 nulla ratione differentiam  C  proprium—secantur  in mg. sup. Hm2  14 sequuntur  PRm2  sequntur  E ante  omnis  add.  ut  L, post add.  enim  HNP  15 et  om. EG, s. l. Lm2  est  om. R  16 ACCI- DENTIS ET DIFFERENTIAE  E  ΕΤ] uel  P  ACCIDENTI  C de in- script. ap. Porphyr. cf. ad p. 102, 7  17 accidentis  Cm2 il  commune— adesse  om. N  18  post uero  add.  est  Ρ ΑΠ  Busse, om. Porph. p. 19, 18   inseparabilia accidentia, semper et omnibus adesse; bipes enim semper adest omnibus coruis et nigrum esse similiter.    Duo quidem differentiae et accidentis communia proponit,  quorum unum separabilibus et inseparabilibus accidentibus cum differentia commune est, ab altero uero separabile acci- dens segregatur. tantum uero inseparabile secundo communi concluditur. est enim commune differentiae cum omnibus acci- dentibus de pluribus praedicari; nam et separabilia et inse-  parabilia accidentia sicut differentia de pluribus speciebus et indiuiduis praedicantur, ut bipes de coruo atque cygno et de his indiuiduis quae sub coruo et cygno sunt, nuncupatur. item de eodem coruo atque cygno album et nigrum, quae sunt inseparabilia accidentia, praedicantur. ambulare enim uel  stare, dormire ac uigilare de eisdem dicimus, quae sunt acci- dentia separabilia, reliqua uero communitas ea tantum acci- dentia uidetur includere quae sunt inseparabilia. nam sicut differentia somper subiectis speciebus adhaerescit, ita etiam inseparabilia accidentia numquam uidentur deserere subiectum.  ut enim bipes, quod est differentia, numquam coruorum spe- ciem derelinquit, ita nec nigrum, quod accidens inseparabile est. differentia enim idcirco non relinquit subiectum, quoniam eius substantiam complet ac perficit, accidens uero huiusmodi,  1  post  semper  add.  in eodem genere  P  omni  R; Porph. p. 19, 18   παντί   post omnibus  add.  hominibus et  L  hominibus  Λ   (del. m2)  2 nigrum esse]  ΓΛ»ηίΨ  nigris  ( nigros  Hm2)  esse  EGHm1  nigredo esse  L  nigrum adest  \A m2  nigrum  CNΡR ΙΙΣΦ  Russe; Porph. p. 19, 19   τότε μέλαν είναι   (sic Μ,  μέλασιν είναι  Βm2  μέλαν  eett.)  4 quaedam  HΝ  et] atque  ΗΝ  5 sepa- rabilibus  om. G, s. l. Em2  6 uero] autem  E  7 uero] enim  R, recte? post  inseparabile  add. accidens  L  accidens cum inseparabilibus differentiis  in mg. Hm2  secunda communione  HLP 10 differentiae  CEGLm2P  11 et de his—cygno  om. H, —cygno sunt  om. EGR  12 nuncupantur  G  praedicatur uel nuncupatur  C  14 praedicantur—separabilia  (16) om. N  enim  s. l. C  etiam  H 15 isdem  CPm2  hisdem  ER  dicitur  LP  17  post  inseparabilia  add.  accidentia  C  19 accidentia inseparabilia  HN  de- serere uidentur  C  20 corui  N  21 est inseparabile  C  22 subiectum non relinquit  C  derelinquit  Lm1  23  post  huiusmodi  add.  est  edd.   quia non potest separari; neque enim possit esse accidens inseparabile, si subiectum aliquando relinquit.      Differunt autem quoniam differentia quidem con- tinet et non continetur — continet enim rationabi-  litas hominem —, accidentia uero quodam quidem modo continent eo quod in pluribus sunt, quodam uero modo continentur eo quod non unius accidentis sus- ceptibilia sunt subiecta, sed plurimorum, et differen- tia quidem inintentibilis est et inremissibilis, acci-  dentia uero magis et minus recipiunt. et inpermixtae quidem sunt contrariae differentiae, mixta uero con- traria accidentia.    Huiusmodi quidem communiones et proprietates dif- ferentiae et ceterorum sunt, species uero quo quidem  p. 108 differat a genere et differen|tia, dictum est in eo quod dicebamus, quo genus differret a ceteris et quo dif- ferentia differret a ceteris.    Post differentiae et accidentis redditas communitates nunc de eorum differentiis tractat. ac primum quidem talem proponit.  3—18] Porph. p. 19, 20—20, 10 (Boeth. p. 48, 13—49, 4).   1  post.  posset  Lm1  potest  HLm2NPR post  accidens  repet. esse  G , 3  uel  4  litt. er. L  2 reliquerit  H  relinqueret  N  3 ACCIDENTIS ET DIFFERENTIAE  Γ EARVNDEM  C  EORYNDEM  E de inscript. ap. Poiphyr. ef. ad p. 105, 16  4 Different  Cm1 Differt  L ΣΐΑηιΐ m1 Φ  post  autem  add.  differentia ab accidenti  Γ  5 et  om. GHP  continet— sunt  (15) ]  LR il , om. cett.  enim] autem  L  rationalitas  ΓΑ a.c. Π2ΦΨ  6 quidem  om.   Δ2  7 sint  L ΓΔΛΠΦ»ιί m1 | ·uero  post  modo  Ψ ,  del.   ΓΦ   (ut uid.)  9 sint  A  10 intentibilis  ΓΣ   Busse inintensibilis  edd.; Porph. p. 20, 4   άνεπίτατος;   ef. Roensch, Collect. phil. p. 299 12 post  uero  add.  sunt  ΛΦ  14 Huiuscemodi  Δ  15 quod  EGR  quidem  om.   2  quidam  Em2G  16 a  om. EGH 2 differentiae  E  est  om. C  17 quo] quod  R A m1  differet  R  differt  CEGP 2  a  om. ΕGΗΡR ΤΠ,ΣΦ quod  EGR is m1  18 differet  R  differat  L A  differt  G 2  a  om. EGHR TWZ  19 reddit has  E communicantes  Rm1  communiones  m2  20 primam  HN  quidem  om. HN  tale  C   differentia, inquit, omnis speciem continet. rationabilitas enim continet hominem, quoniam plus rationabilitas quam species, id est homo, praedicatur : supergressa enim substantiam hominis in deum usque diffunditur. accidentia uero aliquando  quidem continent, aliquando continentur. continent quidem, quia quodlibet unum accidens speciebus adesse pluribus con- sueuit, ut album cygno et lapidi, nigrum coruo, Aethiopi atque hebeno, continentur uero, quoniam plura accidentia uni accidunt speciei, ut uideatur illa species plurima accidentia continere.  cum enim Aethiopi accidit ut sit niger, accidit ut sit simus, ut crispus, quae cuncta sunt accidentia Aethiopis, species, quod est homo, omnia quae habet intra se plurima accidentia uidetur includere. huic occurri potest : quoniam differentiae quoque aliquo modo continentur, aliquo modo continent, ut  rationabilitas continet hominem—plus enim quam de homine praedicatur —, continetur quoque ab homine, quia non solum hanc differentiam homo continet, uerum etiam mortalem. re- spondebimus : omnia quaecumque substantialiter de pluribus praedicantur, ab his de quibus dicuntur non poterunt conti-  neri; quo fit ut differentiae quidem non contineantur ab specie, etsi sint differentiae plures quae speciem forment. accidentia uero continentur, quoniam accidentia speciei substantiam nulla praedicatione constituunt; nam nec proprie uniuersalia dicuntur  1 omnis speciem] species  R rationalitas  HNP  2 rationalitas  HNP  3 substantia  N  4 aliquando—aliquando] aliquo modo quid  N  7  ante  lapidi  s. l.  pario  Em2 post  nigrum  add.  ut  CEGLP, ante edd. ante  Aethiopi  add. et  E  8 continentur uero]  HLm2NP  continentur- que  cett.  9 plura  HN  10 enim] etenim  N ad simus  s. l.  naribus pressis  E  12  ex  quod  part. ras.  quae  Cm2  quod est] quidẽ  G ante  intra  add. et  E  plurima  om. EGH  13 occurri] opponi  HN  14  pr.  aliquo modo] aliquando  EGLm2P post. aliquo modo  om. N  aliquando  Em2Lm2P  15 rationalitas  H  17 homo] nomen hominis  HN mortale  edd.  respondemus  HN  respondebimus contra haec  GLPR  18 praedicantur de pluribus  C  20 a  R  21 sunt  H  differentiae  om. HN  speciem forment]  CEGP  speciem formant  Lm(??) ( informent  m2 hrm) N  formant speciem  H  informant speciem  R  22 con- tineantur  HN  23  ad constituunt  in mg.  ał subsistunt  Hm2   accidentia, cum de speciebus pluribus dicuntur, differentiae uero maxime. quae enim quorumlibet uniuersalia sunt, ea neoesee est eorum quorum sunt uniuersalia, etiam substantiam continere. qno fit ut quia differentiae substantiam monstrant, intentione ac remissione careant — una enim quaeque substantia  neque contrahi neque remitti potest —, at uero accidentia quoniam nullam constitutionem substantiae profitentur, intentione cre- scunt et remissione decrescunt. Illa quoque eorum est dif- ferentia, quod differentiae contrariae permisceri, ut ex his fiat aliquid, non queunt, accidentia uero contraria miscentur et  quaedam medietas ex alterutra contrarietate coniungitur. ex rationabili enim et inrationabili nihil in unum iungi potest, ex albo uero et nigro coniunctis fit aliquis medius color.    Expositis igitur distantiis differentiae ad cetera restat de specie dicere, cuius quidem differentias ad genus ante colle-  gimus, cum generis ad speciem differentias dicebamus. eiusdem etiam speciei distantias ad differentiam diximus, cum differentiae ad species dissimilitudines monstrabamus. restat igitur speciem proprii et accidentium communioni coniungere, tum differentia segregare.     Speciei autem et proprii commune est de se intri- cem praedicari; nam si homo, risibile est, et si risi-  21—p. 337, 4] Porph. p. 20, 11—15 (Boeth. p. 49, 5—10).   1 pluribus speciebus  HN  2 maximae  EH, add.  dicuntur uniuersalia et  ( et  om. R)  proprie  Lm2 (in mg.) R 4 ut  om. CG, s. l. Lm2  5 una quaeque enim  HNR  6 quoniam] quia  E  7 profitentur] monstrant  R ante  intentione  add.  et  HN  9 his] se  C  10 misceantur  N  permiscen- tur  R  et] ut  C  11 coniunguntur  LN  fiat  C  12 rationali  C ( bi  s. l. er.) HN  inrationali  HN  in unum]  L  in  om. cett.; cf. indicem Meiseri s.  unus 13  post color s. l.  ut uenetns  Pm2  15 ad genus— differentias  om. EG  16 dicebamus] diximus  EGP  17 diximus] dice- bamus  C  19 proprio  HLm1NP  accidenti  Lm1  accidenti tum  HPm2  accidentique  (om.  et ) N  communione  HLm1NP  tunc  R  20 disgre- gare  N  21  de inscript. ap. Porph. cf. ad p. 102, 7  23 nam—dictum est  (p. 337, 4) ]  LR Q , om. cett. post  homo  add.  est  ΔΣ ,  s. l.  A m2  et si]  ΔΕΈ  et  L ΓΛΠΦ  ita et  R post  risibile  add.  est  ΔΣΨ   bile, homo est – risibile uero quoniam secundum id quod natum est sumi oportet, saepe iam dictum est —; aequaliter enim sunt species his quae eorum partici- pant et propria quorum sunt propria.    Commune, inquit, habent propria atque species ad se ipsa praedicationes habere conuersas. nam sicut species de proprio, ita proprium de specie praedicatur; namque ut est homo risi- bilis, ita risibile homo est; idque iam saepius dictum esse commemorat. cuius communitatis rationem subdidit, eam scilicet,  quia aequaliter species indiuiduis participantur, sicut eadem propria his quorum sunt propria. quae ratio non uidetur ad conuersionem praedicationis accommoda, sed potius ad illam aliam similitudinem, quia sicut species aequaliter indiuiduis participantur, ita etiam propria; aeque enim Socrates et Plato  homines sunt, sicut etiam risibiles. itaque tamquam aliam communionem debemus accipere quod est additum : aequaliter enim sunt species his quae eorum participant et pro- pria quorum sunt propria. an magis intellegendum est hoc modo dictum, tamquam si diceret ‘aequalia enim sunt species  et propria’? nam quia species eorum sunt species quae spe- ciebus ipsis participant, et propria eorum propria quae|pro-  p.109  priis participant, proprium atque species aequaliter utrisque sunt, id est neque species superuadit ea quae specie parti-  8 saepius] cf. infra.   1 est  om. R ante  secundum  add.  et  A   (s. l.) Busse, om. Porph. p. 20, 13  id  om.   J!  2 natum]  Porph. p. 20, 14   κατά τό πεοοχέναι γελάν  sumi oportet]  LR  dicitur  Q ;  Porph.   ληπτεον 3 sunt  om.   Φ ,  post  spe- cies  P  earum  R, ex  eorum  ut uid.  5 m2  7 ita—est homo  in mg. Hm2 praedicamus  EGHm2P p.c.R  namque  om. N  nam  R  8 ita homo risibile est  E  ita est risibile homo  R  iam] etiam  C  saepius]  HN  superius  cett. (recte?); cf.  saepe  2, et ad p. 317, 4. 325, 14 10 qua  CGLP  eadem] eodem modo  E  11 ratio] puto  Em2  12 accommo- data  edd.  13 qua  CGEm1P ante  indiuiduis  add.  ab  HNR, s. l. Lm2  14 participatur  H  18 ac  Lp,c.Pm2  est  om. C 19 aequa- liter  N  20  post  propria  add.  quorum sunt propria  C  21 et propria— atque species] atque proprium species  N  23  post.  speciei  EGLP   cipant, neque propria superuadunt ea quae propriis participant. cumque haec propria specierum sint. propria, species ac pro- pria aequalia esse necesse est atque inuicem praedicari.    Differt autem species a proprio, quoniam species  quidem potest et aliis genus esse, proprium uero et aliarum specierum esse inpossibile est. et species quidem ante subsistit quam proprium, proprium uero postea fit in specie; oportet enim hominem esse, ut sit risibile. amplius species quidem semper actu adest  subiecto, proprium uero aliquando potestate; homo enim semper actu est Socrates, non uero semper ridet, quamuis sit natus semper risibilis. amplius quorum termini differentes, et ipsa sunt differentia; est autem speciei quidem sub genere esse et de plu-  4—p. 339, 3] Porph. p. 20, 16—21, 3 (Boeth. p. 49, 11—50, 2). 14 quorum—differentia] Abaelardus II, Introduct. ad theolog. p. 94; Theo- log. christ. p. 488; De unit, et trinit. diuina p. 58 Stoelzle.   1 nec  CELN  2 haec  om. LN, del. uid. E  sunt  EHa.c.N, add.  et  CE (del.) GH (del.) P (del. m2)  propriis  (post  sint ) E (del.) G  proprii  Ha.c.  4 DE PROPRIETATIBVS  Δ  DE DIFFERENTIA  C; de Porph. cf. ad p. 105, 16  5 a  om. GHLNR, s. l. Pm2 il m2  6 et  om R SΣ ; Porph. p. 20, 17 cod. BM   χαί  proprium—praedicari  (p. 339, 2) ]  LR Q , om. cett.  et  om. Porph.  9 post  R Σ  post  enim  add.  ante  L  ut]  Porph. p. 20, 20   Ινα xai ( Voti   om. cod. M)  ut sit  s. l.  \ m2  11 potestate]  Porph. p. 20, 21   xol δονάμε:  12 enim] uero  L est  om. R  non uero semper]  ΔΛΠΨ   edd. Busse  non semper autem  Γ2Φ  semper autem non  LR; Porph. p. 20, 22   γελά δέ oix αεί ;  cf. infra p. 340, 4  13 quamquam  (uel  quan- )   L ΓΦ  natura  in ras.  A m2  14 termini] definitiones  (uel  diff- ) LR ΓΦ , ad  termini  s. l.  ł diffinitiones  \ m2 differentes]  ΓΑ  differentes sunt  Δ»ιίΠ2Φ  differunt  LR s m2 ii} ; Porph. p. 20, 23   ων οί οροί διάφοροι ; quo- rum termini, id est diffinitiones  ( id est diff.  om. p. 94)  sunt differentes  ( sunt differentiae  p. 488) , ipsa quoque sunt differentia  Abaelard.  15 spe- cies  R, post  speciei  s. l. diffinicio  A m2  quidem]  R T\ m2 (in ras.)  Ψ brm Busse in adn.,  semper  \ m1 (ut uid.)  All/ p Busse in contextu , esse semper  L  quidam terminus  Σ ; quidem sub genere semper esse  Φ   ante sub  add.  et  L A  Busse; Porph.   εατιν δέ ειδοος uev το οπδ τό γένος είνα:   ribus et differentibus numero in eo quod quid est praedicari et cetera huiusmodi, proprii uero quod est soli et semper et omni adesse.    Primam proprii et speciei differentiam dicit quoniam species  potest aliquando in alias species deriuari, id est potest esse genus, ut animal, cum sit species animati, potest esse hominis genus. sed nunc non de his speciebus loquitur quae sunt specialissimae, atque hunc confundere uidetur errorem, quod cum de his speciebus dicere proposuerit quae essent ultimae,  nunc de his quae sunt subalternae et saepe locum generis optineant disserit. propria uero nullo modo esse genera possunt, quoniam specialissimis adaequantur; quae quoniam genera esse non queunt, nec propria quae sibi sunt aequalia, genera esse permittuntur. Rursus species semper ante subsistit  quam proprium—nisi enim sit homo, risibile esse non poterit —, et cum ista simul sint, tamen substantiae cogitatio praecedit proprii rationem. omne enim proprium in accidentis genere collocatur, eo uero differt ab accidenti, quia circa omnem solam quamlibet unam speciem uim propriae praedicationis  continet. quodsi pviores sunt substantiae quam accidentia, species uero substantia est, proprium uero accidens, non est dubium quin prior sit species, proprium uero posterius. Dis- 1 est] sit  2   edd.; cf. p. 340, 13. 341, 22  2 praedicari]  Porph. p. 21, 2   ■κατηγορούμενον είναι post  huiusmodi  add.  praedicari  I m1, del. m2  pro- prium  R  quod est  om.   ΓΦΨ ,  del.  \ m2;Porph. τό μονω προοείνα;.  3 soli et omni et semper  Λ  semper et soli et omni  2  scilicet semper et omni  Gm1, ante  scilicet  in mg.  sali et semper  m2  4  ad  dicit  s. l.  dicunt  Έ  5 diriuari  EGNPR  7 specialissimae sunt  H  8 hunc  s. l. L  nunc  N  hinc  C  hic  Em2  uidetur confundere  C  9 essent] sunt  L  11 genera  s. l. Lm2, ante  esse  HRS  13 non queunt] nequeunt  L  non pos- sunt  NR  14 permiitunt  C ( ur  er.) N  species—subsistit] species est semper ante  C  15 homo sit  LPR  16 ista] ita  CLa.c.  18 uero]  Brandt  enim  codd. edd.  accidente  CNR  quia] quod  L  19 speciem  om. H propriae  del. Lm2  20  post  continet  add.  accidens autem quando continet, ad multas species potest diffundi  EL. (in mg. inf. m2) Pbrm  21 accidens—proprium uero  om. R  22 uero  om. EG, s. l. Pm2  Decernuntur  GHLP  Disterminantur  E   cernuntur etiam species a propriis actus potestatisque natura; species enim actu semper indiuiduis adest, propria uero ali- quotiens actu, potestate autem semper. Socrates enim et Plato actu sunt homines, non uero semper actu rident, sed risibiles esse dicuntur, quia tametsi non rideant, ridere tamen poterunt.  natura itaque species et proprium semper subiectis adest, sed actu species, proprium uero non semper actu, uelut dictum est. At rursus quoniam definitio substantiam monstrat, quorum diuersae sunt definitiones, diuersas necesse est esse substantias; speciei uero et proprii diuersae sunt definitio-  nes, diuersae sunt igitur substantiae. est autem speciei definitio esse sub genere et de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicari; quam superius frequenter expositam nunc iterare non opus est. proprium uero non ita : definitur : proprium est quod uni et omni et semper speciei  adest. quodsi definitiones diuersae sunt, non est dubium spe- ciem ac proprium secundum naturae suae terminos discrepare.      Speciei uero et accidentis commune quidem est de pluribus praedicari; rarae uero aliae sunt communi-20  18—p. 341, 2] Porph. p. 21, 4-7 (Boeth. p. 50, 3—6).   1 species  om. EHP, s. l. Lm2, ante  etiam  G  a propriis  in ras. Lm2,  a  (om. R)  proprio  Pm2R  actu  CHLm1N  2  post  uero  add.  non semper  ( actu  s. l. add. Lm2)  sed  EGLPR  3 actu  om. EG, del. R, s. l. Lm2  autem semper  om. EGR  4  ante  sunt  add.  semper  N  5 quia  om. HN, s. l. Lm2  tametsi] etiamsi  C  potuerunt  N  pos- sunt  R  non  (del. E)  poterunt  EG  6  ante  species  add.  e(??)  R, ras. L  ad- est] adsunt  H  7 uelut] ut  NR  9 diuersas—definitiones  (10) om. N  11 igitur—speciei] substantiae igitur. est speciei autem  H  substantiae— de pluribus  in mg. inf. Gm2  speciei definitio] diffinitio speciei spe- cies  C  12 sub genere esse  HΝ  14 opus non  H  ita definitur,  om.  non  Hbrm, er. E;  ita, <sed> definitur  Brandt, cf. p. 347, 4  15 spe- ciei  om. H  18  de inscript. ap. Porph. cf. ad p. 102, 7  19 uero] autem  H  est quidem  C  20 sunt aliae  HRT   tates propterea, quoniam quam plurimum a se distant accidens et id cui accidit.    Speciei atque accidentis similitudinem communem dicit de pluribus praedicari; de pluribus enim dicitur species, sicut et  accidens. raras uero dicit esse alias eorum communiones idcirco, quoniam longe diuersum est id quod accidit et cui accidit. cui enim accidit, subiectum est atque suppositum, quod uero accidit, superpositum est atque aduenientis naturae. item quod supponitur substantia est, quod uero uelut accidens  praedicatur, extrinsecus uenit. quae omnia multam eius quod est subiectum et eius quod est accidens differentiam faciunt. tamen inueniri etiam aliae possunt speciei et accidentis inse- parabilis communitates, ut semper adesse subiectis — aeque enim homo singulis hominibus | semper adest et inseparabilia  p. 110   accidentia singulis indiuiduis praesto sunt —, et quod sicut spe- cies de his quae indiuidua continet, aeque de pluribus accidentia indiuiduis praedicantur; nam homo de Socrate et Platone, nigrum uero atque album de pluribus coruis et cygnis quibus accidit nuncupatur.      Propria uero utriusque sunt, speciei quidem in eo quod quid est praedicari de his quorum est species,  20—p. 342, 15] Porph. p. 21, 8—19 (Boeth. p. 50, 7—20).   1 quam  om. ΗL ΣΑΛ'Ψ  (recte?), s. l.   Π m2 , quem  R  qui  (ut uid.) N; Porph. p. 21, 6   itXststov  distant  ante  a se  Δ   (s. l. m2)   A , a se  om. N  2  ante  accidens  add.  et  Γ id  om.   12 ,  s. l. Pm2 , hoc  Σ ;  Porph. p. 21, 7   *a\ το m οομβέβηχβν  accidunt  Em1P  3 atque] et  HL  accidens  Έ  dicit  om. E, s. l. Lm2Pm2  de  s. l. Lm2  5 dicit alias,  post er.  esse  uid. C  7 atque] et  H  8 est  om. EGHP  adueniens  EPm1  accidentis  N  11 et eius] eius est  E  12 possunt) sunt  E  insepa- rabiles  Cm1GP  13 subiectis semper adesse  HN post  adesse  add.  possunt  E  15 sicut]  L (s. l. m2) Rbrm, om. cett. codd. p  16 conti- nent  H ante  accidentia  add.  ut  CH  17 praedicatur  G  et  om. EGHPR  20 ET  om. R de inscript. ap. Porph. cf. ad p. 105, 16  21 in] et  C 22 est] sunt  Hm1  sit  Σ  praedicare  EGm1P , praedi- catur  2  de his  om.   Σ  hiis  Φ  quorum—in eo] in eo accidentis autem quorum est species  Φ   accidentis autem in eo quod quale quiddam est uel aliquo modo se habens; et unam quamque substantiam una quidem specie participare, pluribus autem acci- dentibus et separabilibus et inseparabilibus; et spe- cies quidem ante subintellegi quam accidentia, uel si  sint inseparabilia — oportet enim esse subiectum, ut illi aliquid accidat —, accidentia uero posterioris generis sunt et aduenticiae naturae. et speciei quidem participatio aequaliter est, accidentis uero, uel si inseparabile sit, non aequaliter; Aethiops enim alio  Aethiope habebit colorem uel intentum amplius uel remissum secundum nigredinem.    Restat igitur de proprio et accidenti dicere; quo enim proprium ab specie et differentia et genere differt, dictum est.   Quod nunc proprium speciei et accidentis se exequi polli- cetur, tale proprium intellegendum est quod, ut superius dictum est, ad comparationem dicitur differentium rerum. species enim in eo quod quid est praedicatur, accidens uero in eo quod quale est. qua differentia non ab accidentibus solis species  2 unam quamque—4 inseparabilibus] Abaelardns II, Introduci. ad theolog. p. 89; Theolog. christ. p. 479. 17 superius] p. 297, 9. 301, 5.   1 quale] quale est  N  quidem  CEm1  quidam  m2  uel—habens  om. CEGHN  2 aliquo modo] quomodo  ΓΦ ;  Porph. p. 21, 10   πώς ;  cf. supra p.128, 10 adn.  et—nigredinem  (12) ]  LR Q , om. cett.  3 unam  R  qui- dem  om. Abaelard.  participari  L ΓΔΣ a.c. Φ praedicari  \ m1  autem] uero  L Abaelard.  4  tert. et om.   Γ  5  post  quidem  add.  sane  L ΓΛ  (s. l. m2)  ΙIΣΦ  Busse, om. R ΛΨ  cum Porph. p. 21, 12 post  subintel- legi  add.  potest  Lpr  possunt  bm; Porph.   w\ τά piv είδη προεπινοεΐται  uel  om.   Φ   ad  uel si  s. l.  etiamsi  K m2  6 inseparabilibus  R  8 generis  om. R  aduentiuae  R  9 aequalis  Λ  accidens  L T m1 A m1  10 alio Aethiope]  Porph. p. 21, 16   ΑίίΚοπος  13 accidente  HNR ΔΣ , ante er.  de  P  14 enim] etiam  H  a]  cod. Q Bussii (om. cett.) edd. (cf.p. 344, 9),  ab  scr. Brandt  speciei  Ca.r.EGR  et  om. CEGHPR differen- tiae  GR  15 differt  om. L  differat  ΦΣ  distat  R  est dictum  H, add.  in illorum differentiis ad ipsum  2  18 dicatur  R  20 est  om. GP, post add.  praedicatur  H   discernitur, uerum etiam a differentiis ac propriis, nec solum species ab eisdem, uerum etiam genus. praeterea quod species in eo quod quid est praedicatur, accidens uero in eo quod quomodo sese habeat, id quoque commune est cum genere;  genus quippe ab accidenti in eo quod quid est et quomodo se habeat praedicatione diuiditur. Item unam quamque substantiam una uidetur species continere, ut Socratem homo, atque ideo Socrati una tantum propinquitas est species hominis. rursus indiuiduo equo una species equi est proxima, itemque  in ceteris; uni cuique enim substantiae una species praeest. at uero uni cuique substantiae non unum accidens iungitur; uni cuique enim substantiae plura semper accidentia super- ueniunt, ut Socrati quod caluus, quod simus, quod glaucus, quod propenso uentre, et in aliis quidem substantiis de numero  accidentium idem conuenit. Dehinc semper ante accidentia species intelleguntur. nisi enim sit homo cui accidat aliquid, accidens esse non poterit, et nisi sit quaelibet substantia cui accidens possit adiungi, accidens non erit. omnis autem sub- stantia propria specie continetur. recte igitur prius species,  accidentia uero posterius intelleguntur; posterioris enim sunt, ut ait, generis et aduenticiae naturae. nam quae substantiam non informant, recte aduenticiae naturae esse dicuntur et posterioris generis; his enim substantiis adsunt quae ante dif- ferentiis informatae sunt. Rursus quoniam species substantiam  1 decernitur  Rm2  ac  s. l. Lm2  a  EGH  et a  P  3 praedicatur  post  species  H  quod  om. E, s. l. Gm2  4 se  EP  habet  LR  id—habeat  (6) om. R  est commune  H post  est  add.  speciei  L   (s. l. m2) brm  5 accidenti]  edd.  accidente  codd.  quod  om. E  8 propinquitate  EPm1  propinqua  L  species est  LR  9 est equi  H  item  H  10 una—substantiae  in mg. Hm2  13 quod simus  om. C  15 accidentium  ex  accommodantium  Hm2 post conuenit  add.  dicere  R  ante  om. C  16 accidit  CHLNPR, recte?  18 autem  del. Lm2  enim  P  20 uero  om. R, in mg. Lm2  posterius] postremo  R  enim] uero  CE  21 generis ut ait  CR  nam quae] nam  Rm1  namque  EG  nam quia  CN  22  ante  recte  add.  ideo  EGL (s. l. m2) P (del. m2)  esse  om. H   monstrat, substantia uero, ut dictum est, intentione ac remis- sione caret, speciei participatio intentionem remissionemque non suscipit. accidens uero uel si inseparabile sit, potest inten- tionis remissionisque cremento et detrimento uariari, ut ipsum inseparabile accidens quod Aethiopibus inest, nigredo. potest  enim quibusdam talis adesse, ut sit fuscis proxima, aliis uero talis, ut sit nigerrima.    Restat nunc proprii communiones ac differentias persequi. sed quo proprium differat a genere uel specie uel differentia. superius demonstratum est, cum quid genus uel species uel  differentia a proprio distaret ostendimus. nunc reliqua ad com- munitatem uel differentiam consideratio est, quid proprium accidentibus aut iungat aut segreget.      Commune autem proprii et inseparabilis accidentis  est quod praeter ea numquam constant illa in quibus considerantur; quemadmodum enim praeter risibile non subsistit homo, ita nec praeter nigredinem sub-  14—p. 345, 2] Porph. p. 21, 20-22, 3 (Boeth. p, 51. 1—6).   1 demonstrat  H  ac] et  H  2 remissionemque] ac remissionem  H  3 si  s. l. CLm2  4 in  (del. m2)  incremento  H  decremento  R edd.  uti  R  ita  E  5  ante  nigredo  add.  ut  Hm1N  id est  s. l. Hm2  6 fu- scis]  La.c. edd.  fuscus  Lp.c. et cett.  aliis uero]  edd.  uero aliis  codd. ( uero  s. l. Lm2)  8  post  proprii  add.  et accidentis  N  ac] ad  EGLm1  9 quo]  Cm2 (part. ras. corr.)  quod  Cm1EGLm1NPR  quid  HLm2; cf. p. 342, 13  10 quid] quod  N  quicquid  E  uel differentia uel species  H  11 a  s. l. Lm2  12 uel] et  N  quod  E  quae  Hm2LR  13 iungit  EGHm1LPm1R  segregat  LPR  separet  N  14 ACCIDEN- TIS]  Porph. p. 21, 20 cod. Μ   σομβεβηχοτος ,  cett.   τοδ άχωρίστοο σομβεβη- αότος ;  de Porph. cf. etiam ad p. 102, 7  16 est  post  commune  L, ante  accidentis  AA m1  accidentis inseparabilis est  m2  praeter ea] prop- terea  Φ  constant]  CH Busse (coll. p. 159, 7)  consistant  EGNPR h m1 A p.c. W   edd.  consistunt  L A a. c.   112Φ  consistent  r\ m2  illa  post  quibus  N  17 quemadmodum—Aethiops  (p. 345, 1) ]  LR Q ,  om. cett.  18 ita  om.   2 ,  s. l.   A m2  subsistit] non subsistit  A m2; Porph. p. 22, 1   ΰποσταίη dv   sistit Aethiops, et quemadmodum semper et omni adest proprium, sic et inseparabile accidens.    Quoniam proprium semper adest speciebus nec eas ullo  p. 111  modo relinquit quoniamque inseparabile accidens a subiecto  non potest segregari, hoc illis inter se uidetur esse commune, quod ea in quibus insunt, praeter propria uel inseparabilia accidentia esse non possint. inseparabilia uero accidentia com- parat, quoniam, ut in specie dictum est, rarissimae sunt speciei atque accidentis similitudines. quocirca multo magis proprii  atque accidentis communitates difficile reperiuntur. accidens enim in contrarium diuidi solet, in separabile accidens atque in inseparabile, quae uero sub genere in contrarium diuiduntur, ea nullo alio nisi tantum generis praedicatione participant. quodsi proprium inseparabile quoddam accidens est, a separabili  accidenti plurimum differt, atque ideo nullas proprii et separa- bilis accidentis similitudines quaerit. sed quia ipsum proprium certis quibusdam causis ab inseparabilibus accidentibus differt, horum et communitates inueniri possunt et inter se differentiae. quarum una quidem ea est quam superius exposuimus, secunda  uero quoniam sicut proprium semper et omni speciei adest, ita etiam inseparabile accidens; nam sicut risibile omni homini et semper adest, ita etiam nigredo omni coruo et semper adiuncta est.    8 ut in specie dictum est] p, 340. 20.   1 et omni  om. H  et  om. R; Porph. p. 22, 2   παντι και άεί  2 sic  om. P  sicut  C  et  om. R  3 semper  om. H  4 quodque  Hm1  5 inter se  post  commune  H  6 ea in] eam (m  del. m2) H  insunt] sunt  R, add.  ipsa propria et inseparabilia accidentia sunt  E (del. et s. l.  glosa est  scr. m2) L (in mg. m2, om.  sunt)  P (om.  sunt) uel] et  LNR  7 possunt  EHLm2NP  uero  s. l. Cm2 ante  comparat  s. l.  proprio  Cm2, post s. l.  scil. proprio  L  8 sunt  post  accidentis  H  10  ante  accidens  add.  scilicet  E  11 enim] uero  R  12 sub genere  om HΝΡ, del. Lm2  14 quiddam  CL  quoddam  post  est  H  16 simili- tudines—accidentibus  in mg. Em2  17 causis  om. EG  rationibus  Lm2PR  18 differentiae] dissentiae uel differentiae  H  19 est ea  H  21  post  accidens  add.  est  H  22 et semper  om. H  et semper adest  s. l. Gm2 post.  et]  N edd., om. cett.     Differt autem quoniam proprium uni soli speciei adest, quemadmodum risibile homini, inseparabile uero accidens, ut nigrum, non solum Aethiopi, sed etiam coruo adest et carboni et hebeno et quibusdam  aliis. quare proprium conuersim praedicatur de eo cuius est proprium et est aequaliter, inseparabile autem accidens conuersim non praedicatur. et pro- priorum quidem aequaliter est participatio, acciden- tium uero haec quidem magis, illa uero minus.    Sunt quidem etiam aliae communitates uel proprie- tates eorum quae dicta sunt, sed sufficiunt etiam haec ad discretionem eorum communitatisque traditionem.    Proprii atque accidentis prima quidem differentia est quia proprium semper de una tantum specie dicitur, accidens uero  minime, sed eius praedicatio in plurimas diuersi generis sub- stantias speciesque diffunditur. risibile enim de nullo alio nisi de homine praedicatur, nigrum uero, quod est inseparabile quibusdam accidens, tam coruo quam Aethiopi, quae diuersa sunt specie, tum coruo atque hebeno, quae differunt generi-  bus, non tantum specie, praesto est. quo fit ut propriis quidem  1—13] Porph. p. 22, 4—13 (Boeth. p. 51, 7—17).   1 PROPRII ET ACCIDENTIS]  CP W ,  item Porph. p. 22, 4 cod. M  ( των αυτών   plerique cett. ), ACCIDENTIS ET PROPRII  cett., nisi quod  EORV II EORVNDEM  Ψ ;  de Porph. cf. etiam ad p. 105, 16  2 Dif- ferunt  CG ΔΣΦ ;  Porph. p. 22, 5   διενήνοχεν  proprium  om.   Σ  3 risi- bili  N  inseparabile—minus  (10) ]  LR Q ,  om. cett.  4 soli  L A‘l>  5 etiam] aeque  R  hebeno  plerique codd., item 20. p. 347, 7  6 proprium est  ΓΦ  7  post.  est]  ΓΔ   (del. uid.)   ΙΙΣΦΨ   cum Porph. p. 22, 8, om. LR A Busse  8 autem] uero  ΔΛ   Busse  conuersim non] nec conuersim  A  proprii  R A m2 2  proprium uero  Φ  9 aequaliter]  R 2 ,  coni. Busse , aequalis  cett.; Porph. p. 22, 9   και τών μέν ιδίων έπίτης ή μετοχή  10 hae  Δ  11 uel]  Porph. p. 22, 11   τέ καί  12 earum  C  dictae  CEGHP  hae  N  et  R  13 traditionem  ex  distractionem  E  contradictionem  Gm1  14 est  om. H  16 praedicatio eius  H  17 species  Cm1  19 diuersae  HLNPm2  diuisae  m1  20 speciei  H (ante  sunt)  N  tunc  R  nec non  Lm1  sed tum  m2  21 tantum specie] uni tantum speciei  P   conuersio aequa seruetur, in accidentibus uero minime. quoniam enim propria in singulis esse possunt atque omnes continent, species conuerso ordine praedicantur; nam quod risibile est. homo est, et quod homo, risibile. nigrum uero non ita, sed  ipsum quidem de his praedicari potest quibus inest, illa uero ad huius praedicationem conuerti retrahique non possunt; nigrum enim de carbone. hebeno, homine atque coruo prae- dicatur, haec uero de nigro minime, nam quae plurima con- tinent, de his quae continent praedicari possunt, ea uero quae  continentur, de sese continentibus nullo modo nuncupantur. Rur- sus proprium quidem aequaliter participatur, accidens remis- sionibus atque intentionibus permutatur. omnis enim homo aeque risibilis est, Aethiops uero non aequaliter niger est, sed, ut dictum est. alius quidem paulo minus alius uero  taeterrimus inuenitur.    Et de proprii quidem atque accidentis differentiis satis dictum est. restabat uero accidentis ad cetera communiones proprie- tatesque explicare, sed iam superius adnumeratae sunt, cum generis, differentiae, speciei et proprii ad accidens similitudines  ac differentias adsignauimus. fortasse autem his institutus animus et sollertior factus alias praeter eas quas nunc diximus com- munitates uel differentias quinque rerum quae superius sunt positae reperiet, sed ad discretionem atque eorum similitudines comparandas ea fere quae sunt dicta sufficiunt. nos etiam,  quoniam promissi operis portum tenemus atque huius libri seriem primo quidem ab rhetore Victorino, post uero a nobis  1 conseruetur (con  s. l. m2 ) aequa conuersio  H  2 esse presunt (pre- sunt  del. m2) H  esse  Lm1  esse habent  Lm2R  4  post post.  homo  add.  est  CLR post  risibile  add.  est  LPR  5 quibus] in quibus  R  7  ante  hebeno  add. de  H, er. uid. L  9 continentur  HN  11 proprium  post  quidem  H (s. l. m2)  quidem  om. G  12 permittatur  E  15 deter- rimus  CLN  16 proprii *  (s  er.) HL  differentiis  om. G  proprietate  E  17 accidens  G  18 replicare  EGLPR  iam] etiam  EG  enumeratae  La.c.  19 speciei] et speciei  NR  ad accidens] et accidentis  Em1La.c.R  20 his  om. NR  23  ante  eorum  add.  ad  EGLPR  24 sufficiant  HR  26 ab  in a mut. ut uid. C   Latina oratione conuersam gemina expositione patefecimus, hic terminum longo statuimus operi continenti quinque rerum dis- putationem et ad Praedicamenta seruanti.    1 conuersa  ELm1  2 continenti  om. C  quinque] V  L (in ras. m1?) edd., om. cett.  3 et  om. C  seruienti  brm  ANICII MALLII SEVERINI BOETII LIBER QVINTVS EXPLICIT SECVNDI SVPER YSAGOGAS COMMENTI  P ; FINIT. EXPLICIT EDITIONIS SECVNDAE COMMENTARIORV LIBER QVINTVS FELICITER. AMEN  (er. uid.)  DEO GRATIAS  C ; ANICII MANLII SEVERINI POETII  (sic)  ILLV- STRIS CONSVLIS EXPLICIT LIBER  L ; ANICII. MANLII. SEVERINI. BOETII. (A. M. S. B.  N ) V. C. ET ILL. (I LL S.  N ) EXCONS. (EXCS  N ) ORD. PATRICII. (ΈΧC.—PATR.  om. G)  IN ISAGOGAS (YS-  EG)  PORPHYRII (I  pro  Y  N)  IDE. INTRODVCTIONES (-NE  E)  IN CATE- GORIAS (KATH-  N)  A SE  (om. N)  TRANSLATAS. (-TĘ  E , IDE— TRANSL.  om. G)  EDITIONIS (EDΙCΤ-  E , AED-  N)  SCDĘ LIBER V (QVINTVS  N)  EXPLICIT  EGN, add. TIBI PAX. AMEN.  E ; QVINQVAE  (sic)  FIT OPTATVS HIC FINIS ISAGOGARV  R; subscriptione caret H, item e codd. Isagogen tantum a Boethio translatam continentibus ΓΛΣΦΊ’   (nisi quod in   Φ   recens quaedam est); post  traditionem  p. 346, 13   habent  EXPLIC. LIB. HISAGOGARV PORPHIRII  Δ , EXPLICIT  Π.  gradatimfoliacontrahit.Videturhæcnonminusdilatatio ne,contra ionesfoliorumhonoraresolem,quamhominesgenarumgestu,moru labiorum.No folumuero'inplantis,quæueftigiumhabentuitæ,fedetiaminlapidibusaspicerelicet,imitations, & participationemquandamluminumsupernorum,quemadmodumhelicislapisradijsaureisso laresradiosimitatur.lapisautem ,quiuocaturcælioculus,uelsolisoculus,figuram habetfimilēpu pillæoculi,atqsexmediapupillaemicatradius.lapisquoqueselenitus,idestlunaris,figuralung cornicularisimilis,quadamsuimutationelunaremfequiturmotum.Lapisdeindeheliofelenus,id estsolaris,lunarisózimitaturquodãmodocongreffum folis,&lunæ,figuratcscolore.Sicdiuinornm omniaplenafunt, terrenaquidemcælestium, cæleftiauerosupercælestium p,roceditæquilibetor d o r e r u m u s o a d u l t i m u m . Q u æ e n i m s u p e r o r d i n e m r e r ü c o l l i g ū c u r i n u n o , h æ c d e i n c e p s dilatan turindescendendo,ubialiæanimæsubnuminibusalñsordinantur.Deinde& animaliafuntsolana multa,uelutleones,& galli, numiniscuiusdamsolarisprofuanaturaparticipes, undemirum est,quantum inferioraineodem ordinecedantsuperioribus,quamuismagnitudine,potentias n o n c e d a n t. h i n c f e r u n t g a l l u m t i m e r i å l e o n e q u a m p l u r i m u m , & q u a f i c o l i . c u i u s r e i c a u s a m a m a tería, sensuueassignarenonpossumus,sedsolumabordinissupernicontemplatione. quoni amuidelicetpræsentiafolarisuirtutisconuenitgaltomagisquamleoni:quod& indeappare  1928 Marfil. Ficin.in InterpreteMarsilioFicinoFlorentino. Vemadmodum amatoresabipsapulchritudine,quæcircasensumapparet,addiuinam paulatimpulchritudinemrationeprogrediuntur:fic& sacerdotesantiqui,cùmconli, derarentinrebusnaturalibuscognacionemquandamcompassionemç;aliorumadalia &manifestorum aduiresoccultas,& omniainomnibusinuenirent,facrameorumscien quicquidest,pulchrumeft,&bonum eft.etiamsiindecorporissequaturincommodum.Corpus enim nonparshominis, fedinftrumentum:instrumentiuero'malumnonpertinetadutentem. Quomododifferantduohæc,fcilicetfecundumfeipfum,& quaipsum. Ietioneseiusmodi,fcilicetsecundum feipsum,& quaipsum ,etiamapudAristotelemdistin, D g u u n t u r . Q u o d e n i m s e c u n d u m s e i p s u m a l i c u i c o m p e t i t , p o t e s t e i n o n c o m p e t e r e p r i m o. Quodautemquaipsumconuenispræterid,quodconuenit,secundumseipfumeciam primo competitei,atqueadæquatur.Pulchrumigitur,ficommensurationisanimæcausaest,atq;obhoc ipsumdiciturpulchrum,efficito,utmeliusinanimadomineturdeceriori,perficitąnos,& animæ deformitatempurgat:hacipfarationebonum est, nonquidemperaccidens,fedquarationepul. chrum .fienim qua pulchrum estcommensuratum ,eft& bonum.Bonãenim estmensura cercéquá pulchrum est,exiftit& bonum.Similiter turpe,qua turpe,malum est.N a m qua curpe eft,informe est qui 1   quiagallus,quafiquibufdáhymnisapplauditfurgentisoli,& quafiaduocat,quãdoexantipodum mediocæloadnosdeflectitur,& quando nonnullisolaresangeliapparueruntformiseiusmodi p r æ d i c i , a r c f, c u m i p f i i n s e f i n e f o r m a e s s e n t, n o b i s t a m e n , q u i f o r m a t i s u m u s , o c c u r r e r e f o r m a t i. N o nunquam tione. Quæfecundumfefuntincorporea,nonlocalicerpræsentiacorporibus,adsunt eis,quotiescunqueuolunt, adillauergentia, atquedeclinantià,quatenusuidelicetnaturaliteradea uergunt,arqueinclinantur. Sed enim cum nonadfintlocaliaconditionecorporibus,habitudine quadam eisadfunt.Quæfecundumsesuntincorporea,certenonpersubstantiam,&peressentiam corporibusadsunt.Non enim corporibuscómifcentur.ueruntamenexipsainclinatione,quasimo mentouisquædamsubfiftitindecomunicataiam propinquacorporibus.Ipsanamqinclinatiose. cundamquandamuimsubstituítcorporibusiampropinquam. mæ,fecundữcorporafuntdiuisibiles.Nonomne,quodagitinaliudappropinquatione,&ta &ufacit,quodfacit,fedetiam qupæropinquarido,& tangendofaciuntaliquidfecundumaccidens, nonutunturpropinquirate.Animacorporialligaturconuersionequadam adpassionesprouenien resacorpore.Rursum foluiturquatenusacorporenihilpatitur.Quodnaturaligauit,hoc&ipsa naturasoluit.Rursusquodconciliauitanima,hoc& animadirimit.Naturaquidem corpusinanimadeuincit,animaueroseipsamincorpore.Quamobrem natura corpusab anima separaczanimaueroseipsam àcorporesegregat,  saclia usmodi .Qui 1 Proc.De Sacrif.& Magia. 1929 ICOR bada mler : in: no.N enlos ur,but aliano compiz quider Locum siuecausisadintelligibilianosducentibus. MARSILIO FICINO INTERPRETE. Denatura,e alligatione,o solutioneanime. Nimaquidemmediüquiddameftintereffentiam indiuiduam,arqueessentiamueracorpora A diuisibilem.Intellectusautem essentiaest,indiuiduafolum .Sedqualitates,materialesqfor lael,ea 703 ncense garia 1,fiu ucent oxd zateni XOM etiam dæmones nisisuntsolares leoninafronte.quibuscum gallusoböceretur,repente disparuerunt.Quodquidemindeprocedit,semperquæineodem ordineconstitutainferiorafunt, reuerentursuperiora:quemadmodum plerişintuentesuirorumimaginesdiuinorum,hocipsoas. pe&uuererisolentturpealiquidperpretare.Vtautemsummatimdicam,aliaadreuolucionessolis correuoluuntur,ficutplantæ,quasdiximus:aliafiguramsolariumradiorumquodammodoimitan tur, utpalma,dactylus:aliaigneamsolisnaturam,utlaurus:aliaaliudquiddam uideresanelicetpro prietates,quxcolligunturinsole,passimdistribucasinsequentib.insolariordineconstitutis,scilicet angelis,dæmonibus,animis,animalibus,plantisatque lapidibus.Quocircasacerdotijueterisautho resàrebusapparentibussuperiorum uiriumcultumadinuenerunt,dum aliamiscerent,aliapurifi c a r e n t. M i s c e b a n t a u t e m p l u r a i n u i c e m , q u i a u i d e b a n t f i m p l i c i a n o n n u l l a m h a b e r e n u m i n i s p r o prieratem,nontamenfingulatim,sufficientemadnuminisiliusaduocationem.Quamobrem ipfa multorum comixtioneattrahebantsupernosinfluxus: acßquodipficomponendounumexmul tisconficiebant,assimilabantipfiuni,quodestsupermulta,constituebantæftatuasexmaterñismul tispermixtas:odoresquoqcompositoscolligentes:arceinunum diuinafymbola,reddentesísun um tale,qualediuinumexiftitsecundum effentiam,comprehendens,uidelicetuiresquamplurimas. Quorum quidemdiuisiounamquamg debilitauit,mixtiouerorestituitinexemplarisideam.Non nunquam ueroherbauna,uellapisunus,addiuinumsufficitopus.SufficicenimCnebison,ideftcar duus,ad fubitam numinis alicuius aparacionem ,ad custodiam uerò laurus.Raccinum ,ideftgenus uirgultispinosum,cepa,squilla,corallus,adamas,laspis,fedadpræsagiumcortalpæ,adpurificatio. nem uerosulfur,&atosmarina.Ergosacerdotespermutuam rerumcognationem,compassionem'. conducebant inunum,perrepugnantiam expellebantpurificantes,cum oportebat,sulfure,atque asphalto,idestbitumine,aquaaspergentesmarina,purificatenimsulfurquidempropterodorisa cumen,aquaueromarinapropterigneamportionem,& animaliadrjsindeorum cultucongruaad hibebant,cxtera'tsimiliter.Quamobrem abës,atoßsimilibusrecipientesprimumpotentiasdemo num ,cognouerunt,uideliceceasesseproximasrebus.actionibus naturalibus:atq;perhæcnatura lia,quibus propinquantinpræsentiamconuocarunt.Deindeàdæmonibusadipfasdeorumuires actiones&processerunt,partimquidemdocentibusdæmonibusaddiscentes,partim ueroindustria propriainterpretantesconuenienciafymbola,inpropriam deorumintelligentiamascendentes, a c d e n i q p o f t h a b i t i s n a t u r a l i b u s r e b u s, a c t i o n i b u s q u e , a c m a g n a e x p a r t e d æ m o n i b u s in d e o r u m feconfortium receperunt. PORPHYRIVS DE OCCASIONIBVS, Denaturacorporeorum,atqueincorporeorum. Mnecorpuseftinloco,nullumuerocorum ,quæfecundūsesuntincorporea,uelaliquid tale, estinloco.Quæ secundumsesuntincorporea,eoipso, quodpræstantiusestomni corpore,atqueloco,ubiquesunt,nondistantiquidem,sedindiuiduaquadam condi USCE inuss sdina labor Pt,imi adns aberi is,fip liol Sicdi liatiei ,unto 10,p Omnia MMM $   Omniaquodammodosuntinomnibusproconditionecorum,quibusinfunt. On fimiliteromniainomnibusintelligimus,sedpropriesehabetadomniauniuscuíused sentia:intellectuquidem intelle&ualiter,inanimauero'rationaliter:inplantisseminarie,in corporibusimaginariè:ineodem (quodhisomnibussuperiuseft,modoquodamfuper intellectuali,atquesuperessentiali. essentiæ,aliatandem naturx supe rioris,aliaanimæ,aliaintele&ualis:uiuuntenim& ila:etfinullumeorum,quæabiplisexi ftunt,uirameisfimilemsorciatur. aliaueropartimquidemfle&tunturadila,partimetiamnonflestuntur.aliacandem folumde flectunturadgenituras,neqzinterimadsereflectuntur. p e r , e d u c e r e. A n i m a q u i d é h a b e t o m n i u m r a t i o n e s . A g i t a u t ē s e c u n d ã e a s ,u e l a b a l i o a d e x peditionemeiusmodiprouocata,uelipfafeipfamintusconuertensadrationes,& cum abaliopro uocatur,tanquamadexternacommititintroducerefensus:cum uero'ingredicurinseipsam,adintel ligentiasperuenit:necigitursensusextraimaginationemfunt,necß,utdixeritaliquis,intelligence quatenus competuntanimali Animaeftimmortalis. ANimaeftessenciainextensa,immaterialis,immortalis,in'yitahabenteaseipsauiuere,arosese fimiliterpossidente. Passioanimæ,atquecorporisestlongediuersa. Liudestpaticorpora,aliudincorporea.passioenim corporụm cum transmutationecötingit passiouero'animęestaccommodatioquædam,'&affe&ioadremipfam,&a&ioquædã,nullo modofimiliscalefationi,frigefactioniącorporum,quamobrem sipassiocorporū,cũtrans mutatione fit,dicendum eftomnia incorporea essepassionisexpertia.Quæ enim a'materia,corporf busipfeparatasuntadu,eadempermanent:quæueromateriæcorporibus propinquant,ipsaqui d e m n o ns u n t p a s s i u a , s e d i l l a , i n q u i b u s h æ c a p p a r e n t , p a t i u n t u r , q u á d o e n i m a n i m a l s e n d t , a n i m a quidam fimilis esseuideturharmoniæ cuidam separatæ ex seipsam chordas mouenti cötemperatas Corpusaữrsimileharmonię,quæ inseparabilisinestchordis,fedcausamouendieffeuideturanimal proptereaquodfitanimatū, quodquidemsimileeftmufico,exeoquodfitcõcinnum ,corporaueros quæperpassionesensualempulfantur,fimiliacontemperatischordisapparent.Etenim ibinonhar m o n i c a q u i d é s e p a r a t a p a t i t u r , f e d c h o r d a . & m o u e t f a n e m u f i c u s p i p f a m , q u æ s i b i i n e f t ,h a r m o n i ā: newtamenchordarationemusicamouereturetiam ,fiuelletmusicus,nifiharmoniaipsaiddixit. nataestquemadmodum corpora,sed fecundum nudam ad corporapriuationem .Quãobrenihil prohibetinterila,aliaquidemesseessentia,aliauerònonessentia:& aliarursusantecorpora,alia ueròunacumcorporibus:itemaliaacorporibusseparata,aliauerònonseparata.Prætereaaliasecun dum sesubfiftentia,aliaueroalijs,utsintindigentia:aliadeniqa&tionibus,uitisfexfemobilibuse adem ,sedaliauitis,&qualibusa&tionibusquodammodo permutata,nempefecundumnegatione corum ,quæ ipfanon sunt,non secundum assistentiameorum ,quæ sunt, appellatur. PussionesmaterieprimeassignatesimiliteràPlotino. Ateriaepropriaapudantiquoshæcfuntincorporeaquidem,diuerfaenimeftàcorporibus, prætereauitæexpers,negintelle&tus,neckanima,nequealiquidfecundum seuiuens.Itêin, formis,permutabilis,infinita,impotens.Quapropternec ens,feduerum nõens,imagomol lisapparens, quoniãqd primo estinmole,eftipfum impotens,itéappetitio fubfiftentia.& ftansno instacuprætereafempinseapparens,tum paruum,rum magnữ,tūminus,tūmagis,tūdeficiens,cī excedens,quoduefiatfemp,maneatuerònunquã,nec tamen aufugere potens,quippecútotius entisfitdefectus.Quamobrēquicqd pmittat,mentitur:aciimagnūappareant,interimeuadirparo uũ,quafienimludusquidãeftinnõensaufugiés,Fugaenimeiusnófitloco,seddūabencedeficis, Quamobren M  1930 Marsil. Ficin.in infummiseftunitascumuirtute:ininfimismultitudocumdebilitate. Ncorporeæfubftantiædescendentesquidemdijudicentur,atqßinsingulapotentiædefe&umul tiplicantur, adscendentesautemutuntur,atæfimulrecurruntinunumcopiapoteftatis. Quegenerant,partimconuertunturadgenita,partimminimè. Mne,quodsuaessentiagenerat,aliquidsedeteriusgenerat,atqomnegenitüadgenitorina O curaconuertitur,eorumuero,quægenerant,aliaquidēnullomodoconuertunturadgenitas Sensus,imaginatio,memoria intelligentia. Emorianonestimaginationüconferuatio quædã,ámdtāmpastwintorspobaristalevias'spoluéwata, sedeftipfaspropofitiones,fiueproductionesina&um corū,quæmedicatuseftanimusnu :nec rurfusabsq inftrumentorum sensualium passionesuntfenfus, lic& intelligentiænon abfqimaginatione,nisianalogaconditiofit:quemadmodumfiguraconse quensquiddam estadanimalsensuale,ficphantasmaaliquidconsequensadintelligentiamanima intelligentisinanimali. 1 N Despeciebusuite. On solumincorporib.æquiuocaconditioest,sedipsaetiãuitamultipliciterprædicatur eftenimuitaplantæ,animalisalia:aliarursusintellectualis Alia IN N > M Dedifferentijsincorporeorum. Pfaincorporeorīappellationõfecundumcommunicatēunius,eiusdemişgeneris,siccognomi.   quamobremquæineasuntimagines,insuntindeteriorirursusimagine,quemadmodüinspeculo idquodalibilitumeft,apparetalibi,&ipsumspeculumplenumeseuidetur,nihilqzhabet,dumom nia uidetur habere. funt,autnonfunt,quappternullacorūpaticur:quodempatienseft,nonoportetitafehabere, fedefetale,ütalterariqueat,atointeriminqualitatibus eorī,quaeingrediuntur,ficásinferuntpas fionem.Eiñamos quodinestalterationonaqualibecaccidit,nexigicurimaceriapacítur.Nāsecun dum feipfam qualitatisestexpers,nesprorsusformx,quaefuntinca,ingrediences;uicissim'sexe, untes,fedpassioficcircacompofitum,&uniuselseincomposicioneconfiftit,hocenim incontrarijs uiribus& qualitatib.ingredientiữzinferentiumąpassioneperfeuerareinfubfiftendouidetur.Quá o b r e m e a q u o r u um i u e r e e f t a b e x t e r n i s , n e c a s c i p l i s , n i m i r u m & u i u e r e , & n o n u i u e r e p a t i p o f l u n t. S e d e a , q u o r u m e s s e i n u i t a c o n f i f t i t, p a s s i o n i s e x p e r t e , n e c e f f a r i u m e f t p e r m a n e r e s e c u n d u um i t a m , quemadmodūuitäuacuitaticonuenit& non pac,quarenus& uitæuacuicas.Icaqficutpermutari, acpaticöpofitoexmateria,forma côtingit,ideftcorpori,neqstamenidmateriæ accidic,ficujuere, areinterire,patiofecundumhocipfum incompofitum exanima,corporeæperspicitur,neqstamé animæidcontingit,quoniam animanoneftaliquidexuita,& nonuitaconflatum,seduicafolum constatquippe,cumfimplexessenciafit,ipfaqsanimæ ratiofitnaturaipfasemouens. Omnisintellectuseftomniformis. Ntelle&ualisesentiaficinpartibuseftconfimilis,ut& inparticulariquolibetintelle&u,uniuer soosintelle&ufintentia:fedintele&u quidem uniuerfaliendaeciam particulariauniuersalifint ratione:inparticulariautčincellectueciāmiuniuersaliafimulacosparticulariasintconditionequa dam particulari: Omnisuitaincorporeaquocunq;mütetur,permanetimmortalis. Nuicisincorporeispcessusmanentibusprioribusinsefirmisefficiuntur,dūnihilfuiõdunt,neos pmutantadsubstantiâinferiorib.exhibendam,quappternedquæindesubfiftūccũaliquagdi tioneueltráfmutationesubsistûr,nechoc qdēefficitur,ficutgeneratiointeritus,gmutationisą particeps,ingéciaigitur,&incorruptibiliafuntaroingčitæ,incorrupcx'ssecīdūhocipfumeffecta. Quomodointelligaturquodeftfuperiusintelectus uigilantiãmultadicatur,fedperfomnūipsum cognitioeius,peritia'oshabetur,fimilinãque f i m i l e c o g n o s c i f o l e t, q u o n i ã o m n i s c o g n i t i o , a s s i m i l a t i o q u æ d á e f t a d h o c i p f u m, q d c o g n o f c i t u r. ens uelutfalsamconcipimuspassionecă, ingentemuidelicetili,quidigrediturextraseipsum,ipfeenimquisquequemadmodumexistenter deftuere,atokperseipfumpoteftreduciadipfumnonensentesuperius,ficabence,sepsipfodigres diensiam traducituradnonens,quodentisipfiuseftcasusatqzruinia. Substantiaincorporeaestubicunqueuult. Aturacorporisnihilimpedit,quinquodfecundum feincorporeum eft,ficubicung,&quò modocunque.Sicucenimcorporiincomprehensibileest,quodmoliseftexpers, nihilą adip  Porphyr de Occasionib. 1931 Quidpatiatur,quidnon. Afsionescircaidfuntomnes,circaqdaccidit&interitus.Víaenim adinteritãeftadmissiopas fionis,acohuiusestinterirecuiuseftpaci.Incerireaūcincorporeūnullű,sedquædãinterilaaur Animaquiapereffentiameftuita,nonmoritur. yIrcaessentiam,cuiusefeconfifticinuita,& cuiuspassionesuitaquædãfunt,nimirum& morg inqualialiquauitauersatur,noninpriuationeuitæfimultota.Quoniamneqspassio,seuuita est omnino, illicadnon uiuendum ,iplaqzillicacciditorbitas. . Silloquodeftmentesuperius,perintelligentiamquidem multa dicuntur:considerantur D temuacuitatequadăintelligentiæ intelligentiameliore;quemadmodum dedormienteper NonensauteftfuperiusenteutDeus,aütinferiuscummateria. Vodnonensdicitur,auciplínosmachinamurab ipsoentealiquandoseparaci,autsuperin telligimus,dum enspossidemus.quapropterfiseparamurabente,ensipsumnon superine telligimusnon enssuperensipsum,fediamnon N sumpertiner:sicincorporeoipsum,quodmollediftenditur,nonficobftaculum & quafinon acec,nequeenim quod incorporeum eftlocalicondicionequo uulc discurritlocusenim cum mole simulexiftit,neqsrurfuscorporumlimitibuscoercecur,quodenimquomodocūqiiacetinmole,in angustumcohiberipoteft,& conditionelocalitransmutacionemagere, quodaucemestamole,mag nitudine prorsusexemptū,hocabójs,quæfuntinmole.continerinonpoteft,a'motuşilocaliper manetliberum.Igiturqualiquadam,certaquedisposicionereperituribi,ubicunquedisponitur,lo. cointereatumubique,tumnusquam simulexiftens,quapropterqualiquadamcertaqueaffe&ione uelsupercælum ,uelinpartemundiquadam apprehenditur:quandoueroinaliquamundipàřecte n e t u r ,n o n o c u l i s q u i d e m a f p i c i t u r, s e d e x o p e r i b u s e i u s p r æ s e n c i a s u a fit h o m i n i b u s m a n i f e s t a s Substantiaincorporeinullocorporecohibetur,fedproducitescamincorporeperquamse corporiapplicát. Vodeftincorpóreū,liquandoincorporecomprehendatur,nonopuseftutitaconcludatur, Q quemadmoduminparcoferæclauduntur,nullumnamquecorpuspoteftipsumficinfeco -hibere,nequeficutüterliquoremaliquemtrahit,& cohibet,autfacum,fedoportetipsum ia nd C TO MmM 4 13. fubftituere cavite   Vniaersalescausenonconuertunturadefe&tus,fedeosadfeconuertunt. V l l a s u b s t a n t i a r u m , q u æ u n i u e r f æ s u n t, a t æ p e r f e c t æ a d f u a m c o n u e r t i t u r g e n i c u r ă . O m n e s autéperfe&tæsubftantiæadgenerantiarediguntur, & idquidemadcorpusufo mundanum. 1. Quomododifferenterestubiq;DeusintelleĀus,animas Euseftubiq ,quianusquamintelle&usest:ubiq etiã,quianufquam anima.deníqueubiqet EX PORPHYRIO DE AB ftinentiaanimalium. . quinetiamcognoscitipsum,quod in feest,naturaliterperpetuo uigilans, atquefom/ num,quohicopprimitur,deprehendit. Cuinonsaneeducationem,nutritionemque trademus consentancã,tūhuius locinaturæ ,tum suiipsiuscognitioni conuenientem, Beatitudononeftdiuinorumcognitio,feduitadiuina. Eatanobiscontemplationonestuerborum accumulatio,disciplinarūquemultitudo,quemad Bmodum aliquisforteputauerit:nequeenim iracomponitur,nequeproquantitaterationūac  quare perfectioquidêaprioribusfecundafubftituitcõferuanseadeadprioraconuersa, defectusautempri oraetiam adpofterioradefledit,eficitqzuthæcipfadiligantasuperioreinterim differentia 1932 Marsil. Ficin -in substitucreuiresabipsainseipsumunioneextramanantes,quibusdescendenscorporiaplícatur,co pulaitaßeiusad corpusperineffabilēquandāsuiipsiusimpleturextenfioné,quamobrénõaliud adem ultūipfuamlligat,fedipfumcerteseipfum,nec igiturefoluitipsum corpusquãdofrangitur autinterit,fèdipsum pociusfemetipsumcnodat,quádoafamiliariergasubiectâaffectionediuercio Quodquidemcūsitperfe&umadanimāestreda&um,animam inquãintellectualem,ideoas círculouoluitur, animaueromundiadintellectumattollitur,intelle&usauteerigituradprincipio Omniaitaqperueniuntadhocipsumab extremisexordientia,quatenus facultassuppecitunicuic perueniūtinquam eleuationeadprimū, illucusą perducta:quæ quidēautexpropinquo,autex.lon ginquoeficifolet.HæcitasnonsolumappetereDeūdicipossunt,sedetiam prouiribusafequizin lubstancijsueroparticularibus,&admultalabipotentibusineftprocliuitasdeflectēsadgenicuras: ideoiginhisdeli&um dicituraccidissezinhisinfidelitaseftdamnata.Hasigiturcontaminatiplama teria,proptereaquodadhácdefledipossint,cũtamenintereaaddiuinūseualeantcôuertisse: quoniãeft&nufquā:fedDeus quidem ubique& nusquãeftcorum omnium ,quæ funtpoft ipsum.Suiueròipfiuseftfolum,ficutest,atqueuult.Intelle&usautem inDeoquidemubica eft,fedineis, quæfuntpoftipsum ,existirnusquapariter, &ubiqueanimatandeminincele&tu,acor Deo ,fimilitereftubiq ,incorporeuero'ubiqeftfimul & nusquá.Corpusaūt& inanima,& inintels lectu , & in D e o , omnia profe & o cūentia,t u m non entia ex D e o sunt,& ideonec tamēipfeDeus eft,cum entia,tum nonentia,necexistitineis.Sienimessetduntaxatubiq ipfequidéomnia,& in o m n i b u s e s s e t. A t q u o n i a m e f t , & n u s q u ã , o m n i a s a n e p e r i p s u m f i u n c f i u n t á ž r u r s u s i n i p f o , q n i a m ipfeexistitubios:diuersarursusabipfo,quoniãipsenusqua.Similiterintele&usubicexistens,atqs n u s q u ã , c a u s a e f t a n i m a r ã , a n i m a s æ s e q u e n t i ū :n e q s i p s e a n i m a e f t , n e g q u æ p o f t a n i m a m , n e q u e i n cisexistic:quoniamuidelicetnon folum ubiqueest,eorumque,quæfuntpoftipsum,sed&nusquã. Rursusanimanequecorpuseft,nequeestincorpore,fedcausacorporis,quoniam dum ubiq eftper corpussimuleft,&incorporenusquam ,processusdeniquniuersiinilluddefinit,quodnec ubiqfi mui, nequenusquamesseualet,sedalternisquibusdamuicibusutriusquefitparticeps. Giustino (filosofo) filosofo e martire cristiano Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – "Giustino martire" rimanda qui. Se stai cercando altri martiri con questo nome, vedi San Giustino. San Giustino Justin filozof.jpg Icona russa di san Giustino   Padre della Chiesa e martire    Nascita       Flavia Neapolis, 100 MorteRoma, 163/167 Venerato daTutte le Chiese che ammettono il culto dei santi Santuario principaleCollegiata di San Silvestro Papa, Fabrica di Roma (VT) Ricorrenza1º giugno, 14 aprile (1882–1968) Attributi                                                palma, libro Patrono difilosofi Giustino, conosciuto come Giustino martire o Giustino filosofo (Flavia Neapolis, 100 – Roma, 163/167), è stato un martire cristiano, filosofo e apologeta di lingua greca e latina, autore del Dialogo con Trifone, della Prima apologia dei cristiani e della Seconda apologia dei cristiani. A lui dobbiamo anche la più antica descrizione del rito eucaristico.   Iustini Philosophi et martyris Opera, 1636 Fu uno dei primi filosofi cristiani, e venerato come santo e Padre della Chiesa dai cattolici e dagli ortodossi. La memoria si celebra il 1º giugno.   La Chiesa Cattolica lo considera anche santo patronodei filosofi insieme a Caterina d'Alessandria, pur non essendo nessuno dei due nel novero dei Dottori della Chiesa.  BiografiaModifica Giustino, che spesso si dichiarava in verità samaritano, visto il suo nome e il nome di suo padre - Bacheio - sembra piuttosto di origini latine o greche. La sua famiglia probabilmente si era stabilita da poco in Palestina, al seguito degli eserciti romani che qualche anno prima avevano sconfitto gli Ebrei e distrutto il Tempio di Gerusalemme.   Come riferisce Giustino stesso nel Dialogo con Trifone, venne educato nel paganesimo ed ebbe un'ottima educazione che lo portò ad approfondire i problemi che gli stavano più a cuore, quelli riguardanti la filosofia. Racconta che la sua smania di verità lo portò a frequentare molte scuole filosofiche. Presso gli stoicinon trovò giovamento, in quanto il problema di Dio, per questa filosofia, non era essenziale. Poi frequentò la scuola peripatetica, ma anche presso questi filosofi non trovò quanto cercava. Si recò presso un filosofo pitagorico che lo sollecitò dunque ad approfondire le arti della musica, dell'astronomia e della geometria. Ma Giustino, troppo concentrato nel voler raggiungere la "verità" e la "conoscenza di Dio", reputava tempo sprecato il soffermarsi su tali materie.   Approdo al platonismoModifica Da ultimo frequentò una scuola platonica; un maestro di questa filosofia era da poco giunto nel suo paese e presso questa corrente filosofica trovò quanto credeva di cercare. «Le conoscenze delle realtà incorporee e la contemplazione delle Idee eccitava la mia mente...», dice Giustino. Si convinse che questo lo avrebbe portato presto alla "visione di Dio", che considerava essere lo scopo della filosofia. Decise di ritirarsi in solitudine lontano dalla città, ma in questo luogo appartato, secondo quanto racconta nel prologo del Dialogo con Trifone, incontra un anziano, con cui inizia un serrato dialogo, incentrato su Dio e su cosa fare della propria vita. Dopo aver dichiarato all'anziano la sua idea di Dio «Ciò che è sempre uguale a sé stesso e che è causa di esistenza per tutte le altre realtà, questo è Dio», l'anziano lo porta a ragionare su di un aspetto che forse a Giustino era sfuggito: come possono i filosofi elaborare da soli un pensiero corretto su Dio se non l'hanno né visto né udito? E porta il giovane a meditare sulle persone considerate "gradite a Dio" e dallo stesso "illuminate", i Profeti, che nel tempo avevano parlato di Dio e "profetizzato in Suo nome", in particolare la "venuta del Figlio nel mondo" e la possibilità "attraverso di Lui" di avere una "vera conoscenza del divino".[1]  Conversione al cristianesimoModifica Dopo questa esperienza, Giustino si converte al Cristianesimo e per tutto il resto della sua vita educherà i discepoli, utilizzando gli stessi schemi usati dalle altre scuole filosofiche. Oltre a questo incontro, che fu decisivo per la sua conversione, Giustino indica anche un altro fatto che lo rinfrancava nella fede: «Infatti io stesso, che mi ritenevo soddisfatto delle dottrine di Platone, sentendo che i cristiani erano accusati ma vedendoli impavidi dinanzi alla morte ed a tutti i tormenti ritenuti terribili, mi convincevo che era impossibile che essi vivessero nel vizio e nella concupiscenza».   Giustino viaggiò molto, andò a Roma una prima volta e quando ritornò vi aprì una scuola filosofica a impronta cristiana, i suoi insegnamenti insistevano molto sui fondamenti razionali della fede cristiana. Questo approccio, molto diverso da quelli tradizionali, suscitò numerose controversie sia con gli stessi cristiani sia con alcuni filosofi, specialmente con Crescenzio il cinico.   La sua fede lo porterà a subire una morte violenta. Fu condannato a morte da Giunio Rustico che era prefetto di Roma e amico dell'imperatore Marco Aurelio, fra il 163 e il 167, con queste parole:   «Coloro che si sono rifiutati di sacrificare agli dèi e di sottomettersi all'editto dell'imperatore, siano flagellati e condotti al supplizio della pena capitale, secondo le vigenti leggi.»  Di questo processo esiste ancora il verbale: Martyrium SS.Justini et sociorum VI. Giustino venne decapitato assieme a sei dei suoi discepoli, Caritone e sua sorella Carito, Evelpisto di Cappadocia, Gerace di Frigia (schiavo della corte imperiale), Peone e Liberiano.   Le sue reliquie furono traslate da Roma il 22 settembre 1791, e si trovano attualmente sotto l'altare maggiore della Collegiata di San Silvestro Papa a Fabrica di Roma, in provincia di Viterbo.[2]  Giustino fu il primo di una serie di autori cristiani che intravide in Eraclito, Socrate, Platone e negli stoicidegli autori precristiani, precursori del Cristo e da esso ispirati.[3] Anche lo Spirito Santo è identificato con Dio stesso. A suo avviso, la nozione trinitaria fu introdotta già dal platonismo.[4]  A Giustino si deve la più antica descrizione della liturgia eucaristica. Egli fu il primo ad utilizzare la terminologia filosofica nel pensiero cristiano ed a tentare di conciliare fede e ragione. Si schierò duramente contro la religione pagana ed i suoi miti mentre privilegiò l'incontro con il pensiero filosofico.   La figura di Giustino attrasse l'attenzione di Lev Tolstojil quale nel 1874 dedicò al santo cristiano una breve agiografia, Vita e passione di Giustino filosofo martire[5].   OpereModifica Dialogo con Trifone, Edizioni Paoline, Milano 1988. Le due apologie, Edizioni Paoline, Milano 2004. ( LA ) [Opere], Parisiis, apud Carolum Morellum typographum regium, via Iacobaea ad insigne Fontis, 1636. Il Dialogo con Trifone, la Prima apologia dei cristiani e la Seconda apologia dei cristiani, ci sono pervenute in un manoscritto del 1364, conservato a Parigi.[6]  La Prima apologia dei cristianiModifica «Io, Giustino, di Prisco, figlio di Baccheio, nativi di Flavia Neapoli, città della Siria di Palestina, ho composto questo discorso e questa supplica, in difesa degli uomini di ogni stirpe ingiustamente odiati e perseguitati, io che sono uno di loro.»  (Apologia Prima, I, 2) La Prima apologia dei cristiani è indirizzata all'imperatore Antonino Pio e al Senato romano. In essa compare un tema che sarà ampiamente sviluppato dall'apologetica cristiana, cioè la critica della prassi diffusa presso i tribunali romani, per la quale il solo fatto di appartenere alla religione cristiana era motivo sufficiente di condanna.   Giustino inoltre polemizza con i pagani riguardo ad alcune contraddizioni interne alla società romana, per esempio fa notare come, mentre i cristiani sono condannati a morte perché ritenuti atei, vari filosofi greci e latini sostengono apertamente l'ateismo senza conseguenze.   Interessante, poi, è il fatto che Giustino citi abbondantemente vari brani dei vangeli sinottici per esporre le dottrine cristiane; ancor più notevoli sono i tentativi dell'apologeta per convincere i pagani della verità del Cristianesimo attraverso le citazioni di autori classici sia di filosofia (come Socrate e Platone) che di mitologia (come Omero e la Sibilla) che vengono accostati a brani dei vangeli o dell'Antico Testamento.   «Sia la Sibilla sia Istaspe profetarono la distruzione, attraverso il fuoco, di ciò che è corruttibile.   I filosofi chiamati Stoici insegnano che anche Dio stesso si dissolve nel fuoco, ed affermano che il mondo, dopo una trasformazione, risorgerà. [...]   Se dunque noi sosteniamo alcune teorie simili ai poeti ed ai filosofi da voi onorati [...] perché siamo ingiustamente odiati più di tutti?   Quando diciamo che tutto è stato ordinato e prodotto da Dio, sembreremo sostenere una dottrina di Platone; quando parliamo di distruzione nel fuoco, quella degli Stoici; quando diciamo che le anime degli iniqui sono punitemantenendo la sensibilità anche dopo la morte, e che le anime dei buoni, liberate dalle pene, vivono felici, sembreremo sostenere le stesse teorie di poeti e di filosofi [...]   Quando noi diciamo che il Logos, che è il primogenito di Dio,[7] Gesù Cristo il nostro Maestro, è stato generato senza connubio, e che è stato crocifisso ed è morto e, risorto, è salito al cielo, non portiamo alcuna novità rispetto a quelli che, presso di voi, sono chiamati figli di Zeus.   Voi sapete infatti di quanti figli di Zeus parlino gli scrittori onorati da voi: Ermete, il Logos [...]; Asclepio, che [...] ascese al cielo; Dioniso, che fu dilaniato; Eracle, che si gettò nel fuoco [...] e Bellerofonte, che di tra gli uomini ascese con il cavallo Pegaso.   Se poi, come abbiamo affermato sopra, noi affermiamo che Egli è stato generato da Dio come Logos di Dio stesso, in modo speciale e fuori dalla normale generazione, questa concezione è comune alla vostra, quando dite che Ermete è il Logos messaggero di Zeus.   Se poi qualcuno ci rimproverasse il fatto che Egli fu crocifisso anche questo è comune ai figli di Zeus annoverati prima, i quali, secondo voi, furono soggetti a sofferenze. [...]   Se poi diciamo che è stato generato da una vergine, anche questo sia per voi un elemento comune con Perseo.   Quando affermiamo che Egli ha risanato zoppi e paralitici ed infelici dalla nascita, e che ha resuscitato dei morti, anche in queste affermazioni appariremo concordare con le azioni che la tradizione attribuisce ad Asclepio.»  (Apologia Prima, XX-XXII) L'opera si conclude con una petizione che contiene una lettera dell'imperatore Adriano,[8] la quale serve a Giustino per mostrare come anche un'autorità imperiale era del parere di giudicare i cristiani in base alle loro azioni e non in base a dei pregiudizi; ed una lettera dell'Imperatore Marco Aurelio e del "Miracolo della pioggia" durante le guerre marcomanniche.[9]  Il Dialogo con TrifoneModifica «La filosofia in effetti è il più grande dei beni e il più prezioso agli occhi di Dio, l'unico che a lui ci conduce e a lui ci unisce, e sono davvero uomini di Dio coloro che han volto l'animo alla filosofia [...]»  (Dialogo con Trifone[10]) Oltre alle già citate Prima apologia dei cristiani (grecoἈπολογία πρώτη ὑπὲρ Χριστιανῶν πρὸς Ἀντωνῖνον τὸν Εὐσεβῆ; latino Apologia prima pro Christianis ad Antoninum Pium) e Seconda apologia dei cristiani(greco Ἀπολογία δευτέρα ὑπὲρ τῶν Χριστιανῶν πρὸς τὴν Ρωμαίων σύγκλητον, latino Apologia secunda pro Christianis ad Senatum Romanum), Giustino scrisse il Dialogo con Trifone (greco Πρὸς τρυφῶνα Ἰουδαῖον διάλογος, latino Cum Tryphone Judueo Dialogus), opera dedicata a un certo Marco Pompeo. Il tema è il confronto con il giudaismo, con il quale i cristiani avevano in comune l'Antico Testamento, un terreno utile per un dialogo. Si tratta di un dibattito che si svolge ad Efeso nell'arco di due giorni e vede protagonisti Giustino e Trifone, nel quale è stata individuata da alcuni storici la personalità di un rabbino realmente esistito. Lo scopo di questo dialogo è mostrare la verità del cristianesimo, rispondendo alle principali obiezioni mosse dagli ambienti giudaici. In particolare, Giustino vuole dimostrare che il culto di Gesù non mette in discussione il monoteismo e che le profezie descritte nell'Antico Testamento si siano avverate con l'avvento di Cristo. Il dialogo assume toni sempre rispettosi e amichevoli e non si conclude, com'era consuetudine per gli scritti cristiani, con la richiesta da parte del giudeo del battesimo. A tal proposito, alcuni studiosi si sono chiesti se effettivamente le motivazioni portate avanti da Giustino in questo dialogo fossero valide a convertire un giudeo. Sembra piuttosto verosimile, invece, che quest'opera sia una risposta di Giustino ai dubbi che i cristiani stessi del tempo nutrivano verso la loro fede.   L'opera presenta anche un prologo, in cui Giustino racconta di un suo incontro con un vecchio saggio che lo introdusse al cristianesimo.[11] Giustino lo interroga tra l'altro sulla dottrina, da lui professata, della trasmigrazione delle anime anche dentro corpi animali, esposta nel Timeo platonico. L'interlocutore gli risponde che una tale possibilità non avrebbe senso, perché non darebbe nessuna reminiscenza delle colpe passate e quindi neppure la capacità di pentirsi.[12] In secondo luogo, il vegliardo passa a confutare la dottrina dell'immortalità dell'anima.[13]  Note                                   Modifica ^ Philippe Bobichon, "Filiation divine du Christ et filiation divine des chrétiens dans les écrits de Justin Martyr" in P. de Navascués Benlloch, M. Crespo Losada, A. Sáez Gutiérrez (dir.), Filiación. Cultura pagana, religión de Israel, orígenes del cristianismo, vol. III, Madrid, 2011, pp. 337-378 online ^ La reliquia di San Giustino Martire ( PDF ), su parrocchiafabrica.it. ^ Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo, BUR saggi, p.17, OCLC 1088865057 ^ Giuseppe Girgenti, Giustino Martire: il primo cristiano platonico : con in appendice "Atti del martirio di San Giustino", Pubblicazioni del Centro di Ricerche di Metafisica, Platonismo e filosofia patristica, n. 7, Milano, Vita e pensiero, 1995, p. 108, OCLC 1014519733. URL consultato il 19 novembre 2020. ^ Lev Tolstoj, «Vita e passione di Giustino filosofo martire». In: Lev Tolstòj, Tutti i racconti, a cura di Igor Sibaldi, Milano: Mondadori, Vol. I, pp. 808-810, Collana I Meridiani, III ed., aprile 1998, ISBN 88-04-34454-7 ^ Philippe Bobichon, "Œuvres de Justin Martyr : Le manuscrit de Londres (Musei Britannici Loan 36/13) apographon du manuscrit de Paris (Parisinus Graecus 450)", Scriptorium 57/2 (2004), pp. 157-172 art. online ^ Francesco Barbaro, Apologia seconda di S. Giustino filosofo e martire in favor de' Cristiani al Senato romano traduzione dal greco nell'italiano pubblicata in occasione che mette fine alla sua quaresimale predicazione l'anno 1814., Treviso, Tipografia Trento, 1812, p. 29. URL consultato il 19 novembre 2020. Citazione. Essendo manifesto da tutte l'opere di san Giustino, ch'egli ben sapeva e confessava l'equalità del Verbo col Padre... ^ ( EN ) Lettera di Adriano. ^ ( EN ) Lettera di Marco Aurelio al Senato. ^ Cit. in Jacques Liébaert, Michel Spanneut, Antonio Zani, Introduzione generale allo studio dei Padri della Chiesa, Queriniana, Brescia 1998, p. 47. ISBN 88-399-0101-9. ^ Giuseppe Visonà, introduzione a Saint Justin, Dialogo con Trifone, Paoline, 1988. ^ Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo, BUR Rizzoli.Saggi, n. 5, 6ª edizione, Milano, BUR Rizzoli, marzo 2019, pp. 14,12, OCLC 1088865057. ^ Giuseppe Girgenti, Giustino Martire: il primo cristiano platonico, Vita e Pensiero, 1995, p. 124. BibliografiaModifica Mario Niccoli, GIUSTINO, santo, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1933.  Modifica su Wikidata Arthur J. Bellinzoni, The Sayings of Jesus in the Writings of Justin Martyr, Leiden, Brill, 1967. Philippe Bobichon, Dialogue avec Tryphon, édition critique. Editions universitaires de Fribourg, 2003, Vol. I: Introduction, Texte grec, Traduction ; Vol. II: Commentaires, Appendices, Indices Étienne Gilson, La Philosophie au Moyen Âge. Des origines patristiques a la fin du XIV siècle, Payot, Paris 1952 (trad. it. La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, La Nuova Italia, Scandicci 1997). Johannes Quasten. Patrologia, Marietti, 1987, vol. I, pagine 175-194. Altri progettiModifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Giustino Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Giustino Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Giustino Collegamenti esterniModifica Giustino, santo, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Giustino, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Giustino, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Opere di Giustino / Giustino (altra versione) / Giustino (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere di Giustino, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata ( EN ) Audiolibri di Giustino / Giustino (altra versione) / Giustino (altra versione), su LibriVox. Modifica su Wikidata ( EN ) Giustino, su Goodreads. Modifica su Wikidata ( EN ) Giustino, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata Giustino, su Santi, beati e testimoni, santiebeati.it. Modifica su Wikidata Apologia Prima, su monasterovirtuale.it. URL consultato il 14 agosto 2017 (archiviato dall' url originale  il 14 agosto 2017). Apologia Seconda, su monasterovirtuale.it. URL consultato il 14 agosto 2017 (archiviato dall' url originale  il 14 agosto 2017). Santi Caritone e compagni, discepoli di san Giustino, in Santi, beati e testimoni - Enciclopedia dei santi, santiebeati.it. Catechesi, su w2.vatican.va. di papa Benedetto XVI su Giustino tenuta durante l'Udienza generale di mercoledì 21 marzo 2007 Opera Omnia dal Migne Patrologia Graeca con indici analitici e traduzioni (EN, IT, PT), su documentacatholicaomnia.eu. Controllo di autorità                                            VIAF ( EN ) 88878069 · ISNI ( EN ) 0000 0000 6170 7238 · BAV 495/15226 · CERLcnp01317578 · LCCN ( EN ) n80089626 ·GND ( DE ) 118714341 · BNE ( ES ) XX1056724(data) · BNF ( FR ) cb11909273s (data) ·J9U ( EN ,  HE ) 987007300044605171(topic) · NSK ( HR ) 000219284 · CONOR.SI ( SL ) 120480867 · WorldCat Identities( EN ) lccn-n80089626   Portale Biografie   Portale Cristianesimo   Portale Filosofia Ultima modifica 4 mesi fa di 134.0.1.147 PAGINE CORRELATE Patristica studio dei Padri della Chiesa  Taziano il Siro teologo e filosofo siro  Filosofia cristiana WikipediaGiuseppe Girgenti. Girgenti. Keywords: la parola che non s’incatena, Giustino martire, la traduzione di Boezio delle Categorie di Porfirio, traduzione di Marsilio Ficino delle sentenze sugl’intelligibili di Porfirio, henologia platonica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Girgenti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51757051548/in/dateposted-public/

 

Grice e Girotti – la curva – la filosofia nella storia d’Italia – il caso Gentile -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Adria). Filosofo. Grice: “I like Girotti; for one, he has explored the idea of ‘beauty,’ which Sibley should, but did not!” Si laurea a Padova, sotto Santinello e Berti. Pubblica “Filosofia” (La Scuola, Brescia). Pubblica: “Gouhier e la sua storia storica della filosofia” (Unipress, Padova). “Comunicazione filosofica” “Società Filosofica Italiana.” Altre saggi: “Aristotele, dal platonismo all’autonomi” (Polaris, Faenza); “Modelli di razionalità nella filosofia”, Sapere, Padova; Discorso sui metodi, Pensa, Lecce; Medioevo vs oggi: tra tabula rasa e innatismo, Sapere, Padova; Riforma Gelmini e filosofia Sapere, Padova; Essere e volere, Pensa multimedia, Lecce; Siamo completamente liberi di volere ciò che vogliamo?, Il Giardino dei Pensieri, Bologna); Bellezza e responsabilità, Diogene Multimedia, Bologna; Cercasi anima disperatamente, Diogene Multimedia, Bologna; Giovanni Gentile; Diogene Multimedia, Bologna); “Il fico proibito dell’Eden e la giustificazione del male, Diogene Bologna; Un viaggio intorno all’io: Da Atene a Delfi dialogando, Diogene, Bologna; Sul permesso di morire, Diogene Bologna; Comunità di ricerca, Gouhier in Enciclopedia Filosofica Bompiani,  La collana si chiama Briciole di Filosofia “una storia storica che si fermi all’esibizione dei dati diventa semplice una ‘cronaca’; infatti, nel momento in cui si espone la filosofia di Grice, per poter abbracciare l'oggettività si dovrebbe rimanere all’interno di un'asettica descrizione, quella che Girotti definisce como “fenomenologia dello spirito metafisico.”Girotti distingue “la fenomenologia” (come metodo) e “lo spirito metafisico” (come oggetto). Seguendo il metodo della fenomenologia, il filosofo-storiografo sarebbe invitato a fermarsi alla lettura del dato per descrivere ciò che esso mostra. Seguendo “lo spirito metafisico”, il filosofo- storiografo ritroverebbe l'”oggetto” (topico) della sua ricerca, cioè il “fatto spirituale.”  È su questo “fatto spirituale” che Girotti refina Gouhier in quanto trova che Gouhier, quando ha messo le vesti dello “storico” della “storia storica” della filosofia, sia scivolato in una loro descrizione bergsoniana, ammessa anche da Gouhier. Cf. Grice on the longitudinal history of philosophy. “We should treat those who are dead and great as if they were great and living – it’s a matter of introjecting into his shoes, or sandals!” -- “La distillazione filosofica”  GENTILE , Giovanni.  - Nacque a Castelvetrano, provincia di Trapani, il 29 maggio 1875, ottavo di dieci fratelli, due dei quali erano già morti quando egli vide la luce. Suo padre, che si chiamava anche lui Giovanni, era farmacista; sua madre, Teresa Curti, maestra elementare.  Da quel poco, o non molto, di autobiografico che, sempre restio alla confidenza e all'effusione dell'animo, pur si deduce dagli scritti e, in particolare, dai carteggi con i suoi maestri pisani, Donato Jaja e Alessandro D'Ancona, risulta che il rapporto con i genitori fu intenso, nutrito di forti affetti; sebbene, per altro verso, travagliato, a causa soprattutto, oltre che della morte del fratello Gaetano, delle disavventure professionali del padre. Le quali derivarono dal forte e alquanto anarchico convincimento di non dover sottostare, nella gestione della farmacia di cui era proprietario e titolare, alle nuove regole introdotte dalla legge sanitaria emanata dal governo di F. Crispi; e dalla sua decisione di chiudere perciò la farmacia, che si trovava a Campobello, e ritirarsi con la famiglia nella vicina Castelvetrano, quindi di riaprirla, nel 1897, tornando da solo là dove quella si trovava e subendo un nuovo processo per il reiterato suo rifiuto di sottostare alle nuove regole.  È probabile che nell'animo sensibile, e più impressionabile forse di quanto il G. fosse disposto ad ammettere, del giovinetto che intanto attendeva agli studi scolastici, si formassero, nei confronti della terra siciliana, ossia di un luogo così fortemente segnato da dolori e umiliazioni, sentimenti contrastanti. Non che per le sofferenze che involontariamente aveva inflitto al padre, egli prendesse allora a odiare, o anche soltanto a disistimare, il siciliano Crispi, al quale sempre invece guardò come a un grande personaggio, l'unico degno di rappresentare sul serio, nella decadente Italia di fine secolo, lo spirito autentico del Risorgimento, nelle cui battaglie era stato protagonista.  Ma nei confronti della piccola, e pur amata, patria siciliana, i suoi sentimenti furono in effetti misti; e abbastanza presto si sublimarono, assumendo forma intellettuale, in quelli che, se lo si legge con attenzione, si colgono al fondo del libro che, quando era professore a Pisa e insegnava dalla cattedra che era stata del suo maestro Jaja, egli dedicò a Il tramonto della cultura siciliana (Bologna 1918). Libro singolare, in effetti; che, riboccante di passione e di affetti, concerne un "tramonto" atteso e auspicato di "cose" che, profondamente radicate nella storia e nelle tradizioni dell'isola, meritavano, a suo giudizio, di "tramontare" per sempre risolvendosi in assai più ampio e comprensivo orizzonte di pensieri e di cultura. Nella Sicilia "moderna", con poche eccezioni, il G. non coglieva infatti se non materialismo, illuminismo astratto, anticlericalismo estrinseco, e niente romanticismo, niente idealismo, nessun serio sentimento della vita vissuta nel segno di più alte idealità. E con questi "caratteri" spiegava le difficoltà che l'isola aveva opposto al Risorgimento nazionale e, quindi, alla vera cultura idealistica. Quando perciò, divenuto nel 1906 professore di storia della filosofia nell'Università di Palermo, il G. dette inizio all'insegnamento che doveva condurlo alla prima sistemazione del suo pensiero nell'idealismo attuale, c'era nel suo impegno filosofico qualcosa di missionario, quasi che nel fondo di sé sentisse di operare in partibus infidelium e il suo compito consistesse nel riscattare nel suo idealismo gli assai diversi principî ai quali la Sicilia era rimasta ferma.  Nell'isola il G. non rimase se non il tempo necessario al conseguimento dei primi traguardi scolastici; e quando, finalmente, ottenuta, nel 1893, un anno prima della naturale scadenza, la licenza liceale presso il liceo Ximenes di Trapani, fu ammesso, avendo vinto il relativo concorso, a frequentare la Scuola normale superiore di Pisa, era uno studente critico bensì di molti aspetti della cultura siciliana quello che approdava alla sponda toscana, ma recante tuttavia in sé non pochi segni di quella. Il positivismo che, colorandosi sotto l'influsso di R. Schiattarella di materialismo e anticlericalismo, largamente dominava la cultura siciliana non era passato sul suo animo e sulla sua mente senza lasciare qualche traccia; e se non vi era passato intero, in parte almeno vi era passato: il che spiega l'intransigenza con la quale, compiuta la sua più autentica formazione alla scuola pisana dello Jaja, egli si impegnò a cancellarne, nel suo pensiero, ogni possibile traccia.  Nel componimento scolastico consacrato a U. Foscolo con il quale ottenne la licenza liceale colpiscono in effetti le due tonalità che lo caratterizzano: quella civile, che sarebbe poi rimasta, attraverso la trasfigurazione risorgimentale, al centro dei suoi sentimenti e interessi, e l'altra, antiromantica, appresa alla scuola del suo professore di italiano, V. Pappalardo, e ribadita attraverso lo studio della Storia della letteratura italiana di P. Emiliani Giudici. E si può e si deve, del resto, andare anche oltre. Fu forse allora, infatti, negli anni in cui fu studente in Sicilia, che il G. venne positivamente in contatto con la questione del "fatto"; che certo, nel corso del suo pensiero, subì, rispetto al punto di partenza, trasformazioni così profonde da rendere questo quasi irriconoscibile nel risultato conseguito. Quasi, tuttavia, e non del tutto: perché, assunto nella prospettiva dell'atto, il "fatto" è bensì l'astratto che quello, l'atto, perennemente supera conseguendo e conquistando la sua concretezza, ma, oltre a esser anche la sua "determinatezza", si rivela altresì, nel processo costitutivo dell'atto, indispensabile e necessario: con la conseguenza che, nell'idealismo attuale, la sua è bensì una morte, caratterizzata tuttavia nel senso, piuttosto, della "trasfigurazione".  Non s'insisterà mai abbastanza sull'importanza che, proprio per queste ragioni, la Scuola normale ebbe, con i professori che vi insegnavano, lo Jaja e il D'Ancona, in primo luogo, ma anche A. Crivellucci, nella formazione del giovane allievo siciliano. E ai professori debbono aggiungersi i compagni che egli allora v'incontrò, G. Volpe e F. Pintor, U. Congedo, A. Salza, G. Lombardo Radice.  Anche qui, per altro, avrebbe torto chi semplicemente ritenesse che al fuoco dell'idealismo professato dallo Jaja il G. bruciasse ogni scoria positivista e rapidamente acquistasse la fisionomia che in seguito sarebbe stata la sua. È vero invece che la dicotomia determinatasi in lui quando, in Sicilia, per un verso si accendeva di entusiasmo per il Foscolo e i valori civili da lui rappresentati e per un altro si piegava al culto reverente dei fatti, in qualche modo si ripropose anche a Pisa. Ed egli dovette subirla anche qui perché alla filosofia senza storia né arte che gli veniva insegnata da Jaja corrispondevano la storia e la letteratura senza filosofia che gli provenivano dall'esempio di D'Ancona e di Crivellucci. Il che, naturalmente, non deve sorprendere, perché a predominare, anche a Pisa, era allora il positivismo con il congiunto metodo storico; e con il suo idealismo di derivazione spaventiana Jaja costituiva, in quell'ambiente, piuttosto l'eccezione che non la regola.  La produzione scientifica in cui, senza abbandonare la rivista Helios, che si pubblicava in Sicilia, a Castelvetrano, e alla quale seguitò infatti a non far mancare la sua collaborazione, allora si impegnò appare nettamente scissa fra l'erudizione pura, da una parte, e la filosofia, altrettanto pura, da un'altra (anche se, nel ricercare e commentare i testi di quest'ultima, il giovane G. mostrava chiari i segni del metodo che aveva appreso dal D'Ancona e dal Crivellucci, e che dette del resto chiara prova di sé nella dissertazione accademica Delle commedie di Antonfrancesco Grazzini, detto il Lasca, pubblicata negli Annali della Scuola normale superiore di Pisa, XII [1897]). Le cose più notevoli uscite tuttavia dalla sua penna a conclusione del suo periodo pisano sono, com'è noto, la tesi su Rosmini e Gioberti (1898), discussa con Jaja e quindi, discussa anch'essa con quest'ultimo, la più breve indagine su La filosofia di Marx (1899).  Di questi due libri, il primo costituisce il documento, altrettanto precoce che maturo, di un'indagine condotta nel segno di Bertrando Spaventa e della sua idea relativa alla relazione intercorrente fra il pensiero italiano e quello europeo, fra A. Rosmini e V. Gioberti, da una parte, I. Kant e G.W.F. Hegel da un'altra. Il secondo è invece il documento della capacità dimostrata dal giovane studioso di cogliere il carattere, che a lui sembrava nel fondo idealistico, della filosofia di K. Marx, e altresì di entrare con autorevolezza in uno dei dibattiti - quello concernente la "crisi" del marxismo - fra i più vivi che allora si accendessero nella cultura dell'Europa contemporanea.  Lo studio dedicato a Rosmini e Gioberti, e alla loro polemica fu steso per il conseguimento della laurea in filosofia, che il G. ottenne nel luglio del 1897 con il massimo dei voti e il diritto alla stampa. Quello dedicato a Marx fu composto per la tesi di abilitazione all'insegnamento che egli conseguì l'anno successivo e gli dette la possibilità di un ulteriore periodo di perfezionamento da trascorrere presso l'Istituto di studi superiori di Firenze, dove fu per un anno e dove ebbe modo di entrare in contatto con gli illustri professori che allora vi insegnavano e che, fra gli altri, si chiamavano P. Villari, G. Vitelli, P. Rajna. Fra questi era anche il professore di filosofia, il neokantiano F. Tocco, con il quale i rapporti non furono né semplici né facili, ma con il quale comunque conseguì un nuovo titolo, discutendo una tesi sulla filosofia italiana del periodo che da A. Genovesi va fino a P. Galluppi, e che poi divenne un volume, pubblicato, nelle edizioni de La Critica, da Benedetto Croce (Dal Genovesi al Galluppi: ricerche storiche, Napoli 1903).  Fu, anche quello trascorso a Firenze, un periodo importante; e se il rapporto con il Tocco fu, malgrado asprezze e incomprensioni, proficuo perché lo mise comunque in contatto con un Kant diverso da quello di Bertrando Spaventa mediatogli dall'insegnamento di Jaja; se quello con Villari fu alquanto burrascoso, dei grandi filologi, classico il primo, romanzo il secondo, Vitelli e Rajna dovette conservare per sempre un grato ricordo, se è vero che ancora negli ultimi anni progettò di ristampare, del secondo, il libro su Le fonti dell'Orlando furioso, ossia uno dei monumenti più insigni della vecchia scuola del metodo storico.  Con l'anno trascorso a Firenze, nell'estate 1898 i suoi Lehrjahre avevano termine; e gli anni che seguirono furono non facili; anzi decisamente difficili, perché l'esigenza per lui imperiosa di trovare un lavoro, e perciò un posto nell'insegnamento medio, era pari a quella che egli avvertiva non meno viva e urgente di non interrompere gli studi filosofici, nei quali aveva già realizzato un'impresa notevole, con quei tre lavori, così ricchi di dottrina e di idee. Ma l'esigenza di proseguire senza nocive interruzioni la intrapresa carriera dello studioso implicava l'altra che l'eventuale sede non fosse dispersa nella lontana provincia meridionale e lontana perciò dai centri vivi della cultura nazionale, dalle università e dalla biblioteche. E la preoccupazione principale del G. fu allora, in particolar modo, di non essere costretto a far ritorno nell'isola dalla quale era partito anni innanzi: sì che quando, nell'ottobre 1898, ebbe la sede di Campobasso, con l'incarico di filosofia al liceo Mario Pagano, non poté dirsene del tutto scontento, perché di lì poteva raggiungere di tanto in tanto Napoli, dove la frequentazione del filosofo hegeliano S. Maturi, professore al liceo Umberto e, sopra tutto, di Benedetto Croce, con il quale era entrato in contatto quando ancora era studente del terz'anno, largamente lo compensavano dalla solitudine alla quale era invece, per il resto del tempo, costretto.  Del resto, non fu quello di Campobasso un periodo che si protrasse nel tempo. E già nel novembre 1900 la fortuna girò in suo favore, perché il G. poté ottenere un posto presso il liceo Vittorio Emanuele di Napoli: il che gli dette la possibilità di rendere veramente intrinseci i legami intellettuali con Croce, ossia con il già illustre studioso che, in quello stesso anno, concluso il periodo degli studi soltanto eruditi, giunto al termine della discussione intrapresa con i testi di Marx e dei marxisti, era tornato alla filosofia e aveva dato all'estetica la sua prima sistemazione.  A ragione, e del resto non è un'osservazione peregrina, è stato detto che, se senza Croce non s'intende il G., altrettanto è vero per l'inverso. Ma ancor meglio potrebbe dirsi e ripetersi che, se si prescindesse dalla collaborazione, stretta, intensa e anche conflittuale, che subito si stabilì fra il libero studioso Benedetto Croce e il giovane ex normalista siciliano, poco o niente si capirebbe della cultura italiana che nel bene (secondo alcuni), nel male (secondo altri) per circa mezzo secolo fu dominata dalle loro personalità e dalle loro opere, spesso intrecciate le une alle altre nel segno prima della concordia discors e poi dell'aperta polemica. È difficile decidere chi fra i due, se il più vecchio o il più giovane, giovasse all'altro nella forma più decisiva. E forse, posta così, la questione è posta male, perché, se è vero che dal G. Croce ricevette impulsi a cogliere nel pensiero che si veniva formando in lui le difficoltà che ne nascevano e ad affrontarle nel segno dell'unità, se è vero, d'altra parte, che la collaborazione prestata dal giovane studioso alla formazione della "filosofia dello spirito" non avvenne senza che egli ne traesse grande giovamento per le tante idee con le quali veniva in contatto e la non comune dottrina storica e letteraria con il cui carattere venivano al mondo, anche è vero che in questi "bilanci" del dare e dell'avere c'è sempre qualcosa di angusto, di gretto, di meschino: e conviene perciò, dalle parole "generali", passare di volta in volta ai "fatti" determinati.  Sta comunque di fatto che, mentre il carteggio fra i due si faceva tanto intenso e frequente che non c'era, si può dire, giorno senza che uno scambio intervenisse a proporre osservazioni, suggerimenti, informazioni e, magari, contrasti; mentre l'amicizia si approfondiva nella collaborazione, la diversa indole dei due ingegni ne riusciva non soffocata, ma in qualche modo persino potenziata. E, come si è detto, c'erano, meno infrequenti di quanto non si pensi, anche i contrasti, anche le polemiche, garbate, amichevoli, ma ferme.  Se, per esempio, nella questione concernente il materialismo storico (una filosofia, per il G., e non, come per Croce, un semplice "canone empirico": una filosofia della storia, fondata per altro sullo scambio del trascendentale e dell'empirico), il dissenso rimase senza soluzione, la discussione, che in buona parte si svolse per lettera, su "forma" e "contenuto" nell'estetica condusse i due filosofi a un accordo sempre più stretto; e anche qui è, non solo alquanto meschino, ma sopra tutto difficile chiedersi, e quindi rispondere al quesito, se a condurre il gioco fosse piuttosto il G., o se invece fosse Croce che, via via che veniva impadronendosi dell'intero territorio dell'estetica, suggeriva il tema e controllava lo svolgimento.  Intanto, nel 1903, la realizzazione del progetto di una rivista letteraria, storica e filosofica, che si chiamò La Critica (il primo numero uscì il 20 gennaio), dette a Croce, e al G., lo strumento attraverso il quale la loro collaborazione potesse rendersi visibile e concreta in risultati specifici, attraendo altresì su di sé, fra consensi e dissensi, l'attenzione del mondo culturale italiano e non soltanto italiano, perché l'anno precedente era uscita la prima edizione dell'Estetica crociana e il successo travolgente del libro, andato al di là di ogni previsione, non poteva non ripercuotere sulla rivista appena agli inizi la sua positività.  La Critica divenne così, velocemente, un severo luogo di ricerche, di studi, e anche, spesso, di impietosi esami critici; e, con il diverso accento caratterizzante lo stile del direttore e del suo principale collaboratore, svolse un'opera della quale sarebbe vano voler disconoscere l'importanza. L'oggetto della "critica" era costituito dalla cultura positivistica, che era bensì in declino quando la rivista iniziò la sua battaglia, ma non tanto, tuttavia, che se quell'urto violento e sistematico non si fosse prodotto, avrebbe trovato così presto la via della sua risoluzione. Al contrario, si direbbe: perché, malgrado la non eccelsa qualità dei suoi pensatori, e certa loro tendenza a dividersi fra un alquanto volgare materialismo e vacue accensioni mistiche e "spiritualistiche", il positivismo aveva, nella sua forma di "metodo storico", non soltanto prodotto alcune opere egregie e importanti, ma era penetrato in profondità nella cultura e nel costume dei professori e della classe dirigente del paese. E "positivista" era in sostanza il pensiero democratico e altresì, malgrado il marxismo, quello socialista; positivisti altresì, con maggiore o minore intensità, erano stati, e per qualche tratto ancora erano, gli stessi Croce e G., che in quella tradizione, e non in un'altra, avevano compiuto i primi passi. Con la conseguenza che quella loro battaglia antipositivistica, esaltata, enfatizzata e mitizzata da alcuni, deprezzata e magari deplorata da altri, fu, con le sue luci e le sue ombre, anche una battaglia che giorno dopo giorno i due filosofi amici condussero contro quel loro "sé stesso" che di essere emendato nel senso della nuova filosofia avesse avuto necessità. E molte cose della vecchia "fede" certamente furono lasciate cadere, che qui non occorre elencare. Ma alcune no; e, per fare qualche esempio, certo si deve anche alla severa disciplina erudita appresa alla scuola dei maestri del metodo storico se, come nessun altro ai suoi tempi, Croce esplorò gli angoli più riposti della "regione" seicentesca, e, nel 1911, scrisse il saggio su La novella di Andreuccio da Perugia (Bari), e il G. non disdegnò le minute ricerche rinascimentali che sottese e affiancò ai grandi quadri d'insieme, e rievocò le ombre dei suoi maestri toscani per scrivere il bel libro dedicato a Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono (1922).  Il soggiorno a Napoli fu, nel rapporto con Croce, quale non poteva non essere: importante, fondamentale perché ebbe per conseguenza di renderlo sempre più stretto, sempre più profondo e, perciò, più stimolante. Il che, trattandosi del rapporto di due pensatori che in quello impegnavano la parte più delicata del loro essere, significa altresì che, per ciò stesso che toccava il profondo, scopriva le differenze mentre celebrava le affinità e persino le identità, e potenzialmente conteneva in sé il germe del suo rovesciamento nell'inimicizia. La polemica sul marxismo contribuì a far meglio conoscere a entrambi le rispettive, e diverse, fisionomie intellettuali; e i due ne uscirono, sebbene avessero ciascuno mantenuto il proprio punto di vista, rafforzati nell'amicizia. Ma nel 1907 la polemica epistolare, e rimasta perciò privata, sulla questione della filosofia e della storia della filosofia, aveva già, sotterraneamente, impresso qualche preoccupante vibrazione alla struttura portante dell'edificio; perché a Croce, sebbene avesse alla fine dato il suo consenso alla tesi del G., era anche sembrato di cogliervi qualche tratto di vecchio hegelismo, il cui Idealtypus era rappresentato allora a Napoli da S. Maturi; e questo il G. non l'aveva gradito.  L'amicizia per allora rimase salda, e anzi, via via, si approfondì, perché in realtà non solo la filosofia e la scienza riguardava, ma anche le cose dell'anima e dell'esistenza, che nella battaglia culturale non potevano, del resto, non essere coinvolte. E poiché nella Critica il G. sistematicamente svolgeva il compito che si era assunto di ricostruire le origini della filosofia contemporanea in Italia e intanto, al margine, scriveva note e recensioni per lo più molto polemiche nell'atto stesso in cui, su un altro fronte, conduceva la sua aspra battaglia, in nome della filosofia che non può non essere immanentismo assoluto, contro quello che perciò sembrava a lui l'equivoco del modernismo cattolico: delle eventuali dispute che intanto i due filosofi svolgessero in privato la rivista non risentì e non mostrò il segno.  La collaborazione che essi vi svolgevano e realizzavano fu perciò, per anni e anni, vista e avvertita come se i due fossero quasi una sola persona che, di volta in volta, faceva prevalere il rigore filosofico e l'eleganza letteraria, nutrita anch'essa di rigore. Si aggiunga che allora, fra il 1902 e il 1909, Croce fu impegnato, fuori della Critica, nella costruzione della Filosofia come scienza dello spirito; e che, per parte sua, mentre svolgeva il suo lavoro e si impegnava a seguire i progressi filosofici del suo amico, sul piano teoretico il G. mostrò in quei primi anni la tendenza a restare in disparte.  Avvertiva, e in una lettera del 1908 inviata al Maturi lo scrisse anche in modo esplicito, che se avesse dovuto esprimere intero il pensiero che intanto gli urgeva dentro con Croce sarebbe giunto allo scontro, e avrebbe dovuto combatterlo. Sapeva, o riteneva di sapere, che, svolto con rigore, il tratto spaventiano del suo pensiero avrebbe dato luogo a conseguenze diverse da quelle che Croce stava allora ricavando dalle sue premesse, e sistemando nei suoi libri; e della migliore qualità filosofica di quelle era altrettanto convinto come della necessità che per allora non convenisse mettere in crisi una collaborazione dalla quale frutti copiosi la cultura italiana poteva ancora attendersi. Del resto, la cautela del G. e la sua decisione di lavorare per, e non contro, l'alleanza con Croce non potevano esser tali da impedire che, talvolta anche in pubblico, sebbene non dichiarate, le differenze emergessero; e fu quel che puntualmente avvenne già nel 1903, quando il G. scrisse (e per allora non pubblicò) la prolusione al suo corso libero di filosofia teoretica nell'Università di Napoli.  Da Napoli, dove nell'insieme trascorse un sereno periodo (il 9 maggio 1901 aveva sposato Erminia Nudi, una giovane maestra conosciuta a Campobasso), quasi per intero consacrato all'insegnamento - nel 1902 aveva ottenuto la libera docenza che esercitava nel corso libero di filosofia teoretica presso l'Università e dal 1904 aveva assunto anche un incarico di filosofia e pedagogia presso l'Istituto superiore di magistero Suor Orsola Benincasa -, alla riflessione filosofica, allo studio, nel 1906 il G. passò a Palermo, perché nel frattempo - dopo che un primo concorso per la filosofia teoretica lo aveva visto soccombere per l'ostilità dimostratagli da Tocco, e anche a causa della debole difesa fattane da A. Labriola, gravemente ammalato e quasi impossibilitato a parlare - aveva vinto la cattedra di storia della filosofia per quella Università. Così, senza averlo sul serio desiderato, era di nuovo approdato alla sponda siciliana; e meno che mai lo aveva desiderato Croce, che non solo vedeva interrotta una consuetudine di vita, di collaborazione e di lavoro che doveva a ogni costo essere difesa, ma anche temeva che il nuovo ambiente potesse distrarre in vario modo l'amico e, sotto diversi punti di vista, allontanarlo da lui.  Il timore di Croce non aveva allora nessun altro fondamento che sé stesso e l'intuizione di cui si alimentava. Era infatti qualcosa come una congettura, una supposizione. Ma la congettura, la supposizione, e il timore, non si rivelarono tuttavia per intero infondati; perché, come forse era inevitabile, nel nuovo ambiente il G. non poteva non ottenere la posizione preminente e da protagonista che non solo il prestigio di cui godeva, ma anche e sopra tutto la forte personalità della quale era dotato, non potevano non assicurargli. La sua posizione divenne preminente nell'Università e, quindi, nella Biblioteca filosofica che, per le iniziative di G. Amato Pojero che ne aveva la cura principale, divenne un centro vivo di dibattiti, nel quale l'idealismo attuale definì per la prima volta sé stesso e vide la luce. Anticipato in modo più che parziale con il breve saggio che nel 1909 il G. dedicò a Le forme assolute dello spirito e, senza presentarlo in altra sede, incluse nel volume su Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia (1909) come sua ideale premessa (e conclusione), l'idealismo attuale trovò la sua prima espressione nella memoria, letta presso la Biblioteca filosofica nel dicembre del 1911, su L'atto del pensare come atto puro (Palermo 1912), quindi nell'altra su Il metodo dell'immanenza, e ancora nelle pagine consacrate a La riforma della dialettica hegeliana (1913) e a Bertrando Spaventa che l'aveva avviata, nonché nel Sommario di pedagogia come scienza filosofica, il cui primo volume (1913) contiene in effetti una sorta di teoria generale dello spirito sotto specie pedagogica.  Un volume, questo, che quando lo lesse in bozze Croce giudicò con qualche severità, perché gli parve che non solo il G. si fosse espresso con nettezza contro la possibilità che tra le forme dello spirito potesse darsi la "distinzione", ma anche che, senza nominarlo e perciò con tanta maggiore asprezza, avesse polemizzato proprio con lui che nella distinzione aveva fatto e stava facendo consistere il criterio supremo dell'intelligenza della realtà. Da queste dichiarazioni di autonomia e di indipendenza, che, implicitamente (ma in modo per altro trasparente), contenevano qualcosa come una sfida, Croce non poteva non essere preoccupato; e tanto più in quanto il senso di indipendenza e di autonomia era confermato da quel che scrivevano gli allievi siciliani del G.: V. Fazio-Allmayer e A. Omodeo, A. Saitta e F. Albeggiani; e anche G. De Ruggiero, che siciliano e residente in Sicilia non era, ma attualista sì, anzi ultrattualista, come ci teneva a dichiararsi e come aveva del resto dimostrato con la memoria, pubblicata anch'essa nell'Annuario della Biblioteca filosofica, su La scienza come esperienza assoluta (1913).  La pubblicazione degli scritti attualisti del G. e le varie manifestazioni che allora innegabilmente si ebbero del formarsi di una "scuola" che in quella forma d'idealismo riconosceva l'unica rigorosa e, perciò, possibile, non potevano non provocare prima o poi la reazione di Croce. Il quale aveva bensì, fra il 1908 e il 1909, fatto il possibile perché il G. tornasse a Napoli come professore nell'Università, convinto che in tal modo la collaborazione sarebbe tornata alle vecchie forme senza le perturbazioni provocate dalla "scuola" e dagli spiriti non sempre positivi che, in effetti, vi si formano o tendono a formarvisi. Ma il suo tentativo non ebbe, com'è noto, successo, perché forti e insormontabili furono le resistenze che l'ambiente accademico napoletano dimostrò all'accettazione della sua proposta. E così accadde che, persa quella battaglia nella quale aveva speso molto del suo prestigio e delle sue energie, quando una grave sciagura privata gli dette il senso che tutto ormai, nella sua vita dovesse giungere all'estremo chiarimento, Croce decidesse di rendere pubblico il "dissidio" filosofico che lo divideva dall'idealismo attuale; e scrisse, per la Voce di G. Prezzolini, un articolo in forma di lettera (ottobre 1913), nel quale i termini del dissenso erano definiti con amichevole fermezza. La scelta della Voce significava, nelle intenzioni crociane, che la disputa non riguardava LaCritica, ossia il luogo della loro comune opera culturale; e si svolgeva, per così dire, al margine di questa. Ma la decisione di mettere in piazza il loro dissenso ferì in modo particolare il G.: anche se, decisa nella sostanza e orientata non a sanare, bensì a ulteriormente precisare, il dissenso, la replica che anche lui affidò alla Voce, si presentasse come la risposta amichevole a un'amichevole richiesta di chiarimenti teoretici. Il dissenso era comunque stato dichiarato; e non mancò di suscitare molta impressione: tanto più che, replicando a sua volta (dicembre 1913), con fermezza, Croce prese atto di un divario che concerneva non la periferia, ma il centro stesso delle loro filosofie.  Il periodo siciliano fu comunque fecondo di molto lavoro. E oltre ad aver gettato le basi dell'idealismo attuale, il G. svolse infatti e approfondì alcuni essenziali aspetti della scolastica e del Rinascimento; e scrisse di G. Bruno, di Bernardino Telesio, di G. Vico, mentre la collaborazione alla Criticacontinuava con il consueto ritmo e, dopo la tempesta teoretica del 1913, nei rapporti con Croce era tornata la calma. Deve anzi dirsi che, malgrado varie traversie di natura familiare e qualche apprensione per la sua salute, fu quello un periodo nella sostanza sereno, sebbene non possa escludersi che egli lo considerasse provvisorio e in cuor suo non desiderasse una sede diversa e migliore. Quando infatti, nel 1913, a Napoli e a Roma si liberarono due cattedre, la prima università fu subito scartata, perché vivo era ancora il ricordo della sconfitta patitavi quattro anni prima, ma la seconda no; e fu invece presa in seria considerazione. Il G. riteneva infatti che l'opposizione di G. Barzellotti, titolare della cattedra di storia della filosofia, potesse essere in qualche modo aggirata e vinta. Ma il calcolo risultò errato: a Roma per allora non fu chiamato; e dopo un tentativo, esperito senza troppa convinzione, di essere chiamato a Torino, città molto amata da Croce, che non avrebbe visto male un suo trasferimento colà, ma assai meno da lui, che la considerava lontana, fredda ed estranea ai suoi gusti e alle sue abitudini, scelse infine di andare a Pisa, dove sarebbe succeduto a D. Jaja e, con l'atmosfera della giovinezza, anche avrebbe ritrovato la Scuola normale, luogo e fonte inesausta di cari e intensi ricordi.  A Pisa tornò con un piglio e una convinzione ben diversi da quelli con i quali vi era approdato, giovane e sperduto studente siciliano, tanti anni prima. Vi approdò con il piglio del pensatore che, ormai sicuro di sé e delle sue forze, sente di dover svolgere una missione non solo filosofica, ma anche, lato sensu, civile e politica. La forte accentuazione teoretica che nei precedenti anni aveva conferito alle sue pagine, anche di storia della filosofia, non aveva mai spento in lui, se mai aveva rafforzata, la convinzione spaventiana che ricostruire la filosofia italiana nella sua storia significasse in realtà contribuire, con le armi della cultura, alla prosecuzione del Risorgimento, riaccenderne negli animi la consapevolezza, battersi contro la corruzione letteraria che in Italia si era per secoli fatalmente intrecciata con lo splendore delle arti. Egli faceva insomma vibrare e risuonare un corda che a Jaja era rimasta sostanzialmente estranea, ma non a D'Ancona, ebreo e fervente patriota risorgimentale, e nemmeno, nei suoi modi particolari, al Crivellucci. Del resto, la prolusione pisana è del 1914; e con gli avvenimenti che lo caratterizzarono e con quelli che ne sarebbero seguiti, quell'anno fatale avrebbe ben presto provveduto a trasformare dal di dentro atteggiamenti, abitudini, costumi, ad accelerare il ritmo delle passioni, talvolta in superficie, altre volte in profondità, a rendere esplicito e visibile quel che per l'innanzi fosse rimasto chiuso nel segreto delle coscienze.  A Pisa, per altro, il G. non stette a lungo, perché già nel 1918 egli passava all'Università di Roma per ricoprirvi la cattedra di storia della filosofia, dalla quale, sempre nella stessa Università, sarebbe passato, nel 1925, a quella di filosofia teoretica, lasciata libera da Bernardino Varisco.  Ma, a parte le passioni e anche le incertezze e le angosce politiche che li caratterizzarono, quelli pisani furono anni importanti: per i risultati filosofici innanzi tutto, che il G. vi conseguì. Fu allora, infatti, che, dopo averne offerto un primo saggio nel Sommario di pedagogia, e quindi nelle memorie palermitane, egli procedette senz'altro a tracciare le linee della Teoria generale dello spirito come atto puro, nata dalla scuola nel 1916 e pubblicata la prima volta quello stesso anno: così come dalla scuola nacquero in quel medesimo tempo i Fondamenti della filosofia del diritto, nei quali, espressione suprema dell'unità, e unità esso stesso, l'atto era indagato nella sua dimensione, oltre che teoretica, pratica, senza che fra l'una e l'altra potesse operarsi la distinzione per la quale, in Croce, i distinti erano i distinti. Ma a Pisa il G. avviò anche la composizione del Sistema di logica come teoria del conoscere, la sua opera in ogni senso più rilevante: della quale scrisse il primo volume che, nato anch'esso dalla scuola, vide la luce nel 1917 e dovette attendere fino al 1923 per avere il suo compimento nel secondo volume, dedicato alla logica del concreto.  Agli anni di Pisa appartiene anche, con sicurezza, Il tramonto della cultura siciliana, un libro del quale si è già avuto modo di accennare come presenti un duplice carattere, di condanna della cultura siciliana positivistica, materialistica e, deteriori sensu, illuministica; e di speranza: la speranza che nel segno dell'idealismo attuale, nato nell'isola per virtù di un siciliano, quella si riscattasse ed entrasse a pieno titolo nella civiltà moderna.  Gli anni pisani furono quelli del primo conflitto mondiale, di quel dramma, anzi di quella tragedia, dopo la cui conclusione niente sarebbe più stato come prima. Il G. li visse con passione, fra esaltazioni e depressioni, come ogni altro italiano del suo ceto, della sua condizione e della sua cultura; ma anche con il sempre più netto convincimento che, all'inizio, non era stato scevro di dubbi anche forti, che quella di entrare in guerra a fianco della Francia e della Gran Bretagna contro gli Imperi centrali fosse stata una giusta decisione, una sorta di chiamata del destino risorgimentale della nazione. Il G. non era nazionalista, e meno che mai era disposto a vedere nell'evento bellico la manifestazione delle forze sanamente irrazionali che spezzano l'ordine stabilito dalla logica, sconvolgendo i suoi concetti. Dalle deteriori manifestazioni di misticismo e vario sensualismo, così frequenti allora nella "cultura" italiana e non soltanto italiana, si tenne sempre discosto. Ma quando gli indugi diplomatici furono rotti e la guerra fu dichiarata, egli scoprì in sé l'interventista che all'inizio non era stato, e progressivamente venne intensificando e attualizzando le critiche che nei confronti dell'Italia e dell'assetto politico e morale che si era dato dopo la conclusione del Risorgimento erano già in lui, allo stato potenziale e, in qualche caso, più che potenziale. Le essenzializzò e attualizzò perché, senza con ciò diventare nazionalista e seguitando anzi a oppugnare ogni idea della nazione che attingesse a concezioni naturalistiche o, peggio, razzistiche, il suo principio, gli parve tuttavia che la prova terribile alla quale l'Italia aveva deciso di sottoporsi richiedeva che di lì in avanti i piccoli pensieri cedessero a pensieri grandi e che quel che s'era ottenuto sui campi di battaglia non fosse poi amministrato dai politici di sempre, maestri non di drammi, ma di mediocri commedie.  Di qui, anche in questo campo così pericolosamente esposto ai venti violenti delle passioni, delle "cupidigie", per dirla con il poeta, e dei "brividi", la ragione profonda dell'ulteriore distacco che allora, giorno dopo giorno, si venne compiendo da Croce. Il quale, come si sa, non solo era stato contrario alla guerra, condividendo le realistiche preoccupazioni di G. Giolitti e di quanti, come lui, erano persuasi che, vinta o persa, la guerra avrebbe comunque rappresentato per l'Italia un troppo grave rischio. Ma anche aveva dichiarato che avrebbe considerato una grave onta per il popolo italiano se all'improvviso i suoi governanti avessero stracciati i trattati e si fossero schierati dalla parte di coloro contro i quali avrebbero, semmai, dovuto combattere. Anche nei confronti della guerra che, quando fu dichiarata, li vide entrambi consapevoli che il loro posto non potesse essere se non quello che l'Italia aveva scelto per sé, l'atteggiamento dei due filosofi fu, nella sostanza, assai diverso. E Croce considerava la guerra alla stregua di un evento irresistibile della natura, ne vedeva la trama violentemente economica e utilitaria, così che sempre il suo monito fu che non si sottomettesse alla sua particolare logica la logica dei superiori valori della verità e della cultura, del pensiero e dell'arte.  Diverso fu, invece l'atteggiamento del Gentile. Senza che perciò si inducesse a passare il segno e a "farsi", come Croce diceva, "l'animo di guerra", egli la considerò tuttavia come una grande occasione rigeneratrice, come un evento assoluto, recante in sé il segno di una tal quale superiore provvidenzialità. Mentre Croce confidava, o quanto meno sperava, che nell'Europa di domani il meglio dell'Europa di ieri fosse conservato e potenziato, e nella religione degli studi, nella civiltà dei rapporti intellettuali, nell'universalità delle idee, gli odi nazionali si placassero e depurassero, il G. inclinava viceversa, lui che nazionalista non era mai stato e nemmeno a rigore era diventato, verso i toni dell'esaltazione nazionale. E fu allora che, per la forza di queste sue convinzioni e passioni, si preparò la sua futura adesione al fascismo, nel quale, mettendo come fra parentesi le molte cose che certo non appartenevano al suo costume, egli credette di scorgere, e in questo convincimento fu poi irremovibile, lo strumento del riscatto "risorgimentale" dell'Italia.  Il sistema filosofico che fino a quel punto il G. aveva elaborato negli scritti dei quali qui sopra si è detto era per intero incentrato su questo concetto: che, come la filosofia antica e quella medievale e moderna (che non riusciva perciò a esser tale), era rimasta ferma, anche nelle sue dimensioni idealistiche, a un concetto intellettualistico e soltanto descrittivo del concetto, del soggetto e della sua attività, con la conseguenza che il concetto non era autoconcetto, e cioè la sua eterna autogenerazione e autoproduzione, nell'idealismo invece, che per questa ragione meritava di essere definito "attuale", questo proprio avveniva. E il concetto era autoconcetto, il soggetto, soggetto, e non concetto (astratto) del soggetto: non era una sorta di res naturalis che il concetto appunto si limiti a contemplare, a descrivere nel suo astratto organismo logico, e non a produrre nell'atto del suo atto. Di qui la tesi, caratteristica di questo idealismo, che nella sua concretezza e attualità, l'atto non può trascendere il suo atto, questa trascendenza dell'atto non potendo essere se non, essa stessa, atto; e l'altra tesi secondo cui la teoria che dell'atto intendesse darsi è perciò una teoria vera (secondo il G.) ma astratta: una teoria astratta del concreto (vero anch'esso, naturalmente: e a fortiori). E di qui l'interna, forte tensione di questa filosofia; che, per un verso (e sopra tutto nelle sue prime formulazioni) era orientata a svalutare e criticare ogni teoria che, in quanto soltanto contemplativa e descrittiva, fosse perciò incapace di cogliere l'atto se non come un "fatto", e dunque come il suo opposto, falsità ed errore, se l'atto era viceversa verità e concretezza. Ma per un verso (e questo accade sopra tutto nel secondo volume del Sistema di logica, non senza che per tale via il G. provasse a rispondere al rilievo di ineffabilità e misticismo rivoltogli da Croce fin dal 1913) la questione dell'astratto e del fatto assumeva un altro volto, e l'atto era bensì celebrato nella sua non obiettivabile attualità, ma il fatto e l'astratto gli si rivelavano a loro volta indispensabili, erano (per dirla in modo tecnico) il suo opposto, ma anche il suo diverso, un grado attraverso il quale, sia pure dissolvendolo, il concreto era, nel e per il suo costituirsi, costretto a idealmente passare. Il punto critico di questa filosofia sta qui: nel suo essere, non, come tante volte si è detto, misticismo e indistinzione, ma nel porsi come una sintesi, attuale e intrascendibile, di opposti, senza poter rinunziare - donde l'ambiguità - a trattare gli opposti come "gradi", e cioè come "diversi" o "distinti": nell'essere insomma una teoria dell'unità che in eterno supera la distinzione, e della distinzione che, proprio perché è in eterno superata, non può veramente uscire dal quadro e si rivela come la condizione insostituibile della sua possibilità.  Verità del concreto, dunque: ma anche dell'astratto; che nelle opere del secondo attualismo, e cioè nel Sistema di logica e oltre, si rivela non, quale all'inizio era, come natura, immobilità, impenetrabile assenza di coscienza, ma come circolo e mediazione, punto semovente che parte da sé e per fare ritorno a sé: come circolo, e perché no, dunque, come esso stesso logo concreto? Come logo concreto; e perché no, dunque, come logo astratto, se questo è mediazione e coscienza, e niente più di questo il logo concreto può essere?  A Pisa, negli anni della Grande Guerra, il G. rivelò a sé stesso la passione politica che gli stava dentro come assopita; e assunse perciò una dimensione che non era più soltanto quella del professore che parla dalla cattedra e magari fa conferenze, ma era bensì quella dell'"intellettuale" militante, che si rivela al grande pubblico attraverso i giornali quotidiani. Ai quali in effetti, assumendo una consuetudine che avrebbe, con diversa intensità (nel tempo), mantenuta fino alla fine della sua vita, il G. allora prese a collaborare: tanto che quando, a guerra finita, raccolse in un volume che intitolò Guerra e fede (Napoli 1919) quanto aveva scritto durante il suo corso, il libro risultò tutt'altro che smilzo, e comunque più consistente di quello che lo seguì, e nel quale, con il titolo Dopo la vittoria (Roma 1920), sistemò gli articoli composti nei due anni iniziali dell'agitato, inquieto, drammatico dopoguerra. Un periodo, quest'ultimo, nel quale sempre più decisamente il G. cercò la sua parte e venne via via inasprendo la sua posizione, perché l'idea natagli nei passati anni, durante le sue meditazioni sulla storia d'Italia e sulla fatale dicotomia che nell'età del Rinascimento si era prodotta fra lo splendore artistico e la decadenza politica e morale, quest'idea doveva ora essere messa alla prova della realtà, doveva diventare uno strumento forte e tagliente di lotta e di azione politica. Il che implicava che, pur seguitando a dichiararsi liberale, sempre più egli sentiva di doversi opporre al liberalismo quale si era riflesso nel costume politico italiano, nella degenerazione dei metodi parlamentari, nell'arte del compromesso e del perenne rinvio delle decisioni: un'arte nella quale maestro insuperabile gli sembrava fosse il Giolitti, che per lui fu allora non il ministro, come G. Salvemini l'aveva in precedenza definito, della "malavita", ma l'artista di ogni cosa che fosse mediocre, si contentasse della mediocrità e rinunziasse a volare alto nei cieli della grande politica.  Furono, questi, mesi drammatici, che egli visse in uno stato d'animo teso e agitato, e nel segno di un'attività senza soste, che dette a tratti l'impressione di essersi risolta in frenetico attivismo. Che certo non si placò quando nel 1920 Croce fu chiamato da Giolitti a ricoprire nel governo la carica di ministro dell'Istruzione pubblica e dette la sua opera alla riforma della scuola media e introdusse sia l'esame di Stato, sia l'insegnamento della religione. Alle cose della scuola il G. aveva, per parte sua, cominciato a interessarsi da molto tempo: ossia fin da quando, giovane professore nel liceo di Campobasso, s'era reso conto di quante manchevolezze l'affliggessero. E poi nel 1913 aveva pubblicato il Sommario di pedagogia, così che a giusto titolo era, in quel campo, considerato un'autorità; che, divenuto ministro, Croce non tardò a riconoscere, chiamandolo a presiedere "la commissione per lo studio dell'autonomia universitaria e dell'esame di Stato", nonché "a far parte di quella per la riforma dei programmi presieduta da Vitelli", nominandolo commissario dell'Istituto femminile superiore di magistero di Roma e confermandolo, nel 1921, nel Consiglio superiore dell'istruzione pubblica (Turi, p. 294).  A Croce, del resto, il G. non fece mancare il suo appoggio, pieno e incondizionato. Almeno nei risultati da raggiungere, e nelle conseguenze che occorreva trarre da alcune generali premesse, i due filosofi amici concordavano senza riserve. E nel sostenere, per esempio, la tesi che la religione dovesse costituire materia d'insegnamento, il suo pensiero non differiva da quello di Croce se non per il "modo" e per la diversa posizione che alla religione egli riserva nel sistema dello spirito. La sua idea era insomma che, come per pervenire alla pienezza del suo sé nella filosofia, lo spirito passa attraverso le fasi ideali, e contrapposte, dell'arte (soggetto) e della religione (oggetto), così anche nella scuola questo ritmo dovesse trovare una sorta di trascrizione temporale o fenomenologica, quasi che, per giungere alla filosofia, anche lì si dovesse percorrere la regione del mito di cui le religioni s'interessano. Ma la religione della quale il progetto ministeriale prevedeva l'insegnamento era quella cristiana e cattolica, la più perfetta, per il G., di tutte le religioni quando, appunto, proprio nella forma assunta dal cattolicesimo la si fosse considerata. Era, questa, della perfezione cattolica, un'idea che il G. aveva sostenuto quando, nei primi anni del secolo vigorosamente aveva polemizzato con i modernisti cattolici. E, per questo riguardo (oltre che per quello concernente la struttura dello spirito), il suo accordo con Croce era piuttosto sulle conclusioni che non sul "metodo". Che è poi quello stesso che si dà a vedere nell'idea che presiedette all'introduzione dell'esame di Stato, perché se, nel propugnarlo, il G. vi implicava il concetto secondo cui in esso lo Stato realizzava una delle dimensioni della sua "eticità", Croce non vi vedeva se non uno strumento di controllo e a questa luce ne interpretava la necessità.  La cosa più singolare fu allora che, nell'atto in cui più stretto si rivelava il legame dei due filosofi impegnati in una importante impresa pratica, il loro dissenso filosofico tornò invece a farsi acuto e a complicarsi con quello politico generale, perché nei confronti del fascismo la reazione di Croce fu bensì, agli inizi, cauta e anche esitante, ma certo in quel movimento egli non vide nemmeno una piccola parte delle idealità che il G. riteneva gli fossero intrinseche e immanenti.  Del resto, nel 1920, dopo due anni che era salito sulla cattedra romana, il G. fondò, assumendone la direzione, il Giornale critico della filosofia italiana: una rivista di sola filosofia che anche per questo suo carattere non si contrapponeva in ogni senso alla Critica, ma in un certo senso sì, anche perché nella nuova rivista gli scolari che subito si erano stretti intorno al nuovo professore, e in lui vedevano il sole della filosofia mondiale, riconobbero l'organo della scuola. E questo, come si sa, era il punto che Croce meno apprezzava ed era disposto a perdonare.  Il momento decisivo della vita del G. venne quando, caduto il governo del Giolitti nel quale Croce aveva ricoperto l'incarico di ministro, e succedutogli uno presieduto da I. Bonomi con O.M. Corbino all'Istruzione pubblica, egli ebbe modo di riflettere sulle mille difficoltà che dal mondo politico e parlamentare sempre sarebbero state opposte a ogni tentativo che si fosse fatto d'introdurre nella scuola una seria riforma. La disistima che, in linea generale, già da molto tempo il G. nutriva nei confronti della classe dirigente italiana trovava così, nella recente esperienza fatta quando Croce era al governo con Giolitti, nuovo alimento. E può ben darsi che anche da questo egli fosse indotto a guardare con sempre più grande favore al movimento fascista e a considerare con politica indulgenza la violenza e le illegalità di cui nutriva la sua azione.  I documenti necessari a rendere certezza questa, che è solo una congettura, mancano, che si sappia. Ma non è improbabile che, appunto, riflettendo sulle recenti esperienze, il G. allora si persuadesse che, nella questione della scuola come, in generale, in quella concernente il governo del paese, il regime parlamentare dovesse cedere il campo a un sistema politico diverso, fondato sulla rapidità delle decisioni e sulla forza necessaria a tradurle nella realtà. E altresì deve aggiungersi che, nel pensare così e nell'orientare in questa direzione le sue scelte politiche, come molti altri egli fu forse tratto in inganno dalla scarsa esperienza che, nel complesso, aveva non solo della politica, ma anche della storia; che, se gli fosse stata meglio nota, gli avrebbe con ogni probabilità in segnato che la politica è un'arte difficile, complessa e insidiosa, non in quanto si svolga in un Parlamento e da questo attenda il consenso, ma perché è politica, e ha a che fare con le passioni e gli interessi, nonché con il loro governo.  Come che sia, l'occasione di mettere alla prova i convincimenti che via via gli si erano formati dentro venne quando, avendo ricevuto dal sovrano l'incarico di formare il suo governo, che succedeva così a quello per breve tempo presieduto da L. Facta, Benito Mussolini scelse infine come ministro della Pubblica Istruzione proprio il Gentile. È stato detto da taluni che, entrando in quel governo come indipendente e soltanto per le sue competenze non politiche ma tecniche, il G. accettava da Mussolini quel che avrebbe benissimo potuto accettare da Giolitti e da chiunque gli avesse offerto un'analoga occasione. Ma, sebbene egli non avesse ancora dichiarato il suo consenso esplicito al fascismo, e fascista ancora non potesse perciò essere detto, è pur vero che quel che pensava di Giolitti e della tradizionale classe politica italiana non gli avrebbe forse consentito di collaborare nel governo con uomini per i quali nutriva disprezzo, e non stima. Nel governo in cui entrava il G. poteva infatti contare sugli ampi poteri che, nel dargli fiducia, il Parlamento aveva concesso a Mussolini, che governò infatti soprattutto con i decreti legge e con facilità poteva aggirare le opposizioni; e di questo, che considerava un vantaggio, egli si giovò con larghezza e altrettanta fermezza, perché, appunto, al governo era andato con l'idea di realizzare comunque la riforma; e a realizzarla era deciso.  Non è possibile, in poco spazio, raccontare le vicende complesse e intricate alle quali il progetto gentiliano della riforma dette luogo. E basteranno due rilievi: uno rivolto a ricordare la struttura a cui la riforma tendeva e alla quale infine mise capo, l'altro diretto a rievocare le fiere critiche che essa suscitò, non solo nel mondo politico, ma anche in quello della scuola. La struttura della scuola riformata prevedeva una scuola elementare obbligatoria per tutti, nella quale il senso della tradizione nazionale, della religione e della letteratura tenessero il centro e costituissero il criterio per la formazione del giovane, al quale certo non sarebbero mancate le nozioni elementari dell'aritmetica e della scienza. Accanto al ginnasio-liceo, destinato a formare le future élites dirigenti e, comunque, gli strati più alti della popolazione, la scuola riformata prevedeva quattro indirizzi fondamentali a cui, come ha scritto S. Romano, corrispondevano "quattro distinti ruoli sociali" (p. 174); e altresì prevedeva che l'educazione impartita nelle elementari sarebbe stata completata, per i figli del popolo, con tre anni di complementare, mentre una scuola industriale e tecnico-commerciale, integrata da un istituto tecnico per chi avesse inteso proseguire nello studio, avrebbe corrisposto alle esigenze formative di queste professioni, insieme con una scuola magistrale, proseguibile in un magistero universitario, per certe parti analogo alla facoltà di lettere e filosofia.  Le critiche che a questo modello di scuola, qui sommariamente descritto, furono rivolte posero subito in rilievo il carattere conservatore, statico e anche classista di una struttura a cui faceva in effetti riscontro l'idea di una società immodificabile nei suoi equilibri politici ed economici. E forti furono subito, da parte di non pochi, le riserve avanzate circa il ruolo riservato al ginnasio-liceo, nel quale lo studio delle due lingue classiche, il latino e il greco, prevaleva su quello delle lingue moderne e, nel complesso, la parte riservata alle lettere appariva rispetto a quella fatta alle scienze naturali, predominante. Si aggiungano le critiche rivolte all'abbinamento, nel liceo, della filosofia e della storia, e anche della matematica e della fisica; e sopra tutto al primo, che sconvolgeva antiche abitudini sia degli storici, sia dei filosofi, alquanto astrattamente dedotto da una teoria e che in concreto non aveva, e non ebbe, il potere di rendere filosofi gli storici, e storici i filosofi. E infine non si dimentichi che la riforma non piacque a molti cattolici, scontenti del potere che lo Stato veniva a esercitare sulle scuole private, e a non pochi laici, scontenti essi pure che la religione cattolica fosse diventata materia obbligatoria per tutti i giovani cittadini dello Stato italiano.  Accanto alle molte critiche, occorre tuttavia anche ricordare e sottolineare che la riforma gentiliana nasceva da una visione coerentemente unitaria, e certo non era la veste di Arlecchino che altrimenti (e come poi è accaduto) avrebbe rischiato di essere: tante idee di diversa provenienza mal combinate e peggio tenute insieme dallo spirito deteriore del compromesso politico. Per quanto concerne il rilievo (certo non infondato) di elitismo e persino di classismo, conviene dimenticare il "nodo" che, per parafrasare Dante, tiene al di qua di ogni ragionevole traguardo chi, ripugnando all'idea di fare delle classi economiche più forti le vere destinatarie dell'alta cultura, intesa perciò come strumento di conservazione e di trasmissione del potere, con alquanta semplicità di spirito ritenga che la difficile questione si risolva col "democratizzare" la cultura, ossia con l'estenderne l'ambito e abbassarne il livello. L'esigenza che il G. (e questo non può essere negato) cercava di realizzare, e che per alcuni versi si traduceva in istituti didattici inadeguati, era diretta a far entrare nelle menti che "cultura" significa, in primo luogo, la grande difficoltà che s'incontra nel tentativo che si faccia di conseguirla: un tentativo che va a buon segno soltanto se ci si impegna nell'acquisizione degli strumenti tecnici, storici, linguistici, filosofici, scientifici, senza i quali il mondo del sapere non dischiude i suoi tesori. Ma qui, su questo difficile problema, che tende a tornare insoluto dinanzi a chi pur lavori nel tentativo di risolverlo, occorre non insistere.  Nel maggio 1923, all'apparenza con una decisione improvvisa, che non fu comunicata se non a Mussolini, che doveva essere informato, e della quale nemmeno Croce fu messo al corrente, il G. si iscriveva al Partito nazionale fascista. E sulle ragioni che lo indussero, mentre era ministro, a compiere questo passo, che certo non era privo di gravi conseguenze, si è molto discusso; e da alcuni si è avanzata l'ipotesi che a prendere questa decisione, che rese contenti i suoi allievi romani, ma non altri che ne rimasero invece alquanto sgomenti, egli fosse indotto da due diverse, ma convergenti, persuasioni.   La prima, che quello fosse l'esito necessario non tanto dell'idealismo attuale, che con il fascismo in quanto tale poco aveva in comune, quanto piuttosto della riflessione da lui condotta nei passati anni sulla storia d'Italia e sulla possibilità che ora il fascismo aveva nelle mani di reintegrarne in unità le secolari scissioni e lacerazioni, la politica imbelle e la letteratura vuota, compiendo il Risorgimento. L'altra, immediatamente pratica e politica, che la riforma sarebbe stata meglio difesa, e altrimenti non potesse esserlo, se il liberale che egli era, ed era considerato, avesse mostrato di condividere senza riserve la convinzione mussoliniana e fascista e avesse così posto termine, o almeno un freno, alle critiche che gli si muovevano e alle diffidenze da cui era circondato.  In ogni caso, il passo che doveva decidere il destino del G. era compiuto. Ed è quanto meno dubbio che, se lo compì anche per salvare la riforma dalle forze che l'avversavano e minacciavano di impedirne l'attuazione, quel passo servisse veramente allo scopo. I mesi che precedettero l'assassinio di G. Matteotti, avvenuto il 10 giugno 1924 e che videro quattro giorni dopo le sue dimissioni dal governo, furono drammaticamente segnati da gravi difficoltà, a superare le quali non bastarono né il tattico appoggio datogli dal capo del governo, né gli inviti alla resistenza provenienti dai suoi scolari e amici romani, né il sostegno deciso di Croce che, malgrado il sempre più netto incrinarsi dei loro rapporti e la frattura che entrambi sapevano, in cuor loro, inevitabile, non glielo fece mancare e, nella sua impresa di ministro, lo sostenne. Le dimissioni dal governo non furono un atto di autonomia, di distacco dal fascismo che si era macchiato di un gravissimo delitto, di opposizione alla sua politica. Furono, infatti, da lui motivate con pure ragioni di opportunità politica e nell'interesse sia del governo, sia di colui che lo presiedeva: ossia con l'argomento secondo cui le opposizioni delle quali la sua riforma era da tempo l'oggetto potessero diventare un pretesto per colpire Mussolini o avessero comunque, pretesto o no, a indebolire la posizione politica di lui che, all'improvviso, era venuto a trovarsi in una situazione obiettivamente molto difficile.  Accusato apertamente dalle opposizioni di essere il responsabile e il materiale mandante del delitto, Mussolini era allora non solo in pericolo, ma sembrava altresì aver perduto la sicurezza e la spregiudicatezza che, in momenti non altrettanto gravi, erano sembrate la dote precipua del suo essere un politico nuovo, estraneo alle astuzie deteriori e alle infinite mediazioni della prassi parlamentare. E, proprio perché sull'indecisione dimostrata da Mussolini egli ebbe allora, in lettere private, a formulare critiche precise - nonché il timore che quello smarrisse la via e naufragasse -, proprio per questo il proposito di rendergli il più possibile sgombro di ostacoli il cammino dovette sembrargli l'unico che un seguace fedele dovesse preoccuparsi di tradurre in comportamenti conseguenti.  Al fascismo, dunque, con quel gesto il G. non tolse il suo consenso, ma piuttosto lo rinnovò in un momento in cui non mancarono, fra i suoi allievi, quelli che, delusi dall'indecisione mussoliniana, lo esortavano a prender lui la guida effettiva, e cioè politica, del fascismo in crisi. Furono quelle settimane drammatiche, perché, oltre gli elementi obiettivi che rendevano tale la crisi, a coloro che, nel campo fascista, lo spingevano verso posizioni estreme si contrapponevano gli amici che, o antifascisti o in via di diventar tali, gli davano il consiglio opposto: non di rimanere nel partito di Mussolini, ma, decisamente, di uscirne, mettendo in salvo una volta per tutte il suo "nome onorato". Drammatiche sono, in questo senso, le lettere che allora gli scrissero G. Lombardo Radice, collaboratore fedele e amico fraterno, e A. Omodeo, uno degli allievi prediletti della scuola palermitana. Furono giorni, settimane, mesi molto difficili anche perché il dissidio con Croce, che, come si è detto, mai si era sul serio ricomposto e, come il fuoco la cenere, sempre aveva seguitato a sottendere i loro rapporti, giunse allora, finalmente, alla sua definitiva espressione. E quali, a determinare la rottura che in sostanza si consumò alla fine dell'ottobre 1924, possano essere stati gli episodi e le circostanze specifiche, sta di fatto che era la logica delle cose a rendere grave ogni episodio, ogni circostanza che, se tale logica non fosse appunto stata così forte e imperiosa, avrebbero, con ogni probabilità, potuto avere un esito diverso.  Sulle ragioni profonde che la determinarono e misero fine a un sodalizio durato quasi trent'anni, molte cose si dissero allora, molte sono state dette poi, quando parve che il distacco cronologico consentisse la serenità necessaria alla formulazione del giudizio. E questa non è la sede dove la questione possa essere analizzata in ciascuno dei suoi aspetti, filosofici, politici, psicologici; e si può ben dire che, per quanto attiene al suo concreto e determinato delinearsi e decidersi nel tardo autunno del 1924, essa risulti definita dalle due lettere che il G. e Croce si scambiarono: essendo tuttavia quest'ultimo che, di fronte alla dolorosa meraviglia espressa dall'altro nell'apprendere che certi suoi comportamenti avevano seriamente messo in pericolo la prosecuzione, non solo del loro sodalizio scientifico, ma, addirittura, della loro amicizia, obiettò che al dissidio mentale nel quale da tempo si trovavano se n'era aggiunto un altro, di natura pratica e politica; e che le cose dovevano perciò fare il loro corso necessario, fino alle estreme conseguenze.  Le dimissioni che il G. presentò e che Mussolini accettò, nominando al suo posto il liberale, e grande amico di Croce, A. Casati, segnarono nella sua vita una svolta importante. Nella sua vita, s'intende dire, pubblica e politica; e non nei suoi sentimenti e convincimenti politici che, a quanto risulta, fino all'ultimo dei suoi giorni rimasero quelli che nel 1923 lo avevano indotto a chiedere la tessera del partito fascista. Non nei sentimenti e nei convincimenti, dunque. Ma nella vita pubblica e politica, sì. Al governo infatti il G. non tornò più. E alla politica del paese partecipò bensì, nei primi tempi, come presidente della Commissione dei quindici (divenuta poi dei diciotto), il cui compito fu di svolgere una revisione costituzionale in senso autoritario dello Stato. Partecipò bensì come vicepresidente del Consiglio superiore della pubblica istruzione: una carica importante, questa, che gli consentiva di vegliare sull'integrità della riforma, proteggendola da quanti avevano interesse a intervenirvi per alterarla e stravolgerla. Ma, intesa in senso stretto, dalla politica, in sostanza, egli allora uscì. E la sua partecipazione alla vita del regime fascista si realizzò nelle istituzioni culturali (per esempio, l'Istituto nazionale fascista di cultura, poi di cultura fascista) delle quali ebbe la cura e che presiedette; e se nei giornali e nelle riviste politiche alle quali normalmente collaborava non perse occasione per dire il suo parere su ciò che più da vicino lo toccava, l'argomento prescelto fu quasi sempre culturale, anche se mai egli mancò di collocarlo nel quadro costituito della sua fede fascista e della sua fedeltà al regime mussoliniano.  Almeno su due episodi occorre tuttavia, non essendo possibile in questa sede un più largo discorso, soffermarsi. E di questi uno era bensì di natura anche filosofica e culturale, perché implicava in modo preminente l'idea che da anni ormai egli aveva elaborato della filosofia e dello Stato che, identico alla filosofia, rappresenta il vertice stesso dell'autocoscienza; ma anche era di natura politica, e persino diplomatica, coinvolgendo direttamente l'azione del governo e del suo capo. Si allude al concordato con la S. Sede dell'11 febbr. 1929. E il G. lo avversò in un pubblico discorso, che non ebbe conseguenze pratiche perché sulla via concordataria Mussolini era deciso ad andare fino in fondo, e l'opposizione del filosofo formalmente rientrò: sebbene quell'episodio dovesse seguitare ad agire dentro di lui che, forse anche per questo, quasi volesse rinverdire dentro di sé quel gesto di autonomia non andato a segno, per tutta la vita polemizzò con i filosofi cattolici e, in modo particolare, con gli ambienti dell'Università cattolica del S. Cuore di Milano, in primis con padre A. Gemelli, che egli trattò con la mano rude che riservava a certe sue battaglie culturali e filosofiche.  L'altro episodio è costituito dalla battaglia che egli sostenne perché ai professori universitari fosse imposto il giuramento di fedeltà al regime fascista. E a parte le modalità con le quali e attraverso le quali si svolse; a parte il nesso con le vicende della replica che, per iniziativa di G. Amendola, e a nome di tanti e tanti intellettuali, Croce dette al Manifesto degli intellettuali fascisti redatto dal G.; a parte le tragiche ferite che questa imposizione apriva nella coscienza di tanti che innanzi a sé videro o la prospettiva della miseria o quella dell'abdicazione ai dettami dell'etica, c'è qualcosa che a questo riguardo merita di essere notato. E questo è il singolare concetto della "concordia" a cui, com'era accaduto persino nei giorni cupi della crisi aperta dell'assassinio Matteotti (e come ancora sarebbe accaduto vent'anni dopo nei mesi della Repubblica sociale), anche in quel caso il G. si appellò per sostenere che, se l'opposizione resa evidente e, anzi, drammatizzata dal conflitto dei due manifesti, il suo e quello di Croce, fosse stata superata da un formale atto di fedeltà al regime, l'unità sarebbe stata ristabilita e nessuna discriminazione avrebbe più avuto alcuna ragione d'essere nei confronti di dissenzienti che non erano, ormai, più tali. E la cosa singolare è che, nell'argomentare così, non solo egli mostrava di credere che, se il giuramento fosse stato dato, le ragioni del dissidio politico che ai suoi occhi lo aveva reso necessario sarebbero venute meno; ma addirittura riteneva che potesse essere e definirsi unità autentica quella che fosse stata conseguita per la via della coercizione e non per quella, da lui tante volte definita come l'unica possibile, della libertà, mediante la quale lo spirito costituisce sé stesso.  Quella dell'Enciclopedia Italiana fu l'impresa alla quale, fra il 1925 e il 1943, il G. dedicò la parte più viva della sua energia di grande organizzatore culturale. La parte più viva, e anche la più grande, la più impegnata e costante, quella con la quale il suo "tutto" quasi per intero giunse a coincidere. Quasi per intero; perché, accanto all'opera dell'Enciclopedia, occorre non dimenticare l'altro grande suo impegno, che fu costituito dalla Scuola normale superiore di Pisa, della quale fu, dal 1928, commissario, quindi, dal 1932, direttore, e che nella sua stessa persona difese, nel 1935, dall'attacco mosso da C.M. De Vecchi di Val Cismon che, divenuto ministro dell'Educazione nazionale (gennaio 1935), gli mostrò intera la sua ostilità, giungendo anche a destituirlo (giugno 1936). Il provvedimento del ministro fu presto ritirato perché, sollecitato dal G., nella controversia intervenne direttamente il capo del governo, che rimise al suo posto il filosofo; che poté così continuare la sua opera di potenziamento e di ammodernamento della Scuola, e rendere assai più agevole il soggiorno, e migliori le condizioni di studio, agli studenti interni. Dai quali, sopra tutto negli anni Trenta e Quaranta, dovette sopportare non poche manifestazioni di antifascismo, perché, fra La Sapienza e la Normale, per opera di alcuni giovani professori, e in primo luogo di G. Calogero, Pisa era diventata un centro assai vivo di opposizione al regime fascista.  Il consenso del quale questo aveva goduto fin verso la metà degli anni Trenta era andato impallidendo quando, con la guerra di Spagna e poi, nel 1938, con le leggi razziali, si ebbe netta l'impressione che l'allineamento alla Germania nazionalsocialista avrebbe avuto per conseguenza la tragedia di una seconda guerra europea e mondiale. E, ancora una volta, il G. si trovò a dover affrontare un conflitto, difficile e penoso, con i giovani che, direttamente o no, erano anche suoi allievi e non poco, comunque, avevano ricevuto da lui. Le testimonianze, scritte e anche orali, che rimangono di quegli anni pisani dicono di un suo atteggiamento incerto fra paternalismo e autoritarismo, fra benevole indulgenze e improvvise durezze. Un atteggiamento, questo, tipico di un uomo generoso e, nello stesso tempo, incapace di comprendere le ragioni del dissenso; e che, su un piano di ben altra drammaticità, si ripeté quando, avendo accolto e cercato di "sistemare" alcuni intellettuali tedeschi che, dopo il 1933, avevano dovuto lasciare la loro terra perché ebrei (P.O. Kristeller, K. Löwith, N. Rubinstein, per citarne solo tre), la medesima questione gli si presentò, per gli ebrei italiani, in seguito alla promulgazione delle già ricordate leggi razziali del 1938. Anche in questo caso, infatti, quanto fu benevolo e comprensivo nei confronti dei perseguitati, altrettanto il suo atteggiamento fu debole nei confronti di chi di quella persecuzione si era reso responsabile. E se niente egli disse in quegli anni in difesa di provvedimenti che non potevano non ripugnargli profondamente, in pubblico non se ne dissociò.  Ma si diceva dell'Enciclopedia, nell'organizzare la quale, nel dirigerla, nell'avviarla alla sua realizzazione, il G. seppe altresì formare, nella sede romana di piazza Paganica, un luogo di lavoro affatto particolare, segnato in profondità dalla sua energia, ma anche dal suo vivo senso della libertà della scienza, che in sostanza, tenendosi in difficile equilibrio fra il censore ecclesiastico e quello politico, egli seppe per lo più garantire agli studiosi che vi collaboravano e che, se non certo in maggioranza, in buon numero erano antifascisti o non fascisti.  Si pensi, per fare qualche nome, a G. De Sanctis, che all'Enciclopedia seguitò a collaborare anche dopo che, per non aver voluto prestare il giuramento di fedeltà al regime, aveva dovuto rinunziare alla cattedra romana. Si pensi a G. Calogero, a W. Giusti, a U. La Malfa, a C. Antoni, e ad altri che, se, come si è detto, non erano propriamente ostili al fascismo, nemmeno gli erano amici incondizionati; e qui si possono, per esempio, fare i nomi di F. Chabod, di E. Sestan, di W. Maturi.  A proposito dell'Enciclopedia sono state poste, tra le altre, due questioni: se il G. la concepisse come un grande monumento, fascista, da innalzare al fascismo, o se da questa idea si tenesse tanto lontano quanto per contro era convinto che quello dovesse essere un monumento italiano, frutto e documento dell'unica, ossia della più alta, cultura italiana; e, inoltre, se l'Enciclopedia, quale il G. la concepì e disegnò, abbia patito la conseguenza della chiusura e dell'angustia della cultura idealistica e fosse perciò poco disposta a concedere alle scienze naturali, fisiche e matematiche, lo spazio che queste avrebbero richiesto e, beninteso, meritato. Alla prima deve rispondersi che, certo, nata in quegli anni e resa possibile dal fascismo, l'Enciclopedia appartiene al numero delle opere che allora si produssero. Ma "fascista" non fu nella concezione, perché esplicitamente il G. sostenne il suo carattere in primo luogo scientifico, culturale e non politico. E "fascista" non fu nel contenuto, perché, oltre a essere "scritta" da molti che fascisti non erano, e anzi al regime erano avversi, anche gli studiosi che aderivano al regime vi scrissero per lo più da studiosi e non da fascisti. Sì che, al riguardo, occorre distinguere e mantenere le distinzioni: aggiungendo (e con questo si passa all'altra questione) che, come non fu fascista nella concezione, così nemmeno fu "idealistica" nel senso vulgato, per il quale si dice "idealismo" e s'intende qualcosa come un oltraggio recato alla scienza. In realtà, come accanto a studiosi idealisti tanti altri vi scrissero che idealisti non erano affatto, così non sarebbe giusto dire che in generale le scienze vi fossero depresse, e che le relative voci non fossero affidate a studiosi di provato e, spesso, di grande valore.  Il lavoro svolto nelle Università di Roma e di Pisa, l'Enciclopedia, e quindi l'Università Bocconi di Milano, l'Istituto per il Medio e l'Estremo Oriente, il Centro nazionale di studi manzoniani (di cui il G. era stato nominato commissario nel 1937, e che fu affidato alle cure sapienti di M. Barbi e del suo collaboratore F. Ghisalberti) non resero però meno intensa la sua attività di studioso. Certo, dopo il 1920-21, venne meno nel G. la possibilità e, con questa, anche l'interesse, di coltivare la ricerca storica nelle forme che questa aveva assunto, presso di lui, negli anni precedenti. Ma nel 1931, rielaborazione di un corso tenuto nel 1927-28 nell'Università di Roma, dove (come già si è ricordato) era succeduto al Varisco sulla cattedra di filosofia teoretica, il G. pubblicava La filosofia dell'arte, documento di aspra polemica anticrociana, ma anche, nello stesso tempo, rielaborazione dell'idealismo attuale dal punto di vista del sentimento, interpretato ora come una sorta di grande Grundakkord, presentante tratti di essenzialità e precategorialità della stessa vita spirituale. E quindi pubblicava l'Introduzione alla filosofia (1933), raccolta di scritti concernenti l'esame dei concetti fondamentali della filosofia, studiati e prospettati dal punto di vista conseguito dall'idealismo attuale. E senza la pretesa di ricordare tutti i tanti scritti, spesso di varia occasione, che egli allora compose e con i quali fu presente nel dibattito e nella vita culturale del paese, converrà tuttavia far menzione degli scritti dedicati ai poeti, e cioè, in pratica, a Dante (La profezia di Dante, Roma 1933; Il canto VI del Purgatorio, Firenze 1940), a Manzoni e infine a Leopardi, il più amato, e quello altresì al quale dette forse il contributo, in questo campo della critica letteraria, più notevole (Manzoni e Leopardi, Milano 1928; Commemorazione di G. Leopardi, Roma 1937; Poesia e filosofia di G. Leopardi, Firenze 1939).  Se la si osserva dall'alto, e la si scruta nel non breve periodo seguito alle battaglie per la riforma della scuola, contro il concordato, per l'istituzione del giuramento da imporre ai professori delle università, la vita del G. sembra, come si è detto, svolgersi prevalentemente all'interno delle istituzioni culturali delle quali ebbe la cura. E qui, fra le luci e le ombre di queste molteplici attività, che lo condussero anche all'acquisto nel 1936 della casa editrice Sansoni, si ha quasi l'impressione che il personaggio sfugga a una definizione; che, malgrado la sua spesso ingombrante presenza, ci fosse in lui qualcosa di segreto, di irriducibile, con il quale egli era forse il primo a non voler prendere, fino in fondo, contatto.  L'uomo era orgoglioso, sicuro di sé: tollerante, come si è detto, ma anche deciso e prepotente. E non avrebbe mai consentito che qualcuno spingesse, o provasse a spingere, lo sguardo per andare al di là di quella spessa corazza attivistica, dietro la quale si muovevano forse più cose di quante amici, nemici, egli stesso supponessero. Mentre impediva che altri penetrasse nel suo animo, non era certo lui quello che fosse disposto ad aprirlo perché egli stesso vi guardasse dentro. Un contributo gentiliano alla "critica" di sé stesso sembra, francamente inconcepibile. Non senza perciò che un moto di stupore si determinasse nell'ambito di chi vi conduceva qualche ricerca, dal suo archivio sono emersi alcuni inediti dedicati alla questione della morte, ossia a un tema, per il teorico dell'idealismo attuale, insidioso fin quasi al limite dello "scandalo" (filosofico).  Da qualche altro indizio documentario può desumersi che se la fedeltà che lo legava al fascismo non venne meno e intatta rimase l'ammirazione per Mussolini e inconcussa la fiducia in lui, nei confronti del razzistico nazionalsocialismo il G. mostrò tutt'altro che inclinazione o simpatia. Il che peraltro non gli impedì di accettare senza discussione alcuna la guerra che, scoppiata nel settembre 1939, coinvolse tragicamente, nel giugno del successivo anno, anche l'Italia. Nei tre anni successivi, dal 10 giugno 1940 all'8 sett. 1943 - in quei tre anni così gravi di disastri, di distruzioni, di sconfitte, e anche di dolorosi lutti familiari, mentre il nesso che aveva unito le coscienze alla patria si spezzava, perché la difesa di questa non s'identificava più, per molti, con la difesa della libertà, da vent'anni perduta -, in questi tre anni il G. scelse il silenzio; che fu rotto solo in poche occasioni: nel 1942, quando esaltò in un articolo il Giappone guerriero, che, nei modi noti era entrato in guerra attaccando gli Stati Uniti d'America; e quindi con il famoso discorso agli Italiani del 24 giugno 1943.  È difficile dire come, dentro di sé, il G. valutasse il dissenso politico sempre più vivo nei confronti del regime, e che egli non poteva non cogliere nei giovani con i quali, a Roma e a Pisa, aveva frequente contatto: anche se è indiscutibile che di quel dissenso, di quell'avversione, del progressivo distacco dal fascismo di molti che pure in questo avevano creduto e riposto speranze, egli non partecipò, chiuso nel suo sentimento di fedeltà come in una fortezza della quale convenisse non abbassare, bensì, piuttosto, tenere ben alzati i ponti levatoi.  Fu questa, come si sa, la ragione per la quale egli accettò l'invito rivoltogli dal segretario del partito fascista, C. Scorza, di pronunziare dal Campidoglio un discorso che si rivolgesse agli Italiani, impegnati nella terribile prova della guerra e che, da qualche settimana avevano ormai il nemico in casa, fortemente attestato nella terra siciliana. Accettò l'invito che altri, interpellati prima di lui, avevano declinato. Salì sul Campidoglio, e pronunziò il suo discorso, che alcuni lodarono per il coraggio che aveva dimostrato e per il rischio al quale aveva in tal modo esposto la sua persona, e altri invece fortemente deplorarono e criticarono, cogliendovi come il segno della sua perdizione, del suo ribadito essersi reso estraneo a quel suo più profondo "sé stesso" dal quale non pochi avevano tratto una lezione di libertà. Certo, con quel suo discorso, così teso, così eloquente e così, politicamente, ingenuo, il G. mostrò intero il dramma, anzi rivelò la tragedia nella quale, forse al di là della sua stessa consapevolezza, si dibatteva.  Poi vennero il 25 luglio, la caduta di Mussolini e del fascismo, le umiliazioni che egli dovette subire quando il suo antico segretario al ministero della Pubblica Istruzione, L. Severi, divenuto a sua volta ministro nel governo formato da P. Badoglio, rese, senza alcuna seria ragione, pubbliche tre lettere che gli erano state da lui privatamente indirizzate a proposito, sopra tutto, di questioni concernenti la Scuola normale superiore di Pisa. Il che provocò giudizi aspri su di lui sia da parte dei fascisti che lo ritennero pronto a mettersi al servizio dei nuovi governanti, sia da parte di non pochi antifascisti uniti ai primi, in questo caso, da un non diverso giudizio.  Poi venne l'8 settembre, la cui notizia il G. apprese mentre si trovava a Roma, dove si era recato uno o due giorni prima, per affari personali, da Troghi, un piccolo paese sito a pochi chilometri da Firenze, nel quale, in una casa di campagna messa a disposizione sua e della sua famiglia dall'amico G. Casoni, aveva trascorso i mesi estivi, occupato a scrivere Genesi e struttura della società, il suo ultimo libro, estremo frutto di un corso di lezioni tenute all'Università di Roma. E le settimane successive furono quelle in cui, liberato Mussolini, e formatosi, con la proclamazione della Repubblica sociale, un governo fascista con sede a Salò, egli ricevette, tramite C.A. Biggini, divenuto ministro dell'Educazione nazionale, l'invito a recarsi al Nord per un incontro con il capo del governo, il "vecchio amico" al quale, ancora una volta, non poté non concedere quel che quello gli chiedeva. Così fu nominato presidente dell'Accademia d'Italia, trasferita da Roma a Firenze, dove fu sistemata a palazzo Serristori. E qui, dopo che il "commovente" incontro con il "vecchio amico" Mussolini aveva come riacceso in lui il desiderio di non starsene in disparte e, invece, di combattere la sua ultima battaglia, egli riprese il lavoro, cercando di riorganizzare l'Accademia e lavorando con i pochi soci che vi si recavano, assumendo la direzione della Nuova Antologia, cercando di riprendere contatti, e rapporti, per avviare nuove imprese. Ridette vita e autonomia, e questa è una circostanza singolare, la cui genesi richiederebbe qualche studio e attenzione, all'Accademia dei Lincei che infine era stata in parte assorbita nell'Accademia d'Italia, e quindi soppressa. E riprese ancora a collaborare ai giornali, perché, mentre gli eserciti alleati risalivano la penisola e alla guerra che investiva le città e le campagne un'altra si aggiungeva, di Italiani contro Italiani, gli sembrò che non si potesse non far di nuovo risuonare il tema della concordia e dell'unità.  Era un suo vecchio tema, una sua convinzione tenace che, nel livido e tragico teatro che era allora l'Italia, fu qual era stata durante la crisi seguita all'assassinio di Matteotti, e quindi al tempo del giuramento fascista imposto ai professori universitari, anche se, risuonando nella solitudine e nel gelo che circondavano la sua persona, il suo accento risultasse ancora più livido, ancora più tragico. Il G. riprese quel tema nel fosco crepuscolo dell'Italia fascista, forte lui della convinzione che gli Italiani sarebbero tornati a esistere come soggetti politici solo se fossero retroceduti al di qua delle ideologie e qui, in questo luogo ideale, avessero ritrovato la loro unità e identità di Italiani. Era una convinzione nutrita di illusione; e che fosse tale, si comprende non solo se le sue parole siano ripensate nel clima di quel tragico inverno, ma anche se si riflette sullo scambio logico sul quale, ancora una volta, si fondavano, e che si rivela non appena si consideri che per un verso sembrava che la conciliazione, la concordia, la ritrovata unità e identità dovessero realizzarsi in un luogo ideale, irraggiungibile dalle ideologie, dal fascismo, dunque, e dall'antifascismo, mentre per un altro era la Repubblica sociale a rappresentare, nel segno dell'italianità, quel luogo ideale.  Ancora una volta le diverse componenti della sua anima, quelle che, nel loro contrasto, conferiscono alla sua personalità un'inconfondibile dimensione tragica, urtarono violentemente l'una contro l'altra. E la fedeltà mantenuta usque ad mortem al fascismo si accompagnò alla protesta che egli più volte elevò contro le atrocità alle quali intanto si dava luogo, da parte dei fascisti, con torture, uccisioni, gravi violenze.  La sua morte, avvenuta per mano di un commando partigiano comunista, che lo attese nei pressi della Villa Montalto al Salviatino, sulle colline di Firenze dalla parte di Fiesole, nella tarda mattina del 15 apr. 1944, al suo ritorno a casa dopo la mattina trascorsa al lavoro a palazzo Serristori, fu perciò anch'essa una morte violenta. E suscitò molta emozione, anche fra coloro che lo avevano combattuto e mai avevano perdonato a lui, filosofo dell'atto e della sua assoluta libertà, la scelta fascista, cui era rimasto fedele.  Due domande, semplici, ovvie e altrettanto inevitabili, si pongono, e sono state poste, a proposito della sua ultima scelta politica e sulle ragioni che determinarono la decisione di ucciderlo. E la risposta non è, per quanto concerne la seconda, altrettanto semplice di quella che può e deve darsi alla prima. Alla Repubblica sociale il G. aderì per le ragioni da lui stesso addotte; perché si trattava non di scegliere di nuovo, ma di ribadire, nel momento del supremo pericolo, la scelta fatta vent'anni innanzi. E non c'era calcolo politico che bastasse a mettere in crisi questa decisione, perché l'intero universo si concentra e vive nell'atto puro, e quel che resta fuori non è se non calcolo, astuzia: ossia, a rigore, niente. Alla seconda domanda rispondere si potrà in modo adeguato quando nuovi documenti interverranno a far luce nelle molte zone oscure che tuttora impediscono di vedere tutta la verità; che emergerà quando e se emergerà: e allora si vedrà fino a che punto nella decisione di uccidere il G. che aveva rinnovato il suo legame con il fascismo e con Mussolini siano entrate anche valutazioni politiche non direttamente note a quanti, sulla collina fiorentina, spezzarono il filo della sua vita. Qui basterà ricordare che nella chiesa di S. Croce, in Firenze, il nome del G. indica, sul pavimento, il luogo della sua sepoltura.  Opere. Le opere complete del G., raccolte via via durante la vita dell'autore, prima da Laterza (Bari), poi da Treves-Tumminelli (Milano e Roma), quindi da Sansoni (Firenze), furono riprogettate e stampate dopo la morte del G. e la fine della guerra mondiale da questo medesimo editore, al quale subentrò negli ultimi anni, ma senza alcuna mutazione di veste tipografica e di caratteri, l'editrice Le Lettere, sempre di Firenze. L'edizione definitiva rispetta fondamentalmente le partizioni già previste dal G., e cioè: I, Opere sistematiche; II, Opere storiche; III, Opere varie alle quali due si aggiungono, una IV, Frammenti, e una V, Epistolari. A queste cinque partizioni si è unita di recente, una VI di Scritti inediti e vari, nella quale sono apparsi fin qui Eraclito. Vita e frammenti (con il facsimile del manoscritto della traduzione di H. Diels), a cura di H.A. Cavallera, premessa di F. Adorno, Firenze 1996, e La filosofia della storia. Saggi e inediti, a cura di A. Schinaia, premessa di E. Garin, ibid. 1996. A parte questi due ultimi, i volumi fin qui pubblicati delle Opere complete sono quarantanove, perché ancora in preparazione risulta il XXIX, dedicato a B. Spaventa; e aumenteranno, negli anni a venire, nella sezione comprendente i Carteggi, alcuni dei quali sono già in lavorazione, come quello con G. Calogero, a cura di C. Farnetti, e l'altro con G. Chiavacci, a cura di M. Simoncelli.   Qui converrà ricordare in quanto inserite nel testo della voce le principali opere del G.: Rosmini e Gioberti, Pisa 1898; La filosofia di Marx, ibid. 1899; Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, Bari 1909; I problemi della scolastica e il pensiero italiano, ibid. 1913; La riforma della dialettica hegeliana, Messina 1913; Sommario di pedagogia come scienza filosofica, I, Pedagogia generale, Bari 1913; II, Didattica, ibid. 1914; Teoria generale dello spirito come atto puro, Pisa 1916; I fondamenti della filosofia del diritto, ibid. 1916; Sistema di logica come teoria del conoscere, I, La logica dell'astratto, ibid. 1917; II, La logica del concreto, Bari 1923; Le origini della filosofia contemporanea in Italia, I-IV, Messina 1917-23; Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono, Firenze 1922; La filosofia dell'arte, Milano 1931; Introduzione alla filosofia, ibid. 1933; Genesi e struttura della società, Firenze 1944.   Fra i carteggi, quello con Croce, comprendente le sole lettere del G., è raccolto in Lettere a B. Croce, I-V, a cura di S. Giannantoni, Firenze 1972-90 (il testo di riferimento è B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, a cura di A. Croce, con introd. di G. Sasso, Milano 1980). Ma sono anche usciti: G. Gentile - D. Jaja, Carteggio, a cura di M. Sandirocco, I-II, Firenze 1969; G. Gentile - A. Omodeo, Carteggio, a cura di S. Giannantoni, ibid. 1974; G. Gentile - S. Maturi, Carteggio, a cura di A. Schinaia, ibid. 1987; G. Gentile - F. Pintor, Carteggio, a cura di E. Campochiaro, ibid. 1993.  Fonti e Bibl.: Tre sono le biografie fin qui dedicate al G.: M. Di Lalla, Vita di G. G., Firenze 1975; S. Romano, G. G.: la filosofia al potere, Milano 1984; G. Turi, G. G.: una biografia, Firenze 1995. Si aggiungano i ricordi e le testimonianze di B. Gentile: G. G.: dal Discorso agli Italiani alla morte (24 giugno 1943 - 15 aprile 1944), Firenze 1954; Ricordi e affetti, Firenze 1988. Sulla uccisione del G., v. L. Canfora, La sentenza. C. Marchesi e G. G., Palermo 1985, dove si troverà l'indicazione della precedente bibliografia relativa a questa pagina non ancora definitivamente scritta. Cfr. anche G. Sasso, La fedeltà e l'esperimento, Bologna 1993, pp. 73-117. La bibliografia sul G. è assai ampia: per gli scritti del G. ci si deve ancora servire della Bibliografia degli scritti di G. G., a cura di V.A. Bellezza, in G. G.: la vita e il pensiero, III, Firenze 1950, e anche di Il pensiero di G. Gentile. Atti del Convegno 1976-1977, Roma 1977, II, pp. 903-1011. Per gli scritti dal 1980 al 1993, si veda: S. Bonechi, B. Croce - G. G.: bibliografia 1980-1993, in Giornale critico della filosofia italiana, LXXV (1994), pp. 632-660. In questo ambito per un primo orientamento si può innanzi tutto cercar di distinguere fra quanto di e sul G. è stato scritto dai principali discepoli delle sue due scuole, la palermitana e la romana, e cioè da V. Fazio-Allmayer, da A. Omodeo, F. Albeggiani, il giovane G. De Ruggiero, e quindi U. Spirito, A. e L. Volpicelli, G. Calogero, G. Chiavacci, lo stesso A. Carlini, ecc. in ciascuna delle loro opere, e quanto invece al pensatore siciliano è stato dedicato con esplicita intenzione storiografica. Non sempre agevole da rispettare, la distinzione può tuttavia essere di qualche utilità; e qui si indicheranno gli scritti appartenenti alla seconda classe (mentre per la storia "filosofica" dell'attualismo, può vedersi A. Negri, G. G., I-II, Firenze 1975; cfr. anche A. Lo Schiavo, Introduzione a G., Bari 1974). Sono, innanzi tutto, da tener presenti gli studi raccolti nei quattordici volumi della serie G. G.: la vita e il pensiero, Firenze 1948-72. Si veda quindi: G. De Ruggiero, La filosofia contemporanea, Bari 1912; U. Spirito, Il nuovo idealismo italiano, Roma 1923; Id., L'idealismo italiano e i suoi critici, Firenze 1930; V. La Via, L'idealismo attuale di G. G., Trani 1925; F. De Sarlo, G. e Croce. Lettere filosofiche di un superato, Firenze 1925; G. Calogero, Il neohegelismo nel pensiero contemporaneo, in Nuova Antologia, 16 ag. 1930, pp. 3-20; R.W. Holmes, The idealism of G. G., New York 1937; P. Carabellese, L'idealismo italiano, Roma 1938; A. Guzzo, Sguardi sulla filosofia contemporanea, Roma 1940; M. Ciardo, Un fallito tentativo di riforma dello hegelismo: l'idealismo attuale, Bari 1949; E. Garin, Cronache di filosofia italiana (1900-1943), Bari 1955; H.S. Harris, The special philosophy of G. G., Urbana, IL, 1960; A. Guzzo, Cinquant'anni di esperienza idealistica in Italia, Padova 1964; U. Spirito, G. G., Firenze 1969; A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Milano 1978; V.A. Bellezza, La problematica gentiliana della storia, Roma 1983; A. Del Noce, G. G.: per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna 1990; A. Negri, L'inquietudine del divenire. G. G., Firenze 1992; G. Sasso, Filosofia e idealismo, II, G. G., Napoli 1995.Armando Girotti. Girotti. Keywords: la curva, la curva della bellezza, la linea, la linea della bellezza, storia storica, non filosofica – unita longitudinale – longamiranza, distillizione filosofica – Gentile, il Gentile di Girotti. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Girotti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755915192/in/dateposted-public/

 

Grice e Giudice – l’implicatura di Bruno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: Grice: “Giudice amply proves my trust in the worth of the longitudinal unity of philosophy, for Giudice has unearthed some philosophical minutiae in Bruno – like his tract to Sir Philip Sidney on ‘Atteone,’ which are jewels of implicature!” -- “For Italian philosophy, Bruno is interesting: it’s not all saints like Aquinas; they had hereetics, too – and usually the heretics had a better philosophical background – into what the Italians called the lovely ‘hermetic tradition’ – we used to have one at Oxford in pre-lib days!” -- Grice: “If I am a Griceian, Giudice is a Brunoian – the Italians prefer ‘brunista’ or ‘bruniano,’ but I follow Katz is respecting the full surname – if it is ‘bruno,’ you add things, you don’t substract things!” Essential Italian philosopherwho has studied in depth the origin of philosophy in the Eleatic school. Guido del Giudice (Napoli), filosofo. Si laurea a Napoli e studia Bruno e la filosofia del rinascimento. Fonda la Societa Giordano Bruno. Altre opera: “Bruno” (Marotta e Cafiero Editori, Napoli); “La coincidenza degli opposti” (Di Renzo Editore, Roma); “Bruno, Rabelais e Apollonio di Tiana, Di Renzo Editore, Roma); “Due Orazioni. Oratio Valedictoria e Oratio Consolatoria, Di Renzo Editore, Roma, “La disputa di Cambrai. Camoeracensis acrotismus, Di Renzo Editore, Roma); “Il Dio dei Geometri” quattro dialoghi, Di Renzo Editore, Roma); “Somma dei termini metafisici”; “Tra alchimisti e Rosacroce, Di Renzo Editore,Roma, “Io dirò la verità. Intervista a Giordano Bruno, Di Renzo Editore, Roma, “Contro i matematici, Di Renzo Editore, Roma, “Il profeta dell'universo finite” – “Epistole latine, Fondazione Mario Luzi,. Scintille d'infinito” (Di Renzo Editore).  BRUNO, Giordano (Philippus Brunus Nolanus; Iordanus Brunus Nolanus, il Nolano). - Nacque a Nola, nel Regno di Napoli, nel gennaio o febbraio 1548, figlio di Giovanni Bruno, uomo d'arme, e di Fraulisa Savolino: fu battezzato con il nome Filippo. Della città natale, dove trascorse l'infanzia e iniziò i primi studi, conservò poi sempre un ricordo nostalgico. Nel 1562 si recò a Napoli per studiare lettere, logica e dialettica: in quello Studio ebbe come maestri il Sarnese (Giovan Vincenzo Colle), filosofo di tendenze averroiste, e fra' Teofilo da Vairano, agostiniano, da lui ricordato in seguito con sincera ammirazione. La lettura di uno scritto di Pietro Ravennate suscitò fin da allora in lui l'interesse per la mnemotecnica.  Il 15 luglio 1565, a diciassette anni compiuti e con una incipiente formazione laica, entrò come chierico nel convento napoletano di S. Domenico Maggiore, dove assunse il nome Giordano (forse in onore del domenicano fra' Giordano Crispo, maestro allo Studio) e quel nome ritenne poi sempre, salvo che per una breve parentesi. Mal compatibile, per carattere e prima formazione, con la regola conventuale, tra il 1566 e il 1567 incorse nelle prime infrazioni per aver spregiato il culto di Maria, nonché quello dei santi (una denuncia contro di lui venne allora stracciata dal maestro dei novizi).  Con cautela va accolta la notizia da lui in seguito fornita (Doc. parigini, V) di un invito a Roma per mostrare la propria abilità mnemonica a Pio V (viaggio che lo Spampanato pone tra il 1568 e il 1569):va però notato che allo stesso pontefice il B. dichiarò di aver dedicato L'arca di Noè,operetta smarrita di argomento morale (Dialoghi italiani, p. 842).  Ordinato suddiacono (principio del 1570) e poi diacono (principio del 1571), venne consacrato sacerdote dopo aver compiuto i ventiquattro anni, e celebrò la prima messa nella chiesa del convento domenicano di S. Bartolomeo a Campagna, presso Salerno. Nella seconda metà del 1572, dopo aver soggiornato in altri conventi del Napoletano, fece ritorno allo Studio di S. Domenico Maggiore in Napoli come studente formale di teologia: il curriculum quadriennale comprendeva un corso speculativo (prima e terza parte della Summa tomista) e un corso morale (seconda parte della Summa,alternabile con il quarto libro delle Sentenze di Pietro Lombardo esposte da fra' Giovanni Capreolo). È da ritenere che il B. abbia superato gli esami annuali, e nel luglio 1575 quelli di licenza, per cui sostenne le tesi "Verum est quicquid dicit D. Thomas in Summa contra Gentiles" e "Verum est quicquid dicit Magister Sententiarum" (Doc.parigini, II).  Tali studi, se da una parte suscitarono in lui una non mai smentita ammirazione per l'opera di s. Tommaso, d'altra parte dovettero ingenerargli quel fastidio per "les subtilitez des scholastiques, des Sacrements et mesmement de l'Eucharistie" (Doc. parigini,II), con il conseguente disinteresse per la problematica teologica manifestato in seguito nelle proprie opere come pure, più tardi, in sede processuale. Fin dagli anni conventuali mostrò per contro interesse per opere estranee al curriculum, nonché decisamente vietate, quali i "libri delle opere di S. Grisostomo e di S. Ieronimo con li scolii di Erasmo" (Doc. veneti, XIII).Ciò che, unitamente all'espressione dei propri dubbi circa il dogma della Trinità durante una discussione sulla eresia ariana, portò all'istruzione di un processo a suo carico da parte del padre provinciale (con l'occasione venne ricostruito anche il precedente atto d'accusa già distrutto): in una scrittura smarrita inviata a Roma egli doveva figurare come sospetto di eresia.  Mentre il processo veniva iniziato, il B. non esitò ad abbandonare il convento e la città, probabilmente nel febbraio 1576, e nello stesso mese dové giungere a Roma, dove prese alloggio nel convento di S. Maria sopra Minerva, confidando forse che il proprio caso passasse ignorato tra i disordini che turbavano la città. Egli stesso venne però coinvolto in tali disordini e imputato di "aver gettato in Tevere chi l'accusò, o chi credette lui che l'avesse accusato a l'inquisizione" (Doc. veneti, I): imputazione infondata (come è mostrato dal mancato riferimento ad essa nelle successive vicende processuali), con tutto che un secondo processo contro di lui venne istruito nel 1576 dall'Ordine dei predicatori. Dopo i primi mesi di quell'anno, saputo che i propri libri erasmiani erano stati rintracciati a Napoli, il B., deposto l'abito, abbandonò Roma, raggiunse Genova (circa 15 aprile) e si trattenne a Noli fino al principio del 1577 "insegnando la grammatica a figliuoli e leggendo la Sfera a certi gentilomini" (Doc. veneti, IX). Da Noli passò a Savona e quindi a Torino; di lì, non avendovi trovato "trattenimento a sua satisfazione", si recò a Venezia, dove si trattenne non più di due mesi, facendovi stampare, allo scopo di guadagnare qualcosa, "un certo libretto intitolato De' segni de' tempi", da lui fatto esaminare dal domenicano Remigio Nannini: opera pur questa smarrita. A Padova fu persuaso da alcuni domenicani a indossare l'abito pur quando non avesse voluto rientrare nell'Ordine: ciò che il B. fece dopo essersi recato, per Brescia, a Bergamo. Toccata Milano, nel 1578 lasciò l'Italia attraverso la Savoia, diretto a Lione: giunto a Chambéry e avvertito dai domenicani locali dell'ostilità che avrebbe incontrato nella regione, si trasferì a Ginevra, dove fin dal 1552 una comunità evangelica italiana era stata fondata dal marchese Gian Galeazzo Caracciolo di Vico.  A Ginevra, dimesso nuovamente l'abito, il B. si guadagnò da vivere come correttore di bozze tipografiche. Risulta tuttavia che egli aderì formalmente al calvinismo, come provato non tanto dalla immatricolazione universitaria autografa del 20 maggio 1579, quanto da un processo per diffamazione ai danni del titolare di filosofia Antoine de la Faye, istruito contro di lui dal concistoro nell'agosto 1579: il giorno 13 il B. venne riconosciuto colpevole e virtualmente scomunicato. Dopo un debole tentativo di difesa, egli si riconobbe colpevole, pregò di essere riammesso alla cena, e il giorno 27 venne prosciolto dalla scomunica. Tale episodio (che avrebbe lasciato tracce durevoli nelle sue opere mediante la propria polemica anticalvinista) determinò la sua partenza da Ginevra.  Recatosi questa volta a Lione, non avendovi trovato modo di sostentarsi, vi si trattenne solo un mese (forse tra il settembre e l'ottobre 1579) e si recò quindi a Tolosa, che era proprio in quel tempo uno dei baluardi della ortodossia cattolica: ciò che dimostra la portata della sua reazione anticalvinista, confermata anche dal tentativo che allora fece di ottenere l'assoluzione da un padre gesuita. La mancata assoluzione, "per esser apostata" (Doc. veneti, XII), non gli impedì di essere invitato "a legger a diversi scolari la Sfera, la qual lesse con altre lezioni de filosofia forse sei mesi" (Doc. veneti, IX), nonché di conseguire il titolo di magister artium: ed ottenere per concorso il posto allora vacante di lettore ordinario di filosofia: onde lesse, "doi anni continui, il testo de Aristotele De anima ed altre lezioni de filosofia". Da accenni fatti più tardi dallo stesso B., è dato inferire che il suo insegnamento incluse lezioni di fisica, matematica e lulliane. Risale a quest'epoca la composizione della Clavis magna, trattato mnemotecnico-lulliano rimasto inedito e smarrito.  Nell'estate del 1581 si delineò una ripresa della lotta tra cattolici e ugonotti, e il B. dové lasciare Tolosa "a causa delle guerre civili" (Doc. veneti, IX). Trasferitosi a Parigi, vi intraprese "una lezion straordinaria", cioè un corso di trenta lezioni su altrettanti "attributi divini, tolti da S. Tommaso dalla prima parte", che alcuni vogliono costituisse l'operetta inedita e smarrita "di Dio, per la deduzion di certi suoi predicati universali" (Doc. veneti, I). A Parigi non poté accettare un lettorato ordinario per l'obbligo - che, come apostata, non volle assumersi - di frequentare la messa; tuttavia conseguì tale rinomanza mediante il lettorato straordinario, che, come ebbe a dichiarare egli stesso, "il re Enrico terzo mi fece chiamare un giorno, ricercandomi se la memoria che avevo e che professava, era naturale o pur per arte magica; al qual diedi sodisfazione; e con quello che li dissi e feci provare a lui medesimo, conobbe che non era per arte magica ma per scienza" (Doc. veneti, IX): episodio che ben si comprende tenendo conto del fatto che la corte francese era frequentata da intellettuali come J. D. du Perron e Pontus de Tyard di cui sono noti gli interessi per il sapere enciclopedico e l'arte della memoria come strumenti per un piano di riforma culturale. Tuttavia i rapporti del B. con la corte - che sarebbero durati, direttamente o indirettamente, per circa un quinquennio - si spiegano altresì sul piano ideologico-politico, ove si tenga conto dell'analogia tra l'equidistanza bruniana dal rigorismo cattolico e da quello protestante, e la posizione mediana dei politiques, che controllavano la corte, tra l'estremismo cattolico dei ligueurs e quello protestante degli ugonotti.  Durante questo primo soggiorno parigino apparvero a stampa le prime operette bruniane a noi pervenute: il Deumbris idearumcon raggiunta dell'Arsmemoriae, opera mnemotecnica e lulliana stampata da E. Gourbin nel 1582, dal B. dedicata ad Enrico III, il quale "con questa occasione lo fece lettor straordinario e provisionato" (Doc. veneti, IX: egli venne cioè a far parte del gruppo dei lecteurs royaux, tendenzialmente contrari al conformismo aristotelico della Sorbonne); seguì, nello stesso anno, il Cantus circaeus, operetta mnemotecnica stampata da E. Gilles e dedicata, per conto del B., da J. Regnault a Henri d'Angoulême, fratello naturale del re, essendo il B. stesso "gravioribus negociis intentus" (Opera, II, 1, p. 182); quindi il De compendiosa architectura et complemento Artis Lullii (Gourbin, 1582) dedicata dal B. all'ambasciatore veneto Giovanni Moro.  La prima parte del De umbris rielabora materiale lulliano e mnemotecnico ai fini di una ricerca gnoseologica che presuppone, platonicamente, una corrispondenza tra mondo fisico e mondo ideale; la seconda e terza parte costituiscono un manuale mnemotecnico per cui il B. attinge in particolare al ravennate (l'impostazione didascalica è ripresa nell'Ars memoriae, in cui elementi della tradizione astrologico-ermetica si inseriscono nella elaborazione lulliana e mnemotecnica, fermo restando l'intento gnoseologico). Il Cantus circaeus, in due dialoghi, presenta un'applicazione concreta dell'ars esposta nel De umbris, non senza un'intenzione satirica che sarà poi sviluppata nello Spaccio. Il De compendiosa architecturarielabora gli elementi tecnici del lullismo allo scopo di offrire uno strumento gnoseologico per cui l'ordine universale risulta riflesso nello schema simbolico.  Nell'agosto del 1582 il B. terminava la composizione dell'unica sua commedia, il Candelaio, stampata prima della fine dell'anno (anteriormente forse al De compendiosaarchitectura) da Guillaume Julien figlio. Sul frontespizio l'autore si definiva "Academico di nulla Academia, detto il Fastidito, in tristitia hilaris, in hilaritate tristis.  Il Candelaio, scritto in un volgare popolaresco ricco di napoletanismi plebei, ma non senza echi della tradizione burlesca rinascimentale (Aretino, Berni, ecc.) accanto a moduli parodici della retorica classica, riflette sul piano morale il momento di rottura con l'Ordine, né è da escludere che la composizione ne fosse stata iniziata prima dell'allontanamento dall'Italia. Dedicata Alla signora Morgana B., personaggio napoletano di non sicura identificazione, la commedia, di ambientazione appunto napoletana - la cui azione si svolge nel 1576, "vicino al seggio di Nilo" - investe satiricamente "tre materie principali" e "l'amor di Bonifacio, l'alchimia di Bartolomeo e la pedanteria di Manfurio", in una sorta di applicazione alla vita morale del principio bruniano della corrispondenza e identificazione dei distinti nell'uno. Fin dalle pagine preliminari si notano del resto motivi che, riallacciandosi alla base teoretica dell'elaborazione lulliana e mnemotecnica delle operette latine, anticipano alcuni presupposti dei più tardi dialoghi filosofici ("Il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s'annichila; è un solo che non può mutarsi...").  Dalla dedica del Candelaio si sono desunti due titoli di presunte opere smarrite del B. (Gli pensier gai e Il troncod'acqua viva), mentre nell'atto I, scena II, si trova citata un'ottava ("Don'a' rapidi fiumi in su ritorno") di un "poema" inedito e smarrito, cui appartiene forse anche l'ottava "Convien ch'il sol, donde parte, raggiri" citata tre anni dopo negli Eroici furori.  Il 28 marzo 1583 l'ambasciatore inglese a Parigi, H. Cobham, inviava un preoccupato messaggio al primo segretario del Regno d'Inghilterra, F. Walsingham, informandolo dell'intenzione del B. di passare in Inghilterra: la preoccupazione concerneva l'ambigua posizione bruniana in fatto di religione. L'arrivo del B. in Inghilterra, con lettere di raccomandazione di Enrico III per il proprio ambasciatore presso Elisabetta - il tollerante Michel de Castelnau (cui era affidato il compito delicato di sostenere la causa di Maria di Scozia presso la regina) -, è da porre nell'aprile. Da una parte il B. poté essere indotto a lasciare Parigi "per li tumulti che nacquero" (Doc. veneti, IX) - o più esattamente per il delinearsi di quella reazione cattolica che due anni più tardi avrebbe indotto il re a revocare gli editti di pacificazione con i protestanti -; d'altra parte non è da escludere che il suo viaggio in Inghilterra potesse rientrare in un piano dei moderati francesi inteso a mobilitare la corrente politique inglese ai fini di una distensione politico-religiosa in Europa. Ma non è certo da trascurare la personale urgenza bruniana per una sua affermazione sul piano accademico-speculativo dopo i tentativi compiuti a Tolosa e a Parigi.  Al suo arrivo in Inghilterra il B. prese dimora nella casa del Castelnau, a Butcher Row, dove "non faceva altro, se non che stava per suo gentilomo" (Doc.veneti, IX). Tra il 10 e il 13 giugno 1583 fece una prima visita a Oxford, al seguito del conte palatino polacco Alberto Laski: in tale occasione, pur non facendo parte degli oratori designati, sostenne un pubblico dibattito con i dottori oxoniensi, in particolare con il teologo John Underhill, richiamandosi alla logica aristotelica in polemica con le posizioni ramiste. Rientrato a Londra, è da ritenere che indirizzasse allora la sua pomposa lettera Ad excellentissimum Oxoniensis Academiae Procancellarium,clarissimos doctores atque celeberrimos magistros (allegata ad alcuni esemplari della Explicatio triginta sigillorum), con la quale faceva istanza per l'ottenimento di una lettura a Oxford. Sebbene dai registri universitari non risulti che il B. abbia tenuto un corso formale in quella sede, la sua stessa testimonianza di avervi tenuto "pubbliche letture, e quelle de immortalitate animae, e quelle de quintuplici sphaera" (Dialoghi italiani, p. 134: vedi Doc. parigini, I, e Opera, II, 2, p. 232), risulta confermata dalla pur ostile testimonianza di George Abbot (cfr. McNulty), il futuro arcivescovo di Canterbury, allora membro del Balliol College, da cui si apprende che, dopo la prima visita a Oxford, il B. vi tornò nel corso della stessa estate e vi iniziò un corso in latino sostenendo, tra l'altro, la teoria copernicana del movimento della Terra e della immobilità dei cieli: anticipando quindi pubblicamente quanto da lui elaborato nei dialoghi londinesi stampati l'anno seguente. Così il B. come l'Abbot concordano nell'affermare che tale corso venne interrotto per pressioni esterne (stando all'Abbot, il medico Martin Culpepper, guardiano di New College, e Tobie Matthew, decano di Christ Church, avrebbero rilevato un plagio bruniano nei confronti del ficiniano De vita coelitus comparanda: ciò che può essere inteso con riferimento ai prestiti ficiniani nella terminologia bruniana). Interrotto il corso dopo la terza lezione, rientrò a Londra, presso il Castelnau, ribadendo il proprio atteggiamento antiaccademico, in direzione quindi antiaristotelica e insieme antiumanistica.  A Londra il B. condusse la propria polemica culturale e speculativa sia in discussioni nell'ambito dei circoli paraccademici di corte, sia mediante la divulgazione a stampa delle proprie teorie già respinte dal pubblico universitario inglese. La prima opera pubblicata a Londra, nel 1583, è un volumetto contenente l'Ars reminiscendi, l'Explicatio triginta sigillorum (preceduta in alcuni esemplari dalla già citata lettera agli Oxoniensi) e il Sigillus sigillorum. Solo per l'Explicatio e per la lettera è possibile precisare l'officina tipografica, che è quella di John Charlewood, dalla quale sarebbero uscite tutte le rimanenti opere londinesi.  L'Ars reminiscendi è, con lievi varianti, una riproduzione dell'ultima parte del Cantus circaeus. Gli scritti che seguono portano la dedica all'ambasciatore francese, con parole di riconoscenza per la familiare ospitalità. L'elencazione dei "triginta sigilli" mostra che questi rappresentano la sintesi formale dei segni ovvero ombre delle cose e delle idee. Dalla Triginta sigillorum explicatio appare manifesto il presupposto gnoseologico del complesso simbolismo mnemotecnico bruniano. Nel Sigillus sigillorum si manifesta la fede del B. nell'unità del processo conoscitivo, cui corrisponde, sul piano ontologico, la fondamentale unità dell'universo. Alla innegabile utilizzazione di elementi propri alla tradizione platonico-alchimistica, fa qui riscontro l'assenza di preoccupazioni e tendenze d'ordine mistico-religioso: il carattere "speculativo" del Sigillusfa di quest'opera il legittimo antecedente della serie dialogica italiana.  Il 14 febbraio del 1584, mercoledì delle Ceneri, il B. venne invitato a illustrare la propria teoria sul moto della Terra nella "onorata stanza" di sir Fulke Greville, a Whitehall, in compagnia di Giovanni Florio e del medico gallese Matthew Gwinne, essendo presenti due dottori oxoniensi sostenitori del sistema geocentrico e un cavaliere di nome Brown (in sede processuale tale riunione venne dichiarata come avvenuta invece in casa del Castelnau). La conversazione degenerò presto in un diverbio causato dalla intolleranza dei due dottori oxoniensi: sdegnato, il B. si licenziò dall'ospite e di lì a qualche giorno iniziò la stesura della Cena de le Ceneri (stampata nello stesso anno).  Tramite il resoconto della sfortunata discussione, il B. enuncia in questi dialoghi la propria cosmografia: movendo dall'eliocentrismo copernicano, egli approda intuitivamente a una concezione originale dell'universo che per molti rispetti sembra anticipare i postulati della scienza moderna. Già prima dell'arrivo del B. in Inghilterra, la corrente scientifica distaccatasi dalle università e sostenuta dalla corte elisabettiana (Robert Recorde, John Dee, John Field, Thomas Digges) aveva mostrato un certo interesse per le teorie copernicane: è in questa corrente appunto che si inserisce ormai l'attività inglese del B., sia per le istanze "scientifiche" (elaborazione di una moderna teoria astronomica), sia per quelle letterarie (ripudio del latino e adozione del volgare per trattazioni scientifico-speculative) e perfino politiche (adesione alla moderata fazione puritana capeggiata da Robert Dudley, conte di Leicester, nei contrasti tra questo e il tesoriere elisabettiano William Cecil: ciò che ci è rivelato dal confronto tra la prima e la seconda redazione del dialogo II della Cena).  Suddivisa in cinque dialoghi, dedicati all'ambasciatore francese, la Cena è in sostanza un'opera cosmografica che, se da una parte contrasta il geocentrismo aristotelico e tolemaico, d'altra parte trascende l'eliocentrismo copernicano con l'affermazione della pluralità dei mondi nell'universo infinito (non senza la suggestione implicita della definizione ermetica di Dio, come sfera infinita il cui centro è ovunque e la cui circonferenza non si trova in alcun luogo): sul piano teologico ne deriva l'affermazione dell'infinito effetto della causa infinita, nonché l'interpretazione prammatica di quei passi delle Scritture che concordano con la concezione vulgata dell'universo.  L'impostazione polemica dell'opera investe, nel dialogo II, tutti gli strati della contemporanea società inglese mediante una rappresentazione vivacemente realistica. Il B., pur adottando la forma dialogica della tradizione speculativa rinascimentale, la piega alle esigenze della propria polemica, accostandosi non di rado alla maniera parodica della tradizione aretiniana: onde non manca la satira della pedanteria grammaticale oltre che di quella peripatetica.  Gli attacchi contenuti nella Cena alla università di Oxford e alla società inglese suscitarono una forte reazione negli ambienti accademici e cittadini: reazione che coincise con una serie di offese, anche materiali, del pubblico londinese contro gli addetti all'ambasciata francese e contro, la stessa sede diplomatica. Nell'emozione del momento il B. poté ritenersi oggetto diretto di quella reazione anticattolica: è certo tuttavia che la pubblicazione della Cena gli fece perdere molte di quelle simpatie che era riuscito ad accattivarsi a Londra. Di qui l'esigenza di premettere ai già composti quattro dialoghi speculativi De la causa, principio et uno, un dialogo "apologetico" che si risolse però, caratteristicamente, in un ribadimento della propria polemica, salvo un riconoscimento esplicito della validità della tradizione speculativa oxoniense anteriore alla Riforma e la lode di alcuni personaggi conosciuti a Oxford (in particolare Martin Culpepper e Tobie Matthew). La pubblicazione dei nuovi dialoghi, dedicati anch'essi al Castelnau, seguì di poco quella della Cena.  Il primo dialogo della Causa si distingue dai rimanenti quattro anche per i diversi interlocutori (tra questi "Elitropio" è G. Florio, mentre "Armesso" sembra identificabile con M. Gwinne); notevole, tra gli interlocutori dei rimanenti dialoghi, lo scozzese Alexander Dicson "Arelio" (nativo di Errol), discepolo londinese del B. e autore di un'opera mnemotecnica, De umbra rationis et iudicii (1584) ispirata al De umbris bruniano: l'opera era stata attaccata da William Perkins, ramista di Cambridge, il quale non mancò di accomunare i nomi del B. e del Dicson nella sua riprovazione del metodo mnemonico classico considerato in opposizione a quello ramista. La presenza di questo interlocutore, insieme con l'attacco frontale a Ramo nel dialogo III, può valere a farci considerare la Causa come opera di letteratura militante nell'ambito della contemporanea polemica ramista (per l'aspetto politico non va dimenticato che l'attività del Dicson era in linea con il programma politique).  I quattro dialoghi più propriamente speculativi della Causa concernono la definizione dei tre termini enunciati nel titolo: "causa" e "principio" sono intesi, rispettivamente, come la "forma" e la "materia" che, indissolubilmente unite, costituiscono l'"uno", cioè il "tutto". Movendo dalla critica dei postulati della tradizione aristotelica, e non senza ricorso alle formulazioni di stampo neoplatonico ed ermetico, il B. giunge in tal modo a fornire una originale base teoretica alla propria cosmologia già in parte enunciata nella Cena e di lì a poco elaborata nei dialoghi De l'infinito.  Il motivo della satira antipedantesca si accentua nella Causa con una aderenza polemica alle posizioni culturali delle due università inglesi.  Il ritmo serrato con cui alla pubblicazione della Cena e della Causa seguì, sempre nel 1584, quella dei dialoghi De l'infinito, universo e mondi e dello Spaccio de la bestia trionfante si spiega tenendo conto del fatto che già nell'estate del 1583 il B. doveva aver elaborato buona parte del materiale confluito poi nei tre dialoghi cosmologici. Anche l'Infinito porta la dedica al Castelnau, mentre lo Spaccio è dedicato a sir Philip Sidney, nipote del Leicester, mostrandoci in tal modo la portata dei contatti letterari, oltre che politici, dal B. avuti in Inghilterra.  Nei cinque dialoghi De l'infinito, in polemica con la fisica aristotelica, il B. rigetta la teoria della divisibilità all'infinito e ribadisce la propria teoria della infinità dell'universo e della pluralità dei mondi. In questa opera risulta enunciato il pensiero bruniano sul rapporto tra filosofia e religione conforme alla teoria averroista esposta dal Pomponazzi. Tra gli interlocutori figura Girolamo Fracastoro, tracce delle cui dottrine sono reperibili nel dialogo III; discutibile rimane l'identificazione di "Albertino" con Alberigo Gentili (dal B. certamente incontrato a Oxford): potrebbe trattarsi invece di personaggio nolano.  La nuova concezione dell'universo esposta nei tre dialoghi cosmologici si riflette sul piano etico con la trilogia dei dialoghi tradizionalmente definiti "morali", a cominciare dallo Spaccio, il cui tono satirico ravviva un'invenzione che risale, letterariamente, ai dialoghi "piacevoli" di Niccolò Franco.  Lo Spaccio espone un piano di riforma morale che implica la critica all'etica cristiana delle Chiese riformate non meno che di quella cattolica, in nome di un attivismo umanistico contrapposto al tradizionale umanesimo misticheggiante e retorico. L'ispirazione acristiana dell'etica bruniana sembra trovare conferma nella critica - metaforicamente condotta - della duplice natura della persona del Cristo. Non è escluso che questa opera sia da identificare con il Purgatorio de l'inferno,titolo fornito dal B. nella Cena.  Le allusioni politiche contenute nello Spaccio sono compatibili con l'orientamento brumano favorevole ai politiques e che risale al suo soggiorno parigino: c'è chi pur oggi continua a ritenere che la "bestia trionfante" spodestata nello Spaccio sia da identificare con l'intransigente Sisto V. Ma, a parte la cronologia, sembrerebbe contrastare all'interpretazione il quadro tracciato nella Cabala del cavallo pegaseo, con l'aggiunta dell'Asino cillenico (pubbl. 1585), in cui l'"asino", identificabile con la "bestia" dello Spaccio, riassume il suo posto nel cielo: né sembra possibile supporre che la Cabala sia posteriore al 21 sett. 1585, data della bolla con cui Sisto V scomunicò il re di Navarra.  Al di là del possibile significato politico-religioso, la Cabala interessa sia per l'accentuata satira morale rispetto allo Spaccio,sia per gli spunti speculativi (quali il problema del rapporto tra le anime individuali e l'anima universale, risolventesi nella negazione dell'assoluta individualità delle anime) che valgono a meglio illuminare questa fase del pensiero bruniano.  L'operetta è scherzosamente dedicata a un personaggio nolano, don Sabatino Savolino, della stessa famiglia materna del B. cui pure appartiene l'interlocutore "Saulino" presente già nello Spaccio. Il B.ebbe a dichiarare in seguito, di aver soppresso questa opera in quanto non piacque al volgo e ai sapienti "propter sinistrum sensum": essa è infatti la più rara tra le superstiti opere a stampa di Bruno.  Il soggiorno inglese del B. non poteva concludersi in maniera più degna che con la pubblicazione dei dialoghi De gli eroici furori (1585), dedicati al Sidney, in cui risultano poeticamente esaltati i principî fondamentali della filosofia bruniana esposti nei tre dialoghi cosmologici, mentre vi si sviluppa e precisa la portata della satira morale contenuta nei due dialoghi etici.  I dieci dialoghi De gli eroici furori hanno come tema il conseguimento della consapevolezza dell'unione con l'Uno infinito da parte dell'anima umana. La terminologia di estrazione ficiniana (risalente a Platone, Plotino, Dionigi l'Areopagita, lamblico, Proclo, ecc.) rischia di far perdere di vista il carattere "naturale e fisico" del discorso bruniano, quale dall'autore stesso enunciato nella dedicatoria. La stessa adozione dei moduli platonici ("ente, vero e buono son presi per medesimo significante circa medesima cosa significata") va in realtà ricondotta a una sfera etica in cui si risolve ogni apparente residuo di trascendenza: infatti "le cause e principii motivi" sono "intrinseci" e la "divina luce è sempre presente"; "ogni contrarietà si riduce a l'amicizia", "le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte".  Notevole nei Furori l'esposizione della poetica bruniana che, movendo dalla critica delle poetiche rinascimentali nella loro interpretazione normativa della poetica aristotelica, approda a una concezione della poesia come letteratura applicata: di qui il ripudio della tradizione lirica petrarchesca, pur nell'adozione prammatica di rime intonate al gusto del tardo petrarchismo (ivi inclusi prestiti dal Tansillo e dalla Cecaria di M. A. Epicuro).  Gli interlocutori sono tutti nolani, ovvero, come il Tansillo, amici della famiglia del Bruno. Notevole, come dato biografico dell'infanzia, la presenza di due figure femminili: Laodamia e Giulia.  Nell'ottobre del 1585 il B. rientrava in Francia al seguito dell'ambasciatore Castelnau: il quale ai primi di novembre si trovava già a Parigi; durante il viaggio la comitiva era stata vittima di una grassazione. Al suo rientro a Parigi il B. veniva a trovare un clima politico mutato (nel luglio Enrico III aveva revocato gli editti di pacificazione e nel settembre era stata pubblicata la bolla contro il re di Navarra): di qui forse il suo tentativo infruttuoso "de ritornar nella religione" (Doc. veneti, XII) tramite il nunzio apostolico Girolamo Ragazzoni. Dedicò al filonavarrese P. Del Bene, abate di Belleville, la Figuratio Aristotelici physici auditus (1586), esposizione mnemonico-mitologica del pensiero aristotelico; entrò in contatto con gli italiani di Parigi, tra i quali Giovanni Botero, stringendo amicizia con Iacopo Corbinelli che lo definì "piacevol compagnietto, epicuro per la vita" (cfr. Yates), e dal 6 dic. 1585 prese a frequentare l'abbazia di St. Victor, dove quel giorno prese a prestito l'edizione di Lucrezio curata da H. van Giffen e confidò al bibliotecario Guillaume Cotin (il cui diario ci conserva le notizie fornitegli dal B.) l'intenzione di pubblicare l'Arbor philosophorum, del quale nulla sappiamo a parte il titolo lulliano.  Due episodi clamorosi neutralizzarono in quel tempo il residuo d'appoggio in cui il B. poteva ancora sperare presso il partito politique. Dopo aver assistito a una pubblica dimostrazione del compasso di riduzione inventato dal geometra salernitano Fabrizio Mordente, uomo senza lettere, il B. acconsentì a divulgare in latino la scoperta - parendogli atta a dimostrare il limite fisico della divisibilità, conforme alla propria incipiente monadologia -: pubblicò infatti, prima del 14 apr. 1586, i Dialogi duo de Fabricii Mordentis Salernitani prope divina adinventione (seguiti dall'Insomnium), presso P. Chevillot: opera ambiguamente laudatoria che irritò il Mordente, alla cui polemica verbale il B. rispose con i sarcastici dialoghi Idiota triumphans e De somnii interpretatione,dedicati al Del Bene e fatti stampare prima del 6 giugno insieme con i due precedenti dialoghi mordentiani. Il B. veniva così ad attaccare apertamente un cattolico fautore dei Guisa, reclamando per sé l'ormai vacillante protezione politique. Atale imprudenza si aggiunse una disputa dal B. tenuta il 28 maggio al Collège de Cambrai, in presenza dei lecteurs royaux, sulla base di Centum et viginti articuli de naturaet mundo adversus peripateticos: programma da lui fatto stampare sotto il nome del discepolo J. Hennequin. Secondo il Cotin il B. non avrebbe preso la parola, neppur dopo che allo Hennequin ebbe risposto R. Callier, giovane avvocato politique (il B. venne dunque sconfessato dal suo stesso partito), e, riconosciutosi battuto, avrebbe abbandonato Parigi. Secondo Corbinelli, il B. "s'andò con Dio per paura di qualche affronto, tanto haveva lavato il capo al povero Aristotele", mentre il Mordente decideva di ricorrere al Guisa.  Lasciata Parigi, il B. giunse in Germania nel giugno 1586;toccata Magonza e Wiesbaden, il 25 luglio veniva immatricolato all'università di Marburgo come "theologiae doctor romanensis" (Doc. tedeschi, I). L'insegnamento bruniano si dovette mostrare incompatibile con l'aristotelismo ramista di quella università: gli fu infatti negato il permesso di leggere pubblicamente; a una protesta formale il B. fece seguire le proprie dimissioni. Nella stessa estate passò a Wittenberg, nella cui università venne introdotto da A. Gentili e immatricolato (20 agosto) come "doctor italus" (Doc. tedeschi,II).Per circa due anni poté insegnare indisturbato (lesse, tra l'altro, l'Organon di Aristotele) e fece stampare il De lampade combinatoria lulliana (1587) - commentario dell'Arsmagna - cui premise una lettera alle autorità accademiche mostrandosi riconoscente per la liberale accoglienza. Seguì la pubblicazione del De progressu et lampade venatoria logicorum, sorta di compendio della Topica aristotelica, dedicato a G. Mylins, cancelliere dell'università. Allo stesso anno risale il suo corso privato sulla Rhetorica adAlexandrum (pubbl. post. da H. Alstedt: Artificium perorandi, Francofurti 1612), come il frammento delle Animadversiones circa lampadem lullianam e la Lampas triginta statuarum, amplificazione dell'Arsmagna lulliana (post.: negli Opera: 1890, 1891), con cui si conclude la trilogia delle "lampade". L'anno seguente, per i tipi di Zaccaria Cratone, uscì nella stessa città una seconda edizione dei Centum et viginti articuli (ridotti a ottanta, con le relative rationes), con un discorso apologetico di J. Hennequin: Iordani Bruni Nolani Camoeracensis Acrotismus. Allostesso periodo, sembra, risalgono i commentari aristotelici ai primi cinque libri della Fisica, al De generatione et corruptione e al quarto libro Meteorologicon (pubblicati negli Opera postumi: Libri physicorum Aristotelis explanati, 1891). L'8 marzo 1588 ilB. si accomiatava dall'università con una Oratio valedictoria stampata dal Cratone: va notato che il vecchio duca Augusto era morto prima dell'arrivo del B., e che il successore Cristiano I favorì progressivamente il calvinismo, giungendo a proibire, nel 1588, ogni polemica a questo contraria; di qui la rinnovata precarietà della posizione di Bruno.  Partito da Wittenberg, il B. giunse a Praga nella primavera del 1588e vi si trattenne fino al principio dell'autunno, attrattovi forse dal mecenatismo dell'imperatore Rodolfo II, il cui cattolicesimo moderato poté sembrargli incoraggiante; non sappiamo comunque se fu registrato all'università. A Praga il B. ripubblicò, presso G. Nigrinus, il De lampade combinatoria R. Lullii preceduto dal De lulliano specierum scrutinio: nuovo commentario dell'Arsmagna dedicato all'ambasciatore spagnolo don Guglielmo de Haro; con dedica all'imperatore, presso G. Daczicenus, gli Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos, in cui riprendeva la propria polemica contro l'interpretazione meccanica della natura (già anticipata nei dialoghi mordentiani e poi svolta nel De minimo):notevole, nella dedicatoria, la dichiarazione della religio bruniana, interpretabile come teoria della tolleranza religiosa e speculativa.  Ricevuta in dono dall'imperatore la somma di "trecento talari" (Doc. veneti, IX), al principio d'autunno del 1588 ilB. si recò a Helmstedt, attrattovi dalla "Academia Iulia" (fondata dal duca protestante Giulio di Brunswick), dove fu registrato il 13 genn. 1589, e dove il 1º luglio lesse l'Oratio consolatoria (stampata da Iacobus Lucius) per la morte del duca avvenuta il 3 maggio. Il B. fu remunerato dal nuovo duca, Enrico Giulio, con "ottanta scudi de quelle parti" (Doc. veneti, IX), ma non gli mancarono seri fastidi: fu infatti scomunicato dal sovrintendente della locale Chiesa luterana, Gilbert Voët, per motivi che il B. definì di natura privata in una sua lettera di protesta alle autorità accademiche, ma che avranno avuto giustificazione formale per sospetto filocalvinismo (è comunque significativo che alla originaria scomunica cattolica e a quella calvinista ginevrina si aggiungesse ora la scomunica luterana). Il B. rimase tuttavia nella città fino almeno all'aprile 1590. Durante l'anno e mezzo ivi trascorso lavorò alle opere poi stampate a Francoforte e compose il gruppo di opere "magiche" stampate postume negli Opera (1891), De magia e Theses de magia (concernenti la magia naturale), De magia mathematica (parzialmente tuttora inedita nel "codice di Mosca"), De rerum principiis et elementis et causis;trattati tutti che tendono a dimostrare la possibilità dell'utilizzazione pratica delle forze naturali occulte. Il 10 aprile intervenne a una disputa tenuta dal dottor Heidenreich e il 13 - avendo riscossi a Wolfenbüttel 50 fiorini assegnatigli dal duca - si accomiatò dall'università con l'intenzione di passare per Magdeburgo (dove risiedeva W. Zeileisen, zio del discepolo norimberghese Girolamo Besler, di cui si era servito come copista) allo scopo di farvi stampare qualcosa di suo in onore del duca. La partenza fu ritardata fin oltre il 22: ed è probabile che il B. si recasse direttamente a Francoforte sul Meno (allo scopo di farvi stampare la trilogia poetica latina, sua opera di maggior rilievo dopo i dialoghi londinesi), dove giunse al più tardi nel giugno. Il 2 luglio il Senato della città rigettò una sua richiesta di poter alloggiare presso lo stampatore J. Wechel, il quale tuttavia gli procurò alloggio presso il convento dei carmelitani. Il B. attese soprattutto alla pubblicazione dei tre poemi: i Detriplici minimo et mensura... libri V e il De monade, numero et figura liber unito ai De innumerabilibus, immenso et infigurabili... libri octo, opere dedicate al duca di Brunswick, per le quali il B. curò la stampa e intagliò i legni, salvo che per l'ultimo foglio del De minimo a causa di un repentino allontanamento dalla città (per cui la dedica relativa fu composta dal Wechel). Stampati con la data del 1591, ilDe minimo fu posto in vendita nella primavera; il De monade con il De immenso,nell'autunno.  Nei poemi francofortesi - composti alla maniera di Lucrezio - il B. sviluppa in senso decisamente atomistico la propria concezione della materia già esposta nei dialoghi londinesi. Nel De minimo sicontiene la definizione dell'atomo bruniano: pars ultimadella materia, minimum fisico assoluto, sostrato di tutti i corpi, impenetrabile. La discontinuità degli atomi lascia aperto il problema dello spazio tramezzante (con tutto che il B. riconosce l'esigenza di una materia che "agglutina" gli atomi). Se l'"atomo" è l'elemento materiale insecabile, il "minimo" è l'essere o la figura minima in un dato genere, mentre la "monade" è l'unità di un genere determinato: l'atomo, che è di forma sferica, è anche minimo e monade. Gli atomi sono infiniti essendo infinita la materia. In tale concezione non v'è posto per una forza esteriore che regoli o determini le combinazioni materiali. Nel De monade il B. dà una spiegazione aritmologica delle diverse qualità degli oggetti sensibili, i cui elementi vengono mossi - come già sostenuto nella Causa rispetto alla materia infinita - da un principio intrinseco. Così l'atomismo dei poemi francofortesi si riallaccia all'animismo dei dialoghi londinesi, dei quali il De immenso riprende esplicitamente l'esposizione cosmologica, con una aderenza a tratti letterale (tanto che il Fiorentino fu indotto a riportare al periodo inglese l'inizio della composizione del poema). In quest'ultimo il B. ripercorre il cammino della propria speculazione, rinnovandone la polemica contro la fisica aristotelica e ribadendone il superamento intuitivo dell'eliocentrismo copernicano.  Applicato l'ordine di estradizione del Senato francofortese poco prima del 13 febbr. 1591, il B. riparò a Zurigo, dove tenne lezioni di filosofia scolastica raccolte e pubblicate poi da Raphael Egli (la Summa terminorum metaphysicorum a Zurigo nel 1595; la Summa con la Praxis descensus seu applicatio entis a Marburgo nel 1609). Ritornato per breve tempo a Francoforte, il B. pubblicò presso il Wechel i De imaginum,signorum,et idearum compositione ad omnia inventionum,dispositionum et memoriae genera libri tres (1591), dedicati a J. H. Heinzel, patrizio di Augusta da lui conosciuto a Zurigo. Durante il secondo soggiorno francofortese il B. fu raggiunto da lettere del patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, il quale, letto il De minimo, lo invitava a Venezia affinché gli "insegnasse l'arte della memoria ed inventiva" (Doc. veneti VIII).  Il B. giunse a Venezia prima della fine d'agosto del 1591.  I motivi soggettivi dell'imprudente rientro in Italia sono stati variamente definiti: imponderabile è la componente nostalgica, mentre è ormai da escludere il proposito di una azione di riforma religiosa con l'ausilio delle proprie nozioni magiche (con tutto che l'accessione del Borbone al trono di Francia e la presenza del mite Gregorio XIV sul soglio pontificio ravvivavano allora le speranze conciliatrici in Europa); sul piano contingente, più che dell'occasionale invito del Mocenigo, va tenuto conto delle aspirazioni magistrali dal B. non mai dimesse nel corso dei suoi soggiorni francesi, inglese e tedesco.  Infatti, soffermatosi qualche giorno a Venezia "a camera locanda" (Doc. veneti, VII), il B. proseguì per Padova, dove già si trovava al principio di settembre e dove si trattenne, con brevi interruzioni, per almeno tre mesi. Qui impartì lezioni "a certi scolari tedeschi", tra i quali sarà da includere Girolamo Besler, che era allora procuratore degli studenti tedeschi (il Besler gli trascrisse, tra il 1º settembre e il 21 ottobre, la Lampas triginta statuarum composta nel 1587, il De vinculis in genere, abbozzato l'anno precedente, e il non bruniano De sigillis Hermetis, inedito e smarrito). All'insegnamento patavino vanno riferite le Praelectiones geometricae e l'Ars deformationum, lezioni, rinvenute solo nel 1962, in cui il B. illustra geometricamente postulati ed enunciazioni del De minimo. L'attività del B. a Padova induce a ritenere che, con l'appoggio del Besler, egli mirasse alla vacante cattedra di matematica, che fu assegnata l'anno seguente a Galileo.  Rivelatosi infruttuoso l'insegnamento padovano, al principio dell'inverno il B. si trasferì a Venezia, prendendo dimora, almeno dal marzo 1592, in contrada S. Samuele, presso il Mocenigo. Incominciò a frequentare il "ridotto" Morosini, sul Canal Grande, dove, in un clima di "civile e libera creanza", si disputava di cose che avevano "per fine la cognizione della verità" (F. Micanzio, Vita di Paolo Sarpi, Leida 1646). Verso la metà di maggio 1592, nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, confidò al domenicano fra' Domenico da Nocera il proprio desiderio di "quetarsi" e di comporre un libro da offrire al neoeletto Clemente VIII, con lo scopo ultimo di trasferirsi a Roma, ed ivi "accapare forsi alcuna lettura" (Doc. veneti, X): programma illusorio, suggeritogli forse dalla politica papale e dalla contemporanea esperienza di Francesco Patrizi. Il 21 maggio, allo scopo di far stampare a Francoforte alcune sue opere, inedite e smarrite, "delle sette arte liberali e sette altre inventive, e dedicar queste... al Papa" (Doc. veneti, XVII), il B. chiese licenza al Mocenigo. Costui, deluso dall'insegnamento ricevuto, la notte del 22lo fece arrestare dai suoi e il giorn 23 presentò una denuncia per eresia (allegando tre libri a stampa del B. e l'autografo della smarrita operetta "di Dio, per la deduzion di certi suoi predicati universali", nonché i nomi di due contesti: i librai G. B. Ciotti e G. Britano) all'inquisitore veneto fra' Gabriele da Saluzzo: la sera stessa il B. veniva prelevato dagli sbirri e condotto alle carceri di S. Domenico di Castello. Si apriva così la fase veneta del processo, che si doveva concludere nove mesi dopo con la sua estradizione a Roma.  Gli episodi principali del processo veneto sono i seguenti: 25 maggio 1592: seconda denuncia del Mocenigo; 29 maggio: terza denuncia (il B. era complessivamente accusato di disprezzare le religioni, di non ammettere la "distinzione in Dio di persone", di avere opinioni blasfeme sul Cristo, di non credere alla transustanziazione, di sostenere che il mondo è eterno e che vi sono mondi infiniti, di credere alla metempsicosi, di attendere all'arte divinatoria e magica, di negare la verginità di Maria, di disprezzare i dottori della Chiesa, di ritenere che i peccati non vengano puniti, di essere già stato processato a Roma, di indulgere al peccato della carne); 26maggio: interrogatorio dei contesti (favorevoli al B.) e primo costituto del B.; 30 maggio: secondo costituto e ulteriore accusa (di aver soggiornato in paesi di eretici vivendo alla loro maniera); 2, 3 e 4 giugno: interrogatorio sui capi d'accusa (a proposito dei propri libri il B. dichiarò: "io ho sempre diffinito filosoficamente e secondo li principii e lume naturale, non avendo riguardo principal a quel che secondo la fede deve essere tenuto...", Doc. veneti, XI); 23 giugno: interrogatorio di Andrea Morosini e seconda deposizione del Ciotti (favorevoli al B.); 30 luglio: ultimo costituto veneto del B. (ammissione di dubbi marginali già dichiarati e sottomissione al tribunale) e trasmissione del processo al card. di Santa Severina, inquisitore supremo in Roma (il quale già prima dell'ultimo costituto interferiva nella causa); 12settembre: richiesta formale di avocazione della causa a Roma; 17 settembre: consenso del tribunale veneto; 28settembre: trasmissione della richiesta romana al Collegio presieduto dal doge; 3 ottobre: parere sfavorevole del Collegio trasmesso al Senato; comunicata a Roma la risposta negativa; 22 dicembre: rinnovata richiesta al Collegio motivata con precedenti; 9 genn. 1593: comunicazione a Roma dell'approvazione del Senato.Il 19 febbr. 1593 il B. usciva dal carcere veneziano e, fatto salpare per Ancona, il giorno 27 faceva ingresso nel carcere del S . Uffizio di Roma da cui, dopo lungo e intermittente processo, sarebbe uscito sette anni più tardi per subire l'orrendo supplizio.  Gli episodi noti e salienti del processo romano sono così riassumibili: estate 1593: nuova grave denuncia da parte di fra' Celestino da Verona, concarcerato a Venezia (imputazione di aver sostenuto che Cristo peccò mortalmente, che l'inferno non esiste, che Caino fu migliore di Abele, che Mosè era un mago e inventò la legge, che i profeti furono uomini astuti e ben meritarono la morte, che i dogmi della Chiesa sono infondati, che il culto dei santi è riprovevole, che il breviario è opera indegna; di aver bestemmiato; di aver intenzioni sovversive ove fosse costretto a rientrare nell'Ordine); interrogagatorio a Venezia dei contesti fra' Giulio da Salò, Francesco Vaia, Matteo de Silvestris (attenuazione delle responsabilità bruniane e nuova accusa: l'avere in spregio le sante reliquie); interrogatorio del conteste Francesco Graziano (ribadimento della credenza bruniana nella pluralità dei mondi e nuova accusa: riprovazione del culto delle immagini). Prima della fine del 1593:otto costituti bruniani (dall'ottavo al quindicesimo dell'intero processo) e conclusione del processo offensivo.  Il B. mantenne la linea difensiva già adottata a Venezia (attenuò la portata dei dubbi circa la Trinità, disponendosi ad accettare il dogma; negò le accuse circa l'inferno, Cristo, i propositi sovversivi, l'ateismo, le manifestazioni blasfeme; precisò il significato di "magia" con riferimento a Mosè, e la propria opinione, ritenuta "filosoficamente" e ipoteticamente, circa la metempsicosi; negò l'opinione attribuitagli circa Caino, e precisò quella relativa alla pluralità dei mondi; negò le pratiche superstiziose, precisando il proprio interesse per l'astrologia). Gennaio-marzo 1594: a Venezia, esami ripetitivi dei testi (Mocenigo, Ciotti, Graziano, De Silvestris): confermate nel complesso le precedenti deposizioni, solo la sospetta integrità dei testi poté far differire la conclusione del processo; giugno: supplemento di denuncia da parte del Mocenigo (accusa di aver irriso il papa nel Cantus circaeus); estate 1594: sedicesimo costituto (il B. si difese sull'ultima accusa, su quella relativa ai Magi, e forse anche sull'altra relativa alla verginità di Maria; sporse denunce contro il Graziano e Francesco Maria Vialardi concarcerato a Roma); 20 dicembre: il B. presentò una difesa scritta, non pervenutaci. Il 16 febbraio 1595si stabilì che una lista dei libri bruniani fosse presentata al papa.  Tra il maggio 1594 e i primi del 1595 il B. fu raggiunto nel carcere da Francesco Pucci, Tommaso Campanella e Cola Antonio Stigliola. Il 18 sett. 1596 la Congregazione stabilì una commissione con lo scopo di censurare le proposizioni eretiche contenute nei libri. Il 24 marzo 1597 il B. fu ammonito di abbandonare la sua teoria della pluralità dei mondi; si stabilì inoltre che egli fosse interrogato stricte (forse con applicazione della tortura): ciò che avvenne con il diciassettesimo costituto, circa la Trinità e l'incarnazione (il B. precisò il carattere speculativo dei dubbi passati), nonché la pluralità dei mondi (che il B. persistette a sostenere). Nel corso del 1597 ebbe luogo, forse oralmente, la risposta del B. alle censure, otto delle quali sono rilevabili dal Sommario del processo: "circa rerum generationem"; circa il principio che a causa infinita debba corrispondere effetto infinito; circa il rapporto tra anima universale e anima individuale; circa il principio che nulla si genera e nulla si corrompe; circa il moto della terra; circa la definizione degli astri come angeli; circa l'attribuzione di un'anima sensitiva e razionale alla terra; circa l'affermazione che l'anima non è forma del corpo umano (due altre censure, rilevabili da una lettera di K. Schopp [Doc. romani, XXX], concernono l'identificazione dello Spirito Santo con l'animamundi, e la credenza nei preadamiti). Il 18 gennaio del 1599, a istanza di Roberto Bellarmino, venivano sottoposte al B., per la sua dichiarazione di abiura, otto proposizioni eretiche (ci è nota la prima, "de haeresi Novatiana", e la settima, estratta dal De la causa, "ubi tractat an anima sit in corpore sicut nauta in navi"). Il 15 febbraio (ventesimo costituto) il B. si dichiarò disposto all'abiura incondizionata; ma il 24agosto tornò a manifestare esitazioni sulla prima e la settima. Il 9 settembre, in mancanza della prova giuridica della colpevolezza, i consultori si dichiararono in favore dell'applicazione della tortura, che tuttavia non fu approvata da Clemente VIII. Il 10 settembre il B. si dichiarò disposto all'abiura (21º costituto), ma il 16, con un memoriale al papa, rimetteva in discussione le proposizioni incriminate. Intanto al S. Uffizio di Vercelli perveniva una terza delazione (dovuta, sembra, a un reduce dall'Inghilterra) con cui il B. era di nuovo accusato di irriverenza verso il papa (lo Spaccio) e di aver lasciato fama di ateo in Inghilterra. Settembre-ottobre 1599: il tribunale ordinò il termine di quaranta giorni per il riconoscimento degli errori. Il 21 dicembre (ventiduesimo costituto) il B. rifiutava la ritrattazione: vano fu l'intervento del generale e del procuratore dei domenicani. Il 20 genn. 1600il papa ordinò che il B. fosse sentenziato come eretico formale, impenitente e pertinace, e consegnato al braccio secolare. Un estremo memoriale del B. al pontefice venne aperto ma non letto dal tribunale.  L'8 febbr. 1600 il B. veniva condotto dal carcere del S. Uffizio al palazzo del cardinale Madruzzi, in piazza Navona, dove la sentenza gli fu letta pubblicamente. Delle trenta o più imputazioni contenute nella sentenza, risultano accertate quelle concernenti la transustanziazione, la verginità di Maria, la vita eretica, lo Spaccio, la pluralità dei mondi, la metempsicosi, l'anima umana, l'eternità del mondo, Mosè, le Sacre Scritture, i preadamiti, Cristo, i profeti e gli apostoli.  Riconosciuto "eretico impenitente pertinace ed ostinato" (Doc. romani, XXVI), il B. era condannato alla degradazione dagli ordini, all'espulsione dal foro ecclesiastico e a essere consegnato alla corte secolare per la debita punizione; i suoi libri dovevano essere bruciati in piazza S. Pietro e le opere tutte incluse nell'Indice. Il B. ascoltò in ginocchio la sentenza; quindi, levatosi in piedi, esclamò rivolto ai giudici: "Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam" (Doc. romani, XXX). Trasferito al carcere di Tor di Nona, e visitato ancora nei giorni seguenti da teologi e confortatori, la mattina del giovedì 17 febbraio fu condotto a Campo di Fiori, dove, "spogliato nudo e legato a un palo, fu bruciato vivo (Doc. romani, XXIX).  La portata speculativa della vicenda bruniana è implicita nella storia del moderno pensiero europeo; per il lato culturale e biografico, pur dopo ricerche secolari, quella vicenda è tuttora al vaglio della filologia contemporanea.  Fonti e Bibl.: Per la biografia bruniana le fonti sono costituite dalle opere e da una serie di documenti coevi. Edizioni complete delle opere: Iordani Bruni Nolani Opera Latine Conscripta: Facsimile - Neudruck der Ausgabe von Fiorentino,Tocco und anderen,Neapel und Florenz,1879-1891. Drei Bände in acht Teilen,Stuttgart-Bad Cannstatt 1962 (da integrare con le seguenti pubblicazioni: V. P. Zubov, Rukopisnoe nasledie Džordano Bruno,"MoskovskijKodeks" Gosudarstvennoj Biblioteki SSSR im. V. I. Lenina, in Zapiski Otdela rukopisej, Moskva 1950, n. II, pp. 164-182; G. Bruno, Due dialoghi sconosciuti e due dialoghi noti: "Idiota triumphans", "De somnii interpretatione", "Mordentiu", "De Mordentii circino", a cura di G. Aquilecchia, Roma 1957, con Errata-corrige stampate a parte; Id., "Praelectiones geometricae" e "Ars deformationum": Testi inediti, a cura di G. Aquilecchia, Roma 1964); Le opere italiane di G. B., a cura di P. de Lagarde, Gottinga 1888 (ma 1889), edizione paradiplomatica, per le opere italiane in edizione moderna: G. Bruno, Candelaio: commedia, a cura di V. Spampanato, Bari 1923; Id., Dialoghi italiani: "Dialoghi metafisici" e "Dialoghi morali" nuovamente ristampati con note da G. Gentile, a cura di G. Aquilecchia, Firenze 1958; Id., Lacena de le ceneri, a cura di G. Aquilecchia, Torino 1955 (da tenere presente R. Tissoni, Sulla redazione definitiva della "Cena de le ceneri", in Giorn. stor. della letter. ital., CXXXVI [1959], pp. 558-563). Pregevoli le sillogi antologiche in Opere di G. B. e di Tommaso Campanella, a cura di A. Guzzo e R. Amerio, Milano - Napoli 1956, e in Scritti scelti di G. B. e di T. Campanella, a cura di L. Firpo, Torino 1968.  I documenti coevi in V. Spampanato, Documenti della vita di G. B., Firenze 1933, suddivisi in sei sezioni: I. Documenti napoletani, II. Documenti ginevrini, III.Documenti parigini, IV. Documenti tedeschi, V.Documenti veneti, VI, Documenti romani (da integrare con O. Elton, Modern Studies,London 1907, p. 334; G. Harvey, Marginalia, a cura di G. G. Moore Smith, Stratford-upon-Avon 1913, p. 156; Chr. Sigwart, Kleine Schriften, I, Freiburg i. B. 1899, p. 120; A. Mercati, Ilsommario del processo di G. B., Città del Vaticano 1942; L. Firpo, Ilprocesso di G. B., Napoli 1949; F. A. Yates, G. B.: some new documents, in Revue internationale de philosophie, XVI [1951], 2, pp. 174-199; G. Aquilecchia, Un autografo sconosciuto di G. B., in Giorn. stor. della letter. ital., CXXXIV [1957], pp. 333-338; Id., Un nuovo documento del processo di G. B., ibid., CXXXVI [1959], pp. 91-96; R. McNulty, B. at Oxford, in Renaissance News, XIII[1960], pp. 300-305; A. Nowicki, Un autografo inedito di G. B. in Polonia, in Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche... in Napoli, LXXVII [1967], pp. 262-268; Id., Una poesia "Ad Iordanum: Brunum", in La Ragione, LII [1970], 4, p. 2; J. Korzan, Praski Kra̢g humanistów wokóù Giordana Bruna, in Euhemer, LXXI-LXXII [1969], 1-2, pp. 81-93).  La biografia più estesa, sebbene in parte invecchiata, rimane quella di V. Spampanato, Vita di G. B. con documenti editi e inediti,Messina 1921. Biografie sintetiche recenti sono dovute a E. Garin, B., Roma-Milano 1966, e a G. Aquilecchia, G. B., Roma 1971, da cui dipende la presente "voce".  La bibliografia bruniana è vastissima: fino al 1950 va fatto riferimento a V. Salvestrini, Bibliografia di G. B. (1582-1950), a cura di L. Firpo, Firenze 1958: opera monumentale di inestimabile utilità, aggiornata poi essenzialmente, Quanto ai titoli, fino ai primi mesi del 1970 con l'appendice bibliografica alla citata monografia di G. Aquilecchia. A questi due strumenti si fa qui riferimento, rispettivamente, per opere critiche di tradizionale autorità (F. Tocco, E. Troilo, G. Gentile, E. Namer, E. Garin, A. Corsano, ecc.), e per studi più recenti, che propongono un ridimensionamento della problematica bruniana conforme a diverse metodologie (N. Badaloni, P.-H. Michel, F. A. Yates, A. K. Gorfunkel', A. Nowicki, F. Papi, ecc.).Guido del Giudice. Giudice. Refs.: Luigi Speranza, "Grice, del Giudice, e la filosofia greco-romana," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Keywords: l’implicatura di Giudice, universe finite, infinito, geometrici, alchimisti, matematici – rinascimento – scintilla d’infinito” --  Refs: Luigi Speranza, “Grice e Giudice: implicatura e scintilla” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51685227726/in/photolist-2mRmv36-2mRfyWo-2mQHwBB-2mQ81kz-2mPyn68-2mPoRfW-2mN35cA-2mLKtaD-2mPu6xB-2mLH24C-2mPYoE5-2mKfivY-2mJqjKS-2mJq2uE-2mGnP2f-E4u3XA-Bq6mau-Bq5PrV

 

Grice e Giudice – l’implicatura di Telesio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucera). Filosofo. Grice: “Riccardo del Giudice is a philosopher; he wrote an essay on Telesio.”  Allievo e collaboratore di Gentile, si laurea in filosofia, rivelando i suoi vasti e solidi interessi culturali, che, insieme ad una rara volontà di studio e ad una seria attività politica formarono il suo principale merito. Apprezzato per le doti oratorie e l'accuratezza nella scrittura, fu parlamentare di chiara fama nella  Camera dei Deputati. Di profonda ed esemplare preparazione filosofica. Insegna a Roma. Del Giudice Riccardo Lucera (Foggia) 1900 lug. 16 - Roma 1985 feb. 16  Intestazioni: Del Giudice, Riccardo, filosofo, sindacalista, politico, SIUSA. Iscrittosi al movimento nazionalista mentre frequenta nell'ateneo romano i corsi di Gentile. Si tessera al Partito fascista, del quale apprezza l'interesse per le questioni sindacali. E' appunto nell'organizzazione fascista dei lavoratori, diretta da Rossoni, che muove i primi passi nella politica militante. Nominato responsabile dei sindacati in provincia di Foggia, distinguendosi per la dura opposizione nei confronti dell'apparato del Pnf guidato dal conservatore Giuseppe Caradonna. Espulso dal partito viene nominato da Rossoni Segretario della Federazione sindacale di Torino. Passato nella Federazione di Bari si oppone allo "sbloccamento" dei sindacati. Si occupa di studi sulla legislazione del lavoro e sul corporativismo, partecipando attivamente alle riunioni del Consiglio nazionale delle corporazioni e viene nominato Presidente della Confederazione fascista dei lavoratori del commercio. Dopo una intensa attività nel settore sindacale - celebri le sue polemiche con Spirito sul rapporto tra sindacato e corporazione - è nominato Sottosegretario al Ministero dell'educazione nazionale, allora retto da Giuseppe Bottai. Si occupa soprattutto di sviluppare i rapporti tra la scuola e il mondo del lavoro, seguendo le indicazioni contenute nella Carta della scuola di Bottai. Lasciato il ministero in seguito alla sostituzione del ministro Bottai con Biggini, è nominato Presidente dell'Ente Nazionale per l'Oganizzazione Scientifica del lavoro (Enios). Non aderisce alla Rsi e viene arrestato dagl’alleati e inviato nel campo di concentramento di Padula dove scrive le "Memorie". Epurato dall'insegnamento universitario, vi ritorna come docente prima di Diritto della navigazione, poi di Diritto del lavoro, presso l'ateneo romano.  Complessi archivistici prodotti: Del Giudice Riccardo (fondo)   Bibliografia: G. PARLATO, Il sindacalismo fascista. IDalla "grande crisi" alla caduta del regime, Roma, Bonacci. 1989 G. PARLATO, Riccardo Del Giudice: dal sindacato al governo, Roma, Fondazione Ugo Spirito, G. PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino.  Wikipedia Ricerca Sindacalismo fascista Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni La neutralità di questa voce o sezione sugli argomenti fascismo e politica è stata messa in dubbio. Con sindacalismo fascista si intende quel settore del sindacalismo improntato sui principi della dottrina fascista del lavoro.  Storia  Modifica  Filippo Corridoni con Benito Mussolini durante una manifestazione interventista del 1915 a Milano. I primordiModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Sindacalismo rivoluzionario.  Fontana sulla cui lapide marmorea era scolpito il discorso che Benito Mussolini pronunciò il 20 marzo 1919 presso lo stabilimento di Dalmine, in occasione dell'autogestione operaia. Il sindacalismo fascista ha i suoi primordi nel magma del movimentismo sindacale dei primi due decenni del XX secolo: in particolare esso trova i suoi riferimenti culturali prima nella componente rivoluzionaria del sindacalismo socialista, che portò alla dirigenza del partito diversi esponenti e Benito Mussolini alla direzione dell'Avanti!, poi nelle sezioni più agguerrite del sindacalismo interventista, in particolare l'attivissima sezione milanese retta da Filippo Corridoni, nate in seno all'Unione Sindacale Italiana[1]ma da cui saranno espulse già nel 1915, per incompatibilità con i principi antimilitaristi e antistatalisti dell'USI[2]. Numerosi, pur con alcuni bassi, sono gli scioperi, le manifestazioni di piazza, gli scontri ed i comizi cui parteciparono Mussolini ed i dirigenti del fascismo a fianco, o anche in qualità stessa, di sindacalisti rivoluzionari.[3]  «In Italia non sarà possibile nessuna forma di sindacalismo fino a quando il Partito Socialistanon sarà abbattuto.»  (Filippo Corridoni a Curzio Malaparte a Milano poco prima di partire per il Carso, giugno 1915[4]) Un altro forte legame fu, dal 1915-1916 e fino al 1919-1920, quello con la Unione Italiana del Lavoro (UIL)[5], da essi creata e di ispirazione sindacalista rivoluzionaria, diretta inizialmente da Edmondo Rossoni.[6] La nuova formazione sindacale, nel fermento dell'interventismo nei confronti della Grande Guerra, tentò di operare una prima sintesi all'interno dell'immenso magma rivoluzionario italiano, combattuto ormai da anni tra le esigenze sociali e quelle nazionaliste del popolo. In particolare si verificò una congiunzione con le teorie di imperialismo operaiodi Enrico Corradini (Associazione Nazionalista Italiana) e lo sviluppo del produttivismo nazionale, grazie anche al Popolo d'Italia di Benito Mussolini[7], pervenendo all'idea non tanto di negare la lotta di classe per difendere gli interessi di categoria, quanto di ricomporli tutti all'interno del comune interesse superiore nazionale. Al suo interno la UIL portava però già i sintomi di quella che fu una battaglia destinata a concludersi più tardi, durante il sindacalismo fascista vero e proprio: quella tra la visione di un sindacalismo legato all'azione politica, appoggiata principalmente da Edmondo Rossoni, e quella "indipendentista" di Alceste De Ambris.[6][8]  Primo sfogo di queste evoluzioni avvenne il 16 marzo 1919 al Dalmine, dove si verificò la prima occupazionecon autogestione operaia della storia italiana, organizzata dai sindacalisti rivoluzionari. Il fatto eclatante che destò scalpore fu però soprattutto la continuazione della produzione, d'accordo con l'ottica produttivista che aveva acquisito il movimento: gli operai autorganizzati continuarono infatti il lavoro, issando sulla fabbrica il tricolore nazionale.[9][10] Due giorni dopo lo stesso Mussolini fu in visita agli stabilimenti:  «Voi oscuri lavoratori del Dalmine, avete aperto l'orizzonte. È il lavoro che parla in voi, non il dogma idiota o la chiesa intollerante, anche se rossa, è il lavoro che ha consacrato nelle trincee il suo diritto a non essere più fatica, miseria o disperazione, perché deve diventare gioia, orgoglio, creazione, conquista di uomini liberi nella patria libera e grande oltre i confini»  (Benito Mussolini, Discorso del Dalmine, 20 marzo 1919, in "Tutti i discorsi - anno 1919") In un primo momento la posizione di De Ambris e della sua UIL fu la più apprezzata da Mussolini, aprendo nel periodo 1919-1920 una forte convergenza tra i due, con il secondo che sostenne apertamente la UIL dalle colonne de Il Popolo d'Italia[11] ed il primo che dette un apporto considerevole al programma dei Fasci Italiani di Combattimento, costituiti il 23 marzo 1919 e dai quali prenderà spunto il fascismo durante la fase governativa.[12]  Il nucleo iniziale     Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                            Lo stesso argomento in dettaglio: Sansepolcrismoe Squadrismo.  Benito Mussolini a Dalmine con gli operai dello stabilimento autogestito.  Dino Grandi. È da questo connubio che, infatti, si costituisce in maniera strutturata il sindacalismo fascista, i cui protagonisti, dapprima immersi nei movimenti sindacalisti di varia estrazione sopra descritti, andarono a creare l'ossatura del nuovo movimento insieme agli interventisti futuristi, ad Arditi e reduci di guerra, nazionalisti e squadristi.[12]  Fra i maggiori esponenti di questo "sindacalismo squadrista", che affiancò i sindacalisti "puri", a cavallo tra gli anni dieci e venti Italo Balbo, Michele Bianchi, Gino Baroncini ma, soprattutto, Dino Grandi e lo squadrismo bolognese vicino agli ambienti de "L'Assalto", portatori di uno dei più genuini tratti del fascismo di sinistra, basato particolarmente (a Bologna) sulle rivendicazioni contadine, l'allargamento della piccola proprietà agricola ed al concetto de "la terra a chi la lavora".[13]  Alla fine del 1920 l'armonia tra sindacalismo rivoluzionario e fascismo sansepolcrista si spezzò quando, in conseguenza della grave sconfitta elettorale della fine del 1919, Mussolini operò la strategia della virata a destra per aprirsi maggiori spazi politici e, staccandoli dalla UIL, creò i Sindacati economici, che nel gennaio 1922 diventeranno poi la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacalifasciste dirette da Rossoni.[14]  La crisi tra i due movimenti si attuò essenzialmente sul nodo della concezione del rapporto tra economia e politica. Da una parte il fascismo, che riteneva fondamentale che ogni dinamica attraverso la nazione sia controllata dallo Stato, dall'altra i sindacalisti rivoluzionari, che vedevano questa posizione come antitetica ai propri canoni libertari ed autonomisti[15], concependo la nazione come identità e sostanza storica di un popolo, ma lo Stato come sistema di potere di una classe esclusiva.[16]  «Il sindacalismo rivoluzionario, portando il suo contributo decisivo alla determinazione dell'Italia per l'intervento nella guerra, salvò l'onore dei lavoratori italiani e gettò le premesse in virtù delle quali l'organizzazione del lavoro è oggi, su piede di uguaglianza con tutte le altre forze economiche, elemento fondamentale dello Stato Corporativo. In questo senso soltanto può essere affermata la derivazione del movimento sindacale fascista dal vecchio sindacalismo rivoluzionario.»  (Tullio Masotti[17]) Rossoni e la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali fasciste                                         Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                         Lo stesso argomento in dettaglio: Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali.  Edmondo Rossoni.  I quadrumviri e Benito Mussolini(da sinistra a destra: Emilio De Bono, Michele Bianchi, Mussolini, Cesare Maria De Vecchi e Italo Balbo). Il primo, il terzo ed il quinto furono sindacalisti. Nel gennaio 1922 si tenne il  I Convegno sindacale di Bologna, in cui si scontrarono le due visioni principali, già emerse in passato, riguardanti il grado di dipendenza dei sindacati nei confronti della politica e, in questo caso, del neocostituito Partito Nazionale Fascista (PNF). Si scontrarono quindi la visione "autonomista" di Edmondo Rossoni e di Dino Grandi e quella "politica" di Massimo Rocca e Michele Bianchi, tra le quali sarà vincente la seconda[18].  A Bologna vennero inoltre affermati i principi basilari della politica corporativa, con la conferma del superamento della lotta di classe nei confronti della collaborazione e dell'interesse nazionale su quello individuale o di settore, e la nascita della Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali[1], una nuova formazione antisocialista ed anticattolica, costituita nella forma di sindacati autonomi formati da cinque Corporazioni suddivise per categorie lavorative e non ancora (lo saranno nel 1934) sindacati misti lavoratori-datori di lavoro. Come nel sindacalismo rivoluzionario, inoltre, le corporazioni dovevano riunire tutte le attività professionali che identificavano la loro "elevazione morale e economica (...) con il dovere imprescindibile del cittadino verso la Nazione".[11]  «La nazione, sintesi superiore di tutti i valori materiali e spirituali della razza, è al di sopra degli individui, dei gruppi e delle classi. Individui, gruppi e classi sono gli strumenti di cui la nazione si serve per migliorare le proprie condizioni. Gli interessi individuali e di gruppo acquistano legittimità a condizione che si realizzino nell'ambito dei superiori interessi nazionali.»  (Articolo 4 della Carta dei principi delle corporazioni[19]) Sulla Confederazione si svilupparono polemiche anche negli ambienti del sindacalismo internazionale: la sinistra operaia internazionale, in sede di Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), contestava il titolo alla rappresentanza operaia alle corporazioni fasciste e, quindi, la possibilità di partecipare all'assemblea. La polemica non venne però accettata, e l'ILO permise alle Corporazioni di partecipare alle sedute senza interruzioni nel rinnovo del mandato.[20]  In sede congressuale Rossoni dichiarò l'esistenza di una linea di continuità tra il sindacalismo rivoluzionario, il sindacalismo fascista ed il corporativismo: per il sindacalismo fascista, infatti, l'ultimo era legato al primo sia per il comune intendimento del concetto di "rivoluzione" che, al di là dell'aspetto della rivolta popolare, in ambito lavorativo ritenevano rivestisse il significato di "sopravvento di superiori capacità produttive"; inoltre, ugualmente, avevano l'obbiettivo di innalzare il "proletario" (nell'accezione negativa del termine) al rango di "lavoratore" inserito a pieno titolo nella vita nazionale.[21]  «Il sindacalismo deve essere nazionale ma non può essere nazionale per metà: esso deve comprendere capitale e lavoro (...) e sostituire al vecchio termine proletariato, quello di lavoratore ed all'altro, di padrone, la parola dirigente, che più alta, più intellettuale, più grande.»  (Edmondo Rossoni, 18 gennaio 1926, Congresso dei Sindacati intellettuali fascisti.[22]) Nei mesi successivi, in concomitanza con il termine del biennio rosso e l'avanzata dell'offensiva militare del fascismo imperniata sulle squadre d'azione, ebbe luogo lo sfondamento politico in campo sindacale, con il passaggio di interi settori operai dalle strutture del Partito Socialista Italiano e della CGdL al fascismo. Tanto che, nell'estate del 1922, la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali contava 800.000 iscritti.[23] Ciò evidenziava il successo dei progetti di Rossoni, che aveva pensato di creare da una parte una base contadina potente ed affidabile che appoggiasse e facesse da riserva strategica allo squadrismo, dall'altra di fare del sindacalismo una delle pietre angolari dello Stato fascista.[24]  Con la Marcia su Roma, l'affermazione del sindacalismo fascista fu quasi definitiva[25] e l'inizio della costruzione del nuovo Stato portò quindi una relativa tranquillità nell'ambiente del sindacalismo stesso che, con il termine degli scontri e delle tensioni politiche, poté incentrarsi sul proprio sviluppo culturale e la propria evoluzione politica.[1] Emondo Rossoni così ne spiega definizione e scopo principale:  «(...) la salvaguardia della salute spirituale del popolo (...) Sindacato vuol dire: unione di interessi omogenei. Sindacalismo: azione che deve disciplinare e tutelare gli interessi omogenei (...) Noi rivendichiamo la concezione italiana del Sindacalismo alle corporazioni italianissime che sono nate ancor prima che la parola 'sindacalismo' fosse pronunciata.»  (Edmondo Rossoni, La Marcia su Roma e il compito dei sindacati, Napoli, 1922[26]) Caratteristiche principali, che evidenziavano la differenza del sindacalismo fascista rispetto a quello socialista, furono anche la mancanza di dogmatismo, teologismo e perseguimento di finalità remote, come ad esempio il prefiggersi in anticipo un determinato tipo di obbiettivo finale, come il tipo di economia da instaurare, ma tentando sempre di adeguarsi alla realtà del mondo.[27]  Questo clima non portò fine al dibattito interno, che anzi aumentò decisamente, tanto che gli stessi vecchi sindacalisti rivoluzionari come Edmondo Rossoni, Agostino Lanzillo, Sergio Panunzio e Angelo Oliviero Olivetti, discutevano e si dividevano spesso e volentieri tra loro.[28] In tutti però[29] un'evoluzione era avvenuta: il sindacalismo non era più considerato propulsore del libero mercato ma, aderendo al concetto di nazione come unità organica d'intenti, ritenevano che il sindacato - come gli imprenditori - dovesse trovare il suo limite nel superiore interesse della patria, rigettando il concetto di libero mercato stesso e giungendo al tal punto da definire che "la nazione è il più grande sindacato".[30]  Le prime forti tensioni con i conservatori ed il padronatoModifica  Roberto Farinacci nel 1925.  Renato Ricci con la sua squadra d'azione carrarese impegnata a S. Terenzio nello sgombero delle macerie del forte di Falconara 1922 Immediatamente dopo l'apice della Marcia su Roma si accese però lo scontro tra il fascismo di sinistra ed i settori più conservatori dello Stato. Tra il 1921 ed il 1923 avvennero alcuni episodi chiave:  la creazione dei gruppi di competenza,[31] da parte di Massimo Rocca, limitanti lo spazio sindacale della Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali[32]; il tentativo di bloccare il corporativismo da parte di Confindustria e Confagricoltura, contrapposti alla minaccia di Rossoni di assalti, scontri ed occupazione delle fabbriche da parte dei lavoratori fascisti[32]; l'appoggio diretto al sindacalismo fascista da parte di tutta la sinistra fascista nazionale, compresi Michele Bianchi e Roberto Farinacci[33]; il lancio del sindacalismo integrale (1923) da parte di Rossoni, che puntava ad inglobare nelle corporazioni Confindustria e Confagricoltura (ossia le rappresentanze sindacali dei datori di lavoro)[34]; la creazione della Federazione italiana dei sindacati agricoltori (FISA) e della Corporazione dell'Industria e del Commercio da parte di Rossoni; i primi tentativi di trasformare le organizzazioni sindacali da associazioni di fatto in organi di diritto pubblico da parte di Armando Casalini[35]; il patto siglato tra Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali e Confindustria nel dicembre del 1923 a Palazzo Chigi, in ottica di limitazione dei conflitti di classe[13]. «(Sia il Capitale sia il Lavoro, ndr) devono essere disciplinati. L'appetito all'infinito è malefico e assurdo. Per queste ragioni il sindacalismo fascista è per la collaborazione (...) ma con gli industriali che si impuntano e dicono comandiamo noi, occorre lottare decisamente per dare ai lavoratori il posto degno nella vita della nazione»  (Edmondo Rossoni, adunata al Teatro Regio di Torino, 16 gennaio 1926[36]) In questo periodo di tensioni tra industriali e sindacati fascisti, difficile per l'attecchimento della collaborazione di classe vagheggiata dal fascismo per il mondo del lavoro, assurgono agli onori del sindacalismo fascista le personalità di Mario Gianpaoli, sindacalista e federale del PNF di Milano, e di Domenico Bagnasco, segretario dei sindacati fascisti di Torino. Organizzatore e combattente di piazza, Bagnasco fu deciso a prendere di petto gli industriali, accusando il padronato di "spietata intransigenza antioperaia". Spesso i sindacalisti fascisti di questo periodo pagarono con la fine della propria carriera politica l'attivismo sfrenato, a causa di un fascismo ancora non abbastanza forte da poter far fronte ad uno scontro con la grande industria, appoggiata dai molti uomini del precedente regime ancora posizionati nelle istituzioni dello Stato. Essi ebbero però il merito di infondere risolutezza in molti sindacalisti di periferia.[37]  La seconda fase del sindacalismo fascistaModifica  Monumento a Luigi Razza.  Enrico Corradini. Si entra quindi in quella che viene chiamata "la seconda fase del sindacalismo fascista"[38], durante la quale il sindacalismo e tutte le componenti della sinistra fascista tornarono all'attivismo ed alla tensione del periodo rivoluzionario. Sergio Panunzio ricominciò a tuonare a favore della ripresa dell'anima rivoluzionaria del fascismo e del recupero del programma del '19[39], esprimendosi per la creazione di una Camera sindacale e del lavoro e di un Senato politico.[40]  Nel febbraio 1924 cadde la Confagricoltura, inglobata dalla fascista Federazione italiana sindacati agricoli, riunendo in un'unica corporazione i lavoratori con i grandi e piccoli proprietari agricoli.[34]  Il nuovo spostamento a sinistra dello schieramento fascista, questa volta apertamente appoggiato da Mussolini stesso, portò ad un conseguente irrigidimento degli industriali sulle tradizionali posizioni reazionarie, decretando l'inizio di un'escalation. Si verificò quindi anche la ripresa militante dello squadrismo in appoggio all'azione sindacale fascista, dando luogo ad un'ondata di scioperi su tutto il territorio nazionale, i più infuocati dei quali in Valdarno, Lunigiana e ad Orbetello. In Valdarno lo sciopero venne organizzato dal dirigente Bramante Cucini, seguace di Sergio Panunzio, e finanziato direttamente dai Comuni amministrati dal Partito Nazionale Fascistae da uno stanziamento apposito del Direttorio generale del PNF, con la pubblica approvazione di Mussolini.[41] Al termine dello sciopero si ebbe perfino la nomina statale di una commissione straordinaria di lavoratori per gestire le miniere, destando comprensibile spavento tra il padronato.[42]  Nel novembre del 1924 si tenne a Roma il II Congresso nazionale delle corporazioni. Qui venne messa momentaneamente da parte la strada della collaborazione di classe, per riprendere quella della lotta in difesa dell'unità dei lavoratori e dell'istituzionalizzazione delle corporazioni, quest'ultimo aspetto chiesto a gran voce durante tutto il congresso dalla maggioranza degli esponenti, soprattutto quelli rappresentanti i sindacati agricoli provinciali, come Mario Racheli.[32]  «Nei riflessi della politica economica non v'è chi non afferri l'utilità nazionale di rendere responsabili le organizzazioni sindacali e di creare discipline contrattuali garantite dalla legge.»  (Edmondo Rossoni, intervento al II Congresso nazionale delle corporazioni.[43]) In questo quadro ha luogo, come in altri casi era avvenuto, un'avversione crescente nei confronti dell'inerzia e dell'inattivismo di Mussolini verso la situazione generale, legato alla fase ed alle operazioni di consolidamento del potere del fascismo all'interno della formazione statale. Ciò generò, in diversi casi, il concepimento e la presa di decisioni autonome da parte dei capisquadra, dei leader sindacali e dell'ala movimentista[44][45] e la messa in evidenza della natura anticapitalista che permeava il fascismo provinciale nei confronti di quello cittadino, dove il movimentismo si scontrava coi circoli conservatori. Questa natura emerse visibilmente e prepotentemente con lo sciopero carrarese organizzato da Renato Ricci, capo delle squadre d'azione della Lunigiana. In tale frangente lo sciopero fascista (autunno-inverno del 1924) portò ad una radicalizzazione estrema dello scontro con "i baroni del marmo", imperanti nel carrarese, da portare all'occupazione ed all'autogestione delle cave e delle industrie di lavorazione, ma soprattutto (dato che lo sciopero non si risolse con una vera e propria vittoria) a divenire una delle cause fondamentali della nascita di una corrente di dissidenti all'interno del fascismo "ufficiale".[46][47]  Il 3 gennaio 1925 ha luogo il discorso alla Camera con cui Mussolini si prende carico della responsabilità politica della vicenda Matteotti.  L'8 gennaio il Direttorio delle corporazioni e quello del Partito Nazionale Fascista si riuniscono congiuntamente studiando una serie di problemi da risolvere per valorizzare il ruolo delle classi lavoratrici ed il loro inserimento a pieno titolo nella vita nazionale, producendo poi un ordine del giorno in cui si autorizzavano i sindacati fascisti a ricorrere alla "lotta economica" contro industriali e capitalisti, rei di "colpevole incomprensione" dei fini e della prospettiva sociale e nazionale del fascismo. Ciò determina, insieme all'entusiasmo per l'intransigenza insita nel discorso di Mussolini, l'instaurazione di un clima da "seconda ondata", rimettendo nuovamente in moto la rivoluzione da sinistra e accendendo nuovamente l'entusiasmo del fascismo movimentista.[32]  Nel marzo del 1925 avviene quindi l'ultima grande azione di forza della Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali, che scavalcò le vertenze sindacali in corso tra la O.M. di Brescia e la FIOMindicendo uno sciopero a sorpresa, scatenato da una serie di multe e licenziamenti inflitti agli operai fascisti che, per protesta, abbandonarono i posti di lavoro. Le agitazioni ottennero l'appoggio di Roberto Farinacci, in quel periodo segretario nazionale del Partito, e, di contrasto, gli appelli alla moderazione di Mussolini, che consigliò cautela a Rossoni per non ripetere le vittorie di Pirro degli scioperi valdarnesi e carraresi.[32]Le agitazioni dei metallurgici riuscirono però ad allargarsi fino a Milano, dove gli operai socialisti e comunisti vennero invitati ad aderire; le attività di contestazione cominciarono poi ad interessare anche carovita ed altri argomenti, estendendosi a tutta la Lombardia ed assumendo, soprattutto con il sindacalfascista Luigi Razza caratteri indipendenti dal governo e di aperta minaccia e violenza nei confronti degli industriali, terrorizzati dalla possibilità di combinazioni politiche unitarie impreviste.[48] Dopo lunghe trattative le agitazioni rientrarono, decretando un grosso insuccesso per gli industriali, che dovettero fare buone concessioni, sebbene non totali, agli operai tramite i sindacati fascisti, e l'emarginazione completa della FIOM, i cui rappresentati si spostarono in massa nelle Corporazioni.[1]  «Per ben tre anni l'esistenza di un sindacalismo fascista, cioè di un movimento sindacale guidato da fascisti e orientato verso le idee del fascismo, fu ostinatamente negata. Ci voleva, per dissuggellare gli occhi dei ciechi volontari e fanatici, il fatto clamoroso: lo sciopero che mettesse in campo le forze sindacali del fascismo e che desse in pari tempo allo stesso sindacalismo fascista una più risoluta nozione della sua forza e delle sue possibilità di azione.»  (Benito Mussolini, Fascismo e sindacalismo, a seguito degli scioperi metallurgici organizzati dai sindacati fascisti in Nord Italia[27][49]) Altro commento che rivela il momento infuocato fu quello di Corradini, sindacalista nazionale:  «Il superamento del socialismo, non la dispersione, non la distruzione dell'opera socialista. Questo è buono affermare, in occasione dello sciopero dei sindacati fascisti (...) Vi è fra socialismo e fascismo un nesso storico, oso dire una continuazione storica (...) Il fascismo supera il socialismo, ma raccoglie i buoni frutti dell'opera socialista e secondo la sua propria legge, quando occorra, tale opera continua»  (Enrico Corradini, su Il Popolo d'Italia[41]) La trasformazione in organi di diritto pubblicoModifica  Edmondo Rossoni in Piazza del Popolo (Roma) annuncia la promulgazione della Carta del Lavoro.  Ugo Spirito. La conseguenza principale di questi avvenimenti furono però gli accordi di Palazzo Vidoni (2 ottobre 1925), in cui venne riconosciuto dalla Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali e da Confindustria la reciproca esclusività di rappresentanza di lavoratori e datori di lavoro, con l'impegno al conseguimento prioritario dell'interesse nazionale.[1]  Va però evidenziata soprattutto la legge del 3 aprile 1926: con questa legge vennero infatti, tra l'altro, realizzata l'istituzionalizzazione dei sindacati fascisti e legalizzato il loro monopolio per la rappresentanza dei lavoratori con la nascita della contrattazione collettiva del lavoro. Ciò andava a significare che le Corporazioni divennero organi di diritto pubblico dell'amministrazione statale, con "funzioni di conciliazione, di coordinamento ed organizzazione della produzione". All'interno di questa legge era inoltre presente l'articolo 42, che prevedeva una direzione comune tra le associazioni di categoria delle due parti, contenendo in nuce il progetto corporativo a sindacato misto che verrà realizzato negli anni trenta.[50]  Dopo questa vittoria, per Rossoni si ebbe la redazione della Carta del Lavoro (1927), testo fondamentale della politica sociale fascista in ottica di eliminazione della dicotomia tra le classi sociali[51] ma, dall'anno successivo, con Farinacci non più alla segreteria nazionale del PNF, ebbero sfogo gli attacchi alla Conferenza nazionale delle corporazioni sindacali, che venne smembrata dai circoli conservatori (novembre 1928), capeggiati da Giuseppe Bottai (sottosegretario al Ministero delle corporazioni) ed Augusto Turati(nuovo segretario del partito), in sei separate confederazioni di sindacati, facendo diminuire il potere contrattuale dell'organismo, disperdendolo in strutture più piccole e limitate.[52]  Il secondo Convegno di Studi sindacali e corporativiModifica Nel periodo che intercorse da questo momento alla legge del 5 febbraio 1934, istitutiva delle corporazioni, si ebbe uno blocco totale dell'azione nel settore, in cui intervenne positivamente soltanto il II Convegno di Studi sindacali e corporativi, tenutosi a Ferrara nel maggio del 1932, nel quale emerse il concetto di corporazione proprietaria proposta da Ugo Spirito[53], nei confronti della quale il sindacalismo fascista si trovò su posizioni contrastanti a causa di un arroccamento di tipo ideologico: rimasti su posizioni classiste nel passaggio dal socialismo eterodosso al fascismo, molti degli esponenti pre-rivoluzionari del sindacalismo fascista (Lanzillo, Giampaoli, Bagnasco, ecc.) videro il progetto di annullare il sindacalismo nel corporativismo come un progetto reazionario, rimanendo ancorati alla concezione della lotta di classe come uno scontro benefico per gli interessi individuali e nazionali.[54]  L'incapacità di accettare la proposta di Spirito da parte dei primi sindacalisti fascisti, ma anche i "nuovi" come Luigi Razza e Pietro Capoferri, fu dovuta quindi essenzialmente al rigetto totale della visione statalista che andava formandosi nel fascismo ed al cui finalismo erano sempre stati avversi: per loro "la corporazione è il sindacato, e dire Stato corporativo è come dire Stato sindacale"[54][55]  L'esaurimento del sindacalismo fascista nelle CorporazioniModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Corporativismo.  Sede dell'Opera Nazionale Dopolavoro. Nel 1934 viene approvata la creazione dello Stato corporativo che, con le nomine dall'alto al posto delle cariche elettive e l'abolizione (fino al 1939) del fiduciario di fabbrica, aveva dato tra l'altro alle corporazioni, divenute veri e propri sindacati formati dai rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro ed istituzionalizzati nello Stato, la facoltà di stipulare i contratti collettivi di lavoro.[27][56]  In ogni caso il cambiamento di assetto istituzionale e la rivoluzione nel mondo del lavoro, non pregiudicarono i risultati effettivi che il sindacalismo fascista aveva ottenuto negli anni. Tra le più importanti si possono elencare:  ferie pagate; indennità di licenziamento; conservazione del posto in caso di malattia; divieto di licenziamento in caso di maternità; assegni familiari; diffusione delle casse mutue aziendali; assistenza sociale dell'Opera Nazionale Dopolavoro(ad es. centri ricreativi, viaggi collettivi a prezzo simbolico, manifestazioni teatrali, etc).[50] Il 21 aprile 1930 fu Mussolini stesso a rivendicare alle corporazioni la funzione di esaurire in sé il compito del sindacalismo fascista, superando ed andando oltre al sindacalismo stesso, inserendosi nel solco della Rivoluzione continua:  «È nella corporazione che il sindacalismo fascista trova infatti la sua meta. Il sindacalismo, di ogni scuola, ha un decorso che potrebbe dirsi comune, salvo i metodi: s'incomincia con l'educazione dei singoli alla vita associativa; si continua con la stipulazione dei contratti collettivi; si attua la solidarietà assistenziale o mutualistica; si perfeziona l'abilità professionale. Ma mentre il sindacalismo socialista, per la strada della lotta di classe, sfocia sul terreno politico, avente a programma finale la soppressione della proprietà privata e dell'iniziativa individuale, il sindacalismo fascista, attraverso la collaborazione di classe, sbocca nella corporazione, che tale collaborazione deve rendere sistematica e armonica, salvaguardando la proprietà, ma elevandola a funzione sociale, rispettando l'iniziativa individuale, ma nell'ambito della vita e dell'economia della Nazione. Il sindacalismo non può essere fine a sé stesso: o si esaurisce nel socialismo politico o nella corporazione fascista. È solo nella corporazione che si realizza l'unità economica nei suoi diversi elementi: capitale, lavoro, tecnica; è solo attraverso la corporazione, cioè attraverso la collaborazione di tutte le forze convergenti a un solo fine, che la vitalità del sindacalismo è assicurata.»  (Benito Mussolini, discorso inaugurale del Consiglio Nazionale delle corporazioni[57]) Maggiori esponenti ed ispiratori                                               Modifica Filippo Corridoni Enrico Corradini Alceste De Ambris Sergio Panunzio Angelo Oliviero Olivetti Ottavio Dinale Agostino Lanzillo Dino Grandi Luigi Fontanelli Riccardo Del Giudice Michele Bianchi Gino Baroncini Tullio Cianetti Edmondo Rossoni Luigi Razza Mario Racheli Domenico Bagnasco Bramante Cucini Pietro Capoferri Giuseppe Landi Alcide Aimi RivisteModifica La Stirpe Il Lavoro Fascista (poi organo ufficiale del Partito Fascista Repubblicano) Il Lavoro d'Italia Cultura Sindacale Rivista del Lavoro L'Idea Sindacalista Il Lavoro I Problemi del Lavoro NoteModifica ^ a b c d e Francesco Perfetti, Il sindacalismo fascista. Dalle origini alla vigilia dello Stato corporativo (1919-1930), vol. 1, Bonacci, Roma, 1988. ^ Breve storia dell'Usi di Ugo Fedeli ^ Ivano Granata, La nascita del sindacato fascista. L'esperienza di Milano, De Donato, Bari, 1981. ^ Curzio Malaparte e Edda Ronchi Suckert, Malaparte, vol. 1, Ponte delle Grazie, 1991. ^ operante tra il 1918 ed il 1925 e senza legami con la UIL attuale. ^ a b Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Roma e Bari, 1974; ristampa Firenze, La Nuova Italia, 1990. ISBN 88-221-0774-8 ^ Nel cui sottotitolo cambiava, in questo periodo, la dicitura da quotidiano socialista in quotidiano dei produttori ^ Francesco Perfetti, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Bonacci, Roma, 1984. ^ Renzo de Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 2005. ^ Filippo Corridoni (a cura di Andrea Benzi), ...come per andare più avanti ancora - gli scritti, Milano, Seb, 2001 ^ a b Simonetta Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, Rubbettino, Roma, 2003. ^ a b Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 2005. ^ a b Renzo De Felice, Mussolini il fascista, I, La conquista del potere. 1921-1925, Torino, Einaudi, 2005. ^ Italo Mario Sacco, Storia del sindacalismo, Torino, 1947. ^ Angelo Olivero Olivetti Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, op. cit., p. 72-73 ^ Francesco Perfetti, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Roma, Bonacci, 1984. ^ in Corridoni, Casa editrice Carnaro, Milano, 1932, pag. 76 ^ Anche per via del cambiamento di schieramento di Grandi: Renzo De Felice, Mussolini il fascista, I, La conquista del potere. 1921-1925, Torino, Einaudi, 2005. ^ Carmen Haider, Capital and Labour under Fascism, Columbia University Press, New York, 1930. ^ R. Allio, La polemica Joubaux-Rossoni e la rappresentanza delle corporazioni fasciste nell'ILO, "Storia contemporanea", Bologna, 1973, anno IV, n. 3 ^ Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale (1870-1925), Feltrinelli, Milano, 2001 ^ "Il Giornale d'Italia", 19 gennaio 1926; "Il Mondo", 19 gennaio 1926. ^ Renzo De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 2005. ^ Ferdinando Cordova, Uomini e volti del fascismo, Bulzoni, Roma, 1980. ^ Ancora forti rimanevano i sindacati socialisti (CGdL) e comunisti soprattutto tra metallurgici e metalmeccanici del nord-ovest e lo rimarranno fino allo sciopero fascista della OM di Brescia, espansosi poi in tutto il nord Italia, del 1925. In Luca Leonello Rimbotti, Il Fascismo di sinistra, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 1989. ^ Le idee della ricostruzione. Discorsi sul sindacalismo fascista, Bemporad, Firenze, 1924. ^ a b c Edoardo e Duilio Susmel, Opera Omnia di Benito Mussolini, La Fenice, Firenze. ^ Giuseppe Parlato, Il sindacalismo fascista. Dalla grande crisi alla vigilia dello Stato corporativo (1930-1943), Bonacci, Roma, 1989. ^ Con l'eccezione di Lanzillo, che continuò pericolosamente a portare avanti idee liberiste anche durante il regime. ^ Angelo Oliviero Olivetti, Bolscevismo, comunismo e sindacalismo, Editrice Rivista Nazionale, Milano, 1919. ^ Deliberazione congiunta del 6 luglio 1922 del PNF e del Gruppo parlamentare del partito ^ a b c d e Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Laterza, 1974. ^ Espressosi esplicitamente, in particolare, nella seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 15 marzo 1923, occupatasi dell'analisi dei problemi sindacali. In questo ambito Michele Bianchi definì "dittatoriale" la "procedura introdotta dal sindacalismo fascista", mentre il sindacalista nazionale Maraviglia ribadì che "la doppia organizzazione, cioè quella dei datori di lavoro e quella dei lavoratori, allontana ogni pericolo che anche il Fascismo, per le pressioni e l'influenza delle organizzazioni sindacali, possa diventare un partito di classe". In Claudio Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia, Milano, 1972. ^ a b Francesca Tacchi, Storia illustrata del fascismo, Giunti, Firenze, 2000. ^ Luca Leonello Rimbotti, Il Fascismo di sinistra, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 1989 ^ Corriere della Sera, 18 gennaio 1926 ^ AA. VV., Uomini e volti del fascismo, Bulzoni, Roma, 1980. ^ "(...) contrassegnata da un parziale ritorno alla teoria e alla pratica del conflitto di classe", in Adrian Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza, Bari, 1974 ^ "Il fascismo è una dottrina, una fede, una civiltà nuova. Riemerge ora l'anima rivoluzionaria del Fascismo. Il Fascismo deve immediatamente tornare, non per opportunismo, ma per necessità storica, al programma del '19 (...) L'anima del Fascismo è, ricordiamolo sempre, il Sindacalismo Nazionale, la cui formula Mussolini lanciò prima del 1918, prima di Vittorio Veneto". In Sergio Panunzio, La méta del Fascismo, in Il Popolo d'Italia, 22 giugno 1924 ^ Attilio Tamaro, Venti anni di storia, Editrice Tiber, Roma, 1953. ^ a b Claudio Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia, Milano, 1972. ^ Il Mondo, 1924 ^ Rossoni stava, nel suo intervento, illustrando le future battaglie del sindacalismo fascista sui contratti collettivi di lavoro. In Ferdinando Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Laterza, 1974. ^ "In questo periodo - fine '24 - continuarono ad affiorare, in seno al sindacalismo fascista, tendenze centrifughe verso Mussolini e il partito, la cui sorte pareva a molti gravemente compromessa" in Alberto Acquarone, La politica sindacale del fascismo ^ Alberto Aquarone e Maurizio Vernassa, Il regime fascista, Il Mulino, Bologna, 1974. ^ Che rientrò poi in breve tempo nell'alveo della sinistra fascista ufficiale. ^ Sandro Setta, Renato Ricci: dallo squadrismo alla Repubblica sociale italiana, Il Mulino, 1986. ^ Bruno Uva, La nascita dello stato corporativo e sindacale fascista, Carucci, Assisi-Roma, 1974. ^ Gerarchia n° 5, maggio 1925 ^ a b Alberto Acquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Einaudi, Torino, 1965. ^ R. Arata, Decennale della Carta del Lavoro - Sul piano dell'Impero, su "L'Italia", Milano, 21 aprile 1937 ^ Renzo De Felice, Mussolini il fascista. Vol. 2: L'organizzazione dello Stato fascista (1925-1929), Einaudi, 2008. ^ Ugo Spirito, Memorie di un incosciente, Rusconi, Milano, 1977. ^ a b Silvio Lanaro, Appunti sul fascismo di sinistra - La dottrina corporativa di Ugo Spirito, Firenze, in Belfagor, anno XXVI, 1971 ^ Giuseppe Parlato, Ugo Spirito e il sindacalismo fascista, in AA. VV., Il pensiero di Ugo Spirito, vol. 1, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, 1988. ^ Luca Leonello Rimbotti, Il Fascismo di sinistra, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 1989. ^ Edoardo e Duilio Susmel Opera Omnia di Benito Mussolini, La Fenice, Firenze. BibliografiaModifica Testi in lingua italianaModifica AA. VV., Uomini e volti del fascismo, Bulzoni, Roma, 1980. Critica Fascista, antologia a cura di De Rosa e Malgeri, Landi, San Giovanni Valdarno, 1980. Alberto Aquarone, La politica sindacale del fascismo. Alberto Aquarone e Maurizio Vernassa (a cura di), Il regime fascista, Il Mulino, Bologna, 1974. 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Antologia di testi fascisti, 1919-1945, Bergamo, Minerva italica, 1978. Emilio Gentile, Le origini dell'ideologia fascista, Laterza, Bari. 1975. Ivano Granata, La nascita del sindacato fascista. L'esperienza di Milano, De Donato, Bari, 1981. Silvio Lanaro, Appunti sul fascismo di sinistra - La dottrina corporativa di Ugo Spirito, Firenze, in Belfagor, anno XXVI, 1971. Adrian Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza, Bari, 1974. Giuseppe Parlato, La sinistra fascista: storia di un progetto mancato, Il Mulino, 2008. Giuseppe Parlato, Ugo Spirito e il sindacalismo fascista, in AA. VV., Il pensiero di Ugo Spirito, vol. 1, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, 1988. Giuseppe Parlato, Il sindacalismo fascista. Dalla grande crisi alla caduta del regime (1930-1943), vol. 2, Bonacci, Roma, 1989. Francesco Perfetti, Il sindacalismo fascista. Dalle origini alla vigilia dello Stato corporativo (1919-1930), vol. 1, Bonacci, Roma, 1988. Francesco Perfetti, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Bonacci, Roma, 1984. Italo Mario Sacco, Storia del sindacalismo, Torino, 1947. Gaetano Salvemini, Scritti sul fascismo, Vol. 3, Feltrinelli, 1961. Claudio Schwarzenberg, Il sindacalismo fascista, Mursia, Milano, 1972. Sandro Setta, Renato Ricci: dallo squadrismo alla Repubblica sociale italiana, Il Mulino, 1986. Edoardo e Duilio Susmel, Opera Omnia di Benito Mussolini, La Fenice, Firenze. Francesca Tacchi, Storia illustrata del fascismo, Giunti, Firenze, 2000. Attilio Tamaro, Venti anni di storia, Editrice Tiber, Roma, 1953. Simonetta Falasca Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, Rubbettino, Roma, 2003. Testi in lingua stranieraModifica (EN) Carmen Haider, Capital and Labour under Fascism, Columbia University Press, New York, 1930. (EN) G. Lowell Field, The Syndacal and Corporative Institutions of Italian Fascism, Columbia University Press, New York, 1938. (EN) David D. Roberts, The Syndacalist Tradition and Italian Fascism, University of North Carolina Press, Chapel Hill, 1979. Voci correlateModifica Camera dei fasci e delle corporazioni Carta del Lavoro Corporativismo Corporazione proprietaria Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali Collaborazione di classe Fasci Italiani di Combattimento Interventismo Leggi fascistissime Politica economica fascista Politica sociale (fascismo) Dalmine Rivoluzione fascista Squadrismo Sindacalismo rivoluzionario Sindacato fascista dei giornalisti Controllo di autoritàThesaurusBNCF 36490   Portale Fascismo   Portale Politica   Portale Storia d'Italia Ultima modifica 2 mesi fa di Tytire PAGINE CORRELATE Edmondo Rossoni sindacalista, giornalista e politico italiano  Angelo Oliviero Olivetti politico, politologo e giornalista italiano  Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali WikipediaRiccardo Del Giudice. Giudice. Keywords: l’implicatura di Telesio, Telesio, polemica con Spirito su la distinzione tra sindacato e corporazione, le corporazione nell aroma papale, I diritti dello stato pontificio, il diritto della navegazione, contratto, gentile, la scuola al lavoro – ‘dottrina e prassi corporativa” --  – la tesi di telesio – consiglio nazionale delle corporazioni.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giudice: l’implicatura di Telesio” -- The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755870847/in/dateposted-public/

 

Grice e Giudice – corpi ed espressioni – filosofia italiana – filosofia siciliana -- Luigi Speranza (Antillo). Filosofo.  Grice: “Giudice has written an essay that poses a conceptual query for Austin’s conceptual query. It’s “Sull pudore” – “But do we have that in ordinary language?”” – Grice: “Giudice has also written on more standard forms of philosophy of language, and Nietzsche.” Dopo aver espletato studi classici si laurea con la tesi “Ideologia e Sociologia” -- Ricercatore all'Istituto di Filosofia di Messina. Direttore della collana "Filosofia Teoretica". Altre saggi: “La Nuova Filosofia, Messina, Sortino “Il discorso filosofico” “Gli echi del corpo” Verona,Paniere, “Il lessico di Nietzsche” Roma, Armando, Nietzscheana. Esercizi di lettura, Messina, Alfa, “Il tribunale filosofico” I simboli delle cose più alte, Fedeltà alla terra, Profili della contemporaneità, Cosenza, Pellegrini, “Stare insieme” Cosenza, Pellegrini, La filosofia del finito, Cosenza, Pellegrini, Gl’echi, Cosenza, Pellegrini Editore, Il corpo e l'espressione, Cosenza, Pellegrini, Scritti di filosofia ed etica, Cosenza, Pellegrini, Emozioni e cognitività: Un approccio fisiologico, Cosenza, Pellegrini Sul pudore -- Sul pudore e sull'osceno, Cosenza, Pellegrini Breve documento sulla "nuova filosofia", Cosenza, Pellegrini, Scritti di filosofia ed etica, Cosenza, Pellegrini, Su Messina e altri scritti, Cosenza, Pellegrini, Morelli, Puoi fidarti di te, Milano, Mondadori, Battaglia, Storia e cultura in Popper, Cosenza, L. Pellegrino, Battaglia, Guicciardini tra scienza etica e politica, Cosenza, L. Pellegrino,,  varie Giovanni Coglitore, Kant: cristianesimo come impegno morale, in Il contributo,  L'Espresso, Studi etno-antropologici e sociologici,.  Fisiologia branca della biologia che studia il funzionamento degli organismi viventi Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – "Fisiologo" rimanda qui. Se stai cercando l'omonimo trattato antico, vedi Il Fisiologo. La fisiologia (dal greco φύσις, physis, 'natura', e λόγος, logos, 'discorso', quindi 'studio dei fenomeni naturali') è la branca della biologia che studia il funzionamento degli organismi viventi[1], analizzando i principi chimico-fisici del funzionamento degli esseri viventi, siano essi mono o pluricellulari, animali o vegetali.    L'Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci, un'importante prima tappa nello studio della fisiologia. È detta "condizione fisiologica" lo stato in cui si verificano le normali funzioni corporee, mentre una condizione patologica è caratterizzata da anomalie che si traducono in malattie.[2]. Data l'estensione del campo di studi, la fisiologia si divide, fra gli altri, in fisiologia animale, fisiologia vegetale, fisiologia cellulare, fisiologia microbica, batterica e virale.[3] Il Premio Nobel per la Fisiologia o la Medicina è assegnato dall'Accademia reale svedese delle scienzea coloro che raggiungono risultati significativi in questa disciplina.  StoriaModifica  Claude Bernard e i suoi aiutanti. Olio su tela di Leon-Augus Wellcome. I primi studi fisiologici risalgono alle antiche civiltà dell'India e all'Egitto,[4][5] dove venivano condotti insieme agli studi anatomici, senza l'utilizzo della dissezione o della vivisezione.[6]  Lo studio della fisiologia umana come campo medico risale almeno al 420 a.C. ai tempi di Ippocrate, noto come il padre della medicina.[7] Ippocrate incorpora questa scienza alla sua teoria degli umori, che si basa su quattro sostanze fondamentali: terra, acqua, aria e fuoco; associate ad un corrispondente humor (bile nera, flegma, sangue e bile gialla, rispettivamente). Ippocrate nota alcune connessioni emotive ai quattro umori, che Claudio Galeno avrebbe poi ripreso nei suoi studi. Il pensiero criticodi Aristotele e la sua teoria sulla correlazione tra struttura e funzione ha segnato l'inizio dello studio della fisiologia nella Grecia antica. Come Ippocrate, Aristotele riprende la teoria umorale, che per lui consisteva in quattro qualità primarie: caldo, freddo, umido e secco.[8] Claudio Galeno è stato il primo ad utilizzare degli esperimenti per sondare le funzioni del corpo. A differenza di Ippocrate, però, Galeno sostiene che gli squilibri umorali siano situati in organi specifici, o nell'intero corpo.[9] Galeno ha poi introdotto la nozione di temperamento: sanguigno corrisponde al sangue; il flemmatico è legato al catarro; la bile gialla è collegata alla collera; e la bile nera corrisponde alla malinconia. Galeno afferma che il corpo umano è composto da tre sistemi collegati: il cervello e i nervi, responsabili dei pensieri e sensazioni; il cuore e le arterie, che danno la vita; e il fegato con le vene, che sono collegati alla nutrizione e la crescita.[9] Galeno è anche il fondatore della fisiologia sperimentale.[10] Per i successivi 1.400 anni, la fisiologia galenica influenza l'intera medicina.[9]  Jean Fernel (1497-1558), un medico francese, ha introdotto per primo il termine "fisiologia".[11]  Nel 1820, il fisiologo francese Henri Milne-Edwardsintroduce il concetto di divisione fisiologica del lavoro, che ha permesso di "confrontare e studiare le cose viventi come se fossero macchine create dall'industria dell'uomo". Ispirato dal lavoro di Adam Smith, Milne-Edwards ha scritto che il "corpo di tutti gli esseri viventi, animali o piante, assomiglia ad una fabbrica ... in cui gli organi, paragonabili ai lavoratori, lavorano incessantemente per produrre i fenomeni che costituiscono la vita dell'individuo." Negli organismi più differenziati, il lavoro può essere ripartito tra diversi strumenti o sistemi (chiamati da lui appareils).[12]  Nel 1858, Joseph Lister studia le cause della coagulazione del sangue e l'infiammazione. Le sue scoperte portano all'implemento di antisettici in sala operatoria, con conseguente diminuzione del tasso di mortalità degli interventi chirurgici.[2][13]  Nel XIX secolo, la conoscenza fisiologica ha iniziato a crescere ad un ritmo rapido, in particolare nel 1838, grazie alla teoria cellulare di Matthias Schleiden e Theodor Schwann, nella quale si afferma per la prima volta che gli organismi sono costituiti da unità chiamate celle. Le scoperte di Claude Bernard (1813-1878) hanno portato al concetto di milieu interieur(ambiente interno), che sarà poi ripreso e definito "omeostasi" dal fisiologo americano Walter B. Cannonnel 1929. Con omeostasi, Cannon intendeva "il mantenimento di stati stazionari nel corpo e i processi fisiologici con cui sono regolati."[14] In altre parole, la capacità dell'organismo di regolare l'ambiente interno. Va notato che, William Beaumont è stato il primo americano ad utilizzare l'applicazione pratica della fisiologia.  I fisiologi del XIX secolo come Michael Foster, Max Verworn, e Alfred Binet, sulla base delle idee di Haeckel, elaborano il concetto di fisiologia generale, una scienza unificata che studia le cellule,[15]ribattezzata biologia cellulare nel 900. Nel XX secolo, i biologi iniziano ad interessarsi agli organismi diversi dagli esseri umani, e nascono i campi della fisiologia comparata ed ecofisiologia.[16] Più di recente, la fisiologia evolutiva è diventata un sotto-disciplina distinta.[17]  DescrizioneModifica La fisiologia opera su diversi livelli, occupandosi sia dei meccanismi di base a livello molecolare sia di funzioni di cellule e organi, come pure dell'integrazione delle funzioni d'organo negli organismi complessi.   A seconda dell'ambito specialistico, la fisiologia si avvale delle conoscenze di numerose discipline, oltre alle già citate chimica e fisica, alcune branche della biologia quali: biochimica, biologia molecolare, anatomia, citologia e istologia e costituisce anche la base fondamentale per numerose discipline mediche quali la patologia, la farmacologia e la tossicologia.  Esistono diversi metodi per classificare la fisiologia[18]  In base al taxon: Fisiologia animale: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni degli animali. Fisiologia vegetale: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni dei vegetali. Fisiologia umana: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni degli esseri umani Fisiologia microbica e virale. In base al livello di organizzazione: Fisiologia cellulare: studia i meccanismi associati al funzionamento delle cellule e le loro interazioni con l'ambiente. Fisiologia molecolare: studia i fenomeni e i meccanismi associati alle funzioni delle molecole Neurofisiologia: studia il funzionamento del sistema nervoso sia a livello cellulare che sistemico Fisiologia sistemica Fisiologia ecologica Fisiologia integrativa In base ai processi che causano variazioni fisiologiche: Fisiologia ambientale: studia le reazioni e l'adattamento dell'organismo sottoposto a differenti ambienti (temperatura, altitudine, inquinamento, ecc..). Fisiologia patologica: studia le modificazioni delle funzioni in seguito ad una patologia. Fisiologia dello sviluppo: studia i meccanismi e le fasi che conducono un organismo alla maturità riproduttiva. In base agli obiettivi finali della ricerca: Fisiologia applicata: studia la capacità umana d'interagire con l'ambiente esterno. Fisiologia comparata: studia le somiglianze e le differenze delle diverse specie animali. Fisiologia dell'esercizio: studia i meccanismi che interessano l'attività motoria e sportiva e come migliorare le prestazioni con l'allenamento. NoteModifica ^ Prosser, C. Ladd (1991).Comparative Animal Physiology, ambientale Environmental and Metabolic Animal Physiology(4 ° ed.).Hoboken, NJ: Wiley-Liss.pp. 1-12.ISBN 0-471-85767-X ^ a b ( EN ) Introduction to Physiology: History And Scope, in Medical News Today. URL consultato il 26 maggio 2017. ^ Hall, John (2011).Guyton e Hall Manuale di fisiologia medica(12 ° ed.).Philadelphia, Pa .: Saunders / Elsevier.p.3. ISBN 978-1-4160-4574-8. ^ D. P. Burma; Maharani Chakravorty. 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URL consultato il 26 maggio 2017. ^ Wilbur Applebaum. Encyclopedia of the Scientific Revolution: From Copernicus to Newton. Routledge. p. 344. ^ R. M. cervello. The Pulse del modernismo: fisiologici Estetica a Fin-de-siècle Europa . Seattle: University of Washington Press, 2015. 384 pp.  ^ Milestones in Physiology (1822-2013)"Archiviato il 20 maggio 2017 in Internet Archive. (PDF). 1 October 2013. Retrieved 2015-07-25. ^ Theodore M. Brown e Elizabeth Fee, Walter Bradford Cannon, in American Journal of Public Health, vol. 92, n. 10, 27 maggio 2017, pp. 1594–1595. URL consultato il 27 maggio 2017. ^ ( EN ) Robert Michael Brain, The Pulse of Modernism: Physiological Aesthetics in Fin-de-Sicle Europe, University of Washington Press, 1º maggio 2015, ISBN 978-0-295-80578-8. URL consultato il 27 maggio 2017. ^ Feder, ME; Bennett, AF; WW, Burggren; Huey, RB (1987). New directions in ecological physiology. New York: Cambridge University Press. ISBN 978-0-521-34938-3. ^ ( EN ) Jr T Garland, P. 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Modifica su Wikidata Fisiologia, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Controllo di autoritàThesaurus BNCF 2513 · LCCN( EN ) sh85062884 · GND ( DE ) 4045981-0 ·BNF ( FR ) cb120659591 (data) · J9U( EN ,  HE ) 987007531200405171 (topic) · NDL( EN ,  JA ) 00570362   Portale Biologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di biologia Ultima modifica 7 giorni fa di Zoro1996 PAGINE CORRELATE Biologia scienza che studia la vita  Storia della biologia Equilibrio idro-salino WikipediaSanti Lo Giudice. Giudice. Keywords: corpi ed espressioni, corpo, espressione, pudore, osceno, l’osceno nella Roma antica, l’osceno nella italia antica, fisiologia, fisiologico, natura --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giudice: corpi ed espressioni” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756657916/in/dateposted-public/

 

Grice e Giuliano – filosofia italiana – Luigi Speranza – Grice: “When I think Giuliano, I think Donizetti – and Poliuto’s lions!” -- Flavio Claudio Giuliano (in latino: Flavius Claudius Iulianus; Costantinopoli), filosofo. L’ultimo sovrano dichiaratamente pagano, che tenta, senza successo, di riformare e di restaurare la religione romana dopo che essa era caduta in decadenza di fronte alla diffusione del cristianesimo. Giuliano. Keywords: pagano, ennico, prima Roma, terza Roma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giuliano” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/23245055244/in/photolist-2mQzBiv-2mQxzwE-2mQjVch-2mPQGvz-2mPC6Zb-2mN36eA-2mLLZRD-2mLNi1Z-2mLznXk-2mKC3nj-2mKk6t5-2mKgN49-2mJ4GHU-Bq5Z5y-CfbuaM-Bm5FTy-BUPaNy-B24BWv-nup62f-ncSD5f-mMFu8i-mPMvEo-mMFf9t-mMFixn-mMFtDV-mMFsxp-mMH8r5-mMQAmK-mPMhv7-mMFmrM-my8CQ1-mwcBH4-mwc4Gc-mwc6XV-mwcxz4-mwctYM-mwdQhS

 

 

Grice e Giussani – dell’amicizia – il comune,  fraternita, liberazione -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Desio). Filosofo. Grice: “I like Giussiani; of course at Oxford he would be a no-no, being a Catholic; but he understands the pragmatics of conversation!” Ricevette la prima introduzione dalla madre Angelina Gelosa, operaia tessile; il padre Beniamino, disegnatore e intagliatore, era un socialista. Entra nel seminario diocesano San Pietro Martire di Seveso dove frequenta i primi quattro anni di ginnasio. Si trasferì a Venegono Inferiore, nella sede principale del seminario dove frequenta l'ultimo anno di ginnasio, i tre anni del liceo e dove svolse i successivi studi di filosofia.  Ebbe come docenti, fra gli altri, Colombo, Corti, Carlo, e Figini. In quella sede conobbe i compagni di studio Manfredini e Biffi. Si interessò di Leopardi e delle chiese ortodosse.  Il 26 maggio 1945 Giussani, ventitreenne, ricevette l'ordinazione sacerdotale dal cardinale Ildefonso Schuster.  Dopo l'ordinazione, rimase nel seminario di Venegono come insegnante e si specializzò nello studio della teologia orientale (specie sugli slavofili), della teologia protestante e della motivazione razionale dell'adesione alla Chiesa. Lascia l'insegnamento in seminario per quello nelle scuole superiori. Inizia l'insegnamento della religione nelle scuole superiori a Milano dove fu suo alunno Giorello. Le riunioni di suoi studenti si tennero con il nome di Gioventù Studentesca (GS), che fonda insieme a Ricci e che fece parte dell'Azione Cattolica.  Inizia anche un'attività pubblicistica volta a porre attenzione sulla questione educativa. Redasse la voce "Educazione" per l'Enciclopedia Cattolica.  Sotto  Colombo continuò gli studi di teologia protestante per i quali soggiornò per cinque mesi negli Stati Uniti. Ottenne la cattedra di Introduzione alla Teologia a Milano.:Lo Spirito Santo ha suscitato nella Chiesa, attraverso di lui, un Movimento, il vostro, che testimoniasse la bellezza di essere cristiani in un'epoca in cui andava diffondendosi l'opinione che il cristianesimo fosse qualcosa di faticoso e di opprimente da vivere. Giussani s'impegnò allora a ridestare nei giovani l'amore verso Cristo "Via, Verità e Vita", ripetendo che solo Lui è la strada verso la realizzazione dei desideri più profondi del cuore dell'uomo, e che Cristo non ci salva a dispetto della nostra umanità, ma attraverso di essa. Il movimento da lui creato prese il nome di Comunione e Liberazione; ne assunse la guida presiedendone il consiglio generale.  Il Pontificio Consiglio per i Laici riconobbe la Fraternità di Comunione e Liberazione e Giussani ne guidò la Diaconia Centrale. Contribuì alla costituzione della Fondazione Banco Alimentare. Fra le sue numerose opere vi è la trilogia del Per Corso, redatta a partire dagli appunti delle lezioni di religione che aveva tenuto negli anni cinquanta al liceo Berchet e in seguito all'Università Cattolica. L'opera, pubblicata in successive edizioni prima da Jaca e poi da Rizzoli, è composta da “Il senso religioso, All'origine della pretesa cristiana e Perché la Chiesa. Propone la concezione della fede e dell'esperienza cristiana come incontro con Cristo attraverso la Chiesa cattolica. La fede è un «riconoscere una Presenza» ed occupa ogni singolo spazio della vita individuale (i rapporti umani, l'esperienza lavorativa, la vita sociale e politica). Da ciò nasce anche una critica alla ragione illuminista. L'idea della ragione come principale strumento offerto all'uomo nel rapporto con la realtà e della fede come metodo di conoscenza sono le premesse metodologiche per un'analisi dell'esperienza religiosa.  Dopo la morte, sono stati dedicati a Giussani:  Desio: nel paese natale di Giussani, la piazza retrostante il municipio e un monumento opera di Cristina Mariani a Milano: parcoGiussani, in predenza parco Solari Trivolzio: il piazzale adibito all'accoglienza delle auto dei pellegrini alla chiesa parrocchiale che ospita le spoglie di San Riccardo Pampuri. Finale Ligure: l'ultimo tratto del sentiero che porta all'antica chiesa di San Lorenzo di Varigotti: lì si tennero alcuni dei primi incontri di Comunione e Liberazione, che ancora si chiamava Gioventù Studentesca Castronno (VA): un largo presso la rotatoria all'uscita dell'Autostrada dei laghi. Ascoli Piceno: la scuola primaria e dell'infanzia "Giussani". Portofino: la piazzetta del faro Kampala (Uganda): la scuola secondaria Giussani Pozzolengo: il parco comunale adiacente al castello San Leo: un basso-rilievo in bronzo, opera dell'artista riminese Ceccarellia, sulla facciata del convento di Sant'Igne Rimini: la rotonda davanti al Palacongressi, nei pressi dell'area della demolita Fiera dove si sono svolte le prime edizioni del Meeting per l'amicizia fra i popoli Chiavari: un tratto del lungoporto Verona: i giardini presso ponte Garibaldi a Borgo Trento Cinisello Balsamo: un largo urbano nei pressi del comune Segrate: il centro sportivo della frazione di Redecesio Strade comunali sono state intitolate a don Giussani a Cagliari, Morrovalle, Rapallo, Treviglio, Mestre, ecc. La maggior parte delle opere deriva dalla trascrizione di dialoghi, conversazioni e lezioni svolte in pubblico durante raduni, convegni, esercizi spirituali. I suoi libri sono stati pubblicati dall'editore milanese Jaca. Rizzoli ha iniziato a rieditare i testi di Giussani in nuove edizioni aggiornate dotate spesso di un nuovo apparato di note e di nuovi contenuti editoriali e a volte con titoli diversi. Rizzoli ha anche pubblicato le opere inedited e volumi antologici di conversazioni precedentemente disponibili sotto forma di fascicoli pro manuscripto o di redazionali per varie riviste. Volumi di inediti o di riedizioni di  testi sono poi usciti anche per altri editori, tra i quali Marietti,  San Paolo, SEI, Piemme e Messaggero di Sant'Antonio. Trascrizioni di conversazioni e lezioni nel corso di incontri con i responsabili di Comunione e Liberazione, di esercizi spirituali e di incontri con appartenenti ai Memores Domini sono state di norma pubblicate come inserti redazionali o allegate come fascicoletti nelle riviste Tracce (precedentemente nota come CL-Littere Communionis, organo ufficiale del movimento), Il Sabato e 30 giorni nella Chiesa e nel mondo. Un gran numero di questi testi è stato poi pubblicato in volumi antologici.  -- è iniziata la catalogazione sistematica dei testi e degli scritti di Giussani. Giussani Scritti, curato dalla Fraternità di Comunione e Liberazione, inizia la pubblicazione di schede riassuntive dei testi. Ha diretto la collana editoriale I libri dello spirito cristiano per la Biblioteca Universale Rizzoli. La collana e poi sostituita da un'analoga iniziativa sotto il nome di Biblioteca della spirito cristiano, ha pubblicato titoli scelti fra quelli che più hanno segnato l'esperienza di Giussani e di Comunione e Liberazione. Ha diretto la collana discografica Spirto gentil, CD musicali di «introduzione alla musica» con allegato un booklet di norma contenente una nota introduttiva di Giussani, una scheda storica sui compositori o sui musicisti e una guida all'ascolto. Saggi: “Il senso religioso: all'origine della pretesa cristiana, Perché la Chiesa e Il rischio educativo. “Il senso religioso, Jaca, Reinhold Niebuhr, Jaca Teologia protestante, La Scuola Cattolica, Jaca Marietti, “L'impegno del cristiano nel mondo, Jaca, Tracce di esperienza e appunti di metodo cristiano, Jaca Dalla liturgia vissuta: una testimonianza, Jaca, San Paolo, Il rischio educativo, Jaca, SEI, Rizzoli, Tracce d'esperienza cristiana, Jaca Decisione per l'esistenza, Jaca L'alleanza, Jaca Il senso della nascita, colloquio con Testori, BUR Rizzoli, Moralità: memoria e desiderio, Jaca, Alla ricerca del volto umano, Jaca  Rizzoli, Pregare, illustrazioni di Marina Molino, Jaca La fede e le sue immagini, illustrazioni di Marina Molino, Jaca La coscienza religiosa nell'uomo moderno, Jaca,  Il senso religioso, PerCorso, Jaca Rizzoli, All'origine della pretesa Cristiana, Jaca Rizzoli, Perché la Chiesa, Jaca, Rizzoli, Un avvenimento di vita, cioè una storia, EDITIl Sabato L'avvenimento cristiano, BUR Rizzoli, Il senso di Dio e l'uomo moderno, BUR Rizzoli, Si può vivere così?, BUR Rizzoli, Rizzoli Il PerCorso, Jaca, Opere: Jaca Book, Il tempo e il tempio, BUR Rizzoli, Realtà e giovinezza: la sfida, SEI; Rizzoli, Il cammino al vero è un'esperienza, SEI, Rizzoli, Le mie letture, Rizzoli, Si può (veramente?!) vivere così?, BUR Rizzoli, Porta la speranza, Marietti Riconoscere una presenza, San Paolo, Lettere di fede e di amicizia a Majo, San Paolo, Generare tracce nella storia del mondo, con Alberto e Prades, Rizzoli, L'uomo e il suo destino, Marietti Scuola di Religione, SEI, L'io, il potere, le opere, Marietti Tutta la terra desidera il Tuo volto, San Paolo, Che cos'è l'uomo perché te ne curi?, San Paolo, Avvenimento di libertà, Marietti L'opera del movimento. La Fraternità di Comunione e Liberazione, San Paolo, Il miracolo dell'ospitalità, Piemme,Il Santo Rosario, San Paolo, Egli solo è. Via Crucis, San Paolo, La libertà di Dio, Marietti, Come si diventa cristiani, Marietti La familiarità con Cristo, San Paolo, Vivere intensamente il reale, La Scuola,. Spirto gentil, BUR Rizzoli,. Cristo compagnia di Dio all'uomo, EMessaggero Padova, Collana Quasi Tischreden "Tu" (o dell'amicizia), BUR Rizzoli, Vivendo nella carne, BUR Rizzoli, L'attrattiva Gesù, BUR Rizzoli, L'auto-coscienza del cosmo, BUR Rizzoli, Affezione e dimora, BUR Rizzoli, Dal temperamento un metodo, BUR Rizzoli, Una presenza che cambia, BUR Rizzoli, Collana L'Equipe Dall'utopia alla presenza  BUR Rizzoli, Certi di alcune grandi cose, BUR Rizzoli, Uomini senza patria BUR Rizzoli, Qui e ora BUR Rizzoli, “L'io rinasce in un incontro” BUR Rizzoli, Ciò che abbiamo di più caro, BUR Rizzoli, Un evento reale nella vita dell'uomo BUR Rizzoli, In cammino BUR Rizzoli, Collana Cristianesimo alla prova Una strana compagnia, BUR Rizzoli, La convenienza umana della fede, BUR Rizzoli, La verità nasce dalla carne, BUR Rizzoli, Un avvenimento nella vita dell'uomo, BUR Rizzoli,  Interviste Comunione e Liberazione. Interviste Robi Ronza, Milano, Jaca Book, Un caffè in compagnia. Conversazioni sul presente e sul destino, colloqui conFarina, Milano, Rizzoli. Il fondatore: Comunione e Liberazione. Camisasca "C’altro Sessantotto", da "L'Osservatore Romano" ORIGINE, in Banco Alimentare, Elemedia S.p.A.Area Internet, Il mistero di don Giussani. Rivelato dai suoi scritti, su chiesa.espresso.repubblica. Oggi l'addio a don Giussani Il Tirreno, in ArchivioIl Tirreno. Società Coop. Edit. Nuovo Mondo Via Porpora, Milano Tracce , «Cristo è veramente tutto, è il compiersi dell’umano», su tracce. Repubblica » politica » Milano, i funerali di Don Giussani, su repubblica Milano, profanata la tomba di don Giussani, Corriere della Sera su corriere. Chiesta l'apertura della causa di beatificazione e canonizzazione, in Tracce, Società Coop. Edit. Nuovo Mondo, Passo avanti verso la beatificazione di don Giussani, in Tempi, Società Coop. Edit. Nuovo Mondo, Savorana, Don Luigi Giussani, fondatore di CL, nominato monsignore, in Avvenire, Don Giussani: vince il premio della cultura cattolica, in Adnkronos, Mia giovinezza, in Tracce, Coop. Editoriale Nuovo Mondo, Premio Isimbardi Città metropolitana di Milano.Tettamanzi, La famiglia a scuola, in Tracce, Coop. Editoriale Nuovo Mondo, La Festa dello StatutoEdizione Sigilli longobardi, su Consiglio Regionale della Lombardia. Desio, rinasce il monumento per don Giussani a dieci anni dalla scomparsa, in Il Cottadino,  Il parco Solari sarà dedicato a Giussani, in Il Giornale, Tornielli, Don Giussani nel solco di San Pampuri, in La Provincia Pavese, Finale: intitolazione strada a Giussani, in Savona  News, Castronno, intitolata a Don Giussani la nuova rotonda, in Varese News, Emidio Cagnucci, al musicista ascolano intitolata una scuola, in il Quotidiano,Francesca Nacini, Don Giussani «faro» di Portofino, in Il Giornale, Uganda. La Luigi Giussani High School inaugurata a Kampala tra i canti delle donne del Meeting Point, su AVSI, 1Pozzolengo, raid vandalici nei parchi, in qui Brescia, Un bassorilievo per don Giussani a San Leo, in Rimini Today, Rotatoria del Palacongressi dedicata a Don Luigi Giussani, in Altarimini, Chiavari, lungoporto don Giussani per il fondatore di Cl, in Il Secolo XIX, In Borgo Trento giardini intitolati al fondatore di CL, in Verona Notte, Melati, Jaca Santa editrice della rivoluzione, in Il Venerdì di Repubblica, Gruppo Editoriale L'Espresso SpA, Le opere  di Comunione e Liberazione. Chi siamo, su Giussani Scritti, Fraternità di Comunione e Liberazione.  Collana I libri dello spirito cristiano, Comunione e Liberazione. Collana musicale Spirto gentil, di Comunione e Liberazione. Bosco, Giussani, Torino, Elledici, Guy Bedouelle; Graziano Borgonovo; Olivier Clément; Antonio Olinto; Julien Ries, Gli uomini vivi si incontrano: scritti per Giussani, Milanok, Camisasca, Comunione e Liberazione: Le origini Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, Massimo Camisasca, Comunione e Liberazione: La ripresa, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo,Elisa Buzzi, Scola, Un pensiero sorgivo, Marietti DPerillo, Caro Giussani. Dieci anni di lettere a un padre, Piemme, Camisasca, Comunione e Liberazione: Il riconoscimento, Appendice, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, Farina, Giussani. Vita di un amico, Piemme,  Farina, Maestri. Incontri e dialoghi sul senso della vita, Piemme, Ceglie, Giussani. Una religione per l'uomo, 1ª ed., Cantagalli, AGamba, Allargare la ragione, Vita e Pensiero, Massimo Camisasca, Giussani. La sua esperienza dell'uomo e di Dio,Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo,Savorana, Vita di don Giussani, Milano, Rizzoli Editore, Savorana, Un'attrattiva che muove, 1ª ed., Milano, BUR Saggi, Scholz-Zappa, Giussani e Guardini. Una lettura originale, Milano, Jaca Book, Marta Busani, Gioventù studentesca. Storia di un movimento cattolico dalla ricostruzione alla contestazione, Roma, Edizioni Studium, Massimo Camisasca, L'avventura di Gioventù Studentesca, fotografie di Elio Ciol, Milano, Mondadori Electa, G. Paximadi, E. Prato, R. Roux e A. Tombolini, Giussani. Il percorso teologico e l'apertura ecumenica, Siena, Cantagalli Eupress FTL. Scritti di  Giussani, su Giussani Scritti, Fraternità di Comunione e Liberazione. Giussani su Comunione e Liberazione, Fraternità di Comunione e Liberazione. Luigi Giovanni Giussani. Giussiani. Keywords: dell’amicizia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giussani” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756555485/in/photolist-2mRxSLV-2mJe9QJ

 

Grice e Giusso – gl’eroi – filosofia fascista --  il mistico dell’azione -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo. Grice: “I like Giusso: he has explored philosophers from his country like Leopardi and Bruno, and tdhe whole ‘tradizione ermetica nella filosofia italiana,’ but also French – Bergson – and especially “Dutch,” i. e. Deutsche or tedesca – Spengler, and Nietsche – All very Italian!” Nato in una famiglia aristocratica, dal conte Antonio Giusso e da Maria Imperiali d'Afflitto. La sua maturazione culturale avvenne in un terreno fertile, costituito da un ambiente familiare che aveva contribuito allo sviluppo non solo culturale della città (il nonno, Girolamo Giusso, uno dei fondatori del quartiere Bagnoli, ne era stato sindaco). Si laurea in filosofia a Napoli sotto Aliotta. Seguì con passione l'attualismo gentiliano e proprio il suo carattere passionale lo portò anche nel campo filosofico ad un tipo di critica "scenografica", così come fu definita. Le sue "frizioni" con Croce, inizialmente orientate su temi politici, presero più tardi una forma "sotterranea", genericamente orientata contro l'idealism. Giusso si richiamava al fatalismo di Leopardi, al demiurgo di Nietzsche, allo storicismo di Dilthey, al nichilismo dello Spengler: e a causa di quest'ultimo, oltre che per la sua interpretazione della Scienza nuova vichiana (che si attirò una severa recensione dello stesso Croce, Giusso fu criticato dall'ambiente crociano. Giusso critico e storico delle idee s'identificava con la visione della vita di autori che sentiva a lui vicini per temperamento ed interessi come Bruno, Vico (dall'analisi degli scritti del quale nacque l'infastidita reazione di Croce), Giacomo, Bacchelli, Barilli, Papini, Soffici, Palazzeschi, Borgese, Gozzano, che molto ispirò la sua composizione poetica Don Giovanni ammalato. I suoi Tafferugli a Montecavallo meriterebbero forse di essere più conosciuti. Tra le due guerre, egli partecipò all'atmosfera culturale della Napoli segnata dal cenacolo di Croce, da cui molto presto si distaccò (comeTilgher, che egli difese e mostrò di apprezzare) assumendo posizioni "eretiche" e ispirandosi piuttosto a un ideale di vitalismo romantico che risulta evidente dai numerosi autori e dalle molte opere cui dedicò la sua attenzione: in particolare in una fase iniziale, Spengler e Nietzsche.  Intelligenza precoce, prima di intraprendere l'insegnamento universitario che lo avrebbe allontanato da Napoli portandolo ad insegnare Filosofia a Bologna, Pisa, e Cagliari, Giusso avviò una copiosa pubblicazione di articoli, collaborando con numerosi quotidiani icome Il Popolo d'Italia, Il Secolo, Il Mattino, Il Resto del Carlino, ed ancora il Giornale, Il Tempo, Il Messaggero, La Gazzetta di Sicilia, La Stampa ed altri ancora.  Giornali questi dove fu autore di elzeviri, volti alla diffusione dei più diversi aspetti della cultura europea e alla conoscenza dei suoi principali esponenti, soprattutto scrittori. Nel dopoguerra, superati i miti dell'irrazionalismo e dell'energia vitalistica, si riavvicinò alla fede Cristiana. Era sua intenzione realizzare una revisione del pensiero italiano dal Rinascimento all'età barocca, approfondendo in particolare lo studio e l'interpretazione dell'umanesimo, inteso come vasto tentativo sincretistico volto a ravvicinare la filosofia della Roma antica e quello cristiano.  In chiave revisionista rispetto alla tradizione laica si era avvicinato anche alla figura di Bruno. Di ritorno da un viaggio nella sua adorata Spagna morì a A Napoli gli venne intitolata una strada.  Saggi: “Le dittature democratiche dell'Italia” (Milano, Alpes); “Leopardi” (Napoli, Guida); “Idealismo e prospettivismo” (Napoli, Guida); “Leopardi e le sue due ideologie” (Firenze, Sansoni); Spengler, Roma, società anonima La nuova antologia, Cadenze di Sigismondo nella Torre, Modena, Guanda); “Vico fra l'Umanesimo e l'Occasionalismo” (Roma, Perrella); “La visione della vita” (Napoli, R. Ricciardi); “Elegie del torso della saggezza mutilata, Milano, Corbaccio); “Il viandante e le statue: saggi sulla letteratura contemporanea, Roma, Cremonese); “Lo storicismo, Milano, Bocca, Gioberti, Milano, A. Garzanti, L'anima e il cosmo, Milano, Bocca,  “La tradizione ermetica nella filosofia italiana” (Milano, Bocca); Due scritti sul nazionalsocialismo, Roma, Settimo Sigillo, Quaderno, Napoli, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa,. Tafferugli a Montecavallo, La Finestra, Lavis, Il fascismo e Benedetto Croce, "Gerarchia",  "La Critica", rist. in Nuove pagine sparse, Panteismo e magia in Bruno (Sassari, Scienze e filosofia in Bruno, Napoli Roma,Enciclopedia Italiana, Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Corriere della sera, La Fiera letteraria, Giornale di metafisica, F. Bruno,Italia che scrive, Filiasi Carcano, in Logos, IE. Falqui, Di noi contemporanei, Firenze 1940, ad indicem; G. Villaroel, Gente di ieri e di oggi, Bologna, ad indicem; L. Fiumi, Giunta a Parnaso, Bergamo 1954, ad indicem; G. Artieri, Romantico napoletano, in Il Tempo, R. Maran, L. G. e la ricerca d'un sistema, in Sophia, A. Spaini, Ricordo di L. G., in Il Messaggero, 1° febbr. 1960; G. Toffanin, Nuova Antologia, Boni Fellini, L'Osservatore politico letterario, Diz. della letteratura mondiale, Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli italiano.  L’Illuminismo oscuro  Lorenzo Giusso, autore e studioso multidisciplinare, ha lasciato ai posteri una sterminata produzione intellettuale, tenuta tuttavia troppo poco in considerazione dal mondo accademico contemporaneo.  Stefano Chemelli  10 articoli  Lorenzo Giusso fu studioso di filosofia. Recinto riduttivo si dirà, ma per lui invece parco multiforme. Ispanista, germanista, francesista. Nato a Napoli il 25 giugno 1900, allievo di Aliotta e Battaglia è precoce critico letterario, si laurea nel 1924, ottiene la libera docenza in Filosofia teoretica e morale ma insegna anche letteratura italiana e francese, storia delle religioni, lingua e letteratura spagnola in diversificate sedi europee. “Tafferugli a Montecavallo” pubblicato da Cappelli nel 1955, uno studio sul barocco romano e il Bernini, “La tradizione ermetica nella filosofia italiana”, le straordinarie conversazioni radiofoniche di “Autoritratto spagnolo” sono appena un accenno a una sterminata produzione redatta nel breve arco di cinquantasette anni.  Sodale di Unamuno e Ortega con i quali ha condiviso amabili conversari, Giusso si è occupato a fondo di Goethe, Leopardi, Stendhal, Nietzsche, Dostoevskij, Freud, Dilthey, Simmel, Bergson Gioberti, Vico, Bruno. Inoltre fu di Spengler uno dei primissimi esegeti italiani. Dotato di una conversazione che incantava anche il grande Edoardo, complice in gustosi siparietti nei quali De Filippo si trasformava in spettatore, basterebbero le pagine dedicate al Bernini per intuire la rabdomantica agilità di scrittura sempre corroborata da una cultura che poteva reggere l’impulso filologico di un Croce. Nel 1927 dona un’analisi storica poderosa in “Le dittature democratiche dell’Italia”, dal 1876 all’ascesa del fascismo, seguito dalla prima raccolta di scritti letterari che ne connotano le capacità di “viandante” nei diversi giardini del sapere; “Il ritorno di Faust” è del 1929, “Figure di Capri” del 1931, a ruota seguono le pagine sopra Freud, Ortega, Dostoevskij, e soprattutto lo studio su Leopardi.  Copia de "La tradizione ermetica nella filosofia italiana"Copia de “La tradizione ermetica nella filosofia italiana” Stendhal e Nietzsche non escludono l’impegno anche poetico che troverà sfogo in tre raccolte che molto dicono del Giusso più segreto (“Musica in piazza”, “Cadenze di Sigismondo nella torre”, “Elegie del torso della saggezza mutilata”). “Spengler e la dottrina degli universali formali” restituisce in forma autonoma un approfondimento più volte ripreso da Giusso nel decennio dei trenta che costituisce la decade dell’approfondimento filosofico più intenso (Dilthey e Ortega tra gli altri…) e preparatorio al grande volume “Filosofia e immagine cosmica” del 1942 dedicato a Gentile. Due traduzioni spagnole coinvolgeranno gli studi di Giusso rivolte a Vico ma sarebbe urgente dare attenzione alla tradizione ermetica, magari per scoprire che Eugenio Garin l’ha sicuramente letta e ripresa molto più tardi.  “Kulturkritiker universale” lo definì il giovane Piero Buscaroli, allievo devoto a Bologna quando Giusso strabiliava un manipolo di arditi fuoricorso in Estetica e Letteratura spagnola, che mai avrebbero rinunciato alle sue esibizioni in diretta presso l’Alma Mater bolognese, fugacemente ospitati.  Un grande romantico della ispecie dei Kleist, degli Hoederlin, dei Novalis però, poeta dei talami dissacrati che trova negli articoli, nelle corrispondenze, nei taccuini di viaggio infinite suggestioni, il tono di un Giusso confidenziale e descrittivo vicino al lettore non specialista ma disposto a calarsi nell’ambiente e nell’aria, nella luce chiara e tersa di un respiro curioso sino al dettaglio minuto.  Filosofia ed imagine cosmica (1942)Filosofia ed immagine cosmica (1942) Pubblicati recentemente i quaderni spagnoli dalla Università Benincasa, sono ancora inedite le pagine tedesche e austriache, ma esistono anche reportage francesi, nei quali uomini e cose sbalzano con la modestia e la versatilità del carattere e la magnificenza della scrittura. La vita di ognuno non elide né la circostanza né l’astrazione, Giusso è uno dei protagonisti del teatro del mondo che abbiamo ignorato, noi italiani, lui, molto napoletano, ma già europeo, ben oltre l’amatissima Spagna. Un europeo immerso nella musica delle lingue (francese, spagnolo, tedesco…), in Vico e Spengler. Adriano Tilgher, Corrado Alvaro, Giuseppe Toffanin, furono amici veri, fidati, ammirati di un uomo al quale era sconosciuta l’invidia e al contrario era profferta a piene mani una generosa e prodiga liberalità in nome di una poetica propensione al dialogo di un sapere trasversale, comunicativo e incantato nella magia della parola libera, circostanziata, esatta.  Una studiosa di letteratura italiana ha affermato che il più bel libro di Giusso è il quaderno spagnolo, ed ha pure aggiunto che quaderno spagnolo e autoritratto spagnolo coincidono. Alberto Spaini, ma pure Piero Buscaroli che con Maria Giulia Rispoli del Galdo Giusso sono stati tra i conoscitori più profondi di Lorenzo Giusso, difficilmente concorderebbero. Le pagine spagnole, tedesche, austriache servono a entrare nel mondo giussiano, consentono di accedere a una dimensione della cultura che non conosce omologazioni di sorta, schieramenti, posizionamenti di rendita. Permettono di sorridere a fronte di un esteta armato solo di una generosità speciale: cogliendo l’anima dell’umanità in una minuzia necessaria a ritrovare un sentiero precario, attraverso il quale condurre a una visione più ampia, senza dimenticare la poesia della vita. Gioberti come uomo del risorgimento – serie: Uomini del risorgimento. “U=Il fascismo di Benedetto Croce” Gerarchia – “Croce contro Croce” – da Critica fascista – “Gentile, mistico dell’azione, tratto da “Il lavoro d’Italia” – “Gentile, “La Nazione” .   GIUSSO, Lorenzo. - Nacque a Napoli, il 25 giugno 1899, in una famiglia aristocratica, dal conte Antonio e da Maria Imperiali d'Afflitto. La sua maturazione culturale avvenne in un terreno fertile, costituito da un ambiente familiare che aveva contribuito allo sviluppo non solo culturale della città (il nonno, Girolamo Giusso, ne era stato sindaco).  Tra il 1917 e il 1924 gli studi del G. presso l'Università di Napoli (dove fu allievo, fra gli altri, di A. Aliotta), coronati dalla laurea in lettere e filosofia, si svilupparono in molteplici direzioni.  Pur destinato a diventare prevalentemente filosofo e storico della filosofia, i suoi non dilettanteschi interessi spaziarono dalla letteratura alla musica, dalla pittura alla filosofia, secondo un percorso eclettico ed estroso, fondato sull'istinto piuttosto che sul metodo, che lo portò a una conoscenza approfondita ed estesissima nei settori più diversi.  Tra le due guerre, egli partecipò all'atmosfera culturale della Napoli segnata dal cenacolo di B. Croce, da cui molto presto si distaccò (come A. Tilgher, che egli mostrò di apprezzare) assumendo posizioni "eretiche" e ispirandosi piuttosto a un ideale di vitalismo romantico che risulta evidente dai numerosi autori e dalle molte opere cui dedicò la sua attenzione: in particolare, in una fase iniziale, O. Spengler e F. Nietzsche.  Intelligenza precoce, prima di intraprendere l'insegnamento universitario, che lo avrebbe allontanato da Napoli, il G. avviò una copiosa pubblicazione di articoli, collaborando con numerosi quotidiani italiani come autore di elzeviri, volti alla diffusione dei più diversi aspetti della cultura europea e alla conoscenza dei suoi principali esponenti, soprattutto scrittori.  L'attività giornalistica si sviluppò particolarmente negli anni Venti, quando il G., ancora molto giovane, iniziò a collaborare con L'Idea nazionale, Il Popolo d'Italia e Il Secolo, quindi con Il Mattino, come critico letterario; fu poi autore di articoli di viaggio, per il Corriere della sera, e tenne un "Diario critico" per Il Resto del Carlino, pubblicando nel corso degli anni sulla terza pagina di molti quotidiani italiani (Il Giornale, Il Tempo, Il Messaggero, La Gazzetta di Sicilia, La Stampa e altri ancora), anche se il lavoro propriamente giornalistico rallentò quando prevalse quello universitario.  Nel 1936 ottenne la libera docenza in filosofia teoretica a Napoli, dove l'anno successivo insegnò filosofia morale; le principali tappe del suo percorso universitario - molteplice anche per le numerose discipline di cui si occupò - furono: Cagliari, dove dal 1938 al 1943 insegnò come professore incaricato, ricoprendo, secondo un percorso abbastanza inconsueto e irregolare, le cattedre di filosofia teoretica, letteratura italiana e francese, storia delle religioni; quindi, Bologna, dove, sempre come incaricato, insegnò lingua e letteratura spagnola, infine Pisa. La carriera universitaria del G. non si limitò, comunque, all'Italia: insegnò letteratura italiana a Monaco, a Nizza, a Breslavia, a Debreczen in Ungheria, a Madrid, dove fu "accademico d'onore", e a Barcellona.  Proprio al ritorno da un viaggio in terra spagnola venne colpito dalla malattia che lo avrebbe condotto alla morte.  Il G. morì a Roma l'11 apr. 1957.  Oltre all'attività come giornalista e saggista, il G. aveva pubblicato anche alcune raccolte di poesie: Musica in piazza (Napoli 1930) e Don Giovanni ammalato (ibid. 1932), una rifusione, accresciuta, del primo volume; Cadenze di Sigismondo nella torre, Modena 1939; e, infine, Elegie del torso della saggezza mutilata, Milano 1941: d'intonazione prossima ai crepuscolari le prime, percorse dal senso di una discrepanza tra la piattezza della vita quale ci è data e il desiderio di viverla in modo più libero e pieno; maggiormente legate all'estetismo dannunziano, e insieme non dimentiche del clima d'avanguardia in cui era avvenuta la prima formazione del G., le ultime due.  Saggista acuto, ottimo conversatore, spirito brillante e fortemente antiaccademico, caratterizzato da un sapere enciclopedico, il G. non si legò ad alcuna scelta politica, non appartenne a nessuna scuola di pensiero e non ebbe maestri diretti né discepoli. Dal suo asistematico sforzo di interpretazione della cultura moderna non si può trarre una dottrina unitaria ma soltanto il profilo di un cammino variegato e intenso, che trae origine dalla ricerca di una visione totale dell'esistenza nel fondamentale intento di realizzare un ideale di vita, problema con cui il G. non smise mai di misurarsi, secondo una prospettiva antirazionalista (e implicitamente antidealista).  Allontanatosi molto presto, come si è detto, dal crocianesimo imperante nell'ambiente napoletano, il primo interesse del giovane G. fu per i protagonisti dell'irrazionalismo e del vitalismo eroico, e per il pessimismo cosmico di G. Leopardi (Il ritorno di Faust, Napoli 1929; Leopardi, Stendhal, Nietzsche, ibid. 1933; Tre profili: Dostoevskij, Freud, Ortega y Gasset, ibid. 1933; Leopardi e le sue due ideologie, Firenze 1935); in tempi diversi riunì in raccolte i ritratti degli autori e dei personaggi che più lo avevano interessato (Il viandante e le statue. Saggi sulla letteratura contemporanea, s. 1, Milano 1929; s. 2, Roma 1942).  Nell'ambito di una ricerca più propriamente filosofica, i principali autori di riferimento del G. - che costituirono anche l'oggetto dei suoi studi - furono W. Dilthey (Dilthey e la filosofia come visione della vita, Napoli 1940; Dilthey, Simmel, Spengler, Milano 1944); i già ricordati Nietzsche (Nietzsche, Napoli 1936), Spengler (Spengler e la dottrina degli universali formali, Napoli 1935), e J. Ortega y Gasset.  Il rapporto tra razionalismo e irrazionalismo (e il superamento della loro opposizione) e quello tra scienza e filosofia e vita sono il tema di fondo di quella che probabilmente rimane una delle sue opere più significative, Filosofia ed imagine cosmica (Roma 1940), in cui, in diretto riferimento a G. Vico (si veda anche: G.B. Vico tra umanesimo e occasionalismo, Roma 1940; La filosofia di G.B. Vico e l'età barocca, ibid. 1943), egli delinea una genealogia della filosofia, e in generale dell'attività razionale, a partire dalle istanze vitali e concrete dell'uomo. In Vico, secondo il G., non c'è una filosofia intesa come ontologia e come organo di un conoscere razionale perché i sistemi filosofici riflettono il tentativo di appropriazione verbale del mondo in rapporto a un'originaria intuizione cosmica, così come le scienze e le tecniche non procedono da una razionalità astratta ma dai bisogni dell'uomo sociale, rimandando a un sentimento che è espressione del primitivo legame, non specificamente conoscitivo, che unisce uomo e mondo.  Nel dopoguerra, approfondendo questa tematica e superati i miti dell'irrazionalismo e dell'energia vitalistica, il G. si riavvicinò alla fede cristiana; era sua intenzione realizzare una revisione della storia del pensiero italiano dal Rinascimento all'età barocca, approfondendo in particolare lo studio e l'interpretazione dell'umanesimo, inteso come vasto tentativo sincretistico volto a ravvicinare il pensiero dell'antichità greco-romana e quello cristiano. In chiave revisionista rispetto alla tradizione laica si era avvicinato anche alla figura di G. Bruno (Scienza e filosofia in Giordano Bruno, Napoli-Roma 1955).  Tra le opere del G., oltre a quelle già citate, si ricordano: Le dittature democratiche d'Italia, Milano 1927; Idealismo e prospettivismo, Napoli 1934; Lo storicismo tedesco: l'anima e il cosmo, Roma 1947; Bergson, Milano 1948; Vincenzo Gioberti, ibid. 1948; Spagna e antispagna: saggisti e moralisti spagnoli, Mazara del Vallo 1952; La tradizione ermetica nella filosofia italiana, Trapani 1955; Tafferugli a Montecavallo, Bologna, 1955; Origene e il Rinascimento, Roma 1957; postumo: Autoritratto spagnolo, a cura di A. Spaini, Torino 1959.  Fonti e Bibl.: Necr. in Corriere della sera, 12 apr. 1957; La Fiera letteraria, 21 apr. 1957; Giornale di metafisica, XI (1957), 5, p. 634; F. Bruno, L. G., in Italia che scrive, IV (1934); P. Filiasi Carcano, in Logos, II (1940); E. Falqui, Di noi contemporanei, Firenze 1940, ad indicem; G. Villaroel, Gente di ieri e di oggi, Bologna 1954, ad indicem; L. Fiumi, Giunta a Parnaso, Bergamo 1954, ad indicem; G. Artieri, Romantico napoletano, in Il Tempo, 11 maggio 1957; R. Maran, L. G. e la ricerca d'un sistema, in Sophia, XXV (1958), 3-4, pp. 265-267; A. Spaini, Ricordo di L. G., in Il Messaggero, 1° febbr. 1960; G. Toffanin, G. e Ortega, in Nuova Antologia, ottobre 1960, pp. 262 ss.; P. Boni Fellini, G. dieci anni dopo, in L'Osservatore politico letterario, giugno 1967; Diz. della letteratura mondiale del '900, sub voce.  Panteismo tipo di teismo Lingua Segui Modifica Il panteismo (πάν (pán) = tutto e θεός (theós) = Dio, vuol dire letteralmente "Dio è Tutto" e "Tutto è Dio") è una visione del reale per cui ogni cosa è permeata da un Dio immanente o per cui l'Universo o la natura sono equivalenti a Dio (Deus sive Natura).  Definizioni più dettagliate tendono ad enfatizzare l'idea che la legge naturale, l'esistenza e l'universo (la somma di tutto ciò che è e che sarà) siano rappresentati nel principio teologico di un 'dio' astratto piuttosto che una o più divinità personificate di qualsiasi tipo. Questa è la caratteristica chiave che distingue il panteismo dal panenteismo e dal pandeismo. Ne deriva che molte religioni, pur reclamando elementi panteistici, sono in realtà per natura più panenteiste e pandeiste.  Michael Levine, nel suo libro Panteismo, lo definisce «una concezione non-teistica della divinità».[1] In senso lato, con "panteismo" si intende ogni dottrina filosofica che identifichi Dio con il mondo o con il principio che lo regge. Per l'esattezza, il concetto di Dio-Uno-Tutto si presenta in due versioni: quella "cosmistica", la quale afferma "Dio è nel Tutto", e quella "acosmistica" (il termine è di Hegel), la quale afferma "Il Tutto è in Dio". Nel primo caso, come nello stoicismo, Dio impregna e pervade l'universo in ogni sua parte; nel secondo caso, come nello spinozismo, l'universo in ogni sua parte rifluisce e si scioglie in Dio, quale Uno-Tutto.  Storia del panteismoModifica Il termine "panteista" (dal quale la parola "panteismo" è derivata) fu usato propriamente per la prima volta dal filosofo irlandese John Toland nella sua opera Socinianism Truly Stated, by a pantheist, del 1705. Comunque, il concetto era stato discusso già al tempo dei filosofi della Grecia antica, da Talete, Parmenide ed Eraclito. I presupposti ebraici del panteismo possono essere ricercati nella Torah stessa, nel racconto della Genesi e nei suoi primi materiali profetici, nei quali chiaramente gli "atti di natura" (come inondazioni, tempeste, vulcani, etc.) sono tutti identificati come "la mano di Dio" attraverso idiomi di personificazione, così spiegando gli aperti riferimenti al concetto, sia nel Nuovo Testamento, che nella letteratura cabalistica.  Nel 1785 sorse una consistente controversia tra Friedrich Heinrich Jacobi e Moses Mendelssohn, che infine coinvolse molte importanti persone del tempo. Jacobi affermava che il panteismo di Lessing era materialistico, per il fatto che considerava tutta la natura e Dio come una sola sostanza estesa. Per Jacobi, esso non era altro che il risultato della devozione alla ragione, tipicamente illuminista, che avrebbe condotto all'ateismo. Mendelssohn espresse il suo disaccordo, asserendo che il panteismo era teistico.  Il Panteismo di EraclitoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Eraclito. Il panteismo è un componente della dottrina del filosofo greco Eraclito, secondo cui il divino è in tutte le cose ed è identico al mondo nella sua interezza. Questa concezione porta a identificare il divino con l'Universo, facendolo divenire quindi l'Unità di tutti i contrari, il Fuoco generatore.  Il Dio-tutto di Eraclito ha in sé tutte le cose ed è una realtà eterna. Eraclito sembra rifarsi alla teoria della cosmologia ciclica, poiché la sua concezione della realtà è simile a un insieme di fasi alterne: un ciclo distruttivo-produttivo, che verrà sviluppato in seguito dagli Stoici.  Il Panteismo degli StoiciModifica Magnifying glass icon mgx2.svg                                  Lo stesso argomento in dettaglio: Stoicismo. Il panteismo stoico è una delle più compiute espressioni di esso, dove Dio è la ragione e l'intelligenza che lo determina e lo permea. Il Dio stoico, quindi, non si identifica con l'universo, ma lo permea come suo fondamento e ragion d'essere.  Il Panteismo di PlotinoModifica Si è parlato spesso impropriamente di panteismo in Plotino. In realtà, secondo Plotino, Dio non è solo immanente, ma anche trascendente. Come ha evidenziato anche Giovanni Reale, l'Uno, il Dio plotiniano, pur permeando di sé ogni realtà, ne è superiore. Plotino dice infatti chiaramente che l'Uno, «in quanto principio di tutto, non è il tutto». Con questa affermazione egli sembra prendere in contropiede, quasi le prevedesse, le interpretazioni immanentistiche e panteiste del suo pensiero.  Il Panteismo di BrunoModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Giordano Bruno. La visione di Bruno può essere considerata un panteismo del Dio-Infinità ed ha alcuni caratteri del panpsichismo. Nella filosofia di Giordano Bruno, i cinque dialoghi del De la causa, principio et uno intendono stabilire i princìpi della realtà naturale.  Forma universale del mondo è l'anima del mondo, la cui prima e principale facoltà è l'intelletto universale, il quale «empie il tutto, illumina l'universo e indirizza la natura a produrre le sue specie».  La materia è il secondo principio della natura, dalla quale ogni cosa è formata: «come nell'arte, variandosi in infinito le forme, è sempre una materia medesima che persevera sotto quella, come la forma dell'albore è una forma di tronco, poi di trave, poi di tavolo, poi di sgabello, e così via discorrendo, tuttavolta l'esser legno sempre persevera; non altrimenti nella natura, variandosi in infinito e succedendo l'una all'altra le forme, è sempre una medesma la materia».  Discende da questa considerazione l'elemento fondamentale della filosofia bruniana: tutta la vita è materia, materia infinita. Nella sua concezione, anche la Terra è dotata di anima.  Egli in De l'infinito, universo e mondi scrive:   «Io dico Dio tutto infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo attributo è uno ed infinito; e dico Dio totalmente infinito, perché tutto lui è in tutto il mondo, ed in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente: al contrario dell'infinità dell'universo, la quale è totalmente in tutto, e non in queste parti (se pur, referendosi all'infinito, possono esser chiamate parti) che noi possiamo comprendere in quello.»  (G. Bruno, Dialoghi metafisici, Firenze, Sansoni 1985, p. 382) Il Panteismo di SpinozaModifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Baruch Spinozae Monismo panteistico. La tesi centrale del pensiero di Baruch Spinoza è l'identificazione panteistica o, meglio, immanentistica di Dio con la Natura (Deus sive Natura) ed in essa convergono i temi ed i motivi appartenenti alle tradizioni culturali più disparate, la teologia giudaica, la filosofia ellenistica, la filosofia neoplatonica-naturalistica del Rinascimento, il razionalismocartesiano ed il pensiero arabo, ed infine le sfumature di Thomas Hobbes.  Spinoza concepisce un Dio coniugato con l'unità e la necessità e perciò:   «Dio, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna ed infinita, esiste necessariamente. Se lo neghi, concepisci, se è possibile, che Dio non esista. Dunque (per l'As.7) la sua essenza non implica l'esistenza. Ma questo (per la Prop.7) è assurdo: dunque Dio esiste necessariamente.»  (B. Spinoza, Etica, Roma, Editori Riuniti 2004, p.94) Ne consegue la dimostrazione di ciò che Dio è:   «Tutto ciò che è, è in Dio: Dio però non si può dire cosa contingente. Infatti esiste necessariamente, e non in modo contingente. Inoltre, i modi della divina natura sono seguiti da essa anche necessariamente e non in modo contingente e ciò o in quanto si considera la divina natura assolutamente oppure in quanto la si considera determinata ad agire in un certo modo. Inoltre, di questi modi Dio è causa non soltanto perché semplicemente esistono in quanto li si considera determinati a fare qualcosa. Poiché se non sono determinati da Dio, è impossibile e non contingente che determinino se stessi; e al contrario se sono determinati da Dio, è impossibile, e non contingente, che rendano se stessi indeterminati. Per cui tutte le cose sono determinate dalla necessità della divina natura non soltanto ad esistere, ma anche ad esistere e agire in un certo modo, e non si dà nulla di contingente.»  (B. Spinoza, Etica, cit., p. 110) Questa concezione fa sì che il Dio di Spinoza (ma non meno quello degli Stoici), per qualche filosofo contemporaneo, risulti essenzialmente un impersonale Dio-Necessità, contrapponibile al Dio-Volontà come persona divina tipica dei monoteismi.  DescrizioneModifica Tipi di panteismoModifica Si possono distinguere tre gruppi di panteisti:  panteismo classico, che si esprime attraverso l'immanente Dio del Giudaismo, Induismo, Monismo, neopaganesimo e delle dottrine New Age, generalmente considerando Dio come personificazione o manifestazione cosmica; panteismo biblico, che è espresso negli scritti della Bibbia; panteismo naturalistico, basato sulle, relativamente recenti, visioni di Baruch Spinoza (che potrebbe essere stato influenzato dal panteismo biblico) e John Toland (che coniò il termine "panteismo"), così come sulle influenze contemporanee. La maggioranza delle persone che possono identificarsi come "panteiste" appartengono al tipo classico (come gli Indù, i Sufi, gli Unitaristi, i neopagani, i seguaci della New Age, etc), mentre molte persone che identificano se stesse come panteiste (non essendo membri di un'altra religione) appartengono al tipo naturalista. La divisione tra le tre branche del panteismo non sono completamente chiare in tutte le situazioni, rimanendo dei punti di controversia nei circoli panteisti. I panteisti classici generalmente accettano la dottrina religiosa secondo cui ci sarebbe una base spirituale per tutta la realtà; mentre i panteisti naturalisti generalmente non concordano, piuttosto intendendo il mondo in termini più naturalistici. La confusione tra i concetti di panteismo e ateismo è un problema antico in linguistica. Gli antichi romani si riferivano ai primi cristiani come atei e le spiegazioni di questo fenomeno semantico possono variare.  Metodi di spiegazioneModifica Una caratteristica spesso citata del panteismo è che ogni essere umano, essendo parte dell'universo o della natura, è parte di Dio. Uno dei problemi discussi dai panteisti è come possa esistere il libero arbitrio in un contesto simile. In risposta, qualche volta è data la seguente analogia (particolarmente dai panteisti classici): "stai a Dio come una tua singola cellula sta a te".  L'analogia sostiene anche che, sebbene una cellula possa essere cosciente del suo ambiente e abbia persino qualche scelta (libero arbitrio) tra giusto e sbagliato (uccidere un batterio, divenire cancerogena o non fare semplicemente niente), ha presumibilmente una comprensione limitata dell'essere più grande, di cui fa parte. Un altro modo di comprendere questo tipo di relazione è tramite la frase indù tat tvam asi - "quello che sei", in cui l'anima/essenza umana o Ātmanè intesa medesima di Dio o Brahman. Nel contesto indù, si crede che il singolo debba essere liberato attraverso l'illuminazione (moksha), in modo da sperimentare e capire pienamente questa relazione: la parte diventa non dissimile dal tutto.  Non tutti i panteisti accettano l'idea del libero arbitrio, dato che il determinismo è largamente diffuso, particolarmente presso i panteisti naturalistici. Sebbene le interpretazioni individuali del panteismo possano suggerire certe implicazioni per la natura e l'esistenza del libero arbitrio e/o determinismo, il panteismo non implica il requisito di credere in entrambi. Comunque, il problema è largamente discusso ed è presente in molte altre religioni e filosofie.  DibattitoModifica Alcuni sostengono che il panteismo è poco più che una ridefinizione della parola "Dio" per definire "esistenza", "vita" o "realtà". Molti panteisti direbbero che, se fosse così, un tale cambiamento nel modo in cui pensiamo a queste idee servirebbe a creare una nuova e potenzialmente più perspicace concezione sia dell'esistenza, che di Dio.  Forse il più significativo dibattito all'interno della comunità panteistica è quello riguardante la natura di Dio. Il panteismo classico crede in un Dio personale, cosciente e onnisciente e vede questo Dio come unificante di tutte le vere religioni. Il panteismo naturalistico crede invece in un Universo non cosciente e non senziente che, sebbene sacro e meraviglioso, è visto come un Dio in senso non tradizionale e non personale.  I punti di vista compresi all'interno della comunità panteista sono necessariamente diversi, ma l'idea centrale, che vede l'Universo come un'unità onnicomprensiva e la sacralità sia della natura che delle sue leggi, è comune. Alcuni panteisti sostengono, inoltre, un fine comune di natura e uomo, sebbene altri rifiutino l'idea di un fine e vedano l'esistenza come esistente di per sé.  Concetti panteistici nella religioneModifica InduismoModifica È generalmente riconosciuto che i testi religiosi indù sono i più antichi conosciuti in letteratura contenenti idee panteistiche.[2] Nella teologia indù, Brahman è la realtà infinita, immutabile, immanente e trascendente che è il Divino Terreno di tutte le cose nell'Universo e che è anche la somma totale di tutte le cose che sono, sono state e saranno. Questa idea di panteismo è rintracciabile in alcuni testi più antichi come i Veda e gli Upanishad e nella più tarda filosofia Advaita. Tutti i Mahāvākya degli Upanishad, in un modo o nell'altro, sembrano indicare l'unità del modo con Brahman.  Chāndogya Upanishad dice "Tutto in questo Universo in realtà è Brahman; da lui esso procede; all'interno di lui è dissolto; in lui respira, così lasciate che ognuno lo adori tranquillamente". Inoltre dice: "Tutto l'Universo è Brahman, da Brahman a una zolla di terra. Brahman è la causa efficiente e materiale del mondo. Egli è il vasaio da cui si forma il vaso; egli è la creta con il quale è fabbricato. Tutto proviene da Lui, senza perdita o diminuzione della fonte, come la luce irradiata dal sole. Ogni cosa è unita entro Lui ancora, come le bolle che esplodono si uniscono all'aria, come i fiumi sfociano negli oceani. Tutto proviene e ritorna a Lui, come la tela di un ragno è fabbricata e ritratta dal ragno stesso."[3] Negli inni del Rig Veda, una traccia di pensiero panteista può essere riconosciuta nel libro decimo (10-121).  Questa concezione di Dio lo vede come l'unità, con gli dei personali e individuali aspetto dell'Unico, sebbene differenti divinità siano viste da diversi fedeli come particolarmente adatte alle loro preghiere. Come il sole emana raggi di luce che provengono dalla stessa fonte, lo stesso avviene dagli sfaccettati aspetti di Dio emanati da Brahman, come più colori dallo stesso prisma. Il Vedānta, specificatamente l'Advaita, è una branca della filosofia indù che pone grande accento su questa materia. Molti aderente vedantici sono monistio "non-dualisti, vedendo le molteplici manifestazioni di un solo Dio o della fonte dell'essere, una visione che è spesso considerata dai non induisti come politeista.  Il panteismo è la componente chiave della filosofia Advaita. Altre suddivisione dei Vedanta non sostengono in maniera peculiare le stesse istanze. Per esempio, la scuola Dvaita di Madhvacharya ritiene che Brahman sia il Dio esterno personale Vishnu, laddove invece le scuole Rāmānuja sposano il Panenteismo.  EbraismoModifica Il senso radicalmente immanente del divino nella mistica ebraica (Kabbalah) si ritiene abbia ispirato la formulazione del panteismo da parte di Spinoza. Nonostante ciò, la teoria di Spinoza non è stata recepita dall'Ebraismo ortodosso. D'altro canto, Schopenhauer sosteneva che il panteismo spinoziano fosse una conseguenza della lettura di Nicolas Malebranche da parte del filosofo olandese: Malebranche insegna che tutto ciò che osserviamo è in Dio stesso. Ciò equivale a voler spiegare qualcosa di ignoto mediante qualcosa di ancor più oscuro. Inoltre, secondo Malebranche noi non solo vediamo tutto in Dio, ma Dio è anche l'unica attività, sicché le cause fisiche sono mere occasionalità (Ricerca della verità, Libro VI, seconda parte, cap. 3.). E così qui rinveniamo essenzialmente il panteismo di Spinoza che pare abbia appreso più da Malebranche che da Descartes. (Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Vol. I, "Schizzo di una storia della teoria dell'ideale e del reale"). Inoltre, Israel ben Eliezer, fondatore dello Chassidismo, aveva un senso mistico del divino che può essere definito come Panenteismo.  Secondo l'ebraismo biblico l'origine dell'Universo si è basata sulla Torah (legge) della natura. Pertanto la Torah originale non è rinvenibile negli scritti di Mosè, bensì nella natura stessa. "Interpretare" la Torah della natura equivale ad "interpretare" la Torah della rivelazione e teoricamente alla fin fine coincideranno l'una con l'altra [come si dimostra ad esempio con la scoperta del Big Bang nel 1965]. L'ortodossia rabbinica considerando questa posizione come una discrepanza, allo scopo di porre la Torah scritta al di sopra di quella data per prima in natura, ha sostenuto che la Torah scritta precedette la creazione, infatti a partire dalla Torah scritta che Dio "ha parlato" nella creazione. Questa posizione non è accolta dai panteisti biblici.  Maimonide, benché Ortodosso, nei suoi scritti sulla riconciliazione fra le sacre scritture e la scienza, accolse l'opinione dell'equivalenza fra la Torah della natura e la Torah delle scritture e trovò la sua logica come inevitabile. Queste tesi, senza dubbio, servirono da sfondo per lo sviluppo delle teorie di Baruch Spinoza.  CristianesimoModifica Vi è un certo numero di tradizioni minori nell'ambito della storia del Cristianesimo secondo le quali le origini del loro credo panteistico sono da rintracciare nel Nuovo Testamento ed in altre correlate tradizioni ecclesiastiche. La diversità di questo punto di vista è rintracciabile a partire dai primi Quaccheri sino ai successivi Unitaristi e fino ad arrivare alle stesse principali denominazioni del cattolicesimo tradizionale e del protestantesimo liberale.  Altre fonti includono la  Teologia del processo, la Spiritualità della Creazione, i Fratelli del libero spirito, altri ancora ne sostengono la presenza fra gli Gnostici. Tale idea ha avuto, per qualche tempo, aderenti in vari segmenti del Cristianesimo.  Alcuni Cristiani considerano la Trinità in questo significato: lo Spirito Santo tiene insieme l'Universo e personifica se stesso come il Padre, che a sua volta personifica se stesso come il Figlio dentro questo Universo (ciò significa che il Padre è al di fuori dell'Universo, del Tempo e dello Spazio). Secondo altri, lo Spirito Santo è consapevole e utilizzabile e per questo è usato da Dio per benedire la gente con i Doni dello Spirito Santo. Tutti i poteri sovrannaturali si ritiene che siano possibili anche dal binomio Universo/Spirito Santo.  I panteisti di religione cristiana asseriscono che l'origine del loro credo è rintracciabile nelle Sacre Scritture, nel Vecchio Testamento come nel Nuovo ed attenuano le difficoltà che i teologi della Chiesa Apostolica Romana hanno sempre cercato di "risolvere" nei concili sul tema della Trinità e della Natura di Cristo come il Verbo (solo il panteismo fornisce una formulazione per il Cristo come "Verbo" di Dio e per l'unità del Monoteismo).  Il parificare nella Bibbia Dio agli atti della natura e la definizione di Dio data nello stesso Nuovo Testamento forniscono un persuasivo richiamo verso questo sistema di credenze.  I panteisti cristiani sostengono che la definizione cattolica di Dio fu pesantemente influenzata da fonti non bibliche, tra queste in particolar modo il Neo-Platonismo, che consideravano Dio come qualcosa che "esiste" fuori dalla "esistenza", pertanto la definizione di "Dio" si riferiva ad un qualcosa "che non esiste", cioè, ad un Dio non-esistente. È proprio questa basilare definizione neo-platonica di non-esistenza che i panteisti cristiani ritengono biasimevole e contraria alle scritture.  Agostino rigettò il panteismo per i seguenti motivi:  Ma c'è un motivo che, al di là di ogni passione polemica, deve indurre uomini intelligenti o comunque siano, perché all'occorrenza non si richiede un'alta intelligenza, a fare una riflessione. Se Dio è la mente del mondo e se il mondo è come un corpo a questa mente, sicché è un solo vivente composto di mente e di corpo ed esso è Dio che contiene in se stesso tutte le cose come in un grembo della natura; se inoltre dalla sua anima, da cui ha vita tutto l'universo sensibile, vengono derivate la vita e l'anima di tutti i viventi secondo le varie specie, non rimane nulla che non sia parte di Dio. Ma se questa è la loro tesi, tutti possono capire l'empietà e la irreligiosità che ne conseguono. Qualsiasi cosa si pesti, si pesterebbe una parte di Dio; nell'uccidere qualsiasi animale, si ucciderebbe una parte di Dio. Non voglio dir tutte le cose che possono balzare al pensiero. Non è possibile dirle senza vergogna.[4] come pure:  Riguardo allo stesso animale ragionevole, cioè l'uomo, la cosa più banale è ritenere che una parte divina prende le botte quando le prende un fanciullo. E soltanto un pazzo può sopportare che le parti divine divengano dissolute, ingiuste, empie e in definitiva degne di condanna. Infine perché il dio si arrabbierebbe con coloro che non lo onorano se sono le sue parti a non onorarlo?[5] Nel Vangelo secondo Tommaso (considerato apocrifodai Cristiani), Gesù disse:  Io sono la Luce: quella che sta sopra ogni cosa; io sono il Tutto: il Tutto è uscito da me e il Tutto è ritornato in me. Fendi il legno, e io sono là; solleva la pietra e là mi troverai.[6] Tuttavia questa è un'affermazione dell'onnipresenza di Dio, non in senso panteistico, ma in armonia con l'insegnamento che ogni apparenza fenomenica è riflesso della luce divina.  Islam                                                        Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento religione non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. La maggioranza dei Musulmani condanna il concetto di panteismo e lo considera come un insegnamento non-Islamico. Tuttavia, il Sufismo è ritenuto dai musulmani contenere insegnamenti panteistici.  Il Sufismo può essere suddiviso nelle seguenti categorie:  Sufismo originario - Sincretico: Mescola insieme dottrine e concetti dell'Islam con credenze e pratiche religiose locali dei paesi Orientali e Occidentali. Lo si pratica in paesi non-Islamici. Sufismo ḥadīth - Tradizionale: è l'Islam con un'enfasi sulle forme ortodosse della spiritualità e del misticismo Islamico. Essenzialmente ortodosso e considerato prevalentemente come una subcultura nei paesi Islamici. Sunniti o Sciiti. Sufismo Coranico - Coranico: Si attiene strettamente a quanto scritto nel Corano compreso il profetismo e non accetta i più recenti ḥadīth come altrettanto ispirati dalla tradizione. È considerato non-ortodosso o come una forma di neo-ortodossia ed è praticato soprattutto nell'occidente islamico. Ha subito influenze dal concetto di riforma e restaurazione del Protestantesimo. Né il Sunnismoné il Sciismo sono da considerare come forme di ḥadīth. Il concetto di Panteismo si può rinvenire in ciascuno dei suddetti tipi di Sufismo, a differenza della maggioranza ortodossa dell'Islam, esso è molto diverso ed accentua l'esperienza e la conoscenza spirituale personale ed individuale. Le fonti dell'interpretazione panteistica differirebbero a seconda della tradizione cui fanno capo. Il Sufismo originario risentirebbe ovviamente dei testi orientali, il Sufismo ḥadīth sarebbe influenzato dagli studiosi Islamici del regno del Solimano, il Sufismo Coranico vedrebbe lo stesso Corano come la continua rivelazione e la personificazione linguistica è interpretata in modo coerente con i profeti biblici. La maggioranza dei Musulmani Ismailiti è panteista, o per essere più precisi, Panenteista.  Gli scritti di Seth e il PanteismoModifica Il concetto di Panteismo è parte integrante di molte delle credenze religiose e delle filosofie della New Age; la sua differenza rispetto al panenteismo è sostenuta in modo specifico negli scritti di Seth come presentati dalla medium Jane Roberts (1929-1984). Seth, l'"entità" cui da voce la Roberts, diceva che Dio è formato di energia mentale, e questa energia mentale è la sostanza che dà vita a tutti gli esseri e a tutte le cose; la coscienza di Dio è veicolata da questa energia, per cui la coscienza di Dio è onnipresente. Seth spesso si riferiva a Dio come a "Tutto ciò che è" e diceva che "Tutte le facce appartengono a Dio". Seth descriveva Dio come una forma contenente tutti gli individui al suo interno; inoltre aggiungeva che Dio si conosce come è, ma anche si conosce come ciascun individuo. Tuttavia, questo insegnamento ha molto in comune con il correlato concetto di panenteismo, dato che pone in risalto la personificazione di Dio e quindi si trasforma in un teismo.  Altre religioniModifica Molti elementi panteistici sono presenti in alcune forme di Buddismo, Neopaganesimo, e Teosofiainsieme a molte variabili denominazioni. Si veda anche la Neopagana Gaia e la Church of All Worlds.  Molti Universalisti si considerano panteisti.  Il filosofo Paul Carus si definiva "un ateista che ama Dio". Egli criticò ogni forma di monismo che cercava l'unità del mondo non nell'unità della verità bensì nella unicità di una logica supposizione di idee. Carus definiva tali concetti come "henismo". Il Taoismo propugna una visione panteistica. Il "Tao" potrebbe essere paragonato al "Deus-sive-Natura" di Spinoza.  Concetti connessiModifica PanenteismoModifica Il Panteismo e il panenteismo presentano aspetti comuni ma non coincidono: il primo vede l'universo pieno di Dio il secondo lo vede come parte di Dio. Filosoficamente, però, i due concetti sono ben distinti. Mentre per il panteismo Dio è sinonimo della natura, per il panenteismo, invece, Dio è superiore alla natura e la include. È la ragione per cui Hegel definiva quello spinoziano un panteismo acosmistico (senza mondo).  Per alcuni tale distinzione è inutile, mentre altri la considerano un significativo punto di divisione. Molte delle maggiori fedi descritte come panteistiche potrebbero essere descritte anche come panenteistiche, al contrario ciò non è possibile per il panteismo naturalistico (perché non considera Dio come superiore alla sola natura). Per esempio, elementi appartenenti al panenteismo ed al panteismo si rinvengono nell'Induismo. Certe interpretazioni dei testi Bhagavad Gita e Shri Rudram Chamakam sostengono questo punto di vista.  Cosmismo          Modifica Magnifying glass icon mgx2.svg                                                            Lo stesso argomento in dettaglio: Cosmismo e World Brain. Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento filosofia è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali. Mentre questo termine è raramente usato, e molto spesso è solo un sinonimo di Panteismo, l'insolita filosofia da esso indicata è stata utilizzata in modo piuttosto differente, ma in ogni caso con essa si vuole esprimere il concetto che Dio è un qualcosa creato dalla mente umana, forse rappresenta uno stadio finale della evoluzione dell'uomo, raggiunto attraverso la pianificazione sociale, l'eugenetica e altre forme di ingegneria genetica.  H. G. Wells diede vita a una forma di cosmismo, che denominò World Brain ("Cervello mondiale"), rifacendosi a un saggio da lui pubblicato nel 1937, in cui viene tra l'altro descritta la creazione di una biblioteca-enciclopedia. Tale idea venne ripresa nel libro God the Invisible King,[7] in cui l'autore consiglia all'umanità di istituire un sistema socialista, strutturandolo sui dati statistici sociali ed eugenetici, sull'istruzione e l'eugenetica, in modo che un giorno idealmente possa essere alla pari e possibilmente anche fondersi con la stessa divinità panteista, e anche in alcuni paragrafi di Outline of History, che richiamavano tali credenze dell'autore e le sue ricerche sull'insegnamento di Gesù e di Buddha. Queste idee vengono riprese nel suo libro Shape of Things to Come e nel film da esso tratto nel 1936 Things to Come; in essi viene descritta l'umanità che, sopravvivendo ad una guerra apocalittica e a un prolungato periodo Feudale, si unisce per dar vita ad una utopia collettivista.  In Israele, il Cosmismo è stato oggetto di studio da parte di Mordekhay Nesiyahu, uno dei primi ideologi del Movimento Laburista Israeliano e docente presso l'Università di Beit Berl. Secondo questo autore Dio è qualcosa che non esisteva prima dell'uomo, ma era una entità secolare. Infatti fu la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme ad avere un ruolo nell'"invenzione" di questa entità.  Nel XX secolo, lo statunitense  William Luther Pierce, un nazionalista bianco iscritto nel Partito Nazista Americano e, a sua volta, fondatore del movimento Alleanza Nazionale, utilizzò il termine "Cosmismo". Per Pierce (così come per Wells), Dio sarebbe il risultato finale dell'eugenetica e dell'igiene razziale (Si veda: Nazismo, Francis Galton e Teosofia).  La "Noosfera" descritta da Vladimir Vernadsky e da Pierre Teilhard de Chardin potrebbe essere considerata come la descrizione di una divinità Cosmistica, come anche la coscienza collettiva di Émile Durkheim e l'inconscio collettivo di Carl Gustav Jung.  Arthur C. Clarke fa un possibile riferimento alla Noosfera Cosmista nel suo libro del 1953 Childhood's End (tradotto in italiano con il titolo Le guide del tramonto), riferendosi ad essa come la "Overmind", una mente alveare interstellare.   PandeismoModifica Il Pandeismo è una specie di Panteismo che include una forma di Deismo, sostenendo che l'Universo è identico a Dio, ma anche che Dio precedentemente fu una forza cosciente e senziente ovvero una entità che progettò e creò l'Universo. Diventando l'Universo, Dio divenne inconscio e non senziente. A parte questa distinzione (e la possibilità che l'Universo un giorno ritornerà ad essere Dio), le credenze Pandeistiche sono identiche a quelle del Panteismo.  EticaModifica Secondo Schopenhauer, nel panteismo non vi è etica. Il panteismo, nel suo complesso, naufragherebbe a fronte delle inevitabili esigenze etiche e quindi non avrebbe risposte sul male e sulle sofferenze del mondo. Se il mondo è una teofania, allora ogni cosa fatta dagli uomini, ed anche dagli animali, è da considerarsi parimenti divina ed eccellente; niente può essere giudicato più censurabile e più meritevole rispetto ad ogni altra cosa; quindi non vi è etica. (Il mondo come volontà e rappresentazione, Vol. II, Cap. XLVII)  Tuttavia, alcuni panteisti sostengono che il punto di vista panteista è molto più etico, evidenziando che ogni danno arrecato all'altro è come fare male a se stessi, perché arrecare danno ad uno è come arrecare danno a tutti. Ciò che è bene e ciò che è male non dipende da qualcosa al di fuori di noi, ma è il risultato di come ci rapportiamo gli uni con gli altri. Il fare bene non si deve basare sulla paura di una punizione da parte di Dio, bensì deve scaturire da un reciproco di tutti verso tutto.  Le forme tradizionali e le varie definizioni di panteismo, comunque, rinviano ai loro testi sacri e ai loro maestri per le definizioni di ordine etico.  NoteModifica ^ ( EN ) Michael P. Levine, Pantheism: A Non-Theistic Concept of Deity, Londra e New York, Routledge, 1994. Trad. italiana Il Panteismo. Una concezione non-teistica della divinità, Genova, ECIG, 1995, ISBN 88-7545-671-2. ^ Constance E. Plumptre, General Sketch of the History of Pantheism, Londra, W. W. Gibbings, 1878, vol. 1, p. 29. ^ Chandogya Upanishad 3-14 traduzione di Monier-Williams ^ La Città di Dio, Libro 4, Cap. 12. ^ La Città di Dio, Libro 4, Cap. 13. ^ Testo del Vangelo secondo Tommaso ^ God the Invisible King Voci correlateModifica Dio Monismo Monoteismo Teismo Deismo Pandeismo Panenteismo Naturalismo (filosofia) Panpsichismo Panteismo naturalistico Panteismo classico Altri progettiModifica Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su panteismo Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su panteismo Collegamenti esterniModifica panteismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Panteismo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Panteismo, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Modifica su Wikidata ( EN ) William Mander, Pantheism, in Edward N. Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Università di Stanford. Giuseppe Tanzella-Nitti, Panteismo del Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, su disf.org. Controllo di autoritàThesaurus BNCF 29848 · LCCN( EN ) sh85097492 · GND ( DE ) 4173188-8 ·J9U ( EN ,  HE ) 987007560641905171 (topic) ·NDL ( EN ,  JA ) 00562946   Portale Filosofia   Portale Mitologia   Portale Religioni Ultima modifica 4 mesi fa di Luca M PAGINE CORRELATE Monismo (religione) Panenteismo scuola filosofica  Panteismo naturalistico Wikipedia Lorenzo Giusso. Giusso. Keywords: gl’eroi, il vico di giusso, la tradizione ermetica nella filosofia italiana, nazionalsocialismo, bruno, panteismo, leopardi, occasionalismo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Giusso” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756533855/in/dateposted-public/

 

Grice e Givone – fanes – filosofia italiana – Luigi Speranza -- Givone (Buronzo). Filosofo.  Grice: “I like Givone, especially his two essays on ‘eros’: ‘eros and ethos’ and the more controversial, ‘eros and knowledge.’ Si laurea Torino sotto Pareyson. Insegnato a Perugia, Torino e Firenze. Alcuni suoi lavori riguardano la poetica e l’estetica all’ombra del nichilismo. Da questa riflessione nasce anche la sua ricerca sulla “Storia naturale del nulla” --  e sulle implicazioni sullo tragico. In sua estetica e forte è ancora il richiamo filosofico. Il malinconico, ‘l’ibrido – Saggi: “La storia della filosofia secondo Kant” (Milano, Mursia); “Hybris e malinconia: Studi sulle poetiche del Novecento” (Milano, Mursia); “William Blake. Arte e religione, Milano, Mursia, “Ermeneutica e romanticismo, Milano, Mursia, Dostoevskij e la filosofia, Roma, Laterza, Storia dell'estetica, Roma, Laterza, Disincanto del mondo e il tragico, Milano, Il Saggiatore,  La questione romantica, Roma, Laterza, Storia del nulla, Roma, Laterza, Favola delle cose ultime, Torino, Einaudi, Eros/ethos, Torino, Einaudi, Nel nome di un dio barbaro, Torino, Einaudi,  Prima lezione di estetica, Roma, Laterza, Il bibliotecario di Leibniz. Torino, Einaudi,  Non c'è più tempo, Torino, Einaudi, Metafisica della peste. Colpa e destino, Torino, Einaudi, Luce d'addio. Dialoghi dell'amore ferito, Firenze, Olschki,  Sull'infinito, il Mulino, Pantragismo. Treccani. Grice: “I like Givone; he philosophises on ‘eros,’ but fails to notice that for Butler there’s self-love and other love; instead, Givone prefers to contrast ‘eros’ with ‘ethos’!” “His ramblings on Phanes are fun, though!” – Grice: “Not satisfied with metaphysics, Givone goes to criticize Marinetti’s hybris, or superbia, i. e. lack of moderation. His ottimismo notably contrasts with the decadentismo of the croposcolaristi.  Futurismo movimento artistico, culturale, musicale e letterario italiano Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Futurismo (disambigua). Ulteriori informazioni Questa voce o sezione sull'argomento arte è priva o carente di note e riferimenti bibliografici puntuali. Il Futurismo è stato un movimento letterario, culturale, artistico e musicale italiano dell'inizio del XX secolo[1], nonché una delle prime avanguardieeuropee. Ebbe influenza su movimenti affini che si svilupparono in altri paesi d'Europa, in Russia, Francia, negli Stati Uniti d'America e in Asia. I futuristi esplorarono ogni forma di espressione: la pittura, la scultura, la letteratura (poesia) al teatro, la musica, l'architettura, la danza, la fotografia, il cinema e persino la gastronomia. La denominazione del movimento si deve al poeta italiano Filippo Tommaso Marinetti[1].   Umberto Boccioni La città che sale, bozzetto, 1910 Museum of Modern Art, New York OriginiIl manifesto del Futurismo pubblicato su Le Figaro del 20 febbraio 1909 (qui evidenziato in giallo) Il Futurismo nasce in Italia, in un periodo di notevole fase evolutiva dove tutto il mondo dell'arte e della cultura era stimolato da numerosi fattori determinanti: le guerre, la trasformazione sociale dei popoli, i grandi cambiamenti politici e le nuove scoperte tecnologichee di comunicazione, come il telegrafo senza fili, la radio, gli aeroplani e le prime cineprese; tutti fattori che arrivarono a cambiare completamente la percezione delle distanze e del tempo, "avvicinando" fra loro i continenti, creando nuove connessioni.  Il XX secolo era quindi invaso da un nuovo vento, che portava una nuova realtà: la velocità. I futuristi intendevano idealmente "bruciare i musei e le biblioteche" in modo da non avere più rapporti con il passato per concentrarsi così sul dinamico presente; tutto questo, come è ovvio, in senso ideologico. Le catene di montaggio abbattevano i tempi di produzione, le automobili aumentavano ogni giorno, le strade iniziarono a riempirsi di luci artificiali, si avvertiva questa nuova sensazione di futuro[1] e velocità sia nel tempo impiegato per produrre o arrivare a una destinazione, sia nei nuovi spazi che potevano essere percorsi, sia nelle nuove possibilità di comunicazione.[2]    Gino Severini racconta che quando venne in contatto con Marinetti per decidere se aderire o meno al Futurismo parlò anche con Amedeo Modigliani, che egli avrebbe voluto nel gruppo, ma il pittore declinò l'offerta perché come scrisse:   «Queste manifestazioni non gli andavano, il complementarismo congenito lo fece ridere, e con ragione, perciò invece di aderire mi sconsigliò di mettermi in quelle storie; ma io avevo troppa affezione fraterna per Boccioni, inoltre ero, e sono sempre stato pronto ad accettare l'avventura […]»  (Gino Severini, Vita di un pittore) Primo Futurismo «Compagni! Noi vi dichiariamo che il trionfante progresso delle scienze ha determinato nell'umanità mutamenti tanto profondi, da scavare un abisso fra i docili schiavi del passato e noi liberi, noi sicuri della radiosa magnificenza del futuro…»  (dal Manifesto dei pittori futuristi, febbraio 1910) Una scazzottata futurista A seguito di una serie di articoli critici di Ardengo Sofficisu La Voce vi fu una reazione violenta dei futuristi: Marinetti, Boccioni e Carrà raggiunsero Soffici a Firenze e lo aggredirono mentre sedeva al caffè delle "Giubbe Rosse" in compagnia dell'amico Medardo Rosso. Ne nacque una grande pubblicità e un grande tumulto rinnovatosi alla sera, alla stazione di Santa Maria Novella, quando Soffici, accompagnato dagli amici Giuseppe Prezzolini, Scipio Slataper e Alberto Spaini, volle rendere la contropartita.   «Fu una vera spedizione punitiva, che mi fu raccontata da Boccioni e, più tardi, da Soffici. I futuristi appena arrivati a Firenze vanno al Caffè delle Giubbe Rosse, dove sapevano di trovare Soffici, Papini, Prezzolini, Slataper, e tutti redattori della Voce. Boccioni domanda ad un cameriere: «Chi è Soffici?»; sull'indicazione ottenuta si avvicina Soffici e senza spiegazioni gli appioppa un paio di schiaffoni; Soffici per niente smontato si alza risponde con una scarica di pugni. Parapiglia generale, tavole seggiole per terra, bicchieri rotti e questurini che portano tutti al commissariato. Per fortuna caddero in un commissario intelligente che capisce con chi aveva a che fare; visto che Soffici e quelli della Voce non volevano far querela d'aggressione, li rimandò tutti fuori come se niente fosse stato. I futuristi, vendicate le ingiurie, andarono alla stazione dove un treno, pressappoco a quell'ora, doveva riportarli a Milano. Ma quelli della Voce, malgrado si fossero ben difesi, non erano contenti affatto, perciò si recarono in fretta anch'essi alla stazione. Mentre il treno stava per arrivare ebbe luogo un altro incontro, e un altro violento pugilato, che, per poco, faceva restare a piedi futuristi. Ma fecero in tempo a prendere il treno, un po' ammaccati, ma soddisfatti.»  (Gino Severini, Vita di un pittore) Nel Manifesto Futurista (1909), pubblicato inizialmente in vari giornali italiani (la Tavola Rotonda di Napoli, la Gazzetta dell'Emilia di Bologna, la Gazzetta di Mantovae L'Arena di Verona) e, definitivamente, due settimane dopo sul quotidiano francese Le Figaro il 20 febbraio 1909[3], Filippo Tommaso Marinetti espose i principi-base del movimento. Poco tempo dopo a Milano nel febbraio 1910 i pittori Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Giacomo Balla, Gino Severini e Luigi Russolo firmarono il Manifesto dei pittori futuristi e nell'aprile dello stesso anno il Manifesto tecnico della pittura futurista[4]. Nei manifesti si esaltava la tecnica e si dichiarava una fiducia illimitata nel progresso, si decretava la fine delle vecchie ideologie (bollate con l'etichetta di "passatismo", tra cui figura anche il Parsifal di Wagner, che a partire dal 1914 cominciò a essere rappresentato nei teatri d'Europa). Si esaltavano inoltre il dinamismo, la velocità, l'industria, il militarismo, il nazionalismo e la guerra, che veniva definita come "sola igiene del mondo".   Russolo, Carrà, Marinetti, Boccioni e Severini a Parigi per l'inaugurazione della prima mostra del 1912 La prima importante esposizione futurista si tenne a Parigi presso la galleria Bernheim-Jeune dal 5 al 24 febbraio 1912. All'inaugurazione della mostra erano presenti Marinetti, Boccioni, Carrà, Severini e Russolo. L'accoglienza iniziale fu fredda, ma nelle settimane successive il movimento suscitò un certo interesse divenendo presto oggetto di attenzioni internazionali tanto da favorire la riproposizione della mostra anche in altre città europee come Berlino[5].  La riconciliazione con i futuristi avvenne in seguito, grazie alla mediazione dell'amico Aldo Palazzeschi. Nel 1913 infatti, Soffici e Papini uscendo da La Vocedecisero di fondare la rivista Lacerba appoggiando così il movimento futurista[6].  Alla morte di Umberto Boccioni nel 1916, Carrà e Severini si ritrovarono in una fase di evoluzione verso la pittura cubista, di conseguenza il gruppo milanese si sciolse spostando la sede del movimento da Milano a Roma, con la conseguente nascita del "secondo Futurismo".  Secondo FuturismoIn prima fila Depero, Marinetti e Cangiullo nel 1924 con panciotti "futuristi" Il secondo Futurismo fu sostanzialmente diviso in due fasi. La prima andava dal 1918, due anni dopo la morte di Umberto Boccioni, al 1928 e fu caratterizzata da un forte legame con la cultura post-cubista e costruttivista; la seconda invece, dal 1929 al 1939, fu molto più legata alle idee del surrealismo. Di questa corrente - che si concluse attraverso il cosiddetto "terzo Futurismo", portando anche all'epilogo del Futurismo stesso - fecero parte molti pittori fra cui Fillia (Luigi Colombo), Enrico Prampolini, Filiberto Sbardella[7], Nicolay Diulgheroff, Wladimiro Tulli ma anche Mario Sironi, Ardengo Soffici, Ottone Rosai, Carlo Vittorio Testi e la moglie Fides Stagni.[8]  Se la prima fase del Futurismo fu caratterizzata da un'ideologia guerrafondaia e fanatica (in pieno contrasto con altre avanguardie) ma spesso anche anarchica, la seconda stagione ebbe un effettivo legame con il regime fascista, nel senso che abbracciò gli stilemi della comunicazione governativa dell'epoca e si valse di speciali favori.  I futuristi di sinistra, generalmente meno noti nel panorama culturale italiano dell'epoca, comunque, costituirono quella parte del Futurismo collocata politicamente su posizioni vicine all'anarchismo e al bolscevismo anche quando il movimento con i suoi fondatori e personaggi ritenuti principali fu fagocitato dal fascismo.  Anche se la gerarchia fascista riservò ai futuristi coevi una sottovalutazione talvolta sprezzante, l'osservazione dei principi autoritaristici e la poetica interventista del Futurismo furono quasi sempre presenti negli artisti del gruppo, fino a che alcuni di questi non abbracciarono altri movimenti e presero le distanze dall'ideologia fascista (Carlo Carrà, ad esempio, abbracciò la metafisica). Altri ancora, come il giovane pittore maceratese Wladimiro Tulli, mantennero costantemente un approccio giocoso e libertario, che poco aveva a che fare con l'estetica fascista, anche nelle successive esperienze di pittura informale.[9]  Futurismo russoNatalia Goncharova Il ciclista, 1913 Museo russo, San Pietroburgo Manifesto futurista di Marinetti era stato pubblicato a San Pietroburgo appena un mese dopo l'uscita su Le Figaro, e già negli anni 1911 e 1912 Natal'ja Sergeevna Gončarova e Michail Fëdorovič Larionov, che in patria verrà definito il "padre del Futurismo russo", furono i concreti iniziatori del movimento in Russia.  Nel 1913 il pittore Kazimir Severinovič Malevič, il compositore Michail Matjušin e lo scrittore Aleksej Eliseevič Kručënych redassero il manifesto del Primo congresso Futurista russo. Al movimento, conosciuto anche come Cubofuturismo o Raggismo, aderirono personalità come il poeta e drammaturgo Vladimir Vladimirovič Majakovskij.  Nel gennaio 1914 Marinetti stesso si recò a Mosca. Dal movimento d'avanguardia futurista nacquero negli anni immediatamente precedenti la rivoluzione del 1917 due importanti avanguardie artistiche, il Costruttivismo e il Suprematismo. L'attenzione che i giornali e il pubblico dedicarono a Marinetti fu enorme, ma non ci fu la stessa attenzione da parte dei futuristi russi, alcuni dei quali tentarono anche di ostacolare la visita di Marinetti. Altri invece, come Sersenevič, furono più ospitali e cordiali. Il temperamento e le declamazioni di Marinetti riscossero successo ovunque; ma Marinetti tentò invano di chiamare i futuristi russi ad unire le forze con i futuristi italiani, perché i maggiori poeti russi, Chlebnikov, Livsič, Majakovskij e anche il regista Larionov criticarono Marinetti.[senza fonte] L'ultima "mostra futurista" si tenne nel 1915 a Pietrogrado.  In Russia il movimento non fu caratterizzato dal bellicismo come quello dei futuristi italiani, criticato da Majakovskij, ma fu accompagnato da un'utopica idea di pace e libertà, sia individuale (dell'artista), sia collettiva (del mondo), che si sarebbe concluso con l'adesione di una parte del gruppo al bolscevismo. Dopo la rivoluzione d'ottobre molti futuristi confluirono nel cubismo e nell'astrattismo.  Futurismo francese In Francia il Futurismo non si organizzò mai come movimento, ma ebbe almeno due nomi degni di nota: Guillaume Apollinaire e Valentine de Saint-Point.  Apollinaire scrisse il manifesto L'antitradition futuriste(29 giugno 1913), pubblicato su Lacerba solo il 25 settembre dopo le aggiunte e le correzioni di Marinetti. I successivi Calligrammes (1918) rivelano la chiara influenza del paroliberismo futurista sul poeta francese.  Valentine de Saint Point, nipote di Lamartine, scrisse il Manifesto della donna futurista, (1912) con il sottotitolo “Risposta a F. T. Marinetti”, in un volantino pubblicato simultaneamente a Parigi e a Milano. Del 1913 è il Manifesto futurista della lussuria.  Orientamenti artistici Nelle opere futuriste è quasi sempre costante la ricerca del dinamismo; cioè il soggetto non appare mai fermo, ma in movimento: ad esempio, per loro un cavallo in movimento non ha quattro gambe, ne ha venti. Così la simultaneità della visione diventa il tratto principale dei quadri futuristi; lo spettatore non guarda passivamente l'oggetto statico, ma ne è come avvolto, testimone di un'azione rappresentata durante il suo svolgimento.  Per rendere l'idea del moto nelle arti visive tradizionali, immobili per costituzione, il Futurismo si serve, nella pittura e nella scultura, principalmente delle “linee-forza”; poiché la linea agisce psicologicamente sull'osservatore con significato direzionale, essa, collocandosi in varie posizioni, supera la sua essenza di semplice segmento e diventa “forza” centrifuga e centripeta, mentre oggetti, colori e piani si sospingono in una catena di “contrasti simultanei”, determinando la resa del “dinamismo universale”.  PitturaJoseph Stella Battle of Lights, Coney Island, Mardi Gras, 1913-14 Yale University Art Gallery Nel 1910 a Milano i giovani artisti d'Italia avevano pubblicato i manifesti sulla pittura futurista. Boccioni si occupò principalmente del dinamismo plastico e sintetico e del superamento del cubismo, mentre Balla passò dallo studio delle vibrazioni luminose (divisionismo) alla rappresentazione sintetica del moto[10]. Nel 1912 Boccioni, Carrà e Russolo esposero a Milano le prime opere futuriste alla "Mostra d'arte libera" nella fabbrica Ricordi.  Il Futurismo diede il meglio di sé nelle espressioni artistiche legate alla pittura, al mosaico e alla scultura, mentre le opere letterarie e teatrali, ma anche architettoniche, non ebbero la stessa immediata capacità espressiva.  Le radici del fermento che portò alla declinazione del Futurismo nell'arte si possono riconoscere, artisticamente parlando, già nella Scapigliatura - corrente tipicamente milanese e borghese della seconda metà dell'Ottocento - laddove il Futurismo distoglie con disprezzo l'attenzione dalla raffinata borghesia per concentrarsi sulla rivoluzione industriale, sulle fabbriche.  Dal punto di vista stilistico il Futurismo - in particolare quello boccioniano - si basa sui concetti del divisionismo che però riesce ad adattare per esprimere al meglio gli amati concetti di velocità e di simultaneità: è grazie ad artisti come Giovanni Segantini e Pellizza da Volpedo che, pochi anni dopo, il futurista Umberto Boccioni poté realizzare dipinti come La città che sale.   Opera futurista di Emma Marpillero Corradi Dal punto di vista concettuale, il Futurismo naturalmente non ignora i principi cubisti di scomposizione della forma secondo piani visivi e rappresentazione di essi sulla tela. Cubista è senz'altro la tecnica che prevede di suddividere la superficie pittorica in tanti piani che registrino ognuno una diversa prospettiva spaziale. Tuttavia, mentre per il cubismo la scomposizione rende possibile una visione del soggetto fermo lungo una quarta dimensione esclusivamente spaziale (il pittore ruota intorno al soggetto fermo cogliendone ogni aspetto), il Futurismo utilizza la scomposizione per rendere la dimensione temporale, il movimento.  Altrettanto interessanti sono i rapporti stilistici tra il Futurismo boccioniano e il cubismo orfico di Robert Delaunay.  Non mancarono relazioni complesse tra i futuristi italiani e i più importanti esponenti delle avanguardie russe e tedesche.[11]  Equiparare, infine, la ricerca futurista dell'attimo con quella impressionista, come è stato fatto in passato, è ormai considerato profondamente errato. Se è vero infatti che gli impressionisti fecero dell'"attimalità" il nucleo della loro ricerca - loro scopo era fermare sulla tela un istante luminoso, unico e irripetibile - la ricerca futurista si muoveva in senso quasi opposto: suo scopo era rappresentare sulla tela non un istante di movimento ma il movimento stesso, nel suo svolgersi nello spazio e nel suo impatto emozionale.  Come conseguenza dell'"estetica della velocità", nelle opere futuriste a prevalere è l'elemento dinamico: il movimento coinvolge infatti l'oggetto e lo spazio in cui esso si muove. Il dinamismo dei treni, degli aeroplani (Aeropittura), delle masse multicolori e polifoniche e delle azioni quotidiane (del cane che scodinzola andando a spasso con la padrona, della bimba che corre sul terrazzo, delle ballerine) è sottolineato da colori e pennellate che mettano in evidenza le spinte propulsive delle forme. La costruzione può essere composta da linee spezzate, spigolose e veloci, ma anche da pennellate lineari, intense e fluide se il moto è più armonioso.  Tra gli epigoni più interessanti del Futurismo, l'avanguardia russa del raggismo e del costruttivismo. Le tecniche pittoriche futuriste sono state riassunte nei due manifesti sulla pittura dei primi mesi del 1912.  Due tra i principali esponenti del movimento pittorico, Umberto Boccioni e Giacomo Balla, furono presenti anche nella scultura. La pittura di Boccioni è stata definita "simbolica": il dipinto La città che sale (1910), per esempio, è una chiara metafora del progresso, dettato dal titolo e dalle scene di cantiere edile sullo sfondo, esemplificate nella loro vorticosa crescita dalla potenza del cavallo imbizzarrito, un vortice di materia che si scompone per piani. Se Boccioni è simbolico, Balla è fotografico e analitico. Ancora legato a principi cubisti, non è raro che realizzi sequenze fotogrammetriche di una scena, per rendere il movimento, piuttosto che affidarsi a impetuosi vortici di pittura: è il caso del posato Bambina che corre al balcone (1912).  SculturaUmberto Boccioni Forme uniche della continuità nello spazio, 1913 New York, Museum of Modern Art L'artista futurista più attivo nel campo della scultura è Umberto Boccioni, la cui ricerca pittorica corre sempre parallela a quella plastica.  Nel 1912, lo stesso Boccioni pubblica il Manifesto tecnico della scultura futurista. Punto di arrivo di questa ricerca può essere considerato Forme uniche della continuità nello spazio, del 1913: l'immagine, applicando le dichiarazioni poetiche di Boccioni stesso, è tutt'uno con lo spazio circostante, dilatandosi, contraendosi, frammentandosi e accogliendolo in sé stessa.  Anche in L'Antigrazioso o La madre, immediatamente precedente, sono presenti parametri scultorei simili a Forme uniche nella continuità dello spazio, ma con ancora non risolti alcuni problemi di plasticità derivanti da influssi naturalistici.  MosaicLa tecnica del mosaico, basata sull'utilizzo di tessere ceramiche e vitree, si è prestata molto bene a esprimere i modi e il dinamismo intesi dall'arte futurista.  Enrico Prampolini e Fillia eseguono l'importante mosaico dedicato al tema delle Comunicazioniall'interno della torre del Palazzo delle Poste di La Spezia (1933).  Alcuni anni più tardi Gino Severini esegue altri mosaici per le Poste di Alessandria. La tradizione musiva di Ravenna continua con mosaici futuristi di autori vari (Palazzo del Mutilato, fine anni quaranta).  ArchitetturaMagnifying glass icon mgx2.svg. Lo stesso argomento in dettaglio: Architettura futurista. «Il problema dell'architettura moderna non è un problema di rimaneggiamento lineare. Non si tratta di dover trovare nuove sagome, nuove marginature di finestre e di porte, di sostituire colonne, pilastri, mensole con cariatidi, mosconi, rane (…): ma di creare di sana pianta la casanuova, costruita tesoreggiando ogni risorsa della scienza e della tecnica…»  (Antonio Sant'Elia, dal Messaggio posto a prefazione della mostra del gruppo Nuove Tendenze del 1914)  Antonio Sant'Elia, una veduta prospettica della Città Nuova. 1914  Sant'Elia, Casa a Gradinate la Città Nuova. 1914  Arnaldo Dell'Ira lampada "a grattacielo", 1929  Giuseppe Pettazzi  Stazione di servizio "Fiat Tagliero", 1938 Asmara Nel 1912 Antonio Sant'Elia, che divenne l'architetto più rappresentativo del movimento, era ancora distante dai futuristi ed era piuttosto legato nel movimento del cosiddetto Stile floreale. In quegli stessi anni a Milanoera attivo Giuseppe Sommaruga e questi sembra che avesse esercitato una grande influenza sulla formazione del Sant'Elia, infatti, per esempio, molti elementi dinamici del futurista furono anticipati nel Grand Hotel Campo dei Fiori di Varese[12].  All'inizio del 1914 Sant'Elia pubblicò il Manifesto dell'Architettura futurista, dove esponeva i principi di questa corrente. Al centro dell'attenzione c'è la città, vista come simbolo della dinamicità e della modernità. Tutti i progetti creati da Sant'Elia si riferiscono a città del futuro: in contrapposizione all'architettura tradizionale, vista come inadeguata, le città idealizzatedagli architetti futuristi hanno come caratteristica fondamentale il movimento, i trasporti e le grandi strutture. I futuristi, infatti, compresero immediatamente il ruolo centrale che i trasporti avrebbero assunto successivamente nella vita delle città. Nei progetti di questo periodo si cercavano sviluppi e scopi di questa novità. L'utopia futurista è una città in perenne mutamento, agile e mobile in ogni sua parte, un continuo cantiere in costruzione, e la casa futurista allo stesso modo è impregnata di dinamicità.  Anche l'utilizzo di linee ellittiche e oblique simboleggia questo rifiuto della staticità per una maggior dinamicità dei progetti futuristi, privi di una simmetriaclassicamente intesa.  Le teorie futuriste sull'architettura erano principalmente ideologiche ed erano espressione di un atteggiamento intellettualistico ma senza riferimenti a metodi formali e tecnici, tuttavia anticiparono i grandi temi e le visioni dell'architettura e della città che saranno proprie del Movimento Moderno[13].  A causa della guerra e dopo la morte di Boccioni e Sant'Elia il movimento futurista in Italia perse il suo slancio. Dopo il 1919 l'originaria proposta futurista dei primi tempi fu raccolta piuttosto dai costruttivisti russi. Il movimento razionalista italiano cercherà di proporre gli scenari della Città Nuova delle utopie futuriste ma il regime fascista smorzerà questi tentativi privilegiando un monumentalismo legato alla tradizione classicista. Lo stesso avvenne in Unione Sovietica con il sopravvento del regime totalitario.  Tra i grandi esponenti dell'architettura da ricordare Mario Chiattone, che visse con Sant'Elia a Milano, condividendone le linee teoriche e sviluppando straordinarie visioni di città del futuro, prima di trasferirsi in Svizzera e abbandonare la militanza. E infine Virgilio Marchi, che operò anche come scenografo.  Al Secondo Futurismo appartengono le architetture di Angiolo Mazzoni, autore di notevoli edifici postali e ferroviari, ancora oggi validamente in funzione in diverse città italiane.  CeramicaPer le sue possibilità espressive, anche la ceramica interessa il movimento futurista. In particolare i ceramisti dell'ISIA espressero lavori in sintonia con il nuovo movimento. Il 7 settembre 1938 sulla Gazzetta del Popolo a firma Filippo Tommaso Marinetti e di Tullio d'Albisola viene pubblicato il Manifesto futurista della Ceramica e Aereoceramica. Fin dal 1925 il centro propulsore della ceramica futurista italiana fu Albissola Marina.  Musica Modifica In campo musicale gli unici rappresentanti di rilievo furono Francesco Balilla Pratella e Luigi Russolo, pittore, musicista e scrittore, autore del saggio L'arte dei rumori pubblicato nel 1916. L'arte dei rumori è considerata da alcuni autori uno dei testi più importanti e influenti nell'estetica musicale del XX secolo.[14] A Russolo si deve l'invenzione dell'Intonarumori, uno strumento che usava per mettere in pratica la sua teoria del rumorismo, ovvero di una musica nella quale ai suoni dovevano essere sostituiti i rumori. Essi erano formati da generatori di suoni acustici che permettevano di controllare la dinamica e il volume.  Letteratura Modifica  Da sinistra: Aldo Palazzeschi, Carlo Carrà, Giovanni Papini, Umberto Boccioni, Filippo Tommaso Marinetti, 1914 Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Letteratura futurista e Filippo Tommaso Marinetti. A fine gennaio 1909 Filippo Tommaso Marinetti inviava il Manifesto del Futurismo ai principali giornali italiani, ma è la pubblicazione su Le Figaro il 20 febbraio 1909a garantirgli risonanza europea. Nel 1912, sulla rivista fiorentina "Lacerba", comparve il "Manifesto tecnico della letteratura futurista"[15]. Del 1914 è il volume Zang Tumb Tumb, miglior esempio delle futuriste Parole in libertà.  Poesia. I poeti futuristi si riuniranno attorno alla rivista Poesiafondata da Marinetti qualche anno prima. Nei componimenti si trova generalmente l'esaltazione del futuro e delle sensazioni forti associate alla velocità e alla guerra. Gli esponenti più noti, oltre al Marinetti, sono: Aldo Palazzeschi, autore della raccolta poetica L'incendiario[16] (che include "La fontana malata", "E lasciatemi divertire" e "La passeggiata"); Ardengo Soffici, autore di Bif& ZF + 18 = Simultaneità – Chimismi lirici; Paolo Buzzi, autore di Aeroplani. Canti alati. Anche Salvatore Quasimodo aderì, in gioventù, al Futurismo (ricordiamo la sua poesia "Sera d'estate")[17]. A un successivo momento del Futurismo marinettiano appartiene l'Aeropoesia.  TeatroModifica Magnifying glass icon mgx2.svLo stesso argomento in dettaglio: Teatro futurista. I futuristi perseguirono la rifondazione del concetto stesso di comunicazione teatrale. Promossero un teatro «sintetico, atecnico, dinamico, simultaneo, autonomo, alogico e irreale», dove « è stupido» non ribellarsi al pregiudizio della teatralità, soddisfare la primitività delle folle, curarsi della verosimiglianza, voler spiegare con una logica minuziosa tutto ciò che si rappresenta, sottostare alle imposizioni del crescendo, della preparazione e del massimo effetto alla fine, lasciare imporre alla propria genialità il peso di una tecnica che tutti possono acquisire, rinunciare «al dinamico salto nel vuoto della creazione totale».  I futuristi, infatti, possedettero una «invincibile ripugnanza» per il lavoro studiato a tavolino, a priori, sostenendo l'improvvisazione, il teatro come «serbatoio inesauribile di ispirazioni».  «Tutto è teatrale quando ha valore»  (Il teatro futurista sintetico di Marinetti, Settimelli e Corra[18]) Il teatro futurista promosse anche la commedia e la farsa, anziché la tragedia, o il dramma borghese. Tuttavia, nelle serate futuriste, non era inusuale vedere il pubblico adirato a causa di spettacoli fatti di azioni deliranti. Le cronache dell'epoca riportano notizie relative agli attori futuristi che sfuggono all'ira degli spettatori, spesso provocata ad arte secondo gli intenti espressi nel Manifesto futurista del teatro di varietà.  CinemaMagnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Cinema futurista. Nel 1916 venne pubblicato il Manifesto della Cinematografia futurista, firmato da Filippo Marinetti, Bruno Corra, Arnaldo Ginna, Giacomo Balla, Remo Chiti ed Emilio Settimelli, che sosteneva come il cinema fosse "per natura" arte futurista, grazie alla mancanza di un passato e di tradizioni. Essi non apprezzavano il cinema narrativo "passatissimo", cercando invece un cinema fatto di "viaggi, cacce e guerre", all'insegna di uno spettacolo "antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico, parolibero". Nelle loro parole c'è tutto un entusiasmo verso la ricerca di un linguaggio nuovo slegato dall'estetica tradizionale, che era percepita come un retaggio vecchio.  I futuristi, per allontanare il cinema dal passato, ripudiavano tutto ciò che era convenzionalmente accettato come affascinante e bellissimo dalla borghesia, usando quindi come soggetti figure distorte (che verranno riprese anche dall'espressionismo tedesco come manifestazione della perdita di speranza della popolazione dopo la prima guerra mondiale), colori forti ecc. Molte opere cinematografiche futuriste sono andate perdute durante la guerra, tra cui Vita futurista, pellicola nella quale alcuni uomini disturbavano e poi scappavano velocemente alcuni turisti nei bar di Firenze.  Tra le opere rinvenute di questo movimento, ci è pervenuta la tragedia Tahïs del 1916 di Bargaglia e la romantica Amor pedestre del 1914 del comico Marcel Fabre, nel quale viene proposta una relazione non corrisposta tutta raccontata inquadrando i protagonisti dal ginocchio in giù (cortometraggi rintracciabili su YouTube).  Gastronomia Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Cucina futurista. Grazie alla completezza di questo movimento, ne venne influenzata anche la gastronomia. Nel 1914 il cuoco francese Jules Maincave aderì al Futurismo, proponendo quindi l'accostamento di nuovi sapori ed elementi fino ad allora "separati senza serio fondamento". Questo comprendeva accostamenti come filetto di montone e salsa di gamberi, noce di vitello e assenzio, banana e groviera, aringa e gelatinadi fragola.  Il 20 gennaio 1931 Marinetti pubblicò il Manifesto della cucina futurista sulla rivista Comoedia. Secondo Marinetti bisognava eliminare la pastasciutta, così come forchetta e coltello e condimenti tradizionali, e incoraggiare l'accostamento ai piatti di musiche, poesie e profumi.  Scrive Marinetti:  «(...) vi annuncio il prossimo lanciamento della cucina futurista per il rinnovamento totale del sistema alimentare italiano, da rendere al più presto adatto alle necessità dei nuovi sforzi eroici e dinamici imposti dalla razza. La cucina futurista sarà liberata dalla vecchia ossessione del volume e del peso e avrà, per uno dei suoi principi, l'abolizione della pastasciutta. La pastasciutta, per quanto gradita al palato, è una vivanda passatista perché appesantisce, abbrutisce, illude sulla sua capacità nutritiva, rende scettici, lenti, pessimisti. È d'altra parte patriottico favorire in sostituzione il riso.»  Nel suo tempo È normale che il Futurismo, nascendo in un'epoca di transizione, abbia avuto molteplici contraddizioni. All'immobilismo scolastico e accademico ereditato dalle "tre corone" della poesia decadente (Carducci, Pascoli e D'Annunzio) i futuristi oppongono la dinamicità, la demolizione all'armonia, e alla raffinatezza contrappongono il disordine delle parole. Gli elementi suddetti richiamano alle caratteristiche del Futurismo più importanti[19]: esse rientrano appieno nello spirito culturale della belle époque che precedette lo scoppio della Prima Guerra Mondiale.  Secondo i futuristi, questi poeti devono essere completamente rinnegati perché incarnano esattamente i quattro ingredienti intellettuali che il Futurismo vuole abolire:  la poesia morbosa e nostalgica; il sentimento romantico; l'ossessione della lussuria; la passione per il passato. In contraddizione con il Futurismo è stata anche la corrente crepuscolare. Infatti il crepuscolarismo, nonostante condivida con il Futurismo l'idea di interartisticità, ha però una concezione della vita completamente diversa:  i futuristi inneggiano alle innovazioni, i crepuscolari sono avversi a una modernità che aliena l'individuo i futuristi sono prepotenti, dinamici, chiassosi, i crepuscolari assumono toni dimessi, pacifici e malinconici i futuristi esaltano il caos e le attività delle grandi città, i crepuscolari amano l'intimità, le "piccole cose di pessimo gusto", gli affetti familiari e una vita tranquilla i futuristi sono sempre protesi verso un "domani" esaltante, i crepuscolari guardano al passato e alle piccole cose quotidiane.  Scultura futurista  esposta a Milano in Piazzetta Reale per il centenario del movimento Nelle arti figurative invece si presenta il confronto con le altre avanguardie, Cubismo, Astrattismo, Dada, Surrealismo, Metafisica, ognuna delle quali caratterizzata da propri temi e propri linguaggi espressivi. L'opera futurista è in evidente contrasto per alcuni temi con molte delle altre avanguardie sebbene condividano tutte l'intuizione di trasmettere attraverso l'arte un impulso di trasformazione della società e di rinnovamento. Aspetto specifico del Futurismo è quello di non limitare la propria azione alle espressioni artistiche (come il Cubismo o la Metafisica), ma di prospettare la re-invenzione dell'intera vita, in ogni suo aspetto (e uno dei manifesti maggiormente rilevanti fu infatti "Ricostruzione futurista dell'universo" di Balla e Depero).  Tra i contemporanei dei futuristi che criticarono il movimento ricordiamo Giandante X, che nel 1929, a Milano, all'apertura dei festeggiamenti per il ventennale del Futurismo, contestò apertamente Filippo Tommaso Marinetti, sostenendo che "l’uomo si deve affrancare dalla macchina ed è un errore lasciare sussistere lo scombinato movimento artistico"[20].  Nella critica del dopoguerra Il Futurismo ha influenzato tutta l'arte d'avanguardia del Novecento. Gli artisti futuristi che sopravvissero alla morte di Marinetti (21 dicembre del 1944) e alla seconda guerra mondiale caddero in disgrazia come tutto il Futurismo, con l'accusa di aver fiancheggiato il fascismo.  Nel secondo Novecento nuovi studi di Luciano De Maria, Mario Verdone, Enrico Crispolti, Maurizio Calvesi, Claudia Salaris, Giordano Bruno Guerri hanno parzialmente corretto l'accusa di collusione fascista, rilanciando l'interesse artistico-sociale verso il futurismo. Studi sul futurismo di sinistra (i contatti con gli ambienti anarchici, e persino comunisti) mostravano contemporaneamente che l'avanguardia futurista italiana era stata troppo sommariamente giudicata.  Nel corso del tempo diverse sono state le esposizioni riguardanti il Futurismo. Di indubbia rilevanza è stata quella del 2009 presso il Palazzo Reale di Milano per il centenario del movimento. La mostra si intitolava Futurismo 1909-2009 Velocità+Arte+Azione[21]. Nel 2014, il Futurismo italiano, con una grande esposizione retrospettiva fino al 1944 al Guggenheim Museum di New York a cura di Vivien Greene[22], è tornato alla ribalta internazionale. Il centenario del Futurismo ha anche contribuito al rilancio internazionale degli studi sulle artiste del Futurismo e sulla visione della donna nel Movimento.  Nel 2018 è stato pubblicato il Manifesto del Fumetto Futurista redatto da Massimo Bonura e uno dei primi, se non il primo, fumetti futuristi programmatici, cioè seguente esplicitamente uno schema scritto e definito, dal titolo "Il brutto anatroccolo. Ma che Wow!!" di Claudio S. Gnoffo, a significare l'importanza che il movimento futurista ha avuto come influenza nel delineare nuovi stili d'arte di rottura e sperimentali.[23]  Principali esponenti del futurisModifica Futuristi italiani Filippo Tommaso Marinetti Enrico Allimandi Adone Asinari Franco Asinari Antonio Asturi Fedele Azari Roberto Iras Baldessari Giacomo Balla Enzo Benedetto Umberto Boccioni Vittorio Bodini Uberto Bonetti Oswaldo Bot, pseudonimo di Osvaldo Barbieri Anton Giulio Bragaglia Alessandro Bruschetti Paolo Buzzi Francesco Cangiullo Benedetta Cappa Mario Carli Enrico Carmassi Sebastiano Carta Carlo Carrà Gianni Carramusa Giuseppe Caselli Riccardo Castagnedi Enrico Cavacchioli Arturo Ciacelli Remo Chiti Primo Conti Vittorio Corona Bruno Corra, pseudonimo di Bruno Ginanni Corradini Tullio Crali Auro D'Alba, pseudonimo di Umberto Bottone Giulio D'Anna Luigi De Giudici Mino Delle Site Fortunato Depero Gerardo Dottori Leonardo Dudreville Carlo Erba Julius Evola Farfa, pseudonimo di Vittorio Osvaldo Tommasini Fillia, pseudonimo di Luigi Enrico Colombo Luciano Folgore Gesualdo Manzella Frontini Achille Funi Ivanhoe Gambini Giacomo Giardina Arnaldo Ginna, pseudonimo di Arnaldo Ginanni Corradini Giovanni Governato Corrado Govoni Guglielmo Jannelli Giovanni Korompay Krimer Mimì Maria Lazzaro Escodamè, pseudonimo di Michele Leskovic Osvaldo Licini Gian Pietro Lucini Alberto Magnelli Vincenzo Mai Enzo Mainardi Giorgio Michetti Antonio Marasco Oreste Marchesi Emma Marpillero Pino Masnata Silvio Mix Sante Monachesi Marisa Mori Bruno Munari Benito Mussolini Emilio Notte Renzo Novatore, pseudonimo di Abele Ricieri Ferrari Nello Voltolina Pippo Oriani Nino Oxilia Ivo Pannaggi Giovanni Papini Luigi Pepe Diaz Osvaldo Peruzzi Vittorio Piscopo Enrico Prampolini Francesco Balilla Pratella Giuseppe Preziosi Salvatore Quasimodo Renato Righetti Romolo Romani Ottone Rosai Pippo Rizzo Angelo Rognoni Umberto Luigi Ronco Mino Rosso Luigi Russolo Bruno Giordano Sanzin Alberto Sartoris Antonio Sant'Elia Filiberto Sbardella Gino Severini Ardengo Soffici Fides Stagni Tato (Guglielmo Sansoni) Mario Sironi Fides Stagni Joseph Stella Mario Sturani Italo Tavolato Geppo Tedeschi Thayaht, pseudonimo di Ernesto Michahelles Wladimiro Tulli Giuseppe Ungaretti Vann'Antò Ruggero Vasari Lucio Venna, pseudonimo di Giuseppe Landsmann Mario Mirko Vucetich Futuristi russi Makov Černichov Velimir Chlebnikov Natal'ja Sergeevna Gončarova Michail Larionov Vladimir Majakovskij Kazimir Severinovič Malevič Aleksandr Rodčenko Aleksej Kručënych Futuristi ucraini Davyd, Mykola, Volodymyr Burljuk Futuristi francesi Robert Delaunay Marcel Duchamp Paul Fort Fernand Léger Jules Maincave Georges Bernanos Guillaume Apollinaire Futuristi cechi Růžena Zátková Futuristi ungheresi  Béla Kádár Lajos Kassák Hugó Scheiber Futuristi portoghesi Fernando Pessoa, divulgò aspetti del movimento attraverso le riviste Orpheu (1915) e Portugal Futurista (1917) Guilherme de Santa-Rita, pittore, ideatore della rivista Portugal Futurista (1917) Futuristi spagnoli Joan Salvat-Papasseit Futuristi brasiliani Oswald de Andrade Futuristi argentini Alberto Hidalgo Emilio Pettoruti Principali manifesti Manifesto del futurismo, (Pubblicato da "Le Figaro" il 20 febbraio 1909), Marinetti Uccidiamo il Chiaro di luna, (aprile 1909), Marinetti Manifesto dei Pittori futuristi, (11 febbraio 1910), Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini La pittura futurista - Manifesto tecnico, (11 aprile 1910), Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini Contro Venezia passatista, (27 aprile 1910), Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo Manifesto dei drammaturghi futuristi, (11 gennaio 1911), Marinetti Manifesto dei Musicisti futuristi, (11 gennaio 1911), Pratella La musica futurista-Manifesto tecnico, (29 marzo 1911), Pratella Manifesto della Donna futurista, (25 marzo 1912), Valentine de Saint-Point Manifesto della Scultura futurista, (11 aprile 1912), Boccioni Manifesto tecnico della letteratura futurista, (11 maggio 1912), Marinetti L'arte dei Rumori, (11 marzo 1913), Russolo Distruzione della sintassi. L'immaginazione senza fili e le Parole in libertà, (11 maggio 1913), Marinetti L'Antitradizione futurista, (29 giugno 1913), Guillaume Apollinaire La pittura dei suoni, rumori e odori, (11 agosto 1913), Carrà Il Teatro di Varietà, (1º ottobre 1913), Marinetti Il controdolore, (29 dicembre 1913), Palazzeschi Pittura e scultura futuriste, (1914), Boccioni Manifesto dell'Architettura futurista, (1914), Sant'Elia Il teatro futurista sintetico, (1915), Corra, Settimelli, Marinetti La ricostruzione futurista dell'universo, (1915), Balla, Depero La Scenografia futurista, (1915), Prampolini Manifesto del cinema futurista, (1916), Marinetti, Corra, Settimelli Manifesto della danza futurista, (1917), Marinetti Manifesto dell'Aeropittura futurista, (1929) Manifesto della Fotografia futurista, (16 aprile 1930, Tato (pseudonimo di Guglielmo Sansoni), Filippo Tommaso Marinetti Manifesto della cucina futurista, (1931), Marinetti. Manifesto futurista della Ceramica e Aereoceramica(1938), Filippo Tommaso Marinetti e Tullio d'Albisola Opere principali Pittura Umberto Boccioni, Tre donne (1909-1910); Umberto Boccioni, La città che sale (1910-1911); Carlo Carrà, Notturno a Piazza Beccaria (1910); Umberto Boccioni, La risata (1911); Umberto Boccioni, Stati d'animo, gli addii (1911); Carlo Carrà, I funerali dell'anarchico Galli (1911); Umberto Boccioni, Materia (1912); Giacomo Balla, Ragazza che corre al balcone (1912); Giacomo Balla, Dinamismo di un cane al guinzaglio(1912); Giacomo Balla, Lampada ad arco (1911); Umberto Boccioni, Elasticità (1912); Gino Severini, La chahuteause (1912); Luigi Russolo, Dinamismo di un'automobile (1912-1913); Carlo Carrà, Cavaliere rosso (1913); Giacomo Balla, Automobile + velocità + luce (1913). Gino Severini, Ballerina in blu (1913); Fortunato Depero, I Cavalieri.  ^ a b c Futurismo, in Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. 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Modifica su Wikidata futurismo, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata futurismo, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Futurismo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Il portale sul Futurismo, futurismo.org LA VERA STORIA DEL FUTURISMO, la parola a Gesualdo Manzella Frontini Il "Discorso contro i Veneziani" di Marinetti, su paginadelleidee.net. URL consultato l'8 aprile 2009(archiviato dall' url originale  il 7 ottobre 2007). Il Cerchio: Rivista di Cultura con particolari approfondimenti sul Futurismo, su cerchionapoli.it. "Luigi Russolo: Frammenti di un discorso rumoroso - La rivoluzione musicale futurista": monografia sul sito Sentireascoltare Recensioni delle mostre del centenario futurista a Roma e a Milano avanguardie russe, su chimera.roma1.infn.it. Viva il Futurismo! Iniziativa culturale e artistica per il centenario del Futurismo, su kulturserver-nrw.de. 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Ma, effettivamente, questi temi fanno da sfondo, perché “ Eros ethos”, questo nesso su cui dobbiamo riflettere, riguarda piuttosto le cose prossime che non le cose ultime come la domanda di senso, la domanda che appunto ruota interamente intorno a ciò che era al principio. Che cos’era il principio? Era il senso, era il logos, o non era piuttosto come Nice, in modo sprezzante, ma anche polemico e profondo, ebbe a dire: “ in principio era il non senso”? Ecco, cos’ hanno a che fare queste domande sulle cose ultime con le cose prossime? Eros ethos: che cosa c’è di più prossimo alle esperienze che noi facciamo, che questa? Esperienza erotica ed esperienza etica. Questo è il quadro, questo è l’orizzonte problematico dentro il quale vorrei insieme con voi procedere per alcuni passi, e allora incomincerei col dire che, davvero, la domanda da cui partire è la domanda sull’origine: una domanda che ai non filosofi può sembrare di scarsa rilevanza. Perché la domanda sull’origine? E che cosa vuol dire domanda sull’origine? Vuol dire, se la vogliamo tradurre, interrogarsi sul da dove veniamo, da dove il male, la violenza che patiamo. “Unde malum?” questa è la domanda sull’origine. Ma a questa domanda sull’origine, così perentoria e così grave di implicazioni, come risponde il pensiero contemporaneo? Il pensiero contemporaneo risponde rimovendola, come se non esistesse, meglio come se non la potessimo, né la dovessimo porre. E questo perché? Perché alla domanda ha già risposto la scienza. Sappiamo da dove veniamo, di chi siamo figli: siamo figli del caos, e se è vero che leggi che possono essere accertate scientificamente governano questo caos, del caos noi siamo figli, o, se non del caos, di quel suo riflesso che è il caso. Siamo figli del caso. La violenza è un fatto. Certo che c’è violenza nel mondo, ma c’è come c’è quell’ultimo orizzonte che non possiamo trascendere. Ci appartiene la violenza, è in noi, sempre di nuovo la evochiamo, basta un niente ed ecco esplode, come se un fondo sub umano ci abitasse, come se da questa brutalità naturale noi provenissimo, come se appunto questo fondo sub umano, questa brutalità naturale, sempre pronta ad esplodere, costituisse un orizzonte intrascendibile. Non è forse vero che veniamo di lì, non ci dice la scienza che veniamo dalla “selva antiqua?” Dallo stato di natura? E che cos’è lo stato di natura se non lo stato in cui la violenza ci fa simili, anzi identici, a quegli esseri che abitano la natura e l’abitano inconsapevolmente, producendo la violenza appunto come produzione inconsapevole di quella volontà di vivere che abita tutti gli esseri naturali? Sembra essere questa la grande parola della filosofia moderna e poi contemporanea, perchè troviamo in essa quasi un vero e proprio ritornello: il risalimento all’origine è precluso, la filosofia pensa a partire da una situazione, da un trovarsi ad essere in un certo modo, a partire da cui soltanto il pensiero è pensiero. Che cosa significa risalire alle origini, ipotizzare fondamenti ultimi? Tutto questo appartiene all’ontoteologia cioè alla pretesa appunto di ragionare ricostruendo il fondamento, la ragione ultima di tutte le cose, in una parola l’origine, quell’origine che non è, o meglio non è se non nella forma che ci è data, e di cui noi facciamo esperienza sapendo di essere quello che siamo, ossia esseri naturali che dallo stato di natura provengono e che nello stato di natura trovano una sorta di ultimo orizzonte, di estremo confine intrascendibile, assolutamente intrascendibile. Da questo punto di vista abbiamo la parola di Hobbes da una parte( lo stato di natura), e la parola di Rousseau dall’altra( lo stato di natura come 1   stato di pura violenza che si tratta di controllare attraverso un patto, i cui contraenti autolimitano la propria libertà in nome del controllo di ciò che è dato: lo stato di natura). Da una parte Hobbes( il Leviatano), e dall’altra Rousseau dicono la stessa cosa anche se sembrerebbero dire due cose completamente diverse. Che cosa dice Rousseau? Dice che lo stato di natura non è il regno del Leviatano, il regno della violenza, è il regno della gioia, è il regno della libertà, è il regno della giustizia. Eppure dicono la stessa cosa. Che cosa? Dicono che quello, lo stato di natura, è un orizzonte che non possiamo trascendere. Lì ci troviamo a vivere. Che questo stato di natura sia uno stato di violenza, o che questo stato di natura sia uno stato tornando nel quale noi ci liberiamo dalla violenza stessa, in definitiva è la stessa cosa, perché è questo stato, questa condizione intrascendibile, e non possiamo affacciarci, per così dire, sulla soglia, su questo stesso orizzonte, e guardare al di là e chiederci: “ Ma noi da dove veniamo? Chi ci ha gettati qui?” O nella lotta o nella gioia edenica: domanda senza senso. Risalire non è possibile. L’orizzonte è chiuso. La violenza non è nient’altro che questo, quella violenza di cui ci parlano anche le cronache, ma che noi conosciamo anzitutto in noi stessi, perciò della violenza non resta che prendere atto come qualche cosa che è connaturato, stato di natura appunto, e che non ci resta che controllare. Sempre di nuovo l’uomo ricade nella violenza, sempre di nuovo l’uomo deve, se non liberarsene totalmente, elaborare delle strategie di controllo. Auschwitz non deve più accadere e invece è accaduto e probabilmente sempre di nuovo accadrà. Questo lo sappiamo, lo sappiamo nei nostri giorni violentissimi, crudelissimi. Su questo non possiamo chiudere gli occhi: sul fatto che Auschwitz sempre di nuovo accade, che sempre di nuovo l’uomo cade dentro quello stato di natura dal quale proviene e dal quale non può evadere. E’ la parola più dura della filosofia contemporanea, nascosta spesso dentro strategie di pensiero molto sofisticate, molto raffinate, ma che questo dicono: l’intrascendibilità della nostra provenienza, dell’orizzonte dal quale proveniamo, tanto è vero che sempre di nuovo cadiamo dentro a questo orizzonte. Difficile immaginare, appunto, una risposta più cupamente ateistica e nichilistica di questa, ma anche più vera, con una sua verità che sembrerebbe difficilmente controvertibile. Non è forse vero che la violenza è in noi, che veniamo di lì? Non ci dice la scienza che in noi ci sono forze che se non teniamo sotto controllo fanno di noi, di chiunque di noi, il peggiore dei delinquenti, e che ciascuno ha in sé questa virtualità negativa e terribile? Ciascuno di noi. Lo vediamo, non solo per le guerre, ma per i casi che la vita ci mette sotto gli occhi: gli adolescenti che uccidono i genitori, il mobbing tra le persone, questo bisogno di farsi reciprocamente male, che cos’è questo se non una radice? Maligna, ma nello stesso tempo naturale, maligna, ma in questa prospettiva senza nessuna ascendenza teologica, perché appunto è lo stato di natura dal quale proveniamo, dentro il quale sempre di nuovo ricadiamo in quanto l’orizzonte è intrascendibile. Che questo sia detto nei termini di Hobbes, o sia detto nei termini di Rousseau, che a partire da Hobbes si elaborino teorie dello stato come strumento, il solo che l’uomo ha per tenere sotto controllo la violenza, che a partire da Rousseau si elaborino invece teorie della emancipazione, della liberazione, del ritorno alla natura, però questo ci dice l’intrascendibilità dello stato di natura. E’ una tesi che ha mille sfaccettature naturalmente, ma molto forte. A questa tesi della intrascendibilità radicale dello stato di natura io credo ci sia una sola obiezione, ma forte, altrettanto forte che la tesi stessa. E questa obiezione è che la violenza dell’uomo sull’uomo, quella violenza che fa dell’uomo un bruto, che lo ricaccia sempre di nuovo nella brutalità dello stato di natura, questa violenza è sempre qualche cosa di più, è sempre qualche cosa di meno che espressione dello stato di natura. Questa è la vera obiezione. E cioè, che cos’è? E’ cosa umana. La violenza fatta dall’uomo non è infatti assolutamente assimilabile alla violenza fatta dall’animale, da una tigre, da un leone feroce. La ferocia che emerge, che affiora, e che trasforma un essere umano in un animale 2   è altra cosa, non è vero che trasforma l’essere umano in animale ( questo è un modo di dire assolutamente sviante, falsificante, anche se sembra corrispondere all’esperienza che ciascuno di noi fa ), questa violenza è altra cosa, perché la violenza dell’uomo ha, per così dire, un segno, una segnatura, quella signatura rerum di cui parlavano gli alchimisti che la vedevano nelle cose stesse, quasi le cose fossero portatrici di simboli entrando in contatto con l’uomo. Ecco, la stessa cosa vale per la violenza umana: essa ha una segnatura che ne fa qualcosa di altro rispetto alla violenza dell’animale, di radicalmente altro, di ontologicamente altro. Perché la violenza dell’uomo non è assimilabile a quella dell’animale? Perché la violenza dell’uomo ha qualcosa come un valore aggiunto, e il valore aggiunto è quello che ci mette l’uomo stesso. Pensate all’uomo, al soldato che uccide, deve farlo, lo fa per difendersi, pensate alla violenza che esplode in una situazione apparentemente normale: sempre c’è qualche cosa di più e di diverso che l’espressione di una aggressività volta a raggiungere uno scopo, raggiunto il quale la stessa violenza, per così dire, ritorna in una quiete, in una pace, la pace del leone che ha divorato la gazzella e si ritrova in pace con sé stesso e con la natura. La violenza dell’uomo, quale che sia, giustificata o non giustificata, ( ma appunto la parola giustificazione è povera) , sempre ha questo valore aggiunto: e il soldato sente il bisogno, ahimè, spesso di sottolineare questo valore aggiunto , irridendo il nemico. Questo è nell’Iliade, come nella cronaca di oggi, di ieri e dell’altro ieri. Nell’Iliade, quando Achille strazia il cadavere di Ettore, sente il bisogno di straziarlo sotto le mura di Ilio, sotto gli occhi delle persone care: ecco quel di più, ecco ciò che fa della violenza umana qualche cosa di radicalmente umano. Nel soldato che aggredisce e umilia l’aggredito, il vinto, il nemico vinto, stuprando la sua donna, per esempio, non c’è mai una pura e semplice espressione pulsionale di qualche cosa, come un bisogno bestiale o animalesco, c’è invece il desiderio di segnare ( parlavo prima di segnatura, di valore simbolico) , c’è il bisogno di umiliare, c’è, in altre parole, l’impossibilità di ricadere nella quiete della violenza che ha raggiunto il suo scopo. Allora, se la violenza dell’uomo non è assimilabile alla violenza della natura, se questo valore aggiunto fa sì che la violenza dell’uomo riveli una sua irriducibilità all’ordine naturale delle cose, allora non è vero che lo stato di natura non può essere trasceso, non è vero che non è possibile affacciarsi sull’ultimo orizzonte e chiedersi: “ Ma da dove vengo io?” Allora non basta dire: “ Io vengo da lì, cioè dalla natura e dalla sua brutalità, io vengo da un altrove”. E’ una contraddizione, perché, se vogliamo dirla con una formula filosofica, la intrascendibilità dello stato di natura chiede di essere trascesa. Il riconoscimento che di lì vengo, che sono impastato di quella pasta, che sono fatto di quel fango, che in me agiscono forze brutali, bestiali, non basta. Non basta perché quelle forze dicono non soltanto la mia provenienza dallo stato di natura, ma da un al di là, che non so che cosa sia, che la filosofia non può dire naturalmente, ma deve cercare. Non mi basta riconoscermi parte della natura, perché questo mio riconoscimento fa cenno, sia pure nella forma della contraddizione, ad un altrove, come se io fossi caduto, come se io di là venissi, e come se soltanto questo movimento potesse spiegare il valore aggiunto che è nella violenza. Ho fatto due esempi, di due grandi filosofi della modernità, Hobbes e Rousseau, i teorici della intrascendibilità dello stato di natura. Farò altri due esempi di grandi filosofi della modernità i quali sostengono quello verso cui sto cercando di condurvi e cioè che l’intrascendibilità dello stato di natura è contraddittoria. Certo l’uomo, con le sue categorie, con i suoi concetti, con ciò di cui dispone, non può uscire dall’orizzonte in cui è venuto a trovarsi, ma patisce, soffre, vive questo suo trovarsi in un orizzonte che è come un carcere per lui, appunto come un essere cacciato lì dentro. Diceva Pascal: “ Io mi guardo intorno, e tutto è confusione, un orribile caos, cerco Dio, ma Dio tace ( il silenzio di Dio), e non solo Dio tace, ma tutto è terribilmente silenzioso, e il silenzio degli spazi infiniti è eterno. Che cosa mi resta, se voglio in questo orribile 3   caos muovermi e sopravvivere? Che cosa mi resta da fare? Prendere atto che le cose stanno così, seguire le leggi del mio paese. Già, ma le leggi del tuo paese sono esattamente l’opposto delle leggi del paese accanto. Che fare? Questa è appunto la prova del caos in cui versiamo. Ma il mio sovrano mi ha ordinato di uccidere quello che sta al di là del fiume. E perché? Perché sta al di là del fiume. Ma è una ragione questa? Eppure lo devo fare, perché, se non mi attenessi alle leggi del mio paese, cadrei in un disordine ancora più grande, non vivrei più”. L’abbiamo visto: l’unica forma di sopravvivenza è quella garantita dall’accettazione dello status quo. Dice: “ Ma io mi guardo intorno. Questo è giusto, che cosa è sbagliato? Nulla è giusto, nulla è sbagliato, tutto lo è. E infatti non c’è atto, non c’è gesto, non c’è comportamento umano, anche il più abietto, che non abbia trovato il suo altare. Sull’altare è stato messo l’incesto, sull’altare è stato messo l’omicidio, sull’altare è stato messo il furto, e così via. Un orribile caos, è quello nel quale l’uomo naturaliter viene a trovarsi: intrascendibilità dello stato di natura”. Ecco allora la contraddizione, ecco il passo in più che fa Pascal: l’intrascendibilità dello stato di natura è inaccettabile, l’intrascendibilità dello stato di natura non può essere vissuta se non come una condanna, e quale maggiore condanna che quella di chi vede che ogni atto, anche il più nefasto, il più delittuoso, ha trovato il suo altare? Quale condanna peggiore di chi constata che è costretto a compiere atti profondamente ingiusti e tuttavia giustificati? “ Vai, uccidi”. “ Perché?” “Perché il tuo sovrano te lo ordina”. Ed è giusto così, o meglio giustificato così, pena un disordine ancora maggiore. Questa è una realtà che non si può non accettare, una realtà che ci dice il nostro essere vincolati ad essa, l’intrascendibilità dello stato di natura, ma una realtà nello stesso tempo vissuta come iniqua, come inaccettabile: non la posso che accettare, ma è inaccettabile. Ecco la contraddizione, e se volessimo dirla filosoficamente, dovremmo dire: “l’intrascendibilità dello stato di natura impone il suo trascendimento”. Da dove vengo io? Da quale paradiso perduto, se soffro così tanto all’interno di una situazione per la quale non vedo via d’uscita? L’intrascendibilità chiede di essere trascesa. Qui la filosofia deve tacere, la filosofia non può che aprirsi ad una dimensione altra. E’ una risposta, come vedete, ben diversa da quella di Hobbes, ed anche da quella di Rousseau. Nasce da Pascal una filosofia religiosa, laddove da Hobbes e da Rousseau nasce una filosofia irreligiosa. Le fedi private dell’uno e dell’altro non sono più in questione, ma è profondamente irreligiosa una filosofia che dice: “ La violenza c’è e non resta che tenerla sotto controllo. Noi non possiamo guardare al di là”. E’ una filosofia profondamente irreligiosa quella che dice che la violenza c’è perché c’è la società. Togliamo questo elemento storico sociale, che inquina, con gli apparati repressivi che la società mette in atto, liberiamoci da tutto ciò, e ritroviamo quella gioia che è lo stato originario dell’uomo: filosofia, in entrambi i casi, con tutte le loro propaggini, da Rousseau a Marcuse, oppure da Hobbes a Smith, filosofia profondamente irreligiosa quella dell’intrascendibilità dello stato di natura, laddove è filosofia profondamente religiosa quella di un Pascal che dalla stessa intrascendibilità ricava, attraverso la contraddizione, l’idea di non poter non trascendere. Anche Vico, che viene spesso interpretato, e giustamente, come il padre dello storicismo, ma è anzitutto teologo cristiano, dice la stessa cosa, cent’anni dopo Pascal, e la dice attraverso l’idea che la menzogna in cui l’uomo si trova a vivere sia l’illusione che “ omnia Iovis plena” , che gli alberi siano dei, che tutto gli parli, che l’universo sia animato da presenze. Se un fulmine cade nella selva antiqua e apre la radura e l’ uomo si illude che un dio gli abbia parlato, non è vero, è un’illusione, è pura idolatria credere che lì si sia avuta una epifania, e tuttavia questa che è la condizione idolatrica che l’uomo non può trascendere. Vico dice: “ Cos’è più vero? Lo stato di natura, dove l’uomo è e non è se non cacciatore e preda? Oppure lo stato di cultura?” Quello stato di cultura che l’uomo costruisce in base ad una simulazione, cioè in base ad una menzogna, illudendosi che gli dei gli abbiano parlato e 4   sulla base di questo messaggio, di questa rivelazione, costruisce appunto le istituzioni, le famiglie, gli stati, la cultura, insomma. Che cos’è più vero? E’ il puro e semplice abitare la natura come l’abitano i bruti, brutalità dello stato di natura, oppure è, attraverso la finzione, diventare uomini? Accedere ad una verità propriamente umana? Anche lì, attraverso la contraddizione, l’uomo è costretto a vedere nella natura una sorta di deiezione, di caduta. Da dove? La filosofia non lo dice, lo dice la rivelazione. Come vedete queste sono ipotesi molto diverse, opzioni filosofiche che sono alla radice del mondo moderno. Voi vi chiederete: “ Tutto questo che cosa c’entra con Eros ethos?” C’entra perché c’entra la contraddizione. E’ la contraddizione che dobbiamo cercare, che dobbiamo interrogare, per capire appunto se noi siamo consegnati ad un destino umano e soltanto umano o se invece questa stessa umanità del nostro destino impone un trascendimento della condizione nella quale ci troviamo: dobbiamo cercare l’origine, ciò che è in principio ma anche ciò che è, per dirla con sant’Agostino, “intimior intimo meo”, più intimo a me stesso di quanto non lo sia io a me. Come sappiamo, Agostino identificava Dio con questo movimento, con l’intimior intimo meo: è Dio che è più intimo a me di quanto io non lo sia a me stesso. Potremmo, parafrasando Agostino, vedere precisamente nel nodo di contraddizione che nello stesso tempo lega e separa eros ethos qualche cosa che può essere definito negli stessi termini. Che eros ed ethos si contraddicano, o meglio si oppongano( l’opposizione e la contraddizione sono due cose diverse) lo so bene, che eros ed ethos si oppongano è cosa abbastanza ovvia. Che cosa indica eros se non l’immediatezza, diciamo pure la gioia di vivere, quella gioia di vivere che non ammette ostacoli di nessun tipo, che chiede soltanto di essere espressa? Eros i Greci, e non soltanto i Greci, lo presentavano come un fanciullo, la divina innocenza, eros come espansione vitale, o per dirla con Kierkegaard come vita immediata, vita che non dà ragione di sé, e noi diremmo oggi ( figli volenti o nolenti, tutti figli di Freud ) “vita pulsionale”, e le pulsioni sono le pulsioni, il bene e il male appartengono ad un altro ordine, ad un’altra dimensione. Ethos è il contrario. Ethos è il “Tu devi”. Ethos è la serietà della vita. Ethos è il dover rispondere di tutto nei confronti di tutti, o quanto meno di sé nei confronti di coloro coi quali si è stretto un patto. Quale opposizione maggiore che quella tra eros ed ethos? Tra l’immediatezza e la mediazione? Tra la libera e gioiosa espansione di sé che non dà ragione, perché è quello che è, è vita immediata, tra la gioia, se vogliamo dire così, e la serietà della vita, ossia il “Tu devi”, questo sì e questo no, perché tu devi rispondere di te nei confronti di tutti gli altri? Ma appunto siamo ancora sul piano dell’opposizione, non ancora della contraddizione. Per scorgere la contraddizione dobbiamo renderci conto che c’è dissidio, cioè c’è intima opposizione sia in eros, sia in ethos. Ed è solo a partire da un’analisi separata delle due forme di esperienza, esperienza erotica ed esperienza etica, che capiremo come l’opposizione diventi una vera e propria contraddizione e capiremo come la contraddizione che abita in ciò che è “intimior intimo meo”, così prossimo a noi da costituire davvero la nostra anima, la nostra carne ( e che cosa se non eros ed ethos? ), come la contraddizione sia proprio in questa prossimità. Ma lo scopriremo appunto esaminando separatamente le due forme. Perché c’è opposizione in eros? L’abbiamo definito come gioioso, libero, come espressione di una vitalità che non conosce ostacoli. Non è forse vero che eros è trasgressione? Ma non carichiamo subito questa parola di un significato morale: no, siamo prima, siamo al di qua della morale. Parliamo dunque di trasgressione nel senso letterale del termine, nel senso di una spinta, di un movimento teso a rompere tutti i vincoli. Quindi siamo ancora sul piano di una fenomenologia che non chiama in causa la morale. Eros è questo transgredior, questo superare il limite che eros stesso pone a sé stesso per essere quello che è. Cosa c’entra la morale con eros, se eros è questo? Come è pensabile un intimo dissidio di eros con eros? I Greci lo hanno pensato. Quando ci troviamo di fronte a queste difficoltà, definita filosoficamente la categoria, 5   sembrerebbe non si dovesse più procedere oltre, invece sappiamo che l’esperienza erotica è molto più complessa, che non è questa pura e semplice, come qualcuno vorrebbe, espressione pulsionale di sé che non dà ragione di sé, bensì un’esperienza terribilmente complessa. E allora come la mettiamo? La filosofia ci dice che è trasgressione, movimento libero verso la liberazione da tutti i vincoli. Il mito, e di nuovo la religione, ci dice che è cosa molto, molto più complessa. E come avevano rappresentato questa complessità i Greci? Attraverso i miti, come sappiamo. I miti sono questo: servono a dire delle cose che la filosofia non riesce a dire, o che il linguaggio comune non riesce a dire. Ci sono tanti miti nella cultura greca che parlano di eros, infiniti, ma non soltanto nella cultura greca, anche in quella indiana, anche in tante altre. Ma alcuni in particolare: intanto quello che identifica eros con Fanes Protogono. Chi è Fanes Protogono? Fanes Protogono è qualcuno, qualche cosa che viene prima della stessa formazione del mondo, e quindi del costituirsi di figure archetipiche nel mondo che sono gli dei; Fanes ( “ fainetai”) è questa accensione originale che fa sì che il mondo, che era, secondo il mito di Fanes Protogono, tutto raccolto in un nucleo simile ad un punto ( pensate a quale profondità di intuizione erano arrivati i Greci), per questa improvvisa accensione si spacchi, si scinda come sotto una spinta, una forza assolutamente sorgiva, che non è governata da figure archetipiche, dagli dei, ma che è assolutamente iniziale. Questa realtà tutta compressa, tutta compresa in un unico punto, per così dire a seguito di questa cosiddetta accensione, esplode, e questa esplosione dà luogo alla terra e al cielo, perciò la terra e il cielo, a partire da questa esplosione, non potranno che sempre di nuovo cercare di ricongiungersi. Urano e Gea, il cielo e la terra, originariamente uniti, a seguito della esplosione cercano di ricongiungersi, grazie a eros, Fanes Protogono, cioè il principio primo, il principio originariamente generatore, che è la luce. Eros è questa accensione, questa forza ricongiungente dei due. Dentro questo mito che cosa scopriamo? Il carattere assolutamente non morale di eros. Eros è quello che è, non è neppure un dio, è luce, è manifestazione, è pura forza esondante, quella pura forza esondante che ciascuno di noi prova in sé, nelle varie forme in cui eros si manifesta, che, come sapevano i Greci, sono infinite. Basta leggere il Simposio per capire come Platone sapesse delle varie forme di eros. Ma che cosa accade? Accade qualche cosa di tremendo, il tremendo che è in eros: accade che nel momento in cui la terra e il cielo si scindono in due, in una sorta di mattino del mondo nasce Afrodite che è la dea dell’amore, che è la dea, a seguito di questa vicenda, chiamata a incarnare, a personificare, la forza originariamente creatrice. Ma chi è Afrodite? E’ la dea della doppiezza, e i poeti greci così l’ hanno descritta: è la dea della felicità, della gioia, della gioia di vivere che non dà ragioni di sé, è la dea al di là del bene e del male, è la dea al di qua del bene e del male. Ma Afrodite è anche la dea che nasconde il tremendo da cui proviene, tanto è vero che lo stesso mito greco ci parla di questo mattino del mondo: e cosa c’è di più bello che il sorgere di Afrodite dalla spuma del mare, che cosa c’è di più innocente, di più incantevole? E tuttavia quella spuma del mare è memoria di un atto di sangue: la spuma del mare è il sangue stilato, e anzi sangue- liquido seminale, stilato dal sesso di Urano, castrato dal suo stesso figlio. Capite che cosa dicono i Greci? Che cosa tiene insieme nell’idea di eros l’uomo greco? Gli opposti: l’innocenza, la perfezione in quanto è l’emergere della vita da sé stessa, la vita che non dà ragione di sé, la vita che è quello che è, al di là del bene e del male, tuttavia su uno sfondo cupo di sangue. Il fanciullo innocente è nello stesso tempo colui che ha memoria del tremendum, con buona pace dei teorici, quanti sono oggi, delle emancipazioni a buon mercato: “Liberatevi dai tabù, abbandonatevi!” Tutte cose belle, per carità, non voglio dire che non ci si debba anche liberare dai tabù, però le cose sono un po’ più complicate: la liberazione( tesi) è necessaria, e tuttavia sta a fronte( antitesi) di qualche cosa come gli orrori delle origini. Quando ci si interroga sul fatto, sul rapporto eros e violenza, per esempio, perché chiudere gli occhi di fronte a 6   questa che è realtà umana, più che umana? Bisogna pensare come hanno pensato i Greci, o come hanno pensato gli Indiani in modo forse meno cupo, in modo meno metafisico, ma altrettanto espressivo, con la figura della donna che volge lo sguardo, dell’amante che raggiunge l’amato ( che è un tema iconografico di molta arte indiana, di molta arte erotica dell’India ), della donna che si butta nel fiume per raggiungere l’amato, ma volge lo sguardo, e questo sguardo è pieno di malinconia per tutto ciò che lascia: siamo fatti di una irriducibile doppiezza, ci dice il mito. Certo che è necessario gettarsi, raggiungere l’amato, ma non ci è dato di farlo ( è la dinamica della trasgressione ), se non volgendo lo sguardo verso tutto ciò che abbiamo perso, che stiamo perdendo, che potrebbe essere la rottura del patto. E questo che cosa vuol dire? Vuol dire che eros, l’innocenza stessa, in modo del tutto contraddittorio, si lega al suo contrario, a qualcosa come la colpa: ecco come eros è portatore di una contraddizione. Ma lo stesso vale per ethos. Ethos è in sé stesso contraddittorio, e sono ancora una volta i Greci che ci dicono questo. Della profondità del mito greco si era accorto Aristotele, per primo, che io sappia, quando, guardando al mito, ha scoperto che la parola greca ethos ( da cui etica, naturalmente, ) si dice in due modi, o meglio si dice in un modo solo ma si scrive in due ( è una anomalia del Greco che forse non ha altri esempi così clamorosi ): ethos in greco si scrive con la ipsilon, e con la eta, e se scritta con la ipsilon vuol dire una cosa, se scritta con la eta vuol dire un’altra cosa, o meglio, vuol dire la stessa cosa , ma un po’ diversa . Se scritta con la eta , ethos fa riferimento alla dimora, alla casa. E allora che cos’è ethos? Ethos è la convenzione, sono gli usi, i costumi, le abitudini, da cui abitus, le virtù, come abiti che indossiamo che ci portano a compiere certe cose, a comportarci in un certo modo. Ma perché ci comportiamo in un certo modo? Perché siamo stati educati, perché abbiamo accolto in noi, essendo stati accolti da una comunità e cioè dalla casa anzitutto, quelle leggi, quei comportamenti, quel modo di vedere, che è proprio di ethos con la eta. Qui a essere privilegiato è il riferimento al sentire comune, alla comunità: ethos come appartenenza ad una comunità, che mi impone di non pensare tanto a me stesso quanto agli altri, di riconoscermi all’interno di una tradizione e così via. Ma se io lo scrivo con la ipsilon, allora vuol dire carattere, che appartiene a me, è solo mio : l’ethos è il mio demone, è qualche cosa che mi dice: “ Tu devi fare questo”. “No”. “ Ma sei contraddetto da tutti, non è accettabile che tu non faccia questo, la società ti condanna”. “ Che mi importa, lo devo fare, perché so, ma in base a quale sapere?” “In base ad un sapere demonico, cioè che non dà ragioni di sé. Sapere di cui io mi faccio carico, costi quello che costi”. Guai se ethos fosse solo sapere demonico, se fosse solo carattere, perché allora l’etica sarebbe una cosa terribile, sarebbe cosa tragica, darebbe luogo a scontri senza fine, senza un terzo che faccia da medio, se è giusto quello che io sento giusto. L’io, la coscienza: se ethos fosse solo questo sarebbe terribile. Ma guai se ethos fosse soltanto quell’altro: abitudine, tradizione, leggi e così via. Facciamo il caso che la società alla quale appartengo, nella quale mi riconosco, mi condanni legalmente e in base a dei principi riconosciuti come giusti, mi condanni per esempio a essere deportato. Immaginate un’ etica che sia soltanto etica pubblica, un’ etica della tradizione condivisa, immaginate di togliere a me o a chi per me il diritto di dire no, anche se la società alla quale appartengo mi condanna, di rivolgermi al mio Dio, per invocarlo, o per bestemmiarlo, dicendo:” Non è giusto”. Non dimentichiamo mai Auschwitz, ma non dimentichiamo mai che tutto quello che è accaduto in quegli anni è accaduto legalmente: le deportazioni erano leggi dello stato tedesco, non si tratta di qualcosa avvenuto nascostamente, bensì di leggi dello stato tedesco. L’etica che fosse soltanto l’etica, la casa della comunità di appartenenza, della polis, dello stato, potrebbe non essere un’etica a sua volta monca, terribilmente manchevole? Già, ma come fanno a stare insieme ethos ed ethos, ethos con la eta e ethos con la ipsilon? Come far stare insieme le leggi della pietà, per esempio, come sa bene Antigone, e le leggi 7   della città? Le leggi di coloro che stanno sotto la luce del sole e le leggi sotterranee, degli dei, che stanno sotto? Contraddizione, la contraddizione di ethos. Voi direte, ma che cosa c’entra questo discorso con la violenza? E’ lo stesso discorso. In che senso? Abbiamo visto, e mi avvio alla conclusione, come la violenza sia un dato di natura, anzi, è la natura che è in noi, è uno stato, tanto è vero che si parla di stato di natura: è quell’emergere di forze oscure, che ci riportano al luogo da cui proveniamo, che è la selva. E’ la linea maestra del pensiero moderno e contemporaneo, e abbiamo visto che non basta dire questo. Le cose non stanno così, perché qui c’è una contraddizione . La contraddizione è sollevata dalla affermazione che la violenza dell’uomo sull’uomo è sì qualche cosa che lo accomuna alla bestia feroce, ma nello stesso tempo è qualche cosa che lo rende irriducibilmente diverso dalla bestia feroce. La violenza è sì cosa che implica la non trascendibilità dello stato di natura, ma questa non può che essere vissuta come condanna che implica il trascendimento. Lo stato di natura è uno stato che io posso pensare solo come stato di gettatezza, avrebbe detto Heidegger. Senonché per Heidegger la gettatezza, la deiezione, il mio trovarmi come gettato in questo mondo, non ha più né capo né coda, non ha più un da dove sono gettato e un verso dove vado. E in questo senso Heidegger in fondo resta all’interno della tradizione tipicamente moderna che ritiene intrascendibile questo stato. Non così là dove questo stato venga vissuto, venga letto, nel suo valore simbolico. Lo dice bene Pascal: “ Tutto è simbolo, quella natura caotica, così confusa, non fa che ricordarmi che questo non può essere il mio mondo, è il mio mondo e per viverci lo devo accettare, e tra questo mondo, e l’infinito, e l’assoluto, un abisso mi separa: non c’è verso, filosoficamente, di costruire un ponte tra il qui e ora, il qui di leggi contraddittorie, e l’origine. Tuttavia, in questo mondo io vivo come uno straniero, come uno che è stato gettato da un altrove, la cui chiave la possiede non la filosofia ma la religione: la caduta, il peccato originale.” Lo stesso discorso vale per la contraddizione, il rapporto contraddittorio di eros ed ethos. Noi vorremmo potere riferirci, così come nel caso della violenza ci siamo riferiti, a qualche cosa di ultimo, qui riferirci a qualche cosa di primo, eros ethos, di prossimo, di propriamente nostro a cui ancorarci, vorremmo poterlo fare. E che cosa se non ancorarci a eros, se non ancorarci a ethos? E’ esperienza che tutti fanno, se pure in forme molto diverse: l’esperienza che vorremmo gioiosa di eros e seria di ethos, e lì restare, restare in questa prossimità, in questa intimità di noi con noi stessi, in definitiva rassicurante. Eros è la gioia: “ Abbandonati”; ethos è il dovere: “ Rispetta”. Già, ma questa intimità, di noi con noi stessi, è contraddittoria, ovvero “intimior intimo meo”. Nel punto in cui noi ci troviamo più intimi con noi stessi, noi siamo per così dire scavalcati, trascesi da un movimento che fa cenno a qualche cosa che è assolutamente altro rispetto a questa pretesa di raccoglierci in una certezza, la certezza di eros e la certezza di ethos. Tanto è vero che non solo eros ed ethos stanno tra loro in opposizione, ma è una opposizione contraddittoria perché il dissidio è sia nella forma dell’esperienza erotica, sia nella forma dell’esperienza etica. “Intimior intimo meo”: qui davvero varrebbe la pena di parafrasare Agostino, e ricordare che nel momento in cui io sono più prossimo a me stesso in realtà sono infinitamente lontano, sono per così dire costretto a trascendere, trascendere me stesso.Sergio Givone. Givone. Keywords: phanes, eros/ethos; phanes protogono, convito di platone, pareyson. storia naturale dell nulla, unelongated history of negation;  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Givone” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755894963/in/dateposted-public/

 

Grice e Gobetti – il partito liberale italiano – il partito socialista italiano – filosofi contro il regime --  (Torino). Filosofo. Grice: “Italian philosophy is political in a way pinko Oxonian one ain’t: Gobetti is the exception that DISproves the rule!” -- “Lo Stato non professa un'etica, ma esercita un'azione politica.” (La Rivoluzione Liberale.)  Considerato un degno erede della tradizione filosofico-politica post-illuminista e liberale che aveva guidato molte delle migliori menti dell'Italia dal Risorgimento fino a poco tempo prima, purtuttavia di stampo profondamente sociale e sensibile alle istanze del socialismo e di conseguenza alle rivendicazioni del movimento operaio, fondò e diresse le riviste Energie Nove, La Rivoluzione liberale e Il Baretti, dando fondamentali contributi alla vita politica e culturale, prima che le sue condizioni di salute, aggravate dalle aggressioni subite, ne provocassero la morte prematura a nemmeno 25 anni durante l'esilio francese. Gaetano Salvemini «Era alto e sottile, disdegnava l'eleganza della persona, portava occhiali a stanghetta, da modesto studioso: i lunghi capelli arruffati dai riflessi rossi gli ombreggiavano la fronte. (Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di Gobetti»,). Figlio unico di Giovanni Battista, commerciante, e di Angela Canuto, una «piccola donna bruna e tonda, gentile e modesta, capace tuttavia non solo di grande abnegazione per il figlio unico che adorava, ma anche di strenuo lavoro e di sagace giudizio». I suoi genitori, originari entrambi di Andezeno, avevano aperto nel capoluogo piemontese una drogheria nella centrale via XX Settembre. “Mio padre e mia madre avevano un piccolo commercio. Lavoravano diciotto ore al giorno. Il mio avvenire era il loro pensiero dominante. L'impegno del loro lavoro era di arricchire permettersi e permettermi una vita dignitosa. In quanto a me pensavano di dovermi dare un'istruzione, quella che essi non avevano potuto avere.” Dopo gli studi elementari presso la scuola Giacinto Pacchiotti, s'iscrive al ginnasio Cesare Balbo: scrive di sé di quegli anni, in terza persona, che «gli pesava un'amarezza, uno sconforto, che nei ragazzi di dodici anni segnano inquietudini fruttuose. Si vedeva troppo poco stimato, troppo solo, troppo malsicuro del domani. Aveva dei dubbi strani sulle sue stesse attitudini. Un'adolescenza che s'ispirava a motivi così integrali doveva dargli una tragica forza. Trasferitosi poi presso il liceo classicoVincenzo Gioberti, dove conosce Prospero, sua futura moglie, ha per professori Cosmo e Giuliano, un gentiliano che collabora alla rivista L'Unità  Salvemini. Questi gli ispira quei sentimenti di patriottismo e di interventismo democratico che sono propri del Salvemini, spingendolo ad anticipare di un anno l'esame di maturità per poter così andare, libero da impegni, volontario nella prima guerra mondiale. Luigi Einaudi La guerra è ormai conclusa s'iscrive a Torino, la stessa che egli aveva già frequentato, ancora liceale, per seguirvi alcuni corsi di filosofia. Tra i suoi insegnanti vi sono Einaudi, da cui «rafforza il suo primitivo, spontaneo anti-statalismo, in cui s'incontrano liberalismo, liberismo e quello stesso libertarismo che gli è congeniale --, Farinelli, Mosca, Prato, Ruffini e Solari, con il quale sosterrà la tesi di laurea, “La filosofia politica di VAlfieri.  Non solo: a settembre aveva scritto all'amica Ada di aver deciso di fondare un periodico che s'occuperà di filosofia, questioni sociali è fatto di soli giovani si tratta di opera di intensificazione di cultura e di azione e tutti i giovani devono aiutarla. Esce il primo numero del quindicinale “Energie Nove” nel quale scrive di voler «ortare una fresca onda di spiritualità nella gretta cultura di oggi non c'è mai momento inopportuno per lavorare seriamente.  Ispirata alle idee liberali di Einaudi, è vicina all'Unità di Salvemini, del quale riporta, nel secondo numero, l'aspra critica alla classe dirigente. L'Italia ha vinto. Ma se avesse avuto una classe dirigente meno incolta, più consapevole delle sue tradizioni e dei suoi doveri, meno avida moralmente, l'Italia avrebbe vinto assai prima e assai meglio. È finita o sta per finire una guerra. Ne comincia un'altra. Più lunga, più aspra, più spietata. L'altra «guerra più lunga e spietata è quella della riforma del Paese, una riforma che dev'essere, nelle sue intenzioni Gobetti, innanzi tutto culturale e morale, e per la quale occorre serietà e intensità al lavoro secondo i motivi di quellidealismo militante che ha animato La Voce di Prezzolini, altro nume ispiratorei.  Era doveroso partecipare in prima persona al dibattito politico e intellettuale contemporaneo. Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di Piero Gobetti. Sospende la pubblicazione della rivista per poter partecipare, a Firenze, al I Congresso degli Unitari, i sostenitori della rivista di Salvemini, della quale egli è fondatore e rappresentante del Gruppo torinese. Può così conoscere di persona l'intellettuale pugliese e ne è entusiasta. “Salvemini è un genio.” “Me lo immaginavo proprio così. L'uomo che sviscerale questioni, che la fa smettere agli importuni e ti presenta tutte le soluzioni in due minuti, definitive.” “Un'altra persona di cui sono entusiasta è Prezzolini, franco, semplice, pratico.” “Editore propriamente come lo pensavo io.” “L'editore più intelligente d'Italia.” A seguito del Congresso, gli Unitari fondano la Lega democratica per il rinnovamento della politica nazionale, una formazione politica che non riuscirà nemmeno a presentarsi alle elezioni e avrà vita breve. Alle elezioni politiche dell'anno seguente, Salvemini si candiderà con successoin una formazione di ex-combattenti.  Salvemini deve aver compreso le qualità di Gobetti se arriva a offrirgli la direzione de L'Unità, una proposta che però, lascia cadere. Non si sente pronto per tanto impegno, come scrive nel suo diario: “Com'è vasta la cultura che devo conquistare!” E non basta conquistare il vecchio. Sono giovane e devo anche produrre, creare quel po' che si può creare. Ho tutta la vita davanti per sedermi in campagna, davanti al camino, a mangiare pane e noci. Ho una responsabilità. Devo espormi in prima persona. Perciò faccio la rivista. Voglio impormi nel lavoro». E s'impone un piano di studi. “Gentile, ciò che non conosco ancora, rileggerò Croce avvierò lo studio del Marxismo. Per ora non mi preme. Basta che mi formi un'idea generale di Marx e della critica marxista (Sorel, Labriola, ecc.). “D'altra parte studio il bolscevismo, minutamente». Un suo grande ispiratore fu certamente il socialista Jaurès.   Il primo numero di Energie Nove Queste note sembrano riflettere anche la polemica che, appena riprese le pubblicazioni, Energie Nove aveva avuto con L'Ordine Nuovo al tempo sprezzantemente definito dallo stesso Gobetti un «giornaletto torinese di propaganda» di Togliatti, che aveva accusato Gobetti di idealismo astratto, e di Gramsci, che aveva definito velleitaria la Lega democratica, un ricettario per cucinare la lepre alla cacciatora senza la leper. Ora ivi è il segno di un'inquietudine nuova, provocatagli dall'esperienza della rivoluzione russa e dallo sviluppo del movimento operaio, molto attivo a Torino. Pubblica due numeri unici sul socialismo, conosce personalmente Gramsci, stimandolo e venendone apprezzato, del quale pubblica un articolo, studia il russo con la fidanzata Ada insieme curano “Il figlio dell'uomo” di Andreev, pubblicato dall'editore Sonzogno ed scrive, criticando la politica sviluppata da d'Annunzio in forma di retorica, che la politica oggi deve essere realizzata come forma di educazione. La simpatia che io provo per Trotzchi [sic] e Lenin sta nel fatto che essi in un certo modo sono riusciti a realizzare questo valore. Sebbene restio a sposarla (emblematica fu la risposta «Grazie, non fumo…»), nella considerazione del rapporto con la fidanzata si rivela anche la sua profonda maturità e serietà morale: Ho dovuto rifarmi un senso morale, un senso della vita forte a sedici anni, in gran parte a diciassette, e siccome me lo son fatto pensando a lei, gliene sarò grato sempre. Una fanciulla come io la sognavo sola poteva darmi un senso immediato di elevazione. Ho creduto in lei e la amo tanto perché mi fa credere ancora adesso. La rivista Energie Nove cessa le pubblicazioni. Sentivo bisogno di maggiore raccoglimento e pensavo una elaborazione politica assolutamente nuova, le cui linee mi apparvero di fatto nel settembre al tempo dell'occupazione delle fabbriche. Devo la mia rinnovazione dell'esperienza salveminiana al movimento dei comunisti torinesi da una parte (vivi di un concreto spirito marxista) e dall'altra agli studi sul Risorgimento e sulla rivoluzione russa che ero venuto compiendo in quel tempo», e in giugno si consuma anche il distacco con la Lega democratica degli amici di Salvemini. Continua le traduzioni dal russo ed intraprende quelle dal francese dei modernisti Blondel e Laberthonnière lo studio sulla filosofia di quest'ultimo gli è suggerito da Solarie cerca di rintracciare le radici del Risorgimento italiano studiando la cultura piemontese del Sette-Ottocento. Io seguo con simpatia gli sforzi degli operai che realmente costruiscono un ordine nuovo. Non sento in me la forza di seguirli nell'opera loro, almeno per ora. Ma mi par di vedere che a poco a poco si chiarisca e si imposti la più grande battaglia del secolo. Allora il mio posto sarebbe dalla parte che ha più religiosità e spirito di sacrificio. (Piero Gobetti, lettera ad Ada Prospero). Quando, ai primi di settembre, la FIAT e le altre maggiori fabbriche torinesi sono occupate dagli operai, Gobetti scrive: Qui siamo in piena rivoluzione. Io seguo con simpatia gli sforzi degli operai che realmente costruiscono un mondo nuovo il mio posto sarebbe necessariamente dalla parte che ha più religiosità e volontà di sacrificio. La rivoluzione si pone oggi in tutto il suo carattere religioso. Si tratta di un vero e proprio grande tentativo di realizzare non il collettivismo ma una organizzazione del lavoro in cui gli operai o almeno i migliori di essi siano quel che sono oggi gli industriali». Si tratta, a suo avviso, di una rivoluzione che se non rinnoverà gli uomini, e perciò neanche la nazione, potrà almeno rinnovare lo Stato, creando una nuova classe dirigente: «si può rinnovare lo Stato solo se la nazione ha in sé certe energie (come ora appunto accade) che improvvisamente da oscure si fanno chiare e acquistano possibilità e volontà di espansione».  La presa di distanza dall'azione politica di Salveminila sua ammirazione personale nei suoi confronti resterà comunque intattaè ora piena: gli rimprovera, come scriverà pochi anni dopo, diintendere l'azione politica unicamente come «una questione di morale e di educazione»: il suo «moralismo solenne, mentre costituisce il suo più intimo fascino, appare il segreto delle sue debolezze, La sua concezione razionalista si risolve in un'azione di illuminismo e di propagandismo, che può riuscire utile a una società di cultura, non a un partito».  Prosegue i suoi studi sul Risorgimento e sulla Russia, terminando in ottobre La Russia dei Soviet: è la volontà di comprendere funzioni e limiti di due esperienze rivoluzionarie, al cui centro è sempre il problema della formazione della classe politica che diriga un Paese e dei suoi rapporti con la popolazione. Ne conclude che il Risorgimento non può considerarsi un'esperienza rivoluzionaria, dal momento che i dirigenti politici che espresse rimasero estranei rispetto al popolo, diversamente dalla rivoluzione sovietica che, a suo avviso, ha espresso dirigenti come Lenin e Trotskij, che non sono soltanto dei bolscevichi, ma «uomini d'azioni che hanno destato un popolo e gli vanno ricreando un'anima» e, del resto, la creazione dal basso di un nuovo Stato, nel quale il popolo abbia fiducia proprio in quanto avvertito come opera propria, «è essenzialmente un'affermazione di liberalismo»  Sono concetti ripresi in un articolo pubblicato su L'Educazione nazionale, il Discorso ai collaboratori di Energie Nove, nel quale individua nel movimento operaio un «valore nazionale»: la novità, venuta dalla Russia e che sembra farsi strada anche in Italia, consiste nel fatto che «il popolo diventa Stato. Nessun pregiudizio del nostro passato ci può impedire la visione del miracolo. Questo non avrebbero fatto i liberali, questo non possono fare dei marxisti. Il movimento operaio è un'affermazione che ha trasceso tutte le premesse. È il primo movimento laico d'Italia. È la libertà che s'instaura».  Il suo avvicinamento alle posizioni dei giovani comunisti dell'Ordine Nuovo ha anche il concreto effetto di una collaborazione e Gobetti diventa il critico teatrale della rivista. A luglio, a Torino, deve assolvere gli obblighi di leva: «la vita militare è la consacrazione di tutti gli egoismi e di tutte le meschinità la meccanicità pervade ogni forma di vita; tutto si riduce a elemento, a vegetazione. La caserma è l'antitesi del pensiero. Esce il primo numero della sua nuova rivista settimanale, La Rivoluzione liberale, in cui collaboreranno spesso anche Fortunato, Gramsci e Sturzo: l'obiettivo, come indicato nell'Avviso ai lettori, è pur sempre quello di Energie Nove, ossia di formare una classe politica nuova ma, ora si aggiunge, che sia cosciente delle esigenze sociali nascenti dalla partecipazione del popolo alla vita dello Stato. E poiché l'Unità di Salvemini ha cessato le pubblicazioni, La Rivoluzione Liberale intende proseguire quegli sforzi di riorganizzazione morale che nell'Unità si avvertirono. E nel Manifesto inaugurale espone il programma della rivista. La Rivoluzione Liberale pone come base storica di giudizio una visione integrale e rigorosa del nostro Risorgimento; contro l'astrattismo dei demagoghi e dei falsi realisti esamina i problemi presenti nella loro genesi e nelle loro relazioni con gli elementi tradizionali della vita italiana; e inverando le formule empirico-tradizionaliste del liberismo classico all'inglese, afferma una coscienza moderna dello Stato, che prenda in considerazione anche i più sottili, ma non di certo trascurabili, trapassamenti dialettici della storia. Vi pubblica la Storia dei comunisti torinesi scritta da un liberale e a maggio dedica un numero intero all'emergente movimento fascista. Il mese successivo consegue la laurea e, l'anno seguente, pubblicherà la sua tesi sull'Alfieri. E vivamente colpito dagli scritti del patriota e federalista italiano Cattaneo, del quale è uscita in quei giorni un'antologia curata da Salvemini, che egli incontra a Torino. Su Cattaneo ci siamo intesi, egli è assai vicino alle idee che gli ho espresso. Su Cattaneo scrive un articolo sull'Ordine Nuovo sono i giorni della devastazione fascista della sede della rivista comunista firmandosi Giuseppe Baretti: rappresentante della critica del processo unitario risorgimentale, Cattaneo fu emarginato dalla classe dirigente moderata. Eppure Cattaneo avversò non l'unità, ma l'illusione di risolvere con il mito dell'unità tutti i problemi che invece si potevano intendere soltanto nella loro specifica realtà autonoma, regionale senza atteggiarsi a profeta, senza l'enfasi dell'apostolo, capì che il fondare una nazione non era impresa di letterati entusiasti, cercò nelle tradizioni un linguaggio di serietà, un ammaestramento di cautela. E lo condannarono alla solitudine e all'impopolarità, e diedero a lui, uomo positivo e realista, un ufficio di Cassandra, predicante al deserto. Favorito dall'inerzia dei Savoia e dalla complicità dei dirigenti liberali, il fascismo procede alla conquista del potere e Gobetti non s'illude che con esso si possa venire a compromessi e lo si possa acquistare alla causa democratica. Scrive L'elogio della ghigliottina: bisogna sperare «che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi abbia il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni fino in fondo. Chiediamo le frustate, perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia, perché si possa veder chiaro» e che «noi siamo come la dura scorza di una noce: proteggeremo i nostri ideali dalla sopraffazione con tutte le nostre forze e fin quando possibile».  Sposa Prospero: vanno ad abitare nella sua casa natale di via XX Settembre 60, che diviene anche la sede della casa editrice che egli fonda, col suo nome: la Gobetti editore, che pubblicherà, in poco più di due anni, oltre cento titoli. In qualità d'editore, Gobetti porta in Italia, traducendoli, alcuni dei libri e degli autori simbolo del pensiero liberale classico, come  Mill. È tra i primi a pubblicare i libri di Einaudi ed è lui a pubblicare la prima edizione di Ossi di seppia, una delle più famose raccolte di poesia di Montale. I libri editi furono in molti casi dati alle fiamme o comunque distrutti sotto il fascismo e, per questo motivo, sono in molti casi introvabili, come il volume dedicato al socialista Matteotti, di cui esistono pochissime copie.  Tutti i suoi libri riportano in copertina un motto liberale, scritto in greco antico in modo circolare, che recita testualmente "Cosa ho a che fare io con gli schiavi?". Gobetti e Prospero si trasferiranno poi in via Fabro 6, attuale sede del Centro di studi a lui intitolato. E arrestato perché sospetto di appartenenza a gruppi sovversivi che complottano contro lo Stato. Rilasciato cinque giorni dopo, subisce un nuovo arresto, provocando un'interrogazione parlamentare alla quale il governo risponde che era stato redattore dell'Ordine Nuovo di Torino, giornale anti-nazionale; la rivista che egli dirige, conduce da tempo una campagna contro le istituzioni e il governo fascista; il prefetto si è perciò sentito in diritto di far operare una perquisizione e il fermo di Gobetti per misure di ordine pubblico».  Gobetti replica con una lettera ai giornali, ribadendo la sua funzione di oppositore del fascismo, e aggiunge, nei libri stampati dalle sue edizioni, il motto «Che ho a che fare io con gli schiavi?». Dopo aver preso le distanze dal Prezzolini, che ha scelto il disimpegno di fronte al fascismo, rinnega anche il suo originario gentilismo. Gentile è incapace di dar ragione di ogni fatto politico, nel suo semplicismo pratico la filosofia gentiliana mostra caratteristicamente i suoi limiti e la nessuna aderenza al reale. Le tematiche liberali maggiormente sentite trovano una prima e ultima sistemazione in La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, frutto maturo delle esperienze giornalistiche precedenti, dato alle stampe. L'opera è divisa in quattro parti: L'eredità del Risorgimento, La lotta politica in Italia, La critica liberale, Il fascismo. La fretta con cui vuol dare alle stampe questo saggio di lucida analisi politica gli impedisce di curare bene le parti marginali.  Così succede che "L'eredità del Risorgimento" venga solo abbozzata: «Il problema italiano non è di autorità, ma di autonomia: l'assenza di una vita libera fu attraverso i secoli l'ostacolo fondamentale per la creazione di una classe dirigente, per il formarsi di un'attività economica moderna e di una classe tecnica progredita. Un Risorgimento calato dall'alto, che di popolare non aveva nulla. La sfida era riempire di liberalità le istituzioni liberali formalmente create. Nel primo dopoguerra assiste a qualcosa di assolutamente nuovo: la nascita dei partiti di massa (Partito Popolare Italiano e Partito Comunista d’Italia saranno una prima versione dei due partiti più importanti della cosiddetta Prima Repubblica. Ma questo non basta. Per anni la lotta politica non riuscì a dare la misura della lotta sociale. Una cosa erano le questioni politiche, un'altra le esigenze sociali, ma queste «non possono essere separate dalla politica al pari di come un felino astuto non si ciberà del formaggio ma ne farà da esca per il topo». La seconda parte si divide in sei capitoli. Ciascun capitolo è un fattore della lotta politica: sono presenti liberali e democratici, popolari (sviluppate le figure di Toniolo, Meda e Sturzo), socialisti, comunisti (grande spazio dato a Antonio Gramsci), nazionalisti (emblematico il pensiero di Alfredo Rocco) e repubblicani. La terza parte è il cuore pulsante del saggio: una proposta concreta per fare politica senza dimenticare la società. La lotta di classe è per Gobetti strumento di formazione di una nuova élite, una via di rinnovamento popolare. Insomma, la lotta politica deve essere lotta sociale. In politica ecclesiastica, si rifà alla pregiudiziale cavouriana della laicità, come necessità da mantenere (cosa che verrà invece negata dai Patti Lateranensi). Per la discussione sulle modalità d'elezione,  è convinto fautore della proporzionale. Il collegio uni-nominale aveva corrotto il rappresentante in tribuno.  Solo con la proporzionale gli interessi si organizzano, così che l'economia venga elaborata dalla politica. Di grandissima attualità è la parte dedicata al problema dei contribuenti. Il contribuente italiano paga bestemmiando lo Stato. Non ha coscienza di esercitare, pagando, una vera e propria funzione sovrana. L'imposta gli è imposta. Una rivoluzione di contribuenti in Italia in queste condizioni non è possibile per la semplice ragione che non esistono contribuenti. Era quindi necessario per lui raggiungere una maggiore maturità economica e sociale. Il popolo doveva comprendere l'importanza di contribuire nello Stato, e imparare il valore dell'onestà. Per questo richiama attenzione sul problema scolastico. In un mondo fatto per grossa parte da analfabeti o semi--analfabeti, la questione era fondamentale. Manca un numero sufficiente di maestri, perciò si sarebbe dovuto mobilitare chiunque in grado di saper insegnare (anche preti, massoni, bolscevichi e così via).  La questione non evita di trattare l'aspetto economico. Contro il parassitismo pensa che fosse utile tagliare stipendi e investimenti, così da distinguere la vocazione all'insegnamento dalla vocazione al parassitare. In politica estera prospetta un ruolo importante per l'Italia a Versailles. E convinto della possibilità di ottenere un buon accordo attraverso una mediazione. Nella quarta ed ultima parte vi è una rapida esposizione del perché si oppone con ogni mezzo al fascismo. Si è detto che per l'autore la lotta sociale deve essere portata in Parlamento e dar vita a una lotta politica efficiente ed efficace. Mussolini invece fece in modo da soffocare la lotta politica, quando questa più di ogni altra cosa era necessaria all'Italia. Così il Duce e «l'eroe rappresentativo di questa stanchezza e di questa aspirazione di riposo» che si esplicava nel tacito consenso della popolazione allo sradicamento di ogni lotta politica nella nazione. In modo profetico, da esperto conoscitore del pensiero di Hegel qual era, prevede e mette in guardia delle conseguenze della concessione del potere a Mussolini secondo le dinamiche della dialettica “servo-signore” ipotizzando una guerra civile imminente. Il saggio è fortemente militante. Nella nota a conclusion, è chiaro: cerca collaboratori, non lettori. vuole la "rivoluzione liberale", cioè un nuovo liberalismo; nutre una forte avversione per il fascismo, anche perché non è qualcosa di nuovo ma, anzi, il risultato ottenuto da coloro che hanno governato l'Italia: è quindi una condanna della vecchia classe dirigente liberale.  Il fascismo nasce dall'invadenza del cattolicesimo e dalla demagogia dell'Italia liberale: Fascismo come autobiografia della nazione, il fascismo è, insomma, solo l'incancrenirsi dei mali tradizionali della società italiana. La società tradizionale italiana re-agisce sostenendo una forza conservatrice come quella del fascismo, anche se in realtà qualcosa di buono nell'Italia del primo dopo-guerra vi era stato: il proletariato (soprattutto quello torinese) che tenta di assumere su di sé la responsabilità di mutare lo stato delle cose. La borghesia ha perso ogni funzione propositiva. La borghersia è una classe parassitaria che si è adagiata e aspetta tutto dallo Stato. Si blocca così ogni istanza di rinnovamento. La funzione liberale e libertaria è assunta dal proletariato. Le considerazioni politiche di risentono della sua opinione sulla storia italiana, in “Risorgimento senza eroi” Gobetti descrive questo periodo come un'epopea patriottarda di cui simbolo è Mazzini (tante parole, pochi fatti): al Risorgimento sono mancati il pragmatismo e il realismo.  Ci sono due eroi nel Risorgimento e sono Cattaneo e Cavour, due figure assai distanti tra loro ma accomunabili per il loro pragmatismo: Cattaneo gli piace a per la sua volontà di operare, per la capacità di propugnare istanze pragmatiche e vuote di retorica. Cavour è uomo che media per raggiungere degli obiettivi, ha mire di lungo periodo. Il Risorgimento di Cattaneo è sconfitto, ma non quello di Cavour. Entrambi, però, hanno instillato nella società italiana lo spirito della competizione e l'ideale di assunzione di responsabilità. La società italiana si regge su ruoli e cariche già predefiniti, è statica e stagnante: il proletariato, però, si ribella a ciò, rifugge situazioni già prestabilite per costruire una società nuova in cui ciascuno sarà libero di esprimersi.  La persecuzione, l'esilio e la morte. Si reca in Francia, a Parigi e poi a Palermo, per incontrare alcuni amici conosciuti durante il recente viaggio di nozze. I suoi spostamenti sono seguiti dalla polizia italiana e, Mussolini telegrafa al prefetto di Torino, Palmieri: “Mi si riferisce che noto Gobetti sia stato recentemente a Parigi e che oggi sia a Palermo. Prego informarmi e vigilare per rendere nuovamente difficile vita questo insulso oppositore di governo.” Il prefetto obbedisce. Viene percosso, la sua abitazione perquisita e le sue carte sequestrate. Come scrive a Lussu, la polizia sospetta che egli intrattenga rapporti in Italia e all'estero per organizzare le forze antif-asciste.  È il giorno che precede la scomparsa di Matteotti, il cui corpo verrà ritrovato solo in agosto, ma subito si ha la certezza che si tratti di un omicidio perpetrato da sicari fascisti. Ne traccia un profile. Non ostenta presunzioni teoriche: dichiara candidamente di non aver tempo per risolvere i problemi filosofici perché doveva studiare i bilanci e rivedere i conti degli amministratori socialisti vide nascere nel Polesine il movimento fascista come schiavismo agrario, come cortigianeria servile degli spostati verso chi li paga; come medievale crudeltà e torbido oscurantismo  Sente che per combattere utilmente il fascismo nel campo politico occorre opporgli esempi di dignità con resistenza tenace. Farne una questione di carattere, di intransigenza, di rigorismo. Auspica, dalle colonne della sua rivista, la formazione di "Gruppi della Rivoluzione Liberale", formati da uomini di tutti i partiti anti-fascisti, che combattano il fascismo, questo fenomeno politico che trae i motivi del suo successo e della sua conservazione dalla creazione di «un esercito di parassiti dello Stato». Occorre, a questo scopo, formare un'economia moderna con un'industria libera da ogni protezionism e da ogni paternalismo di Stato e con una classe proletaria politicamente intransigente aiutare i partiti seri e moderni a liberarsi dei costumi giolittiani. La guerra al fascismo è questione di maturità storica, politica, economica. Questi articoli e quello in cui accusa il deputato fascista, grande invalido di guerra, Delcroix, di manovre parlamentari definite aborti morali, provocano il sequestro della rivista ed una violenta aggressione da parte di uno squadrone fascista. Persino un articolo di Fiore contro il criminale fascista Dumini, apparso su La Rivoluzione Liberale, fornisce il pretesto al prefetto di Torino di sequestrare la rivista. Con Fiore e conDorso pubblica un Appello ai meridionali e con il Saluto all'altro Parlamento appoggia l'iniziativa aventiniana, dalla quale si aspetta un'opposizione intransigente e un esempio di rinnovamento dei costumi parlamentari italiani.  Fonda una nuova rivista, Il Baretti, alla quale collaborano, tra gli altri, Monti, Sapegno, Croce e Montale. Come La Rivoluzione Liberale è dedicata a temi storico-politici, così la nuova rivista vuole essere riservata alla critica letteraria e all'estetica. Il riferimento a Baretti, letterato italiano vissuto a lungo all'estero, e alla sua Frusta letteraria, esempio di polemica vivace e irriverente, sottintende, scrive nel numero d'esordio, «una volontà di coerenza con le tradizioni di battaglia contro culture e letterature costrette nei limiti della provincia, chiuse dalle frontiere di dogmi angusti e di piccole patrie».  In ossequio alle direttive mussoliniane, proseguono i sequestri della sua rivista. Rimedieremo ai sequestri rifacendo l'edizione, scrive Gobetti e anche quel numero viene sequestrato con il pretesto di scritti diffamatori dei poteri dello Stato e tendenti a screditare le forze nazionali. Cura La Libertà di Mill, con la prefazione di Einaudi, il quale scrive che quando, per fiaccare la voce dei ribelli, si assevera dai dominatori la unanimità del consenso, giova rileggere i grandi libri sulla libertà. Anche produrre citazioni di scrittori del passato che non collimino col pensiero del Regime può essere tendenzioso e perciò provocare il sequestro della rivista. E arrestato Salvemini, che ha pubblicato sul foglio clandestino Non Mollare l'articolo Mussolini il mandante. Altri sequestri de La Rivoluzione Liberale avvengono. Un periodo di serenità per Piero e la moglie Ada che aspetta un bambino è rappresentato da un viaggio a Parigi e a Londra. A Parigi pensa di stabilire una sua casa editrice: «Credo che solo da Parigi, solo in francese, solo con la solidarietà dello spirito francese un italiano possa fare con utilità un'opera pratica di intelligenza europea. S'intende senza chauvinisme francese. D'altra parte, intende ancora rimanere in Italia. Rimarrò in Italia fino all'ultimo. Sono deciso a non fare l'esule.  A metà agosto fanno ritorno a Torino e è nuovamente vittima dei pestaggi squadristi, ma è ancora intenzionato a rimanere in Italia. Bisogna amare l'Italia con orgoglio di europei e con l'austera passione dell'esule in patria, scrive nell'articolo Lettera a Parigi, per capire con quale serena tristezza e inesorabile volontà di sacrificio noi viviamo nella presente realtà fascista. Le nostre malattie e le nostre crisi di coscienza non possiamo curarle che noi. Dobbiamo trovare da soli la nostra giustizia. E questa è la nostra dignità di anti-fascisti. Per essere europei dobbiamo su questo argomento sembrare, comunque la parola ci disgusti, nazionalisti.  Poiché i ripetuti sequestri a nulla hanno valso, e che il periodico in parola, sotto l'aspetto di critiche e di discussioni politiche, economiche, morali e religiose, che vorrebbero assurgere ad affermazioni e sviluppi di principi dottrinari, mira in realtà, con irriverenti richiami, alla menomazione delle Istituzioni Monarchiche, della Chiesa, dei Poteri dello Stato, danneggiando il prestigio nazionale, e nel complesso può dar motivo a reazioni pericolose per l'ordine pubblico, persistendo in violazioni sempre più gravi ai vigenti decreti sulla stampa», il prefetto d'Adamo diffida «il Direttore responsabile del periodico La Rivoluzione Liberale,  ai sensi e per gli effetti di cui all'art.” ad adeguarsi alle direttive del Regime e poiché l'8 novembre la rivista disattende l'ordine, il prefetto ingiunge la cessazione definitiva delle pubblicazioni e la soppressione della stessa casa editrice per attività nettamente anti-nazionale. D'ora in avanti sarò palesatamente costretto all'infelice dissenso. La libertà d'opinione è stata soppressa come una rete che viene sradicata: senza possibilità di dialogare sono destinato ad essere sopraffatto. A cosa serve più, ora, fare finta? Gobetti, che ora soffre anche di scompensi cardiaci, provocati o aggravati dalle violenze subite, pensa di lasciare l'Italia per proseguire in Francia l'attività editoriale. Nasce a Torino il figlio Paolo, che durante la seconda guerra mondiale diventerà partigiano e poi giornalista per l'Unità, oltreché storico del cinema. Scrive una lettera a Fortunato. Parto per Parigi dove farò l'editore francese, ossia il mio mestiere che in Italia mi è interdetto. A Parigi non intendo fare del libellismo, o della polemica spicciola come i granduchi spodestati di Russia; vorrei fare un'opera di cultura, nel senso del liberalismo europeo e della democrazia moderna. Parte da solo per Parigi. Alla stazione di Genova viene a salutarlo  Montale. Si ammala di una bronchite, che esacerba gravemente i suoi problemi cardiaci. Trasportato in una clinica di Neuilly-sur-Seine, vi muore assistito da Fausto, Nitti, Prezzolini e Emery. È sepolto nel cimitero parigino di Père-Lachaise.  Saggi:“La filosofia politica di Alfieri” (Torino, Gobetti); “La frusta teatrale, Milano, Corbaccio, Felice Casorati. Pittore, Torino, Gobetti, “Dal bolscevismo al fascismo: note di cultura politica” (Torino, Gobetti); Il teatro di Enrico Pea, in Enrico Pea, Rosa di Sion, Torino, Gobetti, Matteotti, Torino, Gobetti, Postfazione di M. Scavino, Edizioni di Storia e Letteratura, col titolo Per Matteotti. Un ritratto, Il Melangolo, Genova, “La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Bologna, Cappelli,  Opere edite e inedited; “Risorgimento senza eroi” “Piemonte nel Risorgimento, Torino, Baretti, Paradosso dello spirito russo, Torino, Baretti, Opera critica “Arte, religione, filosofia, Torino, Baretti, Teatro, letteratura, storia, Torino, Baretti,  Scritti attuali, Roma, Capriotti, Coscienza liberale e classe operaia, P. Spriano, Torino, Einaudi, Opere complete, Scritti politici, P. Spriano, Torino, Einaudi,  Scritti storici, letterari e filosofici, Spriano, Torino, Einaudi, Critica teatrale, Guazzotti e Gobetti, Torino, Einaudi, L'editore ideale. Frammenti autobiografici con iconografia, F. Antonicelli, Milano, All'insegna del pesce d'oro, Energie nove, Torino, Bottega d'Erasmo, Baretti, Torino, Bottega d'Erasmo, Lettere dalla Sicilia, nota di G. Chimirri, introduzione di N. Sapegno, Palermo, Nuova editrice meridionale,  Nella tua breve esistenza. Lettere on Ada Gobetti, E. Perona, Collana NUE Torino, Einaudi, Collana Piccola Biblioteca. Nuova serie, Einaudi, Con animo di liberale. Gobetti e i popolari. Carteggi Bartolo Gariglio, Milano, F. Angeli, Dizionario delle idee, Bucchi, Roma, Riuniti, Antifascismo etico. Elogio dell'intransigenza, M. Gervasoni, Milano, M&B Publishing, Carteggio Ersilia Alessandrone Perona, Torino, Einaudi, Che ho a che fare io con i servi? Zibaldone politico, Reggio Emilia, Aliberti,  Il giornalista arido Articoli Collana Classici idel giornalismo, Torino, Aragno,  Carteggio Ersilia Alessandrone Perona, Torino, Einaudi,,  Biografia di Gobetti  M. Brosio, Riflessioni su Gobetti, Gobetti, L'editore ideale, P. Gobetti, L'editore ideale, c N. Bobbio, Italia fedele. Il mondo di Gobetti, Nella tua breve esistenza. Lettere Gobetti, Energie Nove,  Lettera ad Ada Prospero, Nella tua breve esistenza,  Diario, L'editore ideale, Carlo Levi, in «Introduzione agli Scritti politici Togliatti, I parassiti della cultura, in «L'Ordine Nuovo», Gramsci, Contributi a una nuova dottrina dello stato e del colpo di stato, in «L'Ordine Nuovo», Nella tua breve esistenza, cAlberto Cabella, Elogio della libertà. Torino, Il Punto, L'editore ideale, Gobetti, Rivoluzione liberale, Nella tua breve esistenza, Gobetti, La Rivoluzione liberale, in «Scritti politici», Scritti politici,  Nella tua breve esistenza, Manifesto della Rivoluzione Liberale,  Nella tua breve esistenza, La rivoluzione Liberale, Elogio della Ghigliottina,  Dizionario Biografico degli Italiani  La Rivoluzione Liberale, I miei conti con l'idealismo attuale, Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, C. Levi, in «Introduzione agli Scritti politici di Gobetti», La Rivoluzione Liberale, Gruppi della Rivoluzione Liberale, La Rivoluzione Liberale, Come combattere il fascismo, A. Colombo, Hutchings, Gobetti, GOBETTI AND MATTEOTTI, Il Politico,  In, La cultura francese nelle riviste e nelle iniziative editoriali di Gobetti, Lettera ad Prospero, Basso, Anderlini, Le riviste di Gobetti, Feltrinelli, Prezzolini, Gobetti e «La Voce», Firenze, Sansoni, M. Brosio, Riflessioni su Piero Gobetti, Quaderni della Gioventù liberale italiana di Torino, G. Bergami, Guida bibliografica degli scritti, Collana Opere diGobetti, Torino, Einaudi, P. Spriano, Gramsci e Gobetti, Torino, Einaudi, A. Carlino, Politica e dialettica in Gobetti, Lecce, Milella, P. Bagnoli,  Gobetti. Cultura e politica di un liberale del Novecento, Firenze, Passigli, U. Morra di Lavriano, Vita,  pref. di N. Bobbio, Torino, Tipografico, Gobetti e la Francia, Milano, Franco Angeli, Luigi Anderlini, Gobetti critico, in Letteratura italiana. I critici, Milano, Marzorati, Gobetti e gl’intellettuali del Sud, Napoli, Bibliopolis, G. De Marzi, Gobetti e Croce, Urbino, Quattroventi,  A. Cabella, Elogio della libertà. Torino, Il Punto, Marco Gervasoni, L'intellettuale come eroe. Piero Gobetti e le culture del Novecento, Firenze, La Nuova Italia, Bagnoli, Il metodo della libertà.  tra eresia e rivoluzione, Reggio Emilia, Diabasis, Gariglio, Progettare il postfascismo. Gobetti e i cattolici, Milano, Franco Angeli, Virgilio, Gobetti. La cultura etico-politica del primo Novecento tra consonanze e concordanze leopardiane, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, Angelo Fabrizi, «Che ho a che fare io con gli schiavi?». Gobetti e Alfieri, Firenze, Società Editrice Fiorentina, Flavio Aliquò Mazzei, Piero Gobetti. Profilo di un rivoluzionario liberale, Firenze, Pugliese,  B. Gariglio, L'autunno delle libertà Lettere ad Ada in morte di Gobetti, Torino, Bollati, Erba, Piero Gobetti, in Intellettuali laici nel '900 italiano, Padova, Grasso, Ciampanella, Senza illusioni e senza ottimismi. Prospettive e limiti di una rivoluzione liberale, Roma, Aracne, Socialismo liberale Liberalismo socialeSalvemini Amendola Croce AlfieriMatteotti Il Baretti La Rivoluzione liberale. Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Centro Studi Piero Gobetti, su centrogobetti. «La Rivoluzione Liberale» Gobetti, Il liberalismo in Italia, G. Iacchini, Quando la libertà è rivoluzionaria: Piero Gobetti, su radicalsocialismo. La casa di Gobetti in via XX Settembre a Torino, su multimedia lastampa. Piero Gobetti. Gobetti. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gobetti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51700266277/in/photolist-2mQBLt7-2mPGkBm-2mPvJmk-2mLznXk-2mLDpWX-2mKNNqN-2mKDGhr-2mKk6t5-2mPHbXQ

 

Gobbo  -- Federico Gobbo – esperantista -- He has collaborated with philosophers.

 

Grice e Gonnella – filosofia del diritto romano – filosofia romana – Luigi Speranza (Bari). Grice: “Like Foucault, and a few English philosophers who explored the conceptual intricacies of the ‘justification’ of punishment, Gonnella’s oeuvre is brilliant!” Saggi: “Il diritto (non) ci salverà, Il Manifesto,  Detenuti stranieri in Italia. Norme, numeri e diritti, Scientifica,. Carceri. I confini della dignità, Jaca, La tortura in Italia, Derive Approdi,. Jailhouse Rock, cento musicisti dietro le sbarre, Arcana,. Il carcere spiegato ai ragazzi, Il Manifesto, Patrie galere, Carocci, Sviluppo urbano e criminale, a Roma, Sinnos,  Il collasso delle carceri italiane. Sotto la lente degli ispettori europei, Sapere Consiglio d'Europa, Bisogna aver visto. Il carcere nella riflessione degl’anti-fascisti, Edizioni dell’Asino,. I paradossi del diritto. Scritti in omaggio a Resta, Roma TrE-Press,  Giustizia e carceri secondo papa Francesco, Jaca,. Onorare gli impegni. L'Italia e le norme contro la tortura, Sinnos, Inchiesta sulle carceri italiane, Carocci, Il Carcere trasparente. Primo rapporto nazionale sulle condizioni di detenzione, Castelvecchi. Patrizio Gonnella. Gonnella. Keywords: filosofia del diritto romano, sanction, punishment. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gonella” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51756498175/in/dateposted-public/

 

Grice e Goretti – la coazione istituzionale – filosofia fascista -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo. Si laurea a Torino sotto Solari. Fequenta Milano, dove incontra Martinetti. Segretario delCongresso Nazionale di Filosofia, organizzato dalla Società filosofica italiana. Il Congresso è sciolto dalle autorità dopo appena due giorni. Firmano la lettera di protesta indirizzata al rettore Luigi Mangiagalli, nel quale si "protesta in nome della libertà degli studi e della tradizione italiana contro un atto di violenza che impedisce l'esercizio della discussione filosofica.” Al momento del giuramento di fedeltà, necessario per entrare nella carriera universitaria o per proseguirla, si rifiuta e resta così al di fuori della carriera accademica; svolge attività professionale a Milano, e collabora alla "Rivista di filosofia" (anche quale componente del comitato direttivo). Frequenta Palazzo Fossati in Via Ciro Menotti a Milano. In prossimità della morte, Martinetti lascia la sua biblioteca privata in legato a Ruffini, Solari e Goretti. La Biblioteca verrà poi conferita dai rispettivi eredi alla "Fondazione Piero Martinetti per gli studi di storia filosofica " di Torino; oggi nel palazzo presso la Biblioteca della Facoltà di Filosofia. Goretti è riammesso nel mondo universitario e assume per concorso la cattedra di Filosofia del diritto; insegna all'Ferrara fino alla morte.  Il Comune di Ferrara ha intitolato una via a Cesare Goretti, "filosofopatriota".  L'animale come soggetto di diritto Prolifico filosofo del diritto, autore di scritti su Kant, Sorel, Bradley, cura Špir, Bradley, Green), a Goretti si deve il primo intervento che qualifica l'animale come “soggetto di diritto”. Martinetti pubblica “L’animo del animale” in cui aveva sottolineato che il animale possede intelletto e coscienza e, in generale, un animo, come emergeva dagli  lo studio dello “atteggiamento, gesto, la fisionomia.” Questo animo e vita animale è “forse estremamente diversa e lontana” da quella del homo sapiens” ma “ha anch'essa la carattere della coscienza e non può essere ridotta ad un semplice meccanismo fisiologico. Goretti va oltre, fino ad affermare che l’ animalee vero e proprio un “*soggetto* (“soggetoodi diritto” e che l'animale ha una “coscienza giuridica” e una percezione del giuridico. In tal modo, anticipa tematiche proprie della bioetica e dell'etologia. Nonostante l'originalità e l'innovatività delle posizioni assunte, il suo manifesto non ha avuto fortuna ed è stato del tutto trascurato dal dibattito animalista e negli studi di etologia. Come non possiamo negare all'animale in modo sia pure crepuscolare l'uso della categoria della causalità, così non possiamo escludere che l'animale partecipando al nostro mondo non abbia un senso di quello che può essere la proprietà e l'obbligazione. Casi innumerevoli dimostrano come un cane e custode geloso della proprietà del suo padrone e come ne compartecipa all'uso. Dve operare in esso questa visione della realtà esteriore come cosa propria, che nell’homo sapinens arriva alle costruzioni raffinate dei giuristi. È assurdo pensare che l'animale che rende un servizio al suo padrone che lo mantiene agisca soltanto istintivamente. Deve pure sentire in sé in modo sensibile questo rapporto di servizi resi e scambiati – cf. Grice, lo scambio conversazionale --. Naturalmente l'animale non potrà arrivare al concetto di ciò che è la proprietà e l'obbligazione. Basta che dimostri di fare uso di questi principî che in lui operano ancora in modo osensibile.»  (“ L’animale quale soggetto – e soggeto di diritto”). Nella filosofia del diritto si individuano tre teorie dell'"istituzionalità nel giuridico": istitutismo: teoria del diritto quale insieme di istitutito e concepito come una sorta di azione co-ordinata, costituente un equilibrio tipico e costante di finalità che si fissa in un complesso di mezzi, una costruzione. Per l istituzionalismo la istituzione (Romano, Hauriou). neo-istituzionalismo: il diritto è rappresentato da un “fatto” istituzionale (McCormick, Weinberger). Saggi: “La forma giuridica” (Isis, Milano); “Il sentimento giuridico” (Solco", Città di Castello); “I fondamenti del diritto” (Lombarda, Milano); “Liberalismo” (Pirola, Milano); “Norma giuridica, atto giuridico” (Bianciardi, Lodi); “Istituto giuridico” (Bianciardi, Lodi); “Norma giuridica” (Milani, Padova); "Rivista di filosofia", L'animale, soggetto, e soggeto di diritto, "Rivista di filosofia", Recensione di Schmitt, Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen Souveränitätsgedankens bis zum proletarischen Klassenkampf, Duncher & Humblot, München-Leipzig, "Rivista di Filosofia",  Recensione di R. Smend, Verfassung und Verfassungsrecht, "Rivista di Filosofia", Introduzione a A. Spir, La giustizia, Lombarda, Milano, Il saggio politico sulla costituzione del Württenberg, "Rivista di filosofia", “Legge e norma, "Rivista di filosofia", La filosofia pratica W. Schuppe, "Rivista di filosofia",  “F. H. Bradley, "Rivista di filosofia", “La conoscenza etica, "Rivista di filosofia", “L'idea di patria”, "Rivista di filosofia", L'idealismo rappresentativo”, "Rivista di filosofia", Recensione di Calamandrei, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, in "Rivista di filosofia", La metafisica della conoscenza, "Rivista di filosofia",  Il dolore nel pessimismo di A. Spir, "Rivista di filosofia", L’individualità, "Rivista di filosofia", Il saintsimonismo, "Rivista di filosofia", Diritti e doveri giuridici in relazione alla norma giuridica, "Archivio della Cultura italiana", L'istituzione dell'eforato in Sparta, "Archivio della Cultura italiana", “La valutazione tecnica della realtà, "Archivio della Cultura italiana", Martinetti, "Archivio della Cultura italiana", L'impiego delle categorie o dei concetti puri ed il valore della co-azione e inter-azione -- e dei postulati nella filosofia giuridica” "Annali della Ferrara",  Recensione di Candian, Avvocatura, Milano, in "Annali della Ferrara",   Il liberalismo, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", L’istituzione in senso tecnico ed l’istituto giuridico nel realismo"Annali della Ferrara",  “Equità, "Scritti giuridici in onore di Carnelutti",  Filosofia e teoria generale del diritto, Milani, Padova, L'umanesimo critico di France, "Rivista di filosofia del diritto", Recensione di Erzbach, "Rivista trimestrale di diritto e procedura civile", Rileggendo il Filomusi Guelfi, "Rivista internazionale di filosofia del diritto", La filosofia di Martinetti, "Memorie dell'Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna. Classe di Scienze Morali", Bologna, Considerazioni critiche sul diritto sociale, "Annali della Ferrara", Scienze Giuridiche.  L’acquisto ideale nella filosofia giuridica di Kant, "Rivista di filosofia del diritto", Sulla sociologia della diada e del gruppo sociale”. "Scritti di sociologia e politica in onore di Sturzo", Zanichelli, Bologna,  Isu luigisturzo, Scritti su Cesare Goretti Gioele Solari, Recensione, "Rivista di filosofia", N. 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Brutti, Alcuni usi del concetto di struttura nella conoscenza giuridica, "Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico", McCormick/Weinberger, Il diritto come istituzione, M. La Torre, Milano, M. Torre, “Norma, l’istituzionale, il valore: Per una teoria istituzionalistica del diritto, Bari. Il pensiero filosofico di Cesare Goretti non è comprensibile se ricondotto solamente al suo aspetto giuridico1, brillantemente espresso all’interno dei suoi Fondamenti del diritto (Goretti 1930), ma necessita di un approfondimento che tocchi ogni ambito speculativo della filosofia. Questo lavoro, quindi, pur mantenendo fermo il fine di una delucidazione dei principi filosofici posti alla base della sua concezione del diritto, fornirà un excursus preliminare sugli aspetti più importanti del suo pensiero, conducendo il lettore all'interno del formalismo gnoseologico kantiano, del volontarismo di Schopenhauer e dell’idealismo di matrice britannica, esortando ulteriori approfondimenti su un autore il quale, attraverso il proprio rigore morale (Goretti, così come il suo maestro Piero Martinetti, risulta tra i non firmatari del 1 Un richiamo in nota al contesto storico nel quale la filosofia del diritto di Goretti si sviluppa risulta tuttavia necessario. Essa si inserisce all'interno di quell’indirizzo, chiamato ‘istituzionalismo’, che identifica nell’istituzione il fulcro attorno al quale si crea e si espande la vita associata. Inaugurato con gli studi di Maurice Hauriou in Francia e Santi Romano in Italia, esso si pone in netta contrapposizione con la teoria normativista di Kelsen. Il particolare interesse di Goretti per l’idealismo di matrice anglosassone conferisce però al suo giuridicismo filosofico un taglio innovativo rispetto, ad esempio, al più celebre istituzionalismo di Santi Romano, tanto da poterlo considerare come ‘istitutismo’.       160 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 giuramento di fedeltà al fascismo del ‘31) ha dimostrato l’autonomia dello spirito rispetto alla contingenza degli avvenimenti storici. Nella trattazione delle sue opere non verrà seguito un ordine cronologico, ma una sistematica ricostruzione della sua dottrina. Questo è il motivo per il quale La metafisica della conoscenza in Thomas Hill Green (Goretti 1936) e l’Introduzione alla sua Etica (Goretti 1925) rappresentano un punto di partenza necessario per la successiva analisi del suo pensiero. È dunque dalle origini, dall’aspetto gnoseologico, che questo lavoro prenderà le mosse, ed è proprio da uno spunto, fornito dall’incompletezza della soluzione alla Ding an sich kantiana fornita da Green, che Goretti elaborerà il suo impianto filosofico. L’esigenza di ricongiungere forma e materia, di collegare il fenomeno con il noumeno, ha condotto la filosofia, da Kant in poi, verso la strada di un idealismo monistico. Quello che Goretti compie, invece, consiste in un’elegante risoluzione del problema, la quale, pur non rinunciando al principio monistico, mette al sicuro il formalismo kantiano da eventuali ricadute metafisiche. Per fare ciò, egli si avvale del concetto di volontà elaborato da Schopenhauer, evitando le sue derive pessimistiche e avvalorando il principio morale delineato da Green. Quanto fin qui solamente accennato mette dunque in luce l’aspetto poliedrico del pensiero di Goretti, in grado di spaziare tra gli autori e i campi della filosofia più disparati, mantenendo comunque quel rigore logico ed espositivo che lo rendono un autore unico nel suo genere. 1. Fenomeno e relazione: da Kant a Green La filosofia di Green, come sottolinea Goretti, rappresenta una fusione del pensiero critico di Kant e di Fichte (Goretti 1936, 97), una sintesi degli studi portati avanti a partire dalla sua Introduction to Hume’s Treatise of Human Nature, contenuta all’interno dei Collected Works (Green 1885-1888). Anche se i suoi Prolegomena to Ethics (1883), tradotti in italiano dallo stesso Goretti (Green 1925), vengono di frequente considerati come la «concezione definitiva dell’autore» (Goretti 1936, 98), portando spesso ed erroneamente a giudicare la sua gnoseologia prettamente metafisica, la sua capacità di analisi è riuscita ad andare ben oltre l’empirismo e il razionalismo precedenti. È per questa ragione, dunque, che Goretti tornerà, molto tempo dopo aver tradotto l’opera del Green, a dedicare ulteriori studi volti a precisare e confutare alcune delle conclusioni avanzate dal filosofo britannico. Attraverso un’accurata scomposizione del suo apparato epistemologico, Goretti riesce a salvare l’apparente e vuoto formalismo kantiano, che il Green aveva così ardentemente tentato di eliminare. La teoria della conoscenza di Green si fonda sulle osservazioni kantiane inerenti l’esistenza di una coscienza, in grado di unificare e sistematizzare i dati dell’esperienza, considerati, fino ad allora, come unica realtà possibile. Per Kant, ribadisce Goretti, è  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti solo grazie alla natura del nostro spirito che l’esigenza unificatrice, chiamata con il nome di appercezione trascendentale, si manifesta (Goretti 1936, 99). L’esperienza, dunque, rappresenta il complesso di unificazioni che il nostro spirito pone in essere sulla molteplicità del sensibile. Da ciò, la celebre distinzione kantiana tra prodotto della natura e prodotto dell’intelletto, che porta la filosofia verso un «Umänderung der Denkart» (Kant 1919, 24). Tutto ciò che possiamo conoscere è derivabile dalla nostra esperienza, mentre la realtà, ciò che è posto al di fuori del mondo sensibile, non può essere conosciuto, il che equivale ad affermarne il suo carattere a priori, in quanto strumento inconoscibile atto a conoscere. È proprio su questo punto, tuttavia, che Kant incontra le maggiori difficoltà. Tentando di superare le aporie humeane, pone in essere quella distinzione tra fenomeno e cosa in sé che occuperà gran parte della speculazione filosofica successiva. Nel tentativo di fornire una risposta adeguata a questo dilemma, senza rientrare all’interno delle conclusioni delineate dall’idealismo tedesco, si inserisce l’opera di Green. Come sottolineato da Goretti, Green adopera un linguaggio differente rispetto a quello utilizzato da Kant, il quale, secondo Green stesso, gli permetterebbe di eludere il problema relativo alla cosa in sé. Egli sostituisce, continua Goretti, la locuzione kantiana phenomena con quella di relations. Per mezzo di questa distinzione, Green è convinto di poter esprimere in maniera più marcata la facoltà unificatrice dello spirito, evitando così di cadere all’interno delle problematiche del razionalismo kantiano. L’errore di Kant, sottolinea Green, è rinvenibile proprio nella separazione che egli opera tra natura formaliter spectata e natura materialiter spectata. Questo errore non è altro che un refuso dell’empirismo lockeano, rinvenibile in Kant attraverso l’espressione «Macht zwar der Verstand die Natur, aber er schafft sie nicht» (Selsam 1930, 2). Come sostiene Green: If phenomena, as materialiter spectata, have such another nature, it will follow [...] that there is no ground for that conviction of there being some unity and totality in things, from which the quest for knowledge proceeds. The cosmos of our experience, and the order of things-in-themselves, will be two wholly unrelated worlds (Green 1883, § 39). Se si vuole considerare la materia, continua Green, dobbiamo prendere in considerazione l’esistenza di forze che generano il loro movimento comprese nella rappresentazione del fenomeno stesso (Goretti 1936, 100-101). Il divenire, dunque, diventa veicolo attraverso il quale la realtà spirituale si manifesta, una molteplicità con la quale il nostro spirito limitato coglie l’unità. Esso rappresenta, per Green, il processo causale della molteplicità stessa e non un prodotto della realtà assoluta. Alessandro Dividus 161  162 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 La posizione di Green è molto particolare. Egli rinnega l’esistenza di due elementi distinti, forma e materia, ma al tempo stesso, non ricade nella sintesi degli opposti sviluppata da Hegel. Le cose che noi osserviamo non sono scisse e frammentarie, ma rivelano l’esistenza di un assoluto che non si muove seguendo un movimento dialettico. La realtà, secondo Green, è una progressione di gradi di relazione e per questo motivo non può in alcun modo trovarsi fuori dallo spazio e dal tempo. La molteplicità delle relazioni, dunque, assume per Green il significato di qualità dello spirito, che il nostro Io attribuisce alle cose, ma che non si trova nelle cose stesse (Goretti 1936, 108). Queste conclusioni, sottolinea Goretti, sono per Green il modo di superare il dibattito intorno alla distinzione lockeana tra qualità primarie e qualità secondarie. Mentre, per i sostenitori dell’empirismo, la differenza tra qualità sussiste su di un piano sostanziale, cioè appartenente alla natura delle cose, per Green, invece, essa è puramente graduale. L’unica diversità che le caratterizza consiste nell’apparente priorità temporale che le prime dimostrano nel manifestarsi. Questo evento è dovuto, spiega Green, alla predominanza dell’elemento formale rispetto a quello empirico. Ogni relazione, dunque, è per Green una qualità. Il centro della realtà rimane sempre l’Io, ma l’elemento formale che Kant non era riuscito ad eliminare viene sostituito da gradi di relazione. Queste affermazioni sono avvalorate ancor più da Green attraverso la distinzione tra giudizi sintetici e giudizi analitici. Utilizzando l’enunciato kantiano “ogni corpo è esteso”, non ci troviamo di fronte ad un giudizio analitico, come Kant suppone, data la presenza del predicato all’interno del soggetto, ma come per il secondo enunciato “ogni corpo è pesante”, stiamo attribuendo al soggetto un grado di relazione meno complesso rispetto al secondo (Green 1886, §§ 69-72). La mera intuizione delle categorie di spazio e tempo non è sufficiente per cogliere la distinzione tra diversi giudizi. Lo spazio offre solamente la concezione di una figura, ma non di un corpo. Secondo Green, dunque, Kant confonde il concetto di corpo con quello di figura. La conclusione di Green, riporta Goretti, «è che ogni giudizio presuppone una sintesi che si può scomporre in una analisi di relazioni, analisi che può portare ad ulteriori sintesi» (Goretti 1936, 112). Ogni relazione è dunque un grado di realtà maggiore o minore rispetto all’unità che essa contribuisce a formare all'interno della nostra conoscenza. Quanto finora brevemente riportato mette in luce l’atteggiamento critico di Green rispetto alle problematiche formali espresse dalla filosofia kantiana. Naturalmente, quanto emerso rispecchia solo una minima parte del pensiero greeniano, in questa sede appositamente riassunto, ma fornisce gli strumenti necessari per comprendere il punto di partenza attraverso il quale Goretti ripartirà per formulare la sua teoria. Come sostiene Goretti «Non si può certo affermare che Green abbia sempre esattamente compreso la filosofia di Kant» (Goretti 1936, 113). Le critiche che Goretti muove nei  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti confronti del filosofo britannico riguardano proprio il suo tentativo di eliminare, senza risolvere, il formalismo kantiano, ricadendo in quella struttura monistica della quale già Fichte aveva tracciato le linee. Secondo Goretti, la concezione metafisica di Green è prettamente religiosa (Goretti 1936, 115; cfr. Seth 1887), in quanto ogni fenomeno, o relazione, è per lui un riverbero dell’assoluto che non si esaurisce nella sua apparenza. Così facendo, continua Goretti, Green non si accorge di aver identificato l’assoluto stesso con la molteplicità delle sue relazioni, senza mettere in conto la possibilità che un grado di realtà inferiore, rispetto ad uno superiore, possa rappresentare solamente una negazione, un’apparenza dell’assoluto (Goretti 1936, 115). Il dibattito sull’aspetto monistico, o meno, della filosofia di Green è ovviamente molto ampio (vedi Tyler 2003) e le teorie le più disparate. Il percorso tracciato dalle sue tesi trova il suo naturale sviluppo nelle dottrine del Bradley, il quale riduce le relazioni stesse a provvisorie apparenze riproponendo, ancora una volta, l’ombra di una realtà intellegibile (Goretti 1933). Ma Goretti percorre una strada diversa, in qualche modo innovativa rispetto al senso comune. Egli si serve di Schopenhauer per liberarsi del rapporto dualistico tra realtà assoluta e materia, senza però rinunciare alla categoria formale elaborata da Kant2. 2. Il concetto di volontà in Cesare Goretti Secondo Goretti, l’unico ad aver intuito veramente cosa la materia rappresenti è Schopenhauer (Goretti 1936, 105). Nella sua opera più famosa, Die Welt als Wille und Vorstellung (1819), Schopenhauer definisce la materia come apparenza sensibile della volontà. Questa volontà non è altro che una forza che tende ad affermarsi e realizzarsi. Essa non è più semplice materia inerte, come in Aristotele, ma forza, voluntas. Questa forza si oppone alla conoscenza tanto da tramutarsi in una noluntas, mettendo in moto quel processo che ci permette di conoscere le vere fattezze del reale, pur non rinunciando al dualismo tra realtà fenomenica e realtà assoluta. La volontà di conoscere, quindi, rischiara l’oscurità della materia e rende il mondo reale accessibile all’uomo. Green aveva intuito questo principio attraverso la definizione di dover essere e il suo concetto di moral will, ma non era riuscito, sostiene Goretti, a renderlo completo. È con Schopenhauer, quindi, che la concezione volontaristica acquista finalmente forma. 2 La strada percorsa da Goretti risulta alquanto particolare poiché, pur rimanendo all’interno dei canoni dell'idealismo (una sorta di idealismo religioso ispirato in Goretti dallo studio delle opere del filosofo russo Afrikan Spir e del suo amico a maestro Piero Martinetti), non ne segue la normale evoluzione tracciata da Fichte e conclusasi con Hegel, della quale Croce e Gentile sono stati, in Italia, i due massimi, seppur sotto molti aspetti critici, rappresentanti. Alessandro Dividus 163   164 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 Tuttavia, Goretti diverge dalla definizione di voluntas fornita da Schopenhauer. Per il filosofo tedesco la volontà si manifesta come impulso, energia, pura forza cieca, in quanto posseduta anche dalla materia, che sussiste al di fuori della forma dello spazio e del tempo ed è, quindi, indistruttibile ed eterna. Essa è energia senza causa (Abbagnano 1923). La sua ragione può essere ricercata solo nella sua manifestazione fenomenica, ma non nella volontà in sé. Per Goretti, invece, la volontà non è energia senza un fine, ma è un collegamento tra mezzi e fini. Essa ubbidisce alla categoria della finalità, mira a fini prescelti, segue degli schemi prestabiliti (Roccia 1955, 6). La realtà esteriore, secondo Goretti, rappresenta il complesso dei mezzi, gli oggetti e la materia che la volontà utilizza per realizzarsi, per liberarsi e, quindi, per perseguire il suo fine. La realtà limita il nostro egoismo, nel senso che pone al nostro volere dei punti di orientamento comuni. Quando l’uomo cerca di prendere possesso della realtà che lo circonda, non sorge in lui la visione di una realtà trascendente, ma lo schema di un’esigenza unitaria, che è la stessa limitazione del nostro egoismo (Goretti 1930, 75). La volontà, dunque, segue degli schemi prestabiliti, creando una sintesi tra il nostro volere e una parte della realtà esteriore. Nel volere del singolo si manifesta la sua propensione verso l’assoluto. Al principio del divenire, dunque, Goretti riabilita e sostituisce quel dualismo tra fenomeno e realtà che aveva messo in crisi la filosofia di Kant. Con la sua concezione di volontà, inoltre, Goretti non solo si allontana dal pensiero di Schopenhauer, ma trova anche il modo per rendere possibile l’esistenza di una categoria formale della conoscenza. Come nel collegamento tra mezzi e fini, la volontà guida la relazione immediata tra il soggetto e l’oggetto, tentando di far prevalere il suo dominio sulle cose e mettendo in mostra l’aspetto egoistico del suo movimento. Ma la volontà è prerogativa di ciascuno e non si esplica solamente attraverso un individuo determinato. Essa, dunque, incontra sul suo cammino gli atti volitivi di altri soggetti. È grazie al contatto della volontà individuale con la realtà esterna che l’egoismo nasce e scopre la sua ragion d’essere. La realtà pone dei limiti all’assoluto tendere della volontà, alla sua brama unitaria, e circoscrive i limiti delle differenti personalità individuali. La limitazione dell’egoismo è dovuta proprio all’esigenza unitaria della volontà ed esso non è altro che il prodotto della volontà stessa. In questo modo, Goretti è adesso in grado di giustificare l’aspetto formale della volontà. Essa non è più forza cieca che tende verso l’assoluto, ma, data la sua propensione unitaria, è forza costretta a percorrere determinate direzioni: l’una conduce al dominio delle cose (l’aspetto finalistico della volontà, cioè l’appropriazione del tutto), l’altra, invece, porta al godimento delle cose che dipendono dalla volontà degli altri (ciò che pone un freno alla categoria egoistica). Come riporta il Roccia:  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti Questi schemi, queste direzioni sono preordinate: non derivano cioè dalla nostra esperienza, bensì sono esse medesime condizioni dell’esperienza: o noi consideriamo il mondo esterno come un complesso di cose capaci di un possesso immediato o noi lo consideriamo come un complesso di cose il cui godimento dipende dall’attività di un altro soggetto (Roccia 1955, 7). L’aspetto formale della volontà, per Goretti, non solo è in grado di riconciliare forma e materia, fenomeno e realtà, ma è anche capace di fornire una risposta alla problematica morale riguardante la finalità dell’azione. Se per i sostenitori di una morale comune, come Kant o Green, l’azione del singolo deve essere orientata verso un bene collettivo, un fine cioè che non tenga solamente conto del concreto sviluppo del singolo, ma che rispetti l’insieme nel suo complesso, per la corrente dell’utilitarismo, invece, l’azione morale deve prediligere l’aspetto individuale, in primis, e solo in seguito condurre ad un accrescimento del benessere comune. Quello che Goretti mette in risalto, invece, è l’aspetto etico dell’egoismo. La sua è una posizione che si concilia perfettamente con entrambe e richiama alla memoria le parole di Spinoza. Per lui, così come per Goretti, il principio dell’utilità aveva un grande valore. Esso costituiva il primo grado della ragione, in quanto essa opera sulla natura empirica dell’uomo e ne mette in luce il suo carattere finito. L’utilità costringe il singolo a ripiegare su se stesso e «a sentire tutta l’ostilità della nostra limitatezza» (Goretti 1927, 238). È per questo motivo che la volontà, avendo fini egoistici ma mezzi comuni, è costretta a limitare la sua azione sulla base di un accordo sociale. La volontà, dunque, genera e limita l’egoismo, rendendo di fatto l’utile come un primo passo verso l’etico. L’essere ragionevoli, quindi, il perseguire la propria volontà, non rappresenta altro che una manifestazione del fine ultimo dell’uomo, il quale, a sua volta, si caratterizza come aspetto formale non solo della conoscenza, ma anche dell’appropriazione del reale. Date queste premesse, è adesso possibile per Goretti enunciare la sua personale interpretazione del diritto. Le condizioni a priori della conoscenza, riabilitate del loro carattere formale, vengono trasposte da Goretti all’interno della costituzione del diritto, nel campo cioè delle relazioni umane. Quello di Goretti, quindi, si presenta come un idealismo volontaristico, che non pretende «dedurre dalla volontà il diritto e tutto il diritto, intende solo cercare nella volontà stessa le condizioni che rendono possibile il diritto» (Roccia 1955, 7). Ci troviamo, dunque, di fronte a una tipologia di diritto differente rispetto a quella di matrice kantiana, poiché non rende la giuridicità stessa un elemento formale, ma identifica solamente alcuni schemi preordinati verso i quali la volontà deve dirigersi e attraverso i quali, grazie alla facoltà giuridica del reale, riesce a concretizzarsi. Solo il Green era riuscito a intuire il principio fondante del diritto, cioè la sua capacità strumentale di permettere una completa realizzazione Alessandro Dividus 165  166 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 dell’individuo nella società. Ma egli aveva eliminato ogni residuo di carattere formale all’interno della sua teoria, svilendo così la prerogativa finalistica della volontà. Quella di Goretti, quindi, rappresenta una perfetta sintesi dei due autori, che gli permetterà non solo di fornire una più completa riflessione sull’aspetto filosofico della norma, ma anche di ampliare il diritto stesso ad un gruppo sempre più ampio. 3. Il carattere strumentale del diritto La volontà deve realizzare fini dettati dalla ragione e non dati della sensibilità. Solo l’essere ragionevole è fine a se stesso. Ma per raggiungere un fine bisogna possedere un mezzo, uno strumento. Questo strumento è il diritto, l’unico in grado di ricongiungere il dover essere con la realtà fenomenica e fornire i mezzi esterni per la realizzazione morale (Goretti 1922, 16-17). Il diritto è quindi un mezzo, ciò che rende l’azione conforme al dovere. Esso è preordinato da fini. Kant derivava il diritto dal dovere, mentre Green sottolineava come l’uno non potesse esistere senza l’altro. In entrambi, però, il dovere ricopriva un ruolo primario, qualcosa che, una volta realizzato nella sua totalità, avrebbe reso vacuo il significato stesso del diritto. Per Goretti, invece, il diritto è sì uno strumento, ma uno strumento che non nasce con lo scopo di servire il dover essere, bensì è prodotto della realtà stessa che il dover essere riscopre. Mezzi e fini sono presenti nel mondo reale e offerti a chiunque possieda le capacità necessarie per farli propri. Queste possibilità di possesso, come le chiama Goretti, non forniscono alcun contenuto storico e mutabile, ma indicano solamente le linee guida attraverso le quali il nostro volere si esplica (Goretti 1930). È grazie al tentativo di dominio del reale, che gli schemi giuridici si manifestano. Essi rappresentano il collegamento diretto tra volontà ed esteriorità, regolando aprioristicamente lo spazio giuridico nel quale l’individuo si muove. Anche i Romani, sottolinea Goretti, avevano intuito la realtà empirica degli schemi giuridici. Quando essi distinguevano le res in mobiles, immobiles e semoventes non facevano altro che prendere coscienza della distinzione esistente tra diritti reali, diritti di obbligazione e diritti di asservimento (Goretti 1930, 90-91; cfr. Goretti 1922). La volontà, d’altronde, non può che realizzarsi attraverso un rapporto tra il proprio volere e l’oggetto desiderato (diritto reale), tra il proprio volere e l’attività di un terzo dal quale si pretende una certa prestazione (diritto di obbligazione) e, infine, tra il proprio volere e l’asservimento di tutta, o parte, della personalità esteriore altrui (diritto di asservimento). Questa triplice ripartizione, continua Goretti, esaurisce tutte le potenzialità «di sfruttamento e di dominio della realtà esteriore» (Goretti 1930, 89). Come per Kant, nella teoria della conoscenza, lo schematismo aveva reso possibile unificare le intuizioni sensibili all’interno delle categorie, così per Goretti, in campo giuridico, esso permette di riconoscere le tappe obbligate che la realtà empirica  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti fornisce al nostro volere. Si potrebbe obbiettare una presunta arbitrarietà nella tripartizione schematica effettuata dal Goretti, chiedendo come mai la volontà si esaurisca solamente attraverso questi schemi e non altri. Ma al perché questi schemi siano solamente tre, Goretti risponde: «L’uomo fin ad ora non ha altri modi di sfruttamento della realtà esteriore; altra prova del valore intuitivo degli schemi. [...] La realtà intuitiva non me ne fornisce altri allo stato attuale del nostro sviluppo organico» (Goretti 1930, 104). La nostra stessa esperienza e storia degli istituti giuridici, continua Goretti, dimostra il ruolo che i concetti di proprietà e obbligazione rivestono. Essi sono generici, originari, intuitivi e solo in seguito acquistano una valutazione razionale della realtà alla quale l’uomo fornisce un contenuto etico e, quindi, arbitrario. Essi, tende ancora a sottolineare Goretti, possiedono una natura puramente intuitiva e ciò non esclude che la logica giuridica possa trarne concetti giuridici corrispondenti, come la compravendita, il mandato, la proprietà ecc. (Goretti 1930, 95). Non bisogna confondere il concetto della proprietà e dell’obbligazione, che hanno un proprio contenuto storico e concreto, con lo schema dell’impossessamento e dell’obbligazione, che rappresenta il loro carattere intuitivo. Come afferma Goretti: Si dice: è il concetto di proprietà il prius logico, l’antecedente che rende possibile allo spirito l’impossessarsi della realtà. Al contrario è questo impossessarsi che permette l’elaborazione del concetto di proprietà. In questo impossessarsi vi è un atto che deve spiegarsi; e la spiegazione consiste nel fatto che il nostro egoismo, il nostro volere si muove diversamente a seconda dello spazio. Il volere ubbidisce alla categoria della finalità come l’intelletto a quella della causalità (Goretti 1930, 95-96). La nostra esigenza razionale, quindi, prende forma sensibile attraverso questi schemi giuridici, condizione dei rispettivi istituti giuridici. Per mezzo di questo atto intuitivo della realtà esteriore, il nostro egoismo viene limitato e obbligato a prendere determinate direzioni comuni, facendo trapelare una prima forma di unificazione dei voleri, di volontà comune. Essa appare inizialmente come complesso di mezzi per le nostre volizioni personali, ma lascia intuire la portata limitata di tali mezzi e, dunque, la loro comune origine. Questo passaggio, dice Goretti, è una normale conseguenza della visione unitaria della realtà da parte dei singoli, i quali tendono a polarizzare la propria volontà intorno a un ideale condiviso, acquisendo la consapevolezza della necessaria condivisione dei mezzi esteriori (Goretti 1930, 113). Si sviluppa così la coscienza di quell’elemento costituente il diritto: il principio di uguaglianza. Non si tratta, sostiene Goretti, di un’uguaglianza di diritti e doveri, di un livellamento dei valori individuali, ma di un’uguaglianza della nostra personalità di fronte alla realtà esteriore: «È la posizione del nostro volere di fronte alle direzioni che la realtà esteriore ci offre» (Goretti 1930, 113). L’umanità, dunque, non è il risultato della somma di tutti gli individui, ma è l’idea Alessandro Dividus 167  168 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 alla quale il singolo, in quanto essere razionale, partecipa. Così, ad esempio, l’idea della proprietà originaria non rappresenta il complesso delle singole proprietà, ma è il riconoscimento del diritto che l’umanità intera ha di impossessarsi della realtà esteriore (Goretti 1930, 116). Senza il riconoscimento di questo diritto, comune a tutti, non sarebbe possibile il conseguente riconoscimento dei diritti dell’individualità, dell’egoismo. 4. Gli istituti giuridici e lo Stato Quanto fino ad ora esposto mostra solamente la necessità degli schemi giuridici per la creazione di un ponte tra realtà spirituale e realtà fenomenica, mettendo in luce un’esigenza di volontà comune dettata dalla comunione dei mezzi e dei fini. Gli schemi giuridici, tuttavia, non sono che la base razionale, a priori, grazie alla quale poter dedurre l’esistenza dei diversi istituti giuridici. Gli schemi rappresentano quindi le condizioni formali che ne costituiscono la loro possibilità. Mentre il carattere strumentale del diritto aveva sottolineato la necessità di una comunione di mezzi, la storia del diritto stesso, e quindi la sua rappresentazione empirica formalizzata nell’istituto giuridico, fa emergere le caratteristiche costanti delle finalità umane. Gli istituti giuridici non sono che il riverbero di una comunione di mezzi, i quali contengono, però, vere e proprie finalità concrete (Goretti 1930, 204). Del resto, se non esistesse una comunione di mezzi, non sarebbe possibile parlare di finalità condivise. Queste finalità, ovviamente, non sono identiche in ciascuno, in quanto l’istituto giuridico non fa altro che porre in essere scopi immediati coordinati gli uni con gli altri, ma convergono tutte, sostiene Goretti, verso un punto di equilibrio: I moventi di ogni singola persona che partecipa ad un atto, ad un negozio giuridico rimangono sempre qualche cosa di irriducibilmente soggettivo, ma lo scopo dell’uno diventa una funzione di quello dell’altro, i due scopi devono farsi equilibrio intorno ad un punto comune (Goretti 1930, 204). Il fatto che una finalità presupponga un movente individuale, non esclude la possibilità che la finalità di un singolo possa incrociarsi con quella di un altro. Questo equilibrio di finalità dà vita a differenti figure giuridiche, non deducibili a priori dai nostri schemi, ma lasciate in balìa degli eventi storico-sociali. Ma il carattere formale dei nostri schemi, e quindi dei nostri mezzi, giustifica la creazione uniforme e costante degli istituti, e dunque dei nostri equilibri finali. Pertanto, dalle diverse finalità umane è possibile derivare aprioristicamente la figura giuridica della compravendita, che si richiama allo schema giuridico dell’obbligazione. Non è, dunque, il lavoro speculativo del giurista che crea le forme degli istituti giuridici, ma è la realtà sociale stessa. Essi  La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti non sono altro che realtà fenomenica, svelata dalla volontà individuale che si muove nel mondo empirico attraverso le sue forme schematiche. Le istituzioni sociali, di conseguenza, sono il risultato di un punto comune di equilibrio formatosi e consolidatosi, nel tempo, intorno a un complesso di finalità umane. L’ineludibilità di simili conclusioni, sostiene Goretti, può essere ulteriormente avvalorata attraverso un esempio. Se esaminassimo il caso della compravendita, ci troveremmo di fronte a due differenti finalità: quelle del venditore, da una parte, e quelle del compratore, dall’altra. Naturalmente, continua Goretti, queste finalità appaiono inizialmente diverse, ma il loro punto di equilibrio è riscontrabile proprio negli asservimenti reciproci esistenti nel fatto di vendere e di comprare, nei quali le finalità dell’uno si incrociano con quelle dell’altro. Questo elemento comune è derivabile dallo schema dell’obbligazione, per mezzo del quale le caratteristiche comuni delle finalità tendono a convergere. Nel caso dei diritti reali, ad esempio, è la fruizione della cosa da parte di un singolo, e dunque la sua finalità, che tende a escludere l’uso del medesimo oggetto da parte di un terzo, facendo arrestare la sua finalità di fronte al possesso del soggetto iniziale. Questo arresto, continua Goretti, mostra già di per sé l’esistenza di un equilibrio dei fini, ed è proprio questo equilibrio che rende possibile la formazione degli istituti giuridici. Ciò che rende dunque costante nel tempo l’esistenza di determinati istituti è proprio l’uniformità delle nostre forme e dei nostri bisogni. Ecco come, quindi, da un accenno di volontà comune e di unificazione di finalità, espresse nella forma dei singoli istituti giuridici, si assiste a un progressivo ampliamento del principio di solidarietà sociale, che limita automaticamente il nostro originario egoismo. Si passa, gradualmente, da un’unificazione di finalità e bisogni elementari a un’unificazione più elevata di natura spirituale. Questo è un fenomeno, dice Goretti, «storicamente accertabile e inoppugnabile» (Goretti 1930, 218). L’egoismo si asserve così, senza negarsi, a un criterio di uniformità, dando vita a unità sempre più grandi e mostrando all’umanità il cammino della giustizia. Si potrebbe sottolineare l’incoerenza pratica di tali affermazioni, mostrando le derive violente ed ingiuste che molte istituzioni hanno posto in essere, ma simili mostruosità sono solamente deformazioni storiche di suddette istituzioni, le quali, in sé, non posseggono nessun concetto di giusto ed ingiusto, ma rappresentano solamente un grado di realizzazione della volontà comune, ad uopo strumentalizzata da egoismi irrazionali. Ma in che forma empirica si realizza questa volontà comune, secondo il Goretti? La sua risposta è molto chiara: «Il diritto come tale non può culminare nello Stato» (Goretti 1930, 228). Quella che ad Hegel appare come la rappresentazione e lo stadio più completo della volontà individuale, è invece per Goretti un’indebita ingerenza dell’egoismo collettivo nei confronti di quello soggettivo, una volontà di potenza che non ubbidisce a esigenze razionali, ma ad un mero potenziamento di se stessa, tradendo quell’esigenza prettamente unitaria tipica della dialettica hegeliana. Come Alessandro Dividus 169  170 Politics. Rivista di Studi Politici n. 10, 2/2018 all’interno della società civile si manifestano una molteplicità di individualità e gruppi in contrasto tra loro, così anche lo Stato, non essendo altro che un gruppo più ampio, non potrà rappresentare la realizzazione della volontà comune, poiché anch’esso tenderà al conflitto con Stati terzi. Il suo ruolo è, così per Goretti come lo era stato per il Green, puramente pratico, nel senso di garante del rispetto del diritto e della potenzialità di sviluppo della volontà comune. Lo Stato appare come la rappresentazione finale della sovranità, politica e giuridica, ma essa è pura illusione. In ogni sovranità vi è sempre un riverbero di ordinamento giuridico ideale, che non si esaurisce nella sua forma storico-sociale, ma è assoluta spontaneità dei rapporti che l’uomo instaura tra schemi e istituti. Lo Stato, nel suo processo evolutivo, non rappresenta altro che un irrigidimento della volontà comune nel suo percorso fenomenologico. Conclusioni Quanto esposto rappresenta una parte dell’importantissimo contributo del Goretti nel campo della filosofia, che tocca aspetti gnoseologici, giuridici e politici, mostrando il suo carattere poliedrico e critico, senza però rinunciare al suo rigore logico. Le sue intuizioni sono rimaste purtroppo vittime degli sfortunati eventi storici che hanno accompagnato tutta la sua esistenza, lasciando ai più sconosciuta la sua eredità intellettuale. Di non minore importanza, inoltre, è l’impegno che egli ha dedicato in difesa dei diritti degli animali, per il quale si rimanda all’articolo L'animale quale soggetto di diritto (Goretti 1928), che si concilia perfettamente con la sua personale concezione del diritto e che anticipa, in gran parte, molte delle speculazioni attuali sul tema. Ma lo scopo di questo lavoro, data la limitatezza del contributo, non è stato quello di approfondire ogni aspetto del suo pensiero, bensì di mostrare la profonda capacità argomentativa di questo autore, il quale offre numerosi spunti in altrettanto numerosi ambiti della filosofia. Oltre ad essere stato, in Italia, il primo vero studioso e l’unico traduttore dell’opera del Green, Goretti ne ha saputo cogliere la vera intuizione, proponendo una propria visione della volontà, la quale rappresenta una geniale sintesi tra idealismo e razionalismo, quasi come un proseguo degli studi, involontariamente interrotti, ai quali il Green aveva dato origine. La riabilitazione, poi, del formalismo kantiano, segnata da una propria interpretazione della volontà di Schopenhauer, mette in evidenza un percorso innovativo rispetto al naturale interesse degli studiosi successivi, il che conferma ulteriormente la necessità di riscoprire un autore tanto grande quanto sfortunato.  Bibliografia La volontà formale e il valore della norma giuridica in Cesare Goretti Abbagnano, Nicola. 1923. Le sorgenti razionali del pensiero. Napoli: Perrella. Bradley, Andrew Cecil. 1906. Prolegomena to Ethics by the late Thomas Hill Green. Oxford: Oxford Clarendon Press. Goretti, Cesare. 1922. Il carattere formale della filosofia giuridica kantiana. Milano: Casa Editrice Isis. Goretti, Cesare. 1927. “Il trattato politico di Spinoza.” Rivista di Filosofia XVIII, 3: 235- 247. Goretti, Cesare. 1928. “L’animale quale soggetto di diritto.” Rivista di Filosofia XIX, 4: 348-369. Goretti, Cesare. 1930. I fondamenti del diritto. Milano: Libreria Editrice Lombarda. Goretti, Cesare. 1932. “Sulla distinzione fra legge e norma.” Rivista di Filosofia XXIII, 2: 125-135. Goretti, Cesare. 1933. “Il valore della filosofia di F. H. Bradley. Apparenza e Realtà.” Rivista di Filosofia XXIV, 4: 332-352. Goretti, Cesare. 1935. “L'idea di patria.” Rivista di Filosofia XXVI, 1: 66-82. Goretti, Cesare. 1936. “La metafisica della conoscenza in Thomas Hill Green.” Rivista di Filosofia XVIII, 2: 97-117. Goretti, Cesare. 1941. “L’istituzione dell’eforato.” Archivio della cultura italiana III, 4: 251-264. Goretti, Cesare. 1951. Il pensiero filosofico di Piero Martinetti. Bologna: Cooperativa Tipografica Azzoguidi. Green, Thomas Hill. 1925. Etica. “L’istituzionale e una co-struzione, una sorta di inter-azione, o co-azione co-ordinata, co-stitutente un equilibrio tipico o co-stante di finalita che si fissa in un com-plesso di mezzi”. “Casi innumerevoli dimostrano come il cane (o altro uomo) sia custde geloso della proprieta del suo padrone e come ne compartecipi all’uso. Oscuramente deve operare in esso questa visione della realta esteriore come cosa PROPRIA, che nell’uomo civile U1 arriva alle costruzione raffinate dei giuristi. E assurdo pensare che l’animale o l’uomo O2 che rende un servizio al suo padrene che lo mantiene agisca soltanto istintivamente. Deve pure sentire in se per quantto oscuramente e in modo sensible questo rapport di servizi resi e SCAMBIATI. Naturalmente l’U2 o l’animale non potra arrivare al concetto di ci oche e la proprieta, l’obbligazione. Basta cche dimostri esterioremente di fare uso di questi principi che in lui operano ancora in modo oscuro e sensibile.” Cesare Goretti. Grice: “I like Goretti: I rather casually referred to ‘the institution of a decision’ as the end of a conversational exchange – notably involving buletic conversational moves; Goretti makes a whole system out of this. His example is his conversation with his dog: ‘Surely my dog knows that he is providing me a service – guarding my territory – and he is rightly deemed as a ‘subject’ in my exchange with him – as we ‘institute a decision’ that there is a reciprocity involved.” Goretti. Keywords: “the institution of decisions” -- l’istituzionale, A. C. Bradley, La massima d’equita; “segni e comprensione” il concetto di patria, eforato—co-azione, co-operazione -- diada. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Goretti” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755508026/in/dateposted-public/

 

Grice e Gori – la filosofia di cabaret -- l’eroe e la falce – filosofia italiana – filosofia futurista -- Luigi Speranza (Roma). Filosofo.  Grice: “My favourite Gori are “L’eroe e la falce” and “Il mantello d’Arlecchino” – nothing can be italianita with that!”. Saggi: “Il mantello di Arlecchino (Roma); “Il libbro rosso de la guerra” (Roma); “Le bruttezze della Divina Commedia” (Alatri); “Le bellezze della Divina Commedia” (Milano); “Estetica dell'irrazionale” (Milano); “Il mulino della luna (Milano) “L'irrazionale”; “Filosofia ed estetica”, “Sistema di una nuova scienza del bello; “Il bello” – “L'eroe e la falce” -- Scorcio architettonico di letteratura europea dalle origini ai nostri giorni, Cagliostro (Milano); Il teatro contemporaneo e le sue correnti caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni (Torino); L'oca azzurra (Roma); Il grande amore (Firenze); Scenografia. La tradizione e la rivoluzione contemporanea (Roma); Il grottesco (Milano).  P.D. Giovanelli, Gino Gori. L'irrazionale e il teatro, Roma, Bulzoni, U. Piscopo, Gino Gori, in E. Godoli, Dizionario del futurismo, Firenze); Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Rassegna della produzione teatrale e delle nuove tendenze del teatro italiano e mondiale a cavallo tra il finire dell'800 e i primi decenni del '900. Partendo dalla riforma dell'opera lirica di Wagner e dalla sua teoria dell'opera d'arte totale, Gori passa a discorrere di Maeterlinck, Andreev, del teatro dell'Anima di Schuré e Claudel, del teatro dell'esteriorismo (D'Annunzio, Wilde, Péladan, Erdös), del teatro cinese e giapponese, di Tagore, Tolstoj, Gorkij, dell'Espressionismo, di Shaw, di Ibsen, del teatro borghese, del teatro dialettale italiano, del teatro delle nazioni europee minori (discorre anche del teatro dell'Islanda o della Lituania o della Bulgaria), delle forme rudimentarie del teatro presso i popoli selvaggi. Gino Gori (Roma, 1876-Sant'Ilario Ligure, 1952), poeta, drammaturgo e critico letterario romano fiancheggiatore del Futurismo, aprì a Roma il famoso Cabaret del Diavolo, realizzato da Fortunato Depero. "Nel gennaio del 1921 Depero è protagonista con una grande mostra personale tenuta a Palazzo Cova di Milano, che in seguito viene trasferita da Bragaglia a Roma, dove nel settembre dello stesso anno, su incarico di Gino Gori, inizia i lavori di allestimento del Cabaret del Diavolo, una sorta di bolgia dantesca frequentata da futuristi, dadaisti, anarchici ed artisti in genere. Per il cabaret, strutturato lungo un percorso discendente (a ritroso) Paradiso-Purgatorio-Inferno, Depero realizzò tutto l'arredo e le decorazioni murali. L'inaugurazione avvenne nell'aprile del 1922 ma, passato il primo momento di gloria, i tempi si fecero difficili e il locale fu chiuso, e con esso distrutto anche tutto il lavoro di Depero". (cfr. Catalogo mostra Fortunato Depero, Fondazione Palazzo Bricherasio). Letterature moderne. Studi diretti da Arturo Farinelli. Cammarota, Futurismo,  Il Futurismo applicato ai cabaret»  «C’è stato in questi giorni, qui a Roma, un improvviso e molteplice sboccio d’arte futurista: il futurismo applicato al cabaret»,[26] annotava all’inizio degli anni Venti Massimo Bontempelli, che in quel periodo simpatizzava con il Futurismo e da poco aveva rifiutato le opere scritte prima della guerra. Fra il 1921 e il 1923, venivano infatti inaugurati nella capitale diversi locali decorati dai futuristi, tutti situati nel centro della città. Iniziava la serie, nel ’21, il Bal Tic Tac, situato in via Milano, i cui ambienti considerati distrutti per oltre mezzo secolo, sono stati recentemente ritrovati durante il restauro del palazzo. Alle sale, arredi e lampade del cabaret aveva lavorato Balla: era «un grandioso locale per balli notturni futuristicamente decorato», nel quale «per la prima volta, apparve realizzata la nuova arte decorativa futurista. Forza, dinamismo, giocondità, italianità, originalità» commentava il periodico Il Futurismo.[27] Per il lavoro, ha ricordato la figlia dell’artista, Elica, Balla era stato contattato da Vinicio Paladini, altro avanguardista della cerchia romana, in quegli anni in procinto di lanciare con Ivo Pannaggi il movimento Immaginista.[28] Nel 1922, nei sotterranei dell’Hotel Élite et des Etrangers in Via Basilicata 13, era stato aperto il Cabaret del Diavolo, uno dei più stravaganti ritrovi romani di proprietà di Gino Gori, il quale intendeva farne il punto di incontro di scrittori, pittori e intellettuali e aveva puntato sulla creatività di Depero, chiamandolo a decorarne e ad arredarne gli interni. Le tre sale, denominate Inferno, Purgatorio e Paradiso, avevano ognuna una specificità cromatica e tipologica: i mobili del Paradiso, ad esempio, erano azzurri, quelli del Purgatorio verdi e quelli dell’Inferno rossi. L’illuminazione era bianco-rosa-azzurrina con immagini di angeli e cherubini nel Paradiso, bianco-verde con una coorte di anime verdi nel Purgatorio, e rossa con diavoli e dannati avvolti dalle fiamme nell’Inferno. Il locale era sede della Brigata degli Indiavolati, composta da poeti e artisti.  Nello stesso anno Balla, che aveva anche decorato la sua celebre casa-galleria aperta al pubblico di Via Nicolò Porpora 2 (poi seguita dall’altrettanto celebre abitazione di Via Oslavia 34 b), realizzava il soffitto luminoso della sala futurista della nuova sede allestita da Virgilio Marchi della Casa d’Arte di Bragaglia, trasferitasi da Via Condotti 18 in Via degli Avignonesi 8. Nei locali ricavati nei sotterranei dei Palazzi Tittoni e Vassalli che conservavano le terme pubbliche romane di Settimio Severo, nel 1923 Bragaglia affiancava alla galleria anche il Teatro degli Indipendenti per il quale Virgilio Marchi aveva realizzato il ridotto e il bar: qui, per otto dense stagioni, Anton Giulio sperimentò la sua ‘riforma teatrale’ e le sue idee di rinnovamento delle tecnica scenica mediante l’introduzione di nuovi elementi quali una regia sperimentale, una recitazione innovativa e una scenografia ‘cromatica’. Nel teatro vennero messi in scena gran parte dei testi d’avanguardia italiani e stranieri prodotti in quegli anni dagli artisti più vari, da Jarry ad Apollinaire, dai Futuristi agli Immaginisti: nel 1921, la vecchia sede della Casa d’Arte aveva ospitato anche la mostra di opere dadaiste facente parte della Grande Stagione Dada Romana che aveva messo in programma esposizioni, declamazioni, esecuzioni di musiche dadaiste e una conferenza di Evola su Tzara nell’Aula Magna dell’Università.  l testo di Braibanti è precedente rispetto a quelli di Kaiser e Bachtin, risale al 1951, non può quindi giovarsi delle ricerche dei due autori ma, per le sue finalità, la sorte del grottesco nella storia dell’arte è di importanza relativa. Conosceva e cita altrove il testo di Gino Gori sul grottesco nell’arte, ne apprezza l’impresa ma coglie i limiti della riduzione dello spirito del grottesco all’ambito dell’artistico. Il luogo privilegiato del grottesco è la vita, lo spazio interindividuale è dove si dispiegano le sue epifanie. GORI GINO. Il teatro contemporaneo e le sue correnti caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni. Torino, Fratelli Bocca, 1924. In-8°, pp. (4), 282, (2), brossura editoriale con titolo in rosso e nero entro bordura ornamentale anch'essa in bicromia. Gore al dorso. Una piccola mancanza al margine superiore del piatto posteriore. Bella copia in barbe e a fogli chiusi. Prima edizione. Rassegna della produzione teatrale e delle nuove tendenze del teatro italiano e mondiale a cavallo tra il finire dell'800 e i primi decenni del '900. Partendo dalla riforma dell'opera   lirica di Wagner e dalla sua teoria dell'opera d'arte totale, Gori passa a discorrere di Maeterlinck, Andreev, del "teatro dell'Anima" di Schuré e Claudel, del teatro dell'"esteriorismo" (D'Annunzio, Wilde, Péladan, Erdös), del teatro cinese e giapponese, di Tagore, Tolstoj, Gorkij, dell'Espressionismo, di Shaw, di Ibsen, del teatro borghese, del teatro dialettale italiano, del teatro delle nazioni europee minori (discorre anche del teatro dell'Islanda o della Lituania o della Bulgaria), delle "forme rudimentarie" del teatro presso i popoli selvaggi. Gino Gori (Roma, 1876-Sant'Ilario Ligure, 1952), poeta, drammaturgo e critico letterario romano fiancheggiatore del Futurismo, aprì a Roma il famoso Cabaret del Diavolo, realizzato da Fortunato Depero. (cfr. Catalogo mostra Fortunato Depero, Fondazione Palazzo Bricherasio). Letterature moderne. Studi diretti da Arturo Farinelli. Cammarota, Futurismo, 248.2 GORI GINO. L'irrazionale. Volume primo. Filosofia ed estetica. Sistema di una nuova scienza del bello. Volume secondo. L'eroe e la falce. Scorcio architettonico di letteratura europea dalle origini ai nostri giorni. Foligno, Campitelli, 1924. 2 voll. in-8° (200135mm), pp. XI; 182, (2); 183-550, (4) [paginazione continua]; brossure editoriali. Bell'esemplare in parte intonso. Prima edizione e primo migliaio di questo importante saggio di estetica suggestionato dalla poetica futurista GORI, Gino. - Nacque a Roma, il 7 luglio 1876, da Vincenzo Guglielmo e Giovanna Santi. Terminato il liceo, si laureò dapprima in giurisprudenza, iscrivendosi poi a medicina, senza tuttavia nutrire particolare interesse neppure per questo indirizzo di studi. Egli si sentiva piuttosto attratto dalla letteratura, dalla filosofia e, in particolare, dal teatro, di cui prese a scrivere fin dai primi anni del nuovo secolo.  Collaboratore di vari giornali e riviste - tra cui il Don Chisciotte, il Capitan Fracassa, La Vita, La Patria, il Don Marzio, L'Ora, Il Tirso, di cui fu redattore capo nel 1912-13, Aprutium di Teramo, Noi e il mondo, mensile illustrato de La Tribuna di Roma -, si fece presto la fama di critico militante severo e intransigente. Amico di Trilussa e suo ammiratore, compose poesie e canovacci teatrali in romanesco.  Anticlericale e massone, allo scoppio della Grande Guerra fu interventista e irredentista. Nel primo dopoguerra e negli anni successivi prese a sostenere la cultura modernista e il teatro sperimentale, gestendo il cabaret dell'hôtel Majestic, di cui era proprietario. Viaggiò molto sia in Europa (Francia, Spagna, Germania, Russia) sia in America (Messico, California). Il 30 nov. 1929 sposò Giulia Massobrio, vedova di G. Volante. Dopo il matrimonio il G. lasciò Roma, interrompendo l'intensa attività letteraria cui si era dedicato, e si trasferì a Chianciano, dove comprò e gestì l'albergo Excelsior. Sempre a Chianciano fondò e diresse il periodico Il Giornale dell'albergatore.  Intellettuale e poligrafo - fu infatti poeta, romanziere, filosofo con particolare attenzione all'estetica, saggista, critico militante, studioso di teatro - il G., finché si dedicò ad attività culturali, si adoperò principalmente a sostenere e diffondere, nell'Italia del primo Novecento, un clima e un gusto più avanzati e moderni; i suoi maggiori e più significativi contributi, tutti concentrati nel corso degli anni Venti, riguardano le teorie e le pratiche poste a fondamento del processo di rinnovamento del teatro contemporaneo.  Dopo gli studi giuridici e di medicina, il G. aveva provveduto a darsi una solida e rigorosa preparazione letteraria e filosofica, coniugando l'educazione sui classici con un'informazione puntuale e aggiornata sugli orientamenti e sugli esiti più attuali della poesia, della critica, della narrativa, dell'editoria a livello nazionale ed europeo. Insofferente, come molti suoi coetanei, nei confronti dei contenuti e dei metodi del positivismo e degli indirizzi storico-filologici, fu convinto seguace dell'idealismo di B. Croce e della rinascita dell'interesse per la critica di F. De Sanctis; la sua attenzione si estese, da Croce e dai crociani, anche agli intellettuali che dialogavano con Croce dall'esterno dell'idealismo.  Di questa sua posizione egli rende conto in Il mantello di Arlecchino (Roma 1914 [ma 1913]), sostanziosa silloge ricca di indicazioni e di suggestioni critiche, in cui traccia il panorama della letteratura italiana della belle époque.  Se De Sanctis e Croce forniscono modelli e suggerimenti, tuttavia il lavoro critico del G. non è inteso come applicazione pedissequa della dottrina dei maestri: egli integra, rilegge, propone nuove osservazioni. A complemento di questo lavoro è poi allegato un esaustivo tracciato dell'attività editoriale in Italia.  Di umori nazionalisti e interventisti è intrisa la sua prima raccolta di versi in dialetto romanesco, Er libbro rosso de la guera (Roma 1915; che contiene anche il canovaccio teatrale in dialetto Le maschere de la guera, pp. 3-21) mentre, per Trieste italiana e contro il mondo tedesco, il G. pubblicò in Aprutium(IV [1915], f. 8), una canzone, Sorella nostra!, celebrativa della latinità assunta a valore contro la barbarie del "duro settentrione". Fu, comunque, la Grande Guerra a far maturare in lui un processo di piena conversione al moderno, inteso quale gusto, mimesi linguistica, diegesi e strumentazione di idee e di stili fondati sul nuovo.  Si avvicinò a F.T. Marinetti, di cui tra i primi aveva dato un profilo essenziale e pertinente (ne Il mantello di Arlecchino, pp. 193-211), e ne divenne amico, ma corresse anche il giudizio nei confronti dei futuristi, che nell'anteguerra egli aveva adeguato, sulla scorta di G. Papini, a "marinettiani" (ibid., pp. 213-223), tra i quali, invece, venne distinguendo posizioni diverse, sostenendo soprattutto alcuni di essi, come R. Vasari, L. Folgore ed E. Prampolini. Meditò attentamente sul teatro di L. Pirandello, si entusiasmò per il teatro del colore di A. Ricciardi, strinse amicizia con i Bragaglia, con V. Orazi, con M. Bontempelli.  Fu soprattutto l'ispirazione poetica a farsi nel G. più avvolgente e convinta: la parola, che nelle sue composizioni d'anteguerra si risolveva in veicolo di denunzia, di argomentazione e di persuasione, o di descrizioni realistiche (vedi Er libbro rosso de la guera), acquistò nuove sfumature, più allusive, e si dispose su tramature in cui si riscontrano riflessi di G. Pascoli, di G. Gozzano, di C. Govoni, di A. Palazzeschi, raggiungendo talora esito felice, come nelle tre liriche Alla stazione, Ogni giorno così e Limbo, apparse in Le foglie dell'orologio (Roma s.d.), poi riproposte con diverso titolo in Il grande amore (Firenze 1926).  In quest'ultima silloge, accanto alle tre citate, figurano nuove composizioni, ispirate al realismo magico di Bontempelli (Sembra una favola!, A teatro, Le tre vecchine, Orgoglio); e, di fatto, l'avvicinamento a Bontempelli, sia sul versante saggistico-estetologico sia su quello poetico, era iniziato da tempo: già la raccolta Il mulino della luna (Milano 1924; di cui si ricordano in particolare Come un cipresso notturno, L'oca azzurra, L'isola lontana, Pierrots, Si parte, Con la rete dei pensieri, È passato il re, L'automa nella pioggia, Annunciazione, Epilogo), posta cronologicamente fra le due summenzionate, poggiava sostanzialmente su una griglia di suggerimenti metafisico-surreali ascrivibili all'ambito ideale di Bontempelli e ai suoi immediati dintorni.  Non altrettanto positivo e più scontato l'esito raggiunto dal G. nel romanzo e nella novella (per lo più inediti) con l'eccezione di L'oca azzurra (Roma 1925) - che riprende titolo e immagini della lirica de Il mulino della luna, intrisa di un umorismo alla Folgore e di un magismo che rinvia nuovamente a Bontempelli - e di Coriandoli, una raccolta, appunto inedita, di novelle.  Ma gli interventi più interessanti del G. sono quelli legati al discorso critico sul teatro, riguardo al quale egli concordava con avanguardisti e sperimentali sull'ineludibilità del rinnovamento delle sue pratiche, delle sue strategie e dell'idea stessa su cui esso si costituisce. A tal fine, si impegnò innanzitutto concretamente, fondando e gestendo in proprio un laboratorio teatrale posto sotto il segno di un "antigrazioso" irritante e provocatorio; infatti, nel 1921, a Roma, con un anno di anticipo sul teatro degli Indipendenti di A.G. Bragaglia, egli aveva fondato e preso a dirigere quel cabaret, La Bottega del diavolo, sito all'interno dell'hôtel Élite et des étrangers, poi Majestic, di sua proprietà.  Dell'albergo erano frequentatori e gratuitamente ospiti numerosi futuristi, tra cui Marinetti, giornalisti e scrittori; negli scantinati, detti l'"inferno", arredati con mobili e manufatti realizzati da F. Depero, da Prampolini e da altri, e decorati con immagini di diavoli danzanti, armati di forconi e pronti a scaraventare nelle fiamme i dannati, si davano ogni sabato spettacoli futuristi e modernisti. Ai programmi, e alla loro realizzazione, presiedeva una commissione di esperti e primi attori, tra cui erano lo stesso G., nel ruolo di Minosse, Trilussa quale Lucifero, Folgore come Cerbero, e Bontempelli come Barbariccia (per una dettagliata testimonianza sul cabaret, che andò avanti fino al 1927, si veda Un covo di diavoli nella Roma di 40 anni fa, in Il Tempo, 19 apr. 1967). Dietro la facciata di questo underground ante litteram, il G. andava maturando la sua riflessione sul rapporto tra teatro e corporeità, dionisismo, vitalismo, e sulla necessità di accelerare il processo di rivitalizzazione e risignificazione del teatro stesso e delle attività collegate. A monte di tale riflessione specificamente orientata sul teatro, si collocavano i due volumi del saggio L'irrazionale (I, Filosofia ed estetica. Sistema di una nuova scienza del bello; II, L'eroe e la falce. Scorcio architettonico di letteratura europea dalle origini ai nostri giorni, Foligno 1924), che s'inseriscono, con ogni evidenza, nel quadro generale dell'avanguardia internazionale, impegnata a riconsiderare i fondamenti dell'arte e dell'estetica nella chiave del notturno, dell'inquietante, dell'anamorfico.  Viceversa il discorso specifico sul teatro s'innerva in tre opere successive: Il teatro contemporaneo e le sue correnti caratteristiche di pensiero e di vita nelle varie nazioni (Torino-Milano-Roma 1924), che si propone di indagare sui nuovi linguaggi del teatro nelle sue varie manifestazioni nazionali; Scenografia. La tradizione e la rivoluzione contemporanea (Roma 1926), in cui il G. esamina, tramite lo specifico della scenografia, le vie attraverso le quali si possa raggiungere e comunicare la realtà "che si trova di là dall'apparenza" (p. 210), e come si possa darne una rappresentazione, interrogandosi su intuizioni e tentativi di alcuni tra i nomi più significativi della storia del teatro moderno - a partire da R. Wagner e proseguendo con G. Craig, A. Appia, V. Mejerchol´d - ma soprattutto dando conto delle esperienze del "teatro della sorpresa" futurista - di Vasari in particolare (L'angoscia delle macchine, Milano 1925), ma anche di Prampolini, V. Marchi, Folgore, oltre che del "teatro del colore" di A. Ricciardi e del laboratorio di A.G. Bragaglia -, e studiando le esperienze futuriste del dinamismo plastico, della simultaneità e della sintesi. Seguì infine Il grottesco nell'arte e nella letteratura (ibid. 1927), in cui, riproponendo anche alcuni studi di prima della guerra (sul grottesco nell'Inferno di Dante, sulla maschera turca di Karagöz), il G. approfondisce soprattutto lo studio sul teatro futurista italiano nella chiave del grottesco e del fantastico (in particolare, E. Cavacchioli, L. Chiarelli, L. Antonelli).  Al termine dell'intensa stagione intellettuale degli anni Venti, convinto di essere stato sfruttato e trascurato dalla cultura ufficiale, il G. si appartò, allontanandosi da Roma, senza tuttavia smettere di studiare e di scrivere: lasciò quindi numerosi scritti inediti conservati presso gli eredi.  Nel secondo dopoguerra, il G. si stabilì in una località di mare, Sant'Ilario Ligure (Genova), dove morì il 24 dic. 1952.  Tra le opere del G., oltre a quelle citate nel testo, si ricordano: per la narrativa: Cagliostro(Milano 1925); per la saggistica: Le bruttezze della Divina Commedia (Alatri 1920); Le bellezze della Divina Commedia (Milano s.d. [ma 1921]); Studi di estetica dell'irrazionale(ibid. s.d. [ma 1921]).  Fonti e Bibl.: M. Verdone, Teatro del tempo futurista, Roma 1969, pp. 274-276 e passim; Id., Prosa e critica futurista, Milano 1973, pp. 314-317, 339; P.D. Giovanelli, G. G.: l'irrazionale e il teatro, Roma 1978; U. Piscopo, G. G., in Dizionario del futurismo, a cura di E. Godoli, Firenze 2001, sub voce.Gino Gori. Keywords: l’eroe e la falce, bello, eroe, falce, irrazionale, mantello dell’arlecchino  – bellezza, futurismo – Refs: Luigi Speranza, “Grice e Gori” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51701334178/in/photolist-2mR9Kz4-2mPAWP1-2mN35cA-2mLKeCe-2mLP3hz-2mLERpq-2mKMuu9-2mKC3nj-2mKCMei-2mJ3q6x-FNptwK-ESZ2oh-ESYzUw-ETfeER-FGy1TZ-ETbJX6-ETbpBn-FEfv5Y-FGxVqp-ETe2Ut-FGCKMg-ETbawt-FohZR5-FNqpZT-FNpoR2-jkKjmQ-jrB3iu-nFTbv2-nHuSHb

 

Grice e Gramsci – contro Croce – partito socialista italiano – il comune – l’elite – Mosca -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ales). Filosofo.  Grice: “Some Italians don’t consider Gramsci Italian on account of the fact that Gramsci is not an Italian last name!” Fu tra i fondatori del Partito Comunista d'Italia, divenendone esponente di primo piano e segretario, ma venne ristretto dal regime fascista nel carcere di Turi. In seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la libertà condizionata e fu ricoverato in clinica, dove trascorse gli ultimi anni di vita. Considerato uno dei più importanti pensatori del XX secolo, nei suoi scritti, tra i più originali della tradizione filosofica marxista, analizza la struttura culturale e politica di Italia. Elaborò in particolare il concetto di egemonia, secondo il quale le classi dominanti impongono i propri valori politici, intellettuali e morali a tutta la società, con l'obiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le classi sociali, comprese quelle subalterne. Gli antenati paterni derano originari della città di Gramshi in Albania, e potrebbero essere giunti in Italia durante la diaspora albanese causata dall'invasione turca. Documenti d'archivio attestano che nel Settecento il trisavolo Gennaro Gramsci, sposato con Domenica Blajotta, possedeva a Plataci, comunità ‘’arbëreshë’’ del distretto di Castrovillari, delle terre poi ereditate da Nicola Gramsci. Questi sposò Maria Francesca Fabbricatore, e dal loro matrimonio nacque a Plataci Gennaro Gramsci, che intraprese la carriera militare nella gendarmeria del Regno di Napoli e, quando era di stanza a Gaeta, sposò Teresa Gonzales, figlia di un avvocato napoletano. Il loro secondo figlio fu Francesco, il padre di Antonio Gramsci.  Le origini albanesi erano conosciute dallo stesso Gramsci, che tuttavia le immaginava più recenti, come scriverà alla cognata Tatiana Schucht dal carcere di Turi: «o stesso non ho alcuna razza; mio padre è di origine albanese (la famiglia scappò dall'Epiro durante la guerra del 1821, ma si italianizzò rapidamente). Tuttavia la mia cultura è italiana, fondamentalmente questo è il mio mondo; non mi sono mai accorto di essere dilaniato tra due mondi. L'essere io oriundo albanese non fu messo in giuoco perché anche Crispi era albanese, educato in un collegio albanese.” Ghilarza: casa museo Antonio Gramsci Francesco era studente in legge quando morì il padre; dovendo trovare subito un lavoro, partì per la Sardegna per impiegarsi nell'Ufficio del registro di Ghilarza. In questo paese, che allora contava circa 2.200 abitanti, conobbe Marcias, figlia di un esattore delle imposte e proprietario di alcune terre. La sposò malgrado l'opposizione dei familiari, rimasti in Campania, che consideravano i Marcias una famiglia di rango inferiore alla propria dal punto di vista sociale e culturale: Giuseppina aveva studiato fino alla terza elementare. Dal matrimonio nascerà Gennaro e, dopo che Francesco Gramsci fu trasferito da Ghilarza ad Ales, Grazietta ed Emma. Gramsci nasce secondo il registro delle nascite dello stato civile del comune e registrato con i nomi di Antonio, Francesco. Scondo il registro dei battesimi della parrocchia di San Pietro nasce il giorno dopo,  e viene registrato con i nomi di Antonio, Sebastiano, Francesco. Il padre fu trasferito, come gerente dell'Ufficio del Registro, a Sorgono e qui nacquero gli altri figli, Mario, Teresina, e Carlo. Antonio si ammala del morbo di Pott, una tubercolosi ossea che in pochi anni gli deformò la colonna vertebrale e gli impedì una normale crescita: adulto, non supererà il metro e mezzo di altezza; i genitori pensavano che la sua deformità fosse la conseguenza di una caduta e anche Antonio rimase convinto di quella spiegazione. Ebbe sempre una salute delicate. Soffrendo di emorragie e convulsioni, fu dato per spacciato dai medici, tanto che la madre comprò la bara e il vestito per la sepoltura.  Il padre Francesco fu arrestato, con l'accusa di peculato, concussione e falsità in atti, e venne condannato al minimo della pena con l'attenuante del «lieve valore»: 5 anni, 8 mesi e 22 giorni di carcere, da scontare a Gaeta. Priva del sostegno dello stipendio del padre, la famiglia trascorse anni di estrema miseria, che la madre affrontò vendendo la sua parte di eredità, tenendo a pensione il veterinario del paese e guadagnando qualche soldo cucendo camicie. Proprio per le sue delicate condizioni di salute Gramsci comincia a frequentare la scuola elementare soltanto a sette anni: la concluse ncon il massimo dei voti, ma la situazione familiare non gli permise di iscriversi al ginnasio. Già dall'estate precedente aveva iniziato a dare il suo contributo all'economia domestica lavorando 10 ore al giorno nell'Ufficio del catasto di Ghilarza per 9 lire al mese l'equivalente di un chilo di pane al giornos muovendo «registri che pesavano più di me e molte notti piangevo di nascosto perché mi doleva tutto il corpo». Grazie a un'amnistia, il padre anticipò di tre mesi la fine della sua pena: inizialmente guadagnò qualcosa come segretario in un'assicurazione agricola, poi, riabilitato, fece il patrocinante in conciliatura e infine fu riassunto come scrivano nel vecchio Ufficio del catasto, dove lavorò per il resto della sua vita. Così, pur affrontando gli abituali sacrifici, i genitori poterono iscrivere il quindicenne Antonio nel Ginnasio cdi Santu Lussurgiu, «un piccolo ginnasio in cui tre sedicenti professori sbrigavano, con molta faccia tosta, tutto l'insegnamento delle cinque classi».  Con tale preparazione un poco avventurosa, riuscì tuttavia a prendere la licenza ginnasiale a Oristano e a iscriversi al Liceo classico Giovanni Maria Dettori di Cagliari, stando a pensione, prima in un appartamento in via Principe Amedeo 24, poi, l'anno dopo, in corso Vittorio Emanuele 149, insieme con il fratello Gennaro, il quale, terminato il servizio di leva a Torino, lavorava per cento lire al mese in una fabbrica di ghiaccio del capoluogo sardo.  La modesta preparazione ricevuta nel ginnasio si fece sentire, perché inizialmente Gramsci nelle diverse materie ottenne appena la sufficienza, ma riuscì a recuperare in fretta: del resto, leggere e studiare erano i suoi impegni costanti. Non si concedeva distrazioni, non soltanto perché avrebbe potuto permettersele solo con grandi sacrifici, ma anche perché l'unico vestito che possedeva, per lo più liso, non lo incoraggiava a frequentare né gli amici, né i locali pubblici. A scuola, mostrò uno spiccato interesse per le discipline umanistiche e per lo studio della storia, anche perché il cattivo insegnamento ricevuto in matematica gli fece perdere l'interesse per la materia.  Nel frattempo, il giovane Gramsci, iniziò a seguire le vicende politiche. Il fratello Gennaro, che era tornato in Sardegna militante socialista, divenne cassiere della Camera del lavoro e segretario della sezione socialista di Cagliari: «Una grande quantità di materiale propagandistico, libri, giornali, opuscoli, finiva a casa. Nino, che il più delle volte passava le sere chiuso in casa senza neanche un'uscita di pochi momenti, ci metteva poco a leggere quei libri e quei giornali». Leggeva anche i romanzi popolari di Carolina Invernizio, di Barrili e quelli di Deledda, ma questi ultimi non li apprezzava, considerando folkloristica la visione che della Sardegna aveva la scrittrice sarda; leggeva Il Marzocco e La Voce di  Prezzolini, Papini, Emilio Cecchi «ma in cima alle sue raccomandazioni, quando mi chiedeva di ritagliare gli articoli e di custodirli nella cartella, stavano sempre Croce e Salvemini».  Alla fine della seconda classe liceale, alla cattedra di lettere italiane del Liceo salì Garzia, radicale e anticlericale, direttore de L'Unione Sarda, quotidiano legato alle istanze sarde, rappresentate, in Parlamento da Cocco-Ortu, allora impegnato in una dura opposizione al ministero di Luigi Luzzatti. Gramsci instaurò con il Garzia un buon rapporto, che andava oltre il naturale discepolato: invitato ogni tanto a visitare la redazione del giornale, ricevette la tessera di giornalista, con l'invito a «inviare tutte le notizie di pubblico interesse. Ebbe la soddisfazione di vedersi stampato il suo primo scritto pubblico, venticinque righe di cronaca ironica su un fatto avvenuto nel paese di Aidomaggiore.  In un tema dell'ultimo anno di liceo, che ci è conservato, Gramsci scriveva, tra l'altro, che «Le guerre sono fatte per il commercio, non per la civiltà la Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe all'altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate». La sua concezione socialista, qui chiaramente espressa, va unita, in questo periodo, all'adesione all'indipendentismo sardo, nel quale egli esprimeva, insieme con la denuncia delle condizioni di arretratezza dell'isola e delle disuguaglianze sociali, l'ostilità verso le classi privilegiate del continente, fra le quali venivano compresi, secondo una polemica mentalità di origine contadina, gli stessi operai, concepiti come una corporazione elitaria fra i lavoratori salariati.  Poco dopo Gramsci conoscerà da vicino la realtà operaia di una grande città del Nord:  il conseguimento della licenza liceale con una buona votazione tutti otto e un nove in italianogli prospetta la possibilità di continuare gli studi all'Università. Il Collegio Carlo Alberto di Torino bandì un concorso, riservato a tutti gli studenti poveri licenziati dai Licei del Regno, offrendo 39 borse di studio, ciascuna equivalente a 70 lire al mese per 10 mesi, per poter frequentare Torino. Fu uno dei due studenti di Cagliari ammessi a sostenere gli esami a Torino. «Partii per Torino come se fossi in stato di sonnambulismo. Avevo 55 lire in tasca; avevo speso 45 lire per il viaggio in terza classe delle 100 avute da casa». Conclude gli esami: li supera classificandosi nono; al secondo posto è uno studente genovese venuto da Sassari, Palmiro Togliatti.  Si iscrive alla Facoltà di Lettere, ma le settanta lire al mese non bastano nemmeno per le spese di prima necessità: oltre alle tasse universitarie, deve pagare venticinque lire al mese per l'affitto della stanza di Lungo Dora Firenze 57, nel popolare quartiere di Porta Palazzo, e il costo della luce, della pulizia della biancheria, della carta e dell'inchiostro, e ci sono i pasti«non meno di due lire alla più modesta trattoria»e la legna e il carbone per il riscaldamento: privo anche di un cappotto, «la preoccupazione del freddo non mi permette di studiare, perché o passeggio nella camera per scaldarmi i piedi oppure devo stare imbacuccato perché non riesco a sostenere la prima gelata». Sono frequenti le richieste di denaro alla famiglia che però, da parte sua, non se la passava di certo molto meglio.  L'Università degli Studi di Torino vantava professori di alto livello e di diversa formazione: Luigi Einaudi, Ruffini, Manzini, Toesca, Loria, Solari e poi Bartoli, che si legò di amicizia con Gramsci, come fece anche l'incaricato di letteratura italiana  Cosmo, contro il quale indirizzò però un articolo violentemente polemico. Anni dopo, durante la dura esperienza in carcere, continuò comunque a ricordarlo con simpatia«serbo del Cosmo un ricordo pieno di affetto e direi di venerazione era e credo sia tuttora di una grande sincerità e dirittura morale con molte striature di quella ingenuità nativa che è propria dei grandi eruditi e studiosi»ricordando anche che, con questi e con molti altri intellettuali dei primi quindici anni del secolo, malgrado divergenze di varia natura, egli avesse questo in comune: «partecipavamo in tutto o in parte al movimento di riforma morale e intellettuale promosso in Italia da Benedetto Croce, il cui primo punto era questo, che l'uomo moderno può e deve vivere senza religione rivelata o positiva o mitologica o come altro si vuol dire. Questo punto anche oggi mi pare il maggior contributo alla cultura mondiale che abbiano dato gli intellettuali moderni italiani. Si ritrovò a casa per le elezioni politiche, dopo la fine della guerra italo-turca contro l'Impero ottomano per la conquista della Libia; votavano per la prima volta anche gli analfabeti, ma la corruzione e le intimidazioni erano le stesse delle elezioni precedenti. In Sardegna, il timore che l'allargamento della base elettorale favorisse i socialisti portò al blocco delle candidature di tutte le forze politiche contro i candidati socialisti, indicati come il comune nemico da battere. In quest'obiettivo, "sardisti" e "non-sardisti" si trovarono d'accordo e deposero le vecchie polemiche. Gramsci scrisse di quest'esperienza elettorale al compagno di studi Tasca, dirigente socialista torinese, il quale affermò che Gramsci «era stato molto colpito dalla trasformazione prodotta in quell'ambiente dalla partecipazione delle masse contadine alle elezioni, benché non sapessero e non potessero ancora servirsi per conto loro della nuova arma. Fu questo spettacolo, e la meditazione su di esso, che fece definitivamente di Gramsci un socialista».  Tornò a Torino, andando ad affittare una stanza all'ultimo piano del palazzo di via San Massimo 14, oggi Monumento nazionale; dovrebbe datarsi a questo periodo la sua iscrizione al Partito socialista. Si trovò in ritardo con gli esami, con il rischio di perdere il contributo della borsa di studio, a causa di «una forma di anemia cerebrale che mi toglie la memoria, che mi devasta il cervello, che mi fa impazzire ora per ora, senza che mi riesca di trovare requie né passeggiando, né disteso sul letto, né disteso per terra a rotolarmi in certi momenti come un furibondo». Riconosciuto «afflitto da grave nevrosi» gli fu concesso di recuperare gli esami nella sessione di primavera. Prese anche lezioni di filosofia da Pastore, il quale scrisse poi che «il suo orientamento era originalmente crociano ma già mordeva il freno e non sapeva ancora come e perché staccarsi voleva rendersi conto del processo formativo della cultura agli scopi della rivoluzione come fa il pensare a far agire come le idee diventano forze pratiche». Gramsci stesso scriverà di aver sentito anche la necessità di «superare un modo di vivere e di pensare arretrato, come quello che era proprio di un sardo del principio del secolo, per appropriarsi un modo di vivere e di pensare non più regionale e da villaggio, ma nazionale» ma anche «di provocare nella classe operaia il superamento di quel provincialismo alla rovescia della palla di piombo come il Sud Italia e generalmente considerato nel Nord che aveva le sue profonde radici nella tradizione riformistica e corporativa del movimento socialista». L'iscrizione al partito gli permise di superare in parte un lungo periodo di solitudine: ora frequentava i giovani compagni di partito, fra i quali erano Tasca, Togliatti, Terracini. “Uscivamo spesso dalle riunioni di partito mentre gli ultimi nottambuli si fermavano a sogguardarci continuavamo le nostre discussioni, intramezzandole di propositi feroci, di scroscianti risate, di galoppate nel regno dell'impossibile e del sogno». Nell'Italia che ha dichiarato la propria neutralità nella Prima guerra mondiale in corsoneutralità affermata anche dal Partito socialistascrive per la prima volta sul settimanale socialista torinese Il Grido del Popolo l'articolo Neutralità attiva e operante in risposta a quello apparso il 18 ottobre sull'Avanti! di Mussolini Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante, senza però poter comprendere quale svolta politica stesse preparando l'allora importante e popolare esponente socialista.  Sostenne  quello che sarà, senza che lo sapesse ancora, il suo ultimo esame all'Università; il suo impegno politico si fece crescente con l'entrata in guerra dell'Italia e con il suo ingresso nella redazione torinese dell'Avanti!. Trascorse gran parte delle sue giornate all'ultimo piano nel palazzo dell'Alleanza Cooperativa Torinese al numero 12 di corso Siccardi (oggi Galileo Ferraris), dove, in tre stanze, erano situate la sezione giovanile del partito socialista e le redazioni de Il Grido del Popolo e del foglio piemontese dell'Avanti!, che comprendeva la rubrica della cronaca torinese, Sotto la Mole; in entrambi i giornali Gramsci pubblicava di tutto, dai commenti sulla situazione interna ed estera agli interventi sulla vita di partito, dagli articoli di polemica politica alle note di costume, dalle recensioni dei libri alla critica teatrale. Dirà più tardi di aver scritto in dieci anni di giornalismo «tante righe da poter costituire quindici o venti volumi di quattrocento pagine, ma esse erano scritte alla giornata e dovevano morire dopo la giornata» e di aver contribuito «molto prima di Tilgher» a rendere popolare il teatro di Pirandello: «ho scritto sul Pirandello tanto da mettere insieme un volumetto di duecento pagine e allora le mie affermazioni erano originali e senza esempio: Pirandello era o sopportato amabilmente o apertamente deriso». Della commedia di Pirandello Pensaci, Giacomino! scrisse che «è tutto uno sfogo di virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii discorsivi. I tre atti corrono su un solo binario. I personaggi sono oggetto di fotografia piuttosto che di approfondimento psicologico: sono ritratti nella loro esteriorità più che in una intima ricreazione del loro essere morale. È questa del resto la caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello, che coglie della vita la smorfia, più che il sorriso, il ridicolo, più che il comico: che osserva la vita con l'occhio fisico del letterato, più che con l'occhio simpatico dell'uomo artista e la deforma per un'abitudine ironica che è l'abitudine professionale più che visione sincera e spontanea», mentre considerò Liolà  «il prodotto migliore dell'energia letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a spogliarsi delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per partito preso troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a sommergersi in una palude retorica di una moralità inconsciamente predicatoria, e di molta verbosità inutile».  Il fu Mattia Pascal, secondo Gramsci, è una sorta di prima stesura del Liolà che, liberato dalla zavorra moralistica della vita, si è rinnovato diventando una pura rappresentazione, «una farsa che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, e che ha il suo corrispondente pittorico nell'arte figurativa vascolare  è una vita ingenua, rudemente sincera una efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita è bella, il lavoro è un'opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da tutta la materia organica».  Severo fu invece il giudizio sul Così è (se vi pare): dalla tesi pseudo-logistica che la verità in sé non esista, Pirandello «non ha saputo trarre dramma e neppure motivo a rappresentazione viva e artistica di caratteri, di persone vive che abbiano un significato fantastico, se non logico. I tre atti di Pirandello sono un semplice fatto di letteratura [puro e semplice aggregato di parole che non creano né una verità né un'immagine il vero dramma l'autore l'ha solo adombrato, l'ha accennato: è nei due pseudopazzi che non rappresentano però la loro vera vita, l'intima necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono presentati come pedine della dimostrazione logica». Rivolgendosi ai giovani, scrisse da solo il numero unico del giornale dei giovani socialisti La Città future. Qui mostra la sua intransigenza politica, la sua ironia, anche contro i socialisti riformisti, il fastidio verso ogni espressione retorica ma anche la sua formazione idealistica, i suoi debiti culturali nei confronti di Croce, superiori perfino a quelli dovuti a Marx: «in quel tempo»scriverà«il concetto di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica, non era chiaro in me e io ero tendenzialmente crociano». Lo zar di Russia Nicola II è facilmente rovesciato da pochi giorni di manifestazioni popolari, per lo più spontanee, che chiedono pane e la fine dell'autocrazia: viene instaurato un moderato governo liberale e, insieme, si ricostituiscono i Soviet, forme di rappresentanza su base popolare già creati nella precedente Rivoluzione russa del 1905; le notizie giungono in Italia parziali e confuse: i quotidiani «borghesi» sostengono che si tratta dell'avviamento di un processo di democratizzazione in Russia, sull'esempio della grande Rivoluzione francese, mentre Gramsci è convinto che «la rivoluzione russa è un atto proletario ed essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista  i rivoluzionari socialisti non possono essere giacobini: essi in Russia hanno solo attualmente il compito di controllare che gli organismi borghesi non facciano essi del giacobinismo». Con il ritorno in Russia di Lenin, che pone subito il problema della pace immediata e della consegna del potere ai Soviet, la lotta politica si radicalizza. Gramsci è convinto che Lenin abbia «suscitato energie che più non morranno. Egli e i suoi compagni bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il socialismo». Gramsci nega esplicitamente la necessità dell'esistenza di condizioni obiettive affinché una rivoluzione trionfi, quando scrive che i bolscevichi «sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti. E il pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte le esperienze intermedie tra la concezione del socialismo e la sua realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e integrale». È l'anticipazione dell'articolo, più famoso, che scriverà subito dopo la notizia del successo della Rivoluzione d'ottobre.  Anche in Italia la guerra interminabile, costata già centinaia di migliaia di morti e di mutilati, la penuria dei generi alimentari, la sconfitta di Caporetto e la stessa eco provocata dalla rivoluzione russa portarono a insofferenze che a Torino sfociarono in un'autentica sommossa spontanea duramente repressa dal governo: oltre 50 morti, più di duecento feriti, la città dichiarata zona di guerra con la conseguente applicazione della legge marziale, arresti a catena che colpirono non solo i diretti responsabili ma, indiscriminatamente, anche gli elementi politici d'opposizione e segnatamente l'intero nucleo della sezione socialista, con l'accusa di istigazione alla rivoluzione. In conseguenza dell'emergenza venutasi a creare, la direzione della Sezione socialista torinese venne assunta da un comitato di dodici persone, del quale fece parte anche Gramsci, il quale rimane l'unico redattore de Il Grido del Popolo che cesserà le pubblicazioni. I bolscevichi avevano preso il potere in Russia ma per settimane in Europa giunsero solo notizie deformate, confuse e censurate, finché l'edizione nazionale dell'Avanti! uscì con un editoriale dal titolo La rivoluzione contro il Capitale, firmato da Gramsci: «La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologia più che di fatti essa è la rivoluzione contro il Capitale di Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostrazione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico  se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente, vivificatore. Essi non sono «marxisti», ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche». In realtà Marx, almeno negli ultimi anni, non aveva escluso che un Paese arretrato potesse giungere al socialismo saltando fasi di sviluppo capitalistico: ma qui interessa rilevare tanto la visione di Gramsci ancora idealistica, volontaristica, dell'azione politica, quanto la critica che di fatto Gramsci rivolgeva ai dirigenti socialisti europei, e italiani in particolare, di concepire lo sviluppo storico in modo meccanicistico.  Finita la guerra e usciti dal carcere i dirigenti torinesi del partito, Gramsci lavorò unicamente all'edizione piemontese dell'Avanti!, che allora si stampava in via Arcivescovado 3, insieme con alcuni giovani colleghi: Giuseppe Amoretti, Alfonso Leonetti, Mario Montagnana, Felice Platone; ma egli e altri giovani socialisti torinesi, come Tasca, Togliatti e Terracini, intendevano ormai esprimere, dopo l'esperienza della rivoluzione russa, esigenze nuove nell'attività politica, che non sentivano rappresentate dalla Direzione nazionale del partito: «L'unico sentimento che ci unisse, in quelle nostre riunioni, era quello suscitato da una vaga passione di una vaga cultura proletaria; volevamo fare, fare, fare; ci sentivamo angustiati, senza un orientamento, tuffati nell'ardente vita di quei mesi dopo l'armistizio, quando pareva immediato il cataclisma della società italiana». Uscì il primo numero dell'Ordine nuovo con Gramsci segretario di redazione e animatore della rivista. La rivista ebbe un avvio incerto: all'inizio «il programma fu l'assenza di un programma concreto, per una vana e vaga aspirazione ai problemi concreti nessuna idea centrale, nessuna organizzazione intima del materiale letterario pubblicato» Tasca intendeva farne una pubblicazione culturale: «per "cultura" intendeva "ricordare", non intendeva "pensare", e intendeva "ricordare" cose fruste, cose logore, la paccottiglia del pensiero operaio fu una rassegna di cultura astratta, di informazione astratta, con la tendenza a pubblicare novelline orripilanti e xilografie bene intenzionate; ecco cosa fu l'Ordine nuovo nei suoi primi numeri». Gramsci intendeva invece definirlo su posizioni nettamente operaistiche, ponendo all'ordine del giorno la necessità d'introdurre nelle fabbriche italiane nuove forme di potere operaio, i consigli di fabbrica, sull'esempio dei Soviet russi: «Ordimmo, io e Togliatti, un colpo di Stato redazionale; il problema delle commissioni interne fu impostato esplicitamente nel n. 7 della rassegna il problema dello sviluppo della commissione interna divenne problema centrale, divenne l'idea dell'Ordine nuovo; era esso posto come problema fondamentale della rivoluzione operaia, era il problema della "libertà" proletaria. L'Ordine nuovo divenne, per noi e per quanti ci seguivano, "il giornale dei Consigli di fabbrica"; gli operai amarono l'Ordine nuovo perché negli articoli del giornale ritrovavano una parte di se stessi, la parte migliore di se stessi; perché sentivano gli articoli dell'Ordine nuovo pervasi dallo stesso loro spirito di ricerca interiore: "Come possiamo diventar liberi? Come possiamo diventare noi stessi?". Perché gli articoli dell'Ordine nuovo non erano fredde architetture intellettuali, ma sgorgavano dalla discussione nostra con gli operai migliori, elaboravano sentimenti, volontà, passioni reali». Diversamente dalle Commissioni interne, già esistenti all'interno dalle fabbriche, che venivano elette soltanto dagli operai iscritti ai diversi sindacati, i Consigli dovevano essere eletti indistintamente da tutti gli operai e avrebbero dovuto, nel progetto degli ordinovisti, non tanto occuparsi dei consueti problemi sindacali, ma porsi problemi politici, fino al problema della stessa organizzazione, della gestione operaia della fabbrica, sostituendosi al capitalista: nel s, alla FIAT furono eletti i primi Consigli.  La Confindustria, nella sua Conferenza nazionale, espresse chiaramente «la necessità che la borghesia del lavoro attinga in se stessa il mezzo per un'energica azione contro deviazioni e illusioni» e il 20 marzo i tre maggiori industriali torinesi, Olivetti, De Benedetti e Agnelli fecero presente al prefetto Taddei la loro volontà di ricorrere all'arma della serrata delle fabbriche contro «l'indisciplina e le continue esorbitanti pretese degli operai». Così quando in occasione di una controversia sindacale nelle Industrie Metallurgiche tre membri delle commissioni interne furono licenziati e gli operai protestarono con lo sciopero, l'Associazione degli industriali metalmeccanici rispose il 29 marzo con la serrata di tutte le fabbriche torinesi. La lotta si estese fino allo sciopero generale proclamato a Torino  e in alcune province piemontesi, mentre il governo presidiava il capoluogo con migliaia di soldati. I tentativi degli ordinovisti di allargare la protesta, se non in tutta l'Italia, almeno nei maggiori centri industriali del paese, fallì e alla fine d'aprile gli operai furono costretti a riprendere il lavoro senza avere ottenuto nulla.  Lo sciopero fallì per la resistenza degli industriali ma anche per l'isolamento in cui la Camera del Lavoro, controllata dai socialisti riformisti, contrari alla costituzione dei Consigli operai, e lo stesso Partito socialista lasciarono i lavoratori torinesi; l'8 maggio Gramsci pubblicò sull'Ordine Nuovo una sua relazione, approvata dalla Federazione torinese, che denunciava l'inefficienza e l'inerzia del Partito. Dopo aver sostenuto che era matura la trasformazione dell'«ordine attuale di produzione e di distribuzione» in un nuovo ordine che desse «alla classe degli operai industriali e agricoli il potere di iniziativa nella produzione», alla quale si opponevano gli industriali e i proprietari terrieri, appoggiati dallo Stato, Gramsci rilevava che «le forze operaie e contadine mancano di coordinamento e di concentrazione rivoluzionaria perché gli organismi direttivi del Partito socialista hanno rivelato di non comprendere assolutamente nulla della fase di sviluppo che la storia nazionale e internazionale attraversa nell'attuale periodo il Partito socialista assiste da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai un'opinione sua da esprimere non lancia parole d'ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l'azione rivoluzionaria il Partito socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese».   Il numero dell'11 dicembre 1920 Rilevò la mancanza di omogeneità nella composizione del partito, in cui continuavano a essere presenti riformisti e «opportunisti», contrari agli indirizzi della III Internazionale. Non solo: «mentre la maggioranza rivoluzionaria del partito non ha avuto una espressione del suo pensiero e un esecutore della sua volontà nella direzione e nel giornale, gli elementi opportunisti invece si sono fortemente organizzati e hanno sfruttato il prestigio e l'autorità del Partito per consolidare le loro posizioni parlamentari e sindacali se il Partito non realizza l'unità e la simultaneità degli sforzi, se il Partito si rivela un mero organismo burocratico, senza anima e senza volontà, la classe operaia istintivamente tende a costituirsi un altro partito e si sposta verso tendenze anarchiche ».  Il Partito socialista non svolge alcuna funzione di educazione e di spiegazione di quanto sta avvenendo nella scena internazionale, dalla quale esso è assente, non partecipando nemmeno alle riunioni dell'Internazionale comunista, le cui tesi non sono riportate nell'Avanti!. Analogamente, le edizioni socialiste non stampano le pubblicazioni comuniste: «valga per tutte il volume di Lenin Stato e rivoluzione». Occorre pertanto, secondo Gramsci, che il Partito socialista acquisti «una sua figura precisa e distinta: da partito parlamentare piccolo borghese deve diventare il partito del proletariato rivoluzionario che lotta per l'avvenire della società comunista i non comunisti rivoluzionari devono essere eliminati dal Partito ogni avvenimento della vita proletaria nazionale e internazionale deve essere immediatamente commentata per trarne argomenti di propaganda comunista e di educazione delle coscienze rivoluzionarie le sezioni devono promuovere in tutte le fabbriche, nei sindacati, nelle cooperative, nelle caserme la costituzione di gruppi comunisti l'esistenza di un Partito comunista coeso e fortemente disciplinato [.è la condizione fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito ». La risoluzione dell'Internazionale comunista che chiedeva ai partiti socialisti l'allontanamento dei riformisti, venne disattesa dal Partito Socialista Italiano. Infatti, a dispetto dell'approvazione e dell'avallo ottenuto dagli ordinovisti da parte di Lenin nel corso del II Congresso dell'Internazionale, alla quale il PSI aveva aderito con il congresso di Bologna tenuto nell'ottobre del 1919, i vecchi dirigenti del partito erano riluttanti di fronte alla svolta politica e sociale realizzatasi nel dopoguerra.  In Italia, le rivendicazioni salariali, rese necessarie dall'elevato indice d'inflazione, non trovavano accoglienza presso gli industriali. Il 30 agosto 1920, a Milano, a seguito della serrata dell'Alfa Romeo, 300 fabbriche furono occupate dagli operai: la FIOM appoggiò l'iniziativa, ordinando l'occupazione di tutte le fabbriche metalmeccaniche d'Italia, con la speranza che una tale, estrema iniziativa provocasse l'intervento del governo a favore di una soluzione delle trattative. All'inizio di settembre tutte le maggiori fabbriche d'Italia erano occupate da mezzo milione di operai, parte dei quali armati, sia pure in modo rudimentale; alla FIAT di Torino, tuttavia, ci fu una novità: dell'ufficio di Giovanni Agnelli prese possesso l'operaio comunista Giovanni Parodi e i Consigli di fabbrica decisero di continuare la produzione, per dimostrare che una grande fabbrica poteva funzionare anche in assenza del proprietario.   Giovanni Giolitti Di fronte alla neutralità del governo Giolitti e alla decisione della Confindustria di non cedere, il 10 settembre, nell'assemblea milanese che vide riuniti i dirigenti del Partito socialista e della Camera del Lavoro, questi ultimi si dimisero lasciando la gestione della difficile situazione al Partito, che tuttavia non aveva alcuna intenzione di prolungare l'agitazione: la proposta estrema dell'allargamento delle occupazioni a tutte le fabbriche del paese e alle campagne fu respinta dalla maggioranza dei rappresentanti. Un accordo salariale raggiunto con la mediazione di Giolitti pose termine, alla fine di settembre, alle occupazioni delle fabbriche.  Quell'esperienza dimostrò tanto la mancanza di una strategia dei dirigenti socialisti quanto l'impreparazione degli stessi operai a iniziative rivoluzionarie, per le quali occorrevano organizzazione e disciplina. In previsione del prossimo XVII Congresso del Partito socialista, Gramsci scrisse che «la costituzione del Partito comunista crea le condizioni per intensificare e approfondire l'opera nostra: liberati dal peso morto degli scettici, dei chiacchieroni, degli irresponsabili, liberati dall'assillo di dover continuamente, nel seno del Partito, lottare contro i riformisti e gli opportunisti, di dover sventare le loro insidie, di dover analizzare e criticare i loro atteggiamenti equivoci e la loro fraseologia pseudo-rivoluzionaria, noi potremo dedicarci interamente al lavoro positivo, all'espansione del nostro programma di rinnovamento, di organizzazione, di risveglio delle coscienze e delle volontà».  NSi riunì a Milano il gruppo favorevole alla costituzione di un partito comunista e Amadeo Bordiga, Luigi Repossi, Bruno Fortichiari, Gramsci, Nicola Bombacci, Francesco Misiano e Umberto Terracini costituirono il Comitato provvisorio della frazione comunista del Partito Socialista.  La fondazione del Partito comunista  Il congresso di Livorno La scissione si realizzò, nel Teatro San Marco di Livorno, con la nascita del «Partito Comunista d'Italia, sezione italiana dell'Internazionale». Il comitato centrale fu composto dagli astensionisti (Amadeo Bordiga, Ruggero Grieco, Giovanni Parodi, Cesare Sessa, Ludovico Tarsia e Bruno Fortichiari), dagli ex-massimalisti (Nicola Bombacci, Ambrogio Belloni, Egidio Gennari, Francesco Misiano, Anselmo Marabini, Luigi Repossi e Luigi Polano) e dagli ordinovisti Gramsci e Terracini. Diresse l'Ordine nuovo, divenuto ora uno dei quotidiani comunisti insieme con Il Lavoratore di Trieste e Il Comunista di Roma, quest'ultimo diretto da Togliatti. Non venne eletto deputato alle elezioni: Gramsci non ha capacità oratorie, è ancora giovane e anche la sua conformazione fisica non lo agevola nell'apprezzamento di molti elettori.  Alla fine di maggio partì per Mosca, designato a rappresentare il Partito italiano nell'esecutivo dell'Internazionale comunista. Vi arrivò già malato e nell'estate fu ricoverato in un sanatorio per malattie nervose di Mosca. Qui conobbe una degente russa, Eugenia Schucht, membro del Partito, figlia di Apollon Schucht, dirigente del Pcus e amico personale di Lenin, che aveva vissuto alcuni anni in Italia e, attraverso di lei, la sorella Giulia (Julka)  che, violinista, aveva abitato diversi anni a Roma diplomandosi al Conservatorio Santa Cecilia.  Giulia, ventiseienne, è bella, alta, ha un aspetto romantico; Gramsci ne è conquistato: ricorderà «il primo giorno che non osavo entrare nella tua stanza perché mi avevi intimidito al giorno che sei partita a piedi e io ti ho accompagnato fino alla grande strada attraverso la foresta e sono rimasto tanto tempo fermo per vederti allontanare tutta sola, col tuo carico da viandante, per la grande strada, verso il mondo grande e terribile ho molto pensato a te, che sei entrata nella mia vita e mi hai dato l'amore e mi hai dato ciò che mi era sempre mancato e mi faceva spesso cattivo e torbido.  E quell'immagine di lei, viandante in un mondo grande e terribile, con il suo senso doloroso di distacco, ritornerà ancora dal carcere: «Ricordi quando sei ripartita dal bosco d'argento ti ho accompagnata fino all'orlo della strada maestra e sono rimasto a lungo a vederti allontanare così ti vedo sempre mentre ti allontani a passi brevi, col violino in una mano e nell'altra la tua borsa da viaggio, così pittoresca». Si sposano e avranno due figli, Delio e Giuliano. Il figlio di quest'ultimo porta il nome del nonno, vive a Mosca e pratica la musica medievale. Giulia membro della OGPU, il servizio di Sicurezza sovietico. La moglie di Gramsci e i figli Delio e Giuliano A differenza di Bordiga, tutto inteso a salvaguardare la «purezza» programmatica del partito, e perciò contrario a qualunque iniziativa al di fuori della dittatura del proletariato, Gramsci guardava anche a obiettivi democratici, intermedi, raggiungibili utilizzando le contraddizioni presenti negli strati sociali e le forze che potevano rappresentare elementi di rottura, come il movimento sindacale cattolico di Guido Miglioli e l'intellettualità progressista liberale di cui Piero Gobetti è allora tra i maggiori rappresentanti. Tuttavia nei suoi scritti fino al 1926 ribadisce che l'obiettivo finale era la eliminazione dello stato borghese e la dittatura del proletariato e anche nei suoi scritti successivi non si riscontrano critiche al regime sovietico.  Nel III Congresso dell'Internazionale comunista, di fronte al riflusso dell'ondata rivoluzionaria rappresentata dalle sconfitte delle esperienze comuniste in Germania e in Ungheria, si decise la tattica del fronte unito con la socialdemocrazia. Bordiga e la maggioranza dei dirigenti comunisti italiani si oppose, elaborando le Tesi di Roma, base programmatica del II Congresso del Partito, tenuto a Roma. Gramsci vi aderì ma scrisse di aver «accettato le tesi di Amadeo perché esse erano presentate come una opinione per il Quarto Congresso [dell'Internazionale comunista] e non come un indirizzo di azione. Ritenevamo di mantenere così unito il partito attorno al suo nucleo fondamentale, pensavamo che si potesse fare ad Amadeo questa concessione senza nuove crisi e nuove minacce di scissione nel seno del nostro movimento». Nel IV Congresso dell'Internazionale, di fronte all'avvento al potere di Mussolini, ai delegati comunisti italiani fu posta con ancora maggior forza la necessità di fondersi con corrente socialista degli internazionalisti, capeggiata da Giacinto Menotti Serrati, e di costituire un nuovo Esecutivo, mettendo in minoranza Bordiga, sempre contrario a ogni accordo. Lo stesso Bordiga fu arrestato al suo rientro in Italia nel febbraio 1923 e, in settembre, a Milano, furono incarcerati anche i rappresentanti del nuovo Esecutivo: Gramsci restò così il massimo dirigente del Partito e si trasferì a Vienna per seguire più da vicino la situazione italiana. Fu allora che egli ritenne necessario rompere con la politica di Bordiga: «Il suo stesso carattere inflessibile e tenace fino all'assurdo ci obbliga a prospettarci il problema di costruire il partito ed il centro di esso anche senza di lui e contro di lui. Penso che sulle quistioni di principio non dobbiamo più fare compromessi come nel passato: vale meglio la polemica chiara, leale, fino in fondo, che giova al partito e lo prepara ad ogni evenienza». Uscì a Milano il primo numero del nuovo quotidiano comunista l'Unità e dal primo marzo la nuova serie del quindicinale l'Ordine nuovo. Il titolo del giornale, da lui scelto, venne giustificato dalla necessità dell'«unità di tutta la classe operaia intorno al partito, unità degli operai e dei contadini, unità del Nord e del Mezzogiorno, unità di tutto il popolo italiano nella lotta contro il fascismo».Alle elezioni venne eletto deputato al parlamento, potendo così rientrare a Roma, protetto dall'immunità parlamentare. Quello stesso mese, nei dintorni di Como, si tenne un convegno illegale dei dirigenti delle Federazioni comuniste italiane: pubblicamente, si fingevano dipendenti di un'azienda milanese in gita turistica, con tanto di pubblici discorsi fascisti e inni a Mussolini, mentre, a parte, discutevano dei problemi del partito.  Nel convegno si affrontò il «caso Bordiga», il quale aveva rifiutato la candidatura al Parlamento, era in rotta con la maggioranza dell'Internazionale e rifiutava ogni azione politica comune con le altre forze politiche di sinistra. Delle tre mozioni presentate, che rispecchiavano le tre correnti in seno al Partito, la corrente di destra di Tasca, di centro di Gramsci e Togliatti, e di sinistra di Bordiga, questa raccolse l'adesione della grande maggioranza dei delegati, confermando la notevole importanza di cui il rivoluzionario napoletano godeva nel Partito.  Il 10 giugno un gruppo di fascisti rapì e uccise il deputato socialista Giacomo Matteotti; sembrò allora che il fascismo stesse per crollare per l'indignazione morale che in quei giorni percorse il Paese, ma non fu così; l'opposizione parlamentare scelse la linea sterile di abbandonare il Parlamento, dando luogo alla cosiddetta Secessione dell'Aventino: i liberali speravano in un appoggio della Monarchia, che non venne, i cattolici erano ostili tanto ai fascisti che ai socialisti e questi ultimi erano ostili a tutti, comunisti compresi. Gramsci avanzò al «Comitato dei sedici»il nucleo dirigente dei gruppi aventinianila proposta di proclamare lo sciopero generale che però fu respinta; i comunisti uscirono allora dal «Comitato delle opposizioni» aventiniane il quale, secondo Gramsci, non aveva alcuna volontà di agire: ha una «paura incredibile che noi prendessimo la mano e quindi manovra per costringerci ad abbandonare la riunione». Giacomo Matteotti Malgrado le divisioni dell'opposizione antifascista, Gramsci credeva che la caduta del regime fosse imminente: «Il regime fascista muore perché non solo non è riuscito ad arrestare, ma anzi ha contribuito ad accelerare la crisi delle classi medie iniziatasi dopo la guerra. L'aspetto economico di questa crisi consiste nella rovina della piccola e media azienda il monopolio del credito, il regime fiscale, la legislazione sugli affitti hanno stritolato la piccola impresa commerciale e industriale: un vero e proprio passaggio di ricchezza si è verificato dalla piccola e media alla grande borghesia. L'apparato industriale ristretto ha potuto salvarsi dal completo sfacelo solo per un abbassamento del livello di vita della classe operaia premuta dalla diminuzione dei salari, dall'aumento della giornata di lavoro. La disgregazione sociale e politica del regime fascista ha avuto la sua piena manifestazione di massa nelle elezioni del 6 aprile. Il fascismo è stato messo nettamente in minoranza nella zona industrial. Le elezioni del 6 aprile segnarono l'inizio di quella ondata democratica che culminò nei giorni immediatamente successivi all'assassinio dell'on. Matteotti le opposizioni avevano acquistato dopo le elezioni un'importanza politica enorme; l'agitazione da esse condotta nei giornali e nel Parlamento per discutere e negare la legittimità del governo fascista si ripercuoteva nel seno dello stesso Partito nazionale fascista, incrinava la maggioranza parlamentare. Di qui l'inaudita campagna di minacce contro le opposizioni e l'assassinio del deputato unitario”. “Il delitto Matteotti dette la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori; egli non è un elemento della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare alla storia nell'ordine delle diverse maschere provinciali italiane, più che nell'ordine dei Cromwell, dei Bolívar, dei Garibaldi». S'ingannava, perché l'inerzia dell'opposizione non riuscì a dare alternative del blocco sociale in cui la piccola borghesia teme il «salto nel buio» della caduta del regime e i fascisti riprendono coraggio e ricominciano le violenze squadriste: in una delle tante viene aggredito anche Gobetti. E dopo il 12 settembre, quando il militante comunista Giovanni Corvi uccide in un tram il deputato fascista Armando Casalini, per vendicare la morte di Matteotti, la repressione s'inasprisce. Il 20 ottobre Gramsci propose vanamente che l'opposizione aventiniana si costituisca in «Antiparlamento», in modo da segnare nettamente la distanza e svuotare di significato un Parlamento di soli fascisti; ipartì per la Sardegna, per intervenire al Congresso regionale del partito e per rivedere i famigliari. Il 6 novembre si congedò dalla madre, che non avrebbe più rivisto. Il deputato comunista Repossi rientrò in Parlamento, dove sedevano solo i deputati fascisti e i loro alleati, per commemorare Matteotti a nome di tutto il suo partito; il 26 vi rientrò anche tutto il gruppo parlamentare comunista, a segnare l'inutilità dell'esperienza aventiniana. Il quotidiano di Giovanni Amendola Il Mondo pubblicò le dichiarazioni di Cesare Rossi, già capo ufficio stampa di Mussolini, a proposito del delitto Matteotti: «Tutto quanto è successo è avvenuto sempre per la volontà diretta o per l'approvazione o per la complicità del duce» e Mussolini, in un discorso rimasto famoso, a confermare quella testimonianza, dichiara alla Camera dei deputati di assumersi «la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto», dando il via a una nuova azione repressiva.  In febbraio Gramsci andò a Mosca, per stare con la moglie e conoscere finalmente il figlio Delio. Tornato in Italia a maggio, il 16 tenne il suo primoe unicodiscorso in Parlamento, davanti all'ex compagno di partito Mussolini, ora Primo ministro, che aveva descritto l'anno prima come un capo che «è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro ferocia meccanica, far venire i vermi alla borghesia e oggi al proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia. Mussolini è il tipo concentrato del piccolo-borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale da vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica». Con il pretesto di colpire la Massoneria, il governo aveva predisposto un disegno di legge per disciplinare l'attività di associazioni, enti e istituti: continuamente interrotto, Gramsci respinse il pretesto che il governo si era dato, «perché la Massoneria passerà in massa al Partito fascista e ne costituirà una tendenza, è chiaro che con questa legge voi sperate di impedire lo sviluppo di grandi organizzazioni operaie e contadine».  E ironizzando: «Qualche fascista ricorda ancora nebulosamente gli insegnamenti dei suoi vecchi maestri, di quando era rivoluzionario e socialista, e crede che una classe non possa rimanere tale permanentemente e svilupparsi fino alla conquista del potere, senza che essa abbia un partito e un'organizzazione che ne riassuma la parte migliore e più cosciente. C'è qualcosa di vero, in questa torbida perversione degli insegnamenti marxisti».  Concluse: «Voi potete conquistare lo Stato, potete modificare i codici, potete cercar di impedire alle organizzazioni di esistere nella forma in cui sono esistite fino adesso ma non potete prevalere sulle condizioni obbiettive in cui siete costretti a muovervi. Voi non farete che costringere il proletariato a ricercare un indirizzo diverso da quello fin oggi più diffuso nel campo dell'organizzazione di massa. Ciò noi vogliamo dire al proletariato e alle masse contadine italiane, da questa tribuna: che le forze rivoluzionarie italiane non si lasceranno schiantare, il vostro torbido sogno non riuscirà a realizzarsi». Si svolse clandestinamente a Lione il III Congresso del Partito. Vi parteciparono 70 delegati, con tutti i maggiori responsabili, Bordiga, Gramsci, Tasca, Togliatti, Grieco, Leonetti, Scoccimarro: vi era anche Serrati, che aveva lasciato da poco il Partito socialista di cui era stato a lungo dirigente di primo piano. Assisteva, a nome dell'Internazionale, Jules Humbert-Droz. Gramsci presentò le Tesi congressuali elaborate insieme con Togliatti. Con un capitalismo debole e l'agricoltura base dell'economia nazionale, in Italia si assiste al compromesso fra industriali del Nord e proprietari fondiari del Sud, ai danni degli interessi generali della maggioranza della popolazione. Il proletariato, in quanto forza sociale omogenea e organizzata rispetto alla piccola borghesia urbana e rurale, che ha interessi differenziati, viene visto, nelle Tesi, «come l'unico elemento che per la sua natura ha una funzione unificatrice e coordinatrice di tutta la società.» Secondo Gramsci il fascismo non è, come invece ritiene Bordiga, l'espressione di tutta la classe dominante, ma è il frutto politico della piccola borghesia urbana e della reazione degli agrari che ha consegnato il potere alla grande borghesia, e la sua tendenza imperialistica è l'espressione della necessità, da parte delle classi industriali e agrarie, «di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana» che tuttavia permette, per la sua natura oppressiva e reazionaria, una soluzione rivoluzionaria delle contraddizioni sociali e politiche; le due forze sociali idonee a dar luogo a questa soluzione sono il proletariato del Nord e i contadini del Mezzogiorno. A questo scopo, il Partito andrà bolscevizzato, ossia organizzato per cellule di fabbrica caratterizzate da una "disciplina di ferro" negando al suo interno la possibilità dell'esistenza delle frazioni.  Il Congresso approvò le Tesi a grande maggioranza (oltre il 90%) ed elesse il Comitato centrale con Gramsci segretario del Partito. Da allora, la sinistra comunista di Bordiga non ebbe più un ruolo influente nel Partito. Le Tesi di Lione, realizzate da Gramsci, ribadirono con una certa durezza le posizioni del Pcd’I «la socialdemocrazia sebbene abbia ancora la sua base sociale, per gran parte, nel proletariato per quanto riguarda la sua ideologia e la sua funzione politica cui adempie, deve essere considerata non come un'ala destra del movimento operaio, ma come un'ala sinistra della borghesia e come tale deve essere smascherata». In questa relazione venne sviluppata la cosiddetta bolscevizzazione del partito: «spetti al partito russo una funzione predominante e direttiva nella costruzione di una Internazionale communista. La organizzazione di un partito bolscevico deve essere, in ogni momento della vita del partito, una organizzazione centralizzata, diretta dal Comitato centrale non solo a parole, ma nei fatti. Una disciplina proletaria di ferro deve regnare nelle sue file. La centralizzazione e la compattezza del partito esigono che non esistano nel suo seno gruppi organizzati i quali assumano carattere di frazione. Un partito bolscevico si differenzia per questo profondamente dai partiti socialdemocratici».Tornato a Romada via Vesalio si era trasferito in via Morgagniebbe il tempo di passare alcuni mesi con la famigliala moglie Giulia e il piccolo Delio, oltre alle cognate Eugenia e Tatianache abitano tuttavia in un altro appartamento, in via Trapani: le squadre fasciste, superato da tempo lo smarrimento provocato dal delitto Matteotti, avevano piena libertà d'azione e non era prudente coinvolgere i familiari in loro possibili aggressioni; a Firenze, era stato ucciso l'ex-deputato socialista Gaetano Pilati, la stessa casa di Gramsci era stata messa a soqquadro dalla polizia il 20 ottobre. Mentre gli esponenti dell'opposizione antifascista prendevano la via dell'emigrazione Gobetti, che muore ia Parigi, in conseguenza delle bastonate squadriste, Amendola, Salveminiun processo farsa condannava a una pena simbolica gli assassini di Matteotti, difesi dal capo-squadrista Roberto Farinacci.  La moglie Giulia, che aspettava il secondo figlio Giuliano, lasciò l'Italia e il mese dopo fu la volta della cognata Eugenia a tornare a Mosca con il figlio Delio: Gramsci non l'avrebbe più rivisto.   Giustino Fortunato Elaborando temi già affrontati nelle Tesi di Lione, in settembre Gramsci iniziò a scrivere un saggio sulla questione meridionale, intitolato Alcuni temi sulla quistione meridionale, in cui analizzò il periodo dello sviluppo politico italiano dal 1894, anno dei moti dei contadini siciliani, seguito nel 1898 dall'insurrezione di Milano repressa a cannonate dal governo Di Rudinì. Secondo Gramsci, la borghesia italiana, impersonata politicamente da Giovanni Giolitti, di fronte all'insofferenza delle classi emarginate dei contadini meridionali e degli operai del Nord, piuttosto che allearsi con le forze agrarie, cosa che avrebbe dovuto comportare una politica di libero scambio e di bassi prezzi industriali, scelse di favorire il blocco industriale-operaio, con la conseguente scelta del protezionismo doganale, unita a concessione di libertà sindacali.  Di fronte alla persistenza dell'opposizione operaia, manifestatasi anche contro i dirigenti socialisti riformisti, Giolitti cercò un accordo con i contadini cattolici del Centro-Nord. Il problema è allora di perseguire una politica di opposizione che rompa l'alleanza borghesia-contadini, facendo convergere questi ultimi in un'alleanza con la classe operaia.  La società meridionale, secondo Gramsci, è costituita da tre classi fondamentali: braccianti e contadini poveri, politicamente inconsapevoli; piccoli e medi contadini, che non lavorano la terra ma dalla quale ricavano un reddito che permette loro di vivere in città, spesso come impiegati statali: costoro disprezzano e temono il lavoratore della terra, e fanno da intermediari al consenso fra i contadini poveri e la terza classe, costituita dai grandi proprietari terrieri, i quali a loro volta contribuiscono alla formazione dell'intellettualità nazionale, con personalità del valore di Croce e di Fortunato e sono, con quelli, i principali e più raffinati sostenitori della conservazione di questo blocco agrario. Croce e Fortunato sono, per Gramsci, «i reazionari più operosi della penisola», «le chiavi di volta del sistema meridionale e, in un certo senso, sono le due più grandi figure della reazione italiana». Per poter spezzare questo blocco occorrerebbe la formazione di un ceto di intellettuali medi che interrompa il flusso del consenso fra le due classi estreme, favorendo così l'alleanza dei contadini poveri con il proletariato urbano. Tuttavia Gramsci non aveva un'opinione positiva sui contadini, scrisse: «Il solo organizzatore possibile della massa contadina meridionale è l'operaio industriale, rappresentato dal nostro partito» «Non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini»  (Antonio Gramsci, Lettera alla madre) In Unione Sovietica è in corso la lotta fra la maggioranza di Stalin e Bucharin e la minoranza di sinistra del Partito comunista, guidata da Trotskij, Zinov'ev e Kamenev, che critica la politica della NEP, la quale favorisce i contadini ricchi a svantaggio degli operai, e la rinuncia alla rivoluzione socialista mondiale attraverso la costruzione del «socialismo in un solo paese» che porterebbe all'involuzione del movimento rivoluzionario. Il dissidio, che porta all'esclusione di Zinov'ev dall'Ufficio politico del Partito sovietico, si era fatto sempre più aspro con la costituzione in frazione della minoranza e si era esteso anche all'interno del Partito comunista tedesco, provocando una scissione. Il New York Times, forse su ispirazione di Trotsky, pubblicava il testamento di Lenin, con i suoi noti rilievi sul carattere di Stalin e sul pericolo rappresentato dal troppo potere che la carica di segretario del Partito gli concedeva. Su incarico dell'Ufficio politico, Gramsci scrisse a metà ottobre una lettera al Comitato centrale del Partito sovietico. Egli si mostra preoccupato per l'acutezza delle polemiche che potrebbero portare a una scissione che «può avere le più gravi ripercussioni, non solo se la minoranza di opposizione non accetta con la massima lealtà i principi fondamentali della disciplina rivoluzionaria di Partito, ma anche se essa, nel condurre la sua lotta, oltrepassa certi limiti che sono superiori a tutte le democrazie formali». Riconosciuto ai dirigenti sovietici il merito di essere stati «l'elemento organizzatore e propulsore delle forze rivoluzionarie di tutti i paesi», li rimprovera di star «distruggendo l'opera vostra, voi degradate e correte il rischio di annullare la funzione dirigente che il partito comunista dell'URSS aveva conquistato per l'impulso di Lenin: ci pare che la passione violenta delle quistioni russe vi faccia perdere di vista gli aspetti internazionali delle quistioni russe stesse, vi faccia dimenticare che i vostri doveri di militanti russi possono e debbono essere adempiuti solo nel quadro degli interessi del proletariato internazionale. Nel merito del fondamento del contrastola contraddizione di un proletariato formalmente «dominante» in URSS, ma in condizioni economiche molto inferiori alla classe «dominata»Gramsci appoggia la posizione della maggioranza, rilevando che «è facile fare della demagogia su questo terreno ed è difficile non farla quando la quistione è stata messa nei termini dello spirito corporativo e non in quelli del leninismo, della dottrina dell'egemonia del proletariato è in questo elemento la radice degli errori del blocco delle opposizioni e l'origine dei pericoli latenti che nella sua attività sono contenuti. Nella ideologia e nella pratica del blocco delle opposizioni rinasce in pieno tutta la tradizione della socialdemocrazia e del sindacalismo che ha impedito finora al proletariato occidentale di organizzarsi in classe dirigente».  Gramsci concludeva esortando all'unità: «I compagni Zinov'ev, Trockij, Kamenev hanno contribuito potentemente a educarci per la rivoluzione sono stati tra i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili dell'attuale situazione perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del comitato centrale del partito comunista dell'URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta a evitare le misure eccessive. L'untà del nostro partito fratello di Russia è necessaria per lo sviluppo e il trionfo delle forze rivoluzionarie mondiali; a questa necessità ogni comunista e internazionalista deve essere disposto a fare maggiori sacrifizi. I danni di un errore compiuto dal partito unito sono facilmente superabili; i danni di una scissione o di una prolungata condizione di scissione latente possono essere irreparabili e mortali». Togliatti, allora a Mosca quale rappresentante italiano all'Internazionale, criticò le ultime considerazioni che ripartivano, seppure in modo diseguale, le responsabilità delle due fazioni, credendo ancora nella illusoria possibilità di una compattezza del gruppo dirigente sovietico: a suo avviso, invece, «d'ora in poi l'unità della vecchia guardia leninista non sarà più o sarà assai difficilmente realizzata in modo continuo». Non ci sarà tempo e occasione per approfondire la questione: lo stesso giorno in cui il Comitato centrale comunista doveva riunirsi clandestinamente a Genova, Mussolini subì a Bologna un attentato senza conseguenze personali, che provoca una tale pressione poliziesca da far fallire il convegno. L'attentato Zamboni costituì il pretesto per l'eliminazione degli ultimi, minimi residui di democrazia: il governo sciolse i partiti politici di opposizione e soppresse la libertà di stampa. L'8 novembre, in violazione dell'immunità parlamentare, Gramsci venne arrestato nella sua casa e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Il giorno successivo fu dichiarato decaduto, insieme agli altri deputati aventiniani. Dopo un periodo di confino a Ustica, dove ritrovò, tra gli altri, Bordiga, fu detenuto nel carcere milanese di San Vittore. Qui ricevette, in agosto, la visita del fratello Mario, le cui scelte politiche erano state opposte alle suegià federale di Varese, ora si occupava di commercioe, soprattutto, quella della cognata Tatiana, la persona che si manterrà sempre, per quanto possibile, in contatto con lui. L'istruttoria andò per le lunghe, perché vi erano difficoltà a montare su di lui accuse credibili: fu anche fatto avvicinare da due agenti provocatoriprima un tale Dante Romani e poi un certo Corrado Melanima senza successo. Il processo a ventidue imputati comunisti, fra i quali Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro e Giovanni Roveda, iniziò finalmente a Roma; Mussolini aveva istituito il Tribunale Speciale Fascista. Presidente è un generale, Saporiti, giurati sono cinque consoli della milizia fascista, relatore l'avvocato Buccafurri e accusatore l'avvocato Isgrò, tutti in uniforme; intorno all'aula, «un doppio cordone di militi in elmetto nero, il pugnale sul fianco ed i moschetti con la baionetta in canna» Gramsci è accusato di attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all'odio di classe. Il pubblico ministero Isgrò concluse la sua requisitoria con una frase rimasta famosa: «Bisogna impedire a questo cervello di funzionare per venti anni»; e infatti Gramsci venne condannato a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione. Raggiunse il carcere di Turi, in provincia di Bari. Fin da quando si trovava in carcere a Milano, era intenzionato a occuparsi «intensamente e sistematicamente di qualche soggetto» che lo «assorbisse e centralizzasse la sua vita interiore». Il detenuto 7.047 ottenne finalmente l'occorrente per scrivere e iniziò la stesura dei suoi Quaderni del carcere. Il primo quaderno si apre proprio con una bozza di 16 argomenti, alcuni dei quali saranno abbandonati, altri inseriti e altri ancora svolti solo in parte. Caratteristico era il suo modo di lavorare. Quasi tutti i giorni, per alcune ore, camminando all'interno della cella, rifletteva sulle frasi da scrivere e poi si chinava sul tavolino, scrivendo senza sedersi, un ginocchio appoggiato sullo sgabello, per riprendere a camminare e a pensare. A fare da tramite tra Gramsci e il mondo esterno, e in particolare con Sraffa e tramite questi col Pcus e il PCd'I, fu la cognata Tatiana Schucht, essendo la moglie di Gramsci tornata in Unione Sovietica.  Intanto, il Congresso dell'Internazionale comunista, tenutosi a Mosca aveva stabilito l'impossibilità di accordi con la social-democrazia, che veniva anzi assimilata allo stesso fascismo. Era la tesi di Stalin il quale, liquidata l'opposizione di Trockij, eliminava anche l'influenza di Bucharin che, già suo alleato contro la sinistra di Trockij, era rimasto il suo principale oppositore da destra. Al nuovo orientamento dell'Internazionale, riaffermato nel X Plenum del Comitato esecutivo ndovevano adeguarsi i Partiti nazionali, espellendo, se necessario, i dissidenti. Il Partito comunista d'Italia si adeguò alle scelte dell'Internazionale, espellendo Angelo Tasca in settembre e in successione, ma con l'accusa di trotskismo, prima, iBordiga, poi, ifu la volta di Leonetti, Tresso e Ravazzoli. Teneva, durante l'ora d'aria, dei "colloqui-lezioni" con i compagni di partito: non esistono dirette testimonianze delle opinioni espresse da Gramsci riguardo alla «svolta» politica del movimento comunista, ma può costituire un indiretto riferimento un rapporto che un suo compagno di carcere, Athos Lisa, amnistiato, inviò subito al Centro estero comunista. Secondo quella relazione, riferì la teoria della necessità dell'alleanza fra operai del Nord e contadini meridionali che già stava elaborando nei suoi Quaderni: «L'azione per la conquista degli alleati diviene per il proletariato cosa estremamente delicata e difficile. D'altra parte, senza la conquista di questi alleati, è precluso al proletariato ogni serio movimento rivoluzionario». Qui s'intende che il proletariatola classe operaiadebba allearsi con i contadini e la piccola borghesia: «Se si tiene conto delle particolari condizioni nei limiti delle quali va visto il grado di sviluppo politico degli strati contadini e piccoli borghesi in Italia, è facile comprendere come la conquista di questi strati sociali comporti per il partito una particolare azione. La lotta per la conquista diretta del potere è un passo al quale questi strati sociali potranno solo accedere per gradi il primo passo attraverso il quale bisogna condurre questi strati sociali è quello che li porti a pronunciarsi sul problema istituzionale e costituzionale. L'inutilità della Monarchia è ormai compresa da tutti i lavoratori a questo obiettivo deve improntarsi la tattica del partito senza tema di apparire poco rivoluzionario. Deve fare sua prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo la parola d'ordine della Costituente». Ma l'azione del partito «deve essere intesa a svalutare tutti i programmi di riforma pacifica dimostrando alla classe lavoratrice come la sola soluzione possibile in Italia risieda nella rivoluzione proletaria».  La richiesta di una Costituente, e dunque di un'iniziativa politica che si ponesse obiettivi intermedi, avrebbe comportato necessariamente una convergenza, per quanto temporanea, con altre forze antifasciste, e se è difficile considerare tale linea politica come «social-democratica», durante le discussioni nel cortile del carcere qualche suo compagno arrivò a sostenere che egli era ormai fuori del Partito comunista. Probabilmente le reazioni di alcuni erano esasperate dal clima di detenzione» ma certo le posizioni dovevano apparire in contrasto con la linea politica indicata in quegli anni dal Partito comunista. È in questo periodo chevenne a contatto con Pertini, esponente del PSI e detenuto anch'egli alla Casa Penale di Turi. I due, nonostante i pensieri politici differenti, divennero grandi amici e Pertini, anche dopo la scarcerazione, ricordò spesso nei suoi discorsi il compagno di prigionia e le tristi condizioni di salute che lo stroncavano. Gramsci, oltre al morbo di Pott di cui soffriva fin dall'infanzia, fu colpito da arteriosclerosi e poté così ottenere una cella individuale; cercò di reagire alla detenzione studiando ed elaborando le proprie riflessioni politiche, filosofiche e storiche, tuttavia le condizioni di salute continuarono a peggiorare e in agosto ebbe un'improvvisa e grave emorragia. Anche la moglie, in Russia, era sofferente di una seria forma di depressione e rare erano le sue lettere al marito che, all'oscuro dei motivi dei suoi lunghi silenzi, sentiva crescere intorno a sé il senso di un opprimente isolamento. Scriveva alla cognata: Non credere che il sentimento di essere personalmente isolato mi getti nella disperazione io non ho mai sentito il bisogno di un apporto esteriore di forze morali per vivere fortemente la mia vita tanto meno oggi, quando sento che le mie forze volitive hanno acquistato un più alto grado di concretezza e di validità. Ma mentre nel passato mi sentivo quasi orgoglioso di sentirmi isolato, ora invece sento tutta la meschinità, l'aridità, la grettezza di una vita che sia esclusivamente volontà. Quando la madre morì, i familiari preferirono non informarlo. Ebbe una seconda grave crisi, con allucinazioni e deliri. Si riprese a fatica, senza farsi illusioni sul suo immediato futuro. Fino a qualche tempo fa io ero, per così dire, pessimista con l'intelligenza e ottimista con la volontà. Oggi non penso più così. Ciò non vuol dire che abbia deciso di arrendermi, per così dire. Ma significa che non vedo più nessuna uscita concreta e non posso più contare su nessuna riserva di forze». Eppure lo stesso codice penale dell'epoca, all'art. 176, prevedeva la concessione della libertà condizionata ai carcerati in gravi condizioni di salute. A Parigi si costituì un comitato, di cui fecero parte, fra gli altri, Rolland e Barbusse, per ottenere la liberazione sua e di altri detenuti politici, ma venne trasferito nell'infermeria del carcere di Civitavecchia e poi nella clinica del dottor Cusumano a Formia, sorvegliato in camera e all'esterno. Mussolini accolse finalmente la richiesta di libertà condizionata, ma Gramsci non rimase libero nei suoi movimenti, tanto che gli fu impedito di andare a curarsi altrove, perché il governo temeva una sua fuga all'estero; solo il poté essere trasferito nella clinica "Quisisana" di Roma, dove giunse in gravi condizioni, poiché oltre al morbo di Pott e all'arteriosclerosi soffriva di ipertensione e di gotta. Passò dalla libertà condizionata alla piena libertà, ma era ormai in gravissime condizioni: morì di emorragia cerebrale, nella stessa clinica Quisisana. Il giorno seguente la cremazione si svolsero i funerali, cui parteciparono soltanto il fratello Carlo e la cognata Tatiana. Le ceneri, inumate nel cimitero del Verano, furono trasferite nel Cimitero acattolico di Roma, nel Campo Cestio. I 33 Quaderni del carcere, non destinati da Gramsci alla pubblicazione, contengono riflessioni e appunti elaborati durante la reclusione. Furono definitivamente interrotti a causa della gravità delle sue condizioni di salute. Furono numerati, senza tener conto della loro cronologia, dalla cognata Schucht, che li affidò all'Ambasciata sovietica a Roma da dove furono inviati a Mosca e, successivamente, conseg Palmiro Togliatti. Dopo la fine della guerra i Quaderni, curati dal dirigente comunista Platone sotto la supervisione di Togliatti, furono pubblicati dall'editore Einaudi unitamente alle sue Lettere dal carcere indirizzate ai familiarii n sei volumi, ordinati per argomenti omogenei, con i titoli “Il materialismo storico e la filosofia di Croce”;  “Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura”; “Il Risorgimento”; “Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno”; “Letteratura e vita nazionale”; “Passato e presente”.  I Quaderni furono pubblicati Valentino Gerratana secondo l'ordine cronologico della loro elaborazione. Sono stati raccolti in volume anche tutti gli articoli scritti da Gramsci nell'Avanti!, ne Il Grido del Popolo e ne L'Ordine Nuovo.  Conquistare la maggioranza politica di un Paese vuol dire che le forze sociali, che di tale maggioranza sono espressione, dirigono la politica di quel determinato paese e dominano le forze sociali che a tale politica si oppongono: significa ottenere l'egemonia.  Vi è distinzione fra direzione egemonia intellettuale e morale e dominio esercizio della forza repressive. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere. Dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente. La crisi dell'egemonia si manifesta quando, anche mantenendo il proprio dominio, le classi sociali politicamente dominanti non riescono più a essere dirigenti di tutte le classi sociali, non riuscendo più a risolvere i problemi di tutta la collettività e a imporre la propria concezione del mondo. A quel punto, la classe sociale sub-alterna, se riesce a indicare concrete soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può diventare dirigente e, allargando la propria concezione del mondo anche ad altri strati sociali, può creare un nuovo «blocco sociale», cioè una nuova alleanza di forze sociali, divenendo “egemone.” Il cambiamento dell'esercizio dell'egemonia è un momento rivoluzionario che inizialmente avviene a livello della sovra-struttura in senso marxiano, ossia politico, culturale, ideale, morale –, ma poi trapassa nella società nel suo complesso investendo anche la struttura economica, e dunque tutto il «blocco storico», termine che indica l'insieme della struttura e della sovra-struttura, ossia i rapporti sociali di produzione e i loro riflessi ideologici. Analizzando la storia di Italia e il Risorgimento in particolare, rileva che la classe popolare non trova un proprio spazio politico e una propria identità, poiché la politica dei liberali di Cavour concepì l'unità nazionale come un allargamento dello Stato piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal basso, ma come conquista regia. Rritiene che l'azione della borghesia avrebbe potuto assumere un carattere rivoluzionario se avesse acquisito l'appoggio di vaste masse popolari, in particolare dei contadini, che costituivano la maggioranza della popolazione. Il limite della rivoluzione borghese in Italia consistette nel non essere capeggiata da un partito giacobino, come in Francia, dove le campagne, appoggiando la Rivoluzione, furono decisive per la sconfitta delle forze della reazione aristocratica.  Il partito politico italiano allora più avanzato fu il “Partito d'Azione” di Mazzini e Garibaldi, che non seppe impostare il problema dell'alleanza delle forze borghesi progressive con la classe contadina. Garibaldi in Sicilia distribuì le terre demaniali ai contadini, ma gli stessi garibaldini repressero le rivolte contadine contro i baroni latifondisti. Per conquistare l'egemonia contro i moderati guidati dal liberale Cavour, il “Partito d'Azione” avrebbe dovuto legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere giacobino specialmente per il contenuto economico-sociale. Il collegamento delle diverse classi rurali che si realizza in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazione di base e sugli intellettuali degli strati medi e inferiori». Al contrario, i cavourriani liberali seppero mettersi alla testa della rivoluzione borghese, assorbendo tanto i radicali che una parte dei loro stessi avversari. Questo avvenne perché i moderati cavourriani ebbero un rapporto organico con i loro intellettuali che erano proprietari terrieri e dirigenti industriali come i politici che essi rappresentavano. Le masse popolari restarono passive nel raggiunto compromesso fra i capitalisti del Nord e i latifondisti del Sud.  Il Piemonte assunse la funzione di classe dirigente, anche se esistevano altri nuclei di classe dirigente favorevoli all'unificazione. Questi nuclei non volevano dirigere nessuno, cioè non volevano accordare i loro interessi e aspirazioni con gli interessi e aspirazioni di altri gruppi. Volevano dominare, non dirigere e ancora. Volevano che dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè volevano che una forza nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione, divenisse arbitra della Nazione: questa forza fu il Piemonte, che ebbe una funzione paragonabile a quella di un partito. Questo fatto è della massima importanza per il concetto di “rivoluzione passive”, che cioè non un gruppo sociale sia il dirigente di altri gruppi, ma che uno stato, sia pure limitato come potenza, sia il dirigente del gruppo che di esso dovrebbe essere dirigente e possa porre a disposizione di questo un esercito e una forza politica-diplomatica. Che uno Stato si sostituisca ai gruppi sociali locali nel dirigere la lotta di rinnovamento è uno dei casi in cui si ha la funzione di “dominio” e non di dirigenza di questi gruppi: dittatura senza egemonia. Il concetto di “egemonia” si distingue da quello di “dittatura”. La dittatura uesta è solo dominio, quella è capacità di direzione. Non prese mai posizione contro la “dittatura del proletariato” né espresse critiche significative al regime sovietico in Russia.  Le classi subalterne  Gustave Courbet, Lo spaccapietre Le classi subaltern esotto proletariato, proletariato urbano, rurale e anche parte della piccola borghesianon sono unificate e la loro unificazione avviene solo quando giungono a dirigere lo stato, altrimenti svolgono una funzione discontinua e disgregata nella storia della società civile dei singoli stati, subendo l'iniziativa dei gruppi dominanti anche quando ad essi si ribellano.  Il "blocco sociale", l'alleanza politica di classi sociali diverse, formato, in Italia, da industriali, proprietari terrieri, classi medie, parte della piccola borghesia, non è omogeneo, essendo attraversato da interessi divergenti, ma una politica opportuna, una cultura e un'ideologia o un sistema di ideologie impediscono che quei contrasti di interessi, permanenti anche quando siano latenti, esplodano provocando la crisi dell'ideologia dominante e la conseguente crisi politica dell'intero sistema di potere.  In Italia, l'esercizio dell'egemonia delle classi dominanti è ed è stata parziale. Tra le forze che contribuiscono alla conservazione di tale blocco sociale è la Chiesa, che si batte per mantenere l'unione dottrinale tra fedeli colti e incolti, tra intellettuali e semplici, tra dominanti e dominati, in modo da evitare fratture irrimediabili che tuttavia esistono e che essa non è in realtà in grado di sanare, ma solo di controllare. La Chiesa è sempre stata la più tenace nella lotta per impedire che ufficialmente si formino due religioni, quella degli intellettuali e quella delle anime semplici, una lotta che ha fatto risaltare la capacità organizzatrice nella sfera della cultura del clero che ha dato derte soddisfazioni alle esigenze della scienza e della filosofia, ma con un ritmo così lento e metodico che le mutazioni non sono percepite dalla massa dei semplici, sebbene esse appaiano "rivoluzionarie" e demagogiche agli "integralisti" ».Anche la dominante cultura d'impronta idealistica, esercitata dalle scuole filosofiche di Croce e Gentile, non ha «saputo creare una unità ideologica tra il basso e l'alto, tra i semplici e gli intellettuali, tanto che essa, anche se ha sempre considerato la religione una mitologia, non ha nemmeno «entato di costruire una concezione che potesse sostituire la religione nell'educazione infantile, e questi pedagogisti, pur essendo non religiosi, non confessionali e atei, concedono l'insegnamento della religione perché la religione è la filosofia dell'infanzia dell'umanità, che si rinnova in ogni infanzia non metaforica. La cultura laica dominante utilizza la religione proprio perché non si pone il problema di elevare le classi popolari al livello di quelle dominanti ma, al contrario, intende mantenerle in una posizione di sub-alternità.  Le classi dominanti hanno derubricato a “folklore” la cultura della classe sub-alterna.  Annota nel I Quaderno, che il “folklore” non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza, una cosa ridicola, una cosa tutt'al più pittoresca; ma deve essere concepito come una cosa molto seria e da prendere sul serio, e va studiato in quanto «oncezione del mondo e della vita di certi strati della società determi tempo e nello spazio, cioè del popolo inteso come l'insieme della classi strumentale e sub-alterna di ogni forma di società finora esistita». È dunque necessario mutare lo spirito delle ricerche folkloriche, oltre che approfondirle ed estenderle. La frattura tra gli intellettuali e i semplici può essere sanata da quella politica che non tende a mantenere i semplici nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. L'azione politica realizzata dalla «filosofia della prassi» così chiama il marxismo, non solo per l'esigenza di celare quanto scrive alla repressiva censura carceraria opponendosi alle culture dominanti della Chiesa e dell'idealismo, può condurre i subalterni a una superiore concezione della vita. Se afferma l'esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l'attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale e morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali. La via che conduce all'egemonia del proletariato passa dunque per una riforma culturale e morale della società.  Tuttavia l'uomo attivo di massa, cioè la classe operaia, non è, in generale, consapevole né della funzione che può svolgere né della sua condizione reale di sub-ordinazione, Il proletariat non ha una chiara coscienza di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza anzi può essere in contrasto col suo operare. Esso opera praticamente e nello stesso tempo ha una coscienza ereditata dal passato, accolta per lo più in modo acritico. La reale comprensione di sé avviene attraverso una lotta di egemonie politiche, di direzioni contrastanti, prima nel campo dell'etica, poi della politica per giungere a una elaborazione superiore della propria concezione del reale. La coscienza politica, cioè l'essere parte di una determinata forza egemonica, è la prima fase per una ulteriore e progressiva auto-coscienza dove teoria e pratica finalmente si unificano. Ma auto-coscienza significa creazione di un gruppo di intellettuali, organici alla classe, perché per distinguersi e rendersi indipendenti occorre organizzarsi, e non esiste organizzazione senza intellettuali, uno strato di persone specializzate nell'elaborazione concettuale e filosofica. Già Machiavelli indica nei moderni Stati unitari europei l'esperienza che l'Italia avrebbe dovuto far propria per superare la drammatica crisi emersa nelle guerre che devastarono la penisola dalla fine del Quattrocento. “Il Principe” di Machiavelli non esisteva nella realtà storica, non si presentava al popolo italiano con caratteri di immediatezza obiettiva. E una pura astrazione dottrinaria, il simbolo del capo, del condottiero ideale. Ma gli elementi passionali, mitici si riassumono e diventano vivi nella conclusione, nell'invocazione di un principe realmente esistente. In Italia non si ebbe una monarchia assoluta che unificasse la nazione perché dalla dissoluzione della borghesia comunale si creò una situazione interna economico-corporativa, politicamente la peggiore delle forme di società feudale, la forma meno progressiva e più stagnante. Mancò sempre, e non poteva costituirsi, una forza giacobina efficiente, la forza appunto che a Francia ha suscitato e organizzato la volontà collettiva nazional-popolare e ha fondato lo stato moderno. A questa forza progressiva si oppose in Italia la «borghesia rurale, eredità di parassitismo lasciata ai tempi moderni dallo sfacelo, come classe, della borghesia comunale. Forze progressive sono i gruppi sociali urbani con un determinato livello di cultura politica, ma non sarà possibile la formazione di una volontà collettiva nazionale-popolare, se le grandi masse dei contadini lavoratori non irrompono simultaneamente nella vita politica. Ciò intendeva Machiavelli attraverso la riforma della milizia, ciò fecero i giacobini nella Rivoluzione francese. In questa comprensione è da identificare un giacobinismo precoce del Machiavelli, il germe, più o meno fecondo, della sua concezione della rivoluzione nazionale. Modernamente, il Principe invocato dal Machiavelli non può essere un individuo reale, concreto, ma un organismo e questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico: la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali. Il partito è l'organizzatore di una riforma intellettuale e morale, che concretamente si manifesta con un programma di riforma economica, divenendo così la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume. Perché un partito esista, e diventi storicamente necessario, devono confluire in esso tre elementi fondamentali. Primo, un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo essi sono una forza in quanto c'è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente. Secondo, L'elemento coesivo principale dotato di forza altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche, anzi forse per questo, inventiva da solo questo elemento non formerebbe un partito, tuttavia lo formerebbe più che il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani». Terzo, Un elemento medio, che articoli il primo col secondo elemento, che li metta a contatto, non solo fisico, ma morale e intellettuale. Gramsci negli scritti compresi ribadì i principi espressi dalla Terza Internazionale, insistendo sulla disciplina ferrea del partito e contestando qualsiasi forma di frazionismo. Socialisti e sindacalisti venivano pesantemente criticati e messi sullo stesso piano del regime fascista. Tutti gli uomini sono intellettuali, dal momento che non c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale. Nn si può separare l'homo faber dall'homo sapiens, in quanto, indipendentemente della sua professione specifica, ognuno è a suo modo un filosofo, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione dell’ intellettuale.  Storicamente si formano particolari categorie di intellettuali, specialmente in connessione coi gruppi sociali più importanti e subiscono elaborazioni più estese e complesse in connessione col gruppo sociale dominante. Un gruppo sociale che tende all'egemonia lotta per l'assimilazione e la conquista ideologica degli intellettuali tradizionali tanto più rapida ed efficace quanto più il gruppo dato elabora simultaneamente i propri intellettuali organici. L'intellettuale tradizionale è il letterato, il filosofo, l'artista e perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i veri intellettuali, mentre modernamente è la formazione tecnica a formare la base del nuovo tipo di intellettuale, un costruttore, organizzatore, persuasorema non assolutamente il vecchio oratore, formatosi sullo studio dell'eloquenza motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni il quale deve giungere dalla tecnica-lavoro alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane specialista e non si diventa dirigente. Il gruppo sociale emergente, che lotta per conquistare l'egemonia politica, tende a conquistare alla propria ideologia l'intellettuale tradizionale mentre, nello stesso tempo, forma i propri intellettuali organici. L'organicità degli intellettuali si misura con la maggiore o minore connessione con il gruppo sociale cui essi fanno riferimento. Essi operano tanto nella società civilel'insieme degli organismi privati in cui si dibattono e si diffondono le ideologie necessarie all'acquisizione del consenso, apparentemente dato spontaneamente dalle grandi masse della popolazione alle scelte del gruppo sociale dominante quanto nella società politica, dove si esercita il dominio diretto o di comando che si esprime nello Stato e nel governo giuridico. Gli intellettuali sono così i commessi del gruppo dominante per l'esercizio delle funzioni sub-alterne dell'egemonia sociale e del governo politico, cioè, primo, del consenso spontaneo dato dalle grandi masse della popolazione all'indirizzo impresso alla vita sociale dal gruppo fondamentale dominante; secondo, dell'apparato di coercizione statale che assicura legalmente la disciplina di quei gruppi che non consentono. Come lo Stato, nella società politica, tende a unificare gli intellettuali tradizionali con quelli organici, così nella società civile il partito politico, ancor più compiutamente e organicamente dello Stato, elabora i propri componenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come economico, fino a farli diventare intellettuali politici qualificati, dirigenti, organizzatori di tutte le attività e le funzioni inerenti all'organico sviluppo di una società integrale, civile e politica. Il compito della riforma intellettuale e morale non potrà che essere ancora degli intellettuali organici, non cristallizzati, che la determineranno e organizzeranno, adeguando la cultura anche alle sue funzioni pratiche, addivenendo a una nuova organizzazione della cultura. Il partito comunista si pone come sintesi attiva di questo processo: intellettuale collettivo di avanguardia, la direzione politica di classe lotterà per l'egemonia. Il partito comunista, per Gramsci, è intellettuale collettivo; e l'intellettuale comunista è organico alla classe e dunque a questo collettivo perché fa parte del blocco storico-sociale che deve costruire il nuovo mondo. Pur essendo sempre stati legati alle classi dominanti, ottenendone spesso onori e prestigio, gli intellettuali italiani non si sono mai sentiti organici, hanno sempre rifiutato, in nome di un loro astratto cosmopolitismo, ogni legame con il popolo, del quale non hanno mai voluto riconoscere le esigenze né interpretare i bisogni culturali.  In molte linguein russo, in tedesco, in franceseil significato dei termini «nazionale» e «popolare» coincidono: «in Italia, il termine nazionale ha un significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con popolare, perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla nazione e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte movimento popolare o nazionale dal basso: la tradizione è libresca e astratta e l'intellettuale tipico moderno si sente più legato ad Annibal Caro o a Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o siciliano. Si è assistito a un fiorire della letteratura popolare, dai romanzi di appendice del Sue o di Ponson du Terrail, ad Alexandre Dumas, ai racconti polizieschi inglesi e americani; con maggior dignità artistica, alle opere del Chesterton e di Dickens, a quelle di Victor Hugo, di Émile Zola e di Honoré de Balzac, fino ai capolavori di Dostoevskij e di Tolstoj. Nulla di tutto questo in Italia. In Italia, la letteratura non si è diffusa e non è stata popolare, per la mancanza di un blocco nazionale intellettuale e morale tanto che l'elemento intellettuale italiano è avvertito come “più straniero degli stranieri stessi”.  Fa eccezione, per Gramsci, il melodrama verista (“Cavalleria rusticana”, “Pagliacci”), che ha tenuto in qualche modo in Italia il ruolo nazionale-popolare sostenuto altrove dalla letteratura. Il pubblico icerca la sua letteratura all'estero perché la sente più sua di quella italiana: è questa la dimostrazione del distacco, in Italia, fra pubblico e scrittori. Ogni popolo ha la sua letteratura, ma essa può venirgli da un altro popolo può essere subordinato all'egemonia intellettuale e morale di altri popoli. È questo spesso il paradosso più stridente per molte tendenze monopolistiche di carattere nazionalistico e repressivo: che mentre si costruiscono piani grandiosi di egemonia, non ci si accorge di essere oggetto di una egemonia straniera. Così come, mentre si fanno piani imperialistici, in realtà si è oggetto di altri imperialism.. Hanno fallito nel compito di elaborare la coscienza morale del popolo, non diffondendo in esso un moderno umanesimo. La insufficienza dell’intelletuale è «uno degli indizi più espressivi dell'intima rottura che esiste tra la religione e il popolo. Questo si trova in uno stato miserrimo di indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale. La religione è rimasta allo stato di superstizione l'Italia popolare è ancora nelle condizioni create immediatamente dalla Contro-Riforma. La religione, tutt'al più, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in questo stadio. Sono rimaste famose le note di Gramsci sul Manzoni: lo scrittore più autorevole, più studiato nelle scuole e probabilmente il più popolare, è una dimostrazione del carattere elitista della letteratura italiana. Ecco le parole dai Quaderni del carcere, confrontandolo con Tolstoj. Il carattere aristocratico di Manzoni appare dal compatimento scherzoso verso le figure di uomini del popolo (ciò che non appare in Tolstoj), come fra Galdino (in confronto di frate Cristoforo), il sarto, Renzo, Agnese, Perpetua, la stessa Lucia i popolani, per Manzoni, non hanno vita interiore, non hanno personalità morale profonda; essi sono animali. Manzoni è benevolo verso di loro proprio della benevolenza di una società di protezione di animali niente dello spirito popolare di Tolstoi, cioè dello spirito evangelico del cristianesimo primitivo. L'atteggiamento di Manzoni verso i suoi popolani è l'atteggiamento della Chiesa Cattolica verso il popolo: di condiscendente benevolenza, non di immediatezza umana vede con occhio severo tutto il popolo, mentre vede con occhio severo i più di coloro che non sono popolo; egli trova magnanimità, alti pensieri, grandi sentimenti, solo in alcuni della classe alta, in nessuno del popolo non c'è popolano che non venga preso in giro e canzonato. Vita interiore hanno solo i signori: fra Cristoforo, il Borromeo, l'Innominato, lo stesso don Rodrigo il suo atteggiamento verso il popolo e elitista ed aristocratico. Una classe che muova alla conquista dell'egemonia non può non creare una nuova cultura, che è essa stessa espressione di una nuova vita morale, un nuovo modo di vedere e rappresentare la realtà; naturalmente, non si possono creare artificialmente artisti che interpretino questo nuovo mondo culturale, ma «un nuovo gruppo sociale che entra nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé che prima non aveva, non può non suscitare dal suo seno personalità che prima non avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente. Intanto, nella creazione di una nuova cultura, è parte la critica della civiltà letteraria presente, e vede nella critica svolta da Sanctis un esempio privilegiato. La critica di Sanctis è militante, non frigidamente estetica, è la critica di un periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni della vita antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della struttura delle opere, cioè della coerenza logica e storica-attuale delle masse di sentimenti rappresentati artisticamente, sono legate a questa lotta culturale: proprio in ciò pare consista la profonda umanità e l'umanesimo di Sanctis. Piace sentire in lui il fervore appassionato dell'uomo di parte che ha saldi convincimenti morali e politici e non li nasconde. Sanctis opera nel periodo risorgimentale, in cui si lotta per creare una nuova cultura: di qui la differenza con Croce, che vive sì gli stessi motivi culturali, ma nel periodo della loro affermazione, per cui la passione e il fervore romantico si sono composti nella serenità superiore e nell'indulgenza piena di bonomia. Quando poi quei valori culturali, così affermatisi, sono messi in discussione, allora in Croce sub-entra una fase in cui la serenità e l'indulgenza s'incrinano e affiora l'acrimonia e la collera a stento repressa: fase difensiva non aggressiva e fervida, e pertanto non confrontabile con quella di Sanctis. Una critica letteraria marxistica può avere nel critico campano un esempio, dal momento che essa deve fondere, come Sanctis fece, la critica estetica con la lotta per una cultura nuova, criticando il costume, i sentimenti e le ideologie espresse nella storia della letteratura, individuandone le radici nella società in cui quegli scrittori si trovavano a operare.  Non a caso, progettava nei suoi Quaderni un saggio che intendeva intitolare «I nipotini di padre Bresciani», dal nome di Bresciani, tra i fondatori e direttore della rivista La Civiltà Cattolica e scrittore di romanzi popolari d'impronta reazionaria; uno di essi, L'ebreo di Verona, fu stroncato in un famoso saggio di  Sanctis. I nipotini di padre Bresciani sono gli intellettuali e i letterati contemporanei portatori di una ideologia reazionaria con un «carattere tendenzioso e propagandistico apertamente confessato». Fra i «nipotini»individua, oltre a molti scrittori ormai dimenticati, Antonio Beltramelli, Ugo Ojetti, la codardia intellettuale dell'uomo supera ogni misura normale, Panzini, Bellonci, Bontempelli, Fracchia, Baratono -- l'agnosticismo del Baratono non è altro che vigliaccheria morale e civile -- teorizza solo la propria impotenza estetica e filosofica e la propria coniglieria – Bacchelli -- nel Bacchelli c'è molto brescianesimo, non solo politico-sociale, ma anche letterario: la Ronda fu una manifestazione di gesuitismo artistico -- Salvator Gotta --di Salvator Gotta si può dire ciò che il Carducci scrisse del Rapisardi: Oremus sull'altare e flatulenze in sagrestia; tutta la sua produzione letteraria è brescianesca», Ungaretti.  La vecchia generazione degli intellettuali è fallita (Papini, Prezzolini, Soffici, ecc.) ma ha avuto una giovinezza. La generazione attuale non ha neanche questa età delle brillanti promesse, Rosa, Angioletti, Malaparte, ecc.). Asini brutti anche da piccoletti. Croce, il più autorevole intellettuale dell'epoca, da alla borghesia italiana gli strumenti culturali più raffinati per delimitare i confini fra gli intellettuali e la cultura italiana, da una parte, e il movimento operaio e socialista dall'altra; è allora necessario mostrare e combattere la sua funzione di maggior rappresentante dell'egemonia culturale che il blocco sociale dominante esercita nei confronti del movimento operaio italiano. Come tale, Croce combatte il marxismo, cercando di negarne validità nell'elemento che egli individua come decisivo: quello dell'economia. Il Capitale di Marx sarebbe per Croce un'opera di morale e non di scienza, un tentativo di dimostrare che la società capitalistica è immorale, diversamente dalla comunista, in cui si realizzerebbe la piena moralità umana e sociale. La non-scientificità dell'opera maggiore di Marx sarebbe dimostrata dal concetto del “plusvalore.” Per Croce, solo da un punto di vista morale si può parlare di “plusvalore” rispetto al “valore”, legittimo concetto economico. Questa critica del Croce è in realtà un semplice sofisma. Il “plusvalore” è esso stesso valore, è la differenza tra il valore delle merci prodotte dal lavoratore e il valore della forza-lavoro del lavoratore stesso. Del resto, la teoria del valore di Marx deriva direttamente da quella dell'economista liberale Ricardo la cui teoria del valore-lavoro non sollevò nessuno scandalo quando fu espressa, perché allora non rappresentava nessun pericolo, appariva solo, come era, una constatazione puramente oggettiva e scientifica. Il valore polemico e di educazione morale e politica, pur senza perdere la sua oggettività, dove acquistarla solo con la Economia critica. La filosofia crociana si qualifica come storicismo, ossia, seguendo Vico, la realtà è storia e tutto ciò che esiste è necessariamente storico ma, conformemente alla natura idealistica della sua filosofia, la storia è storia dello Spirito, dunque storia speculativa, di astrazionistoria della libertà, della cultura, del progresso non è la storia concreta delle nazioni e delle classi. La storia speculativa può essere considerata come un ritorno, in forme letterarie rese più scaltre e meno ingenue dallo sviluppo della capacità critica, a modi di storia già caduti in discredito come vuoti e retorici e registrati in diversi libri dello stesso Croce. La storia etico-politica, in quanto prescinde dal concetto di blocco storico, in cui contenuto economico-sociale e forma etico-politica si identificano concretamente nella ricostruzione dei vari periodi storici, è niente altro che una presentazione polemica di filosofemi più o meno interessanti, ma non è storia la storia di Croce rappresenta figure disossate, senza scheletro, dalle carni flaccide e cascanti anche sotto il belletto delle veneri letterarie dello scrittore. L'operazione conservatrice di Croce storico fa il paio con quella di Croce filosofo. Se la dialettica dell'idealista Hegel era una dialettica dei contrariuno svolgimento della storia che procede per contraddizioni la dialettica crociana è una dialettica dei distinti: commutare la contraddizione in distinzione significa operare un'attenuazione, se non un annullamento dei contrasti che nella storia, e dunque nelle società, si presentano. Tale operazione si manifesta nelle opere storiche di Croce. La sua Storia d'Europa, iniziando e tagliando fuori il periodo della Rivoluzione francese e quello napoleonico, non è altro che un frammento di storia, l'aspetto passivo della grande rivoluzione che si iniziò in Francia nel 1789, traboccò nel resto d'Europa con le armate repubblicane e napoleoniche, dando una potente spallata ai vecchi regimi e determinandone non il crollo immediato come in Francia, ma la corrosione riformistica che durò fino al 1870. Analoga è l'operazione operata dal Croce nella sua Storia d'Italia la quale affronta unicamente il periodo del consolidamento del regime dell'Italia unita e si «prescinde dal momento della lotta, dal momento in cui si elaborano e radunano e schierano le forze in contrasto in cui un sistema etico-politico si dissolve e un altro si elabora in cui un sistema di rapporti sociali si sconnette e decade e un altro sistema sorge e si afferma, e invece Croce assume placidamente come storia il momento dell'espansione culturale o etico-politico. Gramsci, fin dagli anni universitari, fu un deciso oppositore di quella concezione fatalistica e positivistica del marxismo, presente nel vecchio partito socialista, per la quale il capitalismo necessariamente era destinato a crollare da sé, facendo posto a una società socialista. Questa concezione mascherava l'impotenza politica del partito della classe subalterna, incapace di prendere l'iniziativa per la conquista dell'egemonia.  Anche il manuale del bolscevico russo Nikolaj Bucharin, eLa teoria del materialismo storico manuale popolare di sociologia, si colloca nel filone positivistico. La sociologia è stata un tentativo di creare un metodo della scienza storico-politica, in dipendenza di un sistema filosofico già elaborato, il positivismo evoluzionistico è diventata la filosofia dei non filosofi, un tentativo di descrivere e classificare schematicamente i fatti storici, secondo criteri costruiti sul modello delle scienze naturali. La sociologia è dunque un tentativo di ricavare sperimentalmente le leggi di evoluzione della società umana in modo da prevedere l'avvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia. L'evoluzionismo volgare è alla base della sociologia che non può conoscere il principio dialettico col passaggio dalla quantità alla qualità, passaggio che turba ogni evoluzione e ogni legge di uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico. La comprensione della realtà come sviluppo della storia umana è solo possibile utilizzando la dialettica marxiana della quale non vi è traccia nel Manuale del Bucharin perché essa coglie tanto il senso delle vicende umane quanto la loro provvisorietà, la loro storicità determinata dalla prassi, dall'azione politica che trasforma le società. Le società non si trasformano da sé. Già Marx aveva rilevato come nessuna società si ponga compiti per la cui soluzione non esistano già le condizioni almeno in via di apparizione né essa si dissolve, se prima non ha svolto tutte le forme di vita che le sono implicite. Il rivoluzionario si pone il problema di individuare esattamente i rapporti tra struttura e sovrastruttura per giungere a una corretta analisi delle forze che operano nella storia di un determinato periodo. L'azione politica rivoluzionaria, la prassi, è anche catarsi che segna l passaggio dal momento meramente economico (o egoistico-passionale) al momento etico-politico cioè l'elaborazione superiore della struttura in super-struttura nella coscienza degli uomini. Ciò significa anche il passaggio dall'oggettivo al soggettivo e dalla necessità alla libertà. La struttura, da forza esteriore che schiaccia l'uomo, lo assimila a sé, lo rende passivo, si trasforma in mezzo di libertà, in strumento per creare una nuova forma etico-politica, in origine di nuove iniziative. La fissazione del momento catartico diventa così  il punto di partenza di tutta la filosofia della prassi; il processo catartico coincide con la catena di sintesi che sono risultate dallo svolgimento dialettico. La dialettica è dunque strumento di indagine storica, che supera la visione naturalistica e meccanicistica della realtà, è unione di teoria e prassi, di conoscenza e azione. La dialettica è dottrina della conoscenza e sostanza midollare della storiografia e della scienza della politica e può essere compresa solo concependo il marxismo come una filosofia integrale e originale che inizia una nuova fase nella storia e nello sviluppo mondiale in quanto supera (e superando ne include in sé gli elementi vitali) sia l'idealismo che il materialismo tradizionali espressione delle vecchie società. Se la filosofia della prassi [il marxismo] non è pensata che subordinatamente a un'altra filosofia, non si può concepire la nuova dialettica, nella quale appunto quel superamento si effettua e si esprime. Il vecchio materialismo è metafisica; per il senso comune la realtà oggettiva, esistente indipendentemente dall'uomo, è un ovvio assioma, confortato dall'affermazione della religione per la quale il mondo, creato da Dio, si trova già dato di fronte a noi. Ma va rifiutata «la concezione della realtà oggettiva del mondo esterno nella sua forma più triviale e acritica» dal momento che «a questa può essere mossa l'obbiezione di misticismo». Se noi conosciamo la realtà in quanto uomini, ed essendo noi stessi un divenire storico, anche la conoscenza e la realtà stessa sono un divenire.  Come potrebbe esistere un'oggettività extrastorica ed extraumana e chi giudicherà di tale oggettività? La formulazione di Engels che l'unità del mondo consiste nella sua materialità dimostrata dal lungo e laborioso sviluppo della filosofia e delle scienze naturali contiene appunto il germe della concezione giusta, perché si ricorre alla storia e all'uomo per dimostrare la realtà oggettiva. Oggettivo significa sempre umanamente oggettivo, ciò che può corrispondere esattamente a storicamente soggettivo. L'uomo conosce oggettivamente in quanto la conoscenza è reale per tutto il genere umano storicamente unificato in un sistema culturale unitario; ma questo processo di unificazione storica avviene con la sparizione delle contraddizioni interne che dilaniano la società umana, contraddizioni che sono la condizione della formazione dei gruppi e della nascita delle ideologie. C'è dunque una lotta per l'oggettività (per liberarsi dalle ideologie parziali e fallaci) e questa lotta è la stessa lotta per l'unificazione culturale del genere umano. Ciò che gli idealisti chiamano spirito non è un punto di partenza ma di arrivo, l'insieme delle soprastrutture in divenire verso l'unificazione concreta e oggettivamente universale e non già un presupposto unitario». La formazione linguistica di Antonio Gramsci inizia durante gli anni universitari a Torino con la frequentazione delle lezioni di Bartoli. Gramsci apprende che la lingua è un prodotto “sociale" e che non può essere studiata senza tenere conto della storia generale: ciò vuol dire che non è possibile comprendere i mutamenti di una lingua senza riflettere sui mutamenti sociali, culturali e politici della popolazione che la parla. È stato notato che fece aderire le teorie apprese da Bartoli alle letture filosofiche che lo formarono politicamente; in primo luogo all'Ideologia Tedesca di Marx, dove Marx afferma che il tessco, come la coscienza dei tedesci, appartiene alla sfera degli istituti sovra-strutturali, cioè al mondo dell'organizzazione politica e giuridica della società. Le più interessanti riflessioni linguistiche gramsciane sono contenute nei Quaderni del carcere e riguardano da una parte la questione delle lingue in Italia, ovvero lo studio delle ragioni che hanno reso difficile la diffusione di una lingua per la nazione o tutta la poppolazione, dall'altra il tema dell'insegnamento linguistico nelle scuole primarie. Soprattutto il secondo tema è di fondamentale importanza per Gramsci, perché riguarda direttamente il riscatto culturale delle grandi masse popolari e la creazione di uno spirito nazionale in grado di superare ogni forma di particolarismo regionale. I Quaderni del carcere sono costellati in maniera asistematica di molte note dedicate a problemi di caratteri linguistico; queste note tracciano una vera e propria storia della lingua italiana e racchiudono le riflessioni di Gramsci in merito alla cosiddetta questione della lingua in Italia. Questo tipo di argomento si riallaccia a un altro importante tema dei Quaderni ovvero lo studio delle responsabilità degli intellettuali italiani per la formazione di uno spirito nazionale unitario. A tal proposito Gramsci scrive: «mi pare che, intesa la lingua come elemento della cultura e quindi della storia generale e come manifestazione precipua della nazionalità e popolarità degli intellettuali, questo studio non sia ozioso e puramente erudito». Nell'affrontare una ricostruzione storica delle vicende linguistiche italiane Gramsci cerca dei termini di confronto con altri paesi europei come la Francia: mentre in Francia il volgare viene usato per la prima volta nella storia per redigere un documento ufficiale di carattere politico-istituzionale, in Italia il volgare appare per la registrazione di documenti privati legati al commercio o a questioni giuridiche:  «l'origine della differenziazione storica tra Italia e Francia si può trovare testimoniata nel giuramento di Strasburgo, cioè nel fatto che il popolo partecipa attivamente alla storia (il popolo-esercito) diventando il garante dell'osservanza dei trattati tra i discendenti di Carlo Magno; il popolo-esercito garantisce giurando in volgare, cioè introduce nella storia nazionale la sua lingua, assumendo una funzione politica di primo piano, presentandosi come volontà collettiva, come elemento di una democrazia nazionale. Questo fatto demagogico dei Carolingi di appellarsi al popolo nella loro politica estera è molto significativo per comprendere lo sviluppo della storia francese e la funzione che vi ebbe la monarchia come fattore nazionale. In Italia i primi documenti di volgare sono dei giuramenti individuali per fissare la proprietà su certe terre dei conventi, o hanno un carattere antipopolare («Traite, traite, fili de le putte»).»  (Quaderni del carcere, V. Gerratana, Torino, Einaudi) In Francia i gruppi dirigenti si rendono conto dell'importanza del popolo negli affari di Stato: la demagogia di cui parla Gramsci è da intendere, oltre che come strumento di propaganda, anche come un nuovo atteggiamento politico in grado di crearsi «una propria civiltà statale integrale», in cui si stabilisce un rapporto diretto tra governati e governanti: il popolo diventa testimone di un fatto storico legittimato dal suo giuramento. Ricorda nei suoi appunti come in Italia l'uso del volgare si diffonda con l'avvento dell'età comunale, non solo per la redazione di documenti privati, tipo atti notarili o giuramenti, ma anche per la creazione di opere letterarie: in particolare, il volgare toscano, lingua della borghesia, ottiene un certo successo anche nelle altre regioni. Firenze esercita una egemonia culturale, connessa alla sua egemonia commerciale e finanziaria. Bonifazio VIII dice che i fiorentini sono il quinto elemento del mondo. C'è uno sviluppo linguistico unitario dal basso, dal popolo alle persone colte, rinforzato dai grandi scrittori fiorentini e toscani. Dopo la decadenza di Firenze, l'italiano diventa sempre più la lingua di una casta chiusa, senza contatto vivo con una parlata storica.” Da questo momento si verifica una cristallizzazione della lingua. I promotori del nuovo volgare, provenienti dalla borghesia, non scrivono più nella lingua della loro classe d'origine perché con essa non intrattengono più nessun rapporto, nella visione di Gramsci essi “vengono assorbiti dalle classi reazionarie, dalle corti, non sono letterati borghesi, ma aulici.” In questo senso, vede sciupata l'occasione di una diffusione graduale del volgare toscano su scala nazionale, occasione compromessa soprattutto dalla frammentazione politica della penisola e dal carattere “elitario” del ceto intellettuale italianio. Affronta con maggior vigore la questione delle lingue in relazione al periodo post-unitario. Nella seconda metà dell'Ottocento, lo stato e per gran parte “dialettofono”, mentre la lingua della nazione venne usata solo a livello letterario e come lingua delle istituzioni. La scarsa diffusione di una lingua per la nazione testimonia la frammentazione politica e culturale della popolazione italiana. Questo fenomeno venne avvertito come un problema politico, soprattutto da molti intellettuali di tendenze democratiche come Manzoni.  Nella sua ricostruzione storica Gramsci scrive che “anche la questione delle lingue posta da  Manzoni riflette questo problema, il problema della unità intellettuale e morale della nazione e dello stato, ricercato nell'unità della lingua.” Eppure, sebbene Gramsci riconosca al Manzoni di aver compreso la questione linguistica italiana come una questione politica e sociale, si distingue da lui nel modo di interpretare la risoluzione del problema. Durante il suo apprendistato glottologico presso Bartoli a Torino ha modo di confrontare le posizioni del Manzoni con quelle di Ascoli, del “Archivio Glottologico.” Mentre Manzoni prevede la diffusione di una lingua per la nazione sul modello fiorentino imposta per decreto statale e per mezzo di maestri di scuola di origine toscana, Ascoli concepiva la nascita di una lingua nazionale come il frutto di un'unificazione culturale prima ancora che linguistica.  Secondo Ascoli l'unità culturale e linguistica, prima di tutto, deve avere un centro irradiante, cioè un determinato 'municipio' in cui si concentrano e da cui provengono gli elementi essenziali della vita nazionale: beni di consumo, stimoli culturali, mode, ritrovati della tecnica, istituti statali e giuridici, ecc. Se quel dato municipio riuscirà a stabilire un primato politico, economico e culturale su tutta la nazione, riuscirà anche a diffondere, per conseguenza, il suo particolare idioma. Per Ascoli, una lingua nazionale altro non può e non deve essere, se non l'idioma vivo di una data città. Deve cioè per ogni parte coincidere con l'idioma spontaneamente parlato dagli abitatori contemporanei di quel dato municipio, che per questo capo viene a farsi principe, o quasi stromento livellatore, dell'intiera nazione. Ascoli, nel suo Proemio, prende la Francia come esempio per avvalorare la sua tesi. Infatti, l'unità linguistica di Francia corrisponde all'egemonia politico-culturale di Parigi. La Francia attinge da Parigi la unità della sua favella, perché Parigi è il gran crogiuolo in cui si è fusa e si fonde l'intelligenza della Francia intera. Dal vertiginoso movimento del municipio parigino parte ogni impulso dell'universa civiltà francese. Viene da Parigi il nome, perché da Parigi vien la cosa. E la Francia avendo in questo municipio l'unità assorbente del suo pensiero, vi ha naturalmente pur quella dell'animo suo; e non solo studia e lavora, ma si commuove, e in pianto e in riso, così come la metropoli vuole. E quindi è necessariamente dell'intiera Francia l'intiera favella di Parigi. Gramsci ricalca la lezione ascoliana nei suoi Quaderni. Poiché il processo di formazione, di diffusione, e di sviluppo di una lingua nazionale unitaria avviene attraverso tutto un complesso di processi molecolari, è utile avere consapevolezza di tutto il processo nel suo complesso, per essere in grado di intervenire attivamente in esso col massimo di risultato. Questo intervento non bisogna considerarlo come decisivo e immaginare che i fini proposti saranno tutti raggiunti nei loro particolari, che cioè si otterrà una determinata lingua unitaria. Si otterrà una lingua unitaria, se essa è una necessità e l'intervento organizzato accelera i tempi del processo già esistente. Quale sia per essere questa lingua non si può prevedere e stabilire. Alla nota Focolai di irradiazione linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle grandi masse, compila un elenco di tutti gli strumenti utili alla diffusione di una lingua unitaria. Primo, La scuola. Secondo, i giornali. Terzo,  gli scrittori d'arte e quelli popolari. Quarto, il teatro e il cinematografo sonoro. Quinto, la radio. Sesto, le riunioni pubbliche di ogni genere, comprese quelle religiose. Settimo, I rapporti di ‘conversazione’ tra i vari strati della popolazione più colti e meno colti. Ottavo, i dialetti locali, intesi in sensi diversi (dai dialetti più localizzati a quelli che abbracciano complessi regionali più o meno vasti: così il napoletano per l'Italia meridionale, il palermitano o il catanese per la Sicilia ecc. Al primo posto di questo elenco troviamo la scuola. Per tradizione, a scuola, gli insegnanti introducono gli alunni allo studio di una lingua attraverso la grammatica “normativa”. Gramsci definisce la grammatica normativa come una fase esemplare, come la sola degna di diventare, organicamente e totalitarmente, la lingua comune di una nazione, in lotta e in concorrenza con le altre fasi e tipi o schemi che esistono già. Le riflessioni gramsciane in materia di grammatica si pongono in netto contrasto con la riforma della scuola realizzata da Gentile, di basi griceiana. La riforma, in linea con l'impianto idealista gentiliano, prevede che l'apprendimento della lingua della nazione nelle classi elementari si basasse su quello chi Gentile chiama la “espressione” viva o parlata e non sulla grammatical normativa, considerata questa come una disciplina “astratta” e meccanica. Nell'ottica di Gramsci il metodo apparentemente liberale di Gentile-Grice, racchiude uno spiccato carattere “classista” o elitist, in quanto gli scolari appartenenti alle classi sociali più alte sono avvantaggiati dal fatto che apprendono l'italiano in famiglia, mentre gli scolari del basso popolo possono contare su una comunicazione familiare realizzata esclusivamente in “dialetto” --. In questo senso la grammatica normativa si presenta come uno strumento in grado di livellare le differenze sociali permettendo a tutti la conoscenza della lingua della nazione.  Secondo Gramsci la conoscenza della lingua della nazione presso le classi sub-alterne è fondamentale per la loro organizzazione politica. Un proletariato “dialettofono” non può partecipare alla vita politica di una nazione e non può sperare di crearsi un ceto intellettuale in grado di competere con i ceti intellettuali tradizionali. Il dialetto non deve sparire, ma restare funzionali a un tipo di comunicazione familiare o locale che non può garantire, per cause interne al suo sistema, «la comunicazione di un contenuto culturale ‘universale’, caratteristico della nuova cultura esercitata dal proletariato. Gramsci prestò attenzione anche alla lingua dell’impero romano. Espresse in più occasioni che lo studio del latino fosse particolarmente utile nella formazione filosofica, in quanto abituare il filosofo allo studio rigoroso e a pensare storicamente. Contesta il “nazionalismo” degli studi e criticò ripetutamente gli intellettuali che, durante la prima guerra mondiale, chiedevano che fossero messe al bando le edizioni dei testi romani e la grammatica latina compilate da autori tedeschi! Anche nei Quaderni del carcere si sofferma sulla questione e ribadì l'utilità intrinseca della antica lingua romana, osservando che e uno strumento importante nella fase della formazione filosofica nella quale è necessario un insegnamento "disinteressato", cioè non legato a questioni pratiche. Però, sottolineò anche che in futuro lo studio delle lingue morte avrebbe dovuto essere sostituito da altre materie: era un cambiamento difficile, ma necessario, per promuovere la formazione di un nuovo tipo di intellettuale.Scrisse nel Quaderno 12:  Bisognerà sostituire il latino e il greco come fulcro della scuola formativa e lo si sostituirà, ma non sarà agevole disporre la nuova materia o la nuova serie di materie in un ordine didattico che dia risultati equivalenti di educazione e formazione generale della personalità, partendo dal fanciullo fino alla soglia della scelta professionale. In questo periodo infatti lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere (e apparire ai discenti) disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati o troppo immediati, deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.  Machiavelli influenzò fortemente la teoria dello Stato di Gramsci. Marx, filosofo, storico, critico dell'economia politica e fondatore del materialismo storico Engels Lenin, Labriola, primo notevole teorico marxista italiano, riteneva che la principale caratteristica del marxismo fosse quella di aver creato uno stretto nesso fra la storia e la filosofia. Sorel — sindacalista che ha respinto il principio dell'inevitabilità del progresso storico. Pareto — economista e sociologo italiano (nato a Parigi di madre francese), noto per la sua teoria sull'interazione fra masse ed élite. Croce — liberale italiano, filosofo anti-marxista e idealista il cui pensiero fu sottoposto da Gramsci a critica attenta e approfondita. Pensatori influenzati da Gramsci. Gramscianesimo. Zackie Achmat Eqbal Ahmad Jalal Al-e-Ahmad, Althusser Perry Anderson, Giulio Angioni Michael Apple Giovanni Arrighi Zygmunt Bauman Homi K. Bhabha, Gordon Brown Alberto Burgio, Butler Alex Callinicos Partha Chatterjee Marilena Chauí, Chomsky Alberto Mario Cirese Hugo Costa Robert W. Cox Alain de Benoist Biagio de Giovanni Ernesto de Martino, Eco John Fiske, Foucault Paulo Freire, Garin Eugene D. Genovese Stephen Gill Paul Gottfried Stuart Hall Michael Hardt Chris Harman David Harvey Hamish Henderson Eric Hobsbawm Samuel Huntington Alfredo Jaar Bob Jessop, Laclau, Mariátegui, Mouffe, Negri, Nono, Omi, Pasolini, Pigliaru, Pira, Portantiero, Poulantzas Gyan Prakash William I. Robinson Edward Saïd Ato Sekyi-Otu Gayatri Chakravorty Spivak, Sraffa Edward Palmer Thompson Giuseppe Vacca Paolo Virno Cornel West Raymond Williams Howard Winant, Wittgenstein Eric Wolf Howard Zinn. Gramsci al cinema e in televisione Il delitto Matteotti, regia di Vancini, Antonio GramsciI giorni del carcere, regia di Fra, Gramsci, regia di Maielloserie TV, Gramsci, film in forma di rosa, regia di Gabriele Morleocortometraggio, Gramsci, regia di Emiliano Barbucci, Nel mondo grande e terribile, regia di Daniele Maggioni, Maria Grazia Perria e Laura Perini. Gramsci nel teatro Compagno Gramsci, di Maricla Boggio e Franco Cuomo, regia di Maricla Boggio, Gramsci nella musica Quello lì (compagno Gramsci), canzone di Claudio Lolli contenuta nell'album Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita, Piazza Fontana, canzone dei Yu Kung contenuta nell'album Pietre della mia gente Nino, canzone dei Gang contenuta nell'album Sangue e Cenere () Gramsci, il teatro e la musica È nota la passione di Gramsci per il teatro e per la musica, che si può leggere nelle lettere scritte a Tania. Egli ha scritto circa il melodrama “verdiano” che per lui segnava l’apertura dei teatri al pubblico, svolgendo una funzione conoscitiva, pedagogica e politica in senso generale. Per Gramsci l’opera diviene l’arte più popolare e i teatri aperti i luoghi dove si esercitava parte del conflitto politico.  Una frase quasi ironica di Gramsci da citare, per quanto riguarda l’importanza dell’opera per l’Italia: “siccome il popolo non è letterato e di letteratura conosce solo il libretto d'opera ottocentesco, avviene che gli uomini del popolo melodrammatizzino”. Nelle sue lettere si può leggere anche riguardo alla moda europea del jazz; egli sostiene che questa musica aveva conquistato uno strato dell’Europa colta e aveva creato un vero fanatismo: Opere: “Alcuni temi della questione meridionale, in Lo Stato Operaio, Opere,  Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, premio Viareggio, con centodiciannove lettere inedite, I quaderni dal carcere, Il materialismo storico e la filosofia di Croce” (Torino, Einaudi); “Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura” Torino, Einaudi, Il Risorgimento, Torino, Einaudi, Note sul Machiavelli sulla politica e sullo stato moderno, Torino, Einaudi, Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi,Passato e presente, Torino, Einaudi, L'Ordine Nuovo. Torino, Einaudi, Scritti giovanili. Torino, Einaudi, Sotto la mole. Torino, Einaudi, Socialismo e fascismo. L'Ordine Nuovo, Torino, Einaudi, La costruzione del Partito comunista. Torino, Einaudi, L'albero del riccio, Milano, Milano-sera, 1Americanismo e fordismo, Milano, Ed. cooperativa Libro popolare, Ultimo discorso alla Camera. Padova, R. Guerrini, Antologia popolare degli scritti e delle lettere di Antonio Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Il Vaticano e l'Italia, Roma, Editori Riuniti, Note sulla situazione italiana, Milano, Rivista storica del socialismo, 2000 pagine di Gramsci Nel tempo della lotta. Milano, Il Saggiatore, Lettere edite e inedite. Milano, Il Saggiatore, Elementi di politica, Roma, Editori Riuniti, La formazione dell'uomo. Scritti di pedagogia, Roma, Editori Riuniti, Scritti politici La guerra, la rivoluzione russa e i nuovi problemi del socialismo italiano, Roma, Editori Riuniti, Il Biennio rosso, la crisi del socialismo e la nascita del Partito comunista, Roma, Editori Riuniti, Il nuovo partito della classe operaia e il suo programma. La lotta contro il fascismo, Roma, Editori Riuniti, Scritti Milano, I quaderni de Il corpo, Dibattito sui Consigli di fabbrica, Roma, La nuova sinistra, Paolo Spriano, Scritti politici, Roma, Editori Riuniti, L'alternativa pedagogica, Firenze, La nuova Italia, I consigli e la critica operaia alla produzione, Milano, Servire il popolo, La lotta per l'edificazione del Partito comunista, Milano, Servire il popolo, Il pensiero di Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Il pensiero filosofico e storiografico di Antonio Gramsci, Palermo, Palumbo, Resoconto dei lavori del III congresso del P.C.D.I. (Lione), Milano, Cooperativa editrice distributrice proletaria, Scritti sul sindacato, Milano, Sapere, Aul fascismo, Roma, Editori Riuniti, Quaderni del carcere Quaderni, Torino, Einaudi, Quaderni, Torino, Einaudi, 1975. Quaderni, Torino, Einaudi, Apparato critico, Torino, Einaudi, La rivoluzione italiana, Roma, Newton Compton, Arte e folclore, Roma, Newton Compton, Scritti Inediti da Il Grido del Popolo e dall'Avanti. Con una antologia da Il Grido del Popolo, Milano, Moizzi, Ricordi politici e civili, Pavia,Scritti nella lotta. Dai consigli di fabbrica, alla fondazione del partito, al Congresso di Lione, Livorno, Edizioni Gramsci, Scritti sul sindacato, Roma, Nuove edizioni operaie, A Delio e Giuliano, Milano, N. Milano,  I consigli di fabbrica, Milano, Amici della casa Gramsci di Ghilarza, Centro milanese, Favole di libertà, Firenze, Vallecchi, Scritti, Cronache torinesi. Torino, Einaudi, La città futura. Torino, Einaudi, Il nostro Marx. Torino, Einaudi, L'Ordine nuovo, Torino, Einaudi, Nuove lettere di Antonio Gramsci. Con altre lettere di Piero Sraffa, Roma, Editori Riuniti, Forse rimarrai lontana.... Lettere a Iulca, Roma, Editori Riuniti,  Gramsci al confino di Ustica. Nelle lettere di Gramsci, di Berti e di Bordiga, Roma, Editori Riuniti, Le sue idee nel nostro tempo, Milano, l'Unità, Lettere dal carcere, con nuove lettere in parte inedite, Roma, l'Unità, Il rivoluzionario qualificato. Scritti, Roma, Delotti, Il giornalismo, Roma, Editori Riuniti, Lettere, Torino, Einaudi, Per una preparazione ideologica di massa: introduzione al primo corso della scuola interna di partito, aNapoli, Laboratorio politico, Scritti di economia politica, Bollati Boringhieri, Torino, Vita attraverso le lettere, Torino, Einaudi,  Disgregazione sociale e rivoluzione. Scritti sul Mezzogiorno, Napoli, Liguori, Piove, Governo ladro. Satire e polemiche sul costume degli italiani, Roma, Editori Riuniti, Contro la legge sulle associazioni segrete, Roma, Manifestolibri, Lettere, Torino, Einaudi, Le opere, Roma, Editori Riuniti, Critica letteraria e linguistica, Roma, Lithos, Il lettore in catene. La critica letteraria nei Quaderni, Roma, Carocci, La nostra città futura. Scritti torinesi,Roma, Carocci, Pensare l'Italia, Roma, Nuova iniziativa editoriale, Scritti sulla Sardegna. La memoria familiare, l'analisi della questione sarda, Nuoro, Ilisso, Scritti rivoluzionari. Dal biennio rosso al Congresso di Lione, O. Micucci, Camerano, Gwynplaine, Quaderni del carcere. Edizione anastatica dei manoscritti,  Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana-Cagliari-L'Unione Sarda, Epistolario, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Epistolario, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Antologia, Antonio A. Santucci, prefazione di Guido Liguori, Roma, Editori Riuniti university press,. Il teatro lancia bombe nei cervelli. Articoli, critiche, recensioni, F. Francione, Mimesis Edizioni. La taglia della storia. Idea e prassi della rivoluzione, NovaEuropa Edizioni,.Note  Luigi Manias, Antonio Sebastiano Francesco Gramsci, Marmilla Cultura, International Gramsci Society, su international gramsci society.org.  Genealogia dei Gramsci (JPG), su albanianews.  Luigi Manias, Ma quando è nato Gramsci?, Marmilla Cultura,  Manias, Ales. La sua storia. I suoi problemi, Marmilla Cultura, Così Gramsci ricordava con ironia l'episodio, nella lettera dal carcere alla cognata Tatiana, aggiungendo che «una zia sosteneva che ero risuscitato quando lei mi unse i piedini con l'olio di una lampada dedicata a una Madonna e perciò, quando mi rifiutavo di compiere gli atti religiosi, mi rimproverava aspramente, ricordando che alla Madonna dovevo la vita»  «Noi eravamo tutti molto piccoli. Lei dunque doveva anche accudire alla casa. Trovava il tempo per i lavori di cucito rinunziando al sonno». Così ricordava quegli anni la sorella Teresina Gramsci, in Fiori, Lettera a Tatiana Schucht, così scriveva per invitare la cognata a non eccedere nelle sue preoccupazioni sulla sua vita di carcerato. La lettera prosegue infatti: «Ho conosciuto quasi sempre solo l'aspetto più brutale della vita e me la sono sempre cavata, bene o male»  Lettera a Tatiana Schucht, Numerose sono le richieste di denaro al padre:  gli scrive di essere «proprio indecente con questa giacca che ha già due anni ed è spelacchiata e lucida [oggi non sono andato a scuola perché mi son dovuto risuolare le scarpe» e, il 16 febbraio, che «per non farvi vergognare non sono uscito di casa per dieci giorni interi»  Fonzo, Testimonianza in Fiori, Testimonianza della sorella Teresina in Fiori, Fiori, L'articolo è riportato in Fiori, Riportato in A. Gramsci, Scritti politici  Antonio Gramsci, Dizionario di Storia, Treccani  [«io pensavo allora che bisognava lottare per l'indipendenza nazionale della regione: "Al mare i continentali". Poi ho conosciuto la classe operaia di una città industriale e ho capito ciò che realmente significavano le cose di Marx che avevo letto prima per curiosità intellettuale». Cfr. A. Gramsci, lettera a Giulia Schucht, in A. Gramsci, Lettere. Gramsci e l'isola laboratorio, La Nuova Sardegna  A. Gramsci. Lettere. Progettando, in carcere, uno studio di linguistica comparata, mai realizzato, in una lettera dal carcere dalla cognata Tatiana, ricorda come «uno dei maggiori "rimorsi" intellettuali della mia vita è il dolore profondo che ho procurato al mio buon professor Bartoli dell'Torino, il quale era persuaso essere io l'arcangelo destinato a profligare definitivamente i "neogrammatici"» della linguistica. Tuttavia già l'economista Amartya Sen aveva avanzato l'ipotesi che il passaggio ai giochi linguistici di Ludwig Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche fosse stato ispirato dai Quaderni dal carcere. Nel suo recente studio Gramsci and Wittgenstein: an intriguing connection, Pipero ha aggiunto nuovi elementi che dimostrano il collegamento fra Gramsci e Wittgenstein tramite Sraffa. Infatti il filosofo viennese venne a conoscenza del Quaderno 29, grazie proprio al suo amico Sraffa che aveva conosciuto a Cambridge. Lettera dal carcere: in essa Gramsci ricorda ancora un simpatico e patetico episodio. Dopo la rottura avvenuta a causa di quell'articolo che fece «piangere come un bambino e stette chiuso in casa il Cosmo per alcuni giorni», essi s'incontrarono nel nell'Ambasciata d'Italia a Berlino, dove il professore era segretario: «il Cosmo mi si precipitò addosso, inondandomi di lacrime e di barba e dicendo a ogni momento: Tu capisci perché! Tu capisci perché! Era in preda a una commozione che mi sbalordì, ma mi fece capire quanto dolore gli avessi procurato nel 1920 e come egli intendesse l'amicizia per i suoi allievi di scuola»  Lettera dal carcere a TSchucht  In Fiori, In A. Gramsci, Scritti politici, I56-59  Davico12.  Lettera dal carcere a Tatiana Schucht Lettera dal carcere a Tatiana Schucht, Recensione Recensione Recensione Spriano, Note sulla rivoluzione russa, ne Il Grido del Popolo, in Gramsci,  I massimalisti russi, ne Il Grido del Popolo, iSpriano, La rivoluzione contro il «Capitale», nell'Avanti!, Nella lettera Marx scriveva a Vera Zasulič che la tipica proprietà comune agricola russa poteva essere salvata dalla distruzione minacciata dallo sviluppo dei rapporti capitalistici: «Per salvare la comune russa, occorre una rivoluzione russa. Se la rivoluzione scoppierà a tempo opportuno, se l'intelligencija concentrerà tutte le forze «vive del paese» nell'assicurare alla comune agricola un libero spiegamento, allora la comune ben presto evolverà come elemento di rigenerazione della società russa e, insieme, di superiorità sui paesi ancora asserviti dal regime capitalistico». Inoltre, nella prefazione all'edizione russa del Manifesto,Marx ed Engels avevano scritto che «l'odierna proprietà comune potrà servire di partenza per una evoluzione comunista». È anche vero, tuttavia, almeno nel caso della lettera alla Zasulič, che Gramsci all'epoca non poteva conoscerne il contenuto. (Cfr. Cinella, L'altro Marx, Della Porta Editori, Pisa-Genova, A. Gramsci, Ordine Nuovo, A. Gramsci, ibidem  Corriere della Sera, Archivio Centrale dello Stato, Min. Int., Dir. Gen. PS, Ordine Nuovo, 8 maggio 1920, in Scritti politici, IConcluso con un ordine del giorno che prospettava la conquista violenta del potere e la dittatura del proletariato  Per un rinnovamento del Partito socialista, ne L’ordine Nuovo, in Gramsci, Lenin, nel suo discorso all'Internazionale Comunista, invitando a espellere dal partito socialista l'ala destra riformista, disse che «all'indirizzo dell'Internazionale Comunista corrisponde l'indirizzo dei militanti dell'Ordine Nuovo e non l'indirizzo dell'attuale maggioranza dei dirigenti del partito socialista e del loro gruppo parlamentare». Lenin, Opere, Ordine Nuovo, in Scritti politici, GRAMSCI La sposa mandata da Lenin  Lettera, in A. Gramsci, Lettere Lettera dal carcere. Un profilo di Antonio Gramsci junior, su channelingstudio.ru.  Su alcune note di uno sconosciuto bolscevico Vladimir Diogotche sosteneva, fra l'altro, di essere a conoscenza di un tentativo di rovesciamento della monarchia italiana da parte di Nitti in accordo con i socialistilo storico Jaroslav Leontiev ha sostenuto nche la conoscenza tra Gramsci e la Schucht sia stata "pilotata" da Lenin in persona: cfr. Link archivio del Corriere  Amendola,  In Togliatti, In Togliatti, Lettera di Gramsci a Giulia Schucht,  Lettera a Giulia Schucht, La crisi italiana, ne L’Ordine Nuovo, 1º settembre 1924, in Gramsci, Camera dei Deputati, XXVII legislatura del Regno d'Italia, "Capo", in L'Ordine Nuovo, pubblicato successivamente col titolo di Lenin capo rivoluzionario, in l'Unità, «Capo», ne L’ordine Nuovo, in Gramsci, Anche alle autorità francesi fu nascosto lo svolgimento del Congresso. Sul III CongressoSpriano, Storia del Partito comunista italiano, Spriano, Spriano,  Spriano, Spriano, Antonio Gramsci, Tesi di Lione, Lione, Antonio Gramsci, La questione meridionale, Editori Riuniti,  «Alcuni temi della quistione meridionale». Stato operaio,  Citato in Rosario Villari, Il Sud nella Storia d'Italia. Antologia della Questione meridionale, Roma-Bari, Laterza, Antonio Gramsci, Cinque anni di vita del partito, L'Unità,  Fiori, Spriano, Aurelio Lepre, Il prigioniero. Vita di Antonio Gramsci, Editori Laterza, Bari, La lettera, non datata, si ritiene sfu pubblicata per la prima volta in Francia da Tasca. Su tutta la questione della lotta interna nel partito comunista sovietico di questo periodoSpriano, cit., II, ca 3 e 5  A. Gramsci, Lettere Lettera di Togliatti a Gramsci, Commissione di assegnazione al confino di Roma, ordinanza dcontro Antonio Gramsci (“Dirigenti e deputati del PCd'I dichiarati decaduti”). In Pont, Carolini, L'Italia al confino, Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle Commissioni provinciali (ANPPIA/La Pietra), Tornata Camera dei deputati Fiori,  In Fiori, Sentenza contro Antonio Gramsci e altri (“Ricostituzione di partito disciolto, propaganda, cospirazione, istigazione alla lotta armata ecc.”). In Pont, Carolini, L'Italia dissidente e antifascista. Le ordinanze, le Sentenze istruttorie e le Sentenze in Camera di consiglio emesse dal Tribunale speciale fascista contro gli imputati di antifascismo, Milano (ANPPIA/La Pietra),  Amendola142.  Spriano, Lettera a Tatiana Schucht, Fiori, Fiori,  Fiori, Risoluzione per l'espulsione di Amedeo Bordiga  Fiori, Pubblicato in «Rinascita», In «Rinascita», cit.  Dalla biografia di Pertini pubblicata nel sito web del Circolo Sandro Pertini di Genova: «Chiesi al maresciallo dei carabinieri che comandava la scorta se poteva dirmi dove mi portavano. Quando questi fece il nome di Turi me ne rallegrai. Ero contento perché sapevo che là avrei incontrato Antonio Gramsci, un uomo che avevo sempre ammirato per il suo coraggio». A Turi incontrai Gramsci in un angolo del cortile dove coltivava un'aiuola di fiori; era piccolo di statura e con due gobbe: una davanti ed una di dietro. Mi avvicinai a lui, mi presentai, gli affermai che venivo da Santo Stefano e che ero onorato di fare la sua conoscenza. Gli davo del lei e lo chiamavo Onorevole Gramsci. Lui si mise a ridere, dicendomi: "Perché mi dai del lei? Siamo antifascisti, vittime del Tribunale speciale tutti e due. Io gli ricordai che per loro, i comunisti, noi eravamo dei social-traditori. Disse di lasciar stare quella polemica penosa. Ci vedemmo dopo qualche giorno e parlò di Turati e Treves in maniera che mi sembrò offensiva ed io risposi con durezza. Il giorno dopo si scusò, dicendo che il suo era un giudizio politico, non aveva avuto intenzione di offendere le persone, e capiva la mia reazione in favore di due compagni che si trovavano in Francia. Da allora diventammo buoni amici. Parlavamo a lungo insieme anche perché era stato isolato dai suoi. Per certi versi costoro lo consideravano un traditore e chiedevano la sua espulsione dal partito, come poi fecero anche con Ravera. In cella Gramsci era perseguitato dai carcerieri. L’ordine di non lasciarlo dormire arrivasse direttamente da Roma. Io andai dal direttore del carcere a protestare perché i carcerieri, ogni volta che Gramsci si addormentava, lo svegliavano facendo scorrere sulle sbarre della finestra dei bastoni, con la scusa di controllare che le sbarre non fossero state segate per un'evasione. Dissi al direttore che se la situazione non fosse cambiata, avrei scritto una lettera al ministero. Il risultato fu che Gramsci, già gravemente malato di tubercolosi poté dormire tranquillo. Le mie proteste costrinsero il direttore del carcere di Turi a concedere a Gramsci anche alcuni quaderni, delle matite, un tavolino ed una sedia. Così poterono nascere i quaderni dal carcere. La mia amicizia mi mise in contrasto con il direttore del carcere e forse non fu estraneo al mio trasferimento a Pianosa. Lettera a Tatiana Schucht, Lettera a Tatiana Schucht,  Alla fine degli anni settanta cominciò a circolare la voce secondo la quale Gramsci in punto di morte si sarebbe convertito alla fede cattolica. Tale affermazione venne però ritrattata dallo stesso religioso che l’aveva inavvertitamente messa in circolazione, chiamando a supporto della smentita l’allora cappellano della clinica Quisisana. Nonostante le chiare argomentazioni della rettifica, trent’anni dopo la medesima tesi fu riproposta da un altro sacerdote. Essendo priva di riscontri documentali e di prove testimoniali, la teoria della conversione di Gramsci non è mai stata avvalorata dagli storici. Cfr. S.Fio., Gramsci e il sacerdote pentito, La Repubblica, Il Vaticano: «Gramsci trovò la fede», Il Corriere della Sera, C. Daniele, Togliatti editore di Gramsci, Carocci, Quaderni del carcere, Il Risorgimento, Einaudi, Torino, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce Quaderni del carcere, Quaderni del carcere, ed. Gerratana,  Cirese, Baratta, Giulio Angioni, Gramsci e il folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle culture, Il Maestrale, Note sul Machiavelli,  Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura, Quaderni del carcere, cLetteratura e vita nazionale, Il materialismo storico e la filosofia di Croce, L. Rosiello, Problemi e orientamenti linguistici negli scritti di Antonio Gramsci, Quaderni dell'Istituto di glottologia di Bologna,A. Gramsci, V. Gerratana, Torino, Einaudi, A. Gramsci, Quaderni del carcere, V. Gerratana, Torino, Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, V. Gerratana, Torino, Einaudi, Gramsci, Gerratana, Torino, Einaudi, G. I. Ascoli, Proemio, AGI, Gramsci, 'Quaderni del carcere', V. Gerratana, Torino, Einaudi, Quaderni del carcere, V. Gerratana, Torino, Einaudi, 'Quaderni del carcere', V. Gerratana, Torino, Einaudi, L. Rosiello, Lingua nazione egemonia, Rinascita Il Contemporaneo, Rapone, Leonardo, Cinque anni che paiono secoli: Gramsci dal socialismo al comunismo, 1a ed, Carocci,,  Fonzo,  Maria Luisa Bosi, Antonio Gramsci, su scuolalo divecchio. giovannicarpinelli, Gramsci e la musica, su Palomar, La passione sconosciuta di Gramsci per la musica, in L’Huffington Post. Premio letterario Viareggio-Rèpaci, Amendola, Storia del Partito comunista italiano Roma, Editori Riuniti, Perry Anderson, Ambiguità di Gramsci, Bari, Laterza, Giulio Angioni, Gramsci e il folklore come cosa seria, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle culture, Il Maestrale, Francesco Aqueci, Il Gramsci di un nuovo inizio, Quaderno, Supplemento al n. 19  di «AGON», Rivista Internazionale di Studi Culturali, Linguistici e Letterari, Francesco Aqueci, Ancora Gramsci, Roma, Aracne,. Nicola Auciello, Socialismo ed egemonia in Gramsci e Togliatti, Bari, De Donato, Nicola Badaloni e altri, Attualità di Gramsci, Milano, Il Saggiatore, Baratta, Antonio Gramsci in contrappunto. Dialoghi col presente, Roma, Carocci, Bobbio, Saggi su Gramsci, Milano, Feltrinelli, Calamandrei e Calogero, La conoscenza di Gramsci in Inghilterra. Una lettera di Guido Calogero e una nota di Franco Calamandrei, in «L'Unità» Mauro Canali, Il tradimento. Gramsci, Togliatti e la verità negata, Venezia, Marsilio,. Antonio Carrannante, Sull'uso di 'galantuomo' in Gramsci, in "Studi novecenteschi",  Antonio Carrannante, Antonio Gramsci e i problemi della lingua italiana, in "Belfagor",  Iain Chambers, Esercizi di potere. Gramsci, Said e il postcoloniale, Roma, Meltemi editore, Cirese, Intellettuali, folklore, istinto di classe, Torino, Einaudi, Marco Clementi, Le ceneri di Gramsci in Stalinismo e Grande Terrore, Roma, Odradek, Guido Davico Bonino, Gramsci e il teatro, Torino, Einaudi, Biagio De Giovanni e altri, Egemonia Stato partito in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, D'Orsi, Gramsci. Una nuova biografia, Torino, Einaudi,. Dubla,Giusto (a cura), Il Gramsci di Turi, Testimonianze dal carcere, Chimienti editore, Michele Filippini, Gramsci globale. Guida pratica agli usi di Gramsci nel mondo, Bologna, Odoya,.Giuseppe Fiori, Vita di Gramsci, Bari, Laterza, Fiori, Gramsci Togliatti Stalin, Roma-Bari, Laterza, Erminio Fonzo, Il mondo antico negli scritti di Gramsci, Salerno, Paguro, Eugenio Garin, Con Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Valentino Gerratana, Gramsci. Problemi di metodo, Roma, Editori Riuniti, Noemi Ghetti, Gramsci nel cieco carcere degli eretici, Roma, L'Asino d'Oro Edizioni, Gramsci jr., La storia di una famiglia rivoluzionaria, Roma, Editori Riuniti-University Press. Gruppi, Il concetto di egemonia in Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Hobsbawm, Gramsci in Europa e in America, Roma-Bari, Laterza,Aurelio Lepre, Il prigioniero. Vita di Antonio Gramsci, Bari, Laterza, Liguori e Voza, Dizionario Gramsciano, Roma, Carocci, Piparo, “I due carceri di Gramsci”, Donzelli, Roma, Losurdo,Gramsci. Dal liberalismo al comunismo critico, Roma, Gamberetti editrice, Mario Alighiero Manacorda, Il principio educativo in Gramsci. Americanismo e conformismo, Roma, Editori Riuniti, Michele Martelli, Gramsci filosofo della politica, Milano, Unicopli, Mondolfo, Da Ardigò a Gramsci, Milano, Nuova Accademia, Raul Mordenti, Gramsci e la rivoluzione necessaria, Roma, Editori Riuniti University Press, Omar Onnis e Manuelle Mureddu, Illustres. Vita, morte e miracoli di quaranta personalità sarde, Sestu, Domus de Janas, Paggi, Gramsci e il moderno principe, Roma, Editori Riuniti, Pastore, Gramsci. Questione sociale e questione sociologica, Livorno, Belforte, Portelli, Gramsci e il blocco storico, Bari, Laterza,Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo, Carocci, Roma, Rossi, Vacca, Gramsci tra Mussolini e Stalin, Roma, Fazi editore, Angelo Rossi, Gramsci da eretico a icona. Storia di un "cazzotto nell'occhio", Napoli, Guida editore,. Angelo Rossi, Gramsci in carcere. L'itinerario dei Quaderni, Napoli, Guida editore, Santhià, Con Gramsci all'Ordine Nuovo, Roma, Editori Riuniti, Santucci, Gramsci. Palermo, Sellerio, Spriano, Storia di Torino operaia e socialista, Torino, Einaudi, Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano,I, Torino, Einaudi, Spriano, Storia del Partito comunista italiano,II, Torino, Einaudi, Spriano, Gramsci e Gobetti. Introduzione alla vita e alle opere, Torino, Einaudi, Paolo Spriano, Gramsci in carcere e il partito, Roma, Editori Riuniti, Elettra Stamboulis, Gianluca Costantini, Cena con Gramsci, Padova, Becco Giallo,. Giuseppe Tamburrano, Gramsci: la vita, il pensiero e l'azione, Bari-Perugia, Lacaita, 1963. Palmiro Togliatti, La formazione del gruppo dirigente del Partito comunista italiano Roma, Editori Riuniti, Togliatti, Scritti su Gramsci, Roma, Editori Riuniti, Vacca, Gramsci e Togliatti, Roma, Editori Riuniti. Treccani, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Casa museo Gramsci a Ghilarza, Fondazione Istituto Gramsci. Antonio Sebastiano Francesco Gramsci. Antonio Gramsci. Grice: “When Austin speaks of ‘ordinary language,’ he knows what he is talking about; when Gentile, Gramsci, and Ascoli, do, they don’t!” -- Grice: “Elites are so relative; when I came to Oxford, I was regarded as a ‘Midlands scholarship boy’ and thus assigned Corpus; there was no way I would socialise with Hampshire, Austin, and the others who were philososophising at All Souls on Thursday evenings – I had just been born on the wrong side of the track. So it was particularly obtuse for me when Gellner started to criticise me as elitist! Perhaps he had read too much Gramsci!?” Gramsci. Keywords: “Grice, elite” – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gramsci” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51686162750/in/photolist-2mRi7qi-2mQCrJc-2mQerAd-2mPTNKh-2mPY4jk-2mPTYES-2mPPzb6-2mPWrv4-2mPKvMM-2mN8nen-2mMQbzj-2mLP4Rj-2mLQdrQ-2mKNNqN-2mPsfT9-2mKyErQ-2mKjqrr-2mKk6t5-2mKfNvB-2mKjVho-2mKbfaU

 

Grice e Gregorio – l’arte grammatica degl’angeli – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo. Da roma -- il grande: Grice: “For one, he is the punning Pope!”  Grice: “What WAS Gregorio’s implicatura? A complex one, since he uses the counterfactual: “si angeli fuessent.” Grice: “In The Sellars/Yeatman rewrite, the meta-implicata is that you must have read Bede!” Grice: “Poor Gregorio Magno had to fight with the Lonbards, and the sad thing is he lost!” --  Grice takes inspiration on Shropshire’s argument for the immortality of the soul from Gregorio Magno (Dialogo, IV). Figlio di Gordiano, appartenente all'aristocrazia senatoriale, la classe dominante dell'antica Roma che mantene prestigio economico e sociale, nonostante la caduta dell'Impero, e di Silvia, appartenente a una ricca famiglia siciliana. La sua "ars grammatica" fu limitata e lo stile che denota i suoi scritti è in linea con quello degli scrittori tardo-antichi. Di questi imita, in particolare, solo poche figure retoriche come l'anafora ed il gusto dell'esempio e dell'aneddoto moralizzante. La sua conoscenza del diritto si centra in Cicerone, da cui riprende anche definizioni e nozioni filosofiche del stoicismo. Insegna su colle Celio. Secondo la tradizione, mentre Gregorio attraversava, alla testa della processione, il ponte che collegava l'area del Vaticano con il resto della città (chiamato allora "Ponte Elio" o "Ponte di Adriano", oggi Ponte Sant'Angelo), ebbe la visione dell'Arcangelo Michele che, in cima alla Mole Adriana, rinfoderava la sua spada. La visione (che secondo alcune fonti fu condivisa da tutti i partecipanti alla processione) venne interpretata come un “segno” celeste pre-annunciante l'imminente fine dell'epidemia, cosa che effettivamente avvenne. Da allora i romani cominciarono a chiamare la Mole Adriana "Castel Sant'Angelo" e, a ricordo del prodigio, posero più tardi sullo spalto più alto la statua di un angelo in atto di rinfoderare la spada. Ancora oggi nel Campidoglio è conservata una pietra circolare con impronte dei piedi che, secondo la tradizione, sarebbero quelle lasciate da Michele quando si fermò per annunciare la fine della peste.  Vede alcuni giovani schiavi britannici esposti per la vendita, bellissimi di aspetto e pagani, tanto da aver esclamato, rammaricato: "Non Angli, ma Angeli dovrebbero esser chiamati…".  Comunque in meno di due anni diecimila Angli, compreso il re del Kent Ethelbert – e la famiglia di Grice -- si convertirono.Obiettò invece sulla proibizione ai soldati imperiali di diventare «soldati di Cristo», ovvero di entrare a far parte del clero. Gregorio avrebbe dettato i suoi canti a un monaco, alternando la dettatura a lunghe pause; il monaco, incuriosito, avrebbe scostato un lembo del paravento di stoffa che lo separava dal pontefice, per vedere cosa egli facesse durante i lunghi silenzi, assistendo così al miracolo di una colomba (che rappresenta naturalmente lo Spirito Santo), posata su una spalla del papa, che gli dettava a sua volta i canti all'orecchio. Opere: “Expositio super Cantica canticorum – “Cantico dei cantici”; “Moralia in Job (Giobbe); “Homiliae in Evangelia”, omelie sui Vangeli; Homiliae in Hiezechihelem prophetam, oomelie su Ezechiele; A Sacramentarium Gregorianum con cui riformò il canone della messa, rendendola più semplice ma più solenne; Antiphonarius centola nuova redazione del libro dei canti liturgici; Dialoghi; Libro su santi italiani a lui coevi; “San Benedetto da Norcia” “Sul destino dell'anima” “Su alcune profezie”; “Regula Pastoralisun manuale per la vita e l'opera dei vescovi e in generale di coloro che ricoprono il ministero pastorale; Le Epistolaeun registrum,«12 marzoA Roma presso san Pietro, deposizione di san Gregorio I, papa, detto il grande, la cui memoria si celebra il 3 settembre, giorno della sua ordinazione.»  «3 settembreMemoria di san Gregorio Magno, papa e dottore della Chiesa: dopo avere intrapreso la vita monastica, svolse l'incarico di legato apostolico a Costantinopoli; eletto poi in questo giorno alla Sede Romana, sistemò le questioni terrene e come servo dei servi si prese cura di quelle sacre.”“Si mostrò vero pastore nel governare la Chiesa, nel soccorrere in ogni modo i bisognosi, nel favorire la vita monastica e nel consolidare e propagare ovunque la fede, scrivendo a tal fine celebri libri di morale e di pastorale.”Il Proprio del santo in rito romano contiene la seguente colletta:[ «Deus, qui pópulis tuis indulgéntia cónsulis et amóre domináris, da spíritum sapiéntiae, intercedénte beáto Gregório papa, quibus dedísti régimen disciplínae, ut de proféctu sanctárum óvium fiant gáudia aetérna pastórum. Per Dominum nostrum Iesum Christum»  La Chiesa di Manduria custodisce un frammento d'osso del suo braccio destro. La Chiesa di Casola custodita un frammento d'osso della sua mano destra. G. Pepe, Il Medio Evo barbarico d'Italia,  Dizionario Biografico degli ItalianiVolume 59, Roma, Claudio Mareschini, Gregorio Magno e la cultura classica” Gregorio scrisse di sé «ego quoque tunc urbanam praeturam gerens pariter subscripsi», ma poiché in una variante del testo praeturam è sostituita da praefecturam, dalle sue epistole non è possibile sapere con esattezza se fu "prefetto dell'Urbe" o piuttosto "pretore dell'Urbe".  S. Gasperri, Italia longobarda, Laterza, Dialogi, Roma, Tipografia del Senato, Dizionario biografico degli italiani, Opera Omnia dal Migne patrologia Latina con indici analitici. Gregorio da Roma – Grice: “Gregory did not know what those were: ‘angeli,’ his companion answered. Adamant, Gregory corrected him: “No. They are Anglicans, they are not angels!” -- The grammatical structure of Latin of the seventh to eighth centuries had changed in comparison with the Latinitas of the fourth century. Although Bede builds his argument on the Grammar textbooks of Antiquity, he adopts Gregory the Great’s directive to subject the grammar rules to the language of the Scriptures and not to ancient Grammar textbooks. GREGORY THE GREAT, Moralia in Iob, PL 75, col. 516: ‘quia indignum uehementur existimo, ut uerba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati’ (‘I consider it strongly unworthy to restrict the words of divine revelation to the rules of Donatus’). Gregory did NOT write an ‘ars grammatica’ – Bonifacio did! – Gregorio does mention the ‘sub regulis Donati’ – which is worth transcribing: “sed tam pueriliter istum labi non indignum fortasse fuit, qui litteras fastidit et pro nugis habet, iisque studere episcopum, impium et profanum putat – et alibi pene gloriatur se artem loquendi, quam magisterial disciplinae exterioris insinuant, servare despexisse, non barbarism confusionem devitare, situs motusque praepositionum, casusque servare contemnere, quia indignum (inquit) vehementur existimo ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati – quasi vero humani divinique sermonis leges addiscere et observare, id sit caelestia oracular subiiere. —Non metacismi collisionem fugio, non barbarism confusionem devito, situs motusque et praepositionum casus servare contemno, quia indignum vehementer exisitimo ut verba caelestis oraculi restringam sub regulis Donati – Non rifuggo dalla collisione del metacismo, non evito la mescolanza di barbarism, non tengo conto della posizione, degli spostamenti e delle preposizioni con I casi che esse reggono, perche repute cossa assai indegna coartare le parole del celeste oracolo entro le regole di Donato – Ep. Miss. C. 5 PL LXXXV, 516 B – Cio che a Gregorio sembra indegno non e l’obbedire alle regole della grammatica – anche in questo e uomo di disciplina – ma la retorica di Donato, che teoreizza e prescribe, contro la LIBERTA dell’espresione originale, il capriccio del maestro – Ructat corde bonum sine lege Donati verbum – la parola buona erompe dal cuore senza le leggi di Donato. – sommamente disdicevole assogettare le parole dell’oracolo celeste alle regole di Donato. L’esegeta del libro di Giobbe non trascura di continuo le norme grammaticali. Gregorio sa scegliere tra due letture di un medesimo vesetto, indicare I tropi di paragone e di metonimia, il valore della congiunzione di coordinarzione, l’etimologia di una parola. Insomma, Gregorio non esclude dall sua esegesi il iicorso ai metodoi di I spegazione grammaticale classica. Facendo mostra di una conosenza ostentata della tecnologia grammatical Gregorio si preoccupa evidentemente di far comprendere che il suo NON-VOLERE non e un NON-Sapere. It was said a pigeon dictated his Gregorian chants. Not only did he see the angel land on ponte sant’angelo, but was able to retrieve the stone and give it to the Campidoglio – he joked on the anglii being potentially angels, should they were Roman!” – I limite dei arti liberali in Gregorio. Grice: “It was a good thing for Western civilization that Gregorio could care less about Greek!” --  Gregorio il Grande, Gregorio I – Gregorio Magno. Gregorio. Keywords: angeli, ars grammatica – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Gregorio: implicatura e grammatica” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51755718418/in/dateposted-public/

 

Grice e Grandi – il progresso all’infinito della rosa di Grandi -- implicatura infinita – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cremona). Filosofo.  Grice: “I like Grandi – and Grandy – for one, Grandi (if not Grandy) proves that geometry is a branch of mathematics with his rose curve – a geniality!” – Figlio di Piero Martire,  ricamatore, e Caterina Legati, compì i suoi primi studi di grammatica sotto la guida di Canneti e poi nel locale Collegio dei Gesuiti, dove ebbe come maestro Saccheri. Entra nel monastero camaldolese di Classe in Ravenna, assumendo il nome Guido in sostituzione degli originari Francesco Lodovico, e qui ritrovò il maestro Canneti.  Proseguiti gli studi a Roma e Firenze, insegna a Firenze. Pubblica “La quadratura del cerchio” “La quadrature dell'iperbole” al cui interno scopre il paradosso: la somma parziale di una serie (“serie di Grandi) a segni alterni di numeri può non convergere (serie di Grandi). Divenne membro della corte presso il granduca di Toscana. Insegna a Pisa. Studia la curva algebrica da lui chiamata "rodonea" per la forma che ricorda il rosone delle chiese e fu autore degli Elementi di Geometria di Euclide (Venezia, Savioni). Fu il primo l’analisi degli infiniti. Saggi: “De infinitis infinitorum”; “Trattato delle resistenze” (Firenze); “Geometrica demonstratio vivianeorum problematum” (Firenze, Guiducci); “De infinitis infinitorum, et infinite parvorum ordinibus disquisitio geometrica” (Pisa, Bindi); “Epistola mathematica de momento gravium in planis inclinatis” (Lucca, Frediani); “Dialoghi circa la controversia eccitatagli contro Marchetti” (Lucca, Gaddi); “Prostasis ad exceptiones clari varignonii libro de infinitis infinitorum ordinibus oppositas circa magnitudinum plusquam-infinitarum vallisii defensionem et anguli contactus” (Pisa, Bindi); “Del movimento dell'acque trattato geometrico” (Firenze); “Relazione delle operazioni fatte circa il padule di Fucecchio” (Lucca, Venturini); “Trattato delle resistenze” (Firenze, Tartini); “Compendio delle Sezioni coniche d'Apollonio con aggiunta di nuove proprietà delle medesime sezioni” (Firenze, Tartini); “Instituzioni Meccaniche” (Firenze, Tartini); “Istituzioni di aritmetica pratica” (Firenze, Tartini); “Sectionum conicarum synopsis” (Firenze, Giovannelli); “Idraulici italiani."Rodonea" deriva dal greco Ροδή, rosa. La curva rodonea è anche chiamata "rosa di Grandi" in suo onore. G. Ortes, Vita del abate camaldolese, matematico dello Studio Pisano, Venezia,  Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Rodonea Sofisma algebrico Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Crusca. Carteggi del padre camaldolese matematico. Francesco Lodovico Grandi – Grice: “I like Grandi: I have two ways to deal with ‘mean’: ‘no sneaky intention allowed, including this – (o) all intentions are open ones, including this one – self-reference; or ‘optimal infinite’ potential infinite/actual infinite – titular versus de facto. In any case, both are better than pseudo-Schiffer!” Grice: “While I say, “Schiffer and others,” it should be pointed out that the first to show this was, of all people, my tutee Strawson – Stampe and Patton came close! (I love them guys! Patton is a gentleman, and Stampe, too! Both brilliant philosophical gentlemen, too!” --  In geometria è detta rodonea la curva algebrica o trascendente il cui grafico è caratterizzato da una serie di avvolgimenti attorno ad un punto centrale. Nei casi più noti tali avvolgimenti producono figure a forma di rosone, da cui deriva alla curva il nome rodonea (dal greco rhódon, ròsa). La curva rodonea è chiamata anche rosa di Grandi da Luigi Guido Grandi, il matematico che la battezzò e studiò intorno al 1725.   Rodonee ottenute per valori diversi del parametro {\displaystyle \omega ={\frac {n}{d}}} Tartapelago rosaGrandi 04.gif  Vari modi per la costruzione di Rose di Grandi. Animazioni realizzate in MSWLogo[1] La rodonea si può considerare un caso particolare di ipocicloide.  Equazione della curvaL'equazione delle rodonea in coordinate polari {\displaystyle (\rho ,\theta )}è:  {\displaystyle \rho =R\sin \omega \theta }, dove R è un numero reale positivo che rappresenta la massima distanza della curva dal centro degli avvolgimenti, e \omega  è un numero reale positivo che determina la forma della curva. È possibile anche scrivere la rodonea come {\displaystyle \rho =R\cos \omega \theta }, che produce una figura analoga, ma ruotata di un angolo pari a {\displaystyle {\frac {\pi }{2\omega }}}radianti.  Proprietà Se \omega  è un numero intero, la curva ha un numero finito di avvolgimenti, tutti passanti per l'origine degli assi, che generano una serie di "petali" componenti la figura a forma di rosone; il numero dei petali è pari a:  \omega , se \omega  è dispari; {\displaystyle 2\omega }, se \omega  è pari. Osserviamo che non è possibile ottenere rose con un numero di petali pari a {\displaystyle 4n+2}. Per {\displaystyle \omega =1} si ottiene un unico petalo, ovvero una circonferenza non centrata nell'origine.  L'area della superficie racchiusa dalla curva è pari a {\displaystyle {\frac {\pi R^{2}}{2}}} per k pari, a {\displaystyle {\frac {\pi R^{2}}{4}}} per k dispari.  Se \omega  è un numero razionale {\displaystyle {\frac {n}{d}}}, la curva ha un numero finito di avvolgimenti, che si intersecano in più punti creando una serie di petali parzialmente sovrapposti; nella figura a fianco sono visualizzate le rodonee ottenute per alcuni valori di n e d. Come caso particolare, per {\displaystyle \omega ={\frac {1}{2}}}, si ottiene il folium di Dürer.  In entrambi i casi precedenti, la curva ottenuta è algebrica; se invece \omega  è un numero irrazionale, la curva è trascendente ed ha un numero infinito di avvolgimenti che non si chiudono e formano un insieme denso, passando arbitrariamente vicino a ogni punto del cerchio di raggio R.  Note Giorgio Pietrocola, Curve storiche, Rose di Grandi, su Tartapelago, Maecla, 2005. URL consultato il 26 aprile 2021. BibliografiaRhodonea Curves, in The MacTutor History of Mathematics archive, School of Mathematics and Statistics, University of St Andrews, Scotland. URL consultato il 16-07-2008. Voci correlate Ipocicloide Figura di Lissajous PAGINE CORRELATE Sistema di coordinate polari sistema di coordinate bidimensionale  Atomo di idrogeno atomo dell'elemento idrogeno  Metodo simbolico  Il progressus in infinitum (in italiano «progresso all’infinito») o regressus in infinitum («regresso all'infinito») [1], è un'espressione della filosofia scolastica che indica un modo di argomentare logicamente, quando, per spiegare qualcosa, si ricorre a un termine, il quale però rende necessario il rinvio a un nuovo termine, e questo a un ulteriore termine; e cosi via senza che si possa mai giungere a un punto di spiegazione ultimo e definitivo. Questo procedimento logico, usato largamente da Aristotele e dagli scettici, vuole quindi dimostrare l'insufficienza di un'argomentazione. La differenza tra le due espressioni consiste nel ricercare la causa prima (ad esempio: causalità ideale platonica) o spiegazione definitiva di una cosa (ad esempio: causalità naturale aristotelica) procedendo logicamente in avanti (progressus) o all'indietro (regressus). [2]. Un esempio di un procedimento logico basato sul regressus in infinitum si ritrova nell'"Argomento del terzo uomo" di Aristotele.  Immanuel Kant (1724-1804) nella settima sezione della sua Critica della Ragion Pura (1781) chiamava «progressus in indefinitum» questo "infinito per addizione" che «non ammette nessuna limitazione se non quella provvisoria che gli può essere assegnata ad ogni suo passo, prima di procedere al passo successivo». Si tratta di un infinito irraggiungibile, non potendosi contare effettivamente infiniti numeri naturali.   Per questo motivo Aristotele (384-322 a.C.), affermava che «il numero è infinito in potenza, ma non in atto». [3] come appare chiaro se si rappresentano i numeri naturali con una serie di punti equidistanti, che si susseguono senza fine lungo la retta in una successione infinita discreta nel senso che tra due elementi consecutivi c'è uno spazio vuoto, da intendersi come assenza di elementi. Si parla anche di un'infinità numerabile, giacché di questi infiniti elementi è possibile dire qual è il primo, il secondo, il terzo, e così via.  L’infinito potenziale è perciò un infinito ottenuto per divisione; «la caratteristica di tale infinito, che Kant chiamava “regressus in infinitum”, è che esso è interamente contenuto in una totalità limitata: dividendo all’infinito un segmento in parti sempre più piccole, risulta evidente che tutti gli elementi della divisione sono in realtà già assegnati e presenti, prima ancora che la stessa divisione abbia inizio; appartenendo ad una forma limitata essi non possono sfuggire e non possono che essere ritrovati durante un processo all’infinito che inevitabilmente li raggiunge tutti.   La differenza tra “progressus in infinitum” e “regressus in infinitum” secondo Kant sta proprio in questo: nel primo caso gli elementi vanno cercati al di fuori della totalità parziale, sempre finita, che non si cessa mai di ottenere; nel secondo essi vanno trovati in un tutto preesistente.» [4]  Note Dizionario internazionale.it ^ Enciclopedia Treccani alla voce "Regressus in infinitum" ^ Bocconi - Aristotele e l'infinito ^ Mathesis   Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di FilosofiaLuigi Guido Grandi. Grandi. Keywords: infinite implicature – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Grandi: implicatura infinita” – The Swimming-Pool Library. https://www.flickr.com/photos/102162703@N02/51685536958/in/photolist-2mKAsyK-2mKCfz1-2mKEPJE-2mKAiSV-2mPvmTf-2mKAuZM-2mKjqrr-2mKiPND-2mKbkhx-2mKiNkD-2mJqjKS-2mJq2uE-2mJd7nN-2mJe9QJ-2mJ4GHU-2mJ3q6x-2mGT6p1-2mGnP2f-FXFiS4-E58e4H-Dw1w1R-DhRHD2-DvhhWW-Bq5Mgn-BDuNmW-2mKgTry-2mEd2LM-G7oMm2-G55xdb-G3tvCn-F7umuM-Ecrffr-CRAGiK-CkaHMd-Ckaz7s-CntuMM-CntseF-CdAEaL-CdDizG-CfWKjF-BFQviK-hSTpSd-mwahJ7-mwao2S-myDwnk-mw96Mi-mw8xSD-mw94r6-mwapBq-jkN2VC

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